Disturbi dell`alimentazione e obesità.

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Disturbi dell’alimentazione e obesità.
Trattamento multiprofessionale integrato?
MASSIMO CUZZOLARO
Disturbi dell’alimentazione e obesità
L’obesità è una condizione definita su base anatomica, eccesso di massa grassa associato, di solito
ma non sempre, a un eccesso di peso corporeo e, quindi di indice di massa corporea (IMC o BMI,
body mass index ≥ 30). È classificata dall’ICD-10 (World Health Organization and Ministero della
Sanità, 2001) nel quarto capitolo, malattie metaboliche, e non figura, come patologia in sé, nel
DSM-IV-TR. I disturbi dell’alimentazione sono definiti, invece, su base psico-comportamentale e
compaiono nel quinto capitolo dell’ICD-10, dedicato ai disturbi mentali (World Health
Organization 1992), così come rappresentano una rubrica specifica del DSM-IV-TR (American
Psychiatric Association, 2000). La tabella 1 elenca tre differenze maggiori che separano i due campi
di patologie.
Tabella 1
Obesità e disturbi dell’alimentazione, differenze
Obesità
malattia classificata in area
endocrino-metabolica
prevalenza molto elevata, in entrambi i
sessi e in tutte le età della vita;
diffusione pandemica (globesity)
le complicanze mediche sono legate,
soprattutto, a malnutrizione per
eccesso e sedentarietà
Disturbi dell’alimentazione
sindromi classificate fra i disturbi psichiatrici
prevalenza più bassa, molto maggiore nel sesso
femminile e in età adolescenziale e giovanile;
sindromi culture-bound (soprattutto in passato)
le complicanze mediche sono legate, soprattutto,
a malnutrizione per difetto e a comportamenti
abnormi di controllo del peso, fra i quali
l’iperattività fisica
Poste queste differenze di base, sono però numerosi i fattori di rischio condivisi, a partire da un
certo numero di geni di suscettibilità. Sul piano epidemiologico poi, l’aumento, improvviso ed
esplosivo, dell’incidenza si è verificato nello stesso periodo, la seconda metà del Novecento con
un’impennata a partire dagli anni ottanta. E sono rilevanti analogie e intersezioni a livello
fenotipico, come l’attenzione eccessiva all’alimentazione, i tentativi ripetuti di restrizione
dell’introito calorico e di controllo del peso, le crisi di binge eating, la fragilità della stima di sé,
l’egemonia del locus di controllo esterno, l’insoddisfazione per l’immagine del corpo etc. Da
ricordare, infine, le frequenti migrazioni transdiagnostiche e il fatto che un sovrappeso in età
infantile o adolescenziale figura spesso negli anni che precedono l’esordio di un disturbo del
comportamento alimentare.
Sulla base di questi legami Jenny Day e collaboratori hanno usato l’immagine metaforica di due
facce della stessa medaglia e hanno scritto, testualmente, «The eating disorders anorexia and
bulimia nervosa have traditionally been regarded as entirely separate from obesity […]. We believe
that this polarisation is fundamentally flawed, and research and treatment of both types of disorder
would be better served by greater appreciation of the psychosocial components of obesity and the
biological and genetic components of eating disorders» (Day, Ternouth et al., 2009). Nella
letteratura scientifica è comparsa da qualche anno un’espressione-ombrello capace di raccogliere
sotto di sé tanto l’obesità quanto i disturbi del comportamento alimentare, non-homeostatic eating
disorders (Berthoud, 2004; Corwin and Hajnal, 2005; Berthoud, 2006). La tabella 2 riassume i più
importanti punti di contatto fra i due territori.
