Programma di sala

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Sabato 12 dicembre 2009, ore 20,30
Domenica 13 dicembre 2009, ore 15,30
Teatro Municipale Valli
Teatro Stabile delle Marche
Teatro Stabile di Napoli
TARTUFO
di Molière
traduzione di Cesare Garboli
personaggi / interpreti
Madame Pernella Angelica Ippolito
Orgone Carlo Cecchi
Elmira Licia Maglietta
Damide Diego Sepe
Marianna Barbara Ronchi
Valerio Francesco Ferrieri
Cleante Roberto De Francesco
Tartufo Elia Schilton
Dorina Antonia Truppo
Il Signor Leale/un Ufficiale Rino Marino
Filippina Francesca Leone
regia Carlo Cecchi
scene Francesco Calcagnini
costumi Sandra Cardini
musiche Michele dall’Ongaro
direttore di produzione Marta Morico
ufficio stampa Beatrice Giongo
La prima comparsa di Tartufo sulle scene risale al 12 maggio 1664,
giorno in cui, a conclusione dei festeggiamenti detti Les plaisirs de l’Île
enchantée, furono rappresentati col
titolo Tartuffe ou l’Hypocrite, tre atti,
creduti per molto tempo i primi tre
di una commedia di maggiore mole,
sia pure già compiuta nella mente
del commediografo. È strano come
della prima comparsa di un’opera,
la cui fortunosa carriera lasciò per
motivi vari tanta traccia nella storia
del teatro, si abbiano così scarse
testimonianze. Violenta e tagliente
satira contro l’ipocrisia, la commedia di Molière, è oggi una delle commedie più importanti e rappresentate del grande drammaturgo francese.
“Ho pensato, Sire, che avrei
reso un non piccolo servigio a tutte
le persone oneste del Regno, facen­
do una commedia che screditasse
gli ipocriti, e mettesse per bene in
evidenza tutte le smorfie affettate di
questa gente dabbene ad oltranze,
tutte le evidenti furfanterie di questi
fabbricatori di falsa devozione”. Con
queste parole Molière presentava
nel 1667 il suo Tartuffe al re Luigi
XIV.
Un’opera controversa, ai tempi
della sua prima messa in scena, che
nel corso dei secoli si è invece affermata come una delle commedie più
importanti e rappresentate dell’autore. Un testo di straordinaria attualità,
nella quale si rispecchia tutta l’ipocrisia, il falso moralismo, la doppiezza
di un uomo di umili origini che, non
avendo alcun particolare talento per
emergere, cerca di affermarsi socialmente e, per fare questo, cerca
prima l’appoggio del Cielo, poi quello dello Stato. Simbolo della falsità,
dello zelo religioso per convenienza,
emblema della ruffianeria, Tartufo è
uno di quei personaggi il cui nome
diventa aggettivo per definire una
persona o una situazione.
Tartufo – per Cesare Garboli, che ha
curato la traduzione, “non un personaggio ma un archetipo” – è figlio di
gente povera e, come scrive lo stesso Molière, “avendo pochi mezzi e
molta ambizione, senza alcuno dei
doni necessari per soddisfarla onestamente, risoluto tuttavia a saziarla
a qualunque prezzo, sceglie la via
dell’ipocrisia.” Fin dall’inizio, infatti,
Tartufo si propone l’esatto contrario
di ciò che è; si mostra umile e devoto, restio, sempre, ad accettare doni
o favori. Un uomo la cui moralità e
valori seducono l’animo di Orgone,
che lo erige a modello – oltre che a
sua guida spirituale – contro la dilagante corruzione dei costumi e la
profonda ipocrisia degli individui.
