UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
FACOLTA’ DI SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE E NATURALI
CORSO DI LAUREA IN BIOTECNOLOGIE INDUSTRIALI
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche
Sezione di Chimica Biologica e Biotecnologie Biochimiche
DISPENSA DEL CORSO DI
LABORATORIO DI BIOCHIMICA
Tratta dalle lezioni del Prof. Enrico Sanjust
Avvertenze importanti
• I presenti appunti sono messi a disposizione degli studenti a titolo
assolutamente gratuito.
• Essi s’intendono ad esclusivo uso interno degli studenti del Corso di
Laboratorio di Biochimica; E’ VIETATO QUALSIASI ALTRO USO.
• Essi non hanno pretesa di completezza, non sostituiscono le lezioni
teoriche né tantomeno le esercitazioni di laboratorio (la cui
frequenza è obbligatoria!), ma sono destinati a servire come traccia
per la preparazione dell’esame finale di Laboratorio di Biochimica.
1
Che cos’è la biotecnologia?
La parola greca ‘techne’ (τέχνη) significava ‘arte’ nell’accezione piú ampia,
quella di capacità manuale e poi abilità tecnica di ‘costruire’, ‘’modificare’,
‘fabbricare’, ‘preparare’, in altre parole la ‘tecnica’.
La parola ‘tecnologia’ esprime l’approccio scientifico alla tecnica: l’abilità
pratica si organizza secondo principi e metodi razionali. La tecnologia
comprende in sé l’idea di applicazione, specialmente di applicazione
industriale.
La biotecnologia (o, se si vuole darne una definizione piú analitica, le
biotecnologie) consiste nell’applicazione tecnologica di organismi viventi, o
di loro parti, o di loro derivati; è evidente che si tratta di una definizione
assai ampia e che il concetto si presta a subclassificazioni piú o meno
arbitrarie.
La definizione ufficiale di biotecnologia messa a punto dalla EFB,
European Federation of Biotechnology, è la seguente:
“Sostanzialmente la biotecnologia consiste nell'utilizzo di cellule o di
enzimi di origine microbica, animale o vegetale, per ottenere la
sintesi, la degradazione o la trasformazione di materie prime”.
Si capisce che una definizione tanto ampia possa essere ambigua da un
punto di vista pratico; l’arbitrarietà delle subclassificazioni deriva in gran
parte dalla multidisciplinarità della maggior parte delle applicazioni
biotecnologiche. Tale multidisciplinarità presuppone che un biotecnologo
debba possedere – tra le altre – basi di matematica (specie calcolo
numerico, statistica), di fisica, di chimica, di biochimica, di genetica, di
biologia molecolare, di microbiologia.
Si possono distinguere le biotecnologie cellulari (quelle che si basano
appunto sull’impiego di cellule, ma anche di tessuti, organi o anche interi
organismi) da quelle molecolari (basate sull’uso di enzimi, ma anche di
materiale genetico isolato, e/o di altri componenti proteici o non proteici
estratti o prodotti da organismi viventi).
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Si parla in ogni caso di solito di Biotecnologia rossa per indicare quella di
interesse medico e farmaceutico/farmacologico; di Biotecnologia Bianca
per indicare quella applicata ai processi industriali; la Biotecnologia verde
riguarda i processi connessi alle attività agricole.
La distinzione tra biotecnologie bianche e verdi riesce molte volte
concettualmente difficile, se si considerano – come molto spesso avviene –
applicazioni biotecnologiche agroindustriali. Queste comunque possono
essere specificamente rivolte a processi dell’industria alimentare, oppure
a processi piú propriamente volti al miglioramento delle pratiche
agronomiche, e degli aspetti qualiquantitativi delle produzioni agricole in
genere.
A questo proposito si può affermare che uno dei problemi piú sentiti a
livello mondiale, e che ha trovato finora solo soluzioni parziali, spesso
insoddisfacenti perché inefficaci e/o inefficienti, è quello dello
smaltimento degli scarti di produzione originatisi dall’attività agricola
industriale, sia per quanto attiene ai processi in pieno campo o in serra,
sia negli stadi piú avanzati delle filiere agroalimentari.
Tali scarti in linea di principio potrebbero essere anche direttamente
abbandonati in campo, affidando alla natura il compito della loro
reimmissione nel ciclo naturale del carbonio, se non fosse che si tratta di
solito di fronteggiare grandi quantità di rifiuti, la cui produzione è molto
concentrata nel tempo e nello spazio. Le alternative sono lo smaltimento,
grazie a processi biotecnologici oppure convenzionali, atti a ridurre
drasticamente i tempi senza un aggravio eccessivo dei costi, o meglio
ancora il riciclo, ossia la trasformazione da sottoprodotti indesiderati in
prodotti dotati di un ragionevole valore aggiunto.
La scelta dei metodi di trattamento dei rifiuti e scarti agroindustriali
presuppone tra l’altro un accurato studio sulle proprietà chimiche di tali
materiali, che possono essere classificati dividendoli in scarti di origine
animale e scarti di origine vegetale.
Tra i primi si possono annoverare residui e scarti di macellazione di
animali da carne, deiezioni liquide e solide di animali da allevamento, e
residui e scarti della filiera lattierocasearia come siero e scotta.
Tali residui si caratterizzano comunemente per un basso rapporto C/N,
dovuto all’abbondanza di materiale proteico, con le eccezioni delle ossa
(componente fondamentale: fosfati di calcio) e dei grassi residui di
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macellazione.
I
sottoprodotti
dell’attività
lattierocasearia
si
contraddistinguono per la presenza di concentrazioni elevate di lattosio.
Si tratta in genere di materiali molto facilmente alterabili per azione di
microrganismi che ne causano la rapida alterazione con processi di
carattere perlopiú putrefattivo. Tra gli inconvenienti, si segnalano la
produzione di gas fetidi e la possibile proliferazione di insetti molesti e
delle loro larve. I processi putrefattivi possono divenire vantaggiosi se
mantenuti sotto controllo mediante opportuni accorgimenti tecnici; in tal
caso se ne può ricavare una miscela gassosa combustibile (biogas)
direttamente utilizzabile per la produzione di energia termica. I fanghi
residui necessitano di ulteriori trattamenti per la deodorazione e
stabilizzazione (per esempio ai fini dell’utilizzo come ammendanti
agricoli).
L’irrancidimento di materiali a base grassa oppure di siero e scotta
produce tra l’altro acidi grassi a catena media e corta dall’odore
nauseabondo. Il recente interesse del mercato per succedanei del gasolio
(biodiesel) dovrebbe promuovere studi sul possibile recupero della
componente grassa degli scarti di macellazione ai fini di una loro
trasformazione in biocarburanti; le ossa possono essere incenerite e
avviate alla produzione di superfosfato da impiegare come fertilizzante.
Anche i residui della lavorazione dei pesci (essenzialmente lische) possono
essere trasformati in mangimi e fertilizzanti.
Il lattosio contenuto nei reflui lattierocaseari non ha molto mercato, ed è
inoltre non è facilmente fermentabile da parte di molti microrganismi; né
è stata proposta la idrolisi e isomerizzazione enzimatica per produrre
sciroppi zuccherini altamente dolcificanti.
Completamente differente è di solito la composizione di residui di origine
vegetale. Questi sono di solito caratterizzati da un alto rapporto C/N, a
causa del contenuto basso o bassissimo di materiale proteico, mentre
nettamente prevalenti sono cellulosa, emicellulose, e anche lignina. Questi
prodotti possono talvolta essere semplicemente bruciati, operazione che
può essere economicamente conveniente solo se il tasso di umidità è
sufficientemente basso; in tali casi possono essere messi a punti impianti
che consentano l’impiego in situ dell’energia termica prodotta. Questo
avveniva con le sanse esauste provenienti dai sansifici (impianti in cui le
sanse provenienti dai frantoi oleari erano estratte per ricavarne l’olio di
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sansa). Oggigiorno frangitura e molitura delle olive avvengono con
l’impiego di notevoli quantità di acqua; le sanse umide risultanti non sono
piú estratte per il declino della domanda di olio di sansa, e la loro
combustione presenta un bilancio energetico negativo, per questo
costituiscono al giorno d’oggi un problema ambientale non di poco conto,
nonostante recenti interventi legislativi ne abbiano notevolmente
allargato le possibilità di spandimento irriguo, con risultati a dir poco
discutibili in termini di sterilizzazione dei terreni agrari e pesante
inquinamento organico delle acque superficiali e di quelle di falda.
Residui a tenore zuccherino non trascurabile come le fettucce esauste
degli zuccherifici possono essere impiegate nell’alimentazione del
bestiame, mentre le vinacce possono essere fermentate; in quest’ultimo
caso resta il problema dello smaltimento dei residui solidi della
fermentazione. La distillazione dei liquidi alcoolici produce come residuo
altobollente le cosiddette borlande, che contengono acqua nonché alcoli
ed esteri a basso e medio peso molecolare; questi potrebbero essere
avviati alla trasformazione in vernici, lacche e solventi, ma vengono
perlopiú stoccati nell’attesa di un impiego confacente.