Tabella 2
Obesità e disturbi dell’alimentazione, analogie e coincidenze
Obesità
Disturbi dell’alimentazione
è una malattia classificata in area
sono sindromi classificate fra i disturbi
endocrino-metabolica ma anomalie
psichiatrici ma investono in modo profondo e
comportamentali e sintomi
pericoloso il soma, fenomeni biologici e sintomi
psicopatologici fanno parte integrante del
medici fanno parte integrante del quadro clinico e,
quadro clinico e, quindi, delle procedure
quindi, delle procedure di valutazione, dei
di valutazione, dei programmi di cura e
programmi di cura e di prevenzione
di prevenzione
sono condizioni spesso gravi e di lunga durata, che possono determinare importanti disabilità
e richiedere trattamenti terapeutici e riabilitativi in setting sia ambulatoriali che
semiresidenziali (day-hospital, centri diurni) e residenziali
le cure raccomandate sono interventi interdisciplinari, multidimensionali, multiprofessionali
che affrontino sia la psicopatologia che i comportamenti alimentari, il rapporto con l’attività
fisica, gli aspetti nutrizionali, le complicanze mediche
il team-approach di base prevede le stesse figure professionali, dietista,
internista-nutrizionista, psichiatra, psicologo clinico, psicoterapeuta e, per le obesità gravi,
chirurgo bariatrico
i setting di cura che possono rendersi necessari in fasi diverse di evoluzione clinica sono,
ospedale generale per acuzie ed emergenze; centri residenziali e semiresidenziali per
trattamenti riabilitativi intensivi; servizi ambulatoriali; comunità terapeutiche per situazioni di
grave disagio psico-sociale
per evitare il rischio di favorire una patologia tentando di contrastare l’altra, gli interventi di
prevenzione primaria più raccomandati sono, attualmente, programmi di promozione della
salute di tipo integrato, diretti insieme ai disturbi dell’alimentazione e del peso corporeo
Ho deciso di iniziare questo articolo parlando dei legami che corrono fra disturbi dell’alimentazione
e obesità. Non fra alimentazione e obesità, connessione fin troppo ovvia, ma fra disturbi
dell’alimentazione e obesità. Parto da questo punto perché il problema delle cure integrate riguarda
entrambi i settori con differenze ovvie ma, anche, con analogie e coincidenze molto forti (Bruch,
1973, 1978; Day, Ternouth et al., 2009; Neumark-Sztainer, 2009; Bosello e Cuzzolaro, in corso di
stampa; Cuzzolaro in press). Il trattamento dell’obesità e quello dei disturbi dell’alimentazione
presentano molti punti di contatto, richiedono competenze simili e una squadra multiprofessionale
in larga parte sovrapponibile. Sembra, pertanto, possibile ed economico utilizzare lo stesso team per
curare persone con obesità e/o disturbi dell’alimentazione, con ovvie differenze di percorso e di
accento in funzione delle caratteristiche di ogni caso. Questa tesi appare sostenibile sulla base di
una ricca letteratura scientifica e dell’opinione di molti esperti (Donini, Cuzzolaro et al., 2010)
Aggiungo che i programmi di prevenzione più convincenti sono, oggi, quelli di tipo integrato,
rivolti a tutti i quadri di alimentazione non omeostatica. Nelle campagne di educazione sanitaria gli
esperti di obesità tenderebbero a dare indicazioni più o meno contrarie a quelle proposte dagli
esperti di disturbi dell’alimentazione. È per questo che vari ricercatori sono sempre più impegnati
nella progettazione di interventi complessivi e meno specifici, mirati alla promozione della salute e,
quindi, alla prevenzione primaria di entrambe le patologie (Neumark-Sztainer, 2003, 2005, 2009;
Neumark-Sztainer e Eisenberg, 2005; Vetrone e Cuzzolaro, 2009; Haines, Kleinman et al., 2010).
Giocano a favore di questa linea almeno quattro fattori:
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disturbi dell’alimentazione e obesità fanno parte di un ampio spettro di disturbi
peso-correlati o da alimentazione non-omeostatica
l’incidenza di disturbi peso-correlati in età evolutiva è in continua crescita
è frequente l’associazione di diversi disturbi peso-correlati
è frequente il passaggio da un disturbo peso-correlato a un altro
Psicoanalisi, psicoterapie, farmaci e chirurgia bariatrica
Il trattamento di scelta dei disturbi del comportamento alimentare è la psicoterapia. I trattamenti
psicoterapeutici, spesso protratti per anni, anche dieci e più, costituiscono, tuttora, lo strumento più
utile di intervento (Cuzzolaro, 2004, 2006). La psicoanalisi si è occupata di anoressia nervosa fin
dalle sue origini e per oltre venti anni, dagli anni cinquanta ai settanta del Novecento, ha
rappresentato l’approccio egemone a questa sindrome (Bemporad e Herzog, 1989; Ripa di Meana,
1999). A partire dalla seconda metà del secolo scorso, l’indirizzo cognitivo-comportamentale e
quello familiare-sistemico hanno offerto altri contributi fondamentali alla comprensione e al
trattamento dei disturbi del comportamento alimentare (Minuchin, Rosman et al. 1978; Onnis,
2004; Fairburn, Cooper et al., 2009; Onnis, Barbara et al., 2012). Mancano ancora studi
sufficientemente estesi e rigorosi che confrontino i risultati conseguiti con tecniche
psicoterapeutiche diverse e con combinazioni di trattamenti. Un’indicazione generale può essere la
seguente, le terapie relazionali-sistemiche o della famiglia sono forse il trattamento di scelta per le
pazienti più giovani, fino ai 16 anni; in fasce di età successive sono preferibili trattamenti
individuali. Nella maggior parte dei casi in cui si applica un trattamento individuale è comunque
essenziale un counselling psicologico, se non una terapia formalizzata, dei genitori o del partner.
