UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTA’ DI SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE E NATURALI CORSO DI LAUREA IN BIOTECNOLOGIE INDUSTRIALI Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche Sezione di Chimica Biologica e Biotecnologie Biochimiche DISPENSA DEL CORSO DI LABORATORIO DI BIOCHIMICA Tratta dalle lezioni del Prof. Enrico Sanjust Avvertenze importanti • I presenti appunti sono messi a disposizione degli studenti a titolo assolutamente gratuito. • Essi s’intendono ad esclusivo uso interno degli studenti del Corso di Laboratorio di Biochimica; E’ VIETATO QUALSIASI ALTRO USO. • Essi non hanno pretesa di completezza, non sostituiscono le lezioni teoriche né tantomeno le esercitazioni di laboratorio (la cui frequenza è obbligatoria!), ma sono destinati a servire come traccia per la preparazione dell’esame finale di Laboratorio di Biochimica. 1 Che cos’è la biotecnologia? La parola greca ‘techne’ (τέχνη) significava ‘arte’ nell’accezione piú ampia, quella di capacità manuale e poi abilità tecnica di ‘costruire’, ‘’modificare’, ‘fabbricare’, ‘preparare’, in altre parole la ‘tecnica’. La parola ‘tecnologia’ esprime l’approccio scientifico alla tecnica: l’abilità pratica si organizza secondo principi e metodi razionali. La tecnologia comprende in sé l’idea di applicazione, specialmente di applicazione industriale. La biotecnologia (o, se si vuole darne una definizione piú analitica, le biotecnologie) consiste nell’applicazione tecnologica di organismi viventi, o di loro parti, o di loro derivati; è evidente che si tratta di una definizione assai ampia e che il concetto si presta a subclassificazioni piú o meno arbitrarie. La definizione ufficiale di biotecnologia messa a punto dalla EFB, European Federation of Biotechnology, è la seguente: “Sostanzialmente la biotecnologia consiste nell'utilizzo di cellule o di enzimi di origine microbica, animale o vegetale, per ottenere la sintesi, la degradazione o la trasformazione di materie prime”. Si capisce che una definizione tanto ampia possa essere ambigua da un punto di vista pratico; l’arbitrarietà delle subclassificazioni deriva in gran parte dalla multidisciplinarità della maggior parte delle applicazioni biotecnologiche. Tale multidisciplinarità presuppone che un biotecnologo debba possedere – tra le altre – basi di matematica (specie calcolo numerico, statistica), di fisica, di chimica, di biochimica, di genetica, di biologia molecolare, di microbiologia. Si possono distinguere le biotecnologie cellulari (quelle che si basano appunto sull’impiego di cellule, ma anche di tessuti, organi o anche interi organismi) da quelle molecolari (basate sull’uso di enzimi, ma anche di materiale genetico isolato, e/o di altri componenti proteici o non proteici estratti o prodotti da organismi viventi). 2 Si parla in ogni caso di solito di Biotecnologia rossa per indicare quella di interesse medico e farmaceutico/farmacologico; di Biotecnologia Bianca per indicare quella applicata ai processi industriali; la Biotecnologia verde riguarda i processi connessi alle attività agricole. La distinzione tra biotecnologie bianche e verdi riesce molte volte concettualmente difficile, se si considerano – come molto spesso avviene – applicazioni biotecnologiche agroindustriali. Queste comunque possono essere specificamente rivolte a processi dell’industria alimentare, oppure a processi piú propriamente volti al miglioramento delle pratiche agronomiche, e degli aspetti qualiquantitativi delle produzioni agricole in genere. A questo proposito si può affermare che uno dei problemi piú sentiti a livello mondiale, e che ha trovato finora solo soluzioni parziali, spesso insoddisfacenti perché inefficaci e/o inefficienti, è quello dello smaltimento degli scarti di produzione originatisi dall’attività agricola industriale, sia per quanto attiene ai processi in pieno campo o in serra, sia negli stadi piú avanzati delle filiere agroalimentari. Tali scarti in linea di principio potrebbero essere anche direttamente abbandonati in campo, affidando alla natura il compito della loro reimmissione nel ciclo naturale del carbonio, se non fosse che si tratta di solito di fronteggiare grandi quantità di rifiuti, la cui produzione è molto concentrata nel tempo e nello spazio. Le alternative sono lo smaltimento, grazie a processi biotecnologici oppure convenzionali, atti a ridurre drasticamente i tempi senza un aggravio eccessivo dei costi, o meglio ancora il riciclo, ossia la trasformazione da sottoprodotti indesiderati in prodotti dotati di un ragionevole valore aggiunto. La scelta dei metodi di trattamento dei rifiuti e scarti agroindustriali presuppone tra l’altro un accurato studio sulle proprietà chimiche di tali materiali, che possono essere classificati dividendoli in scarti di origine animale e scarti di origine vegetale. Tra i primi si possono annoverare residui e scarti di macellazione di animali da carne, deiezioni liquide e solide di animali da allevamento, e residui e scarti della filiera lattierocasearia come siero e scotta. Tali residui si caratterizzano comunemente per un basso rapporto C/N, dovuto all’abbondanza di materiale proteico, con le eccezioni delle ossa (componente fondamentale: fosfati di calcio) e dei grassi residui di 3 macellazione. I sottoprodotti dell’attività lattierocasearia si contraddistinguono per la presenza di concentrazioni elevate di lattosio. Si tratta in genere di materiali molto facilmente alterabili per azione di microrganismi che ne causano la rapida alterazione con processi di carattere perlopiú putrefattivo. Tra gli inconvenienti, si segnalano la produzione di gas fetidi e la possibile proliferazione di insetti molesti e delle loro larve. I processi putrefattivi possono divenire vantaggiosi se mantenuti sotto controllo mediante opportuni accorgimenti tecnici; in tal caso se ne può ricavare una miscela gassosa combustibile (biogas) direttamente utilizzabile per la produzione di energia termica. I fanghi residui necessitano di ulteriori trattamenti per la deodorazione e stabilizzazione (per esempio ai fini dell’utilizzo come ammendanti agricoli). L’irrancidimento di materiali a base grassa oppure di siero e scotta produce tra l’altro acidi grassi a catena media e corta dall’odore nauseabondo. Il recente interesse del mercato per succedanei del gasolio (biodiesel) dovrebbe promuovere studi sul possibile recupero della componente grassa degli scarti di macellazione ai fini di una loro trasformazione in biocarburanti; le ossa possono essere incenerite e avviate alla produzione di superfosfato da impiegare come fertilizzante. Anche i residui della lavorazione dei pesci (essenzialmente lische) possono essere trasformati in mangimi e fertilizzanti. Il lattosio contenuto nei reflui lattierocaseari non ha molto mercato, ed è inoltre non è facilmente fermentabile da parte di molti microrganismi; né è stata proposta la idrolisi e isomerizzazione enzimatica per produrre sciroppi zuccherini altamente dolcificanti. Completamente differente è di solito la composizione di residui di origine vegetale. Questi sono di solito caratterizzati da un alto rapporto C/N, a causa del contenuto basso o bassissimo di materiale proteico, mentre nettamente prevalenti sono cellulosa, emicellulose, e anche lignina. Questi prodotti possono talvolta essere semplicemente bruciati, operazione che può essere economicamente conveniente solo se il tasso di umidità è sufficientemente basso; in tali casi possono essere messi a punti impianti che consentano l’impiego in situ dell’energia termica prodotta. Questo avveniva con le sanse esauste provenienti dai sansifici (impianti in cui le sanse provenienti dai frantoi oleari erano estratte per ricavarne l’olio di 4 sansa). Oggigiorno frangitura e molitura delle olive avvengono con l’impiego di notevoli quantità di acqua; le sanse umide risultanti non sono piú estratte per il declino della domanda di olio di sansa, e la loro combustione presenta un bilancio energetico negativo, per questo costituiscono al giorno d’oggi un problema ambientale non di poco conto, nonostante recenti interventi legislativi ne abbiano notevolmente allargato le possibilità di