Giustizia e letteratura

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GIUSTIZIA E LETTERATURA
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GIUSTIZIA E LETTERATURA
II
a cura di
Gabrio Forti, Claudia Mazzucato, Arianna Visconti
con il Gruppo di Ricerca del Centro Studi “Federico Stella”
sulla Giustizia penale e la Politica criminale
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Volume pubblicato con i fondi del Centro Studi “Federico Stella”
sulla Giustizia penale e la Politica criminale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
www.vitaepensiero.it
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dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.
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© 2014 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 Milano
ISBN 978-88-343-2679-4
INDICE
Introduzione, Gabrio Forti
Quasi un libro ‘in 3D’. Guida alla lettura di «Giustizia
e letteratura II», Claudia Mazzucato - Arianna Visconti
IX
XIX
parte prima
Il tragico e la giustizia dall’antichità alla modernità
I. Riscritture moderne della tragedia antica
Limite, trasgressione e responsabilità: riscritture moderne
della tragedia antica, Annamaria Cascetta
Limite, trasgressione e responsabilità: la tragedia antica
e le sue riscritture moderne, nella prospettiva del giurista,
Francesco D’Alessandro
4
21
parte seconda
Percorsi di giustizia nella letteratura italiana
I. «I promessi sposi»: dalla retribuzione al perdono
La via stretta. Vendetta, giustizia e perdono nei «Promessi sposi»,
Pierantonio Frare
«I promessi sposi»: quasi un codice della giustizia riparativa,
Luciano Eusebi
II. Contro e in nome dell’Imperatore: due volti
del Risorgimento in letteratura
Silvio Pellico e «Le mie prigioni», Eraldo Bellini
In nome dell’Imperatore, Fausta Garavini
I due colori della giustizia. Rappresentazioni della repressione
del dissenso politico in Austria e in Francia nel XIX secolo,
Stefano Solimano
38
55
82
103
118
VI
INDICE
‘Umanismo’ e Giustizia nel Risorgimento, Alessandro Provera
III. Carlo Collodi e il caso Pinocchio
Il caso Pinokkio: tra menzogna, violenza e perdono, Giovanni
Gasparini
Pinocchio e la fuga impossibile dal «legno storto dell’umanità»,
Gabrio Forti
Della libertà di mentire: a proposito del naso lungo di Pinokkio,
Pierpaolo Astorina Marino
IV. L’«egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera
di Leonardo Sciascia
Mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, a vent’anni
dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, Velania La Mendola
L’«egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo
Sciascia, Roberto Scarpinato
Il potere e il candore: Leonardo Sciascia, un illuminista siciliano,
Pierpaolo Astorina Marino
L’intreccio tra ‘Verità’ e ‘Giustizia’ nelle opere di Leonardo
Sciascia, Marina Di Lello Finuoli
136
156
170
192
198
216
239
256
parte terza
Percorsi di giustizia nella letteratura tedesca
I. «Davanti alla legge»: la giustizia di Franz Kafka
Diritto e castigo: i tribunali di Franz Kafka, Luigi Forte
Franz Kafka e l’impazienza del diritto, Gabrio Forti
266
286
parte quarta
Percorsi di giustizia nella letteratura inglese
I. La legge in mare: Melville da «Benito Cereno»
a «Billy Budd»
Dal testamento di Bardianna alla condanna di Billy Budd.
Traversata dell’oceano melvilliano a uso degli uomini di legge,
Francesco Rognoni
Precetto, valore, sanzione: categorie giuridiche ‘sotto processo’
in Melville, Arianna Visconti
II. Una giuria di pari: detective stories ‘atipiche’
e prospettive di genere sulla giustizia
320
331
VII
INDICE
Giustizia di genere e genere del poliziesco: «A Jury of Her Peers»
di Susan Glaspell, Gianfranca Balestra
«Oh, questi uomini, questi uomini!»: «La cugina Rachele»
di Daphne Du Maurier, Carlo Pagetti
Streghe, avvelenatrici, assassine: donne a giudizio, tra stereotipi
culturali e fallacie cognitive, Arianna Visconti
III. La giustizia indifferente: etica e casualità
nella cinematografia di Stanley Kubrick
Il mondo senza immagini dei giuristi, Claudia Mazzucato
Il ‘conflitto’ tra immagini e parole nella filmografia di Stanley
Kubrick, Gianni Canova
Giustizia privata e giustizia indifferente tra cinema e legge, Remo
Danovi
La giustizia insensata. Sciarade, geometrie, ellissi, Ruggero Eugeni
La giustizia indifferente. Etica e casualità nella cinematografia
di Stanley Kubrick, Carlo Enrico Paliero
«Drughi» di ieri e di oggi. Riflessioni su devianza giovanile
e controllo sociale riguardando «Arancia meccanica», Alain
Maria Dell’Osso
366
379
387
430
466
476
485
494
513
parte quinta
Se questo è un uomo:
narrare la resistenza al disumano
I. «Meditate che questo è stato»: la giustizia di Primo Levi
Comunicazione introduttiva del Centro Internazionale
di Studi Primo Levi al convegno «Se questo è un uomo. Narrare
la resistenza al disumano», Fabio Levi
I.1. Narrazioni della giustizia nell’opera di Primo Levi
«Conforme a giustizia». Intorno a un passo controverso
di «Se questo è un uomo», Alberto Cavaglion
La complicità, l’omissione, il perdono, il rimorso. Aspetti
della giustizia nell’opera di Primo Levi, Mario Barenghi
Storia, memoria, identità. Narrare per sopravvivere, raccontare
per affermare la giustizia, Giovanni Santambrogio
La poesia nel sistema letterario di Primo Levi, Cesare Segre
L’accusatore narrante. L’‘esigenza’ di giustizia in alcune pagine
di Primo Levi, Claudia Mazzucato
Primo Levi testimone processuale. La lingua letteraria come
lingua giuridica, Alessandro Provera
522
526
534
551
566
575
591
VIII
I.2. «Meditate che questo è stato»: riflessioni a partire da
Primo Levi
Narrare per sopravvivere, Alessandro Antonietti
Narrare l’impensabile con le immagini audiovisive, Ruggero
Eugeni
Narrare per testimoniare, narrare per giudicare, Arianna Visconti
Linguaggi nella memoria. Tra crimine e reato nelle realtà
parallele dei carnefici e delle vittime, Andrea Bienati
Deontologia forense e leggi razziali, Remo Danovi
Le leggi del 1938 contro gli ebrei e la balaustrata del poeta,
Saverio Gentile
Negare e punire. Spunti critici sul reato di negazionismo,
Gabriele Della Morte
Modelli di responsabilità individuale e giustizia di transizione.