Una forma particolare di intervento che si è diffusa negli ultimi vent’anni è rappresentata dai
Self-Help Groups, gruppi di auto-aiuto tra persone sofferenti per disturbi psichiatrici
dell’alimentazione. Sono risultati utili anche gruppi di auto-aiuto e associazioni di genitori e mariti
di pazienti. Overeaters Anonymous (OA) è il nome di gruppi di auto-aiuto nati sul modello di
Alcolisti Anonimi, attivi da anni anche in Italia, che raccolgono persone con iperalimentazione
compulsiva, affette cioè da bulimia nervosa e, soprattutto, da obesità con binge eating. Anche i
manuali di auto-aiuto meritano di essere ricordati. Sono strumenti comparsi di recente anche da noi,
che possono aggiungersi a cure più complesse, precederle o, in situazioni meno gravi, perfino
sostituirle, con qualche vantaggio. Perseguono l’obiettivo di un controllo sintomatico del
comportamento alimentare e possono essere utilizzati a livello individuale o in gruppo, con o senza
il controllo periodico di uno specialista.
Passando all’obesità, la psicoanalisi non ha mai rappresentato una tecnica di cura specifica.
Tuttavia, i trattamenti psicoanalitici di pazienti obesi hanno dato contributi di notevole interesse alla
comprensione della dimensione psichica dell’obesità in tutto il corso del Novecento (Bruch, 1947,
1997; Bychowski, 1950; Rand e Stunkard, 1978; Bray 1997). Negli sviluppi recenti del pensiero
psicoanalitico sono stati messi in luce e studiati soprattutto questi elementi:
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funzioni deficitarie dell’Io, soprattutto rispetto al controllo degli impulsi, l’impulsività è stata
studiata sia come sintomo che come tratto stabile di personalità e rappresenta un punto
importante di contatto fra obesità e strutture di personalità di tipo tossicomane
difetti dell’economia narcisistica, in particolare della stima di Sé e dell’immagine del corpo
(Sé corporeo)
difficoltà nel processo di separazione-individuazione in particolare nelle obesità
dell’adolescenza.
Una nota a margine. La stessa dietoterapia, cuore del trattamento dell’obesità, a pensarci bene,
potrebbe essere definita come un intervento psicoterapeutico non formalizzato: psicoterapeutico,
perché cerca di modificare con mezzi psichici (informazione, prescrizione, persuasione etc.)
comportamenti, stili di vita, complessi equilibri personali e familiari; non formalizzato, perché, in
genere, non è preceduto da un’accurata valutazione psicologica, non è ispirato da un modello
teorico sufficientemente elaborato e non è guidato da una tecnica coerente. È probabile che questo
difetto sia fra le cause più importanti dei fallimenti collezionati nel tempo dalla dietoterapia
dell’obesità.
Per quanto riguarda i trattamenti farmacologici, non esistono finora molecole che abbiano
dimostrato di possedere, da sole, un’efficacia terapeutica significativa a lungo termine nel
trattamento delle anoressie, delle bulimie e delle obesità. I farmaci, però, sono spesso usati nella
pratica clinica delle cure integrate.
Per oltre cinquant’anni Sigmund Freud e le prime generazioni di psicoanalisti si sono cimentati con
le malattie mentali senza l’alternativa o l’aiuto di terapie farmacologiche efficaci. Per gli altri due
grandi modelli di cura della mente con mezzi psichici – il modello relazionale-sistemico e quello
cognitivo-comportamentale – l’esperienza è stata del tutto diversa: quelle forme di psicoterapia
sono nate e si sono sviluppate nella seconda metà del secolo scorso, in parallelo con gli sviluppi
della psicofarmacologia la cui data di nascita si colloca, abitualmente, nel 1952, quando furono
presentate, in un congresso francese, le esperienze con il primo neurolettico, la cloropromazina,
capostipite dei futuri farmaci antipsicotici (Delay e Deniker, 1952). Da allora la psicofarmacologia
ha conosciuto un continuo sviluppo. Nella cura dei disturbi del comportamento alimentare sono
state provate gran parte delle molecole psicoattive via via scoperte, dalla cloropromazina ai
triciclici, dai serotoninergici agli stabilizzatori dell’umore e agli antipsicotici atipici. Nel corso del
tempo, sono stati pubblicati i risultati di molti trattamenti farmacologici, in forma di segnalazioni
aneddotiche, di studi aperti senza gruppo di controllo o di ricerche controllate con placebo in doppio
cieco. Negli ultimi anni, gli studi psicofarmacologici si sono rivolti al trattamento della bulimia
nervosa e del binge eating disorder più che dell’anoressia. Si sono moltiplicati specialmente i trials
con antidepressivi. Le sperimentazioni sono state ispirate da criteri empirici, psicopatologici (per
esempio rapporti fra bulimia e disturbi depressivi) e neurochimici (per esempio indagini sui sistemi
neurotrasmettitoriali, in particolare serotonina).
Se i neurolettici (in particolare la cloropromazina) hanno marcato il trattamento farmacologico
dell’anoressia nervosa negli anni sessanta, l’impiego di antidepressivi nell’anoressia e, soprattutto,
nella bulimia e nel binge eating disorder, ha dominato le ricerche negli ultimi vent’anni. I criteri di
efficacia adottati sono stati essenzialmente sintomatici, fondati, in particolare, per l’anoressia
nervosa sul recupero ponderale e per la bulimia nervosa e il binge eating disorder su una riduzione
della frequenza delle abbuffate compulsive a meno della metà del punto di partenza.
