DIFESA SOCIALE - vol. LXXXIII, n. 3 (2004), pp. 13-52
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LA DROGA NON ASCOLTA
Le sofferenze dei genitori tossicodipendenti e dei loro figli.
Indagine epidemiologica, riflessioni e proposte.
Cesare Gorrini* - Viviana Brera**
Se pur gridassi, chi m’udrebbe
dalle gerarchie degli angeli?
R. M. Rilke (Elegie Duinesi)
SUMMARY. Drugs do not listen. The suffering of drug-addicted parents and their children.
Epidemiologic investigation, considerations and proposals.
This paper, which resulted from within a research-action project that lasted four years,
describes an epidemiologic investigation relative to a sample of 142 drug-addicted parents
and 100 children. The results provide us with an interesting picture of the characteristics of
this typology of patients, allowing us to consider a few knotty problems: the dynamics of
family relations, the relationships between the parents' drug addiction and psychopathology, the psychological damage suffered by the children, the psycho-diagnostic and
psycho-therapeutical courses for parents and children, the role of the operational integration of the health services involved, the weight of cultural prejudices. The choice of an
interpretative model founded on the systemic matrix of the attachment theory allows us to
gain an insight into the connections between the hardship of both parents and children and
promotes a sharing of the work objectives on the part of the services involved in the treatment. The results are debated and compared with those provided by literature.
RIASSUNTO
In questo lavoro, nato all’interno di un progetto di ricerca-intervento durato quattro
anni, descriviamo un’indagine epidemiologica riguardante un campione composto da 142
tossicodipendenti genitori e 100 figli. I risultati ci forniscono un interessante quadro delle
caratteristiche di questa tipologia di pazienti permettendoci di riflettere su alcuni nodi problematici: la dinamica delle relazioni familiari, il rapporto tra tossicodipendenza e psicopatologia dei genitori, il danno psicologico subito dai figli, i percorsi psicodiagnostici e psicoterapeutici per genitori e figli, il ruolo dell’integrazione operativa tra i servizi sanitari
implicati, il peso dei pregiudizi culturali. La scelta di un modello interpretativo fondato
sulla matrice sistemica della teoria dell’attaccamento ci permette di comprendere le connessioni tra il disagio dei genitori e quello dei figli, e favorisce la condivisione degli obiettivi di lavoro tra i servizi impegnati nella cura. I risultati sono discussi e comparati a quelli forniti dalla letteratura sull’argomento.
* Psicologo, Consultorio Familiare ASL di Pavia
** Psicologa, Servizio Dipendenze ASL di Pavia
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INTRODUZIONE
Il titolo di questo articolo rappresenta un ideale contrappunto a “La droga non
parla” (a cura di S. Basti e M. Fea, 1997), raccolta di interventi e riflessioni sulla
prevenzione all’uso della droga e sulla promozione della salute, in cui la complessità dell’argomento era affrontata in una prospettiva interdisciplinare e multisettoriale.
Anche la tematica più circoscritta del rapporto dei tossicodipendenti con i propri figli, necessita, sia nella fase conoscitiva che nell’intervento, di un approccio
multifocale. Nella prassi operativa dei Servizi Dipendenze l’attenzione alla dimensione tossicomanica viene sempre più coniugata a quella psicopatologica ed alla
storia familiare del paziente, ma è ancora raro rilevare un sistematico interesse per
la dimensione della genitorialità, anche se viene registrata la presenza di figli. Al
contrario, presso i Consultori Familiari, la consuetudine a lavorare con le famiglie
e con progetti finalizzati alla tutela dei minori favorisce un’attenzione più globale,
orientata al genitore, al figlio ed al sistema familiare. Questa ha però il limite di
fermarsi laddove inizia il dominio della psicopatologia e della tossicodipendenza
nel genitore e dei disturbi neuropsichiatrici nei figli. I problemi delle famiglie con
genitori tossicodipendenti (o più in generale pazienti psichiatrici) non si prestano
quindi ad essere esaurientemente compresi all’interno dell’approccio convenzionale di un unico servizio.
Anche la sottolineatura della funzione di ascolto nel titolo non è casuale, prestandosi bene a rappresentare quanto l’ascolto, in questo tipo di casistica, possa
risultare critico a diversi livelli. I bambini trascurati, come sono spesso i figli di
tossicodipendenti, sono descritti come bambini inascoltati che, dovendo interagire
precocemente con figure di attaccamento insensibili ai loro segnali, tendono a sviluppare la convinzione di essere incapaci di comunicare i propri bisogni e immeritevoli di ottenere aiuto. Ma, a sua volta, la trascuratezza dei tossicodipendenti adulti nei confronti dei figli rappresenta la conseguenza inevitabile di un pesante retaggio di carenze di attenzione subite nell’infanzia, in genere non riconosciute, che ne
limitano le competenze genitoriali.
Da ultimo, anche la mancanza di ascolto reciproco tra i servizi, coinvolti negli
interventi clinici su questi casi, può limitarne fortemente l’efficacia, soprattutto
creando contrapposizioni di alleanze e di obiettivi che tradiscono la complessità
delle concatenazioni relazionali in gioco.
L’indagine epidemiologica descritta in queste pagine è stata condotta all’interno della ricerca-intervento dal titolo “La costruzione di una relazione tra servizi a tutela di una relazione tra i tossicodipendenti genitori e i propri figli” realizzata negli anni 1999 - 2003 grazie a due progetti finanziati dal Fondo Nazionale
Lotta alla Droga (legge 45) presentati alla Regione Lombardia da Sandra Basti,
psicologa del Servizio Dipendenze dell’ASL di Pavia. Questa esperienza ha coinvolto, in un unico gruppo di lavoro, rappresentanti del Servizio Dipendenze e dei
Consultori Familiari dell’ASL , dei Servizi Sociali del Comune e dell’Ospedale S.
Matteo di Pavia e, limitatamente al primo anno di lavoro, anche rappresentanti di
una Comunità Terapeutica.
STUDI E RICERCHE
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Lo scopo del progetto quadriennale è stato quello di sperimentare modalità di
lavoro integrate, affrontando i condizionamenti derivanti dalle diverse culture dei
servizi di appartenenza. A tal fine il gruppo, con l’aiuto di supervisori, ha svolto un
lavoro formativo teorico, un lavoro clinico sui casi, un lavoro metodologico in cui
sono stati messi a punto strumenti e modelli di intervento, e anche un’indagine epidemiologica.
In questo percorso, suddiviso in diverse fasi, l’indagine epidemiologica ha
rappresentato la costruzione di un corpo di informazioni intrecciate sulla casistica
dei genitori, dei figli e dei servizi, fotografando questa realtà nella complessità dei
suoi rapporti e fornendo indizi per analisi ed interpretazioni. Abbiamo così cercato di rispondere a diverse domande sui genitori tossicodipendenti, cercando di
cogliere le connessioni funzionali al duplice obiettivo della cura dei genitori e della
tutela dei figli. Abbiamo infine confrontato i nostri risultati con quelli di altre ricerche italiane ed internazionali, cercando di estrapolare informazioni utili ad una
ridefinizione degli interventi istituzionali.
Collaborazione tra servizi
L’esperienza insegna che spesso la collaborazione tra i servizi coinvolti nella
presa in carico di questi casi (Servizio Dipendenze, Tribunale per i Minorenni,
Servizi Sociali dei Comuni e Consultori Familiari) incontra alcuni intoppi. Nei professionisti non è infrequente un atteggiamento di delega o colpevolizzazione originato dalla frustrazione derivante dall’approccio ad una casistica obiettivamente
difficile da gestire. Infatti queste famiglie spesso collaborano con fatica e sono
quindi difficili da aiutare, inoltre presentano problematiche particolarmente complesse e difficili da comprendere. Si tratta poi di una casistica poco conosciuta la
cui presa in carico necessita di opportuni scambi culturali.
Le difficoltà di collaborazione tra i servizi sono state messe in luce in un’indagine di Bricca et al. (1997) i quali così commentano il resoconto di alcune esperienze di lavoro: “La complessità di alcuni di questi casi imponeva ad operatori di
servizi diversi una collaborazione difficile da instaurare sia per le modalità operative da scegliere sia per gli obiettivi comuni difficili da individuare. La risposta
difensiva più facilmente messa in atto consisteva allora in una difesa strenua del
proprio paziente o meglio di quella parte di sé che il paziente giocava abilmente
presso ciascun servizio, con conseguenti atteggiamenti di sfida e di delega reciproca tra i servizi e squalifica, invece che valorizzazione, del lavoro di ognuno”
(pp. 83-84).
La complessità di questi casi è affrontata da servizi diversi con diverse competenze e rappresentazioni dei propri obiettivi di lavoro. Ma letture scotomizzate
generano contrapposizioni tra i servizi e non rispondono ai bisogni dei pazienti.
Alla divisione delle competenze dovrebbe corrispondere invece un’integrazione
dei saperi per cogliere le connessioni dell’intero sistema familiare, nonché un
approccio che integri funzione terapeutica e funzione preventiva.
