Orizzonti 1_U3_C14

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Gli effetti della peste in alcune città italiane
Dati relativi ad alcune città italiane: 1630-31
DOMINI ASBURGICI
GH
SVIZ Z E RA
DUC. DI
MANTOVA
RE
DUC. DI
MILANO
REP. DI
GENOVA
PU
BB
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DUCATO
DI
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L’Italia nel Seicento
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(Genova) PRIN. DI
PIOMBINO
STATO DEI
PRESIDI
REGNO
DI
REGNO
DI
SARDEGNA
NAPOLI
Domini spagnoli
REGNO DI
SICILIA
L’Italia a metà del Seicento
14.1 Crisi e
trasformazione
dell’economia italiana
Un panorama non uniforme
Nel capitolo 13 abbiamo illustrato l’andamento dell’economia europea nel corso del
XVII secolo: a una fase di crisi e di recesso
demografico, che penalizzò in particolare l’Europa mediterranea e quella centroorientale, seguì un periodo di ristrutturazione e sviluppo dell’agricoltura, della
produzione manifatturiera e dei commerci che interessò soprattutto l’Inghilterra, l’Olanda e la Francia settentrionale. In
questo quadro di complessiva difficoltà, la
situazione dell’Italia si presentava partico-
larmente critica: lo spostamento dell’asse
dei commerci dal Mediterraneo all’Atlantico e il dominio esercitato su importanti Stati
italiani (Milano e Napoli) da una Spagna in
piena decadenza sembravano destinare la
penisola a un impoverimento e marginalità
inarrestabili.
In realtà, a partire dalla seconda metà del
secolo gli Stati italiani, soprattutto quelli nel
Centro e nel Nord, furono caratterizzati da
una fase di ristrutturazione della produzione e degli scambi che fu particolarmente
efficace. Certamente l’Italia non fu in grado di riconquistare una posizione centrale
nell’economia europea e mondiale, ma almeno riuscì a limitare il divario con il Nord
del continente. In definitiva, l’economia
italiana del tardo Seicento si collocava a
mezza via tra quella inglese e olandese (in
eccezionale espansione), e quella spagnola
(stagnante) o russa (arretrata in ogni settore
ma soprattutto in agricoltura).
Superando i disastrosi effetti delle gravi
epidemie di peste (molto pesanti quelle del
biennio 1630-31 del 1656) e delle ripetute
carestie (1627-29, 1647-49, 1690), tra il 1650
e i primi anni del Settecento la popolazione
italiana crebbe del 15%, soprattutto nelle
grandi città (dopo aver conosciuto un calo
del 13% circa nella prima metà del secolo).
L’incremento fu sostenuto dalla ripresa della produzione agricola, che si verificò a dispetto della fiscalità oppressiva e degli scarsi
stimoli all’economia assicurati dai dominatori spagnoli. Tuttavia, il Meridione della
penisola fu pesantemente penalizzato da
questa politica scarsamente lungimirante e
vide diffondersi condizioni di arretratezza
simili a quelle che indebolivano l’economia
spagnola, con la terra in mano a pochi grandi proprietari nobili e scarsissimi contatti
commerciali con l’estero.
Appare evidente dunque come un quadro
della situazione italiana del Seicento debba
essere articolato e particolarmente attento
alle differenze tra regione e regione e tra settore e settore.
Popolazione
in migliaia di
abitanti
Bergamo
Bologna
Brescia
Como
Cremona
Mantova
Milano
Padova
Parma
Verona
Venezia
Morti in
migliaia di
abitanti
0
10
20
30
40
50
60
L’agricoltura: arretratezza
e innovazione
Elementi contrastanti sono evidenti se
guardiamo anzitutto all’evoluzione della
produzione agricola.
Da un lato, la tendenza a incrementare
fondi agricoli dai quali ricavare una rendita sicura e il rinnovato prestigio sociale dei
proprietari terrieri diffusero in alcune regioni un certo immobilismo e una crescente
rifeudalizzazione dei rapporti tra proprietari e contadini: questo accadde soprattutto
nel Nord-est e nel Meridione, dove la classe dei piccoli e medi proprietari non riuscì
ad affermarsi e dove rimasero protagoniste
le colture estensive destinate al mercato
interno dei beni alimentari, in particolare
quelle dei cereali. La spietata concorrenza
delle produzioni industriali del Nord Europa spinse inoltre i ceti più ricchi a rifugiarsi
nel possesso e nello sfruttamento delle terre. In questo senso emblematico è ciò che si
verificò nella Repubblica di Venezia: qui le
potenti famiglie che formavano l’oligarchia
veneziana (arricchitasi grazie a secoli di
commerci con l’Oriente), misero al sicuro i
propri capitali acquistando terreni e gestendo i loro fondi. Si trattò di un vero e proprio
accaparramento delle terre.
In altre aree della penisola, tuttavia, si
poté assistere a una forte innovazione del
settore agricolo. La diminuzione della popolazione nella prima metà del secolo aveva
ridotto la domanda e di conseguenza il prezzo dei cereali: molti proprietari furono così
incoraggiati a investire in nuove produzioni
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dalle quali ricavare maggiori guadagni. Nel
Lazio e in Puglia fu incrementata la pastorizia, in Lombardia, Toscana ed Emilia crebbero l’allevamento bovino e suino, in Piemonte e in Toscana si diffuse ulteriormente
la viticoltura e quindi la produzione di vino,
in Lombardia si estesero le coltivazioni industriali del lino e della canapa, in tutta la
pianura padana si ebbe il radicamento della
coltivazione del gelso, destinato a sostenere
l’allevamento del baco da seta, tra Piemonte
e bassa Lombardia fu incrementata la coltivazione del riso, in Sicilia si diffuse il mais,
che aveva rese superiori a quelle dei cereali.
Si verificò dunque una crescente diversificazione della produzione. Ad essa tuttavia non
si accompagnò un deciso aumento delle
esportazioni, neppure tra i diversi Stati italiani: si trattò quindi di una produzione prevalentemente destinata al consumo interno.
Anonimo fiammingo del XVIII sec., Una campagna
nei pressi di Bologna con gli agrimensori.
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1501 Manuzio stampa il primo libro in caratteri aldini
1559 Mercatore pubblica il planisfero per i naviganti
1561 Prima fiera del libro a Francoforte
XVI-XVII sec. Spagna ripetutamente in bancarotta
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Le origini dell’Europa moderna
Modernizzazione delle aziende
agricole, mezzadria e latifondo
Dal punto di vista dell’organizzazione
aziendale e produttiva l’agricoltura italiana si divise nettamente in tre grandi aree,
cristallizzando in maniera evidente alcune
differenze che persistevano da secoli:
• Al Nord, in particolare nella pianura padana, si svilupparono grandi aziende gestite con criteri capitalistici (investimenti,
modernizzazione) e proprietà più piccole, le une e le altre per lo più coltivate da
affittuari interessati all’aumento della
produzione e capaci di stare al passo con
l’evoluzione delle tecniche e con la differenziazione delle colture.
• Al Centro (Toscana e territori dello Stato
della Chiesa) prevalse la mezzadria, che,
pur non incoraggiando il dinamismo degli agricoltori, comunque faceva dipendere la loro sopravvivenza dal mantenimento di un alto livello di produzione e
che, almeno in parte, stimolava gli investimenti dei proprietari.
• Nel Meridione rimasero invece assolutamente prevalenti i latifondi, proprietà
di un numero ristretto di famiglie nobili
interessate a ricavarne una rendita, nei
quali venivano occupati braccianti con
rapporto di dipendenza e quindi privi di
ogni interesse personale nello sviluppo
delle colture.
La piana di Salerno e un paesaggio con scena pastorale,
Galleria delle Carte geografiche, Città del Vaticano.
Si andava dunque radicando quel divario
economico tra Nord e Sud della penisola
che diverrà uno degli elementi persistenti
della storia del nostro paese.
Crisi e ristrutturazione della
produzione manifatturiera
La crisi investì in modo molto più evidente
il settore della produzione manifatturiera.
L’industria tessile, in particolare, crollò provocando a sua volta la diminuzione delle
produzioni metallurgiche e dell’edilizia, in
un quadro di generale tramonto del dinamismo delle economie urbane.
In Inghilterra e Olanda proprio nel settore tessile venivano definitivamente superati i vincoli alla produzione imposti dalle
corporazioni. Le manifatture tessili di questi paesi avevano infatti iniziato a utilizzare i lavoratori salariati a domicilio, pagati
molto meno dei salariati dei tradizionali
laboratori cittadini. Ne risultavano prodotti
certamente meno pregiati ma di prezzo sensibilmente inferiore e facilmente collocabili
sul mercato. Inoltre, a differenza di quanto accadeva ancora in Italia, i produttori
stranieri non incontravano ostacoli nella
modernizzazione dei processi produttivi,
anche questi spesso imposti dalle corporazioni. In breve la concorrenza dei prodotti
esteri nei mercati di tutta Europa, e persino
sui mercati interni della penisola, cancellò il
primato della produzione tessile italiana.
La crisi dell’industria laniera fu fortissima in tutte le città italiane del Centro-nord,
dove era stata uno dei motori dell’economia
nei quattro secoli precedenti: Venezia, Padova, Milano, Genova, Firenze. In quest’ultima, ad esempio, si ebbe nel corso del secolo
una diminuzione della produzione di panni
di lana del 90%. Analoga tendenza si registrò
nel settore della seta lavorata, che crollò a
Venezia (-75%), Como (-90%) e Napoli (dove
praticamente sparì).
Anche in questo quadro si segnalarono
tuttavia alcune dinamiche di ristrutturazione che consentirono alla penisola di
non restare del tutto esclusa dal circuito
commerciale; cosa ancora più importante,
garantirono la permanenza in Italia di quelle competenze che nei secoli successivi le
avrebbero permesso di partecipare all’industrializzazione del continente.
Accanto alla produzione della lana – che
non cessò mai del tutto – si svilupparono la
lavorazione del lino e del cotone e quella
(organizzata in opifici sempre più grandi e
organizzati) della seta greggia e dei filati di
seta: tutte produzioni specializzate sostenute dalla crescita delle colture industriali
e della coltivazione del gelso per i bachi da
seta. La seta greggia e i suoi filati, in particolare, erano poi esportati in Francia, Olanda
e Inghilterra, dove venivano lavorati e poi
venduti in tutto il mondo. L’industria italiana, dunque, si riconvertiva da produttrice di
prodotti finiti in fornitrice di materie prime
e di tessili semilavorati. La centralità dell’industria italiana era perduta, ma il contatto
con la grande produzione europea veniva
mantenuto almeno dalle regioni del Nord e
della Toscana (in particolare in centri come
Verona, Vigevano, Varese e Prato).
Diversa era la situazione delle altre regioni del Centro e del Meridione: qui la produzione industriale, che si era in parte sviluppata nel corso del Cinquecento, scomparve
quasi completamente. Si diffuse, quindi,
un’economia di semplice scambio tra i
guadagni ricavati dalle rendite terriere e i
prodotti manifatturieri esteri, interamente
importati per la sola classe dei nobili proprietari terrieri in grado di pagarli.
Il ruolo dell’Italia nel
commercio internazionale:
la fine di un’epoca
La marginalizzazione delle città marinare italiane nei commerci tra Europa e Asia,
marginalizzazione che colpì infine anche
Venezia, ultima grande potenza politica e
commerciale d’Italia, fu dovuta a un duplice
fenomeno: la crescente concorrenza delle navi inglesi e olandesi nel Mediterraneo
e l’inarrestabile spostamento dell’asse dei
commerci verso le coste atlantiche.
Inoltre, la debolezza politica non permise
agli Stati italiani di sostenere la propria economia con un approccio espansionistico e
con le colonie, come sempre più Spagna,
Olanda, Inghilterra e Francia stavano facendo in America e Asia. In queste colonie, le
compagnie commerciali delle nuove potenze economiche d’Europa non si limitavano
ad acquistare e vendere merci di ogni tipo,
ma cominciavano a dirigere e a gestire in
regime di monopolio la stessa produzione
dei beni più richiesti (tè, tabacco, zucchero,
cotone, spezie).
Anonimo, Veduta di Genova nel 1684, fine del XVII sec.,
Genova, Padiglione del Mare e della Navigazione.
Il volume degli scambi commerciali in
transito dai maggiori porti italiani (Genova
e Venezia) calò rovinosamente, e con esso
l’attività dei cantieri navali e tutte le attività legate ai grandi commerci internazionali,
come quelle finanziarie.
Non mancarono circostanze politiche avverse. I mercanti di Venezia furono
danneggiati anche dalla lunga Guerra dei
Trent’Anni, che depresse i mercati dell’Europa centrale verso cui si rivolgevano molti
dei loro traffici. A loro volta, i banchieri genovesi furono irrimediabilmente danneggiati dalle ricorrenti bancarotte della Spagna, alla quale avevano accordato enormi
finanziamenti intesi a rilanciarne la politica
espansionistica in Europa.
Tra le città italiane ancora attive nei traffici portuali si segnalò l’eccezione di Livorno. Il granduca di Toscana la rese un porto
franco, trasformandola quindi in un vantaggioso punto di attracco, privo di dazi,
per le navi inglesi e olandesi in transito nel
Mediterraneo; inoltre un’avveduta politica
di tolleranza, che garantì la libertà di culto, permise lo sviluppo in città di una attiva comunità di ebrei e di altri rifugiati dalla
Spagna e dalla Francia. Tuttavia, il dominio
degli spagnoli al servizio della rigida politica
della Controriforma cattolica non consentì
che l’esempio di Livorno venisse seguito da
altri centri della penisola.
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L’Italia nel Seicento
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XVI-XVII sec. Spagna ripetutamente in bancarotta
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Le origini dell’Europa moderna
Un quadro
d’insieme
dell’economia
italiana nel
Seicento
A. Falcone, Battaglia, XVII sec.,
Napoli, Museo di Capodimonte.
In conclusione, l’economia italiana del Seicento
fu caratterizzata da un sostanziale rallentamento
in ogni settore, che tuttavia non portò a un regresso e a un impoverimento
completo della penisola.