Ma a dispetto dei progressi della psicofarmacologia, i medicamenti riconosciuti di qualche utilità
nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione e dell’obesità – con e senza abbuffate compulsive –
sono, alla fine dei conti, pochissimi e nessuno ha, certo, caratteri di wonder-drug, farmaco di
straordinaria efficacia (Mitchell, 2001; Mitchell, de Zwaan et al., 2003; Flament, Bissada et al.,
2012). L’uso della fluoxetina nella bulimia nervosa è stato approvato nel 1997 dall’ente americano
FDA, Food and Drug Administration, e negli stessi anni in Europa. Secondo vari studi, nella
bulimia e nel binge eating disorder, associando una psicoterapia cognitivo-comportamentale
specifica e un farmaco, in particolare un serotoninergico, si ottengono risultati favorevoli più spesso
che non applicando separatamente l’uno o l’altro intervento. Nessun farmaco ha, invece,
l’anoressia nervosa tra le sue indicazioni riconosciute e ogni prescrizione è off label; la pietra
angolare del trattamento di questo disturbo resta la psicoterapia associata a rialimentazione.
Quanto all’obesità, negli ultimi venticinque anni sono state studiate più di 120 molecole nella
speranza che fossero utili al suo trattamento. La possibilità di una sostanza di avere un impatto
significativo sul peso corporeo è legata alla sua capacità d’intervenire sull’introito calorico, sul
dispendio energetico o su entrambi. Ma è cosa nota che il peso perduto con l’aiuto di farmaci è in
genere recuperato rapidamente appena sono interrotti. La sostanza chimica che guarisce l’obesità
non esiste ancora.
Al momento, in Italia è disponibile un solo farmaco anti-obesità, l’Orlistat, in commercio dal 1999 e
ancora molto prescritto. È una sostanza che somiglia strutturalmente ai trigliceridi. L’Orlistat agisce
a livello periferico, gastrointestinale. Si adatta al sito attivo delle lipasi gastrointestinali (gastrica e
pancreatica) formando un complesso irreversibile, l’enzima non è più disponibile per la digestione
dei trigliceridi, il 30% dei quali non è assorbito e viene eliminato con le feci. Negli Stati Uniti sono
entrati di recente in commercio due nuovi farmaci, la lorcaserina e l’associazione
fentermina/topiramato. In Europa, nell’autunno del 2012, l’EMEA, European Medicines Agency,
non si è ancora espressa in merito. In conclusione, i farmaci possono giocare una parte davvero
limitata, sia nei disturbi dell’alimentazione che nell’obesità, un ruolo tutt’altro che decisivo e mai
sufficiente. Possono essere al massimo dei modesti aiuti, anche se preziosi in certe fasi del
trattamento.
Va aggiunto che le stesse sperimentazioni sui farmaci presentano importanti motivi d’incertezza.
Qualche anno fa è stata segnalata la mancanza di un protocollo sufficientemente standardizzato per i
trials farmacologici con pazienti ambulatoriali affetti da disturbi del comportamento alimentare e
sono state proposte delle linee-guida per questo tipo di studi (Mitchell, Tareen et al., 2000). Le
linee-guida derivano dagli orientamenti più condivisi. Alcuni punti appaiono saldamente acquisiti, il
metodo doppio-cieco placebo controllato, l’uso delle rating scales, la precisazione delle dosi
utilizzate, la registrazione degli effetti collaterali e della tossicità, la registrazione delle interruzioni
(drop-out) e delle loro cause, gli esami di laboratorio e la necessità di un monitoraggio del livello
sierico del farmaco.
I punti più controversi sono apparsi, invece, il numero delle visite di controllo, la loro durata e,
soprattutto, il tipo di comunicazioni che avvengono. Cioè i fattori psichici in campo. Lo
sperimentatore deve limitarsi a registrare l’andamento dei sintomi e la comparsa di effetti
collaterali? Può dare consigli sul comportamento alimentare? Come deve reagire all’eventuale
racconto di problemi interpersonali o di eventi traumatici? Fino a che punto deve incoraggiare il
paziente a proseguire il trattamento malgrado i disturbi accusati?
È vero che il metodo doppio-cieco placebo controllato permette comunque di verificare la
superiorità della molecola presunta attiva su quella inerte. È vero anche, però, che l’entità
complessiva del risultato finale può essere esaltata o diminuita da fattori legati alle modalità degli
incontri con i pazienti, al tipo di relazione terapeutica che in ogni caso si instaura. Anche da questo
può dipendere la differenza fra i risultati che si ottengono in sede di sperimentazione e quelli che si
osservano usando lo stesso farmaco nella routine clinica.
