IL RUOLO DEL CONCETTO DI DISTRETTO INDUSTRIALE NEL SISTEMA TEORICO MARSHALLIANO* Tiziano Raffaelli Facoltà di Economia Università di Cagliari L’espressione ‘distretto industriale’ o ‘distretto manifatturiero’ era ampiamente diffusa intorno alla metà del XIX secolo. La troviamo, quasi come termine di uso comune, in Cooke Taylor (1841), in Hearn (1863) e nelle indagini parlamentari dell’epoca. Che alcune aree della Gran Bretagna, prima fra tutte il Lancashire, fin dai tempi della prima industrializzazione si fossero differenziate dal resto del paese, emergendo come distretti in cui la produzione industriale si era specializzata e concentrata, fu fenomeno troppo macroscopico per sfuggire all’attenzione di qualsiasi vigile osservatore. Tuttavia perfino un pioniere negli studi sull’organizzazione industriale come Charles Babbage, che seppe coglierne le connessioni con quelle che oggi definiamo scienze cognitive e anche per questo ebbe un’influenza decisiva proprio su Marshall (Raffaelli 1994b), non rilevò elementi capaci di trasformare un termine generico, semplicemente descrittivo, in un concetto della scienza economico-sociale. E’ nell’opera di Marshall che questa trasformazione avviene, seppur timidamente, tra le righe, sempre riaffiorante in modo embrionale, come ci ha spiegato Becattini - da ultimo, nella lezione tenuta in occasione del suo collocamento fuori ruolo (Becattini 2000b) -; un modo mai pienamente dispiegato, e tuttavia sufficiente a indurre Becattini stesso a qualificare come ‘marshalliano’ il distretto industriale, per distinguerlo da un semplice ‘espediente descrittivo’ (introduzione di Fabio Sforzi a Becattini 2000a, p. 21). Da qui, l’inevitabile conseguenza di un continuo confronto con il luogo di origine del concetto, anche per capirne la successiva evoluzione, a riprova dell’attualità del pensiero di Alfred Marshall, la cui rivisitazione non si limita a pur importanti occasioni celebrative, come ad esempio nel 1990, per il centenario dei Principles of Economics (McWilliams Tullberg 1990, Whitaker 1990, Marshall Studies Bulletin, n. 1), ma diventa occasione continua di riflessione sui temi di frontiera del pensiero economico-sociale1. Come gli studi distrettuali, anche quelli marshalliani hanno fatto grandi progressi in questo ventennio, in particolare negli ultimi 10 anni, in cui un gruppo di studiosi ha perfino dato vita a un Bollettino di Studi Marshalliani, il cui ultimo numero, il primo in versione solo elettronica, è in larga misura dedicato proprio alla traduzione inglese della lezione di Becattini. Essa pone seri dubbi sull’evoluzione delle conoscenze economiche di gran parte del novecento e contrappone alla loro astratta purezza la ricca complessità dell’opera di Marshall, prendendo le mosse dai risultati più importanti di questa nuova stagione di studi marshalliani: la pubblicazione della Corrispondenza (Whitaker 1996), del Supplemento agli Official Papers (Groenewegen 1996), delle Lezioni alle donne (Raffaelli, Biagini, McWilliams 1995) e dei manoscritti filosofici di Marshall (Raffaelli 1994a), cui si aggiunge la documentata e equilibrata biografia di Groenewegen (Groenewegen 1995). Dall’insieme di questi lavori emerge non solo la complessità del pensiero economicosociale di Marshall, ma anche la sua coerenza interna, una coerenza che la vasta articolazione L’articolo è il testo dell’intervento svolto all’incontro ‘Prospettive dello sviluppo locale’, Villa Medicea di Artimino, 11-15 settembre 2000. 1 A conferma di ciò, nel dicembre 2000 si è tenuta a Nizza una conferenza internazionale su ‘Competition and evolution: the Marshallian conciliation exercise’, titolo accattivante, anche se forse il termine ‘conciliazione’ nasconde un tradizionale dubbio di fondo sulla coerenza del sistema teorico marshalliano. * 2 del suo pensiero impone di cercare e ricostruire con pazienza. Per inquadrare il distretto industriale nell’ambito del ‘sistema teorico’ di Marshall procederò schematicamente, per linee generali, senza preoccuparmi sempre del supporto testuale o dei riferimenti alla letteratura secondaria. Le prime due parti dell’intervento sono dedicate a esporre l’articolazione nel pensiero di Marshall di due intuizioni che io ritengo siano al centro della sua riflessione: 1) l’idea dell’evoluzione contestuale tra l’uomo e l’ambiente economico-sociale, che Marshall declina secondo i più svariati registri, e che mi sembra resistere alle molte critiche che le sono state rivolte; 2) un modello di funzionamento dei meccanismi evolutivi, esemplificato in primis dalla mente umana, che si è rivelato, nelle sue mani, dotato di straordinaria fertilità euristica e capacità esplicativa2. Dall’interazione tra gli sviluppi di queste due intuizioni emergono le potenzialità del concetto di distretto, il cui radicamento intrinseco nel corpo del pensiero marshalliano è mostrato nella terza e ultima parte dell’intervento. Collocato in questa prospettiva, il distretto marshalliano in versione originaria diventa una variante molto forte del distretto, capace di riassorbire gran parte di quelli che sono apparsi moderni sviluppi del concetto stesso. E’ una riprova della profondità del proverbiale detto, all’epoca in uso a Cambridge, che ‘è tutto in Marshall’ (Groenewegen 1995, p. 758). La coevoluzione uomo-ambiente La visione marshalliana della società si può sintetizzare nel concetto di ‘coevoluzione’ tra uomo e ambiente, cioè del cambiamento, continuo e interrelato, degli individui e dell’ambiente in cui essi operano. Il fenomeno interessa ogni specie animale, che