Le città, motori per secoli dello sviluppo economico, persero la loro centralità a causa della
forte riduzione della produzione manifatturiera, delle attività finanziarie e dei commerci. L’economia italiana tornò dunque a
basarsi prevalentemente sulla produzione
rurale, ma le città non si spopolarono, mentre nelle campagne furono poste le basi per
la futura ripresa dell’economia su modello
europeo (che si sarebbe verificata tra la fine
del Settecento e il primo Novecento). Certamente influì pesantemente la temporanea
marginalizzazione della penisola nel sistema dei commerci internazionali, in gran
parte causata dalla sua irrilevanza politica.
Infine, un elemento destinato ad avere conseguenze permanenti sull’assetto
socioeconomico dell’Italia fu il definitivo
distacco tra le strutture sociali e produttive prevalenti nelle diverse aree del paese.
L’Italia settentrionale (più il nord-ovest
che il nord-est, il cosiddetto «meridione del
Nord») mantenne livelli di sviluppo importanti, almeno nell’agricoltura e in alcune
produzioni industriali. L’Italia meridionale
si basò, invece, su un’agricoltura arretrata e
destinata a garantire la sopravvivenza della
popolazione (in crescita in alcune zone, ad
esempio nell’area di Napoli). Il Centro rimase in una fase di stallo, con alcune importanti eccezioni (in particolare alcune produzioni industriali e gli scambi commerciali in
Toscana).
A testimonianza del rallentamento economico e delle divisioni del paese, nella
seconda metà del secolo si verificò una
forte contrazione degli scambi tra Nord e
Sud, mentre, come abbiamo visto, i contatti
commerciali tra le regioni del Nord e i paesi
europei non vennero mai meno.
14.2 La situazione
politica della penisola
La supremazia spagnola nella
penisola
Nel 1559 la pace di Cateau-Cambrésis poneva fine alla guerra tra la Spagna di Filippo II
e la Francia di Enrico II. L’accordo assegnava agli spagnoli larga parte della penisola
italiana: tutto il Meridione e le isole (uniti
nei «vicereami» di Napoli, della Sicilia e della Sardegna), e – nel Nord – il ducato di Milano (guidato da un governatore di nomina
regia). Gli spagnoli si assicuravano dunque
il possesso di due aree strategiche dell’Italia
e mantenevano inoltre la propria presenza
sulla costa toscana meridionale: qui controllavano un piccolo ma importantissimo
territorio nella zona del Monte Argentario, il
cosiddetto «Stato dei Presìdi», formato dalle
piazzeforti di Orbetello, Porto Ercole, Porto
Santo Stefano, Ansedonia e Talamone.
Madrid esercitò su queste regioni un
dominio diretto, considerandole a tutti gli
effetti parti integranti del regno. Anche gli
Stati italiani indipendenti subirono, pur in
misura diversa, l’influenza spagnola, che si
manifestò in pesanti ingerenze nella loro
politica interna. Il dominio iberico sulla penisola durò fino al 1713 quando, al termine
della Guerra di successione spagnola, la
pace di Utrecht diede agli Asburgo d’Austria
il controllo dell’Italia. [ I NODI DELLA STORIA p. 306]
Conseguenze della
dominazione spagnola
Il dominio degli spagnoli in Italia ebbe alcune conseguenze evidenti dal punto di vista
politico e socio-economico.
In primo luogo la Spagna, in perenne crisi
finanziaria, considerò sempre i possedimenti nella penisola italiana come aree da sfruttare: per questo Milano e il Mezzogiorno furono costantemente oppressi da un pesante
prelievo fiscale. La politica spagnola contribuì dunque all’impoverimento economico
della penisola e, anzi, la coinvolse – dopo la
metà del secolo – nel suo stesso declino.
In secondo luogo, nonostante il rilievo
strategico delle isole (importanti appoggi
per la flotta nel Mediterraneo) e di Milano
(prossima all’Europa centrale), l’Italia non
fu coinvolta direttamente nelle numerose
imprese belliche della Spagna nel continente europeo. Le fu garantito dunque un lungo periodo di pace e di stabilità, durante il
quale la penisola rimase sostanzialmente ai
margini della politica europea e dei conflitti religiosi (alleata con la Chiesa, la Spagna
garantiva il pieno controllo della Controriforma cattolica su quasi tutto il paese).
Infine, l’alleanza con i ceti dirigenti italiani, in particolare con la nobiltà dei grandi
proprietari terrieri, garantì ai dominatori il
controllo della società: in cambio di una sostanziale accettazione della situazione politica venne loro assicurato il mantenimento
di privilegi storicamente acquisiti. In questo
quadro fu particolarmente favorita la passività dei latifondisti meridionali, e nelle campagne del Mezzogiorno si verificò, come abbiamo già detto, una rifeudalizzazione dei
rapporti sociali.
La rivolta antispagnola di
Napoli: Masaniello e la «Real
repubblica napoletana»
Nei periodi in cui la Spagna fu maggiormente impegnata sui diversi fronti internazionali (ad esempio nella Guerra dei Trent’Anni, nella rivolta dei Paesi Bassi, nella guerra
contro i Turchi) i domini italiani, e soprattutto il Meridione, furono sottoposti a uno
sfruttamento particolarmente intenso, sia
per raccogliere denaro, sia per requisire
derrate alimentari, sia per arruolare truppe.
Questa politica rese invisi i dominatori ai
sudditi italiani: soprattutto quelli appartenenti ai ceti meno favoriti dalla politica spagnola (la piccola borghesia degli artigiani e
dei mercanti e il popolo delle città), che diedero vita a ribellioni anche piuttosto vaste.
Nel luglio del 1647, una nuova tassa sulla
vendita della frutta, parte integrante della
dieta dei più poveri, scatenò a Napoli una
rivolta che coinvolse i ceti popolari, parte della borghesia più ricca e anche alcuni
intellettuali. Gli insorti rivendicavano una
riduzione del carico fiscale e una maggiore
rappresentanza politica per il popolo e per
la borghesia produttiva; a capo della rivolta
si pose Tommaso Aniello, detto «Masaniello». Contro la Spagna e contro la nobiltà si
mobilitarono quasi tutta la città e numerosi
contadini dell’area limitrofa. Alcuni palazzi
simbolo della dominazione straniera e le
carceri furono espugnati; Masaniello venne
proclamato «capitano generale del popolo». Tuttavia, dopo pochi giorni, lo stesso
Masaniello fu ucciso da una congiura degli
insorti, che lo accusavano di pazzia e dispotismo. [Testimonianze  documento 7,
p. 319] La rivolta proseguì e tentò di darsi un
ordinamento politico: nacque così la «Real
repubblica napoletana», che voleva strutturarsi sul modello delle Province Unite dei
Paesi Bassi (esempio vincente di autonomia
dalla Spagna) e intendeva porsi sotto la protezione della Francia. Tuttavia, la Francia
assicurò un sostegno solo formale, mentre
il fronte della rivolta si frammentò a causa
degli interessi e degli orientamenti diversi,
finendo per soccombere, nel giro di pochi
mesi, alla repressione organizzata dalla
Spagna e dai baroni italiani suoi alleati.
L’episodio, come altri simili che accaddero nei domini spagnoli (e persino in Catalogna), mise in luce le contraddizioni e i
limiti del centralismo spagnolo, ma di fatto
ne rafforzò il controllo e convinse definitivamente la nobiltà che era proprio interesse
sostenere i dominatori in cambio della propria sicurezza.
Due dipinti del XVII sec. che raffigurano la rivolta di Masaniello.
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L’Italia nel Seicento
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Le origini dell’Europa moderna
tà di mantenere gli equilibri tra Stato della
Chiesa e Repubblica di Venezia che alla loro
reale forza.
Più a ovest persisteva, almeno formalmente, la Repubblica di Genova, che confinava a nord con il marchesato del Monferrato, stretto tra le pretese del ducato di
Milano spagnolo e la progressiva espansione del ducato di Savoia.
Al centro della penisola, il granducato di
Toscana si rafforzò nel 1555 inglobando la
Repubblica di Siena e raggiunse così i confini
che doveva mantenere fino all’unità d’Italia.
Anche lo Stato della Chiesa aveva sostanzialmente definito la sua estensione, accettando
l’esistenza e consistenza dei ducati padani e
godendo della forte alleanza del dominatore
spagnolo cattolico sulla penisola. A
Opere dell’architetto veneto Andrea Palladio (XVI sec.): Villa Capra Valmarana detta «La Rotonda».
Il Teatro Olimpico di Vicenza, Andrea Palladio (XVI sec.).
Oltre i domini spagnoli: una
penisola frammentata
pp. 312, 314
Album p. 308
Il quadro politico dell’Italia centro-settentrionale seicentesca è quello di un territorio
frammentato in diversi Stati indipendenti,
tutti impegnati nella difesa della propria
autonomia e di fatto incapaci di opporsi
all’ingerenza spagnola. Oltre al ducato di
Milano, i due Stati più importanti erano la
Repubblica di Venezia a est e il ducato di
Savoia a ovest.
Nella pianura padana permanevano i
ducati di Modena (governato dalla signoria degli Estensi), di Mantova (Gonzaga), di
Parma e Piacenza (Farnese). La sopravvivenza di questi piccoli Stati era dovuta più
alla tolleranza della Spagna e alla necessi-
La Repubblica di Venezia
Tramontata definitivamente la potenza commerciale della Serenissima (per
l’espansione degli Ottomani, per la concorrenza di inglesi e olandesi e per lo sviluppo
dei commerci via Atlantico), nel Seicento
l’oligarchia che governava la città si concentrò sulla gestione dei propri possedimenti
agricoli sulla terraferma. Alcune importanti
famiglie si trasferirono addirittura in ricche
ville del Veneto, segnalando così il quasi
completo cambiamento di prospettive della
Repubblica. A dire il vero i commerci con il
Mediterraneo orientale e i contatti con l’Europa centrale non cessarono mai del tutto –
anche grazie a una serie di accordi con gli
Ottomani – ma Venezia iniziò a basare la sua
economia prevalentemente sulla gestione
dei suoi domini nell’entroterra.
Questa residua potenza, unita alla orgogliosa memoria della propria indipendenza
e supremazia, garantirono comunque alla
Repubblica un’accentuata autonomia nel
quadro di un’Italia che subiva dal punto di
vista politico le ingerenze della Spagna e da
quello culturale le direttive della Chiesa cattolica. All’inizio del secolo Venezia entrò in
conflitto con il papato proprio a causa della
sua politica di tolleranza intellettuale e religiosa: nella Repubblica infatti era consentita la pubblicazione di libri altrove proibiti,
e pensatori invisi alla Chiesa insegnavano
liberamente nell’Università di Padova o risiedevano a Venezia senza subire provvedimenti restrittivi. A
Paolo Sarpi: la difesa
dell’autonomia politica e
culturale della Serenissima
Contro questa politica di tolleranza, che rischiava di essere resa a modello da altri Stati
italiani ed europei, il papa Paolo V (16051621) cercò di far valere le proprie tradizionali prerogative del papato, riaffermando
il diritto della Chiesa di gestire autonomamente i beni ecclesiastici e soprattutto di
controllare la libertà di pensiero ed espressione.
La tensione giunse al culmine nel 1606.
In quell’anno la Repubblica nominò Paolo
Sarpi (1552-1623) consigliere legale per le
questioni religiose. Sarpi – frate, teologo e
storico – si fece sostenitore e difensore di alcuni leggi che limitavano i poteri della Chiesa entro il territorio di Venezia. [Testimonianze  documento 8, p. 319] Vennero vietati
la costruzione di nuove chiese, conventi e
istituzioni caritative (ospizi, ospedali, scuole) e l’acquisto di terre e proprietà senza
l’autorizzazione dello Stato; inoltre si stabilì
il pieno diritto delle autorità pubbliche veneziane di giudicare i membri del clero in
tribunali civili. Quest’ultimo provvedimento, in particolare, minava un secolare privilegio ecclesiastico che assegnava alla Chiesa
di Roma e a un suo tribunale speciale (il cosiddetto «foro ecclesiastico») la giurisdizione sui membri del clero.
Quando due sacerdoti, accusati di reati
comuni, furono arrestati per essere sottoposti al giudizio di un tribunale veneziano, Paolo V pretese che essi venissero consegnati
all’autorità ecclesiastica. Di fronte al rifiuto
di Venezia, il papa reagì con la scomunica
dei governanti e con l’interdetto dell’intera
Repubblica: una condanna di straordinaria
gravità e di forte impatto, perché impediva
la celebrazione dei sacramenti e la sepoltura ecclesiastica in tutto il territorio della
Serenissima. La Repubblica non riconobbe
la validità di questi provvedimenti e ottenne
in questo l’appoggio dei sacerdoti parrocchiani; altri religiosi (in particolare i gesuiti)
invece si sottomisero alla volontà di Roma e
in parte abbandonarono la città. La prova di
forza, che rischiava di degenerare in un conflitto aperto e di avvicinare Venezia alle posizioni degli Stati protestanti tedeschi (con
i quali la Repubblica manteneva rapporti
commerciali) si risolse in parte con la me-
pp. 312, 314
Ritratto di Paolo Sarpi, incisione del XIX sec.
Papa Paolo V, Roma, Basilica di Santa Maria Maggiore.
diazione del re di Francia Enrico IV e della
Spagna, interessata al mantenimento della
pace nella penisola.
I due religiosi furono consegnati al tribunale ecclesiastico, che emise una sentenza
non riconosciuta dall’autorità civile. Venezia non rinunciò alle sue leggi in materia ecclesiastica, ma si impegnò ad applicarle con
moderazione. Il papa revocò scomunica e
interdetto, ma non ottenne il riconoscimento della sua richiesta di principio, ossia il diritto di ingerenza negli affari interni di ogni
Stato cattolico. Rimaneva dunque aperta
la controversia sul riconoscimento dell’autonomia e delle prerogative irrinunciabili
dell’autorità dello Stato in ogni materia: si
sarebbe ripresentata, nei secoli successivi,
in tutti gli Stati cattolici europei.
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L’Italia nel Seicento
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Le origini dell’Europa moderna
Il ducato di Savoia
Un’autonomia analoga a quella di Venezia,
ma una anche maggiore intraprendenza
politica, può essere riconosciuta al ducato
di Savoia. Questo principato, che doveva la
sua consistenza territoriale proprio all’alleanza con la Spagna contro la Francia – voluta dal duca Emanuele Filiberto (1528-1580)
–, cominciò dalla fine del Cinquecento una
politica espansionistica verso la penisola
italiana. Entrato in possesso del Piemonte settentrionale e occidentale, nel 1563 il
duca trasferì la sua capitale da Chambéry a
Torino.
