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Epistemologia e metodologia della cura nelle società multiculturali
Identità, cultura e fenomeni migratori.
Potenzialità e limiti dei luoghi istituzionali, costruzione e ricerca di altri luoghi
dell’osservazione e dell’intervento (accessibilità ai servizi).
IV SEMINARIO, Roma, 18 aprile 2007
Relazione d’apertura
Roberto Beneduce
Docente di Antropologia Culturale, Antropologia del Corpo e della Malattia,
Antropologia della Violenza e della Devianza presso l’Università di Torino;
etnopsichiatra, responsabile Centro Frantz Fanon.
(Dipartimento di Scienze Antropologiche)
Migrazione e disagio psichico: le sfide dell’ambivalenza.
Contributo alla costruzione di servizi di salute mentale antropologicamente competenti.
L’intenzionalità del migrante è permeata dalla necessità storica
di cui né lui, né chiunque altro è consapevole. Per questo è
come se la sua vita fosse segnata da un altro.
JOHN BERGER, cit. in HOMI BHABHA, I luoghi della cultura, 2001
1. Premessa antropologica: che farsene dell’identità e della differenza culturale.
“Imbroglio etnico”, “invenzione della cultura”, “eccesso di cultura”, “fabbricazione
dell’autenticità”, “invenzione della tradizione” sono solo alcune delle espressioni che hanno, da
diversi punti di vista, sottolineato la fragilità epistemologica di nozioni come etnia, cultura,
tradizione, identità e i pericoli derivanti dalla loro reificazione o manipolazione. Non
diversamente da quanto hanno fatto alcuni settori della psicologia e della filosofia quando hanno
rimesso in discussione il modello monolitico di Identità e di Soggetto, anche l’antropologia è
stata attiva nella decostruzione di quei modelli e di quei concetti sui quali aveva fondato la sua
stessa ricerca ed autonomia disciplinare, impegnandosi nella produzione di un nuovo
vocabolario (“flussi”, “ibridità”, “meticciato”, “identità deterritorializzate” o “transnazionali”
ecc.), più adatto a dar conto della complessità di uno scenario sociale dominato dalla mobilità di
idee, immagini e persone, dalla dissoluzione delle frontiere identitarie e dei tradizionali confini.
Jean-Loup Amselle, fra gli autori che prima di altri avevano denunciato l’inganno etnico, ha
evidenziato in diversi lavori come il guardare al “sincretismo originario” delle culture
costituisca un buon antidoto alle derive essenzialistiche che hanno dominato nei passati decenni
l’antropologia culturale, e ha analizzato casi particolari di produzione ed invenzione di nuove
tradizioni .1 Le “differenze culturali” sono state sempre meno invocate secondo la loro
accezione comune: una volta abbandonata la loro rappresentazione ossificata, sono la fusione, la
contaminazione, l’invenzione ad essersi gradualmente imposte come le formule in grado di
misurare le trasformazioni di gruppi e individui, e catturare le nuove forme di autorappresentazione e di contatto culturale. analisi
In questo approccio ai temi dell’identità e del mutamento culturale non è difficile rinvenire
argomenti che avevano avuto già in passato una loro rilevanza teorica. Se l’antropologia, sin
dagli anni Trenta, sottolineava le dinamiche della transculturazione e dell’acculturazione
reciproca (Ortiz, Herskovits, Linton, Bastide ecc.), se alla fine degli anni Quaranta Clyde
Kluckhohn aveva denunciato con forza il “mito della razza” e l’uso ingenuo della nozione di
cultura, Johannes Fabian avrebbe parlato più recentemente e perentoriamente della “liquidazione,
letteralmente parlando, del concetto di cultura” (1978). Autori come Ulf Hannertz sarebbero
stati fra i protagonisti di questa nuova maniera di considerare la cultura e l’interconnessione,
l’origine multicentrica dei flussi, dei “controflussi” e delle influenze fra gruppi diversi, il gioco
degli scambi e dei mutamenti. Il “vortice urbano”, vero e proprio crogiuolo di significati,
pratiche, fusioni e fissioni identitarie, offriva all’autore un campo privilegiato per osservare
questi processi, tanto nelle società occidentali quanto in continenti come l’Africa (Hannertz,
1992, p. 235). In un lavoro pubblicato alcuni anni dopo, Hannertz (1998) avrebbe nuovamente
criticato la presunta idea di coesione ed omogeneità con la quale si era preteso in passato
descrivere culture locali o nazionali, e proponeva un “elogio delle culture spurie”. Nell’insieme
queste prospettive svelano l’utopia letale delle passate classificazioni, e la pretesa di poter
erigere su di esse criteri permanenti, stabili, naturalizzati di relazioni sociali. Ma esse non sono
soltanto il prodotto di una nuova coscienza epistemologica: sono state anche le mutate
condizioni politiche che hanno contribuito in modo massiccio a rendere impossibile perpetuare
un certo approccio all’Altro e alle sue differenze, reali o presunte che fossero, sono i mutati
rapporti di forza prodottisi all’interno dello scenario postcoloniale ad aver reso obsolete quelle
metodologie, ciò che talvolta viene sorprendentemente dimenticato. Tutto sarebbe stato allora
già detto contro l’identità etnica (Amselle e M’Bokolo, 1985; Fabietti, 1995; Remotti, 1996)?
Non sembra. Il “luogo etnografico”, sempre più inutilizzabile agli occhi degli antropologi, vive
infatti un inatteso revival proprio nel riaffermarsi di scontri a carattere etnico e culturale che
invitano ad analisi più articolate di quelle suggerite dalla moda, e in grado di rivelare come i
concetti spesso utilizzati contribuiscano a riprodurre differenze e ineguaglianze (Gallissot,
Kilani, Rivera, 2001). È però doveroso considerare di volta in volta chi parla di differenze e
identità, e all’interno di quale scenario: se a invocare differenze culturali e civiltà in conflitto
sono gli esponenti di una potenza militare o economica o le élite di un paese, occorre certo
denunciare l’uso strumentale di queste categorie2, ma se a invocare che non si dimentichino i
L’invenzione della scrittura e del sistema N’ko da parte di Souleymane Kanté, in Mali (2001), e il l’arte
africana (2007), rappresentano alcuni degli ambiti recentemente analizzati da Amselle. I suoi contributi
possono essere avvicinati a quelli di altri autori, come Hobsbawm e Ranger, Mudimbe, Mbembe, Fabian,
Szombati-Fabian, Jean e John Comaroff ecc. Amselle si è spinto a sostenere che persino formule come
mediazione inter-culturale o società multi-culturali sarebbero, propriamente parlando, improprie: dal
momento che lasciano immaginare due o più culture, chiaramente definite e delimitate, in contatto fra
loro. Ricordo infine come diversi ricercatori (Jane Guyer, fra gli altri), invitino a considerare con più
attenzione come le dinamiche dell’invenzione siano state e sono proprie anche di quelle società
immaginate spesso come vincolate a tradizioni o plasmate dai modelli imposti dai colonizzatori:
guardando alle complesse “tradizioni dell’invenzione”, è più facile cogliere la capacità creativa nel
mobilizzare conoscenze, stili e ruoli lungo le frontiere mobili di quelle che l’autrice definisce, in
riferimento all’Africa equatoriale, “società dell’informazione” Si veda inoltre l’approccio di Achille
Mbembe (2005) che analizza proprio le controversie in merito allo statuto della tradizione in Africa e
all’uso del concetto di “invenzione” con il quale l’antropologia contemporanea ha inteso “curare” se
stessa e i suoi precedenti modelli.