A trent’anni da Il borghese gentiluo­
mo, il primo testo di Molière messo
in scena da Carlo Cecchi nel 1976
e ricordando anche Il Misantropo
del 1986, l’attore e regista incontra
Tartufo, come i precedenti, nella traduzione di Cesare Garboli. La produzione è stata realizzata dal Teatro
Stabile delle Marche con il Teatro
Stabile di Napoli. Proprio a Tartufo
di Molière – l’autore prediletto, che
ha accompagnato e nutrito l’intera
e intensa parabola intellettuale di
Cesare Garboli - si deve l’incontro,
nel 1976, tra lo scrittore di Viareggio e Carlo Cecchi: un’amicizia quasi trentennale proseguita fino alla
scomparsa di Garboli, nell’aprile del
2004. “Fu Cesare – ha dichiarato nel
2005 Cecchi – a parlarmi del Tartu­
fo e a darmi la sua traduzione de Il
borghese gentiluomo. Solo allora,
leggendo le sue versioni di testi molièriani, capii che il commediografo
francese era l’autore del mio teatro:
infatti Molière ha cambiato non solo
il mio modo di fare l’attore ma il mio
modo stesso di vedere il teatro.”
Spesso mi domandano perché ritor­
no così volentieri a Molière. Come
Shakespeare, Molière ha scritto per
gli attori, e io sono un attore che la­
vora con altri attori. Una commedia
di Molière si rivela in scena, grazie
agli attori. Le sue battute sono bat­
tute per un copione, non per un li­
bro. Cosa c’è di più emozionante e
di più esaltante per un attore che ac­
cogliere quel dono che, alcuni secoli
fa, due attori lasciarono a coloro che
sarebbero venuti; ossia il dono di al­
cune pièces e di alcuni personaggi
che gli attori futuri avrebbero potuto
rendere presenti sulla scena? Ma
tutto rimarrebbe lettera morta se,
nel tempo, non nascessero grandi
attori e grandi traduttori. Per nostra
fortuna, e mia in particolare, è suc­
cesso, nell’ultimo trentennio del se­
colo scorso, che il genio di un gran­
de critico affondasse le sue radici in
una vocazione teatrale fortissima;
che una lettura critica di straordi­
naria intelligenza e originalità, fosse
accompagnata dal talento mimetico
di un grande attore: così abbiamo
le traduzioni di Cesare Garboli. Chi
è Tartufo lo decidano gli spettato­
ri. Noi, così com’è implicito nella
traduzione di Garboli, oltre che nei
suoi numerosissimi scritti su Tartufo,
abbiamo cercato di mantenere, alla
commedia e al personaggio, la loro
sostanziale ambiguità; superando il
cliché dell’ipocrisia e vedendo il per­
sonaggio di Tartufo anche “in posi­
tivo”: un servo che usa l’intelligen­
za e gli strumenti della politica per
fare carriera e diventare, da servo,
padrone. Ma tutto questo, e le riso­
nanze contemporanee che la com­
media e il personaggio possono
produrre, è solo attraverso il teatro
che lo si può cogliere. Figuriamoci
poi in una commedia come Tartufo,
dove il teatro è talmente importante
da diventarne, forse, il tema princi­
pale.
Carlo Cecchi
«Tartuffe»: satira o commedia?
da: William D. Howarth, Molière, uno
scrittore di teatro e il suo pubblico, Il
Mulino, Bologna, 1987.