Ricordiamo di passaggio che efficacy ed effectiveness sono i termini inglesi usati per indicare i due
diversi tipi di efficacia di un trattamento, l’efficacia sperimentale o virtuosa (efficacy), misurata
nelle condizioni ideali di una sperimentazione; l’efficacia pratica o corrente o reale (effectiveness),
misurata nelle condizioni della normale pratica clinica e riferita a una popolazione il più possibile
vicina a quella reale, senza esclusioni a livello di reclutamento (capita spesso, p.e., che da uno
studio farmacologico sperimentale siano escluse le pazienti con rischio elevato di suicidio o quelle
con abuso di sostanze).
L’obesità, come abbiamo visto, rimane una condizione molto resistente alle cure mediche e
psicologiche. Risponde certamente di più alla chirurgia bariatrica (dal greco βαρύς, pesante e
ἰατρός, medico) che deve essere considerata, soprattutto per le obesità gravi, il trattamento più
efficace di cui disponiamo. Nel tempo, i progressi tecnici e clinici sono stati straordinari grazie, in
particolare, allo sviluppo della chirurgia endoscopica mininvasiva che si è diffusa negli ultimi due
decenni. Da qualche anno, la chirurgia robotica (robotically assisted minimlly invasive surgery)
sembra offrire ulteriori vantaggi (Fourman e Saber, 2012).
Gli interventi bariatrici determinano, in un numero elevato di casi, cali ponderali consistenti e
persistenti e miglioramento delle comorbilità somatiche, della qualità della vita e di vari parametri
d’ordine psicosociale. Tuttavia, nel 20-30 % dei casi la perdita di peso non è soddisfacente (Livhits,
Mercado et al., 2012). E, a proposito di cure integrate, sono sempre opportuni tanto un’attenta e
specifica valutazione psicologico-psichiatrica pre-operatoria quanto un intervento post-operatorio di
educazione terapeutica e, se necessario, una psicoterapia formalizzata (Mitchell e de Zwaan, 2005;
Cuzzolaro, Basso et al., 2009; Cuzzolaro, Parmegiani et al., 2009).
Linee-guida e cure integrate
Alexander R. Lucas ha riconosciuto cinque ere nella storia del pensiero medico intorno all’anoressia
nervosa (Lucas, 1981): l’era delle prime descrizioni (1868-1914), quella endocrinologica o
pituitaria (1914-1940), il tempo della riscoperta della malattia (1930-1961), l’era psicoanalitica
(1940-1967) e, infine, quella bio-psico-sociale (dagli anni sessanta del Novecento a oggi). Dopo il
fallimento dei tentativi di ridurre l’etiopatogenesi dell’anoressia nervosa a una disfunzione
endocrina - in particolare dell’ipofisi - o a una pura psicogenesi, l’ultima fase ha coinciso con il
prevalere di una visione multidimensionale della patologia, concepita come un quadro clinico
determinato da una pluralità di fattori e dalle loro interazioni in una persona geneticamente
vulnerabile.
Anorexia nervosa, a multidimensional perspective è il titolo significativo di un libro (Garfinkel e
Garner, 1982) che, negli anni ottanta del Novecento, è stato tra i primi a fondare lo studio e il
trattamento di questo disturbo sull’applicazione del modello bio-psico-sociale e, quindi, delle cure
integrate.
L’assortimento di interventi diversi nell’anoressia nervosa ha, per la verità, una storia antica. I
rapporti di Richard Morton e poi quelli di William Gull sui loro tentativi di curare casi di phthisis
nervosa (Morton, 1689) e di anorexia nervosa (Gull, 1874), per quanto remoti nel tempo e nel
linguaggio, sollevano questioni ancora vive e sorprendentemente attuali. Qualche esempio:
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il ricorso, insieme o in successione, a medicamenti e indicazioni morali relative alla dieta e
allo stile di vita, interrompere gli studi, trasferirsi in campagna, andare a cavallo, affidarsi
per un lungo periodo a una dieta lattea con preferenza per il latte d’asina (Morton); abiti
caldi, letto caldo, un tubo di gomma lungo 120 cm, pieno d’acqua calda, posto lungo la
spina dorsale durante i pasti, cibo leggero e nutriente ogni poche ore con un cucchiaino di
brandy e l’assistenza costante di un’infermiera, non tenere conto dell’inclinazione della
paziente, non permettere l’evoluzione dell’inedia e controllare l’irrequietezza (Gull).
il carattere empirico e sintomatico delle prescrizioni farmacologiche. Allora erano sacchetti
di aromatici, empiastri stomachici, amari, calibeati, giulebbi, acque cefaliche e isteriche,
tintura di castor, antiscorbutici; e, poi, al tempo di Gull, corteccia di china, bicloruro di
mercurio, sciroppo di ioduro di ferro, sciroppo di fosfato di ferro etc.
l’incertezza dei risultati e degli esiti a lungo termine
il grande problema del rifiuto di curarsi o, forse più precisamente, di star meglio, segnalato
da Morton nella historia prima, il caso della figlia del signor Duke che sembrò migliorare
ma poi, taedio medicaminum statim affecta, rifiutò le cure e morì in soli tre mesi.