Il ducato si organizzò come uno Stato
assoluto. Fu razionalizzata e centralizzata
l’amministrazione e venne creato un esercito nazionale, con l’introduzione della leva
militare obbligatoria. Emanuele Filiberto
riuscì a imporre la propria autorità anche
in materia religiosa: perseguitò attivamente
i valdesi, il più importante movimento religioso protestante in Italia, ma si riservò di
approvare le nomine ecclesiastiche e limitò
i poteri dell’Inquisizione sui suoi territori.
Nel 1601, il suo successore, Carlo Emanuele I (1580-1630) ottenne dalla Francia
di poter annettere il marchesato di Saluzzo
in cambio di alcuni territori occidentali. In
p. 312
questo modo il ducato si sottraeva progressivamente alla supremazia francese, sviluppando i suoi interessi in Italia.
A metà del Seicento, pur non potendo
sottrarsi agli equilibri di potere stabiliti a
Cateau-Cambrésis, i Savoia guidavano la
principale potenza militare della penisola
dopo quella, in crisi inarrestabile, dei dominatori spagnoli.
La Repubblica di Genova
La Repubblica di Genova poté godere nella prima metà del Seicento dei vantaggi
che le derivavano dall’essere il più fedele
alleato della Spagna nella penisola. Fino
alla metà del secolo, infatti, i banchieri genovesi sostennero abbondantemente con i
loro prestiti la politica di potenza di Madrid
e ottennero in cambio di gestire il flusso di
capitali del suo impero (dai prelievi fiscali
in Italia, all’oro e argento che provenivano dall’America). Il porto della città venne
inoltre utilizzato come il principale scalo
di collegamento della stessa Spagna con i
suoi possedimenti in Europa centrale e con
i territori dominati dagli Asburgo d’Austria.
Anche a causa dello stato di costante ribellione dei Paesi Bassi, i contingenti militari
spagnoli diretti ai campi di battaglia della
Concerto notturno nel piazzale delle Cascine a Firenze, XVIII sec.
Guerra dei Trent’Anni e i loro rifornimenti
passarono in gran parte per Genova.
La città conobbe quindi una fase di benessere, testimoniata dall’intensa attività
edilizia e dall’ampliamento del porto. Tuttavia, a guidare la città era da tempo una
ristretta oligarchia di famiglie nobili, arricchitesi tramite i commerci e le attività
finanziarie, fermamente ancorate ai propri
esclusivi privilegi. Nella Repubblica non si
sviluppò dunque, se non in parte, quella
borghesia mercantile imprenditoriale che
avrebbe potuto rilanciare l’economia genovese quando la decadenza spagnola si fece
inarrestabile. Infatti, venuto meno il sostegno della Spagna, Genova subì, al pari di
Venezia, una forte contrazione dei suoi traffici per la concorrenza inglese e olandese, e
perse definitivamente il suo ruolo di grande
potenza commerciale e finanziaria. A
Il granducato di Toscana
Giacomo Vighi detto l’Argenta, Ritratto di Emanuele
Filiberto di Savoia, Torino, Galleria Sabauda.
Giacomo Vighi detto l’Argenta, Ritratto di Carlo
Emanuele I fanciullo, Torino, Galleria Sabauda.
Anton van Dyck, Ritratto di nobildonna
genovese, 1622-26, Berlino, Gemäldegalerie.
La trasformazione del ducato di Toscana in
uno Stato moderno maturò sotto il dominio
di Cosimo I de’ Medici (1537-1574) e dunque a cavallo della definitiva stabilizzazione
dell’Italia nell’area di influenza spagnola.
Dalla Spagna Firenze ottenne l’annessione
della Repubblica di Siena (1555); dal papa
Pio V Cosimo ottenne invece il titolo di
granduca (1569) e quindi il pieno riconoscimento dell’autonomia del suo Stato e della
dinastia che lo reggeva, garantita (e vigilata)
dalle due potenze dominanti nella penisola
e lontano da ogni dipendenza nei confronti
della Francia.
Ferdinando I (1587-1609) e Cosimo II
(1609-1621) portarono avanti l’opera di accentramento e modernizzazione del granducato. Essi fecero di Pisa un centro di studi
di grande prestigio (qui compì le sue ricerche
Galileo Galilei) e di Livorno un porto franco
in cui era garantita agli stranieri libertà di
circolazione, piena esenzione da dazi doganali e completa tolleranza religiosa.
La Toscana visse quindi un periodo di
pace e di sicurezza, rimanendo in una prima
fase assoggettata agli interessi della Spagna
– garantiti del resto dal possesso spagnolo
delle piazzeforti dello Stato dei Presìdi – e
tuttavia senza rinunciare mai alle relazioni
con la Francia. Nel 1600, infatti, Maria, la figlia di Ferdinando II (che sarà granduca dal
1621 al 1670), sposò il re di Francia Enrico
IV. Nel corso del secolo, dunque, al progressivo indebolirsi della supremazia spagnola, la Toscana rientrò nell’area di influenza
francese, nella forma di un’alleanza tra i due
Stati rafforzata da forti legami dinastici.
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304
1490
L’Italia nel Seicento
p. 314
Album p. 308
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1501 Manuzio stampa il primo libro in caratteri aldini
1559 Mercatore pubblica il planisfero per i naviganti
1561 Prima fiera del libro a Francoforte
XVI-XVII sec. Spagna ripetutamente in bancarotta
1700
305
3
14
Le origini dell’Europa moderna
Lo Stato della Chiesa
Ritratto di Giordano Bruno.
Lo Stato della Chiesa consolidò, nel
corso del Seicento, il suo prestigio
internazionale, assicurato dall’adesione della Spagna e dell’Austria
prima e poi della Francia di Luigi
XIII e XIV alla causa della Controriforma, cioè del contrasto attivo
contro il protestantesimo luterano
e calvinista. Anche gli Stati italiani
(Milano, Napoli, Genova, la Savoia,
la Toscana, con la parziale eccezione di Venezia di cui abbiamo parlato) si adoperarono attivamente
a sradicare ogni forma di dissenso
culturale e religioso. Il papato poteva dunque
esercitare una forte ingerenza negli affari interni di tre delle maggiori potenze europee
e nella penisola, il che faceva del principato
dei papi uno Stato dalle caratteristiche uniche nello scenario internazionale.
Tuttavia, nella contestazione della Venezia di Paolo Sarpi e nel rafforzamento dello Stato assoluto francese anche in materia
religiosa si notavano i segni di una tendenza che si andrà rafforzando nel corso del
Settecento: la Chiesa si avviava a perdere il
suo status privilegiato all’interno degli Stati
cattolici, per cedere sempre più i suoi poteri
alle autorità civili.
Dal punto di vista della politica interna,
lo Stato della Chiesa cercò di rafforzarsi, secondo il modello di organizzazione statale
prevalente all’epoca, come Stato centralizzato e assoluto. Tuttavia, le città più importanti non perdettero mai del tutto la loro secolare autonomia amministrativa: sia quelle
di più recente acquisizione (Ferrara, 1598, e
Urbino, 1631), sia quelle di antica tradizione
comunale, come Bologna. Gli interessi dei
papi, capi della Chiesa universale, portavano infatti lo Stato pontificio a impegnarsi
in particolare sul fronte internazionale (ad
esempio nell’opera di faticosa mediazione
tra Francia e Spagna) e nella battaglia culturale della Controriforma. Su questo fronte Roma divenne il centro di vigilanza e in
parte di repressione delle nuove acquisizioni della ricerca scientifica: emblematiche, a
questo proposito, la condanna ed esecuzione di Giordano Bruno (1600) e il processo a
Galileo Galilei (1633).
1559-1713
Predominio spagnolo in Italia
1563
Emanuele Filiberto trasferisce
a Torino la capitale del ducato
di Savoia
1569
Cosimo I de’ Medici ottiene
il titolo di granduca di Toscana
1600
L’Inquisizione mette al rogo
Giordano Bruno
1606
La Repubblica di Venezia resiste
all’interdetto del papa
1627-1629
Carestia
I NODI DELLA STORIA
Quali furono le cause della decadenza italiana nel Seicento?
La fine del Rinascimento, l’avvio della Controriforma, il declino
economico del Mediterraneo, il processo di rifeudalizzazione,
il definitivo asservimento degli Stati italiani alle potenze straniere: la storiografia ha sempre identificato in questi elementi le
origini della grande crisi italiana del Seicento. La conseguenza
di questa osservazione è stata, di conseguenza, la constatazione che tale declino sarebbe stato legato alla mancanza di
un processo unitario di tipo nazionale, destinato a giungere,
come sappiamo, con incredibile ritardo. In realtà l’Italia aveva
retto perfettamente, sul piano economico, il lungo passaggio
tra la fine del Medioevo e la prima Età moderna; anzi, per molti
versi, era stato il suo momento migliore. Quello che era cambiato, alle soglie del XVII secolo, era il contesto internazionale. Le monarchie nazionali tradizionali, come l’Inghilterra e la
Francia, erano state, tutto sommato, più delle promesse che
delle realtà nei secoli della supremazia economica dei Comuni
e delle Signorie italiane; essendo bloccate, tra l’altro, dal feroce conflitto della Guerra dei Cent’Anni; il progetto neouniversalistico di Carlo V d’Asburgo era fallito per il suo intrinseco
anacronismo, per l’ostilità dei principi tedeschi armati, grazie a
Lutero, di una nuova bandiera religiosa con la quale rivendicare
la propria autonomia. All’inizio del Seicento, quindi, il grande
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rimescolamento di carte dell’Europa moderna era giunto a una
sua prima sistematizzazione. La Francia sarebbe emersa come
potenza predominante nella seconda metà del secolo; la Spagna avrebbe fallito il suo sogno egemonico e si sarebbe avviata
a un malinconico declino; l’Inghilterra, pur passando attraverso
le dure e drammatiche esperienze dei conflitti intestini, sarebbe
uscita dal Seicento come una grande potenza mondiale. Ma
per gli spazi italiani il destino sarebbe stato del tutto diverso. La
crisi generale del Seicento non fu il prezzo da pagare per una
successiva modernizzazione, ma la conferma di una decadenza
prima economica e sociale che politica. E anche lo scenario
culturale era destinato a cambiare. Il Seicento avrebbe significato per la Francia «le grand siècle» di Molière e Racine;
in Inghilterra il genio di Shakespeare avrebbe cambiato per
sempre i canoni del teatro; in Spagna il secolo d’oro della sua
letteratura sarebbe stato illuminato dall’opera di Cervantes e
di Lopez de Vega. In Italia, per secoli modello insuperato di
creatività poetica, il confronto stucchevole tra il barocchismo
di Giovanbattista Marino e l’ostinato classicismo dei suoi avversari segnava, anche nel campo letterario, l’inizio di un’età di
crisi e di subalternità culturale.
1630-1631
Epidemie di peste
1647
Rivolta di Masaniello a Napoli
L’Italia nel Seicento
1 Nel quadro delle trasformazioni dell’economia europea tra Cinquecento
e Seicento, l’Italia vive una fase di declino, ma anche di ristrutturazione della sua economia. Divisa politicamente e senza alcuna autorità pubblica in
grado di sostenere una politica unitaria di espansione e difesa della produzione e
dei commerci, l’Italia conobbe nel corso del Seicento una fase di marginalizzazione
e di declino. Si contrassero soprattutto la produzione manifatturiera – che subì la
concorrenza di beni di minor costo di origine inglese e olandese – e il volume dei
commerci – sempre per la concorrenza delle nuove potenze economiche occidentali
e per lo spostamento dei traffici con l’Asia sulle rotte oceaniche.
A dare segni di ristrutturazione, almeno in alcune aree, fu soprattutto la produzione
agricola. Nobili, mercanti e banchieri, infatti, cercarono nuovi guadagni (o almeno
rendite sicure) soprattutto in questo settore. Questo portò a una certa rifeudalizzazione delle campagne nel Meridione e in parte nel Nord-est, ma spinse anche a
diversificare e modernizzare le produzioni dalla Toscana alla pianura padana e fino in
Piemonte. Lo sviluppo delle colture industriali (in particolare lino e seta) consentì di
fare di alcune aree del Nord le fornitrici di materia prima per le industrie straniere e
fece da base per il futuro sviluppo industriale dell’Italia.
2 L’Italia politica disegnata dalla pace di Cateau-Cambrésis è frammentata
in Stati grandi e piccoli, con il governo diretto della Spagna su Napoli, Milano e su alcune piazzeforti in Toscana. Gli effetti dell’amministrazione spagnola
sui domini in Italia furono di diversa natura. Madrid impose un carico fiscale gravoso
– che provocò rivolte, come quella del 1647 a Napoli – e coinvolse queste regioni
nel declino nella propria potenza e della propria economia. D’altra parte, città come
Genova, Milano e Napoli trassero a lungo vantaggi dalla loro funzione strategica nel
quadro dell’impero spagnolo e del suo sforzo espansivo. Inoltre, il dominio spagnolo
assicurò a tutta la penisola un lunghissimo periodo di pace e di stabilità, anche
se mantenuto con la forza e con il controllo sulla cultura e sulla religione imposto
dall’Inquisizione.
3 Venezia, Savoia, Genova, granducato di Toscana e Stato della Chiesa: sviluppi interni degli Stati italiani sul modello delle tendenze politiche che
si vanno affermando in Europa. Venezia, in costante declino ma ancora ricca e
gelosa della propria autonomia, si oppose con forza anche contro le ingerenze della
Chiesa nella sua amministrazione. Il ducato di Savoia si sottrasse alla pressione della
potenza francese e sviluppò i propri territori e i propri interessi in Italia; Genova godette dell’essere alleata fedele e fornitrice di capitali e servizi alla Spagna. La Toscana
divenne uno Stato moderno e diede impulso al porto franco di Livorno. Lo Stato della
Chiesa si unificò e accentrò, pur essendo diviso tra gli interessi interni e la vocazione
politica che gli derivava dall’essere guidato dal capo della Chiesa universale.