2
Samuel Huntington (The clash of civilization, “Foreign Affairs”, vol. 72 n. 3, Summer 1993) e Robert.
D. Kaplan (The coming Anarchy,”The Atlantic Monthly”, Feb, 1993) sono stati fra gli autori che, più di
1
2
diritti di gruppi e minoranze sono i rappresentanti di queste ultime bisogna ammettere che la
nozione di “identità etniche” può rivendicare una sua specifica pertinenza.3
La velocità degli scambi, soprattutto economici, ha costituito indubbiamente un fattore di
potente accelerazione nell’affermarsi di nuovi modi di concepire i confini fra gruppi e nozioni
quali quelle dell’identità culturale. Ma il processo della cosiddetta globalizzazione, certo non del
tutto nuovo, ha conosciuto in epoca moderna, e sin dall’epoca coloniale, un’articolazione
caratteristica e in apparenza paradossale che, insieme alla diffusa circolazione di prodotti,
immagini, informazioni, accanto all’indebolimento dei vincoli tradizionali e all’affermarsi di
identità transnazionali, ha visto anche l’accentuazione e la riproduzione inattesa dei movimenti
di “rinascita identitaria”, di “autenticità culturale”, e più in generale l’accresciuta (spesso
violenta) rivendicazione delle differenze e delle identità etniche (Bayart, 2004). Appadurai
(2005) ha affermato che questa accentuazione, dalle conseguenze spesso tragiche quando si
pensi alle forme macabre della violenza in alcuni recenti conflitti, sarebbe connessa anche alle
incertezze derivanti dalla frammentazione e dall’indebolimento dei precedenti sistemi di
riferimento e delle precedenti frontiere. Abbiamo dunque da riconoscere un duplice movimento,
vero e proprio chiasmo:
a. la de-sostanzializzazione, in sede epistemologica, della nozione di appartenenza e identità
etnica o culturale;
b. il rilievo drammatico che hanno assunto recentemente rivendicazioni etniche e identitarie,
sia in Occidente sia nelle società non occidentali, in uno scenario che sembrava invece
caratterizzato dalla irreversibile perdita del grado di pertinenza di tali nozioni.
Le conseguenze di questa vera e propria torsione epistemologica del discorso antropologico
sono numerose, e qui ne ricordo solo due fra quelle più direttamente connesse ai problemi che ci
riguardano, ossia 1) l’articolazione fra la nozione di differenza culturale e ambito della salute
mentale, 2) i problemi, metodologici ma non solo, posti dal rapporto fra cittadini stranieri e
istituzioni psichiatriche.
La prima conseguenza è la dissoluzione dell’idea secondo la quale ogni individuo possa essere
immaginato come naturalmente aderente alla sua cultura d’appartenenza (o addirittura
comprensibile a partire dai tratti ritenuti caratteristici di quest’ultima: sorta di impronta digitale
del suo psichismo). Il comportamento dell’Altro, tanto meno i disturbi mentali da cui è
eventualmente affetto, non possono essere spiegati nella loro totalità sulla base della cultura del
suo gruppo, non diversamente da quanto l’inconscio non permetta di interpretare la totalità dei
fatti umani.4 Tuttavia, senza mai saturare il campo delle interpretazioni, l’appartenenza
culturale può rivelarsi una categoria decisiva, o strategica, nella cura. Come pensare dunque
opportunamente nella pratica quotidiana dei servizi il rapporto fra disturbi mentali nella
popolazione immigrata e domanda di cura? Come articolare la relazione fra culture di
appartenenza e strategie terapeutiche?
altri, sono diventati celebri per aver profetizzato guerre come quelle in Africa Occidentale (Sierra Leone)
o i contemporanei “scontri di civiltà” (quali quelli ossessivamente evocati a aprtire dall’11 settembre).
3
Sulla questione dell’identità etnica come unità di analisi più adeguata e pertinente per gli attori locali
per comprendere rapporti di forza e ineguaglianze, cfr. Sharp (1993, p. 6).
4
Kluckhohn aveva anticipato alcuni di questi sviluppi allorquando aveva sostenuto che la psichiatria da
un lato, l’antropologia dall’altro, avevano provato a rendere conto del comportamento incomprensibile
del folle in un caso, e dei pagani nell’altro, inventando l’inconscio e, rispettivamente, la cultura. Ma
l’immagine con la quale Lévi-Strauss dà inizio alla sua critica del totemismo è certo quella più celebre:
“Al totemismo e all’isteria è toccata un’identica sorte. Quando ci si è resi conto come fosse dubbio poter
isolare arbitrariamente certi fenomeni e raggrupparli tra loro per farne i sintomi di una malattia o di una
istituzione oggettiva, anche i sintomi sono scomparsi, o si sono dimostrati refrattari a interpretazioni
unificanti. Per quanto riguarda il «grande» isterismo, a volte questo cambiamento viene spiegato come un
effetto dell’evoluzione sociale (…). Ma il confronto con il totemismo suggerisce una relazione d’ordine
diverso (…): come se, con la scusa dell’oggettività scientifica, i primi [gli scienziati] cercassero di
rendere i secondi – malati mentali o primitivi – più differenti di quanto non siano” (1983, p. 5).
3
La seconda conseguenza, quando ci si rivolga all’analisi della sofferenza psichica degli
immigrati, riguarda invece la necessità di considerare l’incidenza della variabile “Cultura”
all’interno di un contesto (economico, storico, sociale) assai più ampio e contraddittorio: è solo
il costante riferimento a quest’ultimo che consente di evitare fraintendimenti grotteschi
nell’approccio al disturbo psichiatrico nella popolazione immigrata, fraintendimenti derivanti
sia dal guardare alla Cultura come alla sola dimensione significativa quanto dal suo altrettanto
assurdo occultamento.
Perché la Cultura possa rappresentare una dimensione efficacemente utilizzata nella presa in
carico degli utenti stranieri, sono pertanto necessarie una teoria della cultura (come auspicava
già negli anni Sessanta Georges Devereux) e una adeguata teoria della differenza culturale (i
fenomeni della creolizzazione e dell’acculturazione reciproca, come insegnano gli studi di
Roger Bastide). Sono questi i presupposti a partire dai quali diventa legittimo il riferimento alle
matrici culturali di metafore e altre tradizioni terapeutiche, a categorie eziologiche
epistemologiche ritagliate in un diverso orizzonte: un riferimento che può rivelarsi a certe
condizioni una vera e propria tecnica, una “leva” di cambiamento terapeutico, una sorgente di
insight. È altrettanto necessario però che questo orizzonte di possibilità si accompagni negli
esperti della salute mentale a un esame critico che concerna a) le procedure diagnostiche e le
pratiche di cura della psichiatria stessa, b) le economie morali dentro cui si sviluppano le
vicende cliniche e i conflitti degli immigrati, c) i fenomeni di cripto-razzismo, spesso ignorati
sebbene determinanti tanto nell’origine di sofferenze psichiche quanto nella genesi di malintesi
e mancati incontri fra utenti stranieri e servizi. Intendo sviluppare lungo questi tre assi le
considerazioni che seguono.