può riprodursi e prosperare solo se trae beneficio dall’ambiente esterno che contemporaneamente, necessariamente, modifica, ma è particolarmente accentuato nella storia umana, nella quale particolari e potenti meccanismi di trasmissione culturale provocano un’accelerazione del cambiamento. Da qui l’importanza centrale della tesi che l’uomo non è una ‘quantità costante’, affermazione che Marshall introduce per definire la distanza che lo separa dai classici (Pigou, 1925, p. 154, Marshall, 1961, p. 762 e 764). Questa concezione impone di prestare grande attenzione ai processi selettivi che l’ambiente sociale innesca, alla loro capacità di promuovere un’evoluzione di caratteristiche degli individui che interagiscano positivamente con l’ambiente stesso dando luogo a evoluzione ‘costruttiva’3. L’importanza dell’ambiente ‘iniziale’ è decisiva perché si inneschi un processo positivo. Con forte convinzione, tipica dell’età vittoriana, Marshall insiste sulla necessità di un ambiente favorevole allo sviluppo delle qualità umane. Eliminare la povertà è in primo luogo eliminare le condizioni che generano una vita povera, tra le quali spiccano le carenze di educazione, la mancanza di stimoli alla salute fisica e mentale, l’assenza di affetti, occasioni di ricreazioni, ‘gioia’. L’espressione ‘the joyless London sky’ (Pigou 1925, p. 144, vedi anche Whitaker 1996, vol. II, p. 263) cattura l’immagine di un luogo di vita incapace di 2 Per questo secondo punto in particolare occorre risalire ai manoscritti filosofici, che Becattini nel 1987 mi spinse a studiare, dando inizio a un rapporto che da allora ha continuato incessantemente ad arricchire il mio patrimonio intellettuale. 3 La scelta del termine è incoraggiata dal suo frequente uso in Marshall, a proposito di forme di cooperazione (Marshall 1919, pp. 518-20), concorrenza (Marshall 1919, p. 396), pubblicità (Marshall 1919, p. 306 n.), lavoro mentale (Marshall 1961, p. 300 n.) e perfino della speculazione (Marshall 1919, pp. 252-54). L’atteggiamento costruttivo è di volta in volta opposto a quello ‘puramente critico’, ‘pugnace’, ‘militante’, ‘ingeneroso’, ‘senza scrupoli’, ‘distruttivo’ (cf. anche Marshall 1919, pp. 653-54). 3 stimolare la crescita individuale e, con essa, quella di un gruppo sociale o, più in generale, della ‘razza’. L’unità ambientale di riferimento cui sono associati i processi coevolutivi non è unica: l’uomo, a seconda delle circostanze della sua vita, interagisce e cambia con la sua famiglia, le associazioni scientifiche, professionali, di mestiere, culturali, religiose e del tempo libero, gli ambiti territoriali socio-culturali e politici in cui opera (villaggio, città, distretto, regione, nazione). Tra tutti questi ambienti, Marshall assegna grande importanza a quello in cui si svolge la produzione, per il semplice fatto che esso assorbe una parte consistente del tempo degli individui: ‘Le azioni con le quali una persona ottiene i mezzi di sussistenza occupano generalmente i suoi pensieri per la massima parte delle ore nelle quali la mente dà il suo meglio: in quelle ore il carattere dell’uomo si forma dal modo in cui egli usa delle sue facoltà nel lavoro, dai pensieri e dai sentimenti che il lavoro gli ispira, e dalle relazioni che lo uniscono a coloro che sono associati a lui nel lavoro, coloro che lo impiegano o che egli impiega’ (Marshall 1961, p. 1)4. Per questo si può dire che, tra le altre cose, ‘l’economia indaga sull’influenza che il lavoro esercita sul carattere’ (Marshall e Marshall 1976, p. 14). E’ certo questo il principale motivo dell’interesse di Marshall per l’economia: con la famiglia e la scuola – alle quali pure presta continua attenzione – la sfera economica è l’ambiente in cui l’individuo si plasma, quello che può stimolarlo o deprimerlo, indirizzarlo verso il modello del gentleman o farne un relitto sociale. Non contano tanto i guadagni dell’attività economica, conta piuttosto il lavoro che egli svolge e l’effetto che esso ha su di lui (Pigou, 1925, p. 103), le relazioni in cui esso immette, i contatti umani e sociali che offre, gli stimoli alla crescita individuale che da esso promanano. Questa ‘emancipazione attraverso il lavoro’, l’attenzione a ciò che il lavoro fa sull’uomo piuttosto che a come esso trasforma la natura, è in certo senso una laicizzazione del concetto cristiano del lavoro come ‘redenzione’5. Nel momento stesso in cui sono chiare queste motivazioni, risulta che in Marshall la preminenza delle relazioni economiche ha radici extra-economiche: è in quanto ambiente sociale e culturale che la sfera economica svolge una funzione-guida, non perché la ricchezza materiale, che ne è l’oggetto, sia in sé più importante e fondamentale di altri prodotti dell’attività umana. Questo aspetto deve essere tenuto presente nell’analizzare l’opera economica di Marshall, specialmente quando tratta i temi generali dello sviluppo e del progresso, per i quali non è possibile isolare la componente puramente economica. Esso segna la labilità e provvisorietà di alcuni confini disciplianri, ad esempio tra economia e sociologia economica. Da un punto di vista metodologico l’enfasi sulla coevoluzione, che interessa direttamente le attività economiche, è importante per capire perché, secondo Marshall, non esiste propriamente parlando una dinamica economica. L’economia si divide tra meccanica delle forze e scienza del cambiamento sociale per la quale lo studioso guarda, come sua Mecca, alla biologia (Marshall 1961, p. xiv). Quando si passa allo studio del cambiamento sociale non è più possibile