umanesimo e rinascimento

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UMANESIMO E RINASCIMENTO
CENNI STORICI
La civiltà rinascimentale è storicamente caratterizzata dalla formazione degli Stati e dall’ascesa della borghesia mercantile. Mentre il Medioevo aveva vissuto all’ombra delle grandi strutture universali (Papato e
Impero), la nuova epoca vede la fioritura di numerosi soggetti politici (Stati nazionali o regionali) che
porteranno ben presto alla necessità di un nuovo equilibrio in Italia e in Europa. Anche l’economia subisce
cambiamenti rilevanti, già preparati dall’esperienza comunale, e da «chiusa » diviene « aperta », grazie alla
formazione di una nuova borghesia, dinamica e interessata all’accumulazione di capitali. La prassi
economica e la mentalità quotidiana avevano già mostrato un sensibile mutamento nelle fasi conclusive dell’età
medievale, ma era mancata una « riformulazione teorica» coerente con la nuova sensibilità. L’Umanesimo
rinascimentale intende essere una cultura nuova e aliena da compromessi con il passato prossimo: essa «sceglie
il proprio passato» e lo trova nell’antichità classica.
LA « NOVITÀ » DEL RINASCIMENTO
Nel XIV secolo, la struttura medievale del mondo europeo e l’atteggiamento culturale che la fondava
iniziano a dissolversi: nell’arco dei tre secoli successivi si formerà la concezione moderna. Il processo in
questione per quanto graduale è uno dei più radicali vissuti dalla storia occidentale, tanto che sono sorte
diverse interpretazioni al suo riguardo. L’ipotesi di una rottura radicale tra Medioevo e Rinascimento è stata
proposta dal celebre storico svizzero Jakob Burckhardt (1818-1897) ma ha presto trovato numerosi oppositori.
Alcuni hanno fatto notare che molte delle caratteristiche rinascimentali erano già presenti precedentemente; altri
sostengono che di « rinascite » ve ne furono molte nel Medioevo stesso. Entrambe le ipotesi hanno un solido
fondamento, ma richiedono alcune precisazioni: il Medioevo non fu in assoluto un’epoca buia, né per il
pensiero né per l’arte. Resta però il fatto che molti intellettuali rinascimentali lo ritennero tale per necessità
polemica: il nuovo doveva infatti enfatizzare la sua distanza da ciò che aveva appena sostituito. E una nuova
sensibilità che sorge e che guarda alla realtà in maniera profondamente diversa dalla concezione medievale,
anche se dopo quasi sei secoli è possibile cogliere qualche elemento di continuità e di eredità nei confronti del
passato. Non sorge dunque « la civiltà », in contrapposizione a una precedente barbarie, bensì una nuova
civiltà che gli uomini del Rinascimento sentono fortemente diversa dalla propria. L’esperienza
dell’Umanesimo e del Rinascimento nasce come frutto di un movimento che tenta di liberare la vita dello spirito
dalla tutela della Chiesa, di togliere le limitazioni monastico-ascetiche imposte allo sviluppo della persona, di
scoprire i valori della vita terrena nello Stato, nell’economia, nelle arti, nella letteratura e nella scienza.
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CENTRALITÀ DELL’UOMO « NATURALE »
Il carattere peculiare della visione rinascimentale è sicuramente l’antropocentrismo: la centralità dell’uomo deriva dal fatto che egli « è fabbro di se stesso », poiché è l’unica creatura dotata della capacità di progettare il
proprio ruolo nella realtà in mille forme differenti. Non è questa, però, un’epoca di ateismo: esprime anzi una
profonda religiosità, ma tende sempre più a evidenziare il ruolo dell’uomo e a mettere in secondo piano quello
di Dio, che, sempre presente, non è tuttavia più al centro della realtà. Anche nel Medioevo l’uomo era
considerato come il « centro » della creazione, ma questa collocazione esaltava la grandezza e la misericordia di
Dio creatore e redentore e non spingeva alla celebrazione delle capacità umane. L’uomo rinascimentale vive
invece in una sostanziale autonomia nei confronti di Dio e, pur non negandone l’esistenza, ha come orizzonte la
realtà naturale: il genio la personalità creatrice è posto in primo piano e la Natura viene vista come « vivente-in-sé », perdendo il senso della sua creaturalità. La verità non è più garantita dall’autorità, ma viene a
coincidere con ciò che si presenta come naturale.