Il caso delle guardie di confine della Germania democratica,
Pasquale De Sena
II. «Considerate se questa è una donna»: la resistenza
femminile al disumano
La resistenza femminile al disumano: un’introduzione minima,
Luciano Eusebi
«Perdonare Dio». Amore e Giustizia nell’opera di Etty Hillesum,
Roberto Cazzola
Narrare e resistere a Parigi: il Diario di Hélène Berr (1942-1944),
Giovanni Gasparini
«L’armata S’agapò»: il processo al bravo soldato italiano, Antonio
Oleari - Arturo Cattaneo
Le donne e l’esperienza del disumano di fronte alla giustizia
penale internazionale, Paola Gaeta
La narrazione delle donne come via di (ri)composizione
in risposta alla violenza degli oppressori. Silenzi e voci
dall’Argentina, Biancamaria Spricigo
INDICE
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609
616
622
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672
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764
777
III. «Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro
cuore»: sintesi conclusiva
L’ansia disumana del «raggiungimento», Gabrio Forti
794
Gli Autori
827
Il Gruppo di Ricerca del Centro Studi “Federico Stella”
sulla Giustizia penale e la Politica criminale (CSGP)
830
GIANNI CANOVA
Il ‘conflitto’ tra immagini e parole
nella filmografia di Stanley Kubrick*
Tenterò qui una breve introduzione generale all’opera di Stanley Kubrick e un inquadramento della sua filmografia alla luce del tema della
giustizia e della legge, per poi lasciare a Ruggero Eugeni1 – che è maestro a tutti noi per le illuminanti riflessioni che, anche in tempi non recenti, ha scritto su questo regista2 – il compito e l’onere di andare ad approfondire alcune modalità di messa in scena di quei temi nel cinema
di Kubrick.
Vorrei partire da un’osservazione di ordine aneddotico.
Quando Kubrick era ancora vivo, c’era una cosa nei suoi comportamenti pubblici che lasciava un po’ perplessi i professori di cinema e che,
invece, a me ha sempre incuriosito: mi riferisco a come Kubrick insistesse sul divieto di concedere copie dei suoi film in lingua originale coi sottotitoli. Cosa che, invece, viene di regola auspicata e fortemente privilegiata dai professori di cinema. Ai nostri studenti, infatti, quando il film
è – come spesso accade – in una lingua non conosciuta dallo spettatore,
suggeriamo e consigliamo di vederlo in lingua originale con i sottotitoli:
riteniamo che sia questa la modalità di visione filologicamente più corretta nonché, normalmente, più aderente alla volontà espressiva, comunicativa, linguistica ed emozionale dell’Autore.
Kubrick, invece, non ci stava: voleva che i suoi film circolassero doppiati. È notorio il suo perfezionismo; notoria la cura con cui Kubrick seguiva, Paese per Paese, la distribuzione, insistendo: «i miei film devono
girare doppiati». Spesso ci si chiedeva perché – e qui mi collego a un accenno proposto da Mazzucato3: Kubrick voleva che lo spettatore guardasse le immagini, non che leggesse le parole. Voleva che il film fosse fedele alla sua sostanza ontologica: fosse, cioè, prima di tutto, un artefatto visuale, poi anche uditivo (non a caso si parla di audiovisivo). Il gran*
Relazione tenuta in occasione della tavola rotonda dal titolo La giustizia indifferente: etica
e casualità nella cinematografia di Stanley Kubrick, nell’ambito del Ciclo seminariale Giustizia
e letteratura (Law and Literature), III edizione, 10 maggio 2012.
1 Cfr. infra, R. Eugeni, La giustizia insensata. Sciarade, geometrie, ellissi.
2 R. Eugeni, Invito al cinema di Stanley Kubrick, Milano 20023.
3
Cfr. supra, C. Mazzucato, Il mondo senza immagini dei giuristi.
IL ‘CONFLITTO’ TRA IMMAGINI E PAROLE NELLA FILMOGRAFIA DI STANLEY KUBRICK
467
de regista guardava con fastidio al fatto che lo spettatore dovesse essere
sottoposto al ‘rito masochistico’ di altalenare lo sguardo fra le immagini
e le didascalie poste nella parte bassa dell’inquadratura. Non c’era scrupolo filologico: per Kubrick, non c’è parola, non c’è verbo, che possa valere il rischio di compromettere la centralità delle immagini.