isolare l’azione delle forze economiche e assumere la clausola del ceteris paribus6: si può isolare l’azione delle forze economiche, ma non la loro evoluzione. La questione fondamentale successiva è capire coma funziona l’evoluzione e in quale misura il suo funzionamento è automatico. Nel discutere le concezioni evoluzionistiche di Marshall, è comune partire dalla distinzione tra meccanismi lamarckiano-spenceriani di trasmissione ereditaria e meccanismi darwiniani di variazione casuale e selezione ambientale. ‘For the business by which a person earns his livelihood generally fills his thoughts during by far the greater of those hours in which his mind is at its best; during them his character is being formed by the way in which he uses his faculties in his work, by the thoughts and the feelings which it suggests, and by his relations to his associates in work, his employers or his employees’. 5 Il tema è particolarmente evidente nel testo edito da Raffaelli, Biagini, McWilliams (1995). 6 Si veda su questo, la lettera a Moore in Whitaker (1996, vol. III, p. 296). 4 4 Una specie di ritornello del tipo ‘four legs good, two legs bad’ - Darwin buono, Spencer cattivo – porta poi, attraverso l’individuazione della presenza di temi spenceriani in Marshall, a considerarne del tutto superata l’impostazione. Questa procedura non aiuta ad andare al cuore del processo. La questione centrale non è se si abbia o meno trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti (anche perché siamo nel campo dell’evoluzione culturale, e ogni tratto comportamentale, ogni ‘abitudine’, è frutto inscindibile sia di elementi biologici ereditari che di aspetti culturalmente trasmessi). E non è neppure quella se oggetto della selezione sia il singolo individuo o un loro determinato insieme7, poiché l’un caso si trasforma impercettibilmente nell’altro – con gli individui, scompaiono determinati gruppi e viceversa. Il punto è piuttosto se il processo variazione-selezione all’interno del gruppo di riferimento ricostituisca continuamente un’interazione con l’ambiente atta a favorire la sopravvivenza e sviluppare le potenzialità di entrambi i termini della relazione. Su questo secondo aspetto in particolare le convinzione di Marshall non mutano nel tempo e lo lasciano immune da certe applicazioni ottocentesche di darwinismo sociale che esaltano acriticamente il ruolo della selezione naturale (e del suo corrispettivo sociale, la concorrenza). Sebbene essa garantisca a lungo andare la rimozione automatica di quelle forme di interrelazione tra individuo e ambiente che non sono in grado di riprodurre le condizioni per la loro prosecuzione, il processo evolutivo per Marshall non ha una direzione univoca, non è orientato teleologicamente e non coincide necessariamente con il ‘progresso’, come si può evincere da un’ampia casistica tratta dalla sua opera. Una variazione che ha immediato successo può essere tale da: 1) premiare le qualità che non hanno un ruolo positivo – o addirittura ne hanno uno negativo - nel determinare il successo evolutivo. Esse possono essere premiate indirettamente dalla selezione semplicemente perché associate, anche casualmente, con caratteristiche funzionali al successo, come ad esempio il disprezzo del lavoro paziente spesso associato alle virtù dei popoli guerrieri (Marshall 1961, p. 245). 2) danneggiare direttamente individui di un particolare tipo - predazione e parassitismo (Marshall 1961, p. 244 e 1919, p. 175). Il ‘parassitismo economico’ – cioè la possibilità di alcuni gruppi di prosperare negli interstizi e a spese di una data società - interessò Marshall non meno di quanto il parassitismo biologico – per esempio degli icneumonidi affascinò e sconcertò i naturalisti dell’Ottocento (Gould, 1984). 3) impedire lo sviluppo di caratteristiche più funzionali per la sopravvivenza futura ma, nella fase iniziale, meno remunerative (Pigou 1925, p. 249; Marshall 1961, pp. 265 e 596-97 n.). Questo pericoloso esito, che giustifica una sorta di generalizzazione dell’argomento a favore della protezione delle ‘industrie nascenti’, riduce le possibilità di sopravvivenza della specie che ne è vittima. Nel lungo periodo, è vero, l’evoluzione del gruppo con quelle caratteristiche tipologiche individuali sarà compromessa e la distruzione delle risorse potenziali sarà punita. La selezione naturale funziona quindi anche in questo caso, ma solo dopo avere privilegiato caratteristiche autodistruttive. L’ecostoria, che ancora non esisteva ai tempi di Marshall, ci offre esempi di pratiche culturali che hanno a lungo prosperato ma che, date le tecniche impiegate, erano inevitabilmente destinate a porre fine alle cause della prosperità dei gruppi sociale che le trasmisero per secoli ai loro discendenti (ad esempio le tecniche di irrigazione della Mesopotamia). Qualcosa di simile può avvenire quando il processo di cambiamento investe e impoverisce le radici sociali del suo successo (si pensi alla profezia di Schumpeter circa il futuro del capitalismo, le cui basi sarebbero erose dal suo stesso successo). 7 Il mancato discernimento tra i due casi costituirebbe, secondo alcuni interpreti (Limoges e Menard 1994), la causa principale che ha minato la teoria marshalliana dell’evoluzione industriale. 