In un certo senso, Tartuffe e Dom
Juan stanno l’una a fianco all’altra,
e separate dal resto del teatro di
Molière, come le due commedie in
cui egli deliberatamente si pro­pose
di contrastare gli interessi acquisiti
più potenti della società del tempo:
Tartuffe fu rappresentato liberamente solo dopo una lotta di cinque anni
con l’autorità ecclesia­stica, e vi sono
tutte le ragioni per credere che la
scomparsa di Dom Juan dal repertorio dopo quindici rappresentazioni
di grande successo fu dovuta anche
all’intervento della censura. Non v’è
dubbio che, nello scrivere Tartuffe,
Molière affrontasse uno dei grands
sujets di La Bruyère, e che com­
porre una commedia sulla credenza
religiosa fosse un atto di coraggio,
o addirittura di temerarietà. Uso
deliberata­mente l’espressione «una
commedia sulla credenza reli­giosa»
piuttosto che «sull’ipocrisia», poiché
tale è certa­mente la vera natura della provocazione messa in atto da
Molière in quest’opera. Il bando di
cinque anni di Tartuffe, e quel che
conosciamo delle difficoltà del poeta
con le auto­rità ecclesiastiche, hanno
inevitabilmente convinto gli stu­diosi
a prestare fin troppa attenzione al
panorama delle idee di quel tempo,
e a perdersi in sterili speculazioni sugli individui che avevano potuto costituire il modello di Tar­tuffe. Dal momento che non possediamo il testo
del 1664, qualsiasi deduzione sulle
intenzioni originarie di Molière che
possiamo essere indotti a fare deve
contenere necessa­riamente una
parte di congetture; ma l’interpretazione più prudente dei dati, quale
è fornita da alcuni storici (...) sem-
brerebbe confer­mare che il commediografo non aveva in mente alcun
mo­dello particolare, e che nessuno
degli individui più frequen­temente
citati — Desmarets de Saint-Sorlin,
Charpy de Sainte-Croix e l’Abbé
Roquette — deve probabilmente
aver servito da source vivante. Vi è
tuttavia un contempora­neo che può
aver giocato una parte importante
nel determi­nare la scelta del soggetto. È il Principe di Conti, patrono e
benefattore della compagnia di Molière durante gli anni di provincia, e
la cui protezione si era bruscamente interrotta al momento della sua
conversione nel 1655, allorché egli
era divenuto un fanatico oppositore
del teatro. Molière si convinse certamente che quella di Conti fosse
una falsa conversione, un esempio
di quel deliberato egocentrismo
mascherato da pietà, che è il tema
comune di Tartuffe e Dom Juan;
sicché, oltre ad offrire un’immagine
reale del grand seigneur méchant
homme, non sembra improbabile
che Conti, attraverso il suo comportamento nei confronti di Molière, abbia potuto fornire anche uno stimolo
alla crea­zione di Tartuffe.
(...)
Per quanto riguarda l’identificazione
di Tartuffe con una particolare setta
religiosa o un partito, il fatto stesso
che siano stati raccolti elementi plausibili, sulla base di un uso selettivo
delle testimonianze documentarie, a
fare di lui ora un giansenista, ora un
gesuita, ora un membro della Compagnie du Saint-Sacrement, indica
che nessuna di que­ste identificazioni è da intendersi come esclusiva, e
che il faux dévot molieriano indossa una maschera composita. Che
giansenisti e gesuiti dovessero credersi reciprocamente i bersagli della
sua satira, non sorprende, anche se
i versi a proposito della «direction
de l’intention»: “Esiste una dottrina
filosofìca che, secondo i casi, insegna ad allen­tare i freni della nostra
coscienza e a riscattare le cattive
azioni con la purezza dell’intenzione”, appaiono molto più pregnanti
di qualsiasi allusione all’asce­tismo
giansenista. Per quanto riguarda la
Compagnie, si trattava di una società segreta, e pare certo che gli storici moderni sappiano di essa molto
più di quanto potessero sa­perne i
contemporanei; perciò, certi apparenti riferimenti alle sua attività, quali
l’interferenza nella vita delle fami­glie,
lo spionaggio e la vendita di informazioni, potrebbero benissimo essere
semplici coincidenze. Il Panulphe
del 1667 e il Tartuffe del 1669 erano certamente concepiti sul modello dei directeurs de conscience laici,
che erano diven­tati tanto numerosi
intorno alla metà del secolo, ma non
v’è nessuna indicazione che, in entrambe le forme, l’ipocrita molieriano fosse inteso come un affiliato ad
una specifica setta.
Quando il commediografo scriveva:
I Tartuffe, in segreto, furono in gra­
do di ottenere il favore del Re; e gli
originali hanno infine soppresso la
copia (Primo Placet)
egli esprimeva probabilmente la sua
delusione e l’indigna­zione alla scoperta che uomini di chiesa di ogni
genere avessero ricevuto udienza
all’ orecchio del re, e che la loro influenza avesse potuto rivelarsi decisiva. (...)