Irrisolto rimane almeno in parte il problema dello smaltimento di altri
residui di origine vegetale come bucce, semi, panelli, sfalci, paglia, tutoli,
trucioli, dal potere calorifico modesto se bruciati e dalla biodegradazione
spontanea troppo lenta se semplicemente affidati all’azione degli agenti
atmosferici e dei microrganismi ambientali. Per molti di questi residui è
comune la pratica del debbio o quella del sovescio. Tuttavia se applicate a
materiali non adatti tali pratiche conseguono da un lato l’effetto di una
progressiva distruzione dell’humus dopo un effimero incremento della
concentrazione di potassio, e dall’altro di sbilanciare verso l’alto il
rapporto C/N cosicché la loro applicazione si rivela alla lunga piuttosto
dannosa rispetto alla fertilità dei terreni.
Un’alternativa efficace ai metodi di smaltimento tuttora in uso potrebbe
essere costituita dalla diffusione e ottimizzazione di processi di
bioconversione ossia di processi in cui le biomasse di scarto da trattare
sono convertite in biomasse utili costituite da microrganismi o altre
entità biologiche come i macromiceti, utilizzabili come ammendanti di
terreni, come produttori di molecole pregiate in campo farmaceutico,
come mangimi o anche come alimenti per l’uomo.
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Tuttavia una politica efficace del problema della gestione degli scarti
agroindustriali non può prescindere dalla consapevolezza, da diffondere
nella società prima ancora che nella classe politica, che a) la tutela
dell’integrità dell’ambiente ha fatalmente dei costi, talora elevati, di cui la
collettività deve essere cosciente per potersene fare carico; b) i titolari
delle attività produttive agroindustriali che danno luogo a quantità
importanti di rifiuti devono farsi carico di trattamento, smaltimento,
riutilizzo, senza pretendere di scaricarne incombenze e costi sulla
collettività.
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Introduzione al Corso: presupposti teorici
Uno dei problemi da affrontare nei Paesi ad economia agricola intensiva
avanzata è come detto sopra lo smaltimento della gran quantità di residui
agroindustriali vegetali, e anche di molti altri, derivanti da attività
zootecniche parallele. Si tratta di materiale organico costituito, nel caso
dei vegetali, essenzialmente da cellulosa, emicellulose, lignine, oltre ad
altri componenti ‘minori’ da un punto di vista quantitativo, ma spesso
determinanti per la scelta del trattamento di smaltimento da effettuare.
In linea di massima il problema di tali rifiuti o sottoprodotti non è la
difficoltà di biodegradazione (si tratta, in effetti, comunemente di
materiali abbastanza facilmente biodegradabili e perlopiú innocui).
Piuttosto, le quantità possono essere ingenti, al punto da rendere
impossibile uno smaltimento ‘naturale’ in tempi compatibili con la
disponibilità di ambienti e spazi destinati allo stoccaggio. Si tratta inoltre
di prodotti a COD (Chemical Oxygen Demand, ossia Richiesta Chimica di
Ossigeno) di solito elevatissima, perciò i tempi di biodegradazione sono
forzatamente piuttosto lunghi. Questi materiali talvolta potrebbero
essere in linea teorica riutilizzati, anche per impieghi diversi da quelli del
prodotto principale dalla cui produzione derivano, ma comunemente la
richiesta del mercato è bassa e quindi tale riutilizzo diviene
antieconomico.
In alcuni casi tuttavia l’impiego di tecnologie innovative (o l’ottimizzazione
di tecnologie tradizionali) consente di trasformare tali scarti in nuovi
prodotti ad alto valore aggiunto, col che si consegue il duplice risultato di
eliminare un rifiuto e di avere un ritorno economico.
Le biotecnologie possono essere fortemente coinvolte in molti modi in
questa logica di smaltimento e riutilizzo: possono essere selezionati
organismi (di norma microrganismi), anche con le piú moderne applicazioni
della biologia molecolare e dell’ingegneria genetica, adatti a promuovere le
biotrasformazioni
richieste;
possono
essere
impiegati
enzimi,
eventualmente estratti e/o iperprodotti sempre con l’utilizzo di dette
tecniche; oppure si può anche ottenere la trasformazione almeno parziale
del sottoprodotto agroindustriale in biomasse utili (bioconversione) per
esempio dal punto di vista dell’alimentazione animale e anche umana. In
altre parole in quest’ultima ipotesi il microrganismo stesso non è solo un
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mezzo, ma costituisce esso stesso anche il fine della biotecnologia
medesima.
I funghi Pleurotus
I funghi del genere Pleurotus, di diffusione mondiale se si eccettuano il
continente antartico e le lande assolutamente aride o quelle quasi
perennemente ghiacciate, rispondono in pieno ai requisiti richiesti per
biorisanamento e concomitante riutilizzo dei residui di lavorazione di cui
sopra. Infatti, questi funghi mostrano alcune caratteristiche che li
situano tra i migliori candidati per gli scopi prima esposti:
a) sono estremamente virulenti nei confronti dei substrati da
biotrasformare, e li colonizzano con rapidità ed efficienza;
b) sono relativamente resistenti alla competizione da parte di altri
microrganismi;
c) adattano il proprio metabolismo alla composizione del substrato da
biodegradare;
d) sono assolutamente innocui e non patogeni;
e) se le condizioni sono adatte, producono abbondantemente sporocarpi
commestibili di elevata qualità.
Per vedere immagini di Pleurotus :
http://www.fungi4schools.org/Reprints/Photoset01/Pleurotus_cornucopia
e_Branching_Oyster_mushroom.jpg
http://botit.botany.wisc.edu/toms_fungi/images/post1.jpg
http://www.pilzfotopage.de/Aphyllos/images/Pleurotus%20ostreatus.jpg
http://www.naturephoto-cz.eu/pic/maly/pleurotus-cornucopiae-134.jpg
http://www.bio-forum.pl/messages/7259/43708.jpg
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Il genere Pleurotus ha una sistematica complessa, e se per alcuni Autori
rientra nella famiglia delle Agaricacee, per altri in quella delle
Poliporacee. Inoltre il genere è stato recentemente smembrato, perciò
alcune specie generalmente note come ascrivibili a Pleurotus sono state
spostate in Lentinus, e tra queste proprio una delle piú interessanti, ossia
Pleurotus sajor caju (Fries) Singer che è sinonimo di Lentinus sajor caju
(Fries) Fries. In ogni caso, si tratta di Olobasidiomiceti (funghi le cui
spore sono sorrette da particolari organi, appunto i basidi; ogni basidio
porta di norma quattro spore) che alternano una generazione agamica (per
mezzo appunto delle spore) a una sessuata (tetrapolare, esistono in altre
parole quattro “sessi”). Il fungo vero e proprio è costituito da un micelio
bianco di aspetto cotonoso, formato a sua volta da ife filamentose che
presentano tipiche giunzioni a fibbia; tale micelio (ifènchima) è
obbligatoriamente aerobio (muore per asfissia se manca l’ossigeno) e in
condizioni opportune produce gli sporocarpi (i funghi del parlare comune),
costituiti da uno pseudotessuto compatto (plectènchima), carnosi nel
cappello e fibrosi nello stipite, di forma e caratteristiche molto simili
nelle varie specie e ben note a chiunque. Si tratta di funghi imbutiformi, a
lamelle lungamente decorrenti sul gambo che spesso è eccentrico. Il
colore piú tipico è il bruno nocciola piú o meno accentuato, ma esistono
specie o forme grigio-bluastre sulla cuticola del cappello. La
commestibilità è ottima o eccellente. Il micelio si riproduce facilmente
anche per semplice divisione fisica, essendo la sua crescita limitata
esclusivamente dalla disponibilità di spazio e nutrienti, purché le
condizioni ambientali ricadano in un dato intervallo di umidità relativa e di
temperatura; questo è il metodo usato comunemente per riprodurre i
Pleurotus di interesse commerciale. I Pleurotus piú noti sono P. ostreatus
(Jacq.) Quélet, il comune ostricone del commercio, reperibile facilmente
su tutti i mercati, e facilmente coltivabile (su balle di paglia di cereali)
anche in casa; P. cornucopiae (Paulet) Rolland, anch’esso coltivabile e
apprezzato per il colore insolito (piú o meno giallo) per un Pleurotus ; P.
columbinus Quélet apud Bresadola, da taluni ritenuto una semplice
variante a cuticola bluastra di P. ostreatus; P. pulmonarius (Fries:Fries)
Quélet, simile all’ostreatus ma piú massiccio, e di color nocciola chiaro;
Pleurotus sapidus (Schulzer apud Kalchbrenner) Saccardo, come sopra; P.
eryngii (DeCandolle ex Fries.) Quélet, tipico dei climi temperato-caldi
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semiaridi come quello mediterraneo, crescente su radici marcescenti delle
ombrellifere del genere Eryngium, particolarmente apprezzato come
eccellente commestibile soprattutto nella sua varietà ferulae, crescente
appunto sulle radici di Ferula communis; questo Pleurotus si distingue
dalla maggior parte delle altre specie per la virulenza ridotta, per la
relativa lentezza della crescita, per la minor resistenza ai competitori.