5 In tutti questi casi, la selezione non garantisce la rimozione tempestiva di tratti negativi che possono danneggiare l’ambiente (caso 2) e la sopravvivenza degli organismi che li possiedono (casi 1 e 3), dal momento che nel lungo periodo essi possono rivelarsi autodistruttivi (caso 3) o moderatamente dannosi ai fini del successo evolutivo (caso 1). Se è vero che l’evoluzione è di per sé cieca (o almeno miope), questa non è una buona ragione per Marshall perché gli uomini, la cui ragione li pone in grado di anticipare, almeno in parte, le conseguenze future dei propri atti, non debbano porsi l’obiettivo di favorire il cambiamento ‘costruttivo’. E’ lo spazio dell’azione consapevole, il compito della politica, che si applica in particolare proprio all’evoluzione dell’organizzazione industriale (Raffaelli 1994b). I meccanismi dell’evoluzione nel soggetto I meccanismi del mutamento sociale sono afferrati dalla coppia innovazione-automazione che segue lo schema della coppia darwiniana variazione-selezione naturale: nuove soluzioni sono messe alla prova e quelle che superano il test della selezione naturale sono accolte e automatizzate (la riproduzione genetica è essa stessa un modo di preservare e rendere automatiche le nuove soluzioni che hanno successo). Nel campo dei fenomeni cerebrali, che hanno luogo nel più complesso prodotto dell’evoluzione naturale, nuovi percorsi, tentati per la soluzione di nuovi problemi, diventano con il tempo automatici, dando luogo a una ‘crescita di struttura cerebrale’, a ‘una sorta di capitale di forza nervosa’ (Marshall 1961, p. 251) 8. Si costruiscono così routines sulle quali l’individuo può contare per la sua interazione con l’ambiente e che sono in grado di liberare la sua energia da compiti ripetitivi. Come l’animale, l’uomo ha un corredo di ‘quasi-istinti’ grazie ai quali, una volta imparato a farlo, cammina, legge, guida senza avere coscienza dei singoli atti del processo. La sua ‘potenza’ consiste in larga misura nella disponibilità di questi meccanismi: saper usare una bicicletta, un computer o un telefonino consente operazioni, altrimenti precluse, in cui queste attività routinarie compaiono strumentalmente. La fonte diretta di questa concezione marshalliana è la neurofisiologia evolutiva dell’Ottocento (Raffaelli 1990 e 1994a), largamente influenzata dalla filosofia spenceriana, o almeno appartenente allo stesso filone culturale. Secondo questa concezione, lo sviluppo dell’apparato nervoso è determinato dalla ripetizione dell’esperienza, sia nell’individuo che nella razza. Grazie alla ripetizione, si formano ispessimenti delle connessioni nervose che diventano pronte per nuove performances. Azione riflessa e istinti, primari e secondari, generati dal processo dell’esperienza, attraverso il meccanismo del ‘trial and error’ e del ‘learning by doing’ (‘practice makes perfect’, è l’espressione usata da Marshall 1961, p. 250), finiscono per costituire un patrimonio di corrispondenze interne, di percorsi nervosi, via via adattato alle circostanze esterne. All’epoca non erano stati scoperti i neuroni e le conoscenze sulla fisiologia del sistema nervoso erano elementari. Tuttavia, il modello interpretativo ha retto alla prova del tempo: le ‘sinapsi di Hebb’ possono essere considerate la versione moderna della costruzione di automatismi attraverso l’apprendimento. Il modello aiuta anche a risolvere l’enigma delle relazioni tra spiegazioni meccaniche e biologiche nel pensiero di Marshall. Si ritiene in genere che esse siano alternative, che le une escludano le altre e l’ondeggiamento di Marshall tra le due è visto come un segno di Si confronti anche Marshall e Marshall (1976, pp. 69-70). L’importanza di questo concetto, che appare evidente dopo la pubblicazione degli scritti filosofici di Marshall (Raffaelli 1994a), era stata anticipata da Becattini (1987b). 8 6 indecisione ed eclettismo. In realtà nessuna teoria biologica ed evoluzionistica può fare a meno dell’apparato meccanico che supporta il suo funzionamento. Dardi (2000) ha di recente sostenuto in modo convincente che proprio questo è il ruolo della ‘meccanica’ marshalliana degli equilibri parziali. I sistemi biologici rivelano nuove proprietà emergenti che sono prodotte dalla complessa interazione di sub-sistemi meccanici (per esempio, complessi schemi di trasmissioni nervose, ciascuna delle quali è in sé meccanica, originano nuovi fenomeni che formano un nuovo livello della realtà). Questo processo evolutivo di proprietà emergenti instaura una gerarchia a doppio senso. Dal punto di vista genetico, diacronico, ciò che è semplice viene prima: non esistono fenomeni biologici senza agenti meccanici. Dal punto di vista funzionale, sincronico, i livelli superiori, una volta introdotti, controllano le operazioni di livello più basso: gli organismi biologici mettono le azioni meccaniche al servizio dei loro bisogni. Sul piano più elevato sono collocate le attività coscienti, volontarie. Esse sono dovute proprio all’assenza della possibilità di reazione motoria di tipo riflesso o istintivo, derivano dall’incertezza, dall’esitazione, nascono cioè quando diverse possibilità si offrono alla valutazione preventiva del soggetto, senza che nessuna scatti in modo automatico. L'azione volitivo-razionale che alla fine segue a questa valutazione ‘attenta’, nella misura in cui è efficace e tende a ripetersi nel tempo, si trasforma a sua volta in un meccanismo quasiistintuale pronto a scattare in situazioni analoghe. E’ così che i soggetti ‘imparano’ a camminare, guidare etc., trasformando processi consci in processi inconsci, acquisendo automatismi che, per distinguerli da quelli innati, la fisiologia ottocentesca chiamò secondari (Mondella 1982). Questa concezione evoluzionistica fu vista come un aggiornamento e un potenziamento del sensismo di Locke e Condillac e della tradizione