spandimento irriguo, con risultati a dir poco discutibili in termini di sterilizzazione dei terreni agrari e pesante inquinamento organico delle acque superficiali e di quelle di falda. Residui a tenore zuccherino non trascurabile come le fettucce esauste degli zuccherifici possono essere impiegate nell’alimentazione del bestiame, mentre le vinacce possono essere fermentate; in quest’ultimo caso resta il problema dello smaltimento dei residui solidi della fermentazione. La distillazione dei liquidi alcoolici produce come residuo altobollente le cosiddette borlande, che contengono acqua nonché alcoli ed esteri a basso e medio peso molecolare; questi potrebbero essere avviati alla trasformazione in vernici, lacche e solventi, ma vengono perlopiú stoccati nell’attesa di un impiego confacente. Irrisolto rimane almeno in parte il problema dello smaltimento di altri residui di origine vegetale come bucce, semi, panelli, sfalci, paglia, tutoli, trucioli, dal potere calorifico modesto se bruciati e dalla biodegradazione spontanea troppo lenta se semplicemente affidati all’azione degli agenti atmosferici e dei microrganismi ambientali. Per molti di questi residui è comune la pratica del debbio o quella del sovescio. Tuttavia se applicate a materiali non adatti tali pratiche conseguono da un lato l’effetto di una progressiva distruzione dell’humus dopo un effimero incremento della concentrazione di potassio, e dall’altro di sbilanciare verso l’alto il rapporto C/N cosicché la loro applicazione si rivela alla lunga piuttosto dannosa rispetto alla fertilità dei terreni. Un’alternativa efficace ai metodi di smaltimento tuttora in uso potrebbe essere costituita dalla diffusione e ottimizzazione di processi di bioconversione ossia di processi in cui le biomasse di scarto da trattare sono convertite in biomasse utili costituite da microrganismi o altre entità biologiche come i macromiceti, utilizzabili come ammendanti di terreni, come produttori di molecole pregiate in campo farmaceutico, come mangimi o anche come alimenti per l’uomo. 5 Tuttavia una politica efficace del problema della gestione degli scarti agroindustriali non può prescindere dalla consapevolezza, da diffondere nella società prima ancora che nella classe politica, che a) la tutela dell’integrità dell’ambiente ha fatalmente dei costi, talora elevati, di cui la collettività deve essere cosciente per potersene fare carico; b) i titolari delle attività produttive agroindustriali che danno luogo a quantità importanti di rifiuti devono farsi carico di trattamento, smaltimento, riutilizzo, senza pretendere di scaricarne incombenze e costi sulla collettività. 6 Introduzione al Corso: presupposti teorici Uno dei problemi da affrontare nei Paesi ad economia agricola intensiva avanzata è come detto sopra lo smaltimento della gran quantità di residui agroindustriali vegetali, e anche di molti altri, derivanti da attività zootecniche parallele. Si tratta di materiale organico costituito, nel caso dei vegetali, essenzialmente da cellulosa, emicellulose, lignine, oltre ad altri componenti ‘minori’ da un punto di vista quantitativo, ma spesso determinanti per la scelta del trattamento di smaltimento da effettuare. In linea di massima il problema di tali rifiuti o sottoprodotti non è la difficoltà di biodegradazione (si tratta, in effetti, comunemente di materiali abbastanza facilmente biodegradabili e perlopiú innocui). Piuttosto, le quantità possono essere ingenti, al punto da rendere impossibile uno smaltimento ‘naturale’ in tempi compatibili con la disponibilità di ambienti e spazi destinati allo stoccaggio. Si tratta inoltre di prodotti a COD (Chemical Oxygen Demand, ossia Richiesta Chimica di Ossigeno) di solito elevatissima, perciò i tempi di biodegradazione sono forzatamente piuttosto lunghi. Questi materiali talvolta potrebbero essere in linea teorica riutilizzati, anche per impieghi diversi da quelli del prodotto principale dalla cui produzione derivano, ma comunemente la richiesta del mercato è bassa e quindi tale riutilizzo diviene antieconomico. In alcuni casi tuttavia l’impiego di tecnologie innovative (o l’ottimizzazione di tecnologie tradizionali) consente di trasformare tali scarti in nuovi prodotti ad alto valore aggiunto, col che si consegue il duplice risultato di eliminare un rifiuto e di avere un ritorno economico. Le biotecnologie possono essere fortemente coinvolte in molti modi in questa logica di smaltimento e riutilizzo: possono essere selezionati organismi (di norma microrganismi), anche con le piú moderne applicazioni della biologia molecolare e dell’ingegneria genetica, adatti a promuovere le biotrasformazioni richieste; possono essere impiegati enzimi, eventualmente estratti e/o iperprodotti sempre con l’utilizzo di dette tecniche; oppure si può anche ottenere la trasformazione almeno parziale del sottoprodotto agroindustriale in biomasse utili (bioconversione) per esempio dal punto di vista dell’alimentazione animale e anche umana. In altre parole in quest’ultima ipotesi il microrganismo stesso non è solo un 7 mezzo, ma costituisce esso stesso anche il fine della biotecnologia medesima. I funghi Pleurotus I funghi del genere Pleurotus, di diffusione mondiale se si eccettuano il continente antartico e le lande assolutamente aride o quelle quasi perennemente ghiacciate, rispondono in pieno ai requisiti richiesti per biorisanamento e concomitante riutilizzo dei residui di lavorazione di cui sopra. Infatti, questi funghi mostrano alcune caratteristiche che li situano tra i migliori candidati per gli scopi prima esposti: a) sono estremamente virulenti nei confronti dei substrati da biotrasformare, e li colonizzano con rapidità ed efficienza; b) sono relativamente resistenti alla competizione da parte di altri microrganismi; c) adattano il proprio metabolismo alla composizione del substrato da biodegradare; d) sono assolutamente innocui e non patogeni; e) se le condizioni sono adatte, producono abbondantemente sporocarpi commestibili di elevata qualità. Per vedere immagini di Pleurotus : http://www.fungi4schools.org/Reprints/Photoset01/Pleurotus_cornucopia e_Branching_Oyster_mushroom.jpg http://botit.botany.wisc.edu/toms_fungi/images/post1.jpg http://www.pilzfotopage.de/Aphyllos/images/Pleurotus%20ostreatus.jpg http://www.naturephoto-cz.eu/pic/maly/pleurotus-cornucopiae-134.jpg http://www.bio-forum.pl/messages/7259/43708.jpg 8 Il genere Pleurotus ha una sistematica complessa, e se per alcuni Autori rientra nella famiglia delle Agaricacee, per altri in quella delle Poliporacee. Inoltre il genere è stato recentemente smembrato, perciò alcune specie generalmente note come ascrivibili a Pleurotus sono state spostate in Lentinus, e tra queste proprio una delle piú interessanti, ossia Pleurotus sajor caju (Fries) Singer che è sinonimo di Lentinus sajor caju (Fries) Fries. In ogni caso, si tratta di Olobasidiomiceti (funghi le cui spore sono sorrette da particolari organi, appunto i basidi; ogni basidio porta di norma quattro spore) che alternano una generazione agamica (per mezzo appunto delle spore) a una sessuata (tetrapolare, esistono in altre parole quattro “sessi”). Il fungo vero e proprio è costituito da un micelio bianco di aspetto cotonoso, formato a sua volta da ife filamentose che presentano tipiche giunzioni a fibbia; tale micelio (ifènchima) è obbligatoriamente aerobio (muore per asfissia se manca l’ossigeno) e in condizioni opportune produce gli sporocarpi (i funghi del parlare comune), costituiti da uno pseudotessuto compatto (plectènchima), carnosi nel cappello e fibrosi nello stipite, di forma e caratteristiche molto simili nelle varie specie e ben note a chiunque. Si tratta di funghi imbutiformi, a lamelle lungamente decorrenti sul gambo che spesso è eccentrico. Il colore piú tipico è il bruno nocciola piú o meno accentuato, ma esistono specie o forme grigio-bluastre sulla cuticola del cappello. La commestibilità è ottima o eccellente. Il micelio si riproduce facilmente anche per semplice divisione fisica, essendo la sua crescita limitata esclusivamente dalla disponibilità di spazio e nutrienti, purché le condizioni ambientali ricadano in un dato intervallo di umidità