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IL RAPPORTO CON I « CLASSICI »
Il Rinascimento è animato da una forte volontà di «ritorno alle origini », allo scopo di superare la visione del
mondo tipica della Scolastica medievale e di rinnovare il rapporto dell’uomo con se stesso, il mondo e Dio.
Tutto ciò si traduce in un « ritorno ai classici » che si manifesta con il recupero della lingua latina di età
aurea, con un rinnovato culto dell’eloquenza, con una sincera adesione a tematiche morali e civili proprie
della cultura latina. Non bisogna però pensare che gli uomini del Rinascimento rifiutino di sottomettersi
all’«autorità » della cultura medievale per accettare acriticamente la visione dei classici. Essi operano continui
confronti fra Platone e Aristotele, Cicerone e Quintiliano, tra costoro e i contemporanei: la « classicità »
diviene un criterio di giudizio utilizzato con estrema libertà. Nella seconda metà del Quattrocento e nel
Cinquecento si diffonde la coscienza che, se i classici sono espressione della giovinezza dell’umanità, i moderni
possiedono una maggiore esperienza che permette loro di raggiungere risultati ancora più elevati. La riscoperta
delle humanae litterae, con la corrispondente perdita di importanza della dialettica e della teologia, non
rappresenta semplicemente un fenomeno « letterario », ma risponde a una precisa scelta teoretica. Il Medioevo
concepiva la realtà come una totalità già compiuta in quanto creata della quale l’uomo poteva
comprendere il senso solo rifacendosi a un ambito che superava quello umano: in sostanza, anche la
comprensione della realtà era affidata all’indagine teologica. Nel Rinascimento viene sottolineato
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soprattutto l’al di qua e, per comprenderlo, occorre riflettere sull’uomo e sulla sua vita attiva attraverso la
letteratura e l’etica. Anche quest’ultima torna ad essere vista secondo le coordinate tradizionali del mondo
classico: la virtù è per la felicità, la quale coincide con la realizzazione armonica delle capacità dell’uomo. Il
successo terreno acquista il significato di una verifica delle possibilità dell’individuo; la ricerca della fama
non è semplicemente mossa dal desiderio di distinguersi dagli altri, bensì dalla necessità di una conferma del
proprio valore. L’uomo è ricondotto a una concezione « naturale » che non intende affatto escludere la coscienza
di un « destino ultraterreno », ma semplicemente ricostruire una visione della realtà libera da presupposti
metafisici e teologici.
La cultura classica è perciò ammirata e riscoperta proprio perché ritenuta la più vicina alla condizione naturale
dell’uomo; ma, seppure senza averne piena coscienza, si opera uno spostamento decisivo dalla visione cristiana
ancora formalmente condivisa a un pensiero e a una sensibilità precristiane e propriamente pagane. Anche il
Medioevo conosceva e apprezzava la cultura classica, ma ne inseriva gli elementi principali nel sistema teologico-cristiano, deformandone spesso il significato: la parola dei filosofi greci e latini appariva come la
preparazione profetica della Rivelazione, ma non era collocata nella sua specificità.
Nel Rinascimento nasce la prospettiva storica, intesa come capacità di collocare ogni autore nel proprio ambito, tenendo conto delle differenze con il presente. Lo sviluppo della filologia, che permette di analizzare
scientificamente i testi, affonda le proprie radici nel desiderio di cogliere la specificità di ogni opera, prima ancora di inserirla in un contesto culturale unitario. Se nel Medioevo era preponderante una tendenza all’
enciclopedismo che ordinava tutte le conoscenze possibili all’interno di un unico sapere di matrice teologica,
nel Rinascimento ogni disciplina (letteratura, politica, diritto, scienza e anche teologia) inizia a conquistarsi
una propria autonomia e un proprio statuto metodologico.
Il Medioevo analizzava i contenuti culturali come se non fossero inseriti in una concreta dimensione temporale
ma in una « storia ideale eterna »; il Rinascimento formula invece l’idea di una continuità negli
avvenimenti storici e prepara il concetto moderno di progresso. Alla venerazione per l’auctoritas viene
sostituita la convinzione che gli uomini del presente sono superiori a quelli del passato, anche solo per il fatto
che possono utilizzare le conoscenze da loro acquisite.
