Sandro Bonvissuto, la letteratura come scrittura di

Sandro Bonvissuto, la letteratura come scrittura di vita: la
nostra intervista
di Luigi Caputo
Il potere della scrittura è spiazzante, un’arma nobile e
dirompente al tempo stesso, che riesce a entrare nelle aree
più recondite della coscienza e contemporaneamente arriva
al cuore e allo stomaco. E’ il caso di “Dentro”, il romanzo
che ci ha fatto conoscere Sandro Bonvissuto. Il libro, edito
daEinaudi e vincitore del Premio Chiara 2013, attraverso tre
episodi distinti nel tempo, ci racconta di un uomo esplorando
a ritroso alcuni momenti della sua vita, tra cui quello,
inevitabilmente doloroso, del carcere. Un romanzo che
colpisce per l’intensità dei temi trattati e per un modo di
scrivere forte e diretto, dettato da un’urgenza di comunicare emozioni che fa di Bonvissuto uno scrittore neorealista in
senso stretto, coem se le cose che scrive siano cose che ha già vissuto direttamente, sulla propria pelle. Bonvissuto, nato
a Roma nel 1970, è laureato in filosofia, e da anni lavora come cameriere in un ristorante romano. Lo abbiamo
incontrato per un’intervista.
‘Dentro’ esplora la triste realtà del carcere. Perché ha deciso di affrontare questo argomento?
Ho cercato argomenti più urgenti, ma francamente non ne ho trovati. Bisogna dire però, per correttezza filologica, che il
libro esplora “anche” la triste realtà del carcere, ma non solo.
La vita in carcere è un tema difficile e annoso: la letteratura lo ignora o considera?
“Arcipelago Gulag” di Solzenicyn, “Sorvegliare e punire” di M. Foucault, “Dei delitti e delle pene” di C. Beccaria, “Le
mie prigioni” di S. Pellico, tutta l’opera di Lombroso, e anche dell’anarchico Stirner, “Nella colonia penale” di Kafka,
in tempi recenti le preziose pubblicazioni del duo Manconi/Calderone e del maestro (e amico) Mario Tagliani sul
minorile, e ancora “L’università di Rebibbia” di G. Sapienza, “Crimini di pace” a cura dei coniugi F. Basaglia – F.
Ongaro, per non dimenticare il contributo sull’argomento del premio Nobel J. Brodskij, e infine quello del gigantesco
Gramsci; queste sono solo le prime cose che mi vengono in mente, quindi non è vero che la letteratura ignori il tema del
carcere, è vero invece che noi spesso ignoriamo la letteratura.
Quali sono i ‘muri’ che in una società apparentemente libera come la nostra,
ostacolano la vita delle persone?
Nel libro si legge: “… il muro non è una cosa che fa male, è un’idea che fa male”,
e per quanto orrendi forse i muri visibili, architettonici, tradizionali per capirci,
sono più onesti dei muri invisibili, occulti, o striscianti. Il muro è quindi sostenuto
dal cemento, dai mattoni, certo, ma soprattutto da un concetto di partizione, di
separazione, o addirittura di segregazione, e questi concetti purtroppo non
crollano al crollare del muro, ma ovviamente gli sopravvivono, e poi si
rigenerano, si riproducono, e ce li ritroviamo per sempre nella vita di tutti i giorni,
magari camuffati o dissimulati in qualcos’altro. Bisogna fare attenzione. Molta.
La situazione delle carceri italiane è vergognosa. Più volte gli appelli
importanti sono caduti tristemente nel vuoto: penso a quello di Papa
Giovanni Paolo II che ne parló addirittura in Parlamento, a Camere riunite,
perché deputati e senatori trovassero finalmente una soluzione che
consentisse il rispetto delle elementari regole di convivenza, nel pieno rispetto della dignità umana. Cosa
dovrebbero fare secondo lei i nostri governanti?
La cosa più indicata sarebbe che eseguissero il rituale del suicidio di massa, come nella celebre opera giapponese
“Chūshingura”, ma visto che non ci troviamo di fronte a nobili samurai giapponesi, e anche per evitare ulteriori
spargimenti di sangue, mi accontenterei già se praticassero la più urbana pratica delle dimissioni collettive.
Sa se ‘Dentro’ sia stato letto da qualche detenuto? Quali sono state le considerazioni raccolte?
Si è stato letto da più di uno e ho raccolto le loro impressioni personalmente durante le tante visite nei penitenziari
organizzate grazie all’impegno delle associazioni che vi lavorano e alla collaborazione di donne e uomini appassionati,
ma sono cose che preferisco tenere per me.
Nella raccolta ‘Scena padre’ ha raccontato insieme ad
altri suoi colleghi scrittori il rapporto genitori-figli dal
punto di vista di un padre. Lei che padre lo è davvero, si
è mai sentito fuori posto in questo ruolo?
Si, molto spesso; questo è il mestiere più bello ma più
difficile del mondo, perché è spiazzante. E capisci di essere
fuori ruolo quando comprendi che per quanto un padre si
sforzi, sono poi i figli alla fine a conoscere un genitore e non
il contrario.
Essere padre significa anche essere stato figlio. Cosa si prova a stare dall’altra parte? È una condanna o un
merito?
È una fortuna, e in più questa semplice e naturale consecutività mi vede adesso all’apice della pienezza perché sono sia
padre che figlio contemporaneamente.
I bambini di oggi sono nativi digitali. In che termini la tecnologia può essere un vantaggio e quando invece si
rileva un handicap?
Non sono contrario a nessun tipo di evoluzione, quindi che ben venga il progresso, ma osserviamo quello che è successo
nel caso della scrittura: credo che qui la tecnologia nel tempo priverà i nativi digitali di qualcosa che io ho amato molto:
il libro come oggetto. La scrittura è sopravvissuta a molteplici cambiamenti circa i sostrati che l’hanno testimoniata e
tramandata (penso ai papiri, al marmo, alla pergamena animale, e ora all’e-book) ed è ragionevole pensare che
sopravviverà anche in tutti gli ulteriori supporti elettronici e anche a quelli metafisici, ma scrittura e libro, per quanto
assimilabili, non sono in realtà uguali, sono cose che hanno solo viaggiato appaiate per un certo periodo storico. Ora al
compimento degli esiti della rivoluzione digitale la scrittura continuerà senz’altro a vivere, il libro (forse) morrà, ecco
mi dispiace che questo oggetto sparisca e che i bambini moderni (o futuri) potrebbero non averlo per casa come arnese.
Ma forse è solo un sentimentalismo, il mio.
Nelle sue note di presentazione si legge che lei è laureato in filosofia e lavora come cameriere in un ristorante
romano. Fare lo scrittore secondo lei è una vocazione o un mestiere?
Gli studi di filosofia sono stati la mia vocazione, mentre il lavoro di cameriere è il mio mestiere. Fare lo scrittore è una
condanna e bisogna essere bravi a riconoscere come in essa si nasconda in realtà uno dei più autentici e cristallini
privilegi.
Qual è il libro che l’ha colpita di più ultimamente?
Se debbo essere sincero “Il Conte di Montecristo” che ho riletto recentemente nell’ultima riedizione di Einaudi; un
capolavoro immortale del quale credevo già di conoscere la reale grandezza, ma mi sbagliavo.
A cosa sta lavorando in questo momento?
A un romanzo; comincio la stesura a giorni, anzi direi a notti, visto che scrivo sempre di notte.
http://www.noteverticali.it/letture/2014/10/sandro-bonvissuto-la-letteratura-come-scrittura-di-vita-la-nostra-intervista/
(ultima consultazione 23/01/2015