relativa e di temperatura; questo è il metodo usato comunemente per riprodurre i Pleurotus di interesse commerciale. I Pleurotus piú noti sono P. ostreatus (Jacq.) Quélet, il comune ostricone del commercio, reperibile facilmente su tutti i mercati, e facilmente coltivabile (su balle di paglia di cereali) anche in casa; P. cornucopiae (Paulet) Rolland, anch’esso coltivabile e apprezzato per il colore insolito (piú o meno giallo) per un Pleurotus ; P. columbinus Quélet apud Bresadola, da taluni ritenuto una semplice variante a cuticola bluastra di P. ostreatus; P. pulmonarius (Fries:Fries) Quélet, simile all’ostreatus ma piú massiccio, e di color nocciola chiaro; Pleurotus sapidus (Schulzer apud Kalchbrenner) Saccardo, come sopra; P. eryngii (DeCandolle ex Fries.) Quélet, tipico dei climi temperato-caldi 9 semiaridi come quello mediterraneo, crescente su radici marcescenti delle ombrellifere del genere Eryngium, particolarmente apprezzato come eccellente commestibile soprattutto nella sua varietà ferulae, crescente appunto sulle radici di Ferula communis; questo Pleurotus si distingue dalla maggior parte delle altre specie per la virulenza ridotta, per la relativa lentezza della crescita, per la minor resistenza ai competitori. Tali caratteristiche lo rendono – purtroppo – difficile da coltivare. Gli è morfologicamente simile il P. (= Lentinus) sajor caju, originario dell’Asia sudorientale, facilmente coltivabile, di ottime caratteristiche alimentari, e tipico per essere moderatamente termofilo. Secondo alcuni autori, sarebbe solo un ceppo coltivato e termofilo di P. pulmonarius. Si tratta appunto della specie utilizzata nel Corso di Laboratorio di Biochimica perché di alta virulenza, notevole resistenza ai competitori, interessanti caratteristiche biochimiche, ottima crescita anche a temperature elevate (resiste fino ai 40°C). I materiali lignocellulosici I Pleurotus appartengono alla categoria dei funghi lignicoli, ossia capaci di vivere e crescere a spese di materiale lignocellulosico. Si definisce come lignocellulosico qualsiasi materiale di origine vegetale contenente come principali componenti tre biopolimeri: cellulosa, emicellulose, lignina. Appartengono ovviamente a tale categoria i materiali legnosi propriamente detti, ma anche foglie, frasche, fronde, erbe, scorze e bucce di frutti. Si tratta di materiali che hanno molteplici usi (produzione di carta, fibre tessili naturali e artificiali) e che costituiscono la parte piú rilevante dei residui agroindustriali (vinacce, bucce di patate, paglia, tutoli, segatura, sanse, torsoli, polpe esauste, etc.). Sono sostanze biodegradabili, ma spesso con tempi di emivita particolarmente lunghi (anche qualche secolo!) a seconda dell’origine e della particolare composizione. In linea di massima, la componente piú facilmente degradabile è quella emicellulosica. Le emicellulose sono eteropolisaccaridi, in cui le singole unità monosaccaridiche formano con distribuzione casuale catene piú o meno ramificate, unite con una gran varietà di legami glicosidici, solitamente di tipo β. Il risultato è la formazione di strutture altamente disordinate, assolutamente amorfe, solubili piú o meno facilmente in acqua a caldo, con 10 formazione di dispersioni colloidali altamente viscose, che talvolta a freddo gelificano. La gelificazione è facile nelle poche emicellulose a struttura piú regolare, come i galattomannani dei semi di carruba, o gli anidropoligalattani dell’agar-agar, o anche le pectine. Moltissimi microrganismi sono in grado di idrolizzare le strutture emicellulosiche, trasformandole in misture di zuccheri piú semplici e facilmente assimilabili. Il fenomeno si può notare facilmente osservando il processo di marcescenza dei frutti degli agrumi attaccati da muffe come Penicillium spp., frutti che perdono rapidamente consistenza proprio a causa della distruzione delle strutture emicellulosiche. Le emicellulose sono inattaccabili da parte degli animali, e si considerano dal punto di vista alimentare come fibra solubile. La cellulosa al contrario delle emicellulose è un omopolisaccaride formato esclusivamente da D-glucosio polimerizzato con legami β-(14) a formare catene lineari regolari, capaci di affastellarsi strettamente grazie a una fitta rete di legami idrogeno e dando luogo alla formazione di fibre. Una delle conseguenze di tale comportamento è la assoluta insolubilità in acqua della cellulosa; un’altra è la relativa inerzia chimica (c’è poco spazio tra le catene che formano le fibre, e quasi tutti i gruppi –OH sono impegnati in legami idrogeno intercatena o intracatena). Gli animali in genere sono incapaci di attaccare la cellulosa, che si comporta da un punto di vista alimentare come fibra insolubile; alcuni ospitano nel tubo digerente dei microrganismi che invece ne causano l’idrolisi, ricavandone D-glucosio. Si possono citare lepisme, termiti e forfecchie tra gli insetti, e i ruminanti tra i vertebrati. Per vedere la struttura della cellulosa: http://www.vialattea.net/spaw/image/chimica/Cellulosa1.jpg http://www.anisn.it/omodeo/omodeo/images/cellulosa.jpg http://www.biologie.uni-hamburg.de/b-online/fo26/glucansheets.gif http://www.nd.edu/~aseriann/cellulose.gif Per vedere l’organizzazione fibrillare della cellulosa: 11 http://www.ualr.edu/botany/cellulose_microfibrils.jpeg http://nutrition.jbpub.com/resources/images/images/fiber.gif http://www.papiergeschiedenis.nl/images/techniek/tech_stof_cellulose_ 01.gif Al contrario degli animali, molti microrganismi (ma non tutti!) sono in grado di biodegradare la cellulosa, processo che in ogni caso è molto piú lento della biodegradazione delle emicellulose, e richiede l’intervento di un complesso catalitico (cellulasi) formato da almeno tre tipi di enzimi: esoglucanasi, endoglucanasi, β-glucosidasi. Le lignine sono polimeri a reticolo tridimensionale straordinariamente complesso e ancora non del tutto noto, le cui composizioni e strutture dettagliate dipendono dal particolare materiale vegetale da cui provengono. Si parla quindi forse piú propriamente di lignine piuttosto che di lignina. Questo polimero (esclusivo dei vegetali!) di colore bruno piú o meno scuro e di consistenza plastica, insolubile in tutti i solventi, viene a ragione definito come ‘sostanza incrostante’ dai botanici, che ne sottolineano la presenza come agente di rivestimento e di protezione delle strutture fibrose lignificate, di cui ostacola l’idratazione e il deterioramento fisico, chimico, e meccanico. Dei tre principali componenti delle lignocellulose, la lignina è di gran lunga il piú inerte chimicamente e quello a biodegradazione piú lenta e incompleta (la lignina è la materia prima fondamentale per la formazione dell’humus nel suolo). Rimuovere in qualche modo la lignina, in tutto o in parte, ha come conseguenza la biodegradazione molto piú rapida del materiale residuo. Si chiamano ligninoidi sostanze organiche a carattere fenolico che condividono con la lignina alcuni motivi strutturali. Queste sostanze rientrano nella vastissima classe dei polifenoli, in gran parte di origine vegetale e che esplicano funzioni biochimiche e fisiopatologiche in gran parte non note. La presenza di polifenoli è responsabile della difficile e lenta biodegradazione di residui e scarti vegetali, nei quali la lignina è presente in piccole quantità o è praticamente assente. I polifenoli esercitano, infatti, un’azione tossica piú o meno pronunciata verso vari microrganismi. I polifenoli tendono inoltre a ossidarsi, spontaneamente o per azione di 12 enzimi, a formare i rispettivi chinoni. Questi esercitano un’azione tossica molto piú spiccata dei fenoli da cui derivano, e rallentano o bloccano del tutto molte biodegradazioni. Eliminare i polifenoli, impedire la formazione dei chinoni, o conseguire entrambi i risultati, sono tra gli obiettivi biotecnologici importanti nella trasformazione dei prodotti agroalimentari, nella loro conservazione e nella gestione dei sottoprodotti e scarti. Deve essere sottolineato il fatto che la presenza di polifenoli non necessariamente costituisce un fattore negativo. Di molti polifenoli presenti in vegetali destinati all’alimentazione umana è stato riconosciuto il potere