Tali caratteristiche lo rendono – purtroppo – difficile da coltivare. Gli è
morfologicamente simile il P. (= Lentinus) sajor caju, originario dell’Asia
sudorientale, facilmente coltivabile, di ottime caratteristiche alimentari,
e tipico per essere moderatamente termofilo. Secondo alcuni autori,
sarebbe solo un ceppo coltivato e termofilo di P. pulmonarius. Si tratta
appunto della specie utilizzata nel Corso di Laboratorio di Biochimica
perché di alta virulenza, notevole resistenza ai competitori, interessanti
caratteristiche biochimiche, ottima crescita anche a temperature elevate
(resiste fino ai 40°C).
I materiali lignocellulosici
I Pleurotus appartengono alla categoria dei funghi lignicoli, ossia capaci di
vivere e crescere a spese di materiale lignocellulosico. Si definisce come
lignocellulosico qualsiasi materiale di origine vegetale contenente come
principali componenti tre biopolimeri: cellulosa, emicellulose, lignina.
Appartengono ovviamente a tale categoria i materiali legnosi
propriamente detti, ma anche foglie, frasche, fronde, erbe, scorze e
bucce di frutti. Si tratta di materiali che hanno molteplici usi (produzione
di carta, fibre tessili naturali e artificiali) e che costituiscono la parte piú
rilevante dei residui agroindustriali (vinacce, bucce di patate, paglia,
tutoli, segatura, sanse, torsoli, polpe esauste, etc.). Sono sostanze
biodegradabili, ma spesso con tempi di emivita particolarmente lunghi
(anche qualche secolo!) a seconda dell’origine e della particolare
composizione. In linea di massima, la componente piú facilmente
degradabile è quella emicellulosica.
Le emicellulose sono eteropolisaccaridi, in cui le singole unità
monosaccaridiche formano con distribuzione casuale catene piú o meno
ramificate, unite con una gran varietà di legami glicosidici, solitamente di
tipo β. Il risultato è la formazione di strutture altamente disordinate,
assolutamente amorfe, solubili piú o meno facilmente in acqua a caldo, con
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formazione di dispersioni colloidali altamente viscose, che talvolta a
freddo gelificano. La gelificazione è facile nelle poche emicellulose a
struttura piú regolare, come i galattomannani dei semi di carruba, o gli
anidropoligalattani dell’agar-agar, o anche le pectine. Moltissimi
microrganismi sono in grado di idrolizzare le strutture emicellulosiche,
trasformandole in misture di zuccheri piú semplici e facilmente
assimilabili. Il fenomeno si può notare facilmente osservando il processo
di marcescenza dei frutti degli agrumi attaccati da muffe come
Penicillium spp., frutti che perdono rapidamente consistenza proprio a
causa della distruzione delle strutture emicellulosiche. Le emicellulose
sono inattaccabili da parte degli animali, e si considerano dal punto di
vista alimentare come fibra solubile.
La cellulosa al contrario delle emicellulose è un omopolisaccaride formato
esclusivamente da D-glucosio polimerizzato con legami β-(14) a formare
catene lineari regolari, capaci di affastellarsi strettamente grazie a una
fitta rete di legami idrogeno e dando luogo alla formazione di fibre. Una
delle conseguenze di tale comportamento è la assoluta insolubilità in acqua
della cellulosa; un’altra è la relativa inerzia chimica (c’è poco spazio tra le
catene che formano le fibre, e quasi tutti i gruppi –OH sono impegnati in
legami idrogeno intercatena o intracatena). Gli animali in genere sono
incapaci di attaccare la cellulosa, che si comporta da un punto di vista
alimentare come fibra insolubile; alcuni ospitano nel tubo digerente dei
microrganismi che invece ne causano l’idrolisi, ricavandone D-glucosio. Si
possono citare lepisme, termiti e forfecchie tra gli insetti, e i ruminanti
tra i vertebrati.
Per vedere la struttura della cellulosa:
http://www.vialattea.net/spaw/image/chimica/Cellulosa1.jpg
http://www.anisn.it/omodeo/omodeo/images/cellulosa.jpg
http://www.biologie.uni-hamburg.de/b-online/fo26/glucansheets.gif
http://www.nd.edu/~aseriann/cellulose.gif
Per vedere l’organizzazione fibrillare della cellulosa:
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http://www.ualr.edu/botany/cellulose_microfibrils.jpeg
http://nutrition.jbpub.com/resources/images/images/fiber.gif
http://www.papiergeschiedenis.nl/images/techniek/tech_stof_cellulose_
01.gif
Al contrario degli animali, molti microrganismi (ma non tutti!) sono in
grado di biodegradare la cellulosa, processo che in ogni caso è molto piú
lento della biodegradazione delle emicellulose, e richiede l’intervento di
un complesso catalitico (cellulasi) formato da almeno tre tipi di enzimi:
esoglucanasi, endoglucanasi, β-glucosidasi.
Le lignine sono polimeri a reticolo tridimensionale straordinariamente
complesso e ancora non del tutto noto, le cui composizioni e strutture
dettagliate dipendono dal particolare materiale vegetale da cui
provengono. Si parla quindi forse piú propriamente di lignine piuttosto che
di lignina. Questo polimero (esclusivo dei vegetali!) di colore bruno piú o
meno scuro e di consistenza plastica, insolubile in tutti i solventi, viene a
ragione definito come ‘sostanza incrostante’ dai botanici, che ne
sottolineano la presenza come agente di rivestimento e di protezione
delle strutture fibrose lignificate, di cui ostacola l’idratazione e il
deterioramento fisico, chimico, e meccanico. Dei tre principali componenti
delle lignocellulose, la lignina è di gran lunga il piú inerte chimicamente e
quello a biodegradazione piú lenta e incompleta (la lignina è la materia
prima fondamentale per la formazione dell’humus nel suolo). Rimuovere in
qualche modo la lignina, in tutto o in parte, ha come conseguenza la
biodegradazione molto piú rapida del materiale residuo. Si chiamano
ligninoidi sostanze organiche a carattere fenolico che condividono con la
lignina alcuni motivi strutturali. Queste sostanze rientrano nella
vastissima classe dei polifenoli, in gran parte di origine vegetale e che
esplicano funzioni biochimiche e fisiopatologiche in gran parte non note.
La presenza di polifenoli è responsabile della difficile e lenta
biodegradazione di residui e scarti vegetali, nei quali la lignina è presente
in piccole quantità o è praticamente assente. I polifenoli esercitano,
infatti, un’azione tossica piú o meno pronunciata verso vari microrganismi.
I polifenoli tendono inoltre a ossidarsi, spontaneamente o per azione di
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enzimi, a formare i rispettivi chinoni. Questi esercitano un’azione tossica
molto piú spiccata dei fenoli da cui derivano, e rallentano o bloccano del
tutto molte biodegradazioni. Eliminare i polifenoli, impedire la formazione
dei chinoni, o conseguire entrambi i risultati, sono tra gli obiettivi
biotecnologici
importanti
nella
trasformazione
dei
prodotti
agroalimentari, nella loro conservazione e nella gestione dei sottoprodotti
e scarti.
Deve essere sottolineato il fatto che la presenza di polifenoli non
necessariamente costituisce un fattore negativo. Di molti polifenoli
presenti in vegetali destinati all’alimentazione umana è stato riconosciuto
il potere antiossidante che si concretizza nella capacità di queste
sostanze di interrompere le reazioni a catena a meccanismo radicalico che
portano a danno cellulare e tissutale in varie condizioni anche patologiche
(stress ossidativo). La presenza di concentrazioni adeguate di polifenoli in
alcuni alimenti (un esempio tra tanti, l’olio extravergine di oliva) non solo
conferisce il gusto particolare ma anche dà un contributo determinante
alla durabilità del prodotto.
Molti polifenoli (ma non tutti!) e la lignina rientrano nella vastissima
famiglia dei composti fenilpropanoidi, o composti C6C3. Questi (vi
appartengono per esempio gli aminoacidi PHE e TYR e i loro derivati) si
caratterizzano per un anello benzenico portante un sostituente lineare a
tre atomi di carbonio. Precursori della lignina sono tre alcoli aromatici
insaturi a carattere fenolico, derivanti da un particolare metabolismo
della fenilalanina, esclusivo dei vegetali, e noto come via dei cinnamati.