associazionista, poiché consentiva di inglobare in essa alcuni aspetti della filosofia kantiana, privati della loro trascendalità. La gnoseologia empirista riteneva che tra oggetto e soggetto sussistesse una relazione di causa-effetto, in cui le impressioni esterne danno origine alla conoscenza e all’agire soggettivo. La ‘rivoluzione copernicana’ di Kant rovesciò questo nesso causale, ponendo la responsabilità della nostra conoscenza del mondo esterno nello schema ‘a priori’ insito nella mente umana. La soluzione spenceriana del contrasto fu la causalità reciproca attraverso l’emergenza e il retro-controllo: come gli empiristi, Spancer credeva che il soggetto ricevesse dall’ambiente quegli inputs che generano la sua attività cognitiva (la sensazione precede la cognizione), ma al tempo stesso condivideva l’idea di Kant che in ogni singolo momento il soggetto è dotato di un modo particolare di organizzare le sensazioni (la cognizione retroagisce sulla sensazione regolandola) (Raffaelli 1994a). Mentre la filosofia kantiana sottolineava l’universalità delle categorie mentali, la neurofisiologia evoluzionistica trovava spazio sia per l’universalità (quei caratteri che sono necessari alla sopravvivenza) sia per la variazione e l’idiosincrasia (senza la quale non ci sarebbe nessuna ulteriore evoluzione). Le categorie con le quali gli uomini, secondo Kant, inevitabilmente percepiscono il mondo esterno, come ad esempio le relazioni spaziali e temporali, cessano di essere ‘a priori’ in senso assoluto - dotazione permanente e immutabile dell’uomo – e diventano l’effetto di una storia della razza umana, che ha sedimentato quelle forme di correlazione che hanno avuto evolutivamente successo, le quali si presentano poi ‘a priori’ per il singolo individuo, ma sono soggette ad ulteriore lenta evoluzione in rapporto alla specie (e, entro termini più ristretti, anche all’individuo). Il rapporto tra oggetto e soggetto, che l’empirismo vedeva svolgersi causalmente dal primo al secondo, a partire cioè dalle ‘impressioni’ per spiegare le forme della conoscenza e dell’azione, e che la ‘rivoluzione copernicana’ operata dal trascendentalismo kantiano aveva rovesciato, ponendo al centro della teoria della conoscenza e dell’azione l’intelaiatura innata con cui il soggetto è capace di mappare il mondo, diventava ora un rapporto di dipendenza reciproca: il soggetto riceve dall’ambiente gli inputs che lo 7 costituiscono come tale, ma al tempo stesso è in ogni determinato momento un agente dotato di una particolare struttura che pensa ed agisce con un suo timbro specifico e che cambia lentamente con il tempo (Raffaelli 1990 e 1994a). Per dare a questo idea delle credenziali migliori di quelle che può fornire la sua associazione con il tanto discreditato Spencer, si può dire che essa è esemplificata nella psicologia di William James. La stessa caratterizzazione ottocentesca della coscienza come ‘esitazione’, ‘pausa’, è molto vicina alla discussione attuale sulla natura e la funzione della coscienza, che richiede ‘tempo’ e interrompe l’operare dei meccanismi automatici (Penrose 1998). Come la letteratura economica moderna ha messo in luce (Heiner 1983), l’incertezza, che coincide con la nascita della coscienza, getta luce al tempo stesso sul ruolo dei meccanismi automatici, routinari: essi sono un mezzo per risparmiare tempo, per ridurre i costi della ricerca; hanno lo stesso ruolo delle istituzione sociali, cioè quello di aiutare il comportamento individuale offrendogli un set di possibilità predisposte. Senza incertezza l’intero edificio collasserebbe su un unico modello comportamentale, la perfetta macchina da calcolo dell’uomo economico che non lascia spazio né all’azione volontaria, idiosincratica né all’azione routinaria, automatica. Il prototipo di una tale macchina da calcolo è il robot che gioca a scacchi pensato da Babbage e discusso da Marshall nel suo scritto ‘Ye machine’ (Raffaelli 1994a, p. 122). Il modello marshalliano della mente spiega perché le azioni sono sempre un mix di automatismi e di scelte in precedenza inesplotrate, mentre il concetto di ‘ottimo’ è incapace di stabilire il valore di entrambe queste componenti. Gli automatismi sono ovviamente subottimali, in quanto standardizzati, resistenti ad ogni tentativo di perfezionamento, ma sono anche super-ottimali, migliori del comportamento massimizzante, poiché più rapidi ed efficaci (Heiner 1983; Cosmides and Tooby 1994). D’altro lato il valore delle azioni volontarie non consiste nella loro ottimalità, ma nella loro abilità di aprire nuove strade. Esse somigliano più ad aspettative che si autorealizzano che non a comportamenti calcolati: quando hanno successo, creano nuove modalità di sfruttare nicchie ecologiche, spesso addirittura creano esse stesse nuove nicchie. Mentre esclude l’idea assoluta di ottimo, il modello spiega come funziona la crescita della conoscenza, individuale e sociale, un problema per il quale non c’è posto nella teoria economica tradizionale. E’ importante rilevare che il meccanismo di crescita degli automatismi è modellato in larga misura sulla concezione dell’evoluzione degli organismi viventi, che a sua volta replica i concetti generali della divisione smithiana del lavoro. Quando un’operazione tende a ripetersi (come avviene, per Smith, con l’ampliamento del mercato) diventa vantaggioso affidarne la realizzazione a un segmento dell’intero sistema, specificamente addestrato allo scopo. Nello stesso modo gli organismi viventi procedono alla specializzazione delle singole parti e il potente meccanismo dei rendimenti