antiossidante che si concretizza nella capacità di queste sostanze di interrompere le reazioni a catena a meccanismo radicalico che portano a danno cellulare e tissutale in varie condizioni anche patologiche (stress ossidativo). La presenza di concentrazioni adeguate di polifenoli in alcuni alimenti (un esempio tra tanti, l’olio extravergine di oliva) non solo conferisce il gusto particolare ma anche dà un contributo determinante alla durabilità del prodotto. Molti polifenoli (ma non tutti!) e la lignina rientrano nella vastissima famiglia dei composti fenilpropanoidi, o composti C6C3. Questi (vi appartengono per esempio gli aminoacidi PHE e TYR e i loro derivati) si caratterizzano per un anello benzenico portante un sostituente lineare a tre atomi di carbonio. Precursori della lignina sono tre alcoli aromatici insaturi a carattere fenolico, derivanti da un particolare metabolismo della fenilalanina, esclusivo dei vegetali, e noto come via dei cinnamati. Questi tre alcoli si chiamano rispettivamente cumarilico, coniferilico, e sinapilico. In presenza dell’enzima perossidasi e per azione del perossido d’idrogeno (acqua ossigenata) continuamente prodotto in piccole quantità dai vegetali, si trasformano nei corrispondenti radicali fenossilici che rapidamente copolimerizzano con una tipica reazione a catena, formando appunto la lignina. Le lignine delle graminacee e delle monocotiledoni in genere sono di solito piú ricche di alcool cumarilico (lignine cumariliche), mentre nelle lignine delle aghifoglie prevale l’alcool coniferilico (lignine guaiaciliche); le lignine delle latifoglie sono invece ricche di alcool sinapilico (lignine siringiliche). 13 HO HO HO OCH3 OH OCH3 H3CO OH Alcool Cumarilico OH Alcool Coniferilico Alcool Sinapilico CH2OH CH2OH CH2OH C H C H O O O Mesomeria con delocalizzazione elettronica del radicale fenossile derivato dall’alcool cumarilico 14 R O R R O O MeO O HO O R OMe MeO OH O OMe O R CH2OH OMe HOH2C O OMe O MeO O OMe R HO O R O O OMe O O O OMe Struttura schematizzata di un frammento di una ipotetica molecola di lignina 15 La biodegradazione delle lignocellulose La difficile biodegradabilità della lignina rispetto alla maggior parte delle altre molecole biologiche dipende dalla trama molecolare molto fitta che ostacola l’ingresso delle grosse molecole enzimatiche, e dal fatto che tale polimero si forma per poliaddizione (e non per policondensazione). I legami che uniscono le unità monomeriche sono per la massima parte legami carbonio–carbonio o ponti ossigeno (difeniletere) tra anelli aromatici, oppure tra anelli aromatici e catene propanoidi (alchilfeniletere): si tratta di legami la cui rottura per idrolisi è praticamente impossibile. Gli organismi animali sono assolutamente incapaci di degradare la lignina: anch’essa rientra nella fibra alimentare insolubile. Tra gli altri organismi, solo un gruppo relativamente ristretto (ma che conta parecchie centinaia di specie note!) è in grado di effettuarne la demolizione: si tratta degli organismi ligninolitici, che sono quasi tutti funghi, sia micromiceti che macromiceti . Questi organismi possono essere considerati sia dannosi, in quanto capaci di provocare la rovina di alberi vivi e la marcescenza di legname da opera, sia benefici perché consentono il perpetuo ricircolo del carbonio e in genere della sostanza organica vegetale sul nostro pianeta. I funghi lignicoli sono quelli capaci di vivere a spese del legno (o di lignocellulose). Dovendo solubilizzare (per poi assimilare) macromolecole essenzialmente insolubili, e non disponendo ovviamente di un apparato digerente, il micelio produce e secerne fuori delle ife un certo numero di enzimi extracellulari che gradualmente attaccano e demoliscono (per ossidazione nel caso della lignina, per idrolisi invece nel caso di cellulosa ed emicellulose) i costituenti macromolecolari del materiale lignocellulosico. Le piccole molecole solubili risultanti sono poi assorbite dalle stesse ife e utilizzate come nutrienti. La demolizione della lignina è come già accennato piuttosto complicata, e vari enzimi e meccanismi chimici devono cooperare per la completa degradazione e solubilizzazione di questa sostanza. I funghi lignicoli sono divisi convenzionalmente in tre gruppi, in relazione all’effetto visibile prodotto dalla loro crescita sul legno: I funghi del marciume soffice (soft rot fungi) degradano soprattutto emicellulosa e cellulosa, rispettando la lignina; 16 I funghi del marciume bruno (brown rot fungi) in piú ossidano parzialmente la lignina ma senza eliminarla, cosicché il legno da loro attaccato diviene appunto bruno rossastro; I funghi del marciume bianco (white rot fungi) invece demoliscono e consumano le emicellulose e la lignina (responsabile quest’ultima del colore del legno) lasciando un residuo biancastro ricco di cellulosa. Solo questi ultimi possono essere correttamente definiti come ligninolitici. In realtà i funghi del marciume bianco possono essere subclassificati in funzione della loro eventuale capacità di degradare anche la cellulosa, ossia di dar luogo a una degradazione piú o meno simultanea di tutte le componenti polimeriche delle lignocellulose. Per vedere l’effetto delle varie classi di funghi lignicoli su campioni di legni: http://forestpathology.cfans.umn.edu/microbes.htm I Pleurotus appartengono ai funghi del marciume bianco, subclasse dei non degradatori della cellulosa, e quindi sono del massimo interesse ai fini della biodegradazione selettiva delle lignocellulose. Ai funghi del marciume bianco appartengono anche specie che – contrariamente ai Pleurotus – sono pericolose per le colture agrarie, come il comune fungo chiodino Armillariella mellea (Vahl. ex Fries) Karsten (= Armillaria mellea (Vahl. ex Fries) Kummerer che attacca e uccide specie arboree e fruttiferi in particolare, anche se produce sporocarpi molto apprezzati dal punto di vista alimentare. Al genere Pleurotus appartengono invece specie puramente saprofite, normalmente non in grado di aggredire piante viventi; tantomeno sono in grado di causare patologie negli animali e nell’uomo. Enzimologia della biodegradazione delle lignocellulose I funghi del marciume bianco possono esser divisi ulteriormente in sottoclassi secondo l’armamentario enzimatico che secernono al fine di degradare, solubilizzare ed assimilare la lignina. Tra i vari enzimi individuati in quanto direttamente coinvolti in tali processi, i piú importanti tra quelli sinora individuati sono: 17 Lignina Perossidasi (LiP). Si tratta di una perossidasi contenente ferrieme (lo stesso eme dell’emoglobina, ma con ferro ferrico anziché ferroso) specializzata nell’ossidazione (a spese del perossido di idrogeno) della lignina. Il processo è complicato e non completamente chiarito; ha un meccanismo radicalico di tipo ossidativo che porta alla rottura dei legami α-β nelle catene laterali della lignina. Manganese Perossidasi (MnP). Enzima quasi identico al precedente, ma con ben diversa specificità di substrato, in quanto capace di ossidare Mn2+ a Mn3+ (il manganese è sempre presente in tracce nel legno). Lo ione manganico risultante agisce come ossidante sulla lignina, sempre con meccanismo radicalico, riducendosi a ione manganoso che rientra nel ciclo catalitico. Laccasi (Lc). E’ un cuproenzima contenente ioni rame, di solito quattro, diversamente complessati dalla porzione proteica: uno ione cuprico di tipo spettroscopico I, che conferisce un caratteristico colore azzurro celeste alla laccasi, a causa del proprio ε610 assai elevato; uno ione cuprico di tipo spettroscopico II, ininfluente ai fini del colore e con un assetto elettronico e stereochimico simile a quello dell’usuale ione cuprico inorganico; due ioni cuprici del tipo spettroscopico III, con accoppiamento antiferromagnetico degli spin elettronici (il rame cuprico Cu2+ ha una configurazione elettronica esterna d9, quindi con un elettrone spaiato normalmente rivelabile con tecniche epr. Gli spin dell’elettrone spaiato di ciascun ione cuprico di tipo III sono antiparalleli, e quindi non rivelabili). La laccasi ossida con scarsa specificità i composti fenolici (e anche le ammine aromatiche) estraendone un elettrone (si forma quindi un