Questi tre alcoli si chiamano rispettivamente cumarilico, coniferilico, e
sinapilico. In presenza dell’enzima perossidasi e per azione del perossido
d’idrogeno (acqua ossigenata) continuamente prodotto in piccole quantità
dai vegetali, si trasformano nei corrispondenti radicali fenossilici che
rapidamente copolimerizzano con una tipica reazione a catena, formando
appunto la lignina. Le lignine delle graminacee e delle monocotiledoni in
genere sono di solito piú ricche di alcool cumarilico (lignine cumariliche),
mentre nelle lignine delle aghifoglie prevale l’alcool coniferilico (lignine
guaiaciliche); le lignine delle latifoglie sono invece ricche di alcool
sinapilico (lignine siringiliche).
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HO
HO
HO
OCH3
OH
OCH3
H3CO
OH
Alcool Cumarilico
OH
Alcool Coniferilico
Alcool Sinapilico
CH2OH
CH2OH
CH2OH
C
H
C
H
O
O
O
Mesomeria con delocalizzazione elettronica del radicale fenossile derivato
dall’alcool cumarilico
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R
O
R
R
O
O
MeO
O
HO
O
R
OMe
MeO
OH
O
OMe
O
R
CH2OH
OMe
HOH2C
O
OMe
O
MeO
O
OMe
R
HO
O
R
O
O
OMe
O
O
O
OMe
Struttura schematizzata di un frammento di una ipotetica molecola di lignina
15
La biodegradazione delle lignocellulose
La difficile biodegradabilità della lignina rispetto alla maggior parte delle
altre molecole biologiche dipende dalla trama molecolare molto fitta che
ostacola l’ingresso delle grosse molecole enzimatiche, e dal fatto che tale
polimero si forma per poliaddizione (e non per policondensazione). I
legami che uniscono le unità monomeriche sono per la massima parte
legami carbonio–carbonio o ponti ossigeno (difeniletere) tra anelli
aromatici, oppure tra anelli aromatici e catene propanoidi
(alchilfeniletere): si tratta di legami la cui rottura per idrolisi è
praticamente impossibile.
Gli organismi animali sono assolutamente incapaci di degradare la lignina:
anch’essa rientra nella fibra alimentare insolubile. Tra gli altri organismi,
solo un gruppo relativamente ristretto (ma che conta parecchie centinaia
di specie note!) è in grado di effettuarne la demolizione: si tratta degli
organismi ligninolitici, che sono quasi tutti funghi, sia micromiceti che
macromiceti . Questi organismi possono essere considerati sia dannosi, in
quanto capaci di provocare la rovina di alberi vivi e la marcescenza di
legname da opera, sia benefici perché consentono il perpetuo ricircolo del
carbonio e in genere della sostanza organica vegetale sul nostro pianeta.
I funghi lignicoli sono quelli capaci di vivere a spese del legno (o di
lignocellulose). Dovendo solubilizzare (per poi assimilare) macromolecole
essenzialmente insolubili, e non disponendo ovviamente di un apparato
digerente, il micelio produce e secerne fuori delle ife un certo numero di
enzimi extracellulari che gradualmente attaccano e demoliscono (per
ossidazione nel caso della lignina, per idrolisi invece nel caso di cellulosa
ed emicellulose) i costituenti macromolecolari del materiale
lignocellulosico. Le piccole molecole solubili risultanti sono poi assorbite
dalle stesse ife e utilizzate come nutrienti. La demolizione della lignina è
come già accennato piuttosto complicata, e vari enzimi e meccanismi
chimici devono cooperare per la completa degradazione e solubilizzazione
di questa sostanza.
I funghi lignicoli sono divisi convenzionalmente in tre gruppi, in relazione
all’effetto visibile prodotto dalla loro crescita sul legno:
I funghi del marciume soffice (soft rot fungi) degradano soprattutto
emicellulosa e cellulosa, rispettando la lignina;
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I funghi del marciume bruno (brown rot fungi) in piú ossidano
parzialmente la lignina ma senza eliminarla, cosicché il legno da loro
attaccato diviene appunto bruno rossastro;
I funghi del marciume bianco (white rot fungi) invece demoliscono e
consumano le emicellulose e la lignina (responsabile quest’ultima del colore
del legno) lasciando un residuo biancastro ricco di cellulosa. Solo questi
ultimi possono essere correttamente definiti come ligninolitici. In realtà i
funghi del marciume bianco possono essere subclassificati in funzione
della loro eventuale capacità di degradare anche la cellulosa, ossia di dar
luogo a una degradazione piú o meno simultanea di tutte le componenti
polimeriche delle lignocellulose.
Per vedere l’effetto delle varie classi di funghi lignicoli su campioni di
legni:
http://forestpathology.cfans.umn.edu/microbes.htm
I Pleurotus appartengono ai funghi del marciume bianco, subclasse dei non
degradatori della cellulosa, e quindi sono del massimo interesse ai fini
della biodegradazione selettiva delle lignocellulose. Ai funghi del
marciume bianco appartengono anche specie che – contrariamente ai
Pleurotus – sono pericolose per le colture agrarie, come il comune fungo
chiodino Armillariella mellea (Vahl. ex Fries) Karsten (= Armillaria mellea
(Vahl. ex Fries) Kummerer che attacca e uccide specie arboree e
fruttiferi in particolare, anche se produce sporocarpi molto apprezzati
dal punto di vista alimentare. Al genere Pleurotus appartengono invece
specie puramente saprofite, normalmente non in grado di aggredire piante
viventi; tantomeno sono in grado di causare patologie negli animali e
nell’uomo.
Enzimologia della biodegradazione delle lignocellulose
I funghi del marciume bianco possono esser divisi ulteriormente in
sottoclassi secondo l’armamentario enzimatico che secernono al fine di
degradare, solubilizzare ed assimilare la lignina. Tra i vari enzimi
individuati in quanto direttamente coinvolti in tali processi, i piú
importanti tra quelli sinora individuati sono:
17
Lignina Perossidasi (LiP). Si tratta di una perossidasi contenente ferrieme
(lo stesso eme dell’emoglobina, ma con ferro ferrico anziché ferroso)
specializzata nell’ossidazione (a spese del perossido di idrogeno) della
lignina. Il processo è complicato e non completamente chiarito; ha un
meccanismo radicalico di tipo ossidativo che porta alla rottura dei legami
α-β nelle catene laterali della lignina.
Manganese Perossidasi (MnP). Enzima quasi identico al precedente, ma con
ben diversa specificità di substrato, in quanto capace di ossidare Mn2+ a
Mn3+ (il manganese è sempre presente in tracce nel legno). Lo ione
manganico risultante agisce come ossidante sulla lignina, sempre con
meccanismo radicalico, riducendosi a ione manganoso che rientra nel ciclo
catalitico.
Laccasi (Lc). E’ un cuproenzima contenente ioni rame, di solito quattro,
diversamente complessati dalla porzione proteica: uno ione cuprico di tipo
spettroscopico I, che conferisce un caratteristico colore azzurro celeste
alla laccasi, a causa del proprio ε610 assai elevato; uno ione cuprico di tipo
spettroscopico II, ininfluente ai fini del colore e con un assetto
elettronico e stereochimico simile a quello dell’usuale ione cuprico
inorganico; due ioni cuprici del tipo spettroscopico III, con
accoppiamento antiferromagnetico degli spin elettronici (il rame cuprico
Cu2+ ha una configurazione elettronica esterna d9, quindi con un elettrone
spaiato normalmente rivelabile con tecniche epr. Gli spin dell’elettrone
spaiato di ciascun ione cuprico di tipo III sono antiparalleli, e quindi non
rivelabili). La laccasi ossida con scarsa specificità i composti fenolici (e
anche le ammine aromatiche) estraendone un elettrone (si forma quindi un
radicale). Il processo si ripete per quattro volte (quindi su quattro
molecole di substrato), sino a che i quattro ioni cuprici sono ridotti a
cuprosi (Cu+, d10) con conseguente scoloramento dell’enzima.
A questo punto interviene una molecola di ossigeno che viene ridotta a
due molecole di acqua:
O2
+
4 H+ +
4 e-
2 H2O
I radicali ottenuti a spese del substrato si comportano poi in funzione
della propria struttura e della disponibilità di ossigeno, della
concentrazione del substrato, del pH, producendo secondo i casi chinoni,
18
oppure dimeri, o anche polimeri, o piú spesso miscele di questi prodotti.
Nel caso dei fenolici contenenti funzioni metiletere si ha spesso
demetilazione e quindi semplificazione molecolare e incremento della
solubilità in acqua; gli idrossiacidi aromatici vengono spesso decarbossilati
ossidativamente.
La capacità della laccasi di ossidare le ammine aromatiche è
potenzialmente molto interessante per il trattamento delle acque reflue
di colorifici e industrie similari. Infatti moltissimi coloranti sintetici
derivano da ammine aromatiche diazotate, oltre che da composti fenolici,
anch’essi spesso substrati della laccasi.