1647-1649
Carestia
1656
Epidemie di peste
1663
L’Inquisizione processa
Galileo Galilei
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3
14
Le origini dell’Europa moderna
L’Italia nel Seicento
L’Italia e le repubbliche d’antico regime
Nel quadro geopolitico italiano del XVII secolo spiccavano tre Stati che si distinguevano dal panorama
monarchico prevalente in Europa e in Italia: le repubbliche di Genova, Lucca e Venezia. Si trattava di Stati
governati da un sistema politico di carattere oligarchico nel quale il potere decisionale era in mano a una ristretta e chiusa élite aristocratica di origine cittadina. Le famiglie che componevano questa limitata cerchia
di potere avevano originariamente costruito la loro fortuna economica e sociale grazie ai proventi delle attività economiche tipiche della città, ossia la produzione artigianale, i traffici commerciali e gli investimenti
finanziari. In seguito, tra XVI e XVII secolo, avevano progressivamente investito le loro ricchezze anche nella
proprietà della terra e nella produzione agricola. Le tre repubbliche differivano per la grandezza dei relativi
Stati, per la collocazione diplomatica e per gli interessi economici,
ma erano accomunate da un medesimo meccanismo
di governo di tipo elitario.
Il Canal Grande a Venezia, «vetrina» di molte
residenze dell’aristocrazia veneziana.
Il potere dell’oligarchia
Accanto al potere pubblico, avevano grande importanza le famiglie aristocratiche, principali depositarie delle risorse economiche, sociali e politiche del
territorio. Simbolo fondamentale di tale potere erano le residenze private di
queste famiglie: si trattava di edifici che rappresentavano un efficace strumento di esibizione della loro ricchezza e del loro prestigio.
Genova, Palazzo Rosso in Via Garibaldi (Strada Nuova).
Il palazzo ducale di Venezia.
Lucca: veduta della Piazza del Mercato.
Il palazzo ducale di Genova.
Le attività economiche della città
Il governo dello Stato
Le antiche repubbliche aristocratiche d’antico regime erano governate da magistrature collegiali
di carattere elettivo composte da pochi membri scelti tra le fila della ristretta élite dominante. Il
governo pubblico, che rappresentava gli interessi collettivi, si identificava in un edificio di grande
importanza, posto nel cuore della capitale, nel quale erano ospitati i principali organismi politici.
308
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Il palazzo ducale di Lucca.
Genova e il suo porto in una carta nautica
della prima metà del XV secolo.
Le repubbliche oligarchiche italiane avevano un’origine molto antica e affondavano le
proprie radici nei secoli del Basso Medioevo. Anche dal punto di vista economico esse
conservarono un profilo piuttosto tradizionale, legato alle attività mercantili, artigianalimanifatturiere o finanziarie che erano state alla base del successo degli antichi Comuni italiani e delle Repubbliche marinare.
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3
14
Le origini dell’Europa moderna
Ragiona sul tempo e sullo spazio
Impara il significato
1
4
2
Osserva la cartina a p. 296 e, aiutandoti con il testo del capitolo, confrontala con quella a p. 245: quali
cambiamenti sono avvenuti nella penisola italiana tra XVI e XVII secolo?
ATTIVITÀ
a XVI secolo b XVII secolo c XVIII secolo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Nel
la capitale del ducato di Savoia viene spostata da Chambéry a Torino
Nel
, al termine della Guerra di successione spagnola, la pace di Utrecht dà agli Asburgo d’Austria
il controllo dell’Italia
Nel luglio del
, l’imposizione di una nuova tassa sulla vendita della frutta scatena a Napoli una rivolta
antispagnola che coinvolge i ceti popolari, parte della borghesia più ricca e alcuni intellettuali
Nel
il filosofo Giordano Bruno viene condannato dalla Chiesa e mandato al rogo
Nel
la Repubblica di Venezia nomina Paolo Sarpi consigliere legale per le questioni religiose, il quale
si fa difensore dell’autonomia politica e culturale della Serenissima
Nel
la pace di Cateau-Cambrésis pone fine alla guerra tra la Spagna di Filippo II e la Francia di Enrico II;
gli spagnoli acquisiscono larga parte della penisola italiana
Nel
il duca di Savoia ottiene dalla Francia l’annessione del marchesato di Saluzzo in cambio di alcuni
territori occidentali
Nel
il granducato di Toscana ingloba la Repubblica di Siena, raggiungendo i confini che mantiene fino
all’Unità d’Italia
Nel
Galileo Galilei viene processato dalla Chiesa per le sue teorie giudicate eretiche
Nel
, la figlia del futuro granduca di Toscana sposa il re di Francia Enrico IV, rafforzando i legami con
la corona francese
Scrivi quale significato assumono i seguenti concetti nel Seicento.
1
2
3
4
5
6
7
Completa le frasi scrivendo l’anno esatto in cui accade l’evento, poi collega ciascun fatto al secolo in cui avviene.
5
L’Italia nel Seicento
Ristrutturazione
Rifeudalizzazione
Lavoratori salariati a domicilio
Porto franco
Contrazione
Giurisdizione
Marginalità
Prova a riflettere sul significato di «divario economico» e, alla luce di quello che hai letto nel capitolo, spiega che cosa
si intende con questo concetto. Sapresti fare un esempio di divario economico dei giorni nostri?
Osserva, rifletti e rispondi alle domande
6
Osserva la mappa concettuale relativa al rallentamento economico dell’Italia del Seicento. Poi rispondi alle domande.
Le caratteristiche del rallentamento economico dell’Italia del Seicento
Esplora il macrotema
3
Completa il testo.
Il quadro politico dell’Italia seicentesca è quello di un territorio estremamente frammentato. L’accordo di
Cateau-Cambrésis assegna agli (1)
larga parte della penisola italiana, cioè il Meridione,
le isole e il ducato di Milano, sui quali Madrid esercita un dominio diretto, considerandoli a tutti gli
effetti parti integranti del (2)
. Il dominio iberico dura fino al termine della Guerra di
successione spagnola (quando la pace di Utrecht dà agli Asburgo d’Austria il controllo della penisola)
e ha conseguenze importanti sull’economia e la società italiane: infatti il pesante prelievo fiscale e il
malgoverno dovuto all’alleanza con la (3)
causano un forte regresso economico e una
pesante rifeudalizzazione. Inoltre, il mancato coinvolgimento dell’Italia nelle imprese belliche spagnole
nel continente europeo se da un lato garantisce un lungo periodo di pace e di stabilità, dall’altro relega
il paese ai margini della politica europea.
Anche gli Stati italiani subiscono, pur in misura diversa, l’influenza spagnola, che si manifesta in pesanti
ingerenze nella loro politica (4)
; l’Italia centro-settentrionale, infatti, è caratterizzata
da diversi Stati indipendenti, tutti impegnati nella difesa della propria (5)
e di fatto
incapaci di opporsi all’invadenza spagnola. Oltre al ducato di Milano, i due Stati più importanti sono
la Repubblica di Venezia a est e il ducato di Savoia a ovest. Nella pianura padana permangono i ducati
di Modena (governato dalla signoria degli Estensi), di Mantova (governato dai (6)
), di
Parma e Piacenza (governati dai Farnese). Tuttavia, la sopravvivenza di questi piccoli Stati è dovuta più
alla tolleranza della Spagna e alla necessità di mantenere gli equilibri tra Stato della Chiesa e Repubblica
di (7)
che alla loro reale forza.
Più a ovest persiste, almeno formalmente, la Repubblica di Genova, che confina a nord con il marchesato
del Monferrato; al centro della penisola, invece, si trovano il granducato di Toscana e lo Stato della
(8)
, che gode della forte alleanza del dominatore spagnolo cattolico sulla penisola.
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1 Quali sono le differenze tra
le diverse zone della penisola?
2 Qual è l’attività prevalente in tutta
la penisola?
3 Quali attività entrano in crisi?
Mostra quello che sai
7
Osserva le immagini a p. 302: a quale architettura pensi si rifacciano le opere di Andrea Palladio?
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Documenti
Repubblicanesimo
Nella seconda metà del Novecento ha preso vigore la teoria del repubblicanesimo, intesa come teoria politica
che sintetizza entrambi gli aspetti della libertà, sia nel suo significato negativo («libertà da») sia nell’accezione
positiva («libertà di»). Sebbene per taluni altro non sia che una diversa esplicazione della libertà negativa, per altri
la libertà dall’arbitrio e la libertà di scegliere, di partecipare, di contribuire a deliberare la decisione pubblica
sono invece espressione di una completezza della condizione umana, intesa nella dimensione dell’autonomia e
del superamento di ogni forma di dipendenza, individuale e collettiva.
Il filone del repubblicanesimo prende le mosse sin dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento con l’opera di
John Greville Agard Pocock. Prosegue con i lavori di Quentin Skinner, Philip Phettit e Maurizio Viroli, alcuni tra i
maggiori elaboratori di questo filone. Per molti aspetti costituisce un ripensamento della tradizione democratica, così come si è sviluppata a partire dalla Rivoluzione francese, coniugando la libertà del singolo e la libertà dei
più, o per meglio dire, sostenendo che la libertà individuale può essere conseguita soltanto perseguendo il bene
comune. In sostanza, i singoli debbono farsi cittadini: come sostiene Skinner, solo servendo la repubblica è
possibile salvaguardare la libertà individuale. In questo senso, il repubblicanesimo costituisce un tentativo
di risposta alle sfide poste dalla crisi del socialismo e del paradigma liberale classico. Le difficoltà sempre più
evidenti dei sistemi democratici contemporanei nel fronteggiare la professionalizzazione della politica, che induce
i cittadini a sottrarsi al coinvolgimento attivo nella gestione della cosa pubblica, si possono sciogliere ricorrendo
a soluzioni fortemente radicate nel tempo: virtù civile e patriottismo, quest’ultimo inteso non semplicemente
come amore per il luogo in cui si è nati, ma in una strenua difesa di una concezione dello stare insieme, come
risulta, per esempio, nella locuzione «patriottismo costituzionale» che il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha
coniato per definire in positivo i valori della Germania democratica succeduta alla dittatura nazista.
Della teoria del repubblicanesimo è rilevante il fatto che tutti gli autori che se ne sono occupati abbiano sottolineato le radici antiche, i cui primordi affondano nel tempo della repubblica romana classica, in autori come Tito Livio
e Marco Tullio Cicerone e nella loro apologia del governo della legge. Sebbene non vi sia accordo sulle origini, è
però condivisa l’ipotesi che il repubblicanesimo sia un filo costante dell’esperienza occidentale. Alcuni ne datano l’avvio nell’opera dei retori italiani del XIII secolo, sostenitori delle ragioni dei liberi Comuni; altri nell’Umanesimo civile sviluppatosi a Firenze con Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1370-1444). Un’ulteriore
elaborazione è provenuta dall’opera di Niccolò Machiavelli (1469-1527) e di Francesco Guicciardini (1483-1540),
quest’ultimo lodatore della stabilità mostrata dalle istituzioni dell’aristocratica Repubblica di Venezia. Il repubblicanesimo trasmigrò quindi nelle provincie olandesi in rivolta contro il dominio spagnolo e fu riformulato più tardi
da filosofi come Baruch Spinosa (1632-1677). In Gran Bretagna ebbe nel poeta John Milton (1608-1674) e nella
polemica di James Harrington (1611-1677) con Thomas Hobbes, l’autore del Leviatano, sulla differente natura tra
un governo assoluto e una repubblica che si dà leggi da sé. Il repubblicanesimo nutrì gli autori dell’Encyclopédie,
Jean-Jacques Rousseau, ma anche i federalisti americani, che trovarono la realizzazione delle loro idee nel modello di governo federale elaborato da James Madison (1751-1836). Riapparve quindi in Italia, arricchita dalla
coeva riflessione democratica, nel corso del XIX secolo, sia nell’idea di patria che nutrì l’agire di Giuseppe Mazzini
(1805-1872) sia nella proposta di autogoverno che animò Carlo Cattaneo (1801-1869).
Il repubblicanesimo è l’ideologia politica legata a una repubblica, cioè a uno Stato dove la sovranità risiede nel popolo. Teoria assai diffusa dal Novecento ad oggi, si è formata in Italia nel Rinascimento, grazie soprattutto a pensatori come Coluccio
Salutati, cancelliere della Repubblica di Firenze negli ultimi decenni del Trecento, e a Niccolò Machiavelli, che sempre con
la Repubblica fiorentina collaborò nella gestione della politica estera.
1 Riassumi brevemente le radici storiche della teoria del repubblicanesimo.
2 Oggi, di fronte alla crisi della politica, qualcuno dichiara di sperare nel ritorno di un «uomo forte», di un regime che si ispiri alle
dittature della prima metà del Novecento. Pensi che si tratti di una «deriva pericolosa»?
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1.L’invettiva di Coluccio Salutati
Nel 1403 Coluccio Salutati scrisse questa Invettiva contro Antonio Loschi da Vicenza. Egli replicava all’Invettiva contro i Fiorentini
che quest’ultimo, parte della cancelleria di Gian Galeazzo Visconti, aveva redatto nel 1399. La parte che si riporta elogia la libertà del
Comune fiorentino presso il quale Salutati fu cancelliere dal 1375 al 1406, anno della sua morte.
Comunque ascoltiamo ancora questo nuovo profeta pazzo e violento.
«Vedremo, vedremo la vostra famosa costanza e romana fortezza nel
difendere una turpe libertà, o meglio una crudelissima tirannide. Voi
siete soliti infatti andare superbi del
nome romano e dichiararvi stirpe di
Roma. Quanto sia grande in questo
la vostra impudenza dovrà dirsi in
altro luogo». Vedremo, dici; eppure
avevi visto, vedi e vedrai la più che
romana forza e costanza del popolo
fiorentino nel difendere la dolcissima libertà, che, come è stato detto,
è un bene celeste che soverchia ogni
ricchezza del mondo! Tutti i Fiorentini hanno fermo nell’animo il pro-
posito di difenderla come la vita,
anzi più della vita, con le ricchezze
e con la spada, per lasciare ai figli
questa ottima eredità ce abbiamo
ricevuto dai padri nostri; per lasciarla, con l’aiuto di Dio, salda e incontaminata. Tanto ci piace questa
che tu chiami turpe, o il più sciocco
di tutti gli uomini, questa libertà che
solo i Lombardi, non so se per natura, se per abitudine o per entrambe
le ragioni, non sembrano né amare
né desiderare. Ma tu solo consideri
turpe ed aborri questo, che è il più
alto dono di Dio; né penso che in
codesto tuo parere troverai un solo
compagno, perfino sotto la signoria del tuo principe, tanto è natura-
le l’amore per la libertà. Perciò mi
sembra che tu, non per umiltà ma
per colpa, possa, anzi debba ragionevolmente chiamarti servo dei servi. Ma perché ti chiamo servo, dal
momento che ti compiaci tanto della tua servitù, da non vergognarti di
chiamar turpe la libertà, anzi, ed è
stoltezza maggiore, da non esitare a
dirla tirannide crudelissima? Parola,
son certo, che ha fatto ridere e farà
ridere tutti, ma che non ho potuto
tollerare. La sciocchezza e la falsità
di tutto questo io lascerei giudicare
a te medesimo, se tu rappresentassi
un sol uomo; sono invece costretto
a mostrarla a tutti i lettori.