Riallacciandomi al pensiero espresso da Mazzucato4, possiamo ‘leggere’ – o meglio: ‘guardare’ – tutto il cinema di Kubrick come la messa in scena di un conflitto perenne – e perennemente riproducibile e riprodotto – tra la parola e l’immagine, tra il verbo e la carne – se vogliamo usare questa metafora –, un conflitto in cui, quasi sempre, è l’immagine a vincere e la parola a soccombere. Kubrick non amava le interviste, non amava esprimersi con le parole, non scriveva lettere; in tutta la
sua vita, praticamente, non ha mai scritto un testo, come se nella sua attitudine intellettuale e cognitiva di fronte al mondo avesse paura dello
scritto e della parola.
Testo chiave della lotta tra la parola e l’immagine è Shining5: un film
evidentemente non riducibile alla lettura rozzamente edipica del conflitto tra un padre e un figlio. Certo, Shining è la storia di un conflitto tra
un padre e un figlio, ma il padre è uno scrittore e, in certo senso, il figlio
è uno spettatore. Il figlio è portatore di una modalità di sguardo, lo shining
– la ‘luccicanza’ – , che fa sì che egli veda in modo diverso da come vediamo attualmente noi tutti.
Chiusi nella solitudine gelata, ghiacciata, nevosa, dell’Overlook Hotel,
il padre-scrittore e il figlio-spettatore sperimentano l’uno – il padre-scrittore – l’inibizione a scrivere, l’altro – il figlio-spettatore – l’iniziazione
a guardare. Dentro la produzione di Kubrick, quindi, Shining è davvero il testo ‘paradigmatico’ che mette in scena e risolve questo conflitto
fra vedere e scrivere, tra immagine e parola, sancendo alla fine il trionfo
dell’immagine sulla parola: la vittoria finale del figlio sul padre è anche
la vittoria dei Lumière su Gutenberg, del regista sullo scrittore.
Per Kubrick, non solo l’immagine è tenuta nel medesimo conto in
cui in genere teniamo la parola, ma è necessario fare i conti con un’immagine che spesso produce un pensiero a cui la parola non è in grado
di accedere, un’immagine che genera percorsi e attiva modalità diverse da quelli a cui arriva la parola.
È vero – come osserva Mazzucato nella sua introduzione6 – che il
mondo della giustizia è aniconico e, forse, addirittura, in certi tratti, iconofobo. Giocando sulla metafora di una giustizia cieca, si ritiene di poter4
Ibidem.
Shining. Titolo originale: The Shining, di Stanley Kubrick (USA-Regno Unito: 1980,
durata originale 146’).
6
Cfr. supra, C. Mazzucato, Il mondo senza immagini dei giuristi.
5
468
GIANNI CANOVA
si sbarazzare, a priori, di tutta la dimensione del visuale, conferendo alle
parole un potere di esercizio che – credo – Kubrick non avrebbe amato
e gradito, proprio perché il suo modo di produrre cinema e immagini
sancisce, invece, quel conflitto immagine/parola con la supremazia della prima sulla seconda. Insomma: nel paradigma culturale contemporaneo, nella ‘mediasfera’ contemporanea, l’immagine spesso ha una potenza comunicativa, emozionale, ma anche epistemologica, che supera
la parola. Su questo, tornerò ancora tra poco.
Che tipo di regista era Stanley Kubrick? Qual era la sua ‘magnifica ossessione’?
Riferendomi agli studi di Michel Ciment7, ciò che ha ossessionato
Kubrick nel corso di tutta la sua carriera è il problema del trattamento
del tempo. Il tempo era la sua ossessione primaria; il controllo e il dominio dello spazio spesso erano le modalità scelte da Kubrick per sfuggire a simile ossessione. L’attenzione al binomio spazio-tempo assedia
Kubrick fin dalla giovinezza, prima ancora di diventare regista. Kubrick
esordisce come fotografo: fin dall’inizio, la rappresentazione dello spazio e l’inquadratura sono dominanti nella sua formazione.
Il suo hobby principale era, notoriamente, la musica. Kubrick è stato
a lungo un suonatore di jazz; suonava la batteria: ecco, quindi, affiorare
anche il problema del ritmo, il controllo del tempo. Il lavoro su spazio
e tempo è in Kubrick il frutto proprio di ossessioni originarie, presenti
fin dalla giovinezza.
Non dimentichiamo, poi, che Kubrick era anche un grande giocatore di scacchi. Quando dico ‘giocatore di scacchi’ sottolineo sia il termine ‘scacchi’ che il termine ‘gioco’. La mentalità e la conformazione
psicologica del giocatore di scacchi spiegano molto, a mio avviso, del cinema di Kubrick e della sua filosofia. Quali sono le caratteristiche imprescindibili della forma mentis di un giocatore di scacchi? L’intelligenza astratta e il calcolo delle probabilità. Prima di muovere una pedina, il
giocatore di scacchi deve riflettere su tutte le possibili conseguenze della mossa che potrebbe compiere. Rileggendo e ripercorrendo la carriera di Stanley Kubrick ci si accorge come l’attitudine mentale del giocatore di scacchi spieghi molte scelte: spiega, per esempio, l’attesa, a volte anche estenuante, che Kubrick lasciava passare fra un film e l’altro.