radicale). Il processo si ripete per quattro volte (quindi su quattro molecole di substrato), sino a che i quattro ioni cuprici sono ridotti a cuprosi (Cu+, d10) con conseguente scoloramento dell’enzima. A questo punto interviene una molecola di ossigeno che viene ridotta a due molecole di acqua: O2 + 4 H+ + 4 e- 2 H2O I radicali ottenuti a spese del substrato si comportano poi in funzione della propria struttura e della disponibilità di ossigeno, della concentrazione del substrato, del pH, producendo secondo i casi chinoni, 18 oppure dimeri, o anche polimeri, o piú spesso miscele di questi prodotti. Nel caso dei fenolici contenenti funzioni metiletere si ha spesso demetilazione e quindi semplificazione molecolare e incremento della solubilità in acqua; gli idrossiacidi aromatici vengono spesso decarbossilati ossidativamente. La capacità della laccasi di ossidare le ammine aromatiche è potenzialmente molto interessante per il trattamento delle acque reflue di colorifici e industrie similari. Infatti moltissimi coloranti sintetici derivano da ammine aromatiche diazotate, oltre che da composti fenolici, anch’essi spesso substrati della laccasi. Cu2+ TIPO I TIPO III Cu2+ Cu2+ OH TIPO II Cu2+ 19 Lo schema sovrastante mostra la laccasi pronta a funzionare, con i quattro ioni cuprici, e uno ione idrossido a ponte tra i due ioni di tipo III e quello di tipo II. Per semplicità sono stati omessi i residui aminoacidici che complessano gli ioni metallici nel sito attivo dell’enzima. Questi sono HIS come già detto per gli ioni di tipo III e II, e ancora HIS e CYS per quello di tipo I. Ora l’enzima reagisce consecutivamente con quattro molecole di substrato, prelevando da ciascuna un elettrone, ogni volta con contestuale + espulsione di uno ione H , e riducendosi alla forma cuprosa, incolore. In particolare, è il rame di tipo I a ricevere un elettrone alla volta dal substrato, per poi cederlo al cluster tricuprico Tipo II / Tipo III. Il passaggio di elettroni dal rame di Tipo I al cluster tricuprico avviene per mezzo di un motivo HIS-CYS-HIS a ponte. La reazione di ossidazione del substrato potrebbe essere, ad esempio: COOH COOH + OMe OMe O OH Cu+ TIPO I TIPO III TIPO II H+ Cu+ Cu+ Cu+ + e- 20 - Si noti che gli ioni cuprosi non possono coordinare lo ione OH a ponte, che infatti abbandona il sito attivo. Ora l’ossigeno molecolare si complessa come ione perossido a ponte tra i due ioni di tipo III ridotti, che cedono ciascuno un elettrone all’ossigeno e tornano cuprici : TIPO I Cu+ OTIPO III Cu2+ Cu2+ O- Cu+ TIPO II A questo punto il perossido a ponte tra i due ioni cuprici di tipo III riceve altri due elettroni (uno per volta, prima dal rame tipo I e poi da quello di tipo II) dai due rimanenti ioni cuprosi, e grazie all’intervento (uno per + volta!) di quattro ioni H , produce due molecole d’acqua, mentre la laccasi torna allo stato di partenza. Si forma come intermedio un radicale idrossile OH· a ponte tra gli ioni di tipo II e tipo III. In effetti, parrebbe che i due ioni di tipo III e quello di tipo II diano luogo a un’interazione piú stretta rispetto a quanto precedentemente ipotizzato, con un coinvolgimento piú diretto del rame di tipo II nel legame con l’ossigeno molecolare. 21 Praticamente tutti i funghi del marciume bianco secernono laccasi, sia pure in concentrazioni molto diverse; per esempio Phanerochaete chrysosporium, uno dei funghi ligninolitici piú noti, è un ottimo produttore di LiP e di MnP ma secerne poca laccasi; al contrario i Pleurotus sono forti produttori di Lc, mentre a quanto pare non secernono LiP. Mutanti incapaci di secernere laccasi attiva non sono piú capaci di degradare la lignina. Questa osservazione porta quindi alla conclusione che la presenza di laccasi sia indispensabile per la degradazione della lignina. LiP e MnP accelerano fortemente la degradazione della lignina, ma sorprendentemente non sono indispensabili; infatti, i Pleurotus non producono LiP e solo in particolari condizioni possono produrre MnP, e tuttavia sono piuttosto efficienti nella degradazione della lignina. Ancora piú sorprendente è l’osservazione che soluzioni di laccasi isolata non degradano la lignina. Quindi la presenza di laccasi è condizione necessaria ma non sufficiente per l’azione ligninolitica. Ulteriori studi hanno portato alla conclusione che questi funghi impiegano per la degradazione della lignina la laccasi, coadiuvata da enzimi addizionali come la chinone reduttasi QR. Questo è un flavoenzima di membrana, contenente FAD come gruppo prostetico (coenzima). La QR riduce i chinoni originatisi per azione della LC daccapo a fenoli, i quali riossidandosi liberano ROS. Le ROS sono in questo contesto le vere responsabili della demolizione ossidativa della lignina. La sigla ROS (in inglese Reactive Oxygen Species, ossia intermedi reattivi nella riduzione dell’ossigeno) riunisce il superossido O2-· e il corrispondente radicale protonato idroperossile HO2·, il perossido d’idrogeno (acqua ossigenata) H2O2, il radicale idrossile ·OH (non confondere con lo ione idrossido OH-, che non è una ROS !!!). Queste specie agiscono come violenti ossidanti piuttosto aspecifici, e la lignina (con i suoi prodotti intermedi di degradazione) costituisce un bersaglio ideale per la loro azione. 22 Chinone Reduttasi Laccasi Chinoni NAD(P) H Chinoli e Catecoli + O2 NAD(P)+ + H+ Membrana plasmatica LIGNINA Ossidazione Depolimerizzazione Solubilizzazione Citoplasma L’azione combinata di LC e QR nella demolizione ossidativa della lignina Numerosi studi hanno approfondito aspetti del meccanismo di demolizione ossidativa della lignina. Si è osservato che i legami tra i carboni α e β sono particolarmente sensibili alla scissione ossidativa radicalica, come nel composto modello seguente: OH HO β OCH 3 α OCH 3 H3CO OCH 3 OCH 3 23 Tra i prodotti della demolizione, si individuano aldeidi e chetoni piú semplici. OH O CHO H3CO OCH3 H3CO OCH3 OCH3 Il meccanismo intimo della reazione passa attraverso cationi radicali degli anelli aromatici, che si possono ottenere per azione di LiP, MnP, e ROS. Alternativamente, la struttura molecolare della lignina può essere non solo frammentata, ma anche ‘semplificata’ sempre per demolizione ossidativa, mediata per esempio da LiP, MnP, LC, o ROS: LIGNINA LIGNINA LiP, LC, MnP, ROS H3CO OCH3 OH H3CO OCH3 O La formazione di un radicale fenossile può essere il punto di partenza nella demolizione ossidativa della lignina 24 LIGNINA LIGNINA C H3CO OCH3 O2–· H3CO OCH3 O O La reazione col superossido produce un intermedio diossetanico molto instabile: LIGNINA LIGNINA Spontanea OCH3 H3CO H3CO COOMe COOH O HO O L’intermedio diossetanico si traforma spontaneamente e rapidamente in un derivato dell’acido muconico, a catena aperta. 25 LIGNINA LIGNINA O2–·, altre ROS COOH H3CO COOMe COOH + CO2, H2O, CH3OH HCOOH, (COOH)2 L’azione successiva delle ROS sul derivato muconico ne demolisce completamente la struttura Nello schema precedente si vede come un’unità siringilica di una molecola di lignina venga gradualmente demolita dando luogo a CO2, metanolo, e acidi organici semplici facilmente assimilabili dal fungo. Al termine della demolizione ossidativa, al posto del gruppo siringilico resta un semplice carbossile. La demolizione delle unità cumariliche e guaiaciliche segue un meccanismo analogo. La graduale introduzione di gruppi carbossilici in concomitanza con la semplificazione molecolare causata dalla demolizione ossidativa aumenta la solubilità della lignina e ne facilita l’ulteriore biodegradazione. Tale biodegradazione è facilitata dalla esistenza contemporanea della demolizione ossidativa delle strutture aromatiche e della scissione, sempre ossidativa, dei legami Cα–Cβ. 26 Ci si può chiedere da dove si originino i polifenoli che per azione della laccasi si trasformano nei radicali fenossilici la cui chinonizzazione successiva con meccanismo radicalico origina le ROS. A parte il fatto che le lignocellulose contengono comunemente vari composti di natura fenolica, capaci di indurre la produzione di laccasi, i Pleurotus sono enzimaticamente attrezzati a fronteggiare anche l’eventualità di assenza di polifenoli. In questo caso possono secernere il flavoenzima ArilAlcool