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A proposito dell’integrazione nei Servizi Sociosanitari, Olivetti Manoukian
(1999) sostiene che le maggiori difficoltà di collaborazione si concentrano sul problema della costruzione di un oggetto di lavoro comune. I problemi di integrazione nel lavoro d’équipe, all’interno di un servizio o tra servizi, sarebbero in gran
parte riconducibili a rappresentazioni dell’oggetto di lavoro non condivise e non
esplicitamente fatte proprie da tutti i professionisti coinvolti.
Anche Cirillo (1997) nota quanto spesso nei casi di tossicodipendenti con figli
la logica della collaborazione tra servizi risulti improduttiva. I Consultori Familiari
ad esempio tendono a chiamare in causa il Servizio Dipendenze con un atteggiamento colpevolizzante, accusandolo di non curare i genitori o non segnalare il caso
al Tribunale per i Minorenni. Dal canto suo il Servizio Dipendenze è riluttante a
farsi coinvolgere in un progetto finalizzato prevalentemente alla tutela del bambino in cui la funzione di controllo, da esercitare sugli adulti, è sentita come incoerente rispetto al proprio ruolo terapeutico. Per uscire da queste contraddizioni
Cirillo propone una diversa logica, secondo la quale il Servizio Dipendenze potrebbe trarre vantaggio da una più stretta collaborazione con i Consultori Familiari e
con il Tribunale per i Minorenni, soprattutto rispetto all’efficacia terapeutica nei
casi in cui i pazienti genitori sono resistenti al trattamento. In quei casi cioè in cui
essi utilizzano il Servizio Dipendenze in maniera manipolatoria o irregolare senza
dare la possibilità di concordare un progetto terapeutico soddisfacente. Si presume
infatti che, se un paziente collaborante sente il problema del proprio comportamento genitoriale inadeguato come egodistonico, egli possa trovare una risposta
terapeutica all’interno del Servizio Dipendenze.
Cornice teorica
Per introdurre l’indagine epidemiologica riteniamo utile presentare le linee
guida del modello teorico al quale si rifà il percorso di lavoro descritto e che ha
ispirato anche la formulazione di alcuni items del protocollo di indagine. La scelta di un modello interpretativo fondato sulla matrice sistemica della teoria dell’attaccamento ci permette di comprendere disagio dei genitori e quello dei figli nelle
reciproche connessioni, supportando anche il processo di integrazione operativa.
In primo luogo, secondo quanto illustrato da Cirillo et al. (1996), nel sistema
familiare del tossicodipendente si assiste ad un intreccio transgenerazionale di
legami che danno luogo alla trasmissione di una carenza. Questa carenza trasmessa avrebbe le caratteristiche di una perdita-interruzione, veicolata da un’adultizzazione intempestiva, oppure della incompiutezza-invischiamento, tipica di una
dipendenza protratta o irrisolta. Secondo gli autori, nella famiglia con figlio
maschio tossicodipendente gli aspetti della perdita-interruzione sono più frequentemente interiorizzati e trasmessi dal padre, mentre quelli dell’incompiutezza-invischiamento dalla madre. Nelle tossicodipendenze femminili il gradiente della trasmissione della carenza si inverte. Il rischio di trasmissione della carenza riguarda
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quindi il figlio dello stesso sesso, e si concretizza quando il genitore di sesso opposto non riesce, nel rapporto di coppia, a sanare la carenza del partner ed impedire
il processo di trasmissione della carenza nella relazione genitore-figlio dello stesso sesso.
Gli autori illustrano uno schema processuale della trasmissione della carenza
articolato in sette stadi ed individuano almeno tre tipi di percorsi familiari tipici
nello sviluppo della tossicodipendenza. Questi ultimi corrispondono a diversi
significati del sintomo e della psicopatologia, e comportano altrettanti quadri prognostici sulle potenzialità genitoriali. In particolare, nel il percorso uno il paziente rimane bloccato nel ruolo di figlio, presenta ansia, sentimenti depressivi, esigenze insoddisfatte di accudimento/riconoscimento e spesso i nonni compensano
la trascuratezza verso il nipote. Nel percorso due il paziente viene triangolato nel
gioco relazionale della coppia dei genitori, presenta confusione/impulsività, rabbia
e rapporti discontinui con la famiglia di origine e con i propri figli. Nel percorso
tre il paziente ha subito traumi e gravi carenze di tutela, presenta personalità antisociale e agiti nei quali tende a ripetere le esperienze traumatiche subite.
In sintesi, Cirillo (1996) sostiene che la trascuratezza genitoriale dei tossicodipendenti non è semplicemente un effetto diretto dell’assunzione di droga, ma
rappresenta invece il segnale di un drammatico blocco evolutivo. L’incapacità
genitoriale sarebbe dovuta al fatto che il mondo interiore del genitore è così condizionato delle relazioni affettive insoddisfacenti, sperimentate in qualità di figlio,
che egli non riesce a transitare ad un ruolo adulto e dirigere le proprie energie emotive verso il proprio figlio.
In secondo luogo le conoscenze sullo sviluppo delle relazioni di attaccamento (Bowlby, 1972-1973) ci possono aiutare a capire gli eventuali problemi incontrati dai figli di tossicodipendenti, ma anche a capire i problemi incontrati dai genitori tossicodipendenti nella loro storia di figli.
Nel bambino piccolo il legame di attaccamento implica una attiva ricerca del
contatto con una figura privilegiata (in genere la madre) che, insieme alla sensibilità materna nel cogliere i messaggi del bambino, contribuisce alla formazione del
suo “Sé sociale”. Nel corso della seconda infanzia poi, il bambino sviluppa il linguaggio e il pensiero verso contenuti simbolici e i sistemi di memoria attraverso i
quali può organizzare le esperienze e costruire una storia su sé stesso e sulle proprie relazioni. A partire dagli studi di Ainsworth et al. (1978), osservando i comportamenti del bambino nell’interazione con la figura di attaccamento sono stati
individuati alcuni tipi di attaccamento insicuro (ambivalente, evitante, disorganizzato) che predispongono al successivo sviluppo di disturbi di personalità (Bowlby,
1988).
La chiave di lettura dell’attaccamento ci fornisce la possibilità di approfondire anche il mondo interno dell’adulto il quale può operare una costruzione narrativa delle proprie esperienze relazionali elaborata per raccontare e rappresentare “Sé
stesso”. Infatti dalla storia relazionale di ogni individuo nasce un modello interno
relazionale che si compone di elementi affettivi, cognitivi e comportamentali interiorizzati che costituiscono un’organizzazione funzionale alla gestione del proprio
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mondo interno e dell’ambiente. Nell’età adulta, si può quindi parlare dello stile
relazionale dell’individuo come di un’organizzazione interna rispetto al Sé, alla
relazione e al mondo esterno dotata di stabilità nel tempo (Fava Viziello e
Simonelli, 1997).
Ainsworth et al. (1992) sottolineano come la qualità dell’attaccamento di un
bambino dipenda dalla memoria relazionale della madre e delle modalità reali e
fantasmatiche che la madre ha avuto nel rapportarsi con lui. Ogni madre infatti
porta nella relazione con il figlio il proprio passato, il proprio presente e le rappresentazioni che ha costruito riguardo a sé stessa, alle proprie esperienze significative e al proprio ruolo di madre. E’ così possibile teorizzare il concetto di trasmissione intergenerazionale degli stili di attaccamento, in cui per intergenerazionalità si intende la comunicazione di modalità proprie di organizzazione e di gestione
del proprio modello relazionale interno, che si gioca principalmente all’interno dei
rapporti significativi, in particolare tra il genitore ed i propri figli. Ed è in questo
senso che si può parlare di trasmissione della carenza nel sistema familiare del tossicodipendente, proprio come influenza depauperante da parte del modello relazionale interno carenziato del genitore sulla costruzione dello stile di attaccamento del figlio. Secondo il modello di Cirillo e collaboratori la valenza patogena, tuttavia, sarebbe costituita non solo dalla trasmissione della carenza ma anche dal suo
misconoscimento, dal fatto cioè che la carenza trasmessa non sia riconosciuta
come tale.
Seguendo la prospettiva indicata dalla teoria dell’attaccamento, la tossicodipendenza viene interpretata, in modo sempre più convincente, come il sintomo di
un’incapacità nella regolazione degli affetti sviluppata all’interno di relazioni primarie insicure e di interazioni regolative disfunzionali con le figure di attaccamento (Gabbard, 1990).
Questa cornice teorica ha accompagnato i lavori del progetto quadriennale,
permettendo ai partecipanti di condividere i presupporti interpretativi e di costruire insieme una metodologia coerente e strumenti di intervento funzionali. Oltre
all’indagine epidemiologica in oggetto, sono stati elaborati altri aspetti della tematica dei genitori tossicodipendenti e dei figli, si veda ad esempio lo studio parallelo di Basti e Berrini (2005) sul tema del rapporto tra tossicodipendenza, parenting
e psicopatologia.
INDAGINE EPIDEMIOLOGICA
L’indagine epidemiologica è stata preceduta da una ricerca preliminare, relativa ai casi conosciuti negli anni 1997-1999, nella quale sono stati utilizzati solo i
dati contenuti nelle cartelle cliniche del Servizio Dipendenze e dei Consultori
Familiari, e che ha compreso, oltre a Pavia anche il territorio di Vigevano. La ricerca preliminare ci ha permesso di mettere a fuoco alcune osservazioni utili ad orientare le successive analisi e l’indagine epidemiologica propriamente detta.