In ogni caso, i commentatori moderni hanno, per lo più, prestato eccessiva attenzione alle circostanze
esterne del bando della commedia,
e forse anche alla perorazione interessata di Molière in sua difesa. Si
è mostrata scarsa considerazione,
sotto questo aspetto, per il testo
della com­media quale soprattutto
viene ad essere comunicato sulla
scena: infatti, questo è un caso in
cui il lettore, meditando su certi brani con l’aiuto dell’abile commento
dello stesso Molière nella Prefazione
e nei Placet, può essere indotto a
cogliere sottolineature affatto diverse da quelle che si im­pongono agli
spettatori. D’altra parte, il testo della
ver­sione del 1669, quale la possediamo, ha conservato il nu­cleo fondamentale dell’ipotetico originale
del 1664, nel senso che la comicità
è focalizzata nella figura di Orgon,
e questa focalizzazione comica, —
ovvero il contrasto tra la visione ima­
ginaire del mondo fondata sulla fantasia sogget­tiva, e la realtà oggettiva
del mondo quale ci viene mostrata
—, precede ogni altra implicazione
satirica relativa alle con­seguenze
materiali o morali dell’ascendente
che Tartuffe esercita su di lui. La
presenza di Tartuffe nella famiglia
di Orgon dipende di fatto dal mondo fantastico di quest’ultimo, di cui
anzi egli rappresenta l’oggettivazione tangibile, come Trissotin oggettivizza l’ossessione delle femmes
savantes, e Dorante, Dorimene ed i
vari istruttori, la fissazione di Monsieur Jourdain, e ancora Purgon e
Diafoirus quella del malato immaginario. Le implicazioni satiriche
dell’infatuazione di Orgon per Tartuffe, e le sinistre conseguenze del
logoramento dei rapporti con la sua
famiglia, rimangono sullo sfondo, ed
anche l’allontanamento di Damis e
il mi­nacciato sfratto dello stesso
Orgon, se sono importanti come
cardini dell’intreccio, non sono tuttavia presentati in maniera realistica.
Molière ha saputo mantenere il tono
della commedia, facendo perno sul
conflitto tra fantasia soggettiva e realtà oggettiva.
Nessun’altra commedia di Molière
indaga con tanta profondità questo
conflitto, che qui viene interpretato
in termini di valore del dato visivo.
L’ingenuo Orgon crede a tutto ciò
che vede, e che si situa nel contesto della dévotion; la percezione dei
suoi occhi non viene sottoposta al
controllo critico della ragione, come
appare chiaro dal suo racconto del
primo incontro con Tartuffe:
Ah! se sapeste come l’ho conosciu­
to...
D’altra parte, allorché è in gioco il
comportamento di Tartuffe nei confronti di Elmire, avviene il contrario, ed il potenziale seduttore viene
scambiato per il pio custode della
moralità famigliare:
Vedo che critica e corregge ogni
cosa e per tutelare il mio onore di­
mostra un grande interesse anche
per mia moglie; mi avverte se qual­
cuno le fa gli occhi dolci, ed è cento
volte più geloso di me.
In altre parole, l’esperienza visiva
non ha valore oggettivo, poiché viene filtrata attraverso le distorsioni del
pre­giudizio aprioristico. Orgon vuole
credere in Tartuffe, e dunque prende la sua ostentata pietà per quello
che sem­bra, reinterpretando i dati
dei sensi quando ciò che vede contrasta con la sua idea preconcetta.
Come dice Tartuffe, «... je l’ai mis au
point de voir tout sans rien croire».
Il verbo voir, ed altri termini semanticamente affini, ricorrono nel corso
della commedia come un leitmotiv,
rag­giungendo l’apice del momento
in cui Orgon, dolorosa­mente disilluso, cerca di illuminare la madre, che
rimane prigioniera di un simile errore
nel giudizio:
L’ho visto con i miei occhi, l’ho visto;
e quando si dice visto, vuol dire vi­
sto! Devo gridarvelo cento volte nel­
le orecchie urlando per quat­tro?
allorché la risposta di lei ribadisce
ingenuamente la morale comica
dell’intera commedia:
Mio Dio, spesso l’apparenza ingan­
na;
non bisogna sempre giudicare da
quello che si vede.