Cu2+
TIPO I
TIPO III
Cu2+
Cu2+
OH
TIPO II
Cu2+
19
Lo schema sovrastante mostra la laccasi pronta a funzionare, con i
quattro ioni cuprici, e uno ione idrossido a ponte tra i due ioni di tipo III
e quello di tipo II.
Per semplicità sono stati omessi i residui aminoacidici che complessano gli
ioni metallici nel sito attivo dell’enzima. Questi sono HIS come già detto
per gli ioni di tipo III e II, e ancora HIS e CYS per quello di tipo I.
Ora l’enzima reagisce consecutivamente con quattro molecole di
substrato, prelevando da ciascuna un elettrone, ogni volta con contestuale
+
espulsione di uno ione H , e riducendosi alla forma cuprosa, incolore. In
particolare, è il rame di tipo I a ricevere un elettrone alla volta dal
substrato, per poi cederlo al cluster tricuprico Tipo II / Tipo III. Il
passaggio di elettroni dal rame di Tipo I al cluster tricuprico avviene per
mezzo di un motivo HIS-CYS-HIS a ponte.
La reazione di ossidazione del substrato potrebbe essere, ad esempio:
COOH
COOH
+
OMe
OMe
O
OH
Cu+
TIPO I
TIPO III
TIPO II
H+
Cu+
Cu+
Cu+
+
e-
20
-
Si noti che gli ioni cuprosi non possono coordinare lo ione OH a ponte,
che infatti abbandona il sito attivo.
Ora l’ossigeno molecolare si complessa come ione perossido a ponte tra i
due ioni di tipo III ridotti, che cedono ciascuno un elettrone all’ossigeno e
tornano cuprici :
TIPO I
Cu+
OTIPO III
Cu2+
Cu2+
O-
Cu+
TIPO II
A questo punto il perossido a ponte tra i due ioni cuprici di tipo III riceve
altri due elettroni (uno per volta, prima dal rame tipo I e poi da quello di
tipo II) dai due rimanenti ioni cuprosi, e grazie all’intervento (uno per
+
volta!) di quattro ioni H , produce due molecole d’acqua, mentre la laccasi
torna allo stato di partenza. Si forma come intermedio un radicale
idrossile OH· a ponte tra gli ioni di tipo II e tipo III. In effetti,
parrebbe che i due ioni di tipo III e quello di tipo II diano luogo a
un’interazione piú stretta rispetto a quanto precedentemente ipotizzato,
con un coinvolgimento piú diretto del rame di tipo II nel legame con
l’ossigeno molecolare.
21
Praticamente tutti i funghi del marciume bianco secernono laccasi, sia
pure in concentrazioni molto diverse; per esempio Phanerochaete
chrysosporium, uno dei funghi ligninolitici piú noti, è un ottimo produttore
di LiP e di MnP ma secerne poca laccasi; al contrario i Pleurotus sono forti
produttori di Lc, mentre a quanto pare non secernono LiP. Mutanti
incapaci di secernere laccasi attiva non sono piú capaci di degradare la
lignina. Questa osservazione porta quindi alla conclusione che la presenza
di laccasi sia indispensabile per la degradazione della lignina. LiP e MnP
accelerano
fortemente
la
degradazione
della
lignina,
ma
sorprendentemente non sono indispensabili; infatti, i Pleurotus non
producono LiP e solo in particolari condizioni possono produrre MnP, e
tuttavia sono piuttosto efficienti nella degradazione della lignina. Ancora
piú sorprendente è l’osservazione che soluzioni di laccasi isolata non
degradano la lignina. Quindi la presenza di laccasi è condizione necessaria
ma non sufficiente per l’azione ligninolitica. Ulteriori studi hanno portato
alla conclusione che questi funghi impiegano per la degradazione della
lignina la laccasi, coadiuvata da enzimi addizionali come la chinone
reduttasi QR. Questo è un flavoenzima di membrana, contenente FAD
come gruppo prostetico (coenzima). La QR riduce i chinoni originatisi per
azione della LC daccapo a fenoli, i quali riossidandosi liberano ROS. Le
ROS sono in questo contesto le vere responsabili della demolizione
ossidativa della lignina. La sigla ROS (in inglese Reactive Oxygen Species,
ossia intermedi reattivi nella riduzione dell’ossigeno) riunisce il
superossido O2-· e il corrispondente radicale protonato idroperossile
HO2·, il perossido d’idrogeno (acqua ossigenata) H2O2, il radicale idrossile
·OH (non confondere con lo ione idrossido OH-, che non è una ROS !!!).
Queste specie agiscono come violenti ossidanti piuttosto aspecifici, e la
lignina (con i suoi prodotti intermedi di degradazione) costituisce un
bersaglio ideale per la loro azione.
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Chinone Reduttasi
Laccasi
Chinoni
NAD(P)
H
Chinoli e
Catecoli
+ O2
NAD(P)+ +
H+
Membrana
plasmatica
LIGNINA
Ossidazione
Depolimerizzazione
Solubilizzazione
Citoplasma
L’azione combinata di LC e QR nella demolizione ossidativa della lignina
Numerosi studi hanno approfondito aspetti del meccanismo di demolizione
ossidativa della lignina. Si è osservato che i legami tra i carboni α e β sono
particolarmente sensibili alla scissione ossidativa radicalica, come nel
composto modello seguente:
OH
HO
β
OCH 3
α
OCH 3
H3CO
OCH 3
OCH 3
23
Tra i prodotti della demolizione, si individuano aldeidi e chetoni piú
semplici.
OH
O
CHO
H3CO
OCH3
H3CO
OCH3
OCH3
Il meccanismo intimo della reazione passa attraverso cationi radicali degli
anelli aromatici, che si possono ottenere per azione di LiP, MnP, e ROS.
Alternativamente, la struttura molecolare della lignina può essere non
solo frammentata, ma anche ‘semplificata’ sempre per demolizione
ossidativa, mediata per esempio da LiP, MnP, LC, o ROS:
LIGNINA
LIGNINA
LiP, LC, MnP, ROS
H3CO
OCH3
OH
H3CO
OCH3
O
La formazione di un radicale fenossile può essere il punto di partenza
nella demolizione ossidativa della lignina
24
LIGNINA
LIGNINA
C
H3CO
OCH3
O2–·
H3CO
OCH3
O
O
La reazione col superossido produce un
intermedio diossetanico molto instabile:
LIGNINA
LIGNINA
Spontanea
OCH3
H3CO
H3CO
COOMe
COOH
O
HO
O
L’intermedio diossetanico si traforma spontaneamente e
rapidamente in un derivato dell’acido muconico, a catena aperta.
25
LIGNINA
LIGNINA
O2–·, altre ROS
COOH
H3CO
COOMe
COOH
+
CO2, H2O, CH3OH
HCOOH, (COOH)2
L’azione successiva delle ROS sul derivato muconico ne demolisce
completamente la struttura
Nello schema precedente si vede come un’unità siringilica di una molecola
di lignina venga gradualmente demolita dando luogo a CO2, metanolo, e
acidi organici semplici facilmente assimilabili dal fungo. Al termine della
demolizione ossidativa, al posto del gruppo siringilico resta un semplice
carbossile. La demolizione delle unità cumariliche e guaiaciliche segue un
meccanismo analogo. La graduale introduzione di gruppi carbossilici in
concomitanza con la semplificazione molecolare causata dalla demolizione
ossidativa aumenta la solubilità della lignina e ne facilita l’ulteriore
biodegradazione. Tale biodegradazione è facilitata dalla esistenza
contemporanea della demolizione ossidativa delle strutture aromatiche e
della scissione, sempre ossidativa, dei legami Cα–Cβ.
26
Ci si può chiedere da dove si originino i polifenoli che per azione della
laccasi si trasformano nei radicali fenossilici la cui chinonizzazione
successiva con meccanismo radicalico origina le ROS. A parte il fatto che
le lignocellulose contengono comunemente vari composti di natura
fenolica, capaci di indurre la produzione di laccasi, i Pleurotus sono
enzimaticamente attrezzati a fronteggiare anche l’eventualità di assenza
di polifenoli. In questo caso possono secernere il flavoenzima ArilAlcool
Ossidasi AAO, chiamata spesso VeratrilAlcool Ossidasi (VAO) perché
l’alcool veratrilico (alcool 3,4-dimetossibenzilico) è un suo substrato
elettivo. In assenza di polifenoli, se il fungo riconosce la presenza di
composti organici richiedenti la formazione di ROS per la demolizione
ossidativa (per esempio la lignina, appunto), può sintetizzare e secernere
piccole quantità di alcool veratrilico o composti simili, che sono ossidati
dalla VAO appositamente prodotta. Tali alcoli aromatici sono allora
ossidati alle corrispondenti aldeidi, mentre l’ossigeno molecolare
necessario è ridotto a H2O2 (differenza dalle laccasi, che invece lo
riducono a H2O). Le aldeidi aromatiche prodotte sono riciclate da un
flavoenzima di membrana NAD(P)H dipendente, l’aldeide aromatica
reduttasi, che le trasforma daccapo in alcoli aromatici. Sembrerebbe di
avere a che fare con un ciclo futile, se non fosse che tutto il meccanismo
è una sorta di fabbrica chemoenzimatica extracellulare di H2O2. Tale
H2O2 costituisce un precursore di ROS grazie alla reazione di FENTON,
combinata con quella di HABER-WEISS:
Reazione di FENTON:
Mn+ + H2O2
M(n+1)+ + OH− + OH•
dove M indica lo ione di un metallo di transizione capace di ciclo redox
monoelettronico (Fe, Co, Cu, Mn, Mo, V). Lo ione piú comunemente
coinvolto in condizioni fisiologiche è Fe2+.