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LA RELIGIONE UNIVERSALE
Come conciliare la cultura classica riscoperta e il Cristianesimo? Il « divino Platone » e la dottrina di Gesù?
Atene e Gerusalemme? Questa sintesi viene tentata nell’ambito di un’etica universale; a tale scopo è però necessario dimostrare che tutte le religioni e tutti i sistemi filosofici sono soltanto manifestazioni storiche
diverse di una religione comune a tutta l’umanità. La Rivelazione divina tende a essere vista come una
legge morale innestata nell’animo umano: essa, attraverso il Cristianesimo, giunge alla maggiore chiarezza
possibile attorno a verità già note ai tempi antichi. Spostando il centro di gravità sulla dottrina morale (che viene
a identificarsi con la legge naturale), si giunge a una separazione fra etica e religione e si trasforma la
coscienza umana in ultima e definitiva istanza del discernimento tra il Bene e il Male. Inizia così quella forma
di pensiero chiamata SOGGETTIVISMO, che caratterizzerà, in seguito, tutta l’epoca moderna.
GLI UMANISTI
Coluccio Salutati (1331-1406?) sostiene la superiorità delle arti liberali nei confronti dell’analisi della natura e
identifica l’autentica filosofia con la riflessione sulla vita e la testimonianza morale. Socrate, Cristo e S. Francesco hanno testimoniato la loro visione della vita e non si sono dedicati a una sterile contemplazione. La conoscenza delle cose umane è preferibile a quella di chi « alza gli occhi al cielo per la pura speculazione » poiché è
giusto stimare maggiormente la rettitudine morale che la ricerca del vero. E merito di Salutati l’aver ottenuto
l’istituzione della prima cattedra di greco a Firenze.
Leonardo Bruni (1370-1444), discepolo di Salutati, traduce dal greco alcune opere di Platone e Aristotele, Plutarco e Senofonte, Demostene ed Eschine. In questo modo egli arricchisce il contesto letterario e filosofico dell’epoca, introducendovi le ampie riflessioni contenute, per esempio, nell’Etica e nella Politica di Aristotele. La
visione umanistica assume così uno spessore teorico maggiore grazie alle categorie dell’uomo come animale
politico, naturalmente rivolto alla realtà sociale e civile, nonché alla coincidenza del bene con la felicità
realizzata. Il criterio morale risiede nell’uomo buono, non in astratte regole, e, da questo punto di vista, non vi è
alcuna differenza tra filosofi antichi e cristiani poiché tutti concordano su che cosa sia la virtù.
Leon Battista Alberti (1404-1472) si interessa di filosofia, matematica e architettura. Condivide con gli altri
Umanisti il rifiuto di un sapere astratto e orientato verso l’ambito teologico-metafisico. L’uomo deve limitarsi
all’ambito che gli è proprio (morale ed empirico) poiché, in esso, egli è il « creatore » e può realmente
modificare la realtà attraverso l’azione. La virtù è la realizzazione di questa potenzialità creatrice dell’uomo e
può modificare persino i disegni della Fortuna. Nell’ambito naturale, al quale l’Alberti si limita, l’uomo è
veramente « creatore e signore » di una realtà vista ormai in un’ottica nettamente laica.
Platone e Aristotele!
Non solo due sistemi ma anche due tipi diversi di natura umana, che da tempo immemorabile, in tutte le civiltà, si elevano
più o meno ostili l'uno contro l'altro.
Soprattutto durante il medioevo e fino ai giorni nostri si é discusso in questi termini e questa disputa costituisce il contenuto
essenziale della storia della Chiesa cristiana.Infatti, anche se sotto altri nomi, si tratta sempre di Platone e di Aristotele.
Nature entusiastiche, mistiche,platoniche, sprigionano dal fondo della loro sensibilità le idee cristiane ed i simboli
corrispondenti. Nature pratiche costruiscono con queste idee e questi simboli, un solido sistema, una dogmatica, un culto.
La Chiesa alla fine ingloba in sé le due nature, delle quali una si ritrova soprattutto nel clero, l'altra nel monachesimo, senza
che per questo cessino di battersi.
- Heinrich Heine –
Neoplatonismo rinascimentale
CENNO INTRODUTTIVO
Il contesto filosofico del Quattrocento si pone nella scia delle linee speculative proprie dei secoli precedenti e, in
assenza di nuove « sintesi », i pensatori si limitano a intuizioni fertili ma disorganiche.