La tanto elogiata entrata di Tartuffe nel III atto con­sente all’autore di
costruire un quadro efficace del suo
ipo­crita prima che egli compaia veramente; ma questo è un processo
che opera a due livelli, e la commedia poggia sul punto di vista che si
situa tra l’esperienza dei personaggi
razionali e degni di fede e l’interpretaziotie soggettiva di Orgon di ciò
che vede.
Inoltre, questa focalizzazione sulla
natura soggettiva del giudizio di Orgon è assai rilevante per chiunque
voglia con­siderare Tartuffe una commedia intorno alla religione. Tale focalizzazione viene spesso perduta di
vista, e Molière ha sicuramente una
parte di colpa nel confondere il lettore. Perché il problema non è, e non
lo era neppure nel 1669, se Tartuffe
rappresenti la vera o falsa pietà. Il titolo della commedia, L’Imposteur; la
didascalia «apercevant Dorine» che
precede il magnifico distico iniziale
di Tartuffe:
Lorenzo, mettete via la mia camicia
di crine e il cilicio, e pregate che il
Cielo vi illumini sempre
e l’altra curiosa didascalia al verso
1487: «C’est un scélérat qui parle»: tutti questi elementi forniscono
la prova, se di prova si ha bisogno,
che Tartuffe è un ipocrita, un impo­
store, un faux dévot; e che l’affermazione di Molière che «les originaux ont fait supprimer la copie» è
un chiaro esempio di difesa interessata. Tartuffe incontrò l’opposizione
sincera di uomini di Chiesa di tutte
le correnti di pensiero — e sicuramente con giusta ragione, poiché la
vera provocazione non consiste nel
ritratto di Tartuffe, l’ipocrita smaccato, ma in quello di Orgon, il credente
auten­tico. Ramón Fernàndez pone
l’urgente questione: Orgon sarebbe
meno comico, se Tartuffe fosse un
sincero dévot?
E vero che Purgon è sincero, mentre
Tartufo è un ipocrita. Ma una commedia che avesse messo in scena
un Purgon della religione sarebbe
stata sensibilmente diversa, per
quanto riguarda il significato comico, dal Tartuffe che possediamo?
Vi può essere una sola risposta, ed
è quella che dà lo stesso Fernàndez. Qualunque sia la natura dello
stimolo — vera o falsa pietà da parte di Tartuffe — Orgon è comico per
la sua fuga in un mondo personale;
ciò è dovuto senza dubbio alla sua
pietà genuina (benché mal riposta),
e «l’iso­lamento cristiano diventa il
prototipo dell’isolamento co­mico».
Il passaggio più provocatorio dell’intera commedia, dal punto di vista
dei rapporti di Molière con il clero
della sua epoca, è certamente rappresentato dai versi 273-279:
Chi segue i suoi consigli acquista
una pace profonda e considera il
mondo come letame. Si, quando
parlo con lui divento un altro: m’in­
segna a disprezzare le cose del
mondo, allontana la mia anima da
ogni affetto, tanto che potrei veder
morire mio fratello, i figli, mia madre
e mia moglie con la più grande indif­
ferenza85.
Quanto Tartuffe piega il linguaggio
della dévotion ai suoi scopi, Molière ha cura di indicare che si tratta
di «un scélérat qui parle». Tuttavia,
in questo caso, parla Orgon, che
non è un ipocrita ma un sincero credente, il quale esprime un’opinione
che, pur con tutta la sua rivoltante
di­sumanità, è comunque assai vicina alla lettera di un testo cristiano
autentico:, «Se un uomo viene a
me, e non odia il padre, la madre, la
sposa, i figli, i fratelli e le sorelle, sì,
ed anche la sua stessa vita, non può
essere mio discepolo» (Luca XIV,
26). E vero che nel suo egoismo ossessivo, Or­gon tralascia la frase «sì,
ed anche la sua stessa vita», che dà
al testo biblico il suo significato pieno; ma, anche se la sua formula può
travisare in questo senso lo spirito
dell’insegnamento di Cristo, la rassomiglianza testuale è innega­bile.