Kubrick è stato un regista poco prolifico, rispetto a tanti altri che fanno
un film ogni anno o due: si pensi che, soprattutto nell’ultima fase della sua carriera, passavano sette, otto, anche dieci anni tra un film e l’altro. Un’attesa che in molti hanno giustificato in nome del perfezionismo di Kubrick, ma che, forse, veniva anche da questo modo ‘scacchi-
7
M. Ciment, Kubrick, trad. it. di L. Codelli, Milano 20003.
IL ‘CONFLITTO’ TRA IMMAGINI E PAROLE NELLA FILMOGRAFIA DI STANLEY KUBRICK
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stico’ di porsi al cospetto del proprio lavoro, della propria professione
e della propria creatività.
La scacchiera, peraltro, è uno dei due grandi cronotopi, delle due
grandi forme di organizzazione dello spazio nel cinema di Kubrick.
L’altro è il labirinto.
Oso dire – ma qui Eugeni, che conosce molto bene il cinema di Kubrick potrà smentire o correggere – che non ci sia film di Kubrick in cui
non appaiano entrambi i cronotopi ora richiamati, in conflitto tra di loro o comunque l’uno o l’altro collocati spesso in posizioni strategiche.
Le scacchiere si trovano ovunque, come ovunque si trovano i labirinti: si
trovano scacchiere e labirinti persino sui polsini delle camicie.
Collocare dentro un’immagine una scacchiera e un labirinto è un
messaggio forte: è una chiave di lettura che Kubrick ci fornisce. Si potrebbe addirittura provare a catalogare i film – o le sequenze dei film
– di Kubrick in ‘film/sequenze-scacchiera’ e ‘film/sequenze-labirinto’.
Per esempio, sono sicuramente ‘film-labirinto’ Shining, Orizzonti di gloria8 e Lolita9, mentre sono ‘film-scacchiera’ – o film di disgregazione della scacchiera – quelli in cui si rappresenta ciò che Eugeni chiama la
messa in scena della crisi della ragione, altro grande tema dominante, precursivo e, in qualche modo, unificante della cinematografia di
Stanley Kubrick. Nel labirinto bisogna trovare un centro, raggiungerlo, poi uscirne fuori, compiere un movimento ‘verso’ e contemporaneamente un movimento ‘fuori da’. Il labirinto ha una doppia natura: è un
viaggio verso l’interno e contemporaneamente è un desiderio di uscita
verso l’esterno. Simile simbologia spazio-temporale nel cinema di Kubrick va tenuta ben presente, poiché per molti versi aiuta a capire come
Kubrick mette in scena la giustizia.
Il tema della giustizia e del rispetto della legge ricorre anche dove
meno ce lo si aspetta. Prendiamo, per esempio, uno dei film che prima
ho definito ‘film-labirinto’, Lolita, tratto dall’omonimo romanzo di Nabokov10. Anche questo è un film che sancisce la sconfitta della parola rispetto allo sguardo. Per chi non l’avesse visto o non avesse letto il romanzo di Nabokov, il film racconta la storia di un professore di letteratura – quindi di un professionista della parola – che si perde dentro a uno
sguardo, lo sguardo di una ragazzina, Lolita appunto. Lolita, nella realtà,
si chiama Dolores Haze: haze, nebbia; nomen omen, un nome un destino.
Lui – professore, intellettuale, soggetto dotato di razionalità e autocontrollo, professionista della parola – si perde in uno sguardo, uno
8 Orizzonti di gloria. Titolo originale: Paths of Glory, di Stanley Kubrick (USA: 1957, durata
86’).
9 Lolita. Titolo originale: Lolita, di Stanley Kubrick (Regno Unito-USA: 1962, durata 153’).
10
V. Nabokov, Lolita, trad. it. di G. Arborio Mella, Milano 1995.
470
GIANNI CANOVA
sguardo che fa sì, a poco a poco, che perda il controllo delle proprie
azioni: il desiderio lo squassa. La perdita del controllo – a causa di quello sguardo – ci fa scoprire l’insana e morbosa passione del protagonista
per Lolita. È ancora una volta la parola, o meglio le parole, che il professore scrive nel suo diario segreto, poi scoperto dalla madre di Lolita. Ed
è la parola ciò il professore perde e, allo stesso tempo, lo perde, lo svela.
Il film inizia e finisce, a cornice, con il protagonista maschile, Humbert
Humbert, che raggiunge il suo antagonista, colui che era riuscito ad avere l’amore di Lolita che a lui era stato negato: lo raggiunge e lo uccide.
Il film, la cui storia è raccontata in flashback, prende avvio proprio con
il protagonista maschile che raggiunge il suo rivale in una casa isolata, e
si chiude nel finale con Humbert Humbert che spara un colpo di pistola a Quilty, uccidendolo, dietro un dipinto di Lady Hamilton: un’azione,
quest’ultima, che non vediamo. Siamo di fronte a uno dei tanti gesti criminali del cinema di Kubrick: Humbert Humbert uccide Quilty, ma non
assistiamo al momento dell’assassinio e della morte che restano ‘nascosti’ alla nostra visione, dietro un quadro. L’immagine, a quel punto, va
a nero, in dissolvenza; sullo schermo compare una didascalia che cito a
memoria e recita più o meno così: «Humbert Humbert è morto in carcere, aspettando il processo per l’assassinio di Quilty».
Che cosa ci mostra Kubrick in questo film? Ci mostra un deragliamento della ragione che conduce l’intellettuale – colui che dovrebbe essere il campione della ragione e del controllo razionale – a compiere un
atto criminoso che lo spettatore non vede perché ‘mascherato’ dietro al
quadro, così come non si vede il processo a carico dell’assassino. Anzi,
il processo non si celebra neppure: Humbert Humbert muore in carcere, in attesa che la giustizia faccia il suo corso. Anche l’istruttoria processuale rimane dunque confinata nel non visibile. Non c’è processo, né accusa, né difesa; non c’è giustizia: se c’è, essa ha la forma della vendetta.