Reazione (ciclo) di HABER-WEISS:
H2O2 + OH•
→
H2O2 + O2−•
→
H2O + O2−• + H+
O2 + OH− + OH•
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Si vede quindi che l’azione della VAO combinata con quella dell’aldeide
aromatica reduttasi produce, di fatto, una miscela di ROS capace di
degradare la lignina. La reazione di HABER-WEISS non avviene se non in
presenza di tracce di ioni di metalli di transizione come sopra.
Aldeide Aromatica Reduttasi
VAO
Aldeide
Aromatica
NAD(P)H
+ O2
Alcol
Aromatico
NAD(P)+ +
H+
H2O2
Fe2+
Alcol
Aromatico
Fe3+
LIGNINA
Ossidazione
Depolimerizzazione
Solubilizzazione
Citoplasma
Alla escrezione di VAO segue poi quella di LC. Infatti, non tutta l’aldeide
veratrica prodotta è riciclata dall’aldeide aromatica reduttasi, ma una
parte per azione delle ROS presenti viene ossidata ad acido veratrico:
CHO
H 3 CO
H 3 CO
H 3 CO
OCH 3
COOH
COOH
OCH 3
OH
L’acido veratrico è demetilato da una veratrico demetilasi extracellulare
specifica ad acido vanillico.
28
Quest’ultimo è induttore della laccasi (nonché suo substrato) per questo
si osserva che la VAO gradualmente scompare dal mezzo di coltura del
fungo e viene a poco a poco sostituita dalla LC.
Ma non è ancora finita: l’azione della LC sull’acido vanillico può dar luogo a
una decarbossilazione ossidativa che produce metossibenzochinone:
O
COOH
H3CO
H3CO
O
OH
Il metossibenzochinone può essere ridotto a metossibenzochinolo dalla
QR:
NAD(P)H,
QR
O
OH
H3CO
H3CO
O
OH
O2, LC
29
La LC riossida il metossibenzochinolo a metossibenzochinone, formando un
metossibenzosemichinone che è un radicale molto reattivo:
O
C
OCH3
OH
Questo può subire una reazione di disproporzione che riforma
metossibenzochinone e metossibenzochinolo, oppure si ossida reagendo
con ossigeno molecolare, secondo il seguente schema:
QH • +
QH • Q + QH2
QH •
+
O2
QH2
+ HO2 •
QH • + HO2 •
Q + HO2 •
QH • + H2O2
Q + H2O2
Nello schema, QH2 è il metossibenzochinolo, Q è il metossibenzochinone,
e QH• il metossibenzosemichinone. La contemporanea formazione di
perossido e superossido è in grado di spiegare la generazione del radicale
idrossile, secondo lo schema di HABER-WEISS.
Sembrerebbe di essere in presenza di un ciclo futile: QR riduce e LC
riossida, all’infinito, consumando ossigeno e NAD(P)H. Il NAD(P)H viene in
definitiva sottratto al bilancio energetico della cellula, cosicché tale ciclo
sembrerebbe non solo inutile, ma anzi dannoso. In realtà l’ossidazione è
come detto un processo radicalico e libera in continuazione ROS. Queste
aggrediscono la lignina, la demoliscono ossidativamente e tra gli altri
prodotti formano pure l’acido vanillico visto sopra. Il risultato complessivo
dell’intero processo porta alla demolizione della lignina e alla formazione
30
di piccole molecole solubili che il fungo assimila e avvia nei convenzionali
metabolismi (Ciclo di KREBS, β-ossidazione) come nell’esempio seguente:
OH
COOH
O2
O
O
COOH
COOH
COOH
CH3COSCoA
OH
O
O
H2O
COOH
COOH
O
HOOCCH2CH2COSCoA
Nello schema il catecolo è scisso ossidativamente da una diossigenasi
intracellulare ad acido muconico, il quale con una serie di isomerizzazioni
enzimaticamente catalizzate produce infine l’acido succinacetico, che dà
luogo in definitiva ad acetil coenzima A e succinil coenzima A.
Alternativamente, l’acido vanillico è ossidato dalla laccasi e demetilato a
4-carbossibenzochinone, con eliminazione di metanolo. Il 4carbossibenzochinone non è stabile e si degrada spontaneamente
producendo piccole molecole alifatiche che il fungo può assimilare:
COOH
COOH
O2
+
OMe
OH
LC
CH3OH
O
O
Il 4-carbossibenzochinone è anche un forte ossidante e puè agire da
mediatore redox secondo la logica già vista. La laccasi appartiene
tipicamente agli enzimi inducibili, ossia a quegli enzimi che sono prodotti
solo in risposta alla presenza dei loro substrati, che fungono quindi da
induttori. I Pleurotus rispondono prontamente alla presenza di lignina
producendo laccasi. In realtà questi funghi producono comunque anche
31
piccole quantità di una laccasi costitutiva, ossia indipendente dalla
presenza o meno di induttori.
La lignina non rappresenta l’unico induttore noto per la laccasi di
Pleurotus: infatti, molte altre sostanze di natura chimica aromatica
svolgono con maggiore o minore efficienza lo stesso ruolo. Si possono
citare l’acido vanillico già visto, l’acido ferulico, l’acido gallico, la 2,5xilidina:
COOH
COOH
NH2
CH3
OMe
OH
Acido Ferulico
OH
HO
H3C
OH
Acido Gallico
2,5-Xilidina
Piú recentemente sono state individuate alcune laccasi fungine in cui gli
ioni cuprici sono parzialmente sostituiti da altri ioni metallici. Per esempio
in P. ostreatus oltre alla normale laccasi azzurra è prodotta una laccasi
bianca contenente uno ione cuprico, due ioni zinco Zn2+ e uno ione ferrico
Fe3+. La funzione degli ioni zinco (incapaci di cambiare stato di
ossidazione) rimane ignota. Una laccasi gialla è stata isolata da Panus
tigrinus (Bulliard: Fries) Singer = Lentinus tigrinus (Bulliard: Fries) Fries.
In questo caso non è disponibile alcuna informazione sugli ioni metallici
legati. Secondo alcuni Autori, la laccasi gialla deve il proprio colore al
fatto di essere stata alterata da chinoni, formati nel liquido di coltura del
fungo, e capaci di legarsi covalentemente ed irreversibilmente all’enzima.
Non è nemmeno noto se tale laccasi sia originariamente blu o bianca.
Nel caso del P. sajor caju è stato recentemente scoperto che l’acido 4idrossibenzensolfonico (come sale sodico) HBS si comporta da potente
induttore per la laccasi. Questo non è sorprendente in quanto è presente
un gruppo 4-idrossifenile che riprende il motivo strutturale 4idrossifenilico della lignina cumarilica. E’ invece interessante notare che
si tratta del primo induttore gratuito noto per la laccasi: il composto
32
induce la produzione di enzima, ma non essendo substrato non è
metabolizzato e permane a tempo indeterminato nel liquido di coltura,
continuando a esercitare la propria azione. Il gruppo solfonico lo rende
molto solubile in acqua e praticamente atossico. A differenza di altri
induttori convenzionali, l’HBS induce una laccasi bianca.
Coltivare Pleurotus in laboratorio
In linea di massima i Pleurotus sono facilissimi da coltivare in laboratorio,
con l’eccezione di P. eryngii che si dimostra comparativamente piú lento e
piú sensibile alle condizioni colturali e ai competitori.