Che la posta in gioco nel dibattito sulla salute mentale nelle società multiculturali non riguardi
soltanto questa o quella tecnica terapeutica, la sua maggiore o minore efficacia, il grado di
legittimità di questa o quella interpretazione, è ormai ampiamente riconosciuto. Se pure il
confronto è stato spesso grossolanamente riproposto nei termini di un dibattito, spesso sterile,
fra relativisti e universalisti, quella che emerge oggi è una questione propriamente politica,
come lo fu in parte quella all’origine del rinnovamento della psichiatria istituzionale italiana:
con una differenza non trascurabile. Nel dibattito sulla salute mentale degli immigrati, dietro le
polemiche su come organizzare i servizi sanitari in rapporto all’utenza straniera, se sia giusto o
meno realizzare centri specificamente rivolti all’utenza straniera, o se sia clinicamente ed
eticamente legittimo il ricorso a eziologie e a terapie “tradizionali” nella loro cura, emergono
infatti questioni irrisolte come la cittadinanza, la scelta di un modello o un altro di integrazione,
la possibilità di godere di trattamenti terapeutico-riabilitativi prolungati anche da parte di chi
non ha il permesso di residenza ecc. Di questi conflitti propriamente politici è testimone il
recente dibattito sviluppatosi in Francia intorno all’esperienza etnopsichiatrica realizzata da
Tobie Nathan, ma anche tutto il dibattito relativo alle condizioni sanitarie e al trattamento di
richiedenti asilo all’interno dei CPT: i luoghi dello straniero, siano essi quelli della “cura” o
dell’identificazione, sono diventati spazi contesi dove si affrontano problemi ancora irrisolti.
C’è un altro motivo che rende politico, e non solo organizzativo o epistemologico, il tema di cui
qui ci si occupa: nelle storie degli immigrati, soprattutto in quelle di coloro che esprimono il
maggior grado di sofferenza o sperimentano più dolorosamente le dinamiche dell’esclusione e
dell’incertezza, della marginalità e della devianza, fa eco una verità dolorosa è scomoda, ed è
quella di cui ha scritto Bhabha quando ha sostenuto che “C’è una cospirazione del silenzio
attorno alla verità coloniale, qualunque essa sia” (2001, p. 173, corsivo mio). Curare gli altri
non può allora essere possibile trascurando che gli immigrati sono anche emigrati, come ricorda
Sayad (2002), ossia persone provenienti da paesi un tempo colonie, che si recano spesso proprio
in quelli che furono i paesi colonizzatori.5 Si dovrà tener presente questo aspetto quando si
“Ogni immigrato trascina dentro di sé questo rapporto di forza, oggetto di repressione, fra Stati, ed
inconsciamente ripete e ricrea questo stesso rapporto nelle sue personali strategie ed esperienze. Così,
anche il più effimero incontro tra un lavoratore algerino e il suo datore di lavoro a Lione (o fra un
bambino nato a Suriname e il suo maestro di Rotterdam, fra una madre giamaicana e la sua assistente
5
4
voglia comprendere il malessere e i conflitti delle seconde generazioni, il cumulo di memorie
represse e di rivolta che anima i comportamenti violenti e distruttivi di tanti adolescenti
immigrati, ma sin d’ora è importante includere in questa tela di fondo tutta politica anche lo
scenario nazionale e internazionale: uno scenario che vede il moltiplicarsi dei “fuochi” di
conflitto (Madrid, Parigi, Gent, Padova, Milano, Torino ecc.), che ossessiona con le immagini di
clandestini morti nel corso dei loro tragici viaggi o respinti dalle griglie elettrificate (di Ceuta e
Melilla o lungo la frontiera fra Messico e Stati Uniti), che vede riprodursi i fantasmi della paura
(l’arabo “impulsivo” e “criminale” della psichiatria coloniale di Porot è diventato ora l’arabo
terrorista). Questo scenario, nutrito da affermazioni idiote come quelle del ministro Sarkozy
sulla “racaille” delle banlieues o sul modello di una “immigration choisie” che si oppone a una
“immigration subie”, deve essere materia privilegiata di riflessione per quanti si accingono a
lavorare con gli immigrati affetti da disturbi mentali: questi temi affiorano immediatamente solo
che si presti ascolto alle loro diffidenze, ai loro rancori inspiegabili, alle ragioni di gesti
aggressivi o autolesionistici altrimenti incomprensibili.
Può essere utile illustrare ora qualcuno dei problemi che connotano l’incontro fra cittadini
stranieri e servizi adottando una prospettiva “dal basso”, come si usa dire oggi, che assuma cioè
come argomenti i dati emersi dall’esperienza di operatori e pazienti, i tanti aneddoti esemplari di
cui sono venuto a conoscenza nonché le ricerche prodotte in questi anni.6
2. Incontri mancati
Che cosa accade quando un cittadino straniero o una famiglia immigrata entra in contatto con i
servizi sanitari? I suoi sintomi, le sue esperienze trovano sempre un ascolto adeguato? Quali
sono le difficoltà che sperimentano gli operatori?
Una ricerca sul rapporto salute/migrazione nella città di Torino aveva dimostrato come anche i
cittadini stranieri aventi diritti non facessero ricordo al Servizio Sanitario Nazionale che nel
50% dei casi (AA.VV, 1994). Un’analoga conclusione si trovava nello studio condotto quattro
anni dopo dalla Provincia di Torino. Per ciò che concerne l’accesso ai servizi di salute mentale,
un’indagine limitata ad alcuni servizi di salute mentale della città di Torino (sette, per
l’esattezza) dimostrava inoltre la scarsissima presenza di cittadini stranieri e l’elevata incidenza
di drop out già dopo uno o due incontri. Al contrario, al Centro Fanon, il flusso di utenti era
stato, nello stesso periodo di tempo, e benché l’orario di apertura settimanale di questo Centro
limitato a soli due pomeriggi, ben sette volte più alto di quello del totale di utenti accolti dai
sette servizi nel loro insieme! (AA.VV, 1999). Gli stessi risultati sarebbero stati documentati da
un’ulteriore ricerca condotta anni dopo (Ponzio, 2003; Visintin, 2003). Che cosa indicavano
questi dati? Che cosa mostravano queste assenze E perché spesso ci si ostinava a negare che
qualcosa doveva essere fatto per accrescere la qualità delle cure e la soddisfazione di utenti
stranieri e operatori?
Alla prima domanda è facile rispondere con i modelli dell’antropologia medica critica e
dell’etnopsichiatria. Michele Risso e Wolfang Böker, già negli anni ’60 avevano potuto
mostrare i limiti della psichiatria occidentale e delle sue categorie diagnostiche al cospetto del
sociale a Londra, fra un anziano etiope e il padrone di casa a Napoli), è già catturato in una condizione di
paura, con l’intero bagaglio e il ricordo dei passati rapporti intercorsi fra la metropoli imperiale e quella
che era un tempo la sua colonia” (Bourdieu e Wacquant, 2000; il corsivo è mio).
6
Queste riflessioni nascono da una pratica che a Torino conduco da quindici anni con l’utenza straniere
(Beneduce 1993, 1998), e da circa undici anni all’interno del Centro Frantz Fanon, fondato a Torino nel
1996, ma si avvalgono anche delle esperienze di innumerevoli incontri di formazione e supervisione
realizzati nel corso di questi anni presso ASL e con operatori di differenti servizi (NPI, CSM, SERT,
Consultori materno-infantili, Comunità per minori stranieri non accompagnati, Ufficio Stranieri del
Comune, Tribunale dei Minori di Torino, personale degli Istituti penitenziari ecc.).