L’omicidio brutale da parte di Humbert Humbert, il quale spara a Quilty, ha forse come vittima designata Lolita, per uccidere in lui l’oggetto
del desiderio che gli è sfuggito. Tanto è vero che, appunto, Kubrick maschera il delitto dietro il quadro che rappresenta Lady Hamilton, la nobildonna settecentesca divenuta famosa nella cronaca dei tempi perché
fuggita con un uomo molto più anziano di lei, esattamente come Humbert Humbert aveva tentato di fare con Lolita. Mi colpisce molto questa
mascheratura, il porre l’atto criminale dietro un quadro, dietro un elemento di rappresentazione, lasciandoci intuire il delitto senza farci vedere il castigo che ne segue. Non abbiamo nessuna immagine di Humbert in carcere: abbiamo solo un nero. Lolita, non a caso, è un film pieno di neri, di dissolvenze in nero, di ellissi che colpiscono gli elementi
salienti e centrali della messa in scena della storia. Tutto ciò che è decisivo, Kubrick non lo fa vedere, va a schermo a nero, lascia nel non visibi-
IL ‘CONFLITTO’ TRA IMMAGINI E PAROLE NELLA FILMOGRAFIA DI STANLEY KUBRICK
471
le ciò che vorremmo maggiormente vedere e che, invece, dobbiamo soltanto immaginare: il cuore della rappresentazione è proprio il rapporto
tra ciò che vediamo e ciò che non vediamo. Ancora una volta, il rapporto tra l’immagine e la parola.
L’esame del cinema di Kubrick dal punto di vista della rappresentazione della giustizia e/o della legge ci conduce al richiamo fortissimo
del regista alla dimensione della giustizia in quanto rappresentazione,
teatralità, spettacolo.
C’è un altro film che, in genere, non viene preso in considerazione quando si discute della messa in scena della giustizia da parte di Kubrick ed è, forse, il suo film più ‘teoricamente’ imprescindibile: Barry
Lyndon11. Kubrick, cineasta della crisi della ragione, fa di Barry Lyndon
un’opera tutta ambientata nel Settecento – il Secolo dei Lumi, il secolo
che ha celebrato la ragione per la sua potenza illuministica. Barry Lyndon è la storia dell’ascesa e della caduta di un arrampicatore sociale del
Settecento, Redmond Barry, che riesce a sposare Lady Lyndon, salendo
la scala sociale per poi precipitare rapidamente verso il basso. Apparentemente, in questo film non ci sono momenti dichiaratamente collegati alla rappresentazione della giustizia o alla messa in scena della legge.
Ci sono, però, quattro duelli: il duello è una forma teatrale ed è un tentativo primordiale di regolare una controversia senza affidarsi alla legge, bensì appunto delegandone la soluzione al conflitto stesso tra i contendenti.
I quattro duelli, che scandiscono in modo quasi simmetrico la struttura ‘parabolica’ dell’ascesa e caduta di Barry Lyndon, sono così configurati: il film inizia con il padre di Barry che viene ucciso in un duello
con la pistola; segue un secondo duello, ancora alla pistola, in cui Redmond Barry si scontra con il capitano Quinn; c’è poi un terzo duello
con la spada, dove Redmond combatte Lord Ludd; e infine un quarto
duello, ancora con la pistola, in cui Barry Lyndon – non più Redmond
Barry, ma Barry Lyndon, sposo di Lady Lyndon di cui ha preso il cognome nobile – sfida il figliastro in una piccionaia. È geniale il ‘gioco’ di
rappresentazione architettato da Kubrick: un gioco di ripetizioni e variazioni nella messa in scena di questi quattro momenti rituali; un gioco di estrinsecazione primordiale della giustizia per cui, ogni volta, la
‘convenzione’ è diversa. Non solo i duellanti ricorrono ora alla pistola,
ora alla spada: ogni duello ha la propria convenzione. In uno dei duelli
la convenzione è che i duellanti sparano simultaneamente. In un altro,
la convenzione muta e i due duellanti sparano prima uno e poi l’altro,
secondo le modalità fortemente codificate della tradizione dell’epoca.
11 Barry Lyndon. Titolo originale: Barry Lyndon, di Stanley Kubrick (Regno Unito-USA:
1975, 184’).
472
GIANNI CANOVA
Cambia la convenzione, cambia la posta in gioco. La prima volta la posta in gioco è sconosciuta, la seconda volta la posta in gioco del duello è
una donna, la terza volta è un debito d’onore, la quarta volta è la fortuna
e la posizione sociale di Barry Lyndon, messa in discussione dal figliastro
che, invece, vorrebbe che il padre tornasse in basso, da dove era venuto,
per ribaltare la posizione sociale della madre. Diverso in tutte e quattro
le volte è anche il risultato, perché il primo duello finisce con la morte
del padre, il secondo con una morte apparente, il terzo con una semplice stoccata, il quarto con una ferita sul corpo di Barry che porta all’amputazione della gamba. Diverso, poi, in questo gioco di ripetizione, è anche il linguaggio che Kubrick usa. Di volta in volta, ogni duello è filmato
con modalità di messa in scena differenti: la prima volta le figure sono
riprese da lontano e di profilo; la seconda sono invece piani ravvicinati
con viste assiali; la terza sono inquadrature immerse nello spazio naturale circostante; la quarta volta la scena è situata in una piccionaia con luci
di taglio molto strane, quasi espressionistiche. È davvero interessante la
cura minuziosa con cui Kubrick orchestra – da grande regista quale è –
i quattro momenti rituali di una giustizia primordiale. Kubrick era convinto che, fin dai primordi – fin dal duello –, la giustizia avesse a che fare con una ritualità codificata e con una rappresentazione per certi versi spettacolare, teatrale. I duelli di Barry Lindon sono estremamente teatrali, rituali, ‘recitati’ dai contendenti in campo.