crescenti spiega la differenziazione degli organismi viventi9. Sui vantaggi e gli svantaggi di questa specializzazione si era soffermato ampiamente Adam Smith. In generale il punto è che ogni segmento della società, dell’individuo vivente o del cervello umano sottoposto a processi di specializzazione guadagna in termini di capacità operativa ma perde la sua totipotenza iniziale, si cristallizza in una funzione, è escluso dal gioco successivo del cambiamento, un aspetto richiamato dall’attuale discussione scientifica e bioetica sulla necessità di ricorrere alla clonazione delle cellule dell’embrione per ricostruire parti organiche danneggiate. L’evoluzione sembra impartire un ordine che induce gli esseri che lo ricevono alla schizofrenia: specializzatevi, perché solo così potete sfruttare al meglio le caratteristiche dell’ambiente; non vi specializzate, perché diventerete assolutamente incapaci L’analogia tra i processi della divisione del lavoro e della differenziazione degli organi fu sottolineata dal biologo belga Milne-Edwards, e influenzò la teoria darwiniana della speciazione (Raffaelli 1994b). 9 8 di sfruttare nuove occasioni che vi si presenteranno, avendo già imboccato una strada irreversibile. Il rimedio contro le conseguenze umane e sociali della specializzazione, rimedio che Marshall condivide con Smith, consiste nella sua mitigazione attraverso l’educazione generale e lo stimolo esercitato dalla varietà delle condizioni di vita. Per salvaguardare l’integrità del segmento specializzato, quando questo è un valore in sé, come nel caso dell’individuo umano, occorre impedire che l’ambiente in cui quel segmento opera sia eccessivamente impoverito. Ciò corrisponde all’esigenza, a livello di evoluzione biologica, di evitare un adattamento specializzato troppo diretto, certo più efficace nell’assolvere il compito specifico, ma più esposto alla selezione naturale quando si rendesse necessario un ri-adattamento. Al rischio di impoverimento delle singole parti, della loro perdita di flessibilità, si affianca un secondo problema dei processi evolutivi: il costo di gestire e coordinare tra loro le diverse attività specializzate, sia nell’individuo che nella società. Nel concetto di ‘economia della natura’, con cui nel settecento venivano indicate le relazioni ecosistemiche, era presupposto un disegno divino che creava perfetta corrispondenza tra le parti specializzate, come ad esempio tra il campo visivo e le modalità di movimento degli animali, o anche tra certe caratteristiche degli animali e quelle del loro ambiente. La teoria dell’evoluzione per selezione economizzava, per così dire, anche l’energia divina del coordinamento. Marshall riteneva che nelle organizzazioni umane dovesse vigere un mix di automaticità e consapevolezza per assicurare il livello di integrazione richiesto, ma che il costo di coordinamento fosse tanto minore quanto più era affidato a soluzioni automatiche, riservando quelle consapevoli per i casi eccezionali, allo stesso modo di quanto avviene nell’agire individuale. E’ significativo che una delle preoccupazioni ricorrenti negli scritti di Marshall sia proprio quella che la necessità di maneggiare troppi automatismi ingombri le energie mentali di un individuo o dell’intera società. Ciò avviene in due modi. Da un lato, come detto, processi evolutivi che facciano esplodere la componente automatizzata senza automatizzarne il coordinamento appesantiscono gli organismi che ne sono vittima. Ridurre i costi di coordinamento delle routines, in termini di energie mentali, è uno dei problemi che la ricerca sociale di Marshall si pone con più forza (Raffaelli 1994c). Dall’altro lato con l’aumento delle routines aumentano anche i costi di semplice ‘manutenzione’: con il crescere del loro numero, si è obbligati a tenere in ordine un insieme maggiore di strumenti a detrimento delle attività superiori della coscienza, la cui attenzione è ‘risucchiata’ verso il compito di aggiornare le routines. Peraltro, come il coordinamento anche la manutenzione delle routines è essenziale in quanto nessun automatismo è mai definitivo. Usare il computer implica aggiornare di quando in quando le competenze, ritoccare l’automatismo acquisito. L’ambiente culturale favorisce il progresso solo se obbliga a rivedere periodicamente gli automatismi acquisiti, se segnala con prontezza l’inadeguatezza di qualcuno di essi. Se da un lato la continua ricerca dell’ottimo in ogni componente di un processo complesso ne impedirebbe la realizzazione, piuttosto che agevolarla, e la soluzione di ogni problema implica inevitabilmente un assemblaggio di pezzi prefabbricati, presi per buoni senza ulteriore investigazione, d’altro lato c’è il rischio che i pezzi diventino talmente obsoleti da precludere la possibilità di risolvere nuovi problemi o anche di migliorare la soluzione dei vecchi. L’ambiente distrettuale Date queste caratteristiche dei processi e dei meccanismi evolutivi, un ambiente favorevole al loro svolgimento ‘costruttivo’ deve garantire: 1) crescente disponibilità di routines; 9 2) basso dispendio di energia nella loro gestione coordinata; 3) manutenzione pronta e poco costosa del parco di routines esistenti; 4) incoraggiamento continuo alla creazione di nuove possibilità di azione, con l’introduzione di nuove routines e la ricombinazione di quelle esistenti. Questo gruppo di esigenze sembra tracciare, in modo preciso, l’identità del distretto industriale marshalliano. Il vantaggio di cui al punto 1 è comune al distretto e alla grande impresa: in entrambi i casi si possono