E. Garin (a cura di), Prosatori latini del Quattrocento, vol. I, Torino, Einaudi, 1976
2.La libertà politica per Machiavelli
Niccolò Machiavelli visse negli anni in cui si verificarono l’asservimento dell’Italia alle potenze straniere e il declino delle libere repubbliche. Egli morì poche settimane dopo il sacco di Roma del 6 maggio 1527. Un commento dello storico Maurizio Viroli.
Come videro bene Spinoza e Rousseau, solo per citare i nomi più illustri,
Machiavelli fu un repubblicano e il
suo repubblicanesimo fu in primo
luogo adesione ai principi del «vivere politico civile», ovvero dell’ideale
di una repubblica fondata sul governo della legge e sul bene comune.
Qualsiasi forma di governo, compreso il governo popolare o repubblicano, che non soddisfa i requisiti
del vivere civile è per Machiavelli un
cattivo governo: è o una tirannide
o una repubblica corrotta. […] Una
buona repubblica deve quindi al
tempo stesso tollerare e moderare i
conflitti sociali. Per evitare i conflitti le repubbliche dovrebbero o re-
stringere il più possibile il numero
dei cittadini, o non impiegare i propri cittadini in guerra, o fare l’una
e l’altra cosa. Ma entrambe le soluzioni, tradizionalmente associate
agli esempi di Sparta o di Venezia,
sono per Machiavelli pericolose
per la libertà della repubblica. Poiché le cose umane sono sempre «in
moto», può facilmente darsi il caso
che una repubblica si trovi nella necessità di espandere il proprio territorio; ma se ha pochi cittadini, o se
non ha un proprio esercito, non può
espandersi e quindi perde la propria
indipendenza. Mentre la sua valutazione positiva del conflitto sociale
ha aperto la strada alle moderne te-
orie liberali, in particolare a quella
di John Stuart Mill, la sua interpretazione della libertà politica è una
rielaborazione della dottrina repubblicana classica. Proprio per questo,
tuttavia, merita di essere considerata con attenzione. Per Machiavelli
essere liberi significa non dipendere dalla volontà di altri uomini.
La libertà politica è l’opposto della
condizione servile o di schiavitù: i
figli dei cittadini delle libere repubbliche, scrive, «nascono liberi e non
schiavi». E ancora nei Discorsi nota:
«le città che sono consuete a vivere
con le loro leggi, sono in libertà».
M. Viroli, Politica e libertà politica in Machiavelli, in A. Andreatta, A.E. Baldini, Il pensiero politico nell’età moderna. Da Machiavelli a Kant, Torino, UTET, 1999
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Documenti
Libertà religiosa
In Europa la discriminazione sulla base dell’appartenenza religiosa incominciò a indebolirsi nel corso del XVIII
secolo, per effetto del diffondersi delle idee dell’Illuminismo. Nel secondo decennio del secolo precedente, i
Padri Pellegrini, che a bordo della Mayflower partirono dall’Inghilterra alla volta dell’America settentrionale, altro
non erano che dissidenti religiosi in fuga dalle persecuzioni. I popoli e gli Stati europei, dopo la scissione conseguente la Riforma protestante e la ristrutturazione del cattolicesimo realizzata con il Concilio di Trento, affrontarono vere e proprie guerre di religione, mantenendo e rafforzando un atteggiamento di condivisa inospitalità
nei riguardi delle minoranze non cristiane, a cominciare dagli ebrei.
Nel corso dell’Ottocento, gli effetti dei mutamenti culturali maturati nel secolo precedente con la diffusione
dei Lumi si avvertirono anche nel campo della libertà religiosa. Nelle isole britanniche nei due primi decenni
dell’Ottocento vennero abolite le leggi di discriminazione politica dei dissidenti protestanti e dei cattolici. Con
la Rivoluzione americana – la Costituzione del 1790 proclamava solennemente la libertà religiosa – e con la
Rivoluzione francese anche la discriminazione degli ebrei fu messa in disparte. Si ripropose in Europa con la
Restaurazione, ma con profonde differenze tra i diversi Stati, tanto che in Francia nel 1830 non operava più. In
Italia l’emancipazione delle minoranze religiose – ebrei e valdesi – avvenne nel Regno di Sardegna nel 1848 per
essere poi estesa, con l’unificazione nazionale, all’intero regno.
Con l’affermazione dello Stato liberale e con il suo divenire progressivamente democratico, la salvaguardia della
sfera della libertà in ambito religioso parve quindi rafforzarsi. In realtà, le profonde trasformazioni che investivano
l’economia, la società, la cultura favorirono un nuovo radicarsi dei pregiudizi e dell’intolleranza nei confronti
dell’altro. L’antisemitismo fiorì lungo tutto il corso del XIX secolo per poi esplodere, con la grande crisi degli
anni Trenta del XX secolo, nell’intero continente europeo. La legislazione antiebraica accomunò le principali
esperienze fasciste, mentre in Unione Sovietica persistette la tradizione dei pogrom, cioè l’organizzazione di
sommosse popolari contro gli ebrei. L’antisemitismo culminò nella Shoa durante la Seconda guerra mondiale.
In Italia, la Costituzione ha riconosciuto nell’articolo 8 l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose di fronte
alla legge, mentre l’articolo 19 recita: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in
qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». L’articolo 7 della Costituzione ha recepito i Patti lateranensi,
firmati nel 1929 tra lo Stato e la Chiesa. Questo concordato affermava, in accordo del resto con lo Statuto Albertino, che la religione cattolica era la religione di Stato. In questo senso contraddiceva le affermazioni, contenute
nell’articolo 8 della Costituzione, sulla libertà religiosa che, infatti, impiegò alcuni anni per potersi compiutamente
affermare. Nel 1984 lo Stato e la Chiesa firmarono un nuovo Concordato che abolì il carattere ufficiale della
religione cattolica e introdusse il meccanismo dell’8 per mille per il finanziamento delle confessioni religiose.
A partire dal XVII secolo alcuni pensatori europei iniziarono a riflettere su una distinzione che oggi costituisce un cardine
del nostro modo di pensare, ma che ha richiesto secoli di lotte e di sofferenze per affermarsi: la distinzione tra società
civile e società religiosa. In seguito alla Riforma protestante, alla Controriforma cattolica e alle lunghe e cruente guerre
di religione, nell’animo degli europei iniziò a farsi strada l’idea del riconoscimento della libertà religiosa, dovuta a tutti i
cittadini, qualsiasi confessione essi intendano abbracciare. Iniziò così ad essere messa in discussione la concezione dello
Stato assolutistico.
1.Le idee nuove dei moderni: laicità e libertà
Così lo storico Giuseppe Galasso ha delineato la nascita, nella stagione dell’Illuminismo, delle «idee nuove dei moderni», tra le quali
annovera la laicità e la libertà, affermatesi anche in contrasto con le religioni rivelate. La laicità è il filone che ha condotto in Europa
all’emancipazione degli ebrei, «uno dei filoni più importanti – scrive Galasso –, per molte e forti ragioni, nella storia europea».
Nessun dubbio può esservi sul fatto
che l’affermazione cristiana di uno
spazio che non è di Cesare, ma di
Dio abbia rappresentato una formidabile risorsa di energie morali
e civili. Né si può dubitare che, specialmente nel Medioevo, la funzione delle Chiese europee, e in particolare della Chiesa cattolica, sia
stata quella di una forza promotrice
di esigenze e di conquiste di libertà.
Anche qui sono, però, almeno due
osservazioni. La prima è che l’istanza di una morale più alta e più inderogabile delle leggi della politica e
dell’ordine statale e giuridico ha cominciato a delinearsi nella cultura e
nella civiltà occidentale fin dall’età
precristiana. La figura di Antigone
è già costruita nella tragedia di Sofocle sul tema di un grande duello
tra le leggi divine e celesti, inviolabili, e le leggi civili, necessarie e utili o opportune, ma che non hanno
lo stesso grado e valore imperativo
delle leggi divine. Nel Cristianesimo
questo motivo subisce una profonda metamorfosi, acquistando un
valore centrale discriminante per
tutta la storia […], accrescendo così
di molto la forza dirompente e operativa del principio così proclamato. Non meno importante è un altro
punto: nei secoli iniziali e formati-
vi della modernità il ruolo politico
della Chiesa appare consegnato in
Europa a una funzione repressiva
e illiberale che rende molto difficile riconoscerla come una forza di
incremento dei valori di laicità e di
libertà. […] Il dissenso religioso non
fu tollerato dal potere politico, ma
ancora meno fu tollerato in sede
ecclesiastica. L’apparato repressivo,
specie sul terreno culturale, ebbe
nella censura ecclesiastica uno dei
suoi bracci più vigorosi. In interi
paesi, come la Spagna e l’Italia, la
diffusione del moto protestante fu
stroncata alla radice con una pratica larghissima della violenza.
G. Galasso, Prima lezione di storia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2008
2.L’Editto di Nantes
L’Editto di Nantes venne emanato dal re di Francia Enrico IV il 13 aprile 1598 per porre fine alle guerre di religione che devastavano
il paese dal 1562. L’Editto consentiva ai cattolici di professare ovunque la loro fede e riconosceva libertà di coscienza ai sudditi:
quindi gli ugonotti, protestanti, potevano mantenere le loro idee religiose ma senza professarle pubblicamente (a parte in alcune città
e roccaforti, come La Rochelle, dove erano saldamente insediati). L’Editto rappresentò una rottura del principio «cuius regio, eius
religio» che costringeva i sudditi delle monarchie europee ad adeguarsi alle scelte religiose dei loro sovrani. L’Editto di Nantes venne
revocato da Luigi XIV con l’editto di Fontainebleau (1685), che provocò l’espulsione di oltre 300.000 ugonotti dalla Francia.
Art. III – Noi ordiniamo che la religione Cattolica Apostolica e Romana sia restaurata e ristabilita in tutti
i luoghi e i distretti del nostro regno
così che vi sia professata in pace e
liberamente, senza disordini od opposizioni. […]
Art. IV – Al fine di eliminare ogni
causa di discordie o contese tra i
nostri sudditi, noi abbiamo concesso a quelli della religione cosiddetta Riformata di vivere e risiedere in
tutte le città ed i distretti del nostro
regno, senza che siano importunati,
molestati o costretti a compiere alcunché contro la loro coscienza riguardo alla religione o di essere per
tal causa perseguiti nelle loro case
e distretti, dove desiderano vivere,
a patto che essi si conducano per il
resto secondo le regole del nostro
presente editto. […]
Art. XIV – Proibiamo espressamente
a tutti gli appartenenti alla suddetta
religione di praticarla nella nostra
Corte e nel nostro seguito ed egual-
mente nelle nostre terre e paesi al
di là dei monti e nella nostra città
di Parigi, fino a cinque leghe dalla
detta città: tuttavia i seguaci della detta religione che abitano nelle
terre e paesi al di là dei monti e nella detta nostra città e a cinque miglia intorno ad essa, non potranno
essere perseguiti nelle loro case, né
costretti a far cosa contro la loro coscienza in materia di religione.
1 Spiega con parole tue il concetto di «libertà religiosa».
2 Ritieni che al giorno d’oggi siano presenti minacce alla libertà religiosa? Se sì, quali?
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Testimonianze
Documento 1
Testimonianze
Martin Lutero e la «giustificazione per la sola fede» in Gesù (capitolo 10)
Punto centrale dell’insegnamento di Martin Lutero (1483-1546) fu la giustificazione del cristiano davanti a Dio non per le sue opere
ma per la sua fede. Egli contrapponeva i comandamenti, espressione dell’Antico Testamento, alla promessa di salvezza del Cristo,
espressione del Nuovo Testamento e spingeva quindi i suoi seguaci a rifiutare le pratiche religiose prescritte dalla Chiesa, per cercare
la grazia unicamente nell’abbandono in Dio.
Affinché tu possa venir fuori di te e via
da te, cioè dalla tua perdizione, Egli ti
presenta il suo caro Figlio Gesù Cristo,
e ti fa dire, per la sua vivente, consolante Parola, che tu devi abbandonarti in
Lui con salda fede e confidare in Lui vigorosamente. Così, per questa fede, ti
saranno perdonati tutti i tuoi peccati,
tutta la tua corruzione sarà vinta, e tu
sarai fatto giusto, verace, sereno, pio,
e saranno adempiuti tutti i comandamenti, e sarai libero da ogni cosa.
Come Paolo dice, Romani (1,17): «Un
perfetto cristiano vive soltanto della
sua fede»; e Romani (1,4): «Cristo è la
fine e la pienezza di tutti i comanda-
menti, per coloro che in Lui credono».
Perciò questa deve essere per tutti i
cristiani la sola opera e il solo esercizio: che formino diligentemente in sé
la Parola e Cristo, ed esercitino e fortifichino continuamente quella fede.
Poiché nessun’altra opera può rendere uno cristiano. Come Cristo dice
ai Giudei, Giovanni (6,28 ss). Quando
gli domandavano che cosa dovevano
fare per compiere opere divine e cristiane, disse: «Questa è la sola opera
divina, che crediate in colui che Dio
ha mandato» […]. Perciò una vera
fede in Cristo è sovrabbondante ricchezza; poiché essa reca con sé ogni
beatitudine e toglie via ogni infelicità
[…].
La promessa divina […] dice: […] credi in Cristo, nel quale io ti prometto
ogni grazia, giustizia, pace e libertà.
Se credi, hai. Se non credi, non hai.