La bulimia nervosa e gli altri disturbi dell’alimentazione - chiamati dal DSM (American Psychiatric
Association, 2000) non altrimenti specificati (sindromi anoressico-bulimiche parziali, chewing and
spitting, binge eating disorder, night eating syndrome etc.) - hanno uno statuto nosografico molto
recente e la loro definizione diagnostica è avvenuta già nel pieno dell’era bio-psico-sociale delle
cure integrate.
Quanto all’obesità, sia per la valutazione che per il trattamento, il metodo raccomandato da tutte le
maggiori linee-guida e documenti di consenso di esperti è multidimensionale e interdisciplinare.
Nella cornice di un’anamnesi completa, si consiglia di prendere in esame le condizioni anatomiche
e metaboliche, le complicanze mediche, le disabilità, i problemi psicologico-psichiatrici, le capacità
di autocontrollo, la motivazione, la stima di sé, il senso di capacità personale, il sistema familiare, il
contesto sociale, le disponibilità economiche, il ruolo dello stigma, gli aspetti logistici legati alla
disponibilità di servizi specialistici adeguati (Fairburn e Brownell, 2002; Bosello, 2009; Donini,
Cuzzolaro et al., 2010; Karasu, 2012; Sbraccia e Vettor, 2012). La stessa chirurgia dell’obesità deve
essere intesa non come la cura risolutiva ma come uno degli strumenti importanti di cui disponiamo,
da iscrivere sempre in un programma interdisciplinare di lungo periodo.
Anoressie, bulimie, obesità sono dunque condizioni che, secondo le linee-guida correnti, devono
essere affrontate in una prospettiva multidimensionale di cure integrate secondo un metodo che la
lingua inglese definisce team approach, intervento in squadra, in tutte le età della vita (Cuzzolaro,
1998; 2000; Wilson e Shafran, 2005; American Psychiatric Association, 2006; Cuzzolaro, Piccolo
et al., 2009; Cuzzolaro e Vetrone, 2009; Cuzzolaro in press).
Idealmente, il gruppo di lavoro è composto da professionisti diversi che contribuiscono al
trattamento, ciascuno nei limiti e nelle forme proprie del suo campo di competenza, secondo una
regìa complessiva armonica e ben coordinata. Nello stesso momento o in fasi diverse della malattia,
secondo le strategie imposte o suggerite dal quadro clinico, in setting di cura adeguati al tipo di
programma, nutrizionisti, dietisti, internisti, pediatri, psichiatri, psicoanalisti, psicoterapeuti
cognitivo-comportamentali e relazionali-sistemici, fisioterapisti, danza-movimento-terapeuti,
endocrinologi, ginecologi, chirurghi bariatrici lavorano insieme.
È possibile? Forse sì. È facile? No, è difficilissimo.
Il coltello, le erbe e gli incanti. Aporie dell’integrazione
«Asclepio, l’artefice mite
che placa le pene e rinsalda le membra, / da un dolore o dall’altro li
traeva / […] gli uni con la lusinga di incantesimi, / altri con leggere / bevande, o miscele di farmaci,
/altri con tagli […]». Pindaro descrisse così, nell’ode Pitica III, le origini della tèchne iatriké, l’arte
del curare. I suoi versi suggeriscono l’idea che a malati diversi si addicano interventi diversi - il
coltello del chirurgo, le erbe medicinali, i poteri magici della parola – e che lo stesso iatrós sia
capace di applicarli tutti. Asclepio, del resto, era un semidio, figlio di Apollo e della mortale
Coronide.
Da alcuni anni si parla di integrazione delle cure per indicare l’impiego, simultaneo o in sequenza,
di vari interventi e di diversi operatori della salute nella cura di una stessa persona e del suo quadro
morboso. Per disegnare una strategia terapeutica efficace è necessario, però, tenere gran conto di
vari aspetti potenzialmente conflittuali e di non pochi punti teorici controversi e difficili da
conciliare.
Una prima domanda: è opportuno coinvolgere nella cura i familiari o è preferibile proteggere la
relazione terapeutica con il paziente dalle loro interferenze?
Soprattutto in età evolutiva, lo studio delle relazioni familiari è parte integrante del processo di
valutazione diagnostica e di preparazione di un piano di trattamento. Un progetto terapeutico che
non coinvolga, in qualche forma e almeno in qualche fase, in particolare all’inizio, i genitori, ha
poche probabilità di successo; d’altra parte, una terapia che manchi di riconoscere profondamente
l’identità individuale del paziente e la necessità di uno svincolo dai legami familiari ne ha forse
ancor meno. In tanti casi di anoressia, per esempio, un problema nucleare è il conflitto, lacerante,
tra la ricerca di un’autonomia assoluta e le tentazioni di una dipendenza totale e di una regressione
all’infanzia.
Un secondo punto, l’alleanza tra psicofarmaci e psicoterapie è semplice e, addirittura, automatica?
Non c’è alternativa difficile da conciliare ma è sempre possibile, anzi, una collaborazione felice?