Ruggero Eugeni ritornerà sulla dimensione di teatralità che caratterizza la messa in scena della giustizia nel cinema di Kubrick12, io mi limito ancora a due riflessioni. La prima è che, spesso, i personaggi di Kubrick – in quella sorta di perversa eterogenesi dei fini che l’Autore mette in scena in quasi tutti i suoi film – si trovano a dover scontare l’incapacità di realizzare con le proprie azioni gli obiettivi che si erano prefissati, anche quando tali obiettivi hanno a che fare appunto con la giustizia.
Per quanto i personaggi di Kubrick si sforzino di pianificare, di progettare, di attenersi a codici di comportamento, di dimostrare di poter essere compos sui e di usare la ragione non solo per illuminare il mondo, ma
anche per governarlo, vi è sempre qualcosa che fa saltare per aria i piani
dei personaggi, che manda a gambe all’aria i loro progetti, che inficia la
loro volontà e che fa sì che tutto ciò che i personaggi avevano cercato di
fare non si realizzi. Talvolta è il caso, talaltra il caos o il destino: qualcosa cozza contro le azioni dei personaggi e fa sì che tutte le loro migliori
intenzioni non riescano ad arrivare a compimento.
Chiudo ritornando al punto da cui sono partito: ho aperto queste
nostre riflessioni ricordando che Kubrick non voleva che i suoi film circolassero coi sottotitoli; esigeva che venissero doppiati. C’è un solo film
12
R. Eugeni, La giustizia insensata. Sciarade, geometrie, ellissi, par. 2.
IL ‘CONFLITTO’ TRA IMMAGINI E PAROLE NELLA FILMOGRAFIA DI STANLEY KUBRICK
473
che – Kubrick vivente – il regista stesso ha autorizzato a proiettare in tutto il mondo in lingua originale con i sottotitoli; un solo film ha ottenuto
– non a caso – simile autorizzazione dal suo Autore: questo film è Arancia meccanica13. Non a caso, perché Arancia meccanica è il film in cui Kubrick si approssima alla rappresentazione dell’orrore del guardare e in
cui sente la necessità della comprensione delle parole. È come se, concedendo il permesso a far circolare Arancia meccanica con i sottotitoli,
Kubrick concedesse a noi spettatori dei varchi o degli alibi per non dover guardare sempre e solo immagini; è come se ci accordasse il privilegio di non sentirci alla stregua di Alex, il protagonista, alle prese con
la ben nota «cura Ludovico». Per quei pochissimi che non abbiano visto Arancia meccanica, ricordo che la «cura Ludovico» era un ‘trattamento’ di ‘omeopatia dello sguardo’ per cui ad Alex, teppista delle periferie
londinesi, viene applicato un marchingegno che lo obbliga a ‘depalpebrare’ il proprio sguardo, a tenere lo sguardo sempre aperto e a introiettare immagini di violenza nell’illusione che questa visione – essa stessa forma di estrinsecazione della giustizia – possa curarlo dalla propensione a delinquere e a essere violento.
Quando ripenso ad Arancia meccanica vi è un aspetto che – da spettatore, prima che da studioso – mi colpisce ancora e sul quale ho provato
a fare numerosi test con i miei studenti: sono convinto che tutti ricordiamo molto bene, anche se abbiamo visto Arancia meccanica una sola volta, cosa Alex era obbligato a fare; tutti ricordiamo molto bene l’occhio
‘depalpebrato’ o ‘a-palpebrato’, ma non ricordiamo – o ricordiamo assai
confusamente – cosa Alex ha visto, costretto a non chiudere gli occhi. Ricordiamo la pena che gli è stata inflitta – la condanna a tenere gli occhi
sempre aperti, a dover perennemente guardare – mentre non ricordiamo, o ricordiamo appena, che cosa il giovane doveva guardare.
Qui tocchiamo alcuni archetipi della cultura occidentale: il tema del
guardare, il guardare come colpa, il guardare come pena.
Consentitemi, però, un ulteriore riferimento: il tema mi è molto caro. Ho scritto un libro che si intitola Palpebre14: mi è capitato di ragionare intorno fatto che noi siamo figli di due grandi tradizioni culturali che
ci hanno tramandato due diverse immagini dell’Inferno, la tradizione
dantesca e la tradizione giottesca.
Nella tradizione dantesca, la Commedia punisce spesso l’occhio e lo
sguardo. Uno dei Canti più belli della Commedia è il XVII del Purgatorio:
quello in cui gli invidiosi sono colpiti con l’‘accigliatura’, la pratica della
cucitura delle palpebre, presa in prestito dalla tradizione della caccia al
13
Arancia meccanica. Titolo originale: A Clockwork Orange, di Stanley Kubrick (Regno
Unito-USA: 1971, durata 137’).