Ossidasi AAO, chiamata spesso VeratrilAlcool Ossidasi (VAO) perché l’alcool veratrilico (alcool 3,4-dimetossibenzilico) è un suo substrato elettivo. In assenza di polifenoli, se il fungo riconosce la presenza di composti organici richiedenti la formazione di ROS per la demolizione ossidativa (per esempio la lignina, appunto), può sintetizzare e secernere piccole quantità di alcool veratrilico o composti simili, che sono ossidati dalla VAO appositamente prodotta. Tali alcoli aromatici sono allora ossidati alle corrispondenti aldeidi, mentre l’ossigeno molecolare necessario è ridotto a H2O2 (differenza dalle laccasi, che invece lo riducono a H2O). Le aldeidi aromatiche prodotte sono riciclate da un flavoenzima di membrana NAD(P)H dipendente, l’aldeide aromatica reduttasi, che le trasforma daccapo in alcoli aromatici. Sembrerebbe di avere a che fare con un ciclo futile, se non fosse che tutto il meccanismo è una sorta di fabbrica chemoenzimatica extracellulare di H2O2. Tale H2O2 costituisce un precursore di ROS grazie alla reazione di FENTON, combinata con quella di HABER-WEISS: Reazione di FENTON: Mn+ + H2O2 M(n+1)+ + OH− + OH• dove M indica lo ione di un metallo di transizione capace di ciclo redox monoelettronico (Fe, Co, Cu, Mn, Mo, V). Lo ione piú comunemente coinvolto in condizioni fisiologiche è Fe2+. Reazione (ciclo) di HABER-WEISS: H2O2 + OH• → H2O2 + O2−• → H2O + O2−• + H+ O2 + OH− + OH• 27 Si vede quindi che l’azione della VAO combinata con quella dell’aldeide aromatica reduttasi produce, di fatto, una miscela di ROS capace di degradare la lignina. La reazione di HABER-WEISS non avviene se non in presenza di tracce di ioni di metalli di transizione come sopra. Aldeide Aromatica Reduttasi VAO Aldeide Aromatica NAD(P)H + O2 Alcol Aromatico NAD(P)+ + H+ H2O2 Fe2+ Alcol Aromatico Fe3+ LIGNINA Ossidazione Depolimerizzazione Solubilizzazione Citoplasma Alla escrezione di VAO segue poi quella di LC. Infatti, non tutta l’aldeide veratrica prodotta è riciclata dall’aldeide aromatica reduttasi, ma una parte per azione delle ROS presenti viene ossidata ad acido veratrico: CHO H 3 CO H 3 CO H 3 CO OCH 3 COOH COOH OCH 3 OH L’acido veratrico è demetilato da una veratrico demetilasi extracellulare specifica ad acido vanillico. 28 Quest’ultimo è induttore della laccasi (nonché suo substrato) per questo si osserva che la VAO gradualmente scompare dal mezzo di coltura del fungo e viene a poco a poco sostituita dalla LC. Ma non è ancora finita: l’azione della LC sull’acido vanillico può dar luogo a una decarbossilazione ossidativa che produce metossibenzochinone: O COOH H3CO H3CO O OH Il metossibenzochinone può essere ridotto a metossibenzochinolo dalla QR: NAD(P)H, QR O OH H3CO H3CO O OH O2, LC 29 La LC riossida il metossibenzochinolo a metossibenzochinone, formando un metossibenzosemichinone che è un radicale molto reattivo: O C OCH3 OH Questo può subire una reazione di disproporzione che riforma metossibenzochinone e metossibenzochinolo, oppure si ossida reagendo con ossigeno molecolare, secondo il seguente schema: QH • + QH • Q + QH2 QH • + O2 QH2 + HO2 • QH • + HO2 • Q + HO2 • QH • + H2O2 Q + H2O2 Nello schema, QH2 è il metossibenzochinolo, Q è il metossibenzochinone, e QH• il metossibenzosemichinone. La contemporanea formazione di perossido e superossido è in grado di spiegare la generazione del radicale idrossile, secondo lo schema di HABER-WEISS. Sembrerebbe di essere in presenza di un ciclo futile: QR riduce e LC riossida, all’infinito, consumando ossigeno e NAD(P)H. Il NAD(P)H viene in definitiva sottratto al bilancio energetico della cellula, cosicché tale ciclo sembrerebbe non solo inutile, ma anzi dannoso. In realtà l’ossidazione è come detto un processo radicalico e libera in continuazione ROS. Queste aggrediscono la lignina, la demoliscono ossidativamente e tra gli altri prodotti formano pure l’acido vanillico visto sopra. Il risultato complessivo dell’intero processo porta alla demolizione della lignina e alla formazione 30 di piccole molecole solubili che il fungo assimila e avvia nei convenzionali metabolismi (Ciclo di KREBS, β-ossidazione) come nell’esempio seguente: OH COOH O2 O O COOH COOH COOH CH3COSCoA OH O O H2O COOH COOH O HOOCCH2CH2COSCoA Nello schema il catecolo è scisso ossidativamente da una diossigenasi intracellulare ad acido muconico, il quale con una serie di isomerizzazioni enzimaticamente catalizzate produce infine l’acido succinacetico, che dà luogo in definitiva ad acetil coenzima A e succinil coenzima A. Alternativamente, l’acido vanillico è ossidato dalla laccasi e demetilato a 4-carbossibenzochinone, con eliminazione di metanolo. Il 4carbossibenzochinone non è stabile e si degrada spontaneamente producendo piccole molecole alifatiche che il fungo può assimilare: COOH COOH O2 + OMe OH LC CH3OH O O Il 4-carbossibenzochinone è anche un forte ossidante e puè agire da mediatore redox secondo la logica già vista. La laccasi appartiene tipicamente agli enzimi inducibili, ossia a quegli enzimi che sono prodotti solo in risposta alla presenza dei loro substrati, che fungono quindi da induttori. I Pleurotus rispondono prontamente alla presenza di lignina producendo laccasi. In realtà questi funghi producono comunque anche 31 piccole quantità di una laccasi costitutiva, ossia indipendente dalla presenza o meno di induttori. La lignina non rappresenta l’unico induttore noto per la laccasi di Pleurotus: infatti, molte altre sostanze di natura chimica aromatica svolgono con maggiore o minore efficienza lo stesso ruolo. Si possono citare l’acido vanillico già visto, l’acido ferulico, l’acido gallico, la 2,5xilidina: COOH COOH NH2 CH3 OMe OH Acido Ferulico OH HO H3C OH Acido Gallico 2,5-Xilidina Piú recentemente sono state individuate alcune laccasi fungine in cui gli ioni cuprici sono parzialmente sostituiti da altri ioni metallici. Per esempio in P. ostreatus oltre alla normale laccasi azzurra è prodotta una laccasi bianca contenente uno ione cuprico, due ioni zinco Zn2+ e uno ione ferrico Fe3+. La funzione degli ioni zinco (incapaci di cambiare stato di ossidazione) rimane ignota. Una laccasi gialla è stata isolata da Panus tigrinus (Bulliard: Fries) Singer = Lentinus tigrinus (Bulliard: Fries) Fries. In questo caso non è disponibile alcuna informazione sugli ioni metallici legati. Secondo alcuni Autori, la laccasi gialla deve il proprio colore al fatto di essere stata alterata da chinoni, formati nel liquido di coltura del fungo, e capaci di legarsi covalentemente ed irreversibilmente all’enzima. Non è nemmeno noto se tale laccasi sia originariamente blu o bianca. Nel caso del P. sajor caju è stato recentemente scoperto che l’acido 4idrossibenzensolfonico (come sale sodico) HBS si comporta da potente induttore per la laccasi. Questo non è sorprendente in quanto è presente un gruppo 4-idrossifenile che riprende il motivo strutturale 4idrossifenilico della lignina cumarilica. E’ invece interessante notare che si tratta del primo induttore gratuito noto per la laccasi: il composto 32 induce la produzione di enzima, ma non essendo substrato non è metabolizzato e permane a tempo indeterminato nel liquido di coltura, continuando a esercitare la propria azione. Il gruppo solfonico lo rende molto solubile in acqua e praticamente atossico. A differenza di altri induttori convenzionali, l’HBS induce una laccasi bianca. Coltivare Pleurotus in laboratorio In linea di massima i Pleurotus sono facilissimi da coltivare in laboratorio, con l’eccezione di P. eryngii che si dimostra comparativamente piú lento e piú sensibile alle condizioni colturali e ai competitori. Si utilizza di norma un micelio secondario ricavato sterilmente da uno sporocarpo freschissimo e intatto. La riproduzione di miceli primari dalle spore o l’ottenimento di miceli secondari per unione di appropriati miceli primari sono procedure complesse e piú adatte a laboratori di micologia specializzati. I miceli secondari ottenuti come detto sopra da sporocarpi sono invece adattissimi a semplici esperimenti di induzione e produzione enzimatica. Essi costituiscono veri e propri cloni che possono essere riprodotti all’infinito per semplice divisione e si mantengono inalterati, se conservati e passati in modi e tempi opportuni, per anni e anni. P. sajor caju si mantiene idealmente in capsule PETRI su terreno agarizzato all’1.5% e contenente estratto di malto (2%) ed estratto di lievito (0.5%), e un po’ di tampone potassio fosfato a pH 6 (per esempio 10 ml di tampone 1 M per litro di terreno di coltura). L’estratto di malto è piú conveniente rispetto a glucosio o maltosio puri perché gli oligosaccaridi in esso contenuti (maltodestrine) garantiscono al micelio il rilascio graduale di zuccheri semplici durante tutto il tempo (un mese circa) necessario per la coltura. Il fungo è in grado di sintetizzare tutti i propri componenti biologici azotati (aminoacidi, basi puriniche e pirimidiniche, vitamine) partendo dallo ione ammonio NH4+. Quindi potrebbe essere alimentato per esempio con solfato ammonico (NH4)2SO4. Tuttavia il processo di biosintesi impegna fortemente l’apparato metabolico del fungo e non garantisce condizioni di sviluppo ottimali. Per questa ragione si preferisce fornirgli estratto di lievito, che contiene una complessa miscela di aminoacidi, peptidi, proteine, acidi nucleici e vitamine. Si osserva allora uno sviluppo veloce e molto rigoglioso. 