5
disagio e della sofferenza di pazienti che pure di questo Occidente erano a pieno titolo
“cittadini” (gli immigrati erano in quel caso provenienti dal meridione d’Italia).
Quanto al secondo interrogativo, è evidente che la presenza dell’Altro, dello straniero, ha
sempre rappresentato una leva in grado di rivelare le faglie delle società ospiti e mostrare, in
quelle che sembravano certezze acquisite, contraddizioni e zone d’ombra nei loro saperi. La
presenza dell’Altro è di per sé un vero e proprio “rivelatore epistemologico”,7 svela
contraddizioni e debolezze: contro tutto questo una sorta di resistenza, nel senso proprio che in
psicoanalisi ha questo termine, ha fatto sì che operatori ed esperti spesso non vedessero (non
riconoscessero) le carenze delle proprie pratiche, dei propri modelli interpretativi, al cospetto di
domande e conflitti nuovi o diversi. Questo discorso non vale solo per gli utenti stranieri. Una
certa psichiatria preferisce parlare con abbondanza di dati e ricchezza di grafici, di “drop out”,
“bassa compliance” del paziente, “scarsa collaborazione” della famiglia: ma ciascuno di questi
concetti potrebbe essere rovesciato e rivelare in buona parte dei casi la “cattiva qualità
dell’accoglienza e della relazione”, “l’insostenibilità delle terapia farmacologia” (economica,
connessa ad effetti collaterali, ecc.), l’incapacità a governare dinamiche relazionali complesse.
L’incontro fra alienisti e stranieri8 vede spesso amplificati questi problemi e l’abuso di simili
pseudo-concetti.
In queste difficoltà giocano però non meno di due fattori, spesso intrecciati o nascosti l’uno
dietro l’altro, che conviene esaminare separatamente benché essi si nutrano l’uno dell’altro.
A) il primo potrebbe essere definita la “questione culturale”. La mancanza di consuetudine con
categorie e modelli che sono caratteristici di un particolare sistema di cure, la scarsa familiarità
con altri registri eziologici e terapeutici, sono all’origine di molte delle difficoltà comunemente
riportate.
Benché si conosca poco o nulla della storia del paziente, della sua biografia, dei suoi nomi, della
sua città, della storia e della geografia del suo paese, una diagnosi psichiatrica viene tuttavia
proposta anche dopo qualche frammentario “incontro”: una diagnosi che pretende legittimità
sulla base di una sua presunta oggettività metodologica (uso di test psicodiagnostici, ad
esempio) e rende legittimo a sua volta somministrare psicofarmaci. Formule come psicosi
reattiva, bouffée delirante, delirio religioso, o pseudodiagnosi di cui sono stato diretto testimone
(“sindrome di arabismo”, è la diagnosi pronunciata da una collega psichiatra e psicoanalista di
lunga esperienza al cospetto di un paziente descritto come “noioso, viscido, insistente”),
scandiscono il panorama delle pratiche di cui stiamo analizzando qui la logica. Di fronte alla
“incomprensibilità” dell’Altro, doppiamente alieno (folle e straniero) (Collignon, 1997), di
fronte a lingue spesso non perfettamente governate o sconosciute, le strategie solitamente
adottate sono due: il diniego della sua differenza linguistico-culturale e la riduzione della sua
differenza al letto di Prometeo delle nostre categorie e strategie, o alternativamente,
l’immaginare che una differenza culturale non meglio precisata nasconda il segreto del sintomo.
Kleinman aveva trent’anni fa proposto la nozione di category fallacy proprio per indicare questo
genere di problemi, e soprattutto la pretesa di esportare categorie diagnostiche della psichiatria
occidentale in altri contesti culturali.
Fornirò due aneddoti a mio avviso esemplari.
a) In un Servizio di NPI viene inviato un adolescente proveniente da una comunità, dove è
giunto dopo un rocambolesco viaggio che lo ha visto arrivare in Italia, solo, dopo essere fuggito
dagli orrori della guerra e della violenza del suo paese d’origine (Medio Oriente).
L’adolescente, che chiamerò Tarik, accusa violente crisi di emicrania, è silenzioso, ma
soprattutto preoccupa per le ricorrenti crisi di aggressività e di violenza, auto- ed etero-dirette,
che sfiorano il carattere della crisi pantoclastia e dell’autolesionismo. Non si dispone inoltre di
L’espressione è di Garrigues (2003).
Questa espressione sta qui a ricordare il lavoro di Lipsedge e Littlewood (1989), il cui titolo
opportunamente giocava sul doppio senso del termine “alien” nella lingua inglese (straniero e alieno,
appunto), per sottolineare quanti problemi avessero scandito in passato l’incontro fra psichiatria e pazienti
provenienti da altre culture.
7
8
6
alcun mediatore, ciò che rende ancora più difficile la comunicazione e la raccolta anamnestica.
Presso il servizio di neuropsichiatria infantile gli sono stati prescritti in passato psicofarmaci,
ma questi sembrano aver avuto scarso effetto. Ecco allora il “ragionamento clinico deduttivo”,
la cui buona fede è fuori dubbio, ma nel quale è altrettanto evidente la perversità del metodo: i)
se la sedazione non è stata realizzata, vuol dire che la sua impulsività è incoercibile, ciò che è
caratteristico di pazienti con deficit mentale, in ragione della scarsa inibizione corticale; ii)
bisognerà dunque valutare il suo Q.I. per predisporre una terapia più adeguata e un
inquadramento diagnostico più corretto; iii) come valutare il Q.I. in un paziente che non parla né
l’italiano né altre lingue veicolari, e per il quale non si dispone di un mediatore/interprete? Si
utilizzerà uno strumento diagnostico appropriato, lo stesso adottato nel caso di pazienti sordomuti, il Leiter test; iv) per soddisfare la nostra “ansia di oggettività”, in mancanza di altre
risorse, ecco allora che Tarik viene equiparato a un sordo-muto (sic!): il test è somministrato, il
risultato prevedibile: il Q.I. è bassissimo (intorno a 50))… Per un caso fortuito Tarik è inviato al
Centro Fanon, dove la presenza di un mediatore arabo consente di instaurare con il giovane
paziente un dialogo: conosce discretamente l’arabo, oltre alla sua lingua madre (farsi), ma nelle
vicende che lo hanno portato a sconfinare nel corso della guerra in paesi limitrofi e ad avere una
lunga esperienza di clandestino, Tarik ha appreso altre due lingue! E ora, dopo qualche mese in
Italia, anche il suo italiano sta rapidamente migliorando: questo è compatibile con il suo Q.I.? la
risposta è ovvia, ma ciò che più conta è che per mesi, sino a quando non ha trascorso qualche
ora con noi, raccontando le tragiche vicende di cui era stato protagonista, testimone o vittima,
nessun esperto aveva ascoltato la sua angoscia, il suo dolore, quei drammi incorporati che gli
facevano esplodere letteralmente la testa (fra i comportamenti più minacciosi quello di lanciarsi
con la testa contro il muro). Nondimeno, lo ripeto al prezzo di diventare noioso, una diagnosi e
una terapia erano state proposte!