14
G. Canova, Palpebre, Milano 2010.
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GIANNI CANOVA
falcone (in cui si cuciono le palpebre dei falconi che dovevano guidare
la caccia). Dante applica questa pena agli invidiosi, quasi a dire: «voi che
avete passato la vita a guardare ciò che non eravate legittimati a guardare, adesso, per la legge del contrappasso, non potrete più guardare fuori
di voi e sarete obbligati a guardarvi dentro». Dante punisce quindi alcuni dei suoi dannati nell’organo della vista, impedendo loro di guardare.
Solo a pochi anni di distanza, ma nello stesso ambito culturale, Giotto offre una rappresentazione della colpa e della pena nell’Inferno, diametralmente opposta a quella di Dante, nell’affresco della Cappella degli Scrovegni di Padova. L’inferno dipinto nella Cappella padovana ci
presenta tutta una serie dei dannati puniti nell’organo del proprio corpo che ha peccato: sono tutti appesi, chi per la lingua, chi per le orecchie, chi per i genitali. Sono puniti da demoni mostruosi che li infilzano:
tutti gli organi del corpo umano strumento di peccato vengono colpiti,
tranne gli occhi. Nessun dannato dell’inferno giottesco è punito nella vista: tutti sono obbligati a guardare ciò che accade attorno. Giotto è molto ‘kubrickiano’: l’inferno consiste nello stare dentro l’orrore e doverlo
guardare; l’inferno consiste nell’essere al contempo attore e spettatore.
I dannati di Giotto assomigliano ad Alex di Arancia meccanica: non possono chiudere gli occhi, devono vedere ciò che accade intorno a loro.
Tornando a Kubrick – al Kubrick che mi piace definire ‘giottesco’ –,
il vero choc, il dramma, è la coercizione a guardare, il non poter chiudere l’occhio e gli occhi, l’impossibilità di oscurare la visione.
È, questo, uno dei grandi temi che attraversa tutto il cinema di Kubrick.
L’occhio dell’astronauta di 2001: Odissea nello spazio15 nella sequenza
finale – l’occhio che va oltre Giove, verso l’infinito; un occhio pulsante,
palpitante, lisergico, che però non si chiude mai e continua a percepire
visioni altre – è un occhio ‘aperto/chiuso’, che vede-e-non-vede, così come aperto/chiuso è l’occhio dell’ultimo film di Kubrick, Eyes wide shut16.
Anche il piccolo Danny di Shining chiude gli occhi per tollerare l’intensità della sua altra vista e quindi, allo stesso tempo, vede e non vede.
Attraverso la continua ossessione sul tema degli occhi, Kubrick spinge al limite estremo non tanto le forme del visibile, quanto le modalità
del nostro guardare, del nostro vedere, del nostro percepire. Nel suo cinema, egli sperimenta, facendoci incontrare personaggi che, a loro volta, sperimentano tutte le modalità del guardare: chiudere gli occhi, non
15 2001: Odissea nello spazio. Titolo originale: 2001: A Space Odissey, di Stanley Kubrick
(USA-Regno Unito: 1968, durata 140’).
16 Eyes Wide Shut. Titolo originale: Eyes Wide Shut, di Stanley Kubrick (USA-Regno Unito:
1999, durata 159’).
IL ‘CONFLITTO’ TRA IMMAGINI E PAROLE NELLA FILMOGRAFIA DI STANLEY KUBRICK
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poterli mai chiudere, vedere a intermittenza, non vedere mai, vedere
sempre.
Gli occhi sempre aperti non portano conoscenza. Un cineasta come
Kubrick, sostenitore dell’idea che conta la visione, che l’immagine prevale sulla parola, esorta infine a non credere affatto che basti tenere gli
occhi aperti per vedere: per vedere occorre invece, talvolta, chiudere gli
occhi perché ciò che dovremmo vedere veramente si annida proprio nel
non visibile.
GLI AUTORI
Alessandro Antonietti, Professore ordinario di Psicologia generale, Facoltà
di Psicologia, Direttore del Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica del
Sacro Cuore.
Pierpaolo Astorina Marino, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di
Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Gianfranca Balestra, Professore ordinario di Letteratura angloamericana,
Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne, Università degli Studi di Siena.
Mario Barenghi, Professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea,
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Eraldo Bellini, Professore ordinario di Letteratura italiana, Facoltà di Lettere
e Filosofia, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Andrea Bienati, Dottore di ricerca in Scienze politiche e sociali.
Gianni Canova, Professore ordinario di Storia del cinema, Preside della Facoltà di Comunicazione, Relazioni pubbliche e Pubblicità, Libera Università di
Lingue e Comunicazione.
Annamaria Cascetta, già Professore ordinario di Storia del teatro, Facoltà di
Lettere e Filosofia, Direttore del CIT, Centro di cultura e di iniziativa teatrale
“Mario Apollonio”, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Arturo Cattaneo, Professore ordinario di Lingua e Letteratura inglese, Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Alberto Cavaglion, Docente di Storia dell’ebraismo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Firenze.
Roberto Cazzola, Scrittore, Responsabile della germanistica presso la casa
editrice Adelphi.
Francesco D’Alessandro, Professore associato di Diritto penale commerciale,
Facoltà di Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Remo Danovi, Avvocato in Milano, già Presidente del Consiglio nazionale fo-
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GLI AUTORI
rense e professore a contratto di Deontologia forense, Università degli Studi di
Milano.
Gabriele Della Morte, Ricercatore confermato di Diritto internazionale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Alain Maria Dell’Osso, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Pasquale De Sena, Professore ordinario di Diritto internazionale, Facoltà di
Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Marina Di Lello Finuoli, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Cultore della materia in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del
Sacro Cuore.