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La prima osservazione riguardava la disattenzione dei professionisti del
Servizio Dipendenze rispetto alla presenza di figli nella vita dei loro pazienti, evidenziabile nella frequente mancanza di registrazione di questa e di altre informazioni relative al rapporto genitore-figlio. Ciò nonostante l’incidenza di genitori
riscontrata sul totale dei pazienti tossicodipendenti in carico (16% nel Servizio
Dipendenze di Pavia e 13% nel Servizio Dipendenze di Vigevano) era tale da giustificare un interesse rivolto a questa casistica. Questa valutazione sembrava attendibile se confrontata con i risultati di un analogo studio epidemiologico italiano di
Bricca et al. (1997), che hanno stimato (per difetto) la presenza del 16.6% di genitori sul totale dei pazienti tossicodipendenti. Una ricerca olandese (Groeneweg et
al., 1988) invece stima che addirittura circa un quarto dei soggetti che fanno uso di
droghe pesanti avrebbe un figlio di cui prendersi cura. Altre rilevazioni italiane
(Pigatto, 1997) ottenute presso alcuni Servizi Dipendenze stimano la frequenza di
tossicodipendenti con figli da accudire intorno al 7-15% circa, percentuale che
varia a seconda dell’anno considerato. Zacchello e Giaquinto (1997) calcolano
invece che circa il 25% della popolazione di tossicodipendenti sia costituita da
donne in età fertile e che ogni anno vi siano in Italia circa 2500-3000 gravidanze
in donne che fanno uso di sostanze, di cui almeno l’80% portato a termine.
La seconda osservazione si è centrata sulla problematicità dei casi di figli di
tossicodipendenti che risultavano conosciuti dai Consultori Familiari in base alle
cartelle cliniche disponibili. Tra questi solo il 20,4% appariva aproblematico (non
palesava cioè trascuratezza o disturbi psicologici rilevabili). Per quanto riguarda la
collocazione, il 26,5% risultavano affidati a parenti (in genere ai nonni) o a famiglie affidatarie, il 14,3% allontanati (in comunità o adozione) e solo il 59.2% vivevano con almeno un genitore. Diverse ricerche internazionali analizzano le possibili ripercussioni sui bambini dei problemi legati al consumo di droghe da parte dei
genitori (Gonzales-Hachero et al. 1999, Barnard, 1999). In particolare Hans et al.
(1999), confrontando le capacità genitoriali di madri tossicodipendenti con quelle
di madri senza problemi di droga, hanno messo in luce come le capacità genitoriali delle prime fossero inferiori, ma che tale differenza fosse legata al loro livello di
disagio psicopatologico più che ai problemi legati al consumo di droghe in sé.
Secondo le ricerche di Clark et al. (1997) e Luthar et al. (1998) nei figli di tossicodipendenti risultano più frequenti i problemi comportamentali, l’ansia, la depressione e i comportamenti socialmente inadeguati e distruttivi. McAvay et al. (1999)
riscontrano in generale, nei figli di tossicodipendenti, una maggiore frequenza di
problemi medici e psicologici.
La terza osservazione è stata che all’interno dei servizi vi era una grande eterogeneità nella gestione di questi casi e anche la collaborazione tra Servizi
Dipendenze e Consultori Familiari era estremamente disomogenea. Si passava dal
42.8% dei casi nell’area di Pavia al 6.8% nell’area di Vigevano, i contatti erano
attivati quasi esclusivamente dal Servizio Dipendenze e per lo più dopo la nascita
del figlio. Solo in rari casi gli interventi del Servizio Dipendenze erano orientati
anche al supporto della genitorialità, e gli interventi dei Consultori Familiari erano
prevalentemente di tipo educativo e rivolti solo nel 14,3% direttamente al figlio e
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nel 28,6% alla genitorialità. Anche le informazioni in possesso del Servizio
Dipendenze e dei Consultori Familiari non erano integrabili, in particolare sfuggivano alla conoscenza di entrambi i servizi molti bambini che, in assenza di informazioni dirette, venivano supposti non problematici. Della loro esistenza era informato il Servizio Dipendenze, ma non il Consultorio Familiare né tanto meno il
Tribunale per i Minorenni.
Gli studi sugli interventi terapeutici nei servizi solo raramente prendono in
considerazione variabili legate al ruolo genitoriale dei pazienti. Per quanto riguarda la genitorialità, Camp e Finkelstein (1997) hanno proposto un intervento assistenziale complesso ad un campione di donne tossicodipendenti con relativi figli,
notando l’importanza di un training specifico per una gestione ottimale della genitorialità. Tale approccio risultava influenzare positivamente anche la dipendenza
dall’uso di sostanze nelle madri. Risultati contrastanti sono invece emersi dall’indagine di Catalano et al. (1997) che hanno proposto un intervento familiare orientato sia a ridurre il rischio di ricaduta nei genitori, sia a diminuire il rischio di danni
psicologici nei bambini. Peterson et al. (1996) hanno sottolineato l’utilità di interventi precoci con i tossicodipendenti genitori per prevenire e ridurre il rischio di
comportamenti dannosi per i figli. Tuttavia gli studi su genitori tossicodipendenti
e figli sono una rarità nella letteratura internazionale, anche in ambito italiano sono
carenti le informazioni sui rapporti tra genitorialità e condotte di abuso, sulla presa
in carico dei figli e sulle modalità di collaborazione interservizi.
Queste osservazioni ci hanno portato ad interrogarci sui limiti dell’approccio
conoscitivo a questa complessa tematica che emergeva dalle prime rilevazioni,
valutando l’opportunità di orientare l’indagine sulle condizioni di vita dei figli e sul
rapporto tra la tossicodipendenza e l’espletamento del ruolo parentale dei genitori.
Per approfondire questi argomenti interconnessi era però necessario portare l’attenzione sulle relazioni più che sui singoli attori. Ci siamo così posti l’obiettivo di sviluppare una rappresentazione più integrata dei problemi di questi pazienti in rapporto ai diversi assi di analisi: la relazione tra genitori e figli, la relazione tra genitori e sostanza, la relazione tra Servizio Dipendenze e genitori tossicodipendenti, la
relazione tra Consultori Familiari e genitori tossicodipendenti e figli, e la relazione
tra Servizio Dipendenze e Consultori Familiari e altri servizi implicati.
METODOLOGIA
Abbiamo effettuato l’indagine epidemiologica nell’area di Pavia, sui genitori
tossicodipendenti e i loro figli conosciuti dalle istituzioni (ASL, Comune e
Ospedale) negli anni 1999-2001. Per raccogliere le informazioni abbiamo costruito un’intervista strutturata che è stata proposta ai professionisti dei diversi servizi
da una psicologa tirocinante opportunamente preparata1.
1
Ringraziamo la dr.ssa Anna Maria Morardo per la collaborazione fornitaci nella fase della raccolta dei dati.
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Nella procedura di indagine abbiamo proposto l’intervista ai professionisti:
medici, psicologi e assistenti sociali che hanno avuto in carico i casi, coinvolgendo il Servizio Dipendenze e i Consultori Familiari dell’ASL di Pavia, i Servizi
Sociali del Comune di Pavia e l’Ospedale S. Matteo di Pavia.
Le informazioni richieste erano di tipo socioanagrafico, istituzionale, medico
e psicologico e sono state fornite dai colleghi con l’ausilio dei dati registrati in cartella o in base alle proprie valutazioni cliniche. Per l’elenco e la definizione delle
variabili (relative a genitori, figli e servizi) rimandiamo all’appendice, in cui sono
illustrati anche i risultati quantitativi. Le interviste sono state raccolte nel secondo
semestre dell’anno 2001.
I soggetti della ricerca sono stati figli e genitori. Abbiamo individuato 100 figli
minorenni, di cui almeno uno dei due genitori era conosciuto per l’abuso di sostanze. In presenza di altri fratelli, è stato scelto l’ultimogenito.
Nell’analisi dei dati abbiamo calcolato le frequenze relative ad ognuna delle
variabili ed analizzato le associazioni tra variabili con il test Chi quadro.
RISULTATI
I tossicodipendenti e i loro figli
Il campione osservato è composto da 100 figli, di cui 46 maschi e 54 femmine, con una età media (nel giugno 2001) di 6 anni e 7 mesi, e una gamma di età da
0 a 18 anni. Solo l’80% di questi è conosciuto dai Consultori Familiari o dai
Servizi Sociali. La fascia più bassa di età (0-6 anni) è la più rappresentata e ciò è
dovuto sia alla scelta dell’ultimogenito sia al fatto che negli ultimi anni sono
aumentate le segnalazioni con funzione preventiva dei bambini alla nascita. Altri
68 figli, tra fratelli e sorelle, non sono stati contemplati nella ricerca.