b) Da un istituto penitenziario di una città del Nord una collega psicologa mi scrive
raccontandomi di un detenuto cinese che mostra un’agitazione incontenibile; la
somministrazione di psicofarmaci (di cui non ricorda il nome) non ha avuto alcun effetto, anzi il
paziente urla angosciato indicando la bocca spalancata e protrudendo la lingua. La collega, che
conosce da anni l’esperienza del Centro Fanon, mi chiede a nome dell’équipe se possa aiutarli,
se io conosca qualche “sindrome culturalmente ordinata” che possa spiegare il comportamento
del paziente detenuto. Nella valutazione degli elementi di cui sono stato portato a conoscenza le
chiedo a mia volta se gli siano stati somministrati neurolettici, dal momento che alcuni di questi
hanno come è noto un effetto collaterale particolarmente fastidioso e grave: è la “lingua a
dardo”, con ipertono e protrusione del muscolo linguale. Se fosse così, suggerisco l’immediata e
graduale riduzione del dosaggio e la somministrazione di un farmaco anticolinergico. La
psicologa chiede informazioni al medico dell’Istituto di Pena e conferma la somministrazione di
un neurolettico (prescritto perché il paziente era particolarmente agitato all’ingresso e rifiutava
ogni domanda). Dopo circa due settimane il fenomeno scompare, un interprete è stato
finalmente reperito: ora è possibile parlare con lui che, informato delle ragioni del suo disturbo e
degli aggiustamenti che ne hanno permesso il controllo, ringrazia lo sconosciuto “medico che
conosce la medicina tradizionale cinese”. In questa vera e propria commedia degli equivoci,
sulla cartella clinica viene registrato laconicamente la seguente frase: “Riduzione della terapia in
ragione di effetti neurodislettici comparsi a causa di una probabile reazione idiosincrasica su
base etnica”.
I due esempi riportati sono espressioni eloquenti di due errori frequenti e simmetrici: nel primo
caso è il ritenere irrilevante l’esplorazione dettagliata dell’esperienza dell’utente, rassegnarsi
alle difficoltà che rendono spesso impossibile o difficile la comunicazione, tralasciando di
interrogare le vicende e il contesto sociale e storico (non dunque una generica appartenenza
culturale) dentro il quale ha preso corpo la sua sofferenza prima di qualsivoglia atto
diagnostico-terapeutico; nel secondo caso il rischio evidente è quello di lasciarsi ingannare dalla
differenza dell’Altro, finendo con il dimenticare e trascurare il significato di un “segno” che
dovrebbe essere invece familiare a ogni clinico e che viene invece ricondotto a una possibile
“sindrome legata alla cultura”. In quest’ultimo caso, riconosciuto che si trattava dell’effetto
7
collaterale del farmaco, il sintomo viene tradotto nei termini di un’idiosincrasia su base etnicorazziale: se è vero che gli psicofarmaci possono avere effetti leggermente diversi in alcune
popolazioni, e soprattutto agire talvolta già a dosi più basse di quelle solitamente somministrate
ai pazienti occidentali, quello al quale assistiamo suona come un vero e proprio “contro-transfert
culturale”. Simili errori sono ben noti nella letteratura transculturale ed etnopsichiatrica: da
Devereux a Risso e Böker sono stati descritti da oltre quarant’anni i rischi di incorrere tanto in
falsi negativi che in falsi positivi: perché continuano a ripetersi? È evidente che la differenza
culturale non riesce ancora a trovare uno spazio adeguato di pensabilità e di analisi nella pratica
quotidian. Essa rischia, secondo i casi, di essere ignorata, banalizzata o diventare elemento di
occultamento di altri problemi. Questi profili sono particolarmente rilevanti all’interno di
situazioni particolari, quali quelle che evocherò qui di seguito.
3. Gruppi critici
3.1. Migrazione e prostituzione. Da molti anni ci occupiamo di “donne vittime della tratta”:
provenienti per lo più dall’Est dell’Europa o dalla Nigeria, ma anche dal altri paese dell’Africa
sub-sahariana e dall’America Latina. Avviate ad un programma di integrazione sociale in
accordo al cosiddetto “Articolo 18”, molte di queste donne stentano a trovare un lavoro (per le
donne di colore i problemi del costituiscono una realtà), il permesso di soggiorno tarda a
arrivare, un succedersi di “borse di lavoro” effimere le rende incapaci di raggiungere la
promessa autonomia, l’impossibilità di inviare denaro alla famiglia accresce dissidi e conflitti:
dal paese, la richiesta di inviare denaro non cessa, anche quando informati delle difficoltà e
delle vicende cliniche delle loro figlie e sorelle, quella richiesta continua ostinata, indice di una
“violenza strutturale” (Farmer) che non conosce eccezione. In questo orizzonte di incertezza e di
solitudine, la sintomatologia può assumere forme minacciose e nuovamente farsi
“incomprensibile”. Nelle donne nigeriane i riferimenti alle pratiche di culti di possessione, o ai
vincoli rituali con coloro che ne hanno permesso l’immigrazione clandestina e continuano
spesso a sfruttarle minacciando la famiglia rimasta nel paese d’origine, evocano figure che
sembravano relegate nell’etnologia esotica, e che ricompaiono con straordinaria frequenza a
Torino come ad Amsterdam (Beneduce e Taliani, 2006; van Dijk, 2001). Riferimenti a
complesse tradizioni e ad economie occulte (Jane e John Comaroff) chiedono agli operatori una
competenza storico-antropologica per poter decifrare allusioni, metafore, sintomi: spesso,
nell’assenza di una comprensione soddisfacente di questi riferimenti, di queste esperienze, le
pazienti si tacciono, nascondono le vere ragioni delle proprie angosce, tali da richiedere spesso
ospedalizzazioni ripetute, e mi sussurrano: “perché parlarne con un medico bianco che non
capirebbe nulla?”. C’è qui un problema preciso che bisogna identificare subito: una diagnosi
accurata, che non ripeta il monotono ritornello della “psicosi reattiva”, deve poter essere fondata
su questo tipo di conoscenze. Gli autori di un celebre libro, Œdipe Africain, Edmond e MarieCécileOrtigues, sostenevano anni addietro la necessità di fondare la diagnosi di pazienti
immigrati, in particolare di quelli provenienti dall’Africa sub-sahariana, su una “diversa
semiologia”: ecco quello che è indispensabile riconoscere, la necessità di penetrare il significato
della sofferenza degli immigrati ricorrendo a un diverso insieme di segni e di strategie
interpretative. Ma questo argomento, estremamente complesso, non può essere qui trattato
estesamente.9 Ciò che mi preme sottolineare è un altro aspetto, che contribuisce ad amplificare i
problemi ora evocati ma in qualche misura autonomo. Queste donne intrattengono con la sfera
della sessualità dell’affettività, relazioni particolarmente difficili e ambivalenti. L’ambiguità che
queste donne riproducono nei confronti dei propri partner è la testimonianza per eccellenza di
che cosa esprime il concetto di “corpo-capitale” (Wacquant): un corpo diventato mezzo di
produzione, scarsamente sensibile a messaggi di prevenzione o a codici morali. A questo fa
Cfr. Beneduce (1998 e 2007), Taliani e Vacchiano (2006) per l’analisi di questi problemi quali sono
emersi nell’esperienza del Centro Frantz Fanon.
9
8
riferimento l’espressione prima utilizzata di economie morali, a questo insieme di problemi
rinvia anche il concetto di “sessualità di crisi”, ricorrente nella letteratura medico-antropologica.