Poiché quello che ti è impossibile con
tutte le opere dei comandamenti, che
sono molte, eppure di nessuna utilità, ti diviene facile e breve per mezzo
della fede […]. Così le promesse di
Dio danno ciò che i comandamenti
richiedono, e compiono ciò che i comandamenti esigono, affinché tutto
appartenga a Dio, comandamento
ed esecuzione.
Documento 3
Il sacco di Roma del 1527: la tragica contrapposizione tra l’imperatore cristiano e la
città del papa (capitolo 11)
Nella sua «Storia d’Italia», Francesco Guicciardini raccontò con toni vividi il sacco di Roma del 1527. Perpetrato dai soldati spagnoli
e tedeschi dell’imperatore Carlo V, costò alla Città Eterna ricchezze ed enormi umiliazioni. Carlo V raggiunse il suo obiettivo: atterrita
dal sacco, la Chiesa si piegò al controllo della Spagna, in breve seguita dai principati della penisola.
Sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità
di quella città, destinata per ordine
de’ cieli a somma grandezza […]. Impossibile a narrare la grandezza della
preda, essendovi accumulate tante
ricchezze e tante cose preziose e rare,
di cortigiani e di mercatanti; ma la
fece ancora maggiore la qualità e il
numero grande de’ prigionieri che si
ebbeno a ricomperare con grossissime taglie […] Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa
quattromila uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali […]
eccetto quegli palazzi che, per salvare
i mercatanti che vi erano rifuggiti con
le robe loro e così le persone e le robe
di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari […].
Il cardinale di Siena […] poi ch’ebbe composto sé e il suo palazzo con
gli spagnuoli, fu fatto prigioniero
da’ tedeschi; e si ebbe, poi che gli
fu saccheggiato da loro il palazzo,
e condotto in Borgo col capo nudo
[…] a riscuotere da loro con cinquemila ducati […]. Sentivansi i gridi e
urla miserabili delle donne romane e
delle monache, condotte a torma da’
soldati per saziare la loro libidine […].
Udivansi per tutto infiniti lamenti di
F. Guicciardini, Storia d’Italia, Napoli, Ricciardi, 1953
M. Lutero, Sulla libertà del cristiano. Lettera a Leone X, Torino, Claudiana, 1991
Documento 2
I contadini tedeschi esprimono le proprie richieste nei «Dodici articoli» (capitolo 10)
Con la diffusa rivolta dei contadini tedeschi divenne evidente che lo spirito della Riforma luterana poteva incendiare gli animi non
solo dal punto di vista spirituale, ma anche da quello sociale e politico. I «Dodici articoli» ebbero origine dalla raccolta di centinaia di
richieste provenienti da diverse regioni rurali della Germania. Si trattava di richieste generali, fondate in parte su consuetudini che
i proprietari terrieri cercavano di soffocare in nome dei loro superiori diritti in parte su un appello al Vangelo che giustificava non
disegni rivoluzionari (la proprietà dei signori non è contestata), ma una volontà di giustizia.
I. Le nostre comunità avranno diritto di eleggersi i loro parroci, e questi
dovranno predicare la parola di Dio
unicamente secondo il Vangelo.
II. Non pagheranno se non le decime
in grano da servire al sostentamento
dei parroci; l’avanzo andrà a beneficio dei poveri;
III. Sarà soppressa la schiavitù, perché Cristo col prezioso suo sangue ci
ha tutti redenti senza distinzione;
IV e V. Saranno libere per il contadino
l’uccellagione e la pesca e così pure
la caccia, perché la selvaggina dei signori non danneggi e non consumi di
più il nostro, il che finora sopportam-
mo in silenzio. I boschi ritorneranno
in possesso della comunità;
VI e VII. Non saremo tenuti a dare
maggiori prestazioni personali che
i nostri antenati; tali prestazioni saranno fissate con preciso contratto
fra il signore e i soggetti e non avrà
più luogo l’ingiusto arbitrio;
VIII. Il canone da pagare per coltivare
le terre del signore feudale sarà stabilito su basi più eque, acciocché non
avvenga che noi lavoriamo le terre
senza alcun compenso per noi;
IX. Si osserveranno nel punire i reati le buone leggi antiche e non se ne
faranno delle nuove arbitrariamente;
X. Chiunque si sarà ingiustamente
appropriato di terreni appartenenti
alla comunità sarà tenuto a farne restituzione.
XI. Vogliamo abolite completamente le tasse di successione per causa
di morte. Non permetteremo che
vedove e orfani siano così vergognosamente spogliati e derubati dei loro
averi, contro Dio e contro l’onore,
come è avvenuto in molte località e
in vario modo.
XII. Noi vogliamo, quando uno di
questi articoli sia contrario alla Parola di Dio e sopra tali fondamenti sia
oppugnato, che s’intenda abrogato.
G. Alberigo, La riforma protestante, Milano, Garzanti, 1959
quegli che erano miserabilmente
tormentati, parte per astrinergli a
fare la taglia parte per manifestare le
robe ascose. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle
quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra […]. E quello che avanzò
alla preda de’ soldati (che furno le
cose più vili) tolseno poi i villani […].
Era fama che tra denari, oro, argento
e gioie, fusse asceso il sacco a più di
uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità
molto maggiore.
Documento 4
Libertà religiosa per gli ugonotti nell’Editto di Nantes (capitolo 12)
Nell’aprile 1598 il re di Francia Enrico IV promulgò l’Editto di Nantes, pietra miliare nella storia della libertà di fede. Esso faceva del
cattolicesimo la religione ufficiale dello Stato, ma consentiva anche ai protestanti di praticare il loro culto senza rischiare persecuzioni. Il re appose molti limiti al suo consenso, dando ad esempio maggiori privilegi solo ai feudatari più in vista e proibendo ai riformati
di frequentare la corte. Tuttavia, l’ultimo articolo aprì la strada delle cariche pubbliche a chiunque, a prescindere dalla sua fede e
senza discriminazioni di sorta.
I. Ordiniamo che la religione cattolica, apostolica, romana sia reintrodotta e ristabilita in tutti i luoghi di
questo regno e dei paesi di nostra obbedienza dove l’esercizio ne sia stato
interrotto […]
VI. Per non lasciare alcuna occasione di disordini e di discordia tra i
nostri sudditi, abbiamo permesso e
permettiamo ai seguaci della religione cosiddetta riformata di vivere e
dimorare in tutte le città e luoghi di
questo nostro regno […] senza essere
inquisiti, vessati, molestati o costretti
a fare alcunché in materia di religione contro la loro coscienza […].
VII. Noi abbiamo anche permesso
a tutti i signori, gentiluomini e altre
persone […] professanti la religione cosiddetta riformata e aventi nel
nostro regno […] alta giurisdizione e
feudi […] di praticare l’esercizio del
culto di detta religione in una delle
loro case […].
VIII. Nei feudi ove i seguaci della
detta religione non avranno la detta
alta giurisdizione o feudo, potranno
esercitare il detto culto soltanto per
la loro famiglia […].
XIII. Proibiamo espressamente a tutti
i seguaci della detta religione di praticarla […] fuori dei luoghi permessi
e concessi col presente editto.
XIV. Proibiamo anche di praticare la
detta religione alla nostra corte e nel
nostro seguito e ugualmente nelle
nostre terre e paesi […].
XXVII. Al fine di unire più efficacemente la volontà dei nostri sudditi,
come è nostra intenzione, e di eliminare ogni contrasto futuro, dichiariamo tutti coloro che professano o
professeranno la religione cosiddetta
riformata capaci di occupare ed esercitare ogni stato, dignità, ufficio e
carica pubblica qualsivoglia, regia, signorile o delle città del nostro regno,
paesi, terre e signorie di nostra obbedienza […] e di essere ammessi e ricevuti in essi senza discriminazione.
F. Gaeta, P. Villani, Documenti e testimonianze, Milano, Principato, 1982
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Testimonianze
Documento 5
Testimonianze
Luigi XIV descrive al figlio la propria idea di governo, basata sulla vocazione
e sulla responsabilità del monarca assoluto (capitolo 13)
Dettando le sue memorie, Luigi XIV esprime il suo ideale di esercizio personale e responsabile del potere: il re è il dispensatore delle
fortune dei suoi sudditi, alla volontà del re deve essere fatto risalire ogni mutamento nell’indirizzo politico e a lui sono da attribuire
i meriti del buon governo. A guidarlo in ogni decisione è la serena convinzione che proprio lui è in grado di vedere quale sia l’utilità
dello Stato in ogni occasione.
Poiché la principale speranza di
quelle riforme [cioè quelle volte a
rafforzare il potere dello Stato al suo
interno] stava nella mia volontà, il
loro fondamento era rendere la mia
volontà assoluta, con una condotta
che imponesse la sottomissione e il
rispetto: rendendo scrupolosamente
giustizia a chi la dovevo; ma quanto
alle grazie, concedendole liberamente e senza impedimenti a chi mi piacesse e quando mi piacesse, purché
la serie delle mie azioni dimostrasse
che, pur non rendendo conto a nessuno, mi facevo nondimeno guidare
dalla ragione. […]
Quella primitiva timidezza che un po’
di senno dà sempre, e che all’inizio
mi affliggeva, si dileguò in un baleno.
Soltanto allora mi parve di essere re,
e nato per esserlo. […] Perché non
dovete immaginare, figlio mio, che gli
affari di Stato siano come certe parti
oscure e spinose delle scienze […] in
cui la mente si sforza di elevarsi al di
sopra delle proprie capacità, spesso
per non arrivare a nulla, e la cui inutilità, almeno apparente, ci scoraggia
quanto la loro difficoltà. La funzione
dei re consiste principalmente nel
far agire il buon senso, il quale agisce
sempre naturalmente e senza fatica.
[…]
L’utilità si vede sempre. Un re, per
capaci e illuminati che siano i suoi
ministri, non mette personalmente
mano all’opera senza distinguervisi.
Il successo, che piace in qualunque
cosa si faccia, sia pur minima, riempie
di gioia in questa, che è la più grande
di tutte […] nessuna soddisfazione
è pari a quella di notare ogni giorno
un certo progresso in imprese nobili
e gloriose e nella felicità del popolo,
di cui abbiamo noi stessi concepito il
piano e l’idea. Tutto quello che è più
necessario in questo lavoro è anche
piacevole; perché in una parola, figlio mio, si tratta di tenere gli occhi
aperti su tutta la terra.
Documento 7
asaniello capopopolo della rivolta antispagnola e antinobiliare a palazzo dal viceM
ré spagnolo (capitolo 14)
Nel 1547 il popolo di Napoli si era ribellato al dominio spagnolo, eleggendo a propria guida il pescivendolo Tommaso Anello (15201547), meglio conosciuto come Masaniello. La stella di Masaniello brillò però appena nove giorni, al termine dei quali fu ucciso
su istigazione dell’ala più moderata del movimento rivoluzionario. Nel brano che segue, l’autore ritrae Masaniello alle prese con
l’esautorato viceré spagnolo durante una visita a palazzo: non manca l’ironia e si fa l’ipotesi che la vicinanza dei potenti avesse
rapidamente corrotto il capopopolo.
Il dì medesimo [14 luglio 1647] venne
un’ambasciata a Tommaso Anello da
parte del Viceré, che invitava esso, e
tutta la sua famiglia a diporto nella
deliziosa, e amena riviera di Posillipo. Accettò egli l’invito, ringraziando
il Viceré del favore. Intanto la Viceregina mandò la sua solita carrozza
a sei cavalli, per condurre la moglie
di Tommaso Anello con l’altre Donne sue parenti; entrarono in carrozza
con superbissimi vestiti di broccato, e
giunti a Palazzo, furono accolti molto
alla grande. La Viceregina diede alla
moglie di Tommaso Anello il titolo
di Duchessa, sì come già aveva dato
il Viceré a Tommaso Anello quello di
Duca di San Giorgio. Tommaso Anello essendo stato condotto a Palazzo
dal Signore Cardinale Arcivescovo,
fu accarezzato con un’apparenza di
singolare cortesia, benché nell’intrinseco (per quanto poi si scoperse)
non solo era fieramente odiato, ma di
già gli era stata ordita la tela di una
crudelissima morte […]. Arrivati a
Posillipo il Viceré gli onorò assaissimo, godendo unitamente di una
sontuosissima colazione, e nell’istesso modo la Viceregina trattò le Don-
ne, avendo di più regalata la moglie
di Tommaso Anello di una collana di
mille e cinquecento scudi […]. Dopo
questo convito fu osservato che Tommaso Anello non operò più con sano
giudizio, perché cominciò a fare molte azioni da frenetico: o fosse, perché
gli havesse alterato il sentimento il
vedersi pari al Viceré; ovvero, che per
il soverchio discorrere, che di continuo non meno la notte, che il giorno
faceva col Popolo, e il più delle volte
senza poco o niente cibarsi, havesse
dato in tale svanimento.
R. Mincuzzi, Il Mezzogiorno d’Italia verso la rivolta di Masaniello, Firenze, D’Anna, 1973
Luigi XIV, Memorie, Torino, Boringhieri, 1961
Documento 8
Documento 6 Una voce di dissenso contro Luigi XIV (capitolo 13)
Luigi XIV fu sul trono di Francia dal 1643 al 1715 ed ebbe così modo di improntare di sé un’intera epoca. La fama guadagnatasi come
Re Sole non impedisce però agli storici di vedere i limiti o addirittura i danni prodotti dalla sua azione di governo. Presentiamo un
brano che tratta proprio di questi temi, dalla lettera di denuncia che nel 1695 François Fénelon – precettore del futuro Luigi XV – inviò
al sovrano. Un atto coraggioso, con cui l’istitutore sfidava l’acquiescenza della corte ai voleri e ai capricci del monarca.
In questi trent’anni i vostri principali
ministri hanno sconvolto e rovesciato
tutti gli antichi fondamenti dello Stato, per innalzare al massimo la vostra
maestà […]. Non si è parlato più né di
Stato né di legge; non si è parlato che
del re e del suo arbitrio […].
Il vostro popolo, che dovreste amare
come un figlio e che vi è stato finora
così affezionato, muore di fame. La
coltivazione della terra è quasi del
tutto trascurata. Le città e le campagne si spopolano. I mestieri languiscono e gli artigiani non hanno
sostentamento. Ogni attività commerciale è soffocata. Di conseguenza
avete distrutto la metà delle risorse
reali dello Stato per fare e difendere
le vostre inutili conquiste. Invece di
spillare denaro da questo disgraziato
popolo, occorrerebbe fargli l’elemosina e nutrirlo. L’intera Francia non
è che un grande ospedale desolato e
senza risorse […].