Tra i genitori, 142 sono conosciuti dal Servizio Dipendenze per l’abuso di
sostanze: l’89% di padri e il 53% di madri, con un’età media (nel giugno 2001) di
35 anni e 3 mesi, e una gamma da 23 a 58 anni. La maggioranza di padri rispetto
alle madri risulta coerente con la preponderanza della tossicodipendenza maschile
rispetto a quella femminile. Ad esempio, il Servizio Dipendenze di Pavia, nel triennio 1999-2001, ha avuto in carico una percentuale di pazienti uomini oscillante tra
l’81 % e l’83 %.
I genitori tossicodipendenti rappresentano il 22.5% del totale dei pazienti
seguiti dal Servizio Dipendenze di Pavia nel triennio 1999-2001. Dato che, se comparato con l’analogo 16% della rilevazione relativa agli anni 1997-1999, indica una
tendenza all’aumento, per lo meno nella conoscenza da parte di servizi, del numero dei tossicodipendenti che diventano genitori.
In sintesi, il campione osservato è composto da una maggioranza di padri tossicodipendenti rispetto alle madri e da figli mediamente all’inizio dell’età scolare.
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Sintomi del figlio alla nascita e tossicodipendenza della madre
Alla nascita, l’astinenza da eroina e la positività all’HIV si riscontrano in una
minoranza di figli (20%), con una preponderanza di casi (15%) di sola astinenza
(contro il 3% di sola sieropositività HIV e il 2% di entrambe le condizioni), mentre nella maggior parte dei casi (75%) non si rilevano queste sintomatologie.
La rilevazione di sintomi nel figlio alla nascita è associata soprattutto alla tossicodipendenza della madre alla nascita (c²= 39.77; p<.001), ed avviene esclusivamente se la madre assume sostanze stupefacenti, salvo due casi in cui assume
metadone.
Nei casi di trattamento metadonico della madre, dovrebbe essere raro il riscontro della crisi di astinenza del neonato in quanto sono previsti interventi per prevenirne gli effetti. Tuttavia in circa un terzo dei casi anche i figli di madri tossicodipendenti attive alla nascita risultano asintomatici e ciò fa pensare ad una possibile incompletezza delle informazioni possedute su queste situazioni.
I figli che presentano sintomi alla nascita tendono a manifestare in seguito, in
modo moderatamente significativo (c²= 4.01; p<.05), anche disturbi psicologici,
ma nel 24,5% dei casi sono rilevati disturbi psicologici anche in assenza di sintomi alla nascita. La presenza di sintomi alla nascita si associa a differenze significative nel collocamento dei figli (c²= 20.93; p<.001), in particolare risultano più
frequenti successivi casi di allontanamento.
In sintesi, la rilevazione di astinenza da eroina e la positività all’HIV nei figli
alla nascita riguarda solo una minoranza dei casi osservati (probabilmente con
informazioni incomplete) ed è associata esclusivamente alla tossicodipendenza
attiva (o all’assunzione di metadone) da parte della madre. La presenza di questa
sintomatologia alla nascita sembra essere un fattore predisponente alla rilevazione successiva di disturbi psicologici nel bambino ed a casi di allontanamento dal
nucleo familiare.
Disturbi psicologici nei figli e tossicodipendenza dei genitori
In circa un terzo dei casi vengono rilevati disturbi psicologici nei figli (32%),
contro il 48% di bambini non problematici ed il 20% di casi non conosciuti e quindi non valutabili. Se limitiamo l’osservazione ai figli di madri tossicodipendenti la
percentuale di casi con disturbi psicologici riscontrati si attesta al 54.7 %.
E’ frequente la compresenza di più di un disturbo psicologico (nell’81,2% dei
casi). Il repertorio dei disturbi rilevati nei figli comprende con frequenze decrescenti disturbi dell’attaccamento (50%), disturbi della condotta (46,9%), trascuratezza materiale (40,6%), difficoltà scolastiche (37,5%), disturbi psicosomatici
(31,2%), ritardi di sviluppo (31,2%), disturbi dell’umore (25%).
Maltrattamento/abuso (9,4%) e disturbi neurologici (3%) sono invece rilevati in
una ristretta minoranza di casi. Il sesso maschile risulta moderatamente associato
(c²= 4.81; p<.05) alla rilevazione di disturbi psicologici nei figli.
La tossicodipendenza della sola madre determina differenze significative
STUDI E RICERCHE
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nella rilevazione di disturbi psicologici nei figli (c²= 19.64; p<.001), al contrario di
quanto accade per la tossicodipendenza del solo padre (c²= 0.48; n.s.). Anche la
tossicodipendenza di entrambi i genitori risulta essere una condizione significativamente associata alla rilevazione di disturbi psicologici nei figli (c²= 20.27;
p<.001).
Osserviamo tuttavia che l’alta percentuale dei bambini sui quali non si rilevano disturbi psicologici (circa il 70% dei casi) si riferisce alla fascia di età più bassa
del campione. Ciò ci fa ipotizzare che la presenza di disturbi possa essere sottostimata a causa dalla difficoltà di valutare come disturbi psicologici gli indizi di
disagio osservati in bambini molto piccoli. Questo dato, sommato alla mancata
conoscenza diretta del 20% dei casi, contribuisce alla sottovalutazione diagnostica
della casistica dei figli di tossicodipendenti.
In sintesi, i disturbi psicologici dei figli riguardano circa un terzo dei casi
osservati. Si tratta soprattutto, con frequenza decrescente, di disturbi dell’attaccamento, della condotta e di trascuratezza materiale, e tendono ad essere più frequenti nei maschi. Ma è probabile che vi sia una sottovalutazione diagnostica da
parte dei Consultori Familiari, sia per mancata conoscenza diretta dei figli in una
percentuale di casi, sia per la difficoltà di valutare come disturbi psicologici (in
prospettiva evolutiva) i disagi osservati nei bambini in età prescolare.
In particolare, la tossicodipendenza della sola madre (contrariamente a quella del solo padre) si associa alla rilevazione di disturbi psicologici nel figlio, ed è
aggravata dalla compresenza della tossicodipendenza paterna.
Rapporto tra i genitori e collocamento dei figli
La maggior parte dei genitori risulta separata (48%), contro il 40% di conviventi e l’11% di singoli o vedovi.
Nel giugno 2001 la maggior parte dei figli sono collocati con i genitori (con
entrambi nel 30%, con la sola madre nel 32%, in soli 2 casi in comunità con un genitore) e in misura minore sono collocati con i nonni (22% in totale, insieme ad un
genitore nel 9%, o senza genitori nel 13%). Più rari sono i casi di allontanamento
(adozione nel 5%, affido eterofamiliare nel 5% e istituzionalizzazione nel 2%).
Il tipo di rapporto tra i genitori determina differenze significative nel collocamento del figlio (c²= 37.70; p<.001), se i genitori convivono il figlio tende a stare
in maggior misura con loro, se sono separati sta in genere con la madre o viene in
rari casi allontanato, se il genitore è vedovo o singolo il figlio può stare dai nonni
o essere in rari casi allontanato.
Il tipo di rapporto tra i genitori è associato a differenze significative nell’età
del figlio (c²= 18.62; p<.001) in quanto le separazioni ovviamente aumentano di
frequenza con il tempo e quindi con l’età dei figli. Ma né il tipo di rapporto tra i
genitori (c²= 0.09; n.s.), né il collocamento dei figli (c²= 4.36; n.s.) risultano associati alla rilevazione di disturbi psicologici nei figli.
In sintesi, la percentuale di separazioni tra i genitori risulta alta (circa la metà
del campione) ed il tipo di rapporto tra di loro condiziona il collocamento dei figli.
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DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
Il collocamento presso i nonni (con o senza un genitore) avviene con relativa frequenza, più rari sono gli allontanamenti. Invece, né il tipo di rapporto tra i genitori né le differenze di collocamento dei figli sembrano associarsi alla rilevazione
di disturbi psicologici in questi ultimi.
Tossicodipendenza dei genitori e collocamento dei figli
La tossicodipendenza dei genitori non è associata al loro tipo di rapporto (c²=
4.38; n.s.), ciò vale sia per la tossicodipendenza del padre (c²= 1.16; n.s) sia per
quella della madre (c²= 2.21; n.s.). Invece la tossicodipendenza della sola madre
(c²= 14.84; p<.001) e quella di entrambi i genitori (c²= 15.97; p<.01) determinano
differenze significative nel collocamento dei figli che risulta più vario e comprende anche l’allontanamento. Quando invece è il solo padre ad essere tossicodipendente (c²= 2.17; n.s.) il figlio vive esclusivamente con genitori o nonni.
In sintesi, la tossicodipendenza dei genitori non sembra influenzare il loro tipo
di rapporto. Invece la tossicodipendenza della madre, sola o insieme a quella del
padre, influenza il collocamento del figlio che può essere in questi casi anche
allontanato, contrariamente al caso della sola tossicodipendenza paterna.
Tossicodipendenza dei genitori e ruolo genitoriale
Alla nascita del figlio le madri tossicodipendenti si presentano in buona misura in remissione (37,7%), percentuale che aumenta ulteriormente se si aggiungono
i casi in trattamento metadonico (47,2%), segno di un cambiamento finalizzato a
tutelare la gravidanza. In parte rilevante (41,5%) esse risultano però ancora attive.