Riprendo alcuni punti sviluppati in un articolo di qualche anno fa (Ripa di Meana e Cuzzolaro,
2004). A Sigmund Freud che contestava all’ipnosi il fatto di agire soltanto sulla superficie dei
sintomi e di lasciare immutata l’economia psichica del malato, Pierre Janet rispose, «È forse
proibito cercare di alleviare i sintomi? L’intera terapia delle altre malattie non ne è forse piena?»
(Janet, 1919). Sembra difficile dissentire. E allora, in nome del sollievo e della terapia, il dilemma
sembra risolto. Ma la complessità dei rapporti fra psicoanalisi e psicofarmaci è legata soprattutto a
una profonda differenza di statuto etico fra i due tipi di intervento che rende la loro integrazione
non scontata né semplice.
«Calmare l’angoscia senza addormentare, stimolare senza euforizzare, e, in entrambi i casi,
correndo rischi ridotti di assuefazione, ecco la rivoluzione promossa dai neurolettici e dagli
antidepressivi» (Pignarre, 1999). Per la psicoanalisi le cose non solo vanno diversamente, ma si
avviano in direzione tendenzialmente opposta. Come ha sostenuto Freud nel corso dell’intera sua
opera, per ottenere effetti di guarigione è essenziale riuscire a utilizzare la sofferenza del paziente, il
suo squilibrio esplicito, gli sbalzi e i sussulti del suo umore. Mentre i farmaci tentano di ripristinare
nell’individuo la capacità operativa che lo fa sentire sovrano e artefice della propria vita, l’analisi,
da parte sua, lo allena a riconoscersi soggetto, soggetto di parola, soggetto alla parola e alla legge
del desiderio.
«L’antidepressivo – hanno scritto all’inizio degli anni sessanta i due pionieri della
psicofarmacologia – ristabilisce delle relazioni oggettuali e permette alla psicoterapia di risolvere
nel malato quei conflitti psichici che prima non potevano essere affrontati» (Delay e Deniker,
1961). Qualche anno dopo un grande psichiatra francese ha affermato, «… s’impone ormai in tema
di ricorso ai metodi biologici, l’idea che essi preparino e favoriscano l’azione psicoterapeutica» (Ey,
1975). E alla fine del Novecento un altro psichiatra e psicoanalista francese ha scritto che
«dovrebbe esserci più complementarietà tra i due approcci…» (Widlöcher, 1998). Ma è proprio
così? È sempre così? Pensiamo di mettere due buoi al giogo della cura, ma la potenza dell’aratro
terapeutico aumenta davvero?
Nell’ultimo anno del ventesimo secolo, uno psicofarmacologo e una psicoanalista hanno parlato,
ognuno a suo modo, del rifiuto e della soggezione agli psicotropi in due libri dedicati ai
fondamenti sociali e retorici di quella straordinaria invenzione che aveva segnato gli ultimi
cinquant’anni (Pignarre, 1999; Roudinesco, 1999). Interventi che partono da premesse teoriche
lontane e che mettono in gioco stili della relazione di cura e processi diversi possono accordarsi
facilmente nella pratica empirica e contribuire senza frizioni alla guarigione? E chi decide e come
che è giunto il momento di associare le due cure?
Un’altra questione: come occuparsi dei rischi biologici e delle emergenze somatiche e, insieme,
riconoscere e rispettare la funzione economica e il senso dei sintomi psicopatologici? I
comportamenti alimentari e i loro effetti di malnutrizione – per difetto o per eccesso - svolgono una
costosa ma essenziale funzione difensiva alla quale è impossibile rinunciare del tutto senza adeguati
cambiamenti psichici. D’altra parte, gli stessi sintomi e stati somatici creano circoli viziosi,
biologici e psicologici, che contribuiscono alla perpetuazione del quadro clinico.
L’etimologia informa che sintomo vuol dire co-incidenza. C’è un fenomeno che rimanda a un altro
fenomeno che accade insieme a esso e, quindi, uno diventa segno o, più precisamente, indice
dell’altro. In particolare, nell’uso medico, chiamiamo sintomi una speciale classe di fenomeni:
meritano il nome di sintomi, quei fenomeni che co-incidono con la presenza in un organismo di
condizioni che chiamiamo malattie. In medicina, il sintomo indica ma non significa, è fuori
dell’ordine del linguaggio. La rivoluzione freudiana è consistita proprio nel riconoscere che il
sintomo isterico è segno che parla. Ha anche funzione simbolica. Un simbolo, giova ricordarlo, non
è un semplice segno. Non è qualcos’altro nel senso, intransitivo, in cui la logica connette un
predicato a un soggetto. È, invece, nel senso, transitivo, che fa essere.
Dopo Sigmund Freud l’isteria non è stata più quella che Jean-Martin Charcot aveva descritto pochi
anni prima (Edelman, 2000). Charcot l’aveva studiata nello spazio pubblico dell’ospedale. E si era
affidato soprattutto allo sguardo, arricchito anzi dal nuovo occhio della fotografia che aveva
scoperto attraverso un altro medico, il neurologo-fotografo Guillaume Duchenne de Boulogne.