raggiungere le dimensioni ottimali per la routinizzazione di una serie di processi produttivi. Ma le altre caratteristiche sono reperibili in modo quasi esclusivo nell’ambiente economico del distretto. Il punto 2 è esplicitamente richiamato da Marshall come una caratteristica specifica del distretto: mentre la grande impresa richiede un coordinamento consapevole delle attività delle singole parti, il distretto automatizza anche questo processo, lo genera spontaneamente come prodotto delle relazioni intrecciate tra i singoli comparti autonomi dell’economia distrettuale. Così il Lancashire è ‘forse il miglior esempio attuale di organizzazione concentrata principalmente automatica’, un distretto industriale in cui ‘numerosi rami specializzati di industria si sono fusi quasi automaticamente in un tutto organico’ (Marshall 1919, pp. 601 e 599). Inoltre, dal momento che la risorsa scarsa dell’attenzione non può essere sprecata nel trattare i dettagli, la coordinazione delle grandi imprese avviene tra ‘grandi raggruppamenti di routines’ e tende a produrre la standardizzazione di ‘strutture complesse’, un fenomeno più ostile al progresso della ‘standardizzazione delle parti componenti’ (Marshall 1919, p. 227). Al contrario, i blocchi costitutivi degli automatismi distrettuali sono più piccoli e la loro combinazione in strutture complesse è più flessibile. Il punto 3 è specificamente considerato il principale motivo della superiorità di un’organizzazione economica verticalmente non integrata, tale da evitare il ‘rilassamento’ dei settori che inevitabilmente consegue alla protezione prodotta dall’integrazione in una singola impresa (Marshall 1919, p. 323, nota 1). Il punto 4 spiega la preoccupazione marshalliana per il futuro della piccola e media impresa, che garantisce, attraverso l’innovazione diffusa e la variazione continua, l’offerta del materiale su cui la selezione evolutiva può operare, ‘perché nell’insieme le piccole imprese sono i migliori educatori dell’iniziativa e della versatilità, che sono le fonti principali del progresso industriale’ (Marshall 1919, p. 249). Il distretto in particolare consente una più intensa ‘intercomunicazione delle idee’ tra le ‘molte menti’ che sono interessate al cambiamento (Whitaker, 1975, vol. II, p. 198). Presi nel loro insieme, i punti 2 e 4 esprimono l’esigenza di tipi di coordinamento che siano al tempo stesso forti e mutevoli, affidabili e flessibili. Sebbene in genere Marshall sia considerato un sostenitore della grande impresa, la sua filosofia sociale sembra inclinare verso altre forme di coordinamento, nel quale concretamente gli individui umani possono essere soggetto attivo della coevoluzione anziché passivi recettori di un’esigenza funzionale sistemica, come nell’ambiente della grande industria e nella divisione taylorista del lavoro (Whitaker 1999). La crescita del capitale, che accompagna quella delle routines, dovrebbe essere posta al servizio della vita umana, anziché diventarne il padrone. Nell’organizzazione degli affari questa visione corrisponde all’obiettivo di porre il capitale a disposizione della ‘capacità negli affari’ (Marshall 1961, p. 313). Ciò è reso possibile dalla tendenza degli elementi del capitale a ridursi di prezzo in virtù della loro stessa crescita quantitativa: ogni nuova ondata di invenzioni aumenta il capitale necessario per iniziare una nuova attività ma al tempo stesso rende la produzione di esso più standardizzata ed economica (così come accade alla successione di creatività e routines nella mente umana). Dato che il segreto del progresso consiste per Marshall nello sviluppo delle capacità umane, che sono spesso latenti, in attesa di essere risvegliate, l’ambiente ‘repubblicano’ di piccola e media impresa, dove ‘molte menti’ sono attive, ha qualcosa in più dell’ambiente 10 ‘monarchico’ del big business10. Un sistema territoriale di impresa diffusa mette continuamente a contatto i diversi strati della società, non crea forti barriere gerarchiche, quelle che fanno sì che il lavoratore comune – e questa è la sua più definitiva condanna – sia messo in contatto solo con chi valuta le sue capacità in relazione al compito che gli è stato assegnato, non ad altri superiori. Nella grande impresa infatti: ‘i capi operai e gli altri funzionari di grado medio non sono sempre pronti ad apprezzare pienamente quelle qualità superiori che possono essere latenti in un lavoratore giovane; probabilmente essi lo giudicheranno dalla sua produzione, ma questa, sebbene sia una buona misura del suo valore come operaio, è una misura assai inadeguata delle sue attitudini più elevate’ (Marshall 1919, p. 662)11. Per apprezzare questo aspetto della riflessione marshalliana, è utile riconnetterla alla sua filosofia della storia, alla sua visione politica di fondo, che caratterizzerei proprio come una variante della tradizione repubblicana12. Questa filosofia della storia, influenzata dalla lettura hegeliana, emerge con chiarezza da molti suoi scritti, nei quali fanno spicco, come elementi tra loro interrelati, l’esaltazione di Atene, dei liberi comuni medievali come Firenze e del loro spirito di indipendenza e libertà13, la polemica, tradizionalmente tipica del ‘country-party’, contro la crescita ‘mostruosa’ della capitale, Londra14 e la ricerca continua delle ‘nuove repubbliche’, in un primo periodo individuate nei sindacati15. Il progresso dell’umanità è massimo nei momenti in cui gli uomini sono raccolti in comunità distinte e interrelate, ciascuna con un forte senso di identità collettiva, con quel grado di