La maggior parte (55,5%) delle madri, che alla nascita del figlio erano tossicodipendenti attive o in trattamento metadonico, risulta in remissione nel 2001. Una
percentuale inferiore (29,3%) di padri, che alla nascita del figlio erano attivi o in trattamento metadonico, risulta in remissione nel 2001. Di questi, la quasi totalità (ad
eccezione di un solo caso) ha una partner che, o non è mai stata tossicodipendente,
oppure è a sua volta in remissione. Per le madri, le percentuali di remissione dopo il
parto sono superiori (quasi doppie) a quelle di norma riscontrate nei tossicodipendenti non genitori conosciuti dal Servizio Dipendenze di Pavia nel triennio 19992001 (che si aggirano intorno al 30% dei casi). Per i padri invece le percentuali di
remissione sono conformi alla casistica media del Servizio Dipendenze.
In sintesi, il diventare madre sembra influenzare in termini positivi la remissione dall’uso di sostanze, lo stesso non sembra valere per i padri.
Genitori e interventi del Servizio Dipendenze
Nella maggior parte dei casi (73,6 %), le madri tossicodipendenti sono
state oggetto di interventi da parte del Servizio Dipendenze e, anche tra le madri
STUDI E RICERCHE
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in remissione nel 2001, la maggior parte (87,5%) risulta avere ricevuto interventi.
Invece solo il 28,1% dei padri tossicodipendenti è stato oggetto di un intervento da parte del Servizio Dipendenze, e la maggioranza di questi (80%) ha una
partner tossicodipendente la quale a sua volta è stata oggetto di cure.
Gli interventi prevalenti più frequenti per le madri sono stati la psicoterapia
individuale e l’inserimento in comunità per singoli con il figlio (nel 25,6% dei
casi); per i padri invece il sostegno sociale individuale e, con la stessa frequenza,
altri tipi di intervento. Le madri usufruiscono più frequentemente dell’esperienza
comunitaria perché, diversamente dai padri, vi accedono anche sole con il figlio
(nel 20% dei casi).
Per i padri il 40% degli interventi sono rivolti al singolo ed il 60% alla coppia, mentre per le madri il 61,5% degli interventi sono rivolti ai singoli ed il 38,5%
alla coppia. Si tratta di rapporti percentuali invertiti che sembrano confermare
come l’attivazione dei padri sia secondaria a quella delle madri.
In sintesi, gli interventi del Servizio Dipendenze sui tossicodipendenti genitori sono in maggioranza rivolti alle madri, di cui coprono i tre quarti della casistica. La risposta positiva di remissione dell’uso di sostanze riscontrata nelle madri
è quindi collegabile anche agli interventi ricevuti.
Figli, genitori e interventi dei Consultori Familiari (in collaborazione con i
Servizi Sociali)
Circa la metà dei casi (52%) sono stati oggetto di un intervento da parte dei
Consultori Familiari. Gli interventi prevalenti sono orientati in uguale misura
(26%) al figlio e ai genitori, sul figlio i più frequenti sono affido eterofamiliare e
supporto educativo, mentre sugli adulti sono monitoraggio nella famiglia (o nell’istituto) e supporto alla relazione genitore figlio. Gli interventi prevalenti sui figli
sono in massima parte (nel 77% dei casi) diretti all’ambiente relazionale dei bambini (monitoraggio alla famiglia, supporto alla relazione genitore-figlio e istituto o
affido), nei restanti casi gli interventi si orientano al supporto educativo, al monitoraggio e, in rari casi, alla psicoterapia.
La rilevazione di disturbi psicologici nei figli, ovviamente, è significativamente associata agli interventi dei Consultori Familiari (c²= 25.31; p<.001), ma
anche ad interventi del Servizio Dipendenze sulle madri (c²= 14.21; p<.001), mentre sui padri è meno significativa (c²= 4.01; p<.05). Tendenzialmente, ai casi di
intervento dei Consultori corrisponde significativamente l’intervento del Servizio
Dipendenze, in particolare sulla madre (c²= 26.55; p<.001) e in secondo luogo sul
padre (c²= 9.58; p<.01).
In sintesi, gli interventi dei Consultori Familiari si orientano in ugual misura ai bambini ed ai genitori e avvengono in particolare nei casi di figli con disturbi psicologici riscontrati, sono inoltre tendenzialmente associati ad interventi
del Servizio Dipendenze sugli stessi casi, ma coprono solo circa la metà della
casistica.
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DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
Collaborazione tra servizi, interventi e segnalazioni al Tribunale per i
Minorenni
Nella maggior parte dei casi si rileva una collaborazione tra diversi servizi
(59%), mentre con minor frequenza risultano attivarsi solo il Servizio Dipendenze
(34%) o i Consultori Familiari (7%). Questo dato sembra segnalare un discreto
livello di integrazione, migliorato nell’area di Pavia anche rispetto alle rilevazioni
del 1999 (che già evidenziavano una collaborazione molto superiore rispetto all’area limitrofa di Vigevano). La collaborazione tra i servizi inoltre si associa significativamente agli interventi a favore di figlio (c²= 58.25; p<.001), della madre (c²=
33.15; p<.001) e, in misura minore, del padre (c²= 7.19; p<.05).
Per quanto riguarda le segnalazioni al Tribunale per i Minorenni, che riguardano la maggior parte dei casi (59%), i diversi servizi si dividono l’iniziativa in
modo equilibrato (Servizio Dipendenze 13%, Consultori e/o Servizi Sociali 15%,
Ospedale 15%), con l’8% di segnalazioni in collaborazione. In particolare, la
segnalazione del caso al Tribunale per i Minorenni è significativamente associata
alla presenza di interventi da parte dei servizi sui figli (c²= 70.28; p<.001) sulla
madre (c²= 34.74; p<.001) e sul padre (c²= 9.35; p<.01). La presenza di una segnalazione al Tribunale per i Minorenni si associa alla rilevazione di disturbi psicologici nel figlio (c²= 20.9; p<.001) ed all’effettuazione della psicodiagniosi sulla
madre (c²= 26.59; p<.001), ma non sul padre (c²= 2.40; n.s.). La segnalazione non
si associa invece con nessun particolare tipo di psicodiagnosi dei genitori (anche
se le madri con una psicodiagnosi di disturbo di personalità borderline risultano
segnalate al T.M. nel 90,9% dei casi). La segnalazione al Tribunale per i
Minorenni sembra quindi rispondere a finalità preventive favorendo soprattutto la
collaborazione delle madri con i servizi.
In sintesi, la collaborazione tra servizi riscontrata conferma l’intesa organizzativa maturata in questi anni e si dimostra una condizione favorevole per l’attivazione di iniziative in favore di figli e genitori. Lo stesso vale per la segnalazione al Tribunale per i Minorenni che risponde a finalità preventive.
Psicodiagnosi del genitore e disturbi psicologici dei figli
La psicodiagnosi è stata formulata dal Servizio Dipendenze per il 73.6% delle
madri tossicodipendenti e per il 60% dei padri tossicodipendenti. Tra le madri diagnosticate, la maggior parte presenta un disturbo di personalità borderline (56,4%),
disturbi antisociali, narcisistici e dell’umore sono meno rappresentati (10,2%).
Mentre nei padri si osservano frequenze decrescenti di disturbi borderline
(28.3%), antisociali (26.4%), narcisistici (18.9%) e dell’umore (15.1%). In
entrambi i genitori i disturbi di personalità di cluster B del DSM IV sono la psicopatologia più ampiamente riscontrata (73.6% nei padri e 82.0% nelle madri).
Nel 50% dei casi le madri con disturbo di personalità borderline hanno
figli sui quali si riscontrano disturbi psicologici, ma non risultano differenze
significative tra questo ed altri tipi di psicodiagnosi nelle madri quanto a rile-
STUDI E RICERCHE
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vazione di disturbi psicologici nei figli (anche a causa del ridotto numero di
osservazioni).
Tra i padri con disturbo di personalità antisociale (rispetto a padri con disturbo di personalità borderline) si osserva invece una differenza moderatamente
significativa a favore della rilevazione di disturbi psicologici nei figli (c²= 2.43;
p<.05), in particolare per disturbi della condotta (c²= 2.47; p<.05), dell’attaccamento (c²= 1.76; p<.05), e trascuratezza materiale (c²= 2.47; p<.05).
Dobbiamo osservare tuttavia che, pur facendo riferimento univocamente ai
criteri psicodiagnostici del DSM IV, gli strumenti e i metodi utilizzati per la formulazione della psicodiagnosi non sono stati omogenei ma dipendenti in massima
parte dalla prassi e dall’orientamento clinico degli psicologi o psichiatri che hanno
avuto in carico i casi degli adulti tossicodipendenti. Si può ad esempio ipotizzare
che la mancanza di uno strumento diagnostico sistematico abbia potuto favorire
nelle madri la preponderanza della diagnosi di disturbo di personalità borderline
che, soprattutto nella sua accezione psicodinamica, è inclusivo di un’ampia variabilità di condizioni.