Segnate da una violenza psicologica e fisica, simbolica e materiale, esse rimangono catturate
all’interno di un orizzonte morale che mette alla prova la capacità degli operatori: spesso in
difficoltà nel costruire interventi nei quali sia consapevolmente riconosciuto e governato il ruolo
dei propri modelli etici o religiosi. Faccio qui riferimento non solo a psichiatri e psicoterapeuti
ma all’insieme della rete assistenziale: educatori, operatori socio-assistenziali, ecc.10 In questo
orizzonte si radica una vulnerabilità tutta particolare di queste donne, ma anche buona parte di
errori nella “partita”11 che caratterizza l’intervento assistenziale: non penso qui tanto al
personale dei servizi di salute mentale, sebbene credo che quest’ultimi siano nella posizione
migliore per prevenirli orientando opportunamente coloro con i quali collaborano (non ultimi
gli operatori del cosiddetto volontariato, laico e religioso).
3.2. Minori stranieri e violenza. La sofferenza psichica dei minori stranieri si esprime secondo
forme peculiari. Nei più piccoli l’incidenza di disturbi del linguaggio, che possono assumere
anche la forma estrema di sindromi artistiche, è considerevole; spesso però intorno a questa
diagnosi s’ingaggia un vero e proprio braccio di ferro tra le famiglie e i servizi. Il rapporto con
gli operatori rischia così di fallire fra malintesi e conflitti. I primi accusano i genitori di scarsa
collaborazione, di reticenza, le seconde si sentono scrutate, diffidano dell’ingresso nel loro
mondo privato di figure professionali ad essi poco familiari.12 L’assistenza spesso persegue
strategie e tempi oggettivamente difficili da comprendere, anche per gli utenti italiani: nei
servizi di NPI della città di Torino i tempi di attesa per un primo colloquio sono
intollerabilmente lunghi (spesso sino a tre mesi, e anche oltre), e ciò contribuisce a incrinare la
relazione tra famiglie e istituzioni. Ma è un problema particolare a suonare particolarmente
minaccioso, quello della violenza, tanto familiare (“domestica”, e rivolta soprattutto verso i
minori), quanto quella di cui si fanno protagonisti gli adolescenti, soprattutto coloro che
appartengono alla categoria dei “minori non accompagnati”, spesso partecipi di attività illegali o
criminali. I loro disturbi s’intrecciano così a delicatissimi problemi di gestione sociale:
comportamenti dissociativi, crisi di aggressività, “stati mentali di guerra” (Mbembe), attitudini
intimidatorie, atti illegali, periodi di detenzione si susseguono secondo una spirale
drammatica.13 E la violenza che ne è alla base spesso viene da essi stessa brandita come un
legittimo mezzo di asserzione identitaria, secondo quanto è stato descritto anche in altri contesti
(Beneduce, 2007a).
Non è infrequente l’espulsione di pazienti “articolo 18” da comunità religiose in ragione della loro
scelta di abortire, e nonostante le precarie condizioni psichiche! Per ciò che riguarda le donne provenienti
dall’Europa orientale, ho dedicato molto tempo in attività di formazione e supervisione ad illustrare la
“produzione sociale” di comportamenti e sentimenti come l’inibizione affettiva, l’indifferenza,
“l’anestesia morale” di queste pazienti, all’origine di numerosi insuccessi terapeutici e più in generale di
una difficoltà di relazione.
11
Match è l’espressione adottata dalla rivista Transcultural Psychiatry in un recente numero dedicato alla
ura di utenti immigrati.
12
La moltitudine di figure professionali spesso confonde, e poco ci si preoccupa di negoziare strategie o
spiegare ruoli: eserciti di educatori, insegnanti di sostegno, assistenti sociali, assistenti domiciliari,
psicologi, neuropsichiatri, penetrano nell’universo familiare spesso confondendo i genitori anziché
riuscire a preliminarmente costruire con essi l’alleanza che consentirebbe di realizzare con efficacia gli
interventi necessari; l’osservazione presso il domicilio viene vissuta spesso secondo un registro di
controllo, sentita come un giudizio morale o percepita addirittura come persecutoria. Nell’arabo
marocchino del resto non c’è una parola che traduca “educatore”… Notavano già Risso e Böker negli
anni Sessanta che perfino “La moderna assistenza sociale, mai conosciuta prima d’ora, resta per loro
incomprensibile, non viene colta come un aiuto (…), e non riesce a sostituire la protezione dell’unione
familiare (1992, p. 96).
13
L’immigrato rappresenterebbe oggi, secondo Wacquant, la nuova figura sociologica del deviante negli
Stati Uniti (Wacquant, 2002).
10
9
3.3. Rifugiati e vittime di tortura. Anche quest’ambito sta assumendo una rilevanza crescente
nella domanda di cura e di assistenza, sebbene controverso rimanga sia il contesto legislativo e
giuridico che fa da sfondo alla richiesta di documentare le conseguenze derivanti dall’esperienza
traumatica (nazionale, ma anche europeo: Fassin, 2001), sia il repertorio di categorie
diagnostiche e di strategie terapeutiche utili nella cura di quest’ultima (Young, 1995; Fassin,
Rechtman, 2007). L’esperienza della migrazione ha con le dimensioni della violenza, della
perdita e della morte, del lutto, un rapporto “strutturale” (Beneduce, 2006, Taliani, 2006). Gli
esperti della salute mentale sanno di doversi confrontare sistematicamente con i temi della
violenza, politica, morale e sociale, all’origine di non pochi disturbi mentali nella popolazione
di rifugiati: anche in Italia le vittime di tortura giungono numerose da paesi come Nigeria,
Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Congo, Uganda, Afghanistan, Iraq, Eritrea,
Tunisia ecc.
Ancora una volta la competenza degli operatori relativa alle vicende geo-politiche rappresenta
una variabile spesso decisiva nel determinare il destino della relazione terapeutica, non meno di
quanto faccia il grado di competenza nell’accogliere storie di violenza e umiliazione: storie che
spesso vengono solo alluse, non si dicono “coerentemente”, e dove contraddizioni e persino
“bugie” hanno spinto alcuni autori a parlare di paesaggi narrativi “frammentari” o “rotti”
(Kirmayer, 1996), dove infine è propriamente frantumato il senso comune dell’esperienza
ordinaria. Sono racconti ricchi di silenzi e cesure, e come tali materiali critici, come è noto, nella
costruzione di relazioni mediche da utilizzare nella richiesta d’asilo (Kirmayer, 2003).
4. Strategie
4.1. L’etnopsichiatria della migrazione: centri specialistici o “spazi di ghettizzazione”? Nel
recente dibattito sull’etnopsichiatria e le sue teorie è stato spesso proposto l’ interrogativo
inerente ai rischi di iniziative che, realizzando spazi separati di accoglienza della domanda di
cura degli utenti stranieri, finirebbero col riprodurre logiche di esclusione, in particolare quando
farebbero del profilo culturale la sola loro ragion d’essere. Non è una domanda nata oggi: già
nel 1985 l’antropologo Andras Zempléni poneva in evidenza i pericoli derivanti da strategie che
si rivolgono alla sola “differenza culturale” anziché alla “divisione culturale”, all’ambivalenza e
alla “trasformazione psico-culturale” caratteristiche dell’esperienza migratoria ma di fatto
universali. Se l’etnopsichiatria della migrazione intende definire una sua specificità, può farlo
lavorando su queste dinamiche complesse, senza immaginare che la domanda del paziente
immigrato sia quella di essere ricondotto al suo “ghetto culturale” (Zempléni). L’invito
dell’autore mi sembra pienamente condivisibile, tanto più in considerazione delle sue accurate
ricerche sui diversi linguaggi della sofferenza e della cura anche in altri contesti culturali, ma
anche in ragione di pratiche di separazione che continuano a riprodursi all’ombra di istituzioni
che pure rivendicano efficienza e accessibilità.14 La sua formulazione mette a tacere una inutile
quérelle (sono utili i “centri per immigrati” o non riproducono essi stessi una logica
ghettizzante?),15 spostando l’attenzione dai luoghi fisici di una pratica di cura agli obiettivi
perseguiti e ai metodi adottati.