Si utilizza di norma un micelio secondario ricavato sterilmente da uno
sporocarpo freschissimo e intatto. La riproduzione di miceli primari dalle
spore o l’ottenimento di miceli secondari per unione di appropriati miceli
primari sono procedure complesse e piú adatte a laboratori di micologia
specializzati. I miceli secondari ottenuti come detto sopra da sporocarpi
sono invece adattissimi a semplici esperimenti di induzione e produzione
enzimatica. Essi costituiscono veri e propri cloni che possono essere
riprodotti all’infinito per semplice divisione e si mantengono inalterati, se
conservati e passati in modi e tempi opportuni, per anni e anni. P. sajor
caju si mantiene idealmente in capsule PETRI su terreno agarizzato
all’1.5% e contenente estratto di malto (2%) ed estratto di lievito (0.5%),
e un po’ di tampone potassio fosfato a pH 6 (per esempio 10 ml di tampone
1 M per litro di terreno di coltura). L’estratto di malto è piú conveniente
rispetto a glucosio o maltosio puri perché gli oligosaccaridi in esso
contenuti (maltodestrine) garantiscono al micelio il rilascio graduale di
zuccheri semplici durante tutto il tempo (un mese circa) necessario per la
coltura. Il fungo è in grado di sintetizzare tutti i propri componenti
biologici azotati (aminoacidi, basi puriniche e pirimidiniche, vitamine)
partendo dallo ione ammonio NH4+. Quindi potrebbe essere alimentato per
esempio con solfato ammonico (NH4)2SO4. Tuttavia il processo di
biosintesi impegna fortemente l’apparato metabolico del fungo e non
garantisce condizioni di sviluppo ottimali. Per questa ragione si preferisce
fornirgli estratto di lievito, che contiene una complessa miscela di
aminoacidi, peptidi, proteine, acidi nucleici e vitamine. Si osserva allora
uno sviluppo veloce e molto rigoglioso.
33
Il micelio invade in pochi giorni l’intera capsula coprendola di uno spesso
feltro di ife bianche fittissime, dalle caratteristiche giunzioni a fibbia
facilmente osservabili con il microscopio ottico anche a basso
ingrandimento. A questo punto le capsule possono esse chiuse con film da
laboratorio e conservate per qualche settimana in frigorifero.
Dalle piastre ben colonizzate si ricavano sterilmente porzioni di terreno
agarizzato e coperto di micelio che possono essere trasferite in beute
contenenti un appropriato terreno di coltura liquido. Le beute non devono
essere riempite eccessivamente di liquido per garantire un’elevata
superficie di scambio gassoso con l’aria sovrastante. Il terreno liquido è
eguale a quello agarizzato, tranne che per l’ovvia omissione dell’agar-agar.
Nel giro di alcuni giorni si sviluppa un abbondante micelio aereo che
galleggia sulla superficie del liquido; le ife non si spingono in profondità
nel mezzo di coltura a causa del loro metabolismo strettamente aerobio.
Micelio sommerso si ottiene facilmente a patto che le beute sono
convenientemente agitate per garantire una sufficiente ossigenazione.
Talvolta il micelio può arrivare a produrre piccoli sporocarpi in piastra o
anche in beuta. Ciò non influisce piú di tanto sui successivi esperimenti di
induzione.
L’inquinamento accidentale delle beute si rende di solito evidente per il
diverso aspetto dei funghi estranei. Questi mostrano comunemente una
crescita velocissima, l’aspetto delle ife è diverso (mancano di solito le
giunzioni a fibbia), e spesso, trattandosi di muffe, entro pochi giorni
producono abbondante sporata grigia, verde o nera (il micelio di Pleurotus
resta invece bianco o al piú color crema chiaro). L’inquinamento da lieviti o
batteri si manifesta invece con la formazione di colonie mucose o collose
che soffocano il fungo.
L’induzione enzimatica
Quando i miceli fungini sono ben sviluppati entro le beute è possibile
aggiungere a ciascuna coltura qualche induttore della laccasi. Si possono
usare singoli induttori o anche miscele; conviene preparare a parte
soluzioni concentrate e poi aggiungerle sterilmente alle colture. Le
quantità devono essere determinate sperimentalmente; quantità troppo
basse hanno un’azione modesta e transitoria (la maggior parte degli
induttori sono anche substrati della laccasi, quindi, quando sono consumati
34
l’azione induttrice viene a cessare). Quantità eccessive invece possono
svolgere un’azione tossica sul fungo, bloccandone la crescita o addirittura
uccidendolo. Rispetto a queste considerazioni, un’eccezione è
rappresentata dall’acido 4-idrossi-benzenesolfonico, che come detto è un
induttore gratuito e mostra una tossicità molto bassa.
Periodicamente piccoli campioni dei mezzi di coltura sono prelevati
sterilmente e analizzati per determinarne l’attività enzimatica. Il
confronto dei risultati permette di individuare gli induttori piú efficienti,
e anche l’eventuale mancata induzione. Naturalmente vanno allestite
colture di controllo senza induttori per valutare la eventuale produzione
di laccasi costitutiva. La misura dell’attività si compie nel modo migliore
per via fotometrica, utilizzando un substrato sintetico cromogenico: la
siringaldazina (azina dell’aldeide siringica o 4-idrossi-3,5-dimetossibenzaldeide).
Questa sostanza di colore giallo chiaro è specificamente ossidata dalla
laccasi al corrispondente chinone, di colore rosso fuchsia intensissimo (ε =
65.000 M-1cm-1, λmax = 525 nm). Dato l’altro valore di ε, la misura è
sensibilissima e spesso è richiesta una diluizione preliminare del campione
da saggiare. Non si formano sottoprodotti e il composto colorato è
sufficientemente stabile da permettere una misurazione quantitativa
piuttosto precisa.
OH
O
OMe
MeO
N
H
H
N
N
MeO
H
OMe
OH
Siringaldazina
OMe
MeO
H
N
MeO
OMe
O
Siringaldazinchinone
35
Si prepara una soluzione alcolica 1 mM di siringaldazina, e se ne usano 100
μl per cuvette da 1 ml. La reazione avviene idealmente a pH = 6, da
ottenere diluendo (se necessario) il campione da analizzare con tampone
potassio fosfato 50 mM, pH =6.
Purificazione e caratterizzazione
Le laccasi fungine sono di solito proteine acide, con pI tra 3 e 5, pertanto
è possibile purificarle per cromatografia a scambio anionico, utilizzando
dietilaminoetil cellulosa (DEAE-cellulosa) come scambiatore. Al solito, si
equilibra lo scambiatore col tampone potassio fosfato diluito (50 mM), e
si carica la soluzione enzimatica grezza. L’enzima è legato e può essere
eluito per incremento della forza ionica (ottenuto aggiungendo quantità
opportune di NaCl al tampone di eluizione).
Le laccasi fungine esistono di solito come miscela di isoenzimi, differenti
in funzione dell’eventuale induttore presente. Queste differenze possono
essere facilmente evidenziate per mezzo di elettroforesi nativa (ossia
eseguita in condizioni non denaturanti). E’ possibile colorare le proteine
con coloranti convenzionali per elettroforesi come il Blu Brillante R-250,
e confrontare i risultati con una colorazione per attività (si può usare
ancora la siringaldazina, oppure qualche altro substrato cromogenico come
la 4-dimetilaminoanilina (ADA), o anche la diidrossifenilalanina (Dopa) o la
corrispondente ammina (Dopamina). Nel primo caso si ottengono bande
fuchsia, con l’ADA viola, con dopa e dopamina marrone nerastro. Le lastre
elettroforetiche ottenute con le ultime due sostanze possono anche
essere essiccate e conservate in quanto la colorazione ottenuta è
piuttosto stabile nel tempo.
Precauzioni di sicurezza
L’intero ciclo di lezioni di laboratorio richiede il rispetto di alcune
elementari norme di sicurezza, che insieme al comune buon senso
rappresentano il modo migliore per prevenire incidenti.
In generale, si deve notare che il laboratorio è un luogo potenzialmente
pericoloso, nel quale non sono ammesse attività diverse da quelle
didattiche esplicitamente indicate dal Docente e dai suoi collaboratori. Gli
studenti sono tenuti a seguirne scrupolosamente le indicazioni. Non sono
ammesse attività ed esperienze diverse se non esplicitamente e
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preventivamente approvate dal Docente. In laboratorio non sono
consentiti scherzi e falsi allarmi di alcun genere. Al contrario, qualsiasi
anomalia e/o incidente e/o malesere connesso all’attività didattica deve
essere tassativamente e tempestivamente comunicato al Docente o al
Personale del laboratorio.
In laboratorio non si fuma, non si consumano cibi e bevande, non ci si
trucca. Non si assaggiano e non si annusano reagenti per nessuna ragione.
E’ vietato pipettare a bocca. E’ obbligatorio indossare il camice di cotone.
Nel dettaglio, i Pleurotus sono funghi innocui (BL 1), capaci di produrre
sporocarpi commestibili. Non è quindi necessaria alcuna particolare
precauzione, oltre alle usuali norme igieniche, nella manipolazione,
propagazione, e coltivazione. Il ciclo vitale del fungo, ai fini
dell’esperienza prevista per il Corso, non prevede la sporificazione e
comunque non crea le condizioni per l’inalazione anche involontaria di
spore, pertanto sono ragionevolmente esclusi sensibilizzazioni, allergie et
similia. Attenzione a scottature e rischio di incendio durante la
flambatura (becco a gas acceso!), necessaria per la manipolazione delle
colture fungine.