In sintesi, la formulazione della psicodiagnosi sui genitori tossicodipendenti
da parte del Servizio Dipendenze avviene nella maggior parte dei casi. Nelle madri
è più frequente il disturbo di personalità borderline, nei padri sono rappresentati
disturbi borderline, antisociali, narcisistici e dell’umore. Nei padri tossicodipendenti il disturbo di personalità antisociale predispone, più del disturbo borderline,
alla rilevazione di disturbi psicologici nei figli. Dobbiamo sottolineare tuttavia le
dimensioni limitate della casistica osservata e la mancanza di sistematicità dell’assessment psicodiagnostico.
Tipo di percorso familiare e psicodiagnosi del genitore
Il tipo di percorso familiare dei genitori è stato rilevato nel 67% delle madri
e nel 60% dei padri tossicodipendenti. In entrambi i casi le maggiori frequenze
osservate riguardano il percorso tre, conseguente a gravi carenze di tutela (47.2%
nei padri e 38.9% nelle madri). Ma, mentre per i padri ha un discreto rilievo
(39.6%) anche il percorso uno, che li vede bloccati nel ruolo di figlio, per le madri
si osserva in ugual misura ( 38.9%) il percorso due, che le vede triangolate nel
gioco relazionale della coppia dei propri genitori.
Non si notano differenze significative nel percorso familiare delle madri e dei
padri, sia in rapporto alla rilevazione di disturbi psicologici sia rispetto alla collocazione dei figli (probabilmente anche a causa del ridotto numero di situazioni
osservate).
Molto alta è invece l’associazione tra la rilevazione del percorso familiare e
la rilevazione della psicodiagnosi, sia per le madri (c²= 69.12; p<.001) che per i
padri (c²= 36.23; p<.001), a conferma che le rilevazioni in entrambi i casi riguardano la fascia di pazienti collaborativi con il Servizio Dipendenze.
Per quanto riguarda i rapporti tra il tipo di psicodiagnosi dei genitori e il tipo
di percorso familiare, si riscontrano differenze significative (c²= 10.67; p<.001)
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DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
che sembrano confermare l’ipotesi di una contiguità tra la diagnosi di disturbo di
personalità antisociale e il percorso tre nei padri. Nelle madri con disturbo di personalità borderline la contiguità con il percorso due non è statisticamente significativa, ma l’associazione di queste due condizioni rappresenta comunque il 50%
dei casi.
In sintesi, la rilevazione del tipo di percorso familiare, da parte del Servizio
Dipendenze, avviene nella maggior parte dei casi. Ciò ci permette di discriminare
frequenze di percorsi familiari parzialmente diverse tra padri e madri, e confermare parzialmente le relazioni ipotizzate tra tipo di percorso familiare e psicodiagnosi.
DISCUSSIONE
Passiamo ora alla discussione dei risultati cercando di evidenziare i temi
salienti nelle relazioni tra tossicodipendenza, genitorialità e psicopatologia degli
adulti, danno per i figli, relazioni familiari e presa in carico dei servizi.
Commentiamo questi risultati rapportandoli a modelli interpretativi e ricerche nel
settore.
Tossicodipendenza e genitorialità
Come era prevedibile, la positività all’HIV e la crisi di astinenza dei figli alla
nascita sono limitate ai casi di tossicodipendenza attiva della madre e, in misura
minore, all’assunzione di metadone. L’uso controllato di tale farmaco, infatti, permette di prevenire la crisi di astinenza del neonato attraverso la programmazione
di un progressivo dosaggio a scalare nelle ultime settimane di gravidanza.
Secondo la stima di Johnson et al. (2003) la sindrome di astinenza coinvolge
dal 55% al 94% dei neonati esposti ad oppiacei durante la gestazione. Ciò corrisponde a quanto da noi riscontrato, ma è possibile che i nostri dati risultino sottostimati a causa di limiti di rilevazione sia dell’astinenza che dell’HIV nei figli. Per
queste rilevazioni infatti sono state utilizzate fonti indirette, come le registrazioni
nella cartella della madre aperta presso il Servizio Dipendenze. Per ottenere informazioni complete sarebbe stato invece necessario accedere alla cartella sanitaria
ospedaliera del figlio (spesso non disponibile per diversi motivi, tra cui il diverso
luogo di nascita o il tempo intercorso dalla nascita alla rilevazione). Peraltro va
detto che questo limite vale anche per altri dati riguardanti i figli, stante la frequente mancanza di conoscenza diretta degli stessi. A volte le informazioni possedute possono essere contraddittorie, come nel caso delle crisi di astinenza
riscontrate in due bambini nati da madri in trattamento metadonico. Cosa che
farebbe pensare alla mancanza di un efficace intervento preventivo a tutela del
neonato, o alla permanenza misconosciuta di una tossicodipendenza attiva delle
madri.
Un fatto certo è che i danni provocati al figlio dalla tossicodipendenza attiva
STUDI E RICERCHE
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della madre in gravidanza sono scientificamente dimostrati. Zuckermann e Brown
(1996), ad esempio, rilevano come in una tossicodipendente gravida le sostanze
psicoattive attraversano la barriera ematoencefalica e colpiscono il sistema nervoso centrale del feto in evoluzione, producendo una vulnerabilità biologica che renderà il bambino più sensibile ai successivi effetti di un accudimento scadente. Altri
studi (Wilson, 1992; Mayes e Truman, 2002) indicano come l’esposizione a sostanze stupefacenti in epoca prenatale può compromettere lo sviluppo fetale e condizionare anche a distanza di anni la capacità di organizzare il comportamento e di
inibire l’attività motoria. Per quanto riguarda l’assunzione di metadone, questa
provocherebbe nel neonato un’astinenza meno grave rispetto all’uso di eroina, ma
rimarrebbero comunque rischi di altre complicanze (Zeanah, 1997).
Inoltre, non solo la tossicodipendenza durante la gravidanza può essere nociva per lo sviluppo, ma anche l’uso successivo di sostanze da parte della madre
sarebbe correlato con lo sviluppo di disturbi emotivi del bambino. Kelly (2003), ad
esempio, dimostra che un fattore cruciale per lo sviluppo del pattern di attaccamento ansioso nel figlio non è l’esposizione prenatale ma l’uso attuale di sostanze
da parte della madre.
Da ciò consegue che la scelta della madre, tossicodipendente attiva, di iniziare la cura metadonica in vista della gravidanza, rappresenta già un primo segno di
preoccupazione per la salute del figlio. Ed è comprensibile quindi che l’assenza di
questo cambiamento iniziale favorisca il riscontro successivo di rischi, quali l’insorgenza di disturbi psicologici o l’allontanamento del figlio dal nucleo familiare.
A questo proposito, la percentuale riscontrata delle madri tossicodipendenti
attive, che arrivano al parto in remissione o avendo iniziato il percorso di disintossicazione, è di poco inferiore alla metà. Dato positivo che segnala come la gravidanza agisca da potente fattore di cambiamento, rappresentando non solo un vincolo rispetto al progetto di cura ma anche una risorsa supplementare. La prima conseguenza del diventare genitori è quindi quella di offrire al tossicodipendente
un’opportunità evolutiva.
In particolare, come sottolineano Cirillo et al. (1999) e Berrini et al. (2002), la
tossicodipendenza femminile sembra assumere una sua peculiarità con la maternità, raramente infatti negli studi sono individuate le differenze rispetto al fenomeno
maschile. Così, l’attesa della nascita e l’attivazione di compiti genitoriali possono
suscitare nelle madri tossicodipendenti reazioni disorganizzative, ripetitive ma
anche riparative delle proprie esperienze negative di attaccamento (Fava Viziello
et al., 2000).
Il campione dei genitori che abbiamo studiato è composto da una maggioranza di padri, composizione che risulta coerente con quella della popolazione dei tossicodipendenti adulti, che è per la maggior parte maschile. In particolare circa quattro uomini per ogni donna, come abbiamo visto nei dati rilevati dal Sevizio
Dipendenze di Pavia tra il 1999 e il 2001.
Nella nostra ricerca, anche dopo la nascita del figlio, le percentuali di remissione per le madri sono superiori alla norma dei casi in carico, cosa che non si
verifica per i padri.
30
DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
Le madri però, rispetto ai padri, oltre a vivere più direttamente l’opportunità
di cambiamento offerta dalla gravidanza e dall’accudimento del neonato, usufruiscono, anche per questa stessa ragione, di maggiori attenzioni ed interventi da parte
dei servizi. Ciò sembra suggerire che, oltre alla personale motivazione delle
pazienti, l’intervento dei servizi assume un ruolo decisivo nel concretizzare le
potenzialità di cambiamento rappresentate dalla maternità.
Nel caso dei padri, invece, gli interventi sono molto più limitati, in coerenza
con quanto rilevato nello studio di D’Ippoliti et al. (1996), secondo cui l’essere
maschio rappresenterebbe un fattore prognostico negativo per la presa in carico
dell’adulto tossicodipendente.
La significativa relazione tra la tossicodipendenza materna e la rilevazione di
disturbi psicologici nel figlio una volta in più conferma come il rapporto critico tra
figlio e caregiver coinvolga soprattutto la madre, figura primaria di attaccamento,
il cui rapporto con la tossicodipendenza assume un impatto più destrutturante. Ciò
è ribadito anche dal fatto che la tossicodipendenza materna influenza la collocazione del figlio, che in questi casi può essere anche allontanato.