Vi siete ridotto alla vergognosa e
deplorevole condizione di lasciare
impunita la sedizione, anzi di incrementarla con l’impunità, oppure
di far massacrare, in maniera disumana, un popolo che mettete alla
disperazione strappandogli, con le
imposte di guerra, il pane che si sfor-
za di guadagnare con il sudore della
fronte. Ma se essi mancano di pane
anche voi mancate di denaro e non
volete neppure vedere l’abisso in cui
vi siete ridotto […]
Avete paura di aprire gli occhi; avete
paura che ve li aprano; avete paura
d’essere costretto a diminuire un po’
della vostra gloria. Questa gloria che
indurisce il vostro cuore vi è più cara
della giustizia, della vostra stessa
pace, della sopravvivenza del vostro
popolo che perisce ogni giorno per le
malattie causate dalla carestia.
F. Fénelon, Lettera a Luigi XIV, Parigi
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aolo Sarpi scrive in difesa del diritto dello Stato a intervenire nella materia dei
P
beni della Chiesa (capitolo 14)
Leggiamo alcuni argomenti proposti a difesa di queste leggi innovative da Paolo Sarpi, il consigliere legale della Repubblica per le
questioni ecclesiastiche che fu considerato da Roma un nemico della Chiesa: la Chiesa possiede sul territorio di Venezia beni sproporzionati al numero dei suoi membri e alle loro necessità; inoltre, meno che in passato essa fa uso di questi beni per il bene comune.
Si noti che il Sarpi considera gli ecclesiastici parte integrante dello Stato e non un organo a sé.
Potrà fare il senato altra legge sopra li
beni delli sudditi suoi, conveniente al
suo buon governo, quando ne sarà di
bisogno: e la fa al presente sopra gli
ecclesiastici, perché conviene tenere
così regolato il corpo della repubblica, acciò che un membro non cresca
più del dovere […].
Ma lo stato degli ecclesiastici in questo Dominio è un membro che può
essere la centesima parte di tutto il
numero delle persone, et ha tirato in
sé non una porzione delli beni a questo corrispondente, ma nel Padoano
più di un terzo, nel Bergamasco più
della metà; e non vi è luogo dove al-
meno non abbia un quarto delli beni;
e se li fosse concesso di acquistare
ancora, non è dubbio che s’impatronirebbe di tutto il paese, lasciando
tutti gli altri poveri, ignudi e servi, e
levando alli secolari ogni alimento. Il
luogo e tempo presente ricerca una
legge che proibisca un tale eccesso.
Anticamente già, quando l’ecclesiastico era governato secondo la maniera che li santi Apostoli lo instituirono, e li santi padri a loro imitazione
seguirono d’osservare, era cosa utile
che avesse molti beni; e nel corpo
della repubblica era come un stomaco che prendeva tutto il cibo sì,
ma ne digeriva poco per sé e molto
per gl’altri. Così gl’ecclesiastici, possedendo molto, e partecipando delle
rendite delli beni per sé parchissimamente [molto modestamente] e tutto il rimanente dando in elemosina,
erano molto proficui alla repubblica.
Per il che anco tutti procuravano acumular loro possessioni e beni, poiché
quanto più avevano, tanto riusciva
in maggiore utilità pubblica […]. Ma
mutata questa lodevole consuetudine, li beni e facultà passate negli ecclesiastici eccedono in grandezza, e
ciò è troppo sproporzionato al corpo
della repubblica.
P. Sarpi, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969
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Interpretazioni
Interpretazioni
Dalla Riforma e Controriforma cattolica: una cultura più approfondita ed estesa, al servizio di una
fede più matura (capitolo 10)
Al di là delle dispute dottrinali, la Riforma luterana svincolò la mente del credente dal dogma, spingendolo a riflettere in modo più
libero. Una analoga eredità che, vale per tutta la cultura europea, si può raccogliere anche dall’impegno di Riforma e Controriforma
cattolica. In particolare, è interessante approfondire l’opera formatrice ed evangelizzatrice dei Gesuiti e l’apertura mentale che la
sostenne. È quanto segnala A. Prosperi nel suo studio dedicato al rapporto tra intellettuali e Chiesa all’inizio dell’Età moderna.
Il segreto della potenza e del successo raggiunti dai gesuiti non fu – se
segreto ci fu – l’aver mirato in alto, ai
vertici delle gerarchie sociali e politiche. Un dato originale della loro storia resta invece l’attenzione costante
ai problemi dell’elaborazione e trasmissione del sapere […]. Nella scelta
tra i «semplici» e gli intellettuali […],
che si proponeva allora all’opera di
riconquista intellettuale della Chiesa cattolica, la Compagnia di Gesù
non ebbe incertezze. […] L’obiettivo
principale della Compagnia rimase
la formazione dell’intellettuale ecclesiastico come anello intermedio
tra i vertici della gerarchia e i laici da
indottrinare. […] Nella seconda metà
del secolo [XVI] era ormai largamente
condivisa la consapevolezza che proprio nella cura d’anime si trovasse il
nucleo fondamentale della funzione
dell’ecclesiastico e che tale funzione
potesse essere esercitata solo a partire da un certo livello di preparazione
culturale specifica. Durante il Concilio di Trento, solo voci isolate si erano
espresse contro la richiesta di fornire
al clero una cultura adeguatamente
elaborata, sostenendo invece che si
doveva tornare alla semplicità evangelica dei primi seguaci di Cristo.
Proprio i membri della Compagnia
di Gesù usarono l’argomento op-
posto, dimostrando che i progressi
della Chiesa si riconoscevano anche
dall’abisso culturale che separava i
semplici pescatori delle origini dagli agguerriti teologi dei loro tempi. Per ottenere pescatori d’anime
all’altezza delle esigenze dei tempi,
si richiedeva non solo una preparazione culturale adeguata, capace
di garantire il possesso di un sapere
religioso sempre più complicato, ma
soprattutto una posizione separata e
superiore dell’ecclesiastico rispetto
ai laici. Il contributo delle istituzioni
educative dei gesuiti, in maniera particolare del collegio, fu determinante
per raggiungere tali scopi.
La fine dell’ideale universalistico di Carlo V (capitolo 11)
Il tramonto del sogno imperiale di Carlo V – intenzionato a creare un impero che unisse Spagna, Germania, Italia, Paesi Bassi e
persino Inghilterra – rivelò il fallimento definitivo di ogni disegno universalistico e l’impossibilità di un ritorno al passato: il futuro
apparteneva agli Stati nazione. È questo il risultato dell’analisi dello storico J.H. Elliott.
Nel 1547 Carlo riportò alla battaglia
di Muhlberg la sua grande vittoria
sui principi protestanti e in quel momento parve che l’intera Germania si
prostrasse davanti a lui. Ma […] taluni principi tedeschi, come Maurizio
duca di Sassonia […], furono presi
da inquietudine: essi temettero che
l’imperatore consolidasse a loro spese la propria autorità in Germania.
Nel marzo del 1552 Maurizio ruppe
con l’imperatore e con le sue truppe, marciò su Innsbruck, dove Carlo
e Ferdinando stavano discutendo sul
futuro destino dell’Impero. […] Carlo fuggì […] nella città carinziana di
Villach. […]
La fuga di Carlo V a Villach simbo-
leggiò in quell’anno 1552 che la sua
grande politica imperiale era andata
in fumo. L’insuccesso era stato precipitato dalla defezione non solo del
duca di Sassonia Maurizio, ma anche
da quella dei banchieri imperiali, che
ormai avevano perduto ogni fiducia
nell’imperatore e non gli avevano più
anticipato il denaro occorrente per
pagare i suoi soldati.
[…] Le finanze della corona spagnola,
che avevano sopportato nell’ultimo
tormentato decennio il peso maggiore della politica imperiale, ormai
scivolavano inesorabilmente verso la
bancarotta, mentre lo stesso Impero
si stava chiaramente spaccando in
due. Nulla ormai poteva più tenere
i paesi tedeschi sotto il controllo di
una dinastia spagnola. E Filippo, che
succedette al padre come re di Spagna nel 1556, sarebbe stato alla testa
di un Impero che doveva per forza
essere diverso da quello che il padre
gli aveva lasciato in eredità.
Proprio con la speranza di rendere
questo nuovo Impero un organismo
unitario, Carlo fece sposare nel 1554
Filippo con Maria Tudor. […] [Carlo
V] morì il 21 settembre del 1558. Non
passarono neanche due mesi e anche
sua nuora Maria Tudor morì senza
prole. La sua morte pose bruscamente fine ad ogni disegno di unione sotto una sola corona dell’Inghilterra,
della Spagna e dei Paesi Bassi.
J.H. Elliott, La Spagna imperiale, 1469-1716, Bologna, Il Mulino, 1982
A. Prosperi, Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’Età moderna, in Storia d’Italia, Annali 4, Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981
Un’Italia divisa e ostaggio dei particolarismi non poteva che essere vittima delle potenze nazionali
europee (capitolo 11)
La perdita dell’autonomia politica da parte degli Stati regionali della penisola, che fece da preludio alla progressiva perdita di centralità dell’Italia nel quadro economico europeo, deve essere imputata alla tenace ricerca dell’interesse particolare da parte dei
principali attori politici italiani. Lo storico F. Chabod evidenzia i limiti della visione politica dei principati e delle repubbliche italiane
nel corso del Cinquecento.
Come fare a parlare di patriottismo,
di senso nazionale, nella politica degli
Stati italiani dei secoli XV e XVI?
Certamente, Firenze dalla fine del Trecento esalta la sua libertà, si proclama
difenditrice della libertà d’Italia e […]
creerà l’immagine divenuta tradizionale di Lorenzo de’ Medici il quale,
sinché vive, riesce a mantenere l’equilibrio in Italia e ad impedire la manomissione straniera. Morto lui, le male
arti di un principe italiano, Ludovico il
Moro, aprono l’Italia allo straniero. In
realtà, sin dai tempi di Cosimo il Vecchio, Firenze si è appoggiata alla Francia. E quando si tratti di lottare contro
Venezia […], i politici fiorentini non
esitano a metter su anche gli stranieri.
[…]
Ma nemmeno di Venezia si può dire
che facesse una politica «patriottica»
in senso italiano. Proprio Venezia, il 9
febbraio 1499, ha stipulato con il re di
Francia la lega di Blois [che prevedeva
la spartizione del ducato di Milano],
che condurrà all’occupazione francese
dello Stato di Milano […]. Senza dubbio vi sono a Venezia dubbi e contrasti
d’opinione: parecchi «più presto volevano il duca di Milano per suo vicino,
ancorché fosse traditor et infensissimo
[molto nemico] del stato veneto, che
il re di Franza, el qual hera amico de
Venetiani, iudicando che ‘l fosse tropo
potente vicino et l’altro hera mancho
[meno] potente». Ma proprio queste
considerazioni dimostrano che il problema era non già di un italiano o di
uno straniero – cioè in senso «patriottico» –, bensì semplicemente di uno
più potente o meno potente […].
La «libertà d’Italia» è ancora, almeno
sino al secondo e terzo decennio del
secolo XVI, una parola d’ordine invocata dagli uni e dagli altri a proprio
esclusivo vantaggio. E gli stranieri devono servire come pedine nel gioco
proprio.
Il primo sviluppo della potenza commerciale inglese sotto Elisabetta I (capitolo 12)
Lo storico dell’economia J.M. Kulischer descrive lo scenario dello sviluppo inglese nella seconda metà del Cinquecento, durante l’età
di Elisabetta I. Qui troviamo indipendenza, unità del paese, uno Stato forte, un’intraprendenza stimolata e premiata da una efficace
alleanza tra potere politico e classi sociali emergenti.
Più tardi degli altri Stati europei l’Inghilterra entrò nella lotta per il primato nel commercio. La conformazione
insulare della Gran Bretagna [creò]
una posizione geografica così favorevole alla navigazione marittima ed al
commercio marittimo […]. Nel Medio
Evo […] l’Inghilterra non aveva ancora
un commercio proprio; i mercanti anseatici ed italiani dovevano assumere
la parte di intermediari. […]
I primi passi coronati dal successo
per la liberazione del commercio
estero inglese dal dominio straniero
cadono nel XV secolo, ed invero si
tratta della esportazione del panno.
[…] Si formò la compagnia inglese
dei Merchant Adventurers [Mercan-
ti Avventurieri], che si occupò della
esportazione dei panni inglesi. […]
Nella seconda metà del XVI secolo, al
tempo della regina Elisabetta […], gli
italiani scompaiono dall’Inghilterra
quali fornitori di capitali: […] vengono trovati dei prestiti nell’interno del
paese. […]
La posizione dell’Inghilterra nel
commercio mondiale si sviluppò con
sempre maggiore influenza. La regina Elisabetta rifiutò di riconoscere il
trattato concluso tra Spagna e Portogallo, a mezzo del quale i due stati si
erano divisi tra loro il globo terrestre
[…]. E con ciò l’Inghilterra procedette […] nella lotta per il commercio e il
possesso del nuovo mondo. […]
I suoi tentativi di aprire nuove relazioni si estesero verso tutte le direzioni della rosa dei venti […]. Quando sotto il successore di Elisabetta,
re Giacomo I, si venne a trattative di
pace con la Spagna, per cui questa
esigeva dall’Inghilterra la rinuncia al
commercio proprio con le «due Indie», Lord Burleigh poté ben dare la
superba risposta che «era impossibile
che l’Inghilterra […] potesse lasciarsi
chiudere quelle regioni. Già stava in
relazione con paesi sui quali mai uno
spagnolo aveva posto il piede e le era
ancora aperto un vasto campo per
ulteriori scoperte».
J.M. Kulischer, Storia economica del Medio Evo e dell’Età moderna, Firenze, Sansoni, 1964
F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi, 1981
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Interpretazioni
Interpretazioni
Alla ricerca dei motivi dell’affermazione della monarchia assoluta (capitolo 13)
L’Italia e i veri motivi del suo grave declino economico nel corso del Seicento (capitolo 14)
Il sistema politico della monarchia assoluta appare la naturale evoluzione del crescente rafforzamento degli Stati nazionali. Tuttavia,
non va dimenticato che per giungere a una stabile gestione del potere centralizzato e privo di efficaci controlli occorreva una serie
di condizioni sociali, economiche e persino culturali. Secondo gli storici F. Hartung e R. Mousnier l’assolutismo trasse forza dalla necessità di regolare i conflitti sociali tra classi dirigenti dello Stato, dalla necessità di rendere efficace la conduzione della guerra, dallo
sviluppo del sentimento esaltazione nazionalistica e dalla rinnovata dottrina del Cattolicesimo, che permetteva al re di presentarsi
come superuomo fortificato dalla grazia divina.