Freud, invece, lavorava nello spazio privato di uno studio, usava il divano per escludere lo sguardo
diretto e sottraeva il corpo all’immagine per affidarlo al primato della parola e dell’ascolto. La
medicalizzazione eccessiva della psichiatria contemporanea rischia di ridurre il sintomo
psicopatologico a indice e, spesso, lo equipara, con uno slittamento logico, a malattia. Ne consegue
una perdita di soggettività e di responsabilità personale.
È vero che il tentativo di condurre una psicoterapia con pazienti malnutriti e affamati – che
presentano in molti casi negativismo, ossessioni o lievi compromissioni cognitive – può risultare
spesso inefficace. E non ci sono prove della utilità di una psicoterapia formalizzata nella fase
iniziale di rialimentazione intensiva in ospedale, dove è probabile che gli interventi più adeguati
siano incontri centrati sulla motivazione al cambiamento e sulla elaborazione delle angosce
quotidiane legate alle cure. Ma esiste un peso corporeo o una percentuale di massa grassa al di sopra
della quale aumentano significativamente le probabilità di successo di una psicoterapia? Nessuno
studio lo ha dimostrato finora con certezza.
Va anche detto, però, che nel corso di una lunga storia di malattia, a distanza di anni, i sintomi
dell’inizio possono diventare comportamenti abituali, sganciati dai conflitti intrapersonali e
interpersonali che avevano contribuito alla loro origine. Ciò vale soprattutto per le condotte
devianti, per quelle a rischio, per le tossicodipendenze, per le anoressie, le bulimie e le obesità. Uno
psichiatra e psicoanalista di Grenoble ha sostenuto qualche anno fa la stessa tesi con queste parole
(Vincent, 2009), «Plus que d’autres, les symptomes anorexiques risquent de se refroidir au point de
devenir de simples habitus de vie détachés de toute histoire spécifique et de tout lien subjectif».
Infine, last but not not least, conosciamo l’importanza decisiva degli intrecci del transfert e del
controtransfert per il processo di cura e i suoi esiti. Che succede quando più figure terapeutiche
entrano in campo nell’approccio multidisciplinare, nel trattamento integrato dell’anoressia, della
bulimia e, in futuro, sempre più, forse, dell’obesità? Il quadro diventa molto più complicato. La
diluizione del transfert di cura può rappresentare a volte un vantaggio. Ma a fronte di questa
eventualità favorevole, la moltiplicazione dei modelli teorici e degli investimenti emotivi, i conflitti
di competenze, di ruolo e di potere possono produrre gravi effetti negativi o false guarigioni.
Come gestire il problema? Il buon governo delle diversità è un’arte difficile. Soprattutto, è difficile
la sintonia dei processi inconsci di tanti attori.
Certo, una collaborazione efficace richiede che le aree di competenza siano distinte con chiarezza,
che gli atteggiamenti, sia espliciti che latenti, siano dialettici e flessibili e che gli interventi siano
coordinati. Conflitti eccessivi nel team curante, soprattutto se mascherati e inespressi, consentono
alle resistenze al cambiamento del paziente e della sua famiglia di creare, sulla scena della cura,
processi di scissione, frammentazione, confusione analoghi a quelli propri della patologia.
Queste misure di buon senso sono indispensabili, ma quasi mai sufficienti. I professionisti che
collaborano nella cura di pazienti con obesità, anoressia e bulimia, devono aver ben presente la
terribile complessità del processo terapeutico che si sta svolgendo. La discussione regolare di casi
clinici e di problemi teorici e organizzativi – cioè, sempre, di teoria e di metodo – può aiutare a
costruire un vero lavoro di squadra. Può essere molto utile un supervisore esterno al team. Il lavoro
di ricerca, poi, offre un altro potente strumento di formazione, coesione dell’équipe e prevenzione
di quella burn-out syndrome che minaccia tanto i singoli operatori quanto i gruppi di lavoro.
SINTESI
L’articolo è dedicato al trattamento multidimensionale, multiprofessionale, interdisciplinare dei
disturbi dell’alimentazione e dell’obesità. I due campi clinici presentano ovvie differenze e, insieme, legami
importanti. Parlando del trattamento, sono presi in esame i principali strumenti terapeutici, interventi medici
e chirurgici, farmaci, psicoanalisi, psicoterapie cognitivo-comportamentali, terapie relazionali sistemiche.
Viene descritto l’approccio terapeutico di squadra multiprofessionale integrato ai disturbi da alimentazione
non-omeostatica. Tale metodo di trattamento, raccomandato dalle linee-guida contemporanee, presenta una
serie di punti di debolezza e di potenziali problemi che sono esposti e discussi.
PAROLE CHIAVE, anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbi dell’alimentazione, disturbo da
alimentazione incontrollata, obesità, trattamento integrato
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