La tossicodipendenza paterna può invece peggiorare il livello di rischio per i
figli se accompagna quella della madre, ma appare invece compatibile con un certo
livello di garanzie per la loro crescita durante l’infanzia. Un risultato analogo è
stato riscontrato nello studio epidemiologico di Bricca et al. (1997) i quali prevedono, per converso, i potenziali rischi della tossicodipendenza paterna per i figli in
vista dei processi di identificazione e individuazione adolescenziali.
Psicopatologia e genitorialità
Come abbiamo visto, la psicodiagnosi viene effettuata sulla maggior parte dei
pazienti genitori. Più della metà delle madri tossicodipendenti presenta disturbi di
personalità borderline, mentre i padri presentano disturbi più vari (borderline, antisociale, narcisistico, dell’umore). Quindi, nel caso di entrambi i genitori tossicodipendenti, i disturbi di personalità di cluster B del DSM IV sono la psicopatologia
più ampiamente riscontrata. Basti e Berrini (2005) sottolineano che questo dato,
che indica una disposizione all’instabilità affettiva, all’impulsività ed ai disturbi
della relazione, induce a pensare come, per entrambi i sessi, la scelta di diventare
genitore possa essere condizionata, fin dal momento del concepimento, dalla logica del passaggio all’atto e da limiti di consapevolizzazione.
Queste considerazioni introducono il ruolo dalla psicopatologia dei genitori
nell’eziologia del danno psicologico subito dal figlio. In proposito, Luthar et al.
(1998; 2003) sostengono che la tossicodipendenza della madre non sarebbe necessariamente più dannosa, per il benessere socio-emotivo del figlio, di altre malattie
psichiatriche, e che anzi il disadattamento tra i figli di tossicodipendenti sarebbe
proporzionale alla gravità dei disturbi psichiatrici, specificatamente della madre.
Anche secondo Hans et al. (1999) la compromissione del ruolo materno dipenderebbe soprattutto dalla dimensione psicopatologica e non direttamente dall’uso di
STUDI E RICERCHE
31
sostanze. Nel nostro caso, data la frequenza dominante di madri diagnosticate con
disturbo di personalità borderline, non è possibile ottenere una comparazione valida tra diverse psicopatologie in rapporto ai disturbi psicologici dei figli. Tuttavia
osserviamo che la metà delle madri con personalità boderline ha un figlio che presenta disturbi.
McMahon e Rounsaville (2002) definiscono alcuni aspetti, poco studiati, del
rapporto tra tossicodipendenza e paternità, come i fattori che compromettono il
ruolo paterno e il conseguente sviluppo dei figli. Ragionevolmente si può ipotizzare che il primato della psicopatologia, tra le cause di danno ai figli, valga anche
per i padri, e che anche per loro la ricerca sugli aspetti psicopatologici potrebbe
fornire i risultati più interessanti. Il riscontro, nella nostra indagine, dell’associazione tra il disturbo di personalità antisociale nel padre tossicodipendente e lo sviluppo di disturbi esternalizzati (della condotta e dell’attaccamento) nei figli, sembra confermare questa ipotesi. Ciò concorda in particolare con quanto rilevato da
Moss et al. (2001) secondo cui la personalità antisociale nei padri costituirebbe un
fattore di rischio aggiuntivo alla tossicodipendenza, in quanto significativamente
più rischioso per la salute psicologica dei figli del pur grave disturbo di personalità borderline.
Questa sottolineatura del ruolo della psicopatologia del genitore nella trasmissione del danno psicologico ai figli ci fornisce un ulteriore argomento per postulare l’utilità di una sua valutazione più sistematica. Pensiamo in particolare alla
costruzione di un assessment psicodiagnostico per la popolazione dei tossicodipendenti in cura che, secondo molti osservatori, sarebbe sottodiagnosticata. Da
alcuni anni si riflette sulla necessità di individuare strumenti e modalità diagnostiche e di rilevazione che siano omogenee e riproducibili, per poter precisare le varie
componenti psicopatologiche della tossicodipendenza e favorire l’ottimizzazione
dei percorsi terapeutici. In questa prospettiva, la difformità nella metodologia psicodiagnostica utilizzata rappresenta un limite anche operativo.
Nella nostra indagine le psicodiagnosi effettuate hanno riguardato la maggioranza dei casi, tuttavia, nonostante l’utilizzo di una medesima griglia di rilevazione, i metodi di formulazione diagnostica non sono stati omogenei bensì variavano
in funzione delle opzioni cliniche dello psicologo o psichiatra che aveva in carico
il paziente. Tale difformità metodologica peraltro non sorprende, anche El Guebaly
et al. (1999) hanno rilevato l’esistenza di una certa discrepanza tra i modelli teorici e culturali di riferimento e la pratica terapeutica quotidiana reale che i professionisti adottano con i pazienti tossicodipendenti.
Una limitazione ulteriore, nel caso in cui il tossicodipendente sia anche genitore, è caratterizzata dalla generale mancanza di strumenti di valutazione della
responsività genitoriale, definibile come la capacità del genitore di rispondere adeguatamente e prontamente ai segnali del bambino. Ciò frustra la possibilità di
attuare, in funzione preventiva, piani di intervento precoce anche a tutela dei figli.
Un caregiver responsivo sviluppa un’intersoggettività comprendendo le emozioni del bambino e usando le proprie espressioni emotive per regolare l’interazio-
32
DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
ne affettiva. In questa dinamica assume particolare importanza la reciprocità della
relazione, la capacità cioè del genitore di condividere lo stato emotivo del bambino
in termini di disponibilità e di sintonizzazione emotiva (Osofsky, 1999). La responsività del caregiver, a propria volta, favorisce la costruzione, nel contesto di un
attaccamento sicuro, di quella abilità metacognitiva del proprio e altrui stato mentale chiamata “Sé riflessivo” (Fonagy et al., 1999). Infine, l’integrità delle competenze metariflessive rappresenta un fattore prognostico favorevole anche nel percorso terapeutico mirato al recupero delle funzioni genitoriali di pazienti adulti.
E’ evidente come il riferimento a questa concezione intersoggettiva della
responsività genitoriale, studiata all’interno della teoria dell’attaccamento, richieda uno sforzo di modificazione notevole della rappresentazione dell’oggetto di
cura, soprattutto da parte degli operatori dei Servizi Dipendenze, in genere attenti
soprattutto al disagio individuale del tossicodipendente.
In questa prospettiva si comprende l’importanza di studiare la tossicodipendenza dal punto di vista della teoria dell’attaccamento. Gli studi più recenti sull’interpretazione della tossicodipendenza come sintomo pongono l’enfasi sull’incapacità di questi soggetti di regolare i propri stati affettivi (Gabbard, 1990), ovvero su un disturbo di regolazione del Sé che ha origine in epoche precoci dello sviluppo, all’interno delle interazioni madre-bambino. Le storie di molti soggetti tossicodipendenti, secondo Horowitz e Overton (1992), sembrano caratterizzate da
disorganizzazioni del sistema autoregolativo del Sé, a partire da interazioni disfunzionali precoci che si trasformano in pattern disadattivi durante le fasi di crescita, prima fra tutte l’adolescenza.
A maggior ragione assume interesse la possibilità, fornita dai più recenti studi
sull’attaccamento, di seguire il percorso della strutturazione dei “modelli operativi
interni” (Bowlby, 1972; Bretherton 1992; Crittenden; 1994) nelle diverse fasi della
vita, in particolare nell’età prescolare, nell’adolescenza e nell’età adulta. Il concetto di trasmissione intergenerazionale degli stili di attaccamento, già anticipato nell’introduzione, ci permette di apprezzare l’importanza di una valutazione diagnostica dell’attaccamento dell’adulto. La qualità del mondo relazionale interno del
genitore tossicodipendente risulta infatti parte integrante della costruzione e interiorizzazione dell’attaccamento del figlio, nel sistema originario composto dalla
relazione diadica genitore-bambino.
Uno strumento diagnostico dell’attaccamento nell’adulto è rappresentato
dall’Adult Attachment Interview (Main et al,. 1985; Crittenden, 1994), un’intervista semistrutturata che si propone di valutare lo stato della mente dell’adulto sulla
base della capacità del soggetto di narrare sé stesso e la propria storia relazionale
nel legame con i propri genitori. Le categorie dell’attaccamento dell’adulto, così
definite, sono analoghe a quelle dell’attaccamento infantile proposte da Ainsworth
et al. (1978).
Come abbiamo gia notato nella parte introduttiva, la trasmissione intergenerazionale degli stili di attaccamento implica fatalmente, nel sistema familiare del
genitore tossicodipendente, la trasmissione intergenerazionale di una carenza,
STUDI E RICERCHE
33
peraltro in genere misconosciuta. Cirillo et al. (1996) ne illustrano uno schema processuale in sette stadi che porta allo sviluppo della patologia. Attraverso lo studio
delle tipologie familiari gli autori riescono a definire le connessioni esistenti tra i
percorsi relazionali dei pazienti, la trasmissione intergenerazionale e lo sviluppo di
una psicopatologia prevalentemente connessa alla tossicodipendenza. Si tratta
quindi di una vera e propria diagnosi trigenerazionale che integra la storia familiare dei genitori nell’eziologia dei loro esiti psicopatologici e, conseguentemente,
dei rischi di trasmissione del danno ai loro figli.