33 Il micelio invade in pochi giorni l’intera capsula coprendola di uno spesso feltro di ife bianche fittissime, dalle caratteristiche giunzioni a fibbia facilmente osservabili con il microscopio ottico anche a basso ingrandimento. A questo punto le capsule possono esse chiuse con film da laboratorio e conservate per qualche settimana in frigorifero. Dalle piastre ben colonizzate si ricavano sterilmente porzioni di terreno agarizzato e coperto di micelio che possono essere trasferite in beute contenenti un appropriato terreno di coltura liquido. Le beute non devono essere riempite eccessivamente di liquido per garantire un’elevata superficie di scambio gassoso con l’aria sovrastante. Il terreno liquido è eguale a quello agarizzato, tranne che per l’ovvia omissione dell’agar-agar. Nel giro di alcuni giorni si sviluppa un abbondante micelio aereo che galleggia sulla superficie del liquido; le ife non si spingono in profondità nel mezzo di coltura a causa del loro metabolismo strettamente aerobio. Micelio sommerso si ottiene facilmente a patto che le beute sono convenientemente agitate per garantire una sufficiente ossigenazione. Talvolta il micelio può arrivare a produrre piccoli sporocarpi in piastra o anche in beuta. Ciò non influisce piú di tanto sui successivi esperimenti di induzione. L’inquinamento accidentale delle beute si rende di solito evidente per il diverso aspetto dei funghi estranei. Questi mostrano comunemente una crescita velocissima, l’aspetto delle ife è diverso (mancano di solito le giunzioni a fibbia), e spesso, trattandosi di muffe, entro pochi giorni producono abbondante sporata grigia, verde o nera (il micelio di Pleurotus resta invece bianco o al piú color crema chiaro). L’inquinamento da lieviti o batteri si manifesta invece con la formazione di colonie mucose o collose che soffocano il fungo. L’induzione enzimatica Quando i miceli fungini sono ben sviluppati entro le beute è possibile aggiungere a ciascuna coltura qualche induttore della laccasi. Si possono usare singoli induttori o anche miscele; conviene preparare a parte soluzioni concentrate e poi aggiungerle sterilmente alle colture. Le quantità devono essere determinate sperimentalmente; quantità troppo basse hanno un’azione modesta e transitoria (la maggior parte degli induttori sono anche substrati della laccasi, quindi, quando sono consumati 34 l’azione induttrice viene a cessare). Quantità eccessive invece possono svolgere un’azione tossica sul fungo, bloccandone la crescita o addirittura uccidendolo. Rispetto a queste considerazioni, un’eccezione è rappresentata dall’acido 4-idrossi-benzenesolfonico, che come detto è un induttore gratuito e mostra una tossicità molto bassa. Periodicamente piccoli campioni dei mezzi di coltura sono prelevati sterilmente e analizzati per determinarne l’attività enzimatica. Il confronto dei risultati permette di individuare gli induttori piú efficienti, e anche l’eventuale mancata induzione. Naturalmente vanno allestite colture di controllo senza induttori per valutare la eventuale produzione di laccasi costitutiva. La misura dell’attività si compie nel modo migliore per via fotometrica, utilizzando un substrato sintetico cromogenico: la siringaldazina (azina dell’aldeide siringica o 4-idrossi-3,5-dimetossibenzaldeide). Questa sostanza di colore giallo chiaro è specificamente ossidata dalla laccasi al corrispondente chinone, di colore rosso fuchsia intensissimo (ε = 65.000 M-1cm-1, λmax = 525 nm). Dato l’altro valore di ε, la misura è sensibilissima e spesso è richiesta una diluizione preliminare del campione da saggiare. Non si formano sottoprodotti e il composto colorato è sufficientemente stabile da permettere una misurazione quantitativa piuttosto precisa. OH O OMe MeO N H H N N MeO H OMe OH Siringaldazina OMe MeO H N MeO OMe O Siringaldazinchinone 35 Si prepara una soluzione alcolica 1 mM di siringaldazina, e se ne usano 100 μl per cuvette da 1 ml. La reazione avviene idealmente a pH = 6, da ottenere diluendo (se necessario) il campione da analizzare con tampone potassio fosfato 50 mM, pH =6. Purificazione e caratterizzazione Le laccasi fungine sono di solito proteine acide, con pI tra 3 e 5, pertanto è possibile purificarle per cromatografia a scambio anionico, utilizzando dietilaminoetil cellulosa (DEAE-cellulosa) come scambiatore. Al solito, si equilibra lo scambiatore col tampone potassio fosfato diluito (50 mM), e si carica la soluzione enzimatica grezza. L’enzima è legato e può essere eluito per incremento della forza ionica (ottenuto aggiungendo quantità opportune di NaCl al tampone di eluizione). Le laccasi fungine esistono di solito come miscela di isoenzimi, differenti in funzione dell’eventuale induttore presente. Queste differenze possono essere facilmente evidenziate per mezzo di elettroforesi nativa (ossia eseguita in condizioni non denaturanti). E’ possibile colorare le proteine con coloranti convenzionali per elettroforesi come il Blu Brillante R-250, e confrontare i risultati con una colorazione per attività (si può usare ancora la siringaldazina, oppure qualche altro substrato cromogenico come la 4-dimetilaminoanilina (ADA), o anche la diidrossifenilalanina (Dopa) o la corrispondente ammina (Dopamina). Nel primo caso si ottengono bande fuchsia, con l’ADA viola, con dopa e dopamina marrone nerastro. Le lastre elettroforetiche ottenute con le ultime due sostanze possono anche essere essiccate e conservate in quanto la colorazione ottenuta è piuttosto stabile nel tempo. Precauzioni di sicurezza L’intero ciclo di lezioni di laboratorio richiede il rispetto di alcune elementari norme di sicurezza, che insieme al comune buon senso rappresentano il modo migliore per prevenire incidenti. In generale, si deve notare che il laboratorio è un luogo potenzialmente pericoloso, nel quale non sono ammesse attività diverse da quelle didattiche esplicitamente indicate dal Docente e dai suoi collaboratori. Gli studenti sono tenuti a seguirne scrupolosamente le indicazioni. Non sono ammesse attività ed esperienze diverse se non esplicitamente e 36 preventivamente approvate dal Docente. In laboratorio non sono consentiti scherzi e falsi allarmi di alcun genere. Al contrario, qualsiasi anomalia e/o incidente e/o malesere connesso all’attività didattica deve essere tassativamente e tempestivamente comunicato al Docente o al Personale del laboratorio. In laboratorio non si fuma, non si consumano cibi e bevande, non ci si trucca. Non si assaggiano e non si annusano reagenti per nessuna ragione. E’ vietato pipettare a bocca. E’ obbligatorio indossare il camice di cotone. Nel dettaglio, i Pleurotus sono funghi innocui (BL 1), capaci di produrre sporocarpi commestibili. Non è quindi necessaria alcuna particolare precauzione, oltre alle usuali norme igieniche, nella manipolazione, propagazione, e coltivazione. Il ciclo vitale del fungo, ai fini dell’esperienza prevista per il Corso, non prevede la sporificazione e comunque non crea le condizioni per