Per lo storico dell’economia Cipolla, discutere del declino dell’economia italiana nel corso del Seicento non è questione del «cosa»
(perché il declino ci fu certamente) ma del «perché». È facile, infatti, accusare di questa decadenza fattori esterni all’economia italiana, quando invece è possibile e doveroso approfondire soprattutto la conoscenza delle cause interne, cioè della responsabilità di
politiche produttive miopi e non al passo con i tempi.
[Alcuni storici] pensano che il fattore preponderante dell’esistenza e
dell’evoluzione della monarchia assoluta sia stato la lotta di classe tra la borghesia e la nobiltà. […]. Quando si sarebbe realizzato un certo equilibrio di
forze tra la borghesia e la nobiltà , allora
sarebbe sorta la monarchia assoluta, il
re essendo arbitro tra le classi. […]
Certamente non bisogna mai trascurare la lotta delle classi e vi è molto di
vero in questo schema. [… Ma] considerarla esclusivamente, sarebbe trascurare altri fattori, dei quali nulla ci
dice che siano stati meno importanti.
[…] La guerra contro lo straniero è
stata un fattore essenziale dello sviluppo della monarchia assoluta. Con
il suo prolungarsi essa ha permesso
ai sovrani di mantenere un esercito
permanente e di riscuotere alcune
imposte senza più occuparsi del consenso dei loro sudditi. […]
Lo sviluppo del sentimento nazionale, qualunque sia la sua origine,
fu pure un aiuto potente per il principe che incarnava la nazione. Questo aiuto fu tanto più grande quanto
più, in alcuni paesi, esso procedette
di conserva con il sentimento di una
missione che la nazione aveva da assolvere e il cui compimento il prin-
cipe doveva dirigere. In Francia, gli
umanisti danno forma e nettezza a
questo sentimento preesistente, proclamano il primato francese. […]
Il Cattolicesimo, rinnovato dal Concilio di Trento, che portò a termine
l’integrazione nel cristianesimo di un
umanesimo convinto dell’eccellenza
della natura umana resa malata dal
peccato originale, ma non corrotta
fin nelle più intime fibre, persuaso
della illimitata potenza della volontà
umana fortificata dalla grazia, e che
insisté sulla sovranità di Dio, fu pure
un ausiliario del principe, immagine
di Dio e superuomo.
L’Italia è sempre stata povera di materie prime. Se voleva vivere con un
buon tenore di vita doveva esportare.
E ancora ai primi del Seicento prodotti e servizi italiani trovavano largo
esito sui mercati d’Europa, d’Africa e
del Medio Oriente. A partire però dalla fine del Cinquecento Firenze, e a
partire dal 1620 circa, Milano, Genova e Venezia videro le proprie esportazioni crollare. Cos’era accaduto?
Una delle ragioni del crollo delle
esportazioni fu che taluni dei Paesi
tradizionalmente importatori di prodotti italiani […] entrarono in crisi
per ragioni varie […]. Ma il crollo delle esportazioni dipendeva largamen-
te anche da altri fattori di cui gli Italiani portavano piena responsabilità.
La ragione prima consisteva nel fatto che le merci e i servizi italiani non
erano più competitivi sul mercato internazionale per quanto riguardava i
loro prezzi. […] Perché?
Anzitutto gli Italiani continuarono a
produrre merci di ottima qualità ma
costose e superate dalla moda. Olandesi e Inglesi, che si erano resi conto
dell’emergere di ceti nuovi, avevano
invaso il mercato con prodotti di massa […]. Il potere e il conservatorismo
caratteristici delle corporazioni in Italia bloccarono i necessari mutamenti
tecnologici e di qualità che avrebbero
potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza
straniera. Secondariamente in Italia i
salari erano più elevati che all’estero
e non erano compensati da una maggiore produttività del lavoro. Infine il
carico fiscale sopportato dalle aziende italiane pare sia stato molto più
elevato del corrispondente carico che
pesava sulle aziende straniere.
Prodotti eccellenti ma demodé, alti
salari ed elevata pressione fiscale significavano costi di produzione elevati, che a loro volta significavano
prezzi più elevati, che a loro volta significavano perdita di competitività
sul mercato internazionale.
C.M. Cipolla, I decenni del declino (1620-1680), in Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo a oggi, Torino, Einaudi Scuola, 2003
F. Hartung, R. Mousnier, Problemi a proposito della monarchia assoluta, Relazione al X congresso internazionale di scienze storiche, 1955
Decadenza sì, ma con sfumature e diversità regionali (capitolo 14)
I limiti al potere assolutistico nelle società europee (capitolo 13)
Lo storico J. Vicens Vives ritiene che l’assolutismo abbia avuto radici lontane (già nella concezione del sovrano del medioevo), prima
di tutte la «deificazione del principe». Questa, tuttavia, non basta a spiegare perché effettivamente nelle mani del principe si concentrò ogni potere: bisogna ancora con attenzione le condizioni reali della società e dell’economia. E allora si scopre che il potere
«assoluto» non era così assoluto: ampi strati della vita sociale sfuggivano al controllo dei re più autorevoli.
Dall’apologia principesca all’ordinamento istituzionale dello Stato e da
questo medesimo ordinamento alla
semplice pratica di governo vi era
un abisso. La mancata osservazione
di questa precauzione metodologica
ha provocato gravi errori, come quello di qualificare assoluto un potere
sulla sola base delle teorie di alcuni
letterati, che sedevano ai vertici del
governo.
Nell’Europa agraria del Rinascimento e del Barocco […] l’autorità si stratifica per lo meno in tre zone. La più
ampia di tutte corrisponde al governo diretto delle masse dei contadini
attraverso delegati dei proprietari
giurisdizionali, siano essi laici o ec-
clesiastici. È il mondo dei villani e dei
semi-liberi e, in certi posti, dei servi.
È un dato di fatto, in quest’ambito, la
sopravvivenza non solo del mondo
feudale, ma di regimi ancora più antichi, vincolati sia alla colonizzazione
romana sia persino a formazioni tribali precedenti.
[…] La seconda zona […] forma il
gruppo delle giurisdizioni autonome
dentro l’ambito riservato all’autorità
diretta del principe. Essa corrisponde ai corpi, organismi e collegi privilegiati, sorti dalla rivoluzione commerciale e dalla costituzione della
borghesia urbana. [Si tratta di] una
zona geografica dove il principe non
dispone del denaro, delle milizie e
della giustizia se non attraverso o
mediante l’acquiescenza di tali corpi
[…].
[…] Infine, il terzo stato corrisponde al livello principesco e riflette la
mentalità dei gruppi amministrativi
(non sempre idonei allo sviluppo del
principio della monarchia assoluta)
di cui il potere serve per praticare
una determinata politica. [Anche
qui] il principe incontra forti ostacoli all’esercizio del suo potere e deve
sottostare a adattamenti per l’esercizio del comando. Adattamenti non
sempre facili, che spesso alterano e
fanno fallire il programma dell’assolutismo.
A proposito della decadenza della penisola nel Seicento, lo storico G. Luzzatto sottolinea differenze tra Stato e Stato e, insieme a
motivi di declino, anche la persistenza di attività, di scambi e di trasformazioni del sistema produttivo che rendono meno drastico il
giudizio almeno sulla rapidità del «declino» italiano in quest’epoca.
Se noi confrontiamo la situazione
economica delle principali regioni
d’Italia nel periodo che segue immediatamente il trionfo della Spagna con quella dei primi decenni del
Cinquecento, non troviamo traccia
di quelle rovine o di quella rapida e
totale decadenza di cui troppo spesso si parla.
[…] nel Napoletano il primo periodo
del dominio spagnolo […] rappresenta, almeno per la capitale e per le
terre più vicine ad essa, un periodo
di ripresa che parve allora assai promettente […].
Nello Stato papale […] fu proseguita
metodicamente e condotta a termine l’opera di unificazione dello Stato
[…].
Nell’Italia settentrionale, Genova
deve al legame con cui […] essa si è
stretta alla Spagna un periodo di viva
e promettente ripresa della sua attività marittima e commerciale […].
[Per il] ducato di Savoia […] non solo
non si parla di decadenza, ma gli storici sono tutti concordi nel considerare l’età che si inizia con la pace di
Cateau-Cambrésis come il punto di
partenza della nuova storia […].
Nello stesso ducato di Milano la decadenza non appare in realtà così
immediata e così grave […].
Più difficile si rivela, dopo la metà del
Cinquecento, la situazione di Venezia, paralizzata dalla pressione turca
[…].
L’Italia nel suo complesso non ha su-
bito dalla mutata situazione politica
quel danno economico immediato e
generale che, ragionando a priori, si
sarebbe indotti ad attribuirle. […]
La decadenza inevitabile della economia italiana è determinata soprattutto dai progressi continui delle grandi
potenze marittime occidentali, […]
e dalla politica mercantilistica delle
grandi monarchie unitarie […]. È un
lavoro di accerchiamento e di esclusione che procede con ritmo piuttosto lento, ma inesorabile, finché al
chiudersi del secolo XVII l’economia
italiana avrà quasi completamente
perduta ogni forza di espansione e
ogni contatto con l’estero.
G. Luzzatto, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, Padova, CEDAM, 1971
J. Vicens Vives, La struttura amministrativa statale nei secoli XVI e XVII, in Lo Stato moderno, Bologna, Il Mulino, 1971
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Unità 3 • Le origini dell’Europa moderna
Verso la Prima prova: tema di argomento storico
Verso il Colloquio orale: preparazione dell’argomento a scelta
1 Partendo dalla seguente lista «disordinata» di idee, scrivi un breve testo sulla situazione economica europea nel
3 Costruisci uno schema sulla riforma protestante e in particolare sulle cause che la determinarono (capitolo 10),
Seicento (capitolo 13).
• Recessione economica
• Potenze emergenti: Inghilterra e Olanda
• Peste
• Avvio del sistema delle enclosures
• Raffreddamento del clima
• Mercanti-imprenditori
• Guerra dei Trent’Anni
• Industrie a «domicilio»
• Decremento demografico
• Commercio mondiale e compagnie commerciali
• Carestie
2 Segna con una crocetta le risposte corrette.
2In seguito alla pace di Noyon (1516) il territorio italiano
era suddiviso tra le seguenti potenze:
aInghilterra.
bGermania.
cFrancia.
dSpagna.
eStato della Chiesa.
fVenezia.
3Prima di diventare imperatore nel 1519, Carlo I re
di Spagna governava su:
ai possedimenti spagnoli in America.
bla Boemia.
cla Germania.
dl’arciducato d’Austria.
ela Francia.
fi Paesi Bassi.
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corruzione della Chiesa • indulgenze • Germania • Lutero • 95 tesi • libero arbitrio • sacramenti • scomunica
Verso il Colloquio orale: guida all’esposizione orale
4 Facendo riferimento alla traccia fornita qui di seguito, prepara una breve esposizione sulla trasformazione
dell’economia italiana nel Seicento (capitolo 14), che potrai poi esporre oralmente.
Verso la Terza prova: quesiti a risposta multipla
1Durante il Concilio di Trento (1545-1563) si decise che:
ail clero è il solo a poter interpretare correttamente le
Scritture.
bogni buon cristiano deve fare una lettura personale del
Vangelo.
cgli unici sacramenti che hanno valore sono il battesimo
e l’eucaristia.
dil buon cristiano può raggiungere la salvezza anche per
le opere buone che compie.
etutti i credenti devono partecipare al sacerdozio
universale.
fè giusto incoraggiare le missioni.
usando anche i seguenti concetti.
4In Francia, durante il regno di Enrico IV:
asi raggiunse il pareggio di bilancio.
bvennero vendute le cariche pubbliche.
cvenne introdotto il protezionismo.
dsi poteva praticare soltanto il cattolicesimo.
evennero intensificati gli scambi commerciali con l’estero.
fvenne istituita la «nobiltà di toga».
5Le caratteristiche dell’età elisabettiana furono:
asviluppo economico.
bintensificazione dei commerci internazionali.
cfioritura culturale.
dnascita delle prime industrie.
eaumento della produzione agricola.
fpace religiosa.
6Le caratteristiche del regno di Filippo II furono:
al’arretratezza del sistema economico.
bl’accentramento del potere.
cil commercio sottoposto al controllo dello Stato.
dl’efficienza della burocrazia.
ela libertà di religione
fl’unità religiosa.
7Durante il regno di Filippo II furono perseguitati:
a gli ebrei.
bi protestanti.
c i cattolici.
dgli intellettuali.
e i musulmani.
f i pagani.
Crisi del Seicento à Recesso demografico à Crollo di
produzione manifatturiera (tessile) e attività finanziarie
à Crollo dei commerci (Serenissima) à Concorrenza
inglesi e olandesi nel Mediterraneo e spostamento
dell’asse nell’Atlantico à Rallentamento dell’economia
à Ristrutturazione
Crisi e trasformazione dell’economia italiana
Italia settentrionale à Innovazione e diversificazione
della produzione
Agricoltura à Grandi aziende e proprietà più piccole
coltivate da affittuari à Calo della domanda di cereali
à Viticoltura, lino, canapa, gelso, riso e mais
à Consumo interno
Produzione manifatturiera à Concorrenza dei prodotti
esteri (Inghilterra e Olanda) à Produzione di prodotti
finiti à Fornitura di materie prime e semilavorati (lana,
lino, cotone, seta greggia) à Contatti con l’Europa
settentrionale
Italia centrale à Fase di stallo
Divario economico tra Nord e Sud
Agricoltura à Mezzadria
Produzione manifatturiera à Toscana à Scambi
commerciali à Livorno (porto franco)
Italia meridionale e nord-orientale (Repubblica di
Venezia) à Rifeudalizzazione à Immobilismo
Agricoltura à Arretratezza à Latifondi coltivati da
braccianti
Produzione manifatturiera à Scomparsa à Economia
di scambio
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