eguaglianza che consente ai suoi membri di sentirsi parte del tutto16, con uno spirito di emulazione che si esercita all’interno della collettività per emergere - nel lavoro, nelle arti, nella devozione, in tutte le manifestazioni della vita di una collettività - e che accresce il patrimonio di risorse con cui la comunità stessa compete e coopera con le altre, vuoi per innalzare templi agli dei o per respingere la minaccia imperiale, come nell’antica Grecia e nell’Italia dei Comuni, vuoi per affermarsi nel moderno sistema degli scambi. In base a questo modello, la diffusione territoriale della cultura procede per gemmazione, come nelle colonie dell’antica Grecia, secondo una logica ‘federale’, piuttosto che per ampliamento dei centri esistenti, secondo una logica ‘imperiale’. Lo stesso modello si trova nelle proposte del movimento per la promozione dei villaggi industriali e delle città-giardino, che Marshall contribuì ad incoraggiare: ‘il lavoro di molte imprese, non sempre nello stesso ramo di affari, potrebbe in alcuni casi essere trasferito insieme. Gradualmente sorgerebbe un prospero distretto industriale’ (Pigou 1925, p. 150). La discussione è ancora attuale, proprio in relazione alle possibilità concrete di ‘esportare’ il modello distrettuale. La proliferazione di centri relativamente autonomi di attività, non troppo distanti tra loro, costituisce un modello spaziale in grado di favorire il massimo sviluppo della specializzazione e dell’integrazione. Gli effetti negativi della divisione del lavoro sono minimi quando la specializzazione si effettua all’interno di un ambiente ‘integro’, ricco di stimoli, come la 10 Significativo che le ragioni per cui il capo di una grande impresa si trova prima o poi in difficoltà con la crescita di essa, cioè l’impossibilità di espandere le qualità del singolo individuo oltre un limite fisiologico (Marshall 1961, pp. 285-86), siano le stesse che costituiscono il principale motivo di critica di Rousseau alla monarchia. 11 ‘The foremen and other officials of medium grades are not always quick to appreciate fully any higher qualities that may be latent in a young artisan: they judge him probably by his output; but that, though a good measure of his value as an operative is a very poor measure of his higher capabilities’. 12 Un ‘idealista anarchico’, così Beatrice Webb considerava Marshall (Barrotta, Raffaelli 1998, p. 143). 13 Oltre che ai Principles, si rimanda qui allo scritto ‘Water as an element of national wealth’, in Pigou (1925). 14 Si veda in particolare lo scritto ‘Where to house the London poor’, in Pigou (1925). 15 Su questo punto, si veda Raffaelli, Biagini, McWilliams (1995, p. 115) e Whitaker (1975, vol. II, pp. 351 e 364). 16 Mi pare questa, almeno entro certi limiti, una componente essenziale per evitare il rischio della ‘disomogeneità culturale’ che impedisce di concepire l’idea di ‘bene comune’ (Becattini 1998, p. 82). 11 ‘città’, nel suo senso più ampio di luogo di incontro e formazione di cultura, situata in un ambiente naturale a sua volta non degradato (un tema ricorrente nella riflessione marshalliana). E’ per questa ‘città’ che la conclusione smithiana sulla superiorità intellettuale del lavoratore agricolo deve essere rovesciata17. La città ideale non è la grande metropoli, piuttosto il suo contrario, che nella storia la precede - prima della sua crescita mostruosa, anche Londra era una rete di molti villaggi distanti che ‘sarebbero diventati distretti industriali in mezzo alla verde campagna’ (Pigou 1925, p. 144) – e che villaggi industriali e città-giardino possono ricostituire. Il ‘distretto industriale’ appare come la variante evoluta di un modello socio-culturale che ha nella distribuzione spaziale delle attività e degli individui il suo fulcro. I nodi della rete di ‘città’ possono essere inizialmente costituiti da insiemi di piccole attività poco specializzate, ciascuno dei quali tenderà ad evolvere, per effetto stesso dell’interazione con gli altri, nelle direzioni indicate dalla specializzazione distrettuale. Rimane da chiedersi perché queste intuizioni marshalliane non siano state sviluppate né da lui né dai suoi allievi. Le tendenze dell’economia industriale a cavallo del secolo, con la grande spinta verso la concentrazione, offrono una spiegazione plausibile di questo mancato sviluppo. Comunque sia, si può certo convenire in questo caso con Robbins (1949, p. 97) che, se anche è vero che ‘tutto è in Marshall’, occorre spesso una vista molto acuta per portarlo alla luce del giorno. E’ quanto è avvenuto grazie agli studi italiani sui distretti, in cui storia del pensiero economico e ricerca teorica ed empirica hanno mostrato di sapersi potenziare a vicenda. ‘E’ difficile che il lavoratore di una città, le cui energie intellettuali e fisiche non siano spossate dal lavoro, non tragga giovamento dalla diversità delle attività che si svolgono intorno a lui e dagli stimoli che gliene derivano. I suoi vicini hanno interessi nella vita simili ai suoi e tuttavia sufficientementi diversi da metterlo in grado d’imparare da loro nuovi punti di vista’ (Marshall 1976, p. 78). 17 12 Bibliografia: Barrotta P., T. Raffaelli (1998), Epistemologia ed economia. Il ruolo della filosofia nella storia del pensiero economico, Torino, UTET Libreria. Becattini G. (1979), ‘Dal “settore” industriale al “distretto” industriale: alla ricerca dell’unità d’indagine della economia industriale, Rivista di economia e politica industriale, (ora in Becattini, 2000a) Becattini G. 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