l’inalazione anche involontaria di spore, pertanto sono ragionevolmente esclusi sensibilizzazioni, allergie et similia. Attenzione a scottature e rischio di incendio durante la flambatura (becco a gas acceso!), necessaria per la manipolazione delle colture fungine. La preparazione dei terreni di coltura prevede l’impiego di componenti di tossicità bassa o nulla, ma talvolta irritanti per contatto cutaneo. Nel caso degli induttori, bisogna considerare che alcuni sono dotati di tossicità non trascurabile. La soluzione di acrilamide utilizzata per preparare i gel elettroforetici è altamente tossica; per questo è necessario indossare gli appositi guanti durante la preparazione. L’uso costante di questi è comunque altamente consigliabile, per norma prudenziale, ogni volta che sia necessario pesare, dispensare, e disciogliere qualsiasi reattivo. Eventuali contaminazioni con soluzioni e reagenti vanno trattate immediatamente con acqua e sapone; bisogna togliersi di dosso senza indugio gli indumenti contaminati. TEMED, ditionito, mercaptoetanolo, formaldeide sono sostanze tossiche e maleodoranti, il cui uso deve tassativamente avvenire solo sotto la cappa aspirante accesa. I rifiuti derivanti dagli esperimenti non si gettano in pattumiera. Chiedere al Personale del laboratorio come smaltire in sicurezza reagenti, vetreria, carta e plastica da laboratorio. 37 * Tirosinasi * * * * Tra i funghi del marciume bianco, uno dei piú noti e importanti dal punto di vista alimentare è il prataiolo coltivato o champignon Agaricus bisporus (Lange: Singer) Imbach (= Psalliota bispora Lange). Questo fungo produce laccasi bianca extracellulare, ma la sua capacità di degradare la lignina è comparativamente modesta. Può infatti essere coltivato in laboratorio su lignocellulose, ma con crescita lenta e basse rese. Vive invece idealmente su stallatico fermentato, meglio se equino, e questo rappresenta il substrato per la coltivazione industriale. Non a caso, i prataioli selvatici delle varie specie non si trovano mai in natura su lignocellulose ma nei campi concimati con stallatico o nei boschi particolarmente ricchi di humus maturo. L’interesse per l’enzimologia di A. bisporus non risiede tanto nella sua (modesta) capacità di secernere laccasi (bianca), bensí nel fatto che gli sporocarpi, normalmente candidi ma talvolta nocciola (nella varietà cremino), tendono rapidamente a imbrunire e annerire se meccanicamente danneggiati. Questo fatto, comune a molti vegetali, ne abbassa considerevolmente il valore commerciale, in quanto giustamente il consumatore lo associa a cattiva o troppo lunga conservazione, e tende a scartare gli esemplari non perfettamente candidi. La responsabilità del fenomeno dell’imbrunimento è da attribuire a un particolare cuproenzima, diverso dalla laccasi, e noto come tirosinasi. Si tratta di una proteina contenente due ioni cuprici del tipo spettroscopico III, quindi accoppiati antiferromagneticamente, tanto è vero che l’enzima altamente purificato è pressoché incolore. Ciascuno dei due ioni cuprici nel sito attivo dell’enzima è coordinato da tre anelli imidazolici, appartenenti ad altrettanti residui di HIS, come d’altra parte si osserva nei corrispondenti ioni cuprici di tipo III della laccasi. Uno ione OH- a ponte tra i due ioni cuprici è presente nella forma ‘normale’ dell’enzima, quella comunemente isolata dalle fonti naturali. Si parla di forma met. Nel ciclo catalitico, l’enzima met si riduce assumendo due elettroni: i due ioni cuprici divengono cuprosi, e si parla di forma deoxy. Questa reagisce immediatamente con l’ossigeno molecolare formando la forma oxy, in cui la molecola di ossigeno forma un ‘ponte’ (sotto forma di dianione perossido O22- fortemente legato). Una struttura identica a quella descritta si 38 ritrova nella cuproproteina emocianina, che trasporta l’ossigeno in molluschi e in artropodi. Tirosinasi e laccasi da un lato, ed emocianina dall’altro rappresentano un bell’esempio di come la Natura possa sfruttare lo stesso motivo strutturale (una coppia di ioni cuprici coordinati da residui di HIS e accoppiati antiferromagneticamente) per svolgere due funzioni diversissime, rispettivamente una funzione catalitica enzimatica e il trasporto dell’ossigeno. La tirosinasi si chiama anche piú spesso polifenolossidasi (PPO). E’ un enzima che, a differenza della laccasi, la quale è relativamente poco diffusa negli organismi viventi, è pressoché ubiquitario tra animali, piante, microrganismi. La PPO si caratterizza per poter idrossilare la tirosina, trasformandola in dopa (diidrossifenilalanina), a spese dell’ossigeno molecolare: COOH COOH NH2 NH2 PPO O2 OH Tirosina OH OH Dopa Quindi, a differenza della laccasi che di norma ossida polifenoli ai corrispondenti chinoni, la tirosinasi svolge una funzione di ortoidrossilazione, ossia introduce un gruppo –OH al posto di un idrogeno su un anello aromatico, in posizione orto rispetto a un –OH già presente. La tirosinasi è in grado anche di catalizzare una seconda reazione: la trasformazione dell’orto-difenolo nel corrispondente orto-chinone: 39 COOH COOH NH2 NH2 O2 OH O PPO OH O Dopa Dopachinone Le due attività si chiamano rispettivamente attività monofenolasica (anche tirosinasica o cresolasica) e attività difenolasica (anche catecolasica). Di solito l’attività difenolasica è maggiore di quella monofenolasica, che in molte PPO vegetali è quasi o completamente assente. Inoltre l’attività monofenolasica è tipicamente soggetta a un ritardo (solo dopo un po’ l’enzima comincia a trasformare la tirosina in dopa), ritardo detto tempo di induzione (o in inglese lag time). In definitiva, dopo un tempo sufficiente la tirosina è trasformata in dopachinone. Questo tempo di induzione è ridotto o anche annullato in presenza di piccole quantità di difenoli o anche di altri agenti riducenti. Il tutto dipende dal fatto che l’attività catecolasica può essere esercitata indifferentemente dalla forma met e da quella oxy, mentre l’attività monofenolasica è esclusiva della sola forma oxy (presente in piccola quantità nell’enzima ‘a riposo’, che è quasi tutto nella forma met. La forma deoxy si può osservare solo in assenza di ossigeno). Al contrario delle laccasi, le PPO non vengono di norma secrete perché sono tipici enzimi intracellulari. La PPO di prataiolo coltivato si ottiene disintegrando con l’aiuto di un normale frullatore casalingo dei prataioli perfettamente sviluppati e ben freschi, in presenza di tampone potassio fosfato o sodio acetato, a pH leggermente acido (tra 5 e 6). La leggera acidità rallenta la chinonizzazione dei fenolici presenti abbondantemente nel fungo, e quindi l’omogenato risultante annerisce solo dopo un po’ di tempo. L’annerimento può essere prevenuto anche piú efficacemente dall’aggiunta di un inibitore naturale della tirosinasi, l’acido ascorbico o vitamina C. La combinazione naturale di acido citrico e acido ascorbico 40 presente nel succo di limone spiega l’efficacia della procedura casalinga di prevenzione dell’annerimento di funghi, mele, carciofi, etc. Per la misurazione dell’attività, si utilizza una soluzione di tirosina, che si ossida in presenza dell’enzima a dopachinone. Questo evolve spontaneamente a dopacromo rossastro, il quale può essere misurato fotometricamente a 475 nm. Il dopacromo tuttavia non è stabile, ma spontaneamente si trasforma a poco a poco in un polimero nero insolubile, la melanina. Melanine simili si ottengono per azione delle tirosinasi su altri fenoli e/o catecoli naturali. Molte ricerche tendono a individuare inibitori delle PPO che presentino caratteristiche di innocuità ed efficacia compatibili con un loro impiego in àmbito alimentare. 41 COOH NH2 HO N H HO O COOH O Dopachinone Leucodopacromo O2 PPO O HO HO N H COOH Acido 5,6-diidrossiindolcarbossilico O2 HO N COOH Dopacromo PPO O MELANINA O N H COOH Acido 5,6-indolchinoncarbossilico Nello schema sovrastante si segue l’evoluzione del dopachinone sino a melanina. Si può notare che la PPO interviene in almeno altri due passaggi, mentre dove non diversamente indicato si tratta di reazioni che non necessitano di catalisi enzimatica (sono però rallentate dall’abbassamento del pH e accelerate dal suo innalzamento).