14
Penso qui ai servizi per minori rifugiati in Olanda, che prevedono per essi classi differenziali
all’ingresso nel paese!
15
Occorre notare comunque che l’espressione “ghetto”, nel suo senso sociologico originario, è comunque
del tutto inappropriata: dal momento che, se penso all’esperienza del Centro Fanon, o a simili esperienze
in altri paesi europei (Centre Minkowska, Hôpital Bobigny, Centre Devereux a Parigi, Center for
Refugees and Victims of Torture a Helsinki, ecc.), vi afferiscono cittadini stranieri di paesi e culture
diverse, famiglie e coppie miste, operatori del servizio pubblico e del settore privato per chiedere
consulenza e orientamento: quanto di più lontano dall’idea stessa di “ghetto”. Al centro di questa critica è
stata in particolare l’esperienza del Centre Devereux e di Tobie Nathan: critica a mio giudizio
10
Bisogna tener conto, d’altronde, di un dato: questi centri, immaginati come centri di ricerca, di
formazione, di consulenza e di cura, sono nati in ragione di un presupposto sovente trascurato,
ossia la mancanza o la frammentarietà di conoscenze antropologiche e di tecniche
etnopsichiatriche nel background teorico della quasi totalità degli operatori e
dell’organizzazione stessa delle pratiche di salute mentale, ciò che può tradursi in una
inaccessibilità di fatto dei servizi stessi all’utenza immigrata. L’accessibilità è infatti cancellata
ogni qualvolta l’utente percepisce inadeguata l’accoglienza che gli è riservata, non riuscendo ad
orientarsi fra sistemi di segni e regole estranee alla sua esperienza, ogni qualvolta si sente
insoddisfatto del livello di comprensione dei propri problemi o vive con disagio l’incontro con
l’operatore per l’impossibilità di parlare nella propria lingua madre. Tali fenomeni possono,
secondo un crescendo, giungere a indurre sentimenti di ostilità e vissuti di razzismo, ciò che
determina solitamente l’interruzione della cura. I racconti di immigrati e famiglie straniere
ascoltati nel corso di questi quindici anni sono particolarmente eloquenti al riguardo.
Quando evoco la “mancanza o la frammentarietà di conoscenze antropologiche e di tecniche”
includo però, secondo quanto emerge dalla letteratura internazionale, anche la scarsa
consuetudine a riconoscere i disturbi del paziente immigrato come un commentario critico nei
confronti del contesto sociale e della propria condizione di marginalità, a leggere i sintomi
corporei ben più che semplice indice di “somatizzazione” quanto piuttosto un vero e proprio un
“luogo di protesta” (Whtley, Kirmayer, Groleau, 2006, p. 203). In questo si avverte l’eco della
lezione di Frantz Fanon, che invitava i medici francesi a porre, nei riguardi dei pazienti
immigrati algerini, una diagnosi “situazionale”, attenta a riconoscere cioè nei loro sintomi
ostinati la protesta muta, i vissuti di morte, i verbali segreti di soggetti privati della possibilità di
esprimere angosce e (Fanon, 1952). Inoltre, fra le “tecniche mancanti” v’è senza dubbio anche
la difficoltà di lavorare con mediatori culturali: figure ancora oggi accolte in modo ambivalente
da parte di non pochi operatori (si veda più innanzi).
Se alcuni di tali centri hanno indubbiamente cavalcato la “moda del multiculturale” ma poco
contribuito ad una più rigorosa formulazione dei problemi o alla loro soluzione, altri hanno in
definitiva contribuito a disseminare nuove conoscenze, nuovi stili di ascolto e nuove pratiche di
assistenza. Essi hanno occupato uno spazio vuoto, spesso in virtù di risorse non sempre
reperibili nelle istituzioni pubbliche. Anche a questo riguardo è necessario pertanto procedere
sulla base di una rigorosa ricerca tanto sull’utenza straniera quanto sulla realtà dell’accoglienza
ad essi riservata nei servizi (Ponzio, 2003; Visintin, 2003). Ed è a questo riguardo che deve
essere richiamata un’altra questione: è la variabile “razzismo”, presente sebbene talvolta
misconosciuta tanto nella società quanto nelle pratiche dei servizi.
Diversi autori hanno già analizzato questo aspetto in paesi come la Gran Bretagna (Littlewood e
Lipsedge, 1989; Littlewood, 1993)16, e nel 2003 un numero speciale della rivista «Culture,
Medicine & Psychiatry» (The Politics of Science: Culture, Race, Ethnicity, and the Supplement
to the Surgeon General's Report on Mental Health, vol. 27, n. 4) riprendeva questo tema a
partire dall’ammissione, fatta sulle pagine della rivista dei medici statunitensi («General
Surgeon»), che discriminazioni e forme occulte di razzismo venivano perpetrate nei servizi di
salute mentale ai danni di membri di minoranze. Un tale razzismo non si manifesta
necessariamente nelle forme dell’esclusione o della violenza ma anche in quelle del
decisamente ingiusta. Il dibattito su questo tema è reperibile in molti dei lavori citati in bibliografia, ma si
rinvia, oltre che ai lavori di Nathan, anche sl sito del Centre Devereux: www.ethnopsychiatrie.net.
16
“Al di là della discriminazione incontrata nella ricerca di un lavoro o di un’abitazione, gli immigrati di
colore sono anche vittima di violenze motivate da razzismo (…). L’immigrato è sempre sotto la minaccia
dell’espulsione. Immigrati che abbiano trascorso meno di cinque anni in Gran Bretagna possono essere
espulsi se i loro marito o genitori sono espulso o se sono accusati di un crimine punito con la prigione
(…). Il pregiudizio non è sperimentato come un semplice impedimento esterno. Esso diventa
nell’immigrato parte dell’immagine di sé – un’immagine che è definita dagli altri” (Littlewood e
Lipsedge, 1989, 138). Cfr. anche Beneduce (2005),
11
paternalismo, dell’incapacità di rivisitare i propri modelli e i propri stili di lavoro, riproponendo
spesso stereotipi e pregiudizi (Lucas e Barrett, 1995). Infine, una messe impressionante di dati
conferma di questo problema un’ombra particolarmente inquietante, che deve essere tenuta
presente in qualsivoglia discorso sulla salute e l’assistenza nelle società multiculturali: i tassi di
natimortalità sono fra i neri d’America più del doppio di quelli registrati nella popolazione
bianca, il tasso di mortalità per cancro polmonare è fra i neri d’America il doppio della
popolazione bianca, quello di cancro alla cervice quattro o cinque volte più altro nella
popolazione femminile asiatica che nella popolazione bianca, e in generale i membri delle
minoranze denunciano ineguaglianze nei trattamenti sanitari ricevuti. I dati recenti sulle
differenze nella carriera e nel successo scolastico dei figli di immigrati in Europa e nel nostro
paese confermano un altro profilo di questa persistente ineguaglianza nell’accesso a opportunità
di cura, prevenzione o, secondo i casi, istruzione.