La preparazione dei terreni di coltura prevede l’impiego di componenti di
tossicità bassa o nulla, ma talvolta irritanti per contatto cutaneo. Nel
caso degli induttori, bisogna considerare che alcuni sono dotati di
tossicità non trascurabile. La soluzione di acrilamide utilizzata per
preparare i gel elettroforetici è altamente tossica; per questo è
necessario indossare gli appositi guanti durante la preparazione. L’uso
costante di questi è comunque altamente consigliabile, per norma
prudenziale, ogni volta che sia necessario pesare, dispensare, e
disciogliere qualsiasi reattivo. Eventuali contaminazioni con soluzioni e
reagenti vanno trattate immediatamente con acqua e sapone; bisogna
togliersi di dosso senza indugio gli indumenti contaminati. TEMED,
ditionito, mercaptoetanolo, formaldeide sono sostanze tossiche e
maleodoranti, il cui uso deve tassativamente avvenire solo sotto la cappa
aspirante accesa.
I rifiuti derivanti dagli esperimenti non si gettano in pattumiera.
Chiedere al Personale del laboratorio come smaltire in sicurezza reagenti,
vetreria, carta e plastica da laboratorio.
37
*
Tirosinasi
*
*
*
*
Tra i funghi del marciume bianco, uno dei piú noti e importanti dal punto
di vista alimentare è il prataiolo coltivato o champignon Agaricus bisporus
(Lange: Singer) Imbach (= Psalliota bispora Lange). Questo fungo produce
laccasi bianca extracellulare, ma la sua capacità di degradare la lignina è
comparativamente modesta. Può infatti essere coltivato in laboratorio su
lignocellulose, ma con crescita lenta e basse rese. Vive invece idealmente
su stallatico fermentato, meglio se equino, e questo rappresenta il
substrato per la coltivazione industriale. Non a caso, i prataioli selvatici
delle varie specie non si trovano mai in natura su lignocellulose ma nei
campi concimati con stallatico o nei boschi particolarmente ricchi di
humus maturo. L’interesse per l’enzimologia di A. bisporus non risiede
tanto nella sua (modesta) capacità di secernere laccasi (bianca), bensí nel
fatto che gli sporocarpi, normalmente candidi ma talvolta nocciola (nella
varietà cremino), tendono rapidamente a imbrunire e annerire se
meccanicamente danneggiati. Questo fatto, comune a molti vegetali, ne
abbassa considerevolmente il valore commerciale, in quanto giustamente il
consumatore lo associa a cattiva o troppo lunga conservazione, e tende a
scartare gli esemplari non perfettamente candidi. La responsabilità del
fenomeno dell’imbrunimento è da attribuire a un particolare cuproenzima,
diverso dalla laccasi, e noto come tirosinasi. Si tratta di una proteina
contenente due ioni cuprici del tipo spettroscopico III, quindi accoppiati
antiferromagneticamente, tanto è vero che l’enzima altamente purificato
è pressoché incolore. Ciascuno dei due ioni cuprici nel sito attivo
dell’enzima è coordinato da tre anelli imidazolici, appartenenti ad
altrettanti residui di HIS, come d’altra parte si osserva nei corrispondenti
ioni cuprici di tipo III della laccasi. Uno ione OH- a ponte tra i due ioni
cuprici è presente nella forma ‘normale’ dell’enzima, quella comunemente
isolata dalle fonti naturali. Si parla di forma met. Nel ciclo catalitico,
l’enzima met si riduce assumendo due elettroni: i due ioni cuprici
divengono cuprosi, e si parla di forma deoxy. Questa reagisce
immediatamente con l’ossigeno molecolare formando la forma oxy, in cui la
molecola di ossigeno forma un ‘ponte’ (sotto forma di dianione perossido
O22- fortemente legato). Una struttura identica a quella descritta si
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ritrova nella cuproproteina emocianina, che trasporta l’ossigeno in
molluschi e in artropodi. Tirosinasi e laccasi da un lato, ed emocianina
dall’altro rappresentano un bell’esempio di come la Natura possa sfruttare
lo stesso motivo strutturale (una coppia di ioni cuprici coordinati da
residui di HIS e accoppiati antiferromagneticamente) per svolgere due
funzioni diversissime, rispettivamente una funzione catalitica enzimatica
e il trasporto dell’ossigeno.
La tirosinasi si chiama anche piú spesso polifenolossidasi (PPO). E’ un
enzima che, a differenza della laccasi, la quale è relativamente poco
diffusa negli organismi viventi, è pressoché ubiquitario tra animali, piante,
microrganismi. La PPO si caratterizza per poter idrossilare la tirosina,
trasformandola in dopa (diidrossifenilalanina), a spese dell’ossigeno
molecolare:
COOH
COOH
NH2
NH2
PPO
O2
OH
Tirosina
OH
OH
Dopa
Quindi, a differenza della laccasi che di norma ossida polifenoli ai
corrispondenti chinoni, la tirosinasi svolge una funzione di ortoidrossilazione, ossia introduce un gruppo –OH al posto di un idrogeno su
un anello aromatico, in posizione orto rispetto a un –OH già presente.
La tirosinasi è in grado anche di catalizzare una seconda reazione: la
trasformazione dell’orto-difenolo nel corrispondente orto-chinone:
39
COOH
COOH
NH2
NH2
O2
OH
O
PPO
OH
O
Dopa
Dopachinone
Le due attività si chiamano rispettivamente attività monofenolasica
(anche tirosinasica o cresolasica) e attività difenolasica (anche
catecolasica). Di solito l’attività difenolasica è maggiore di quella
monofenolasica, che in molte PPO vegetali è quasi o completamente
assente. Inoltre l’attività monofenolasica è tipicamente soggetta a un
ritardo (solo dopo un po’ l’enzima comincia a trasformare la tirosina in
dopa), ritardo detto tempo di induzione (o in inglese lag time). In
definitiva, dopo un tempo sufficiente la tirosina è trasformata in
dopachinone. Questo tempo di induzione è ridotto o anche annullato in
presenza di piccole quantità di difenoli o anche di altri agenti riducenti. Il
tutto dipende dal fatto che l’attività catecolasica può essere esercitata
indifferentemente dalla forma met e da quella oxy, mentre l’attività
monofenolasica è esclusiva della sola forma oxy (presente in piccola
quantità nell’enzima ‘a riposo’, che è quasi tutto nella forma met. La forma
deoxy si può osservare solo in assenza di ossigeno).
Al contrario delle laccasi, le PPO non vengono di norma secrete perché
sono tipici enzimi intracellulari. La PPO di prataiolo coltivato si ottiene
disintegrando con l’aiuto di un normale frullatore casalingo dei prataioli
perfettamente sviluppati e ben freschi, in presenza di tampone potassio
fosfato o sodio acetato, a pH leggermente acido (tra 5 e 6). La leggera
acidità rallenta la chinonizzazione dei fenolici presenti abbondantemente
nel fungo, e quindi l’omogenato risultante annerisce solo dopo un po’ di
tempo. L’annerimento può essere prevenuto anche piú efficacemente
dall’aggiunta di un inibitore naturale della tirosinasi, l’acido ascorbico o
vitamina C. La combinazione naturale di acido citrico e acido ascorbico
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presente nel succo di limone spiega l’efficacia della procedura casalinga di
prevenzione dell’annerimento di funghi, mele, carciofi, etc.
Per la misurazione dell’attività, si utilizza una soluzione di tirosina, che si
ossida in presenza dell’enzima a dopachinone. Questo evolve
spontaneamente a dopacromo rossastro, il quale può essere misurato
fotometricamente a 475 nm. Il dopacromo tuttavia non è stabile, ma
spontaneamente si trasforma a poco a poco in un polimero nero insolubile,
la melanina. Melanine simili si ottengono per azione delle tirosinasi su altri
fenoli e/o catecoli naturali.
Molte ricerche tendono a individuare inibitori delle PPO che presentino
caratteristiche di innocuità ed efficacia compatibili con un loro impiego in
àmbito alimentare.
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COOH
NH2
HO
N
H
HO
O
COOH
O
Dopachinone
Leucodopacromo
O2
PPO
O
HO
HO
N
H
COOH
Acido 5,6-diidrossiindolcarbossilico
O2
HO
N
COOH
Dopacromo
PPO
O
MELANINA
O
N
H
COOH
Acido 5,6-indolchinoncarbossilico
Nello schema sovrastante si segue l’evoluzione del dopachinone sino a
melanina. Si può notare che la PPO interviene in almeno altri due passaggi,
mentre dove non diversamente indicato si tratta di reazioni che non
necessitano di catalisi enzimatica (sono però rallentate dall’abbassamento
del pH e accelerate dal suo innalzamento).