Ruggero Eugeni, Professore ordinario di Semiotica dei Media, Facoltà di Lettere e Filosofia, Direttore dell’Almed, Alta Scuola in media, comunicazione e
spettacolo, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Luciano Eusebi, Professore ordinario di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Luigi Forte, già Professore ordinario di Lingua e Letteratura tedesca, Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Culture moderne, Università degli
Studi di Torino.
Gabrio Forti, Professore ordinario di Diritto penale e Criminologia, Preside della Facoltà di Giurisprudenza, Direttore del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale, Università Cattolica del Sacro
Cuore.
Pierantonio Frare, Professore associato di Letteratura italiana, Facoltà di
Scienze della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Paola Gaeta, Professore ordinario di Diritto internazionale penale, Facoltà di
Giurisprudenza, Università di Ginevra, Direttore dell’Accademia di diritto internazionale umanitario e dei diritti umani di Ginevra.
Fausta Garavini, Scrittrice, già Professore ordinario di Lingua e Letteratura
francese, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Firenze.
Giovanni Gasparini, già Professore ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro, Docente di Sociologia, Facoltà di Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Saverio Gentile, Ricercatore di Storia del diritto medievale e moderno, Facoltà di Giurisprudenza, Università E-Campus di Novedrate.
Velania La Mendola, Componente del Comitato di redazione della Rivista internazionale di studi sciasciani «Todomodo».
Claudia Mazzucato, Ricercatore confermato di Diritto penale, Facoltà di
Scienze politiche e sociali, Docente incaricato di Diritto penale I, Facoltà di
Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
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GLI AUTORI
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Antonio Oleari, Scrittore, Dottore in Filologia moderna.
Carlo Pagetti, Professore ordinario di Letteratura inglese, Facoltà di Studi
Umanistici, Università degli Studi di Milano.
Carlo Enrico Paliero, Professore ordinario di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Milano.
Alessandro Provera, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Francesco Rognoni, Professore ordinario di Lingua e letteratura inglese, Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Giovanni Santambrogio, Giornalista.
Roberto Scarpinato, Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo.
Cesare Segre, Professore emerito di Filologia romanza, Università degli Studi
di Pavia, Direttore del Centro di Ricerca su Testi e tradizioni testuali dello IUSS.
Stefano Solimano, Professore ordinario di Storia del diritto medievale e moderno, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Biancamaria Spricigo, Dottore di ricerca in Diritto penale, Cultore della materia in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Arianna Visconti, Ricercatore di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza,
Università Cattolica del Sacro Cuore.
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IL GRUPPO DI RICERCA
DEL CENTRO STUDI “FEDERICO STELLA”
SULLA GIUSTIZIA PENALE E LA POLITICA CRIMINALE (CSGP)
L’ideazione e la realizzazione dei Cicli seminariali di Giustizia e letteratura (Law
and Literature) nel biennio 2011-2013 nonché la pubblicazione di questo volume
si devono al lavoro dell’intero Gruppo di ricerca del CSGP.
DIREZIONE:
Gabrio Forti, Professore ordinario di Diritto penale e Criminologia, Facoltà di
Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
COORDINAMENTO:
Claudia Mazzucato, Ricercatore confermato di Diritto penale, Facoltà di
Scienze politiche e sociali, Docente incaricato di Diritto penale I, Facoltà di
Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Alessandro Provera, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Giuseppe Rotolo, Ricercatore di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza,
Docente incaricato di Diritto penale, Facoltà di Scienze politiche e sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Arianna Visconti, Ricercatore di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza,
Università Cattolica del Sacro Cuore.
GRUPPO DI RICERCA:
Pierpaolo Astorina Marino, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di
Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Matteo Caputo, Ricercatore confermato di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore, Docente incaricato di Diritto
penale avanzato, Facoltà di Giurisprudenza, Università del Salento.
Francesco D’Alessandro, Professore associato di Diritto penale commerciale,
Facoltà di Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Alain Maria Dell’Osso, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Vincenzo Dell’Osso, Dottore di ricerca in Diritto penale.
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IL GRUPPO DI RICERCA DEL CSGP
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Marina Di Lello Finuoli, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Cultore della materia in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del
Sacro Cuore.
Raffaella Di Meglio, Dottore in Giurisprudenza.
Clara Gipponi, Dottore in Giurisprudenza.
Marta Lamanuzzi, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Cultore della materia in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Federica Liparoti, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Cultore della materia in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Anna Marcoli, Dottore in Giurisprudenza.
Mattia Miglio, Avvocato in Milano.
Emanuele Stefano Regondi, Dottore in Giurisprudenza.
Fabio Gino Seregni, Dottore in Giurisprudenza.
Biancamaria Spricigo, Dottore di ricerca in Diritto penale, Cultore della materia in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Stefania Tunesi, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Università degli Studi di Pavia.
Cristiana Viganò, Avvocato in Bergamo.
Con la collaborazione di:
Federica Destefani, Dottore in Giurisprudenza.
Paola Fascendini, Dottore in Giurisprudenza.
Elena Pezzotti, Dottoranda di ricerca in Psicologia, Facoltà di Scienze della
Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Marco Trinchieri, Dottore in Giurisprudenza.
Con il supporto organizzativo di:
Anna Giampaolo, Responsabile Coordinamento e Segreteria CSGP.
Sara Parrello, Segreteria CSGP.
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Finito di stampare
nel mese di marzo 2014
da Litografia Solari
Peschiera Borromeo (Milano)
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