Quanto detto sino ad ora si traduce in una consapevolezza: l’utente immigrato affetto da disturbi
psicologici può essere accolto e curato efficacemente a condizione di incontrare servizi
antropologicamente competenti. Ma la competenza di cui parlo non è solo quella “culturale”,
l’orientamento di cui si ha bisogno non può cioè limitarsi solo alla “cultura” dell’altro, sebbene
questo sia ovviamente indispensabile e preliminare,17 quanto piuttosto
a) alla totalità del contesto sociale, politico e culturale da cui provengono i cittadini stranieri e
dentro cui hanno spesso preso corpo le loro vicende di sofferenza,
b) alle società ospiti dove si sono spesso riprodotte sfide, violenze, incertezze, conflitti e stress
influenti nella produzione del disturbo di cui ci prendiamo cura,
c) alla produzione sociale e culturale delle nostre categorie e delle nostre pratiche (PTSD,
“Sindrome di Ulisse”, EMDR, ADHD ecc.), all’ideologia che le nutre, e alle scelte terapeutiche.
4.2. Ipotesi per una strategia rivolta a costruire servizi di salute mentale
antropologicamente competenti. Una possibile agenda (se si può chiamarla così) per far fronte
ai problemi evocati può trovare soluzione in alcune strategie che qui mi limito ad evocare,
dirette in primo luogo a costruire una diffusa consapevolezza e una larga condivisione di
conoscenze, metodi, sensibilità fra gli operatori dei servizi di salute mentale, al cui interno
includo anche coloro che operano presso i servizi di neuropsichiatria infantile nonché l’intera
rete di servizi e istituzioni con i quali la pratica dell’assistenza e della cura in psichiatria.
1) Ricerca. È urgente promuovere una ricerca sulla realtà dell’assistenza psichiatrica rivolta agli
utenti stranieri, sui problemi più spesso riportati, sulle diagnosi e le strategie terapeutiche
utilizzate, sulle difficoltà incontrate dagli operatori, sul grado di soddisfazione dei pazienti, sulle
ragioni degli insuccessi, sulle eventuali differenze nell’erogazione dell’assistenza sanitaria nei
confronti degli utenti autoctoni (sussidi, opportunità di borse lavoro, reperimento di abitazioni
ecc.). Le ricerche epidemiologiche su questo tema in Italia sono sorprendentemente rare, anche
in ragione delle difficoltà ben note nella ricerca epidemiologica transculturale. Queste
informazioni potrebbero utilmente confluire all’interno di un Centro Raccolta Dati del
Ministero della Salute.
2) Mediazione culturale ed etno-clinica. I mediatori culturali ricevono attualmente una
formazione standard, all’interno della quale sono previste conoscenze molteplici ma solitamente
frammentarie su ambiti che oscillano dalla psicologia all’organizzazione del servizio sanitario,
dalle leggi sugli stranieri all’antropologia culturale (ma paradossalmente si dimentica di
insegnare teoria della traduzione). I risultati sono spesso provvisori o deludenti: poco o nulla
Da questo punto di vista la “competenza culturale” di cui spesso scrivono gli autori anglosassoni in
ambito sanitario fa riferimento ad una definizione di cultura e differenza culturale che spesso sembra
riprodurre i concetti cari al culturalismo americano: dietro i termini di “razza” e “cultura” continuano però
a rimanere oscurate la questione delle disuguaglianze sociali e la “violenza strutturale” (Farmer), la
riproduzione dei ghetti neri (Wacquant)
17
12
viene detto relativamente alle specificità delle vicende che caratterizzano il rischio psicologico
negli immigrati, ancor meno sulla peculiarità di un lavoro che mette spesso il mediatore stesso
di fronte a conflitti mai considerati o trattati prima dell’incontro con i pazienti, o “rimossi” nel
senso psicoanalitico del termine. La mediazione alla quale penso deve prevedere dunque
percorsi formativi differenziati secondo i contesti di lavoro del mediatore: il tribunale, la scuola,
l’ospedale, la salute mentale sono ambiti che pongono domande diverse, e pertanto sarebbe
importante che il mediatore disponga di competenze organiche ma anche più accurate e
specifiche di quelle attualmente fornite nei corsi standard. Anche per essi sarebbe inoltre
importante prevedere un aggiornamento permanente, ed un lavoro personale di supervisione
che consenta di governare le tensioni e la sofferenza derivanti dal confronto con problemi che si
riflettono in non pochi casi sulle loro personali biografie. La mediazione etnoclinica d’altronde è
ben più che mera traduzione linguistica:
3) Formazione permanente. La domanda del personale sanitario è su questi temi elevatissima.
Ma questa formazione non dovrebbe limitarsi ad aggiungere ulteriori contenuti, quanto piuttosto
accrescere il grado di consapevolezza critica e addestrare a trattare temi, idiomi, quadri clinici
poco comuni nell’esperienza clinica, a insegnare l’utilità di una diversa “semiotica” ma anche a
ridurre i problemi di ciò che ho chiamato il “mancato incontro” fra utenti stranieri e servizi di
salute mentale. La formazione etnopsichiatrica dovrebbe promuovere pertanto un costante
impegno autoriflessivo da parte degli operatori della salute mentale sulle proprie pratiche e sulle
politiche della diagnosi, e l’esplorazione (di solito negletta) della ragnatela di ragioni e cause
(sociali, politiche, simboliche)18 che hanno concorso a determinare il disturbo psicologico del
cittadino straniero: una ragnatela spesso difficile da vedere e da percorrere all’interno di una
clinica che talvolta separa e frammenta anziché congiungere e articolare.
In questo l’esperienza unica ed innovativa della riforma psichiatrica del 1978, considerata la
diffusa sensibilità degli operatori verso le molteplici dimensioni e le matrici sociali del disagio
psichico, rende il nostro paese un terreno propizio per articolare interventi appropriati che
evitino i problemi ricorrenti in altri paesi. La costruzione di un Sito per l’Aggiornamento
Permanente su Salute Mentale e Utenti Stranieri presso il Ministero della Sanità, articolato
secondo diversi “capitoli di formazione”, potrebbe essere un contributo ulteriore alla
disseminazione di conoscenze ed esperienze, all’erogazione di consulenze in connessione con
Centri italiani e stranieri, e allo sviluppo di reti utili operanti fra le diverse associazioni che già
si occupano di utenti stranieri, rifugiati o richiedenti asilo nel gestire situazioni particolarmente
complesse.
In questo senso mi sembra legittimo parlare di un’etnopsichiatria critica e comunitaria come la
giusta risposta alle perplessità sollevate talvolta nei confronti di modelli o iniziative percepiti
come separati o specialistici, ma anche contro una non meno oggettiva “resistenza a cambiare”
da parte delle istituzioni.
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Nella terminologia proposta da Allan Young, le “cause” sono la variabili oggettive, tipiche del
ragionamento medico, all’origine di un disturbo (ad esempio il PTSD); le “ragioni” sono invece gli
argomenti e gli eventi pertinenti dal punto di vista del paziente, non necessariamente coincidenti con le
prime e solitamente articolate secondo legami meno rigidi e più contingenti con gli “effetti” (i disturbi e i
sintomi lamentati). La pratica clinica cerca solitamente di convertire le ragioni del paziente nelle cause
del modello interpretativo/terapeutico di volta in volta adottato.
18
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