L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento vede in primo piano la riscoperta del Platonismo. Con questo
termine non si indicano le dottrine platoniche (che nell’antichità non venivano distinte dalla produzione
dell’Accademia e da quella di Plotino), ma si fa riferimento alle incrostazioni prodotte dal Neoplatonismo del III
secolo, riletto alla luce dell’ermetismo e del cristianesimo. Di Platone si conoscevano pochi dialoghi e, anche
quando gli umanisti allargarono notevolmente la conoscenza dei suoi testi, si continuò a interpretarlo in
chiave neoplatonica.
Il Neoplatonismo quattro-cinquecentesco, conformemente al clima dell’epoca, è caratterizzato da un forte
antropocentrismo che situa il pensiero in una prospettiva laica e naturale. Plotino aveva già trovato un
certo seguito nelle concezioni di Scoto Eriugena (IX sec.) e di Meister Eckhart (1260-1327) ma,
fondamentalmente, nel rapporto fra Dio e mondo era sempre prevalsa la centralità del primo. Nel Rinascimento,
invece, Dio tende sempre più ad essere unito panteisticamente alla totalità naturale, esaurendosi al suo
interno: la Divinità è conoscibile solo nella sua immanenza nel mondo, mentre, nella sua trascendenza, resta
assolutamente imperscrutabile. I rappresentanti di questa tendenza ritengono inoltre in polemica con
l’aristotelismo rinascimentale che la cornice del pensiero neoplatonico sia quella più adatta alla rinascita
di una autentica religiosità cristiana. In questa direzione operano Nicola Cusano, Marsilio Ficino (fondatore
dell’Accademia platonica) e Pico della Mirandola.
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Aristotelismo rinascimentale
CENNO INTRODUTTIVO
All’interno del dibattito storiografico sul valore filosofico del Rinascimento, assume un ruolo essenziale la valutazione della tradizione aristotelica, sviluppatasi dalla seconda metà del XIV secolo fino a gran parte del
XVII. Molti storici mossi dall’intenzione di accentuare il distacco della nuova era dal Medioevo hanno
considerato questa « scuola » come un semplice residuo del passato e ne hanno identificato i contenuti con quelli
dell’aristotelismo medievale. Recentemente, nel quadro di una rivalutazione dell’aristotelismo rinascimentale, si
è giunti alla conclusione che il panorama dell’epoca resterebbe incompleto senza un’analisi più approfondita di
esso. Sarebbe infatti riduttivo interpretare la filosofia rinascimentale come una lotta serrata contro
l’aristotelismo in quanto tendenza fondamentale del pensiero medievale: la Scolastica era dominata
soprattutto dalla metafisica e dalla fisica aristoteliche e sono proprio queste tematiche a scomparire
dall’orizzonte per lasciar posto a una riscoperta globale della genuina dottrina peripatetica.
Le interpretazioni basilari dell’aristotelismo erano state fondamentalmente tre: l’alessandrista, da Alessandro di
Afrodisia (III sec.), l’averroista, dal nome del commentatore arabo Averroè (1126-1198) e la tomistica, in
continuità con San Tommaso (1221-1274); nel Rinascimento vengono riproposte tutte e tre, anche se spesso si
assiste a una loro reciproca contaminazione. Le tematiche sviluppate in questo contesto culturale sono
prevalentemente di carattere logico-gnoseologico e fisico; la politica, l’etica e la poetica restano
appannaggio dei filologi neoplatonici. Peculiare è la tendenza che predilige l’esperienza diretta rispetto
alla pura speculazione. Viene poi accentuata la separazione tra l’ambito delle « verità di fede » e quello
delle « verità di ragione ». Quest’ultimo aspetto favorirà il lento distacco della filosofia e delle scienze
dalla teologia, preparando così il terreno per il razionalismo che caratterizzerà i secoli successivi.
L’Aristotelismo si sviluppa maggiormente nel Veneto, e dall’Università di Padova si estende fino a Ferrara e a
Bologna. Il dibattito verte principalmente sulla diversa interpretazione che Averroè e Alessandro di
Afrodisia avevano dato dell’immortalità dell’anima: entrambi negavano l’immortalità dell’anima individuale,
ma mentre Averroe’ tendeva a salvarla attribuendola all’Intelletto divino separato, Alessandro concepiva anche
l’anima razionale come legata al corpo, e dunque mortale.
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