Infatti, la stretta affinità con il versetto di Luca «Se un uomo non odia...»
è particolarmente sorprendente se
la si paragona con la versione molto
più blanda dello stesso passo data
da Matteo: «Chi ama il padre o la
madre più di me, non è degno di
me» (X, 37). E l’audacia di Molière
in questo punto è accresciuta, non
attenuata, dalla replica di Cléante:
Sentimenti molto umani, questi,
caro cognato
non «quale travisamento della dottrina cristiana!», ma «quale travisamento dei sentimenti umani!». La somiglianza con il testo biblico risulta incontestabile; ed, anche se sa­rebbe
errato attribuire eccessiva importanza al singolo verso di Cléante, esso
può certamente essere interpretato,
in rapporto al contesto, come la
proposta implicita di un’alternativa
umanistica alla crudele disumanità
del precetto cristiano. Se si obietta che la lettera del testo biblico è
fuorviante, e necessita di essere in-
terpretata per essere cor­rettamente
compresa, si concede con ciò a
Molière il diritto di usurpare le funzioni della Chiesa, distinguendo in
pro­prio tra spirito e lettera, in quanto
si accoglie implicita­mente la dottrina, che nessun sacerdote cattolico
del tempo avrebbe mai accettato,
secondo la quale l’individuo ha il dovere di esercitare il suo libre examen
e di interpretare il testo biblico alla
luce della ragione umana. Tali sono
infatti le implicazioni di questo passaggio altamente provocatorio, ed in
quanto tali, esse vanno ben oltre la
distinzione tra vera e falsa dévotion
nella persona di Tartuffe. È possibile
che oggi siamo abbastanza aperti
da rifiutare la posizione secondo cui
«non sta al teatro di parlare di questi
argo­menti»; ma questo brano costituisce una sufficiente giu­stificazione
per un figlio obbediente della Chiesa
nel 1669, che pensasse che Molière
si era spinto troppo oltre.
Si deve ritenere tutto questo come
parte del messaggio satirico di Tar­
tuffe? Solo nel caso che si intenda
l’aggettivo «satirico» nell’accezione
più vasta possibile. In un simile bra-
no, Molière non solo mette in ridicolo le credenze dei bigotti in carne ed
ossa che popolavano la società in
cui egli visse, ma, quel che più conta, pronuncia, attraverso la co­micità,
un pesante giudizio sugli atteggiamenti mentali co­muni ai pensatori
bigotti di ogni epoca, i quali usano
l’auto­rità della Chiesa o di un partito
politico per giustificare comportamenti antisociali o attività disumane.
Vi possono essere state senz’altro copie reali di Orgon e Madame
Pernelle nella Francia del tempo di
Molière, ma ciò importa meno della
permanente attualità del ritratto del
tiranno di famiglia che ha bisogno
dell’appoggio dell’autorità testuale,
o della casistica di un directeur de
conscience, per trovare un fondamento al proprio comportamento
dittatoriale. La scrittura comica che
mette a nudo le contorsioni di pen­
siero di simili personaggi è di fatto
una comicità che va ben oltre i limiti
della satira, e forse a questo pensava Fernàndez quando affermava
che è impossibile scrivere una com­
media come Tartuffe «sans changer
l’ordre intellectuel du monde».
15 e 16 dicembre 2009 ore 20.30
Teatro Ariosto
18, 19 dicembre 2009 ore 20.30
20 dicembre ore 15.30
Teatro Municipale Valli
27 dicembre 2009 ore 15.30 e ore
20.30
Teatro Municipale Valli
29 e 30 gennaio 2010 ore 20.30
31 gennaio ore 15.30
Teatro Ariosto
Jesus Christ Superstar
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