A questo proposito, la nostra indagine ha messo in luce parziali conferme dell’esistenza di possibili rapporti diretti (come postulato da Cirillo e collaboratori) tra
il percorso familiare del genitore e tipo di psicopatologia sviluppata. Le madri tossicodipendenti, ad esempio, sono più frequentemente collocabili nel percorso due,
in cui prevale la confusione/impulsività, con conseguente prevalenza di personalità borderline. I padri invece sono più frequentemente collocabili nel percorso uno,
in cui prevale l’ansia di separazione. Significativa è poi nei padri l’associazione tra
il tipo familiare gravemente carenziato e la personalità antisociale, nel quadro
della quale la droga alimenta gli agiti.
Sempre restando in un ambito di intervento diagnostico – valutativo, una fase
specifica è rappresentata dalla proposta di Cirillo (1997) di costruire un contesto di
valutazione della ricuperabilità delle funzioni genitoriali. Questa operazione parte
dalla consapevolezza che l’incapacità del tossicodipendente di sintonizzarsi sulle
competenze genitoriali segnala la presenza di un vincolo protratto di dipendenza
infantile e di un mondo interiore dominato da relazioni affettive insoddisfacenti.
L’emancipazione verso un codice di relazione più adulto può essere quindi favorita dalla costruzione di un’alleanza che faccia sentire il paziente “compreso” per
le carenze affettive subite come figlio e/o come partner, e “disposto” a fare qualcosa per non trasferirle a sua volta al proprio figlio. Questo approccio ha il vantaggio di favorire le condizioni per un aggancio terapeutico anche in casi in cui non
ve ne è una esplicita richiesta. Il Servizio Dipendenze può così stabilire un’utile
alleanza, in primo luogo con il Tribunale per i Minorenni, e in secondo luogo con
i Consultori Familiari e i Servizi di Neuropsichiatria Infantile, deputati alla valutazione preliminare del danno subito dal figlio. E’ proprio sull’evidenza del danno,
infatti, che si può fare leva per motivare il genitore al cambiamento e stimolarlo ad
un percorso terapeutico che lo aiuti a consapevolizzare il significato emotivo e
relazionale della sua attuale inadeguatezza.
Concludendo possiamo sostenere che, rispetto ad un obiettivo complesso
come la cura della relazione genitoriale del paziente tossicodipendente, si rende
necessaria un’integrazione delle prassi diagnostiche e terapeutiche per poter giungere ad un inquadramento psicodiagnostico multidimensionale. Cioè un insieme di
valutazioni che comprenda la dimensione della psicopatologia, quella della tossicodipendenza e quella delle risorse della relazione genitoriale, per arrivare a valutare anche le potenzialità clinico-evolutive della funzione materna o paterna del
tossicodipendente.
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DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
Danno per i figli
Malagoli Togliatti e Mazzoni (1993) distinguono il possibile danno per i figli,
conseguente alla tossicodipendenza dei genitori, nel suo aspetto sanitario (come
l’assunzione di metadone o il contatto con siringhe infette per incuria del genitore), sociale (come i frequenti cambiamenti di contesti abitativi e sociali) e psicologico (come lo sviluppo di disturbi psichici da parte dei figli). Gli studi che riguardano i figli di tossicodipendenti in genere ne mettono in luce la fragilità psicologica. Reder e Lucey (2000), ad esempio, attribuiscono loro problemi di differenziazione psicologica e di formazione dell’identità, scarse competenze relazionali con
i pari, bassa autostima e scarsa abilità nella gestione dei conflitti.
Per quanto riguarda la percentuale di disturbi psicologici nei figli di madri
tossicodipendenti, quella che abbiamo rilevato (54.7%) si avvicina a quanto riportato in altre ricerche. Luhtar et al. (1998), ad esempio, hanno osservato disturbi psicologici nel 61% di figli (tutti in età scolare, dai 7 ai 17 anni) di madri tossicodipendenti, mentre Weissman (1999) in una ricerca analoga riscontra un 60% di casi.
Essendo il nostro campione composto da figli (da 0 a 18 anni) mediamente all’inizio dell’età scolare, ed essendo plausibile assumere che alcuni disturbi siano di più
difficile riscontro nell’età prescolare, possiamo considerare la nostra rilevazione in
linea con quelle citate.
La maggiore frequenza di disturbi psicologici, da noi rilevata nei figli maschi,
rappresenta la possibile conferma di quella diversa vulnerabilità tra i due sessi
riscontrata anche da Luthar e Cushing (1999). Questi autori hanno osservato, in
una ricerca come i figli maschi di tossicodipendenti subivano maggiormente l’influenza negativa del contesto sociale disagiato rispetto alle femmine, le quali viceversa beneficiavano maggiormente della presenza di operatori professionali di supporto.
In particolare, il tipo di disturbi psicologici che abbiamo rilevato trova riscontro nei risultati di diverse ricerche sull’argomento, che segnalano appunto come i
figli dei genitori tossicodipendenti manifestino disturbi dell’attaccamento (Rodnig
et al., 1989) e della condotta (Gabel e Shindledecker, 1992), siano spesso trascurati (Fava Viziello et al., 1997a), e possano presentare disturbi psicosomatici
(McAvay et al., 1999), difficoltà scolastiche (Kumpfer, 1987) nonché svariati ritardi di sviluppo (Bauman e Levine, 1986; Van Baar, 1990).
I disturbi dell’attaccamento traggono origine da specifiche problematiche
legate alla relazione con i caregivers. Molti ricercatori hanno studiato la connessione tra la qualità dell’attaccamento nella prima infanzia e l’adattamento durante
lo sviluppo (Thompson e Lamb, 1983; Grossmann e Grossmann, 1991; Van
IJzendoorn et al., 1995a). Pur essendo accertato che la sicurezza nell’attaccamento rappresenta una base affettiva che favorisce lo sviluppo, le modalità di attaccamento insicuro, allo stato attuale delle conoscenze, non sono predittive del tipo di
disturbo di personalità che un soggetto potrebbe sviluppare durante la crescita.
Tuttavia Zeanah et al. (1996) sottolineano come un disturbo dell’attaccamento
possa contribuire, insieme ad altri fattori eziologici, all’insorgenza successiva di
STUDI E RICERCHE
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altre forme psicopatologiche come i disturbi della condotta, la depressione maggiore, i disturbi da inibizione sociale.
Secondo Zeanah e collaboratori, i figli di tossicodipendenti, in quanto spesso
trascurati, tendono a sviluppare stili di attaccamento di tipo evitante, caratterizzati dall’inversione di ruoli, con l’assunzione cioè di responsabilità normalmente
assunte dai genitori. L’inversione sarebbe favorita dalla massiccia identificazione
proiettiva operata dal genitore sul figlio, il quale così svolgerebbe inconsciamente
la parte a lui richiesta, e può assumere sia la forma del controllo-accudimento sia
quella del controllo-punizione. Fabris e Pigatto (1988) parlano dell’adultizzazione
precoce dei figli dei tossicodipendenti anche come forma di difesa dalla frammentazione. Un’altra caratteristica di questo stile di attaccamento è l’iperadeguatezza,
il bambino, ad esempio, mantiene una prossimità non ansiosa alla figura di attaccamento nei luoghi non familiari, tanto da apparire ad un primo impatto come autonomo e sufficientemente adattato. Proprio per queste caratteristiche questi bambini solitamente sfuggono (più facilmente di quanto non accada per i bambini maltrattati) all’attenzione delle istituzioni, anzi, in ambito scolastico, possono apparire sovente più tranquilli e adeguati di altri.
Per quanto riguarda la trascuratezza ci riferiamo ad un comportamento dei
genitori più che un disturbo del figlio, ma possiamo assumere che essa rappresenti per i figli una causa diretta di danno. La trascuratezza dei genitori può manifestarsi infatti sia come incuria verso i bisogni elementari dei figli sia come non
rispondenza verso i loro bisogni psicoaffettivi. Secondo Crittenden (1994), più che
difficili, o compulsivamente acquiescenti come i maltrattati, questi bambini tendono ad essere passivi, insensibili agli stimoli ambientali, chiusi verso i coetanei, disorganizzati, a volte aggressivi, oscillando tra il polo della depressione a quello dell’iperattività. La disattenzione nei confronti dei loro tentativi di esplorazione, oltre
a esporli oggettivamente ai pericoli, ne limita le capacità esplorative. Si tratta di
bambini che, nonostante presentino una sintomatologia meno eclatante, subiscono
spesso ferite più profonde e dolorose rispetto ai bambini maltrattati.
Diversi ricercatori riscontrano ritardi di sviluppo psicomotorio nei figli di
madri tossicodipendenti, a partire dai rischi rappresentati dal consumo di sostanze
in gravidanza. Il ritardo può sia manifestarsi nel periodo neonatale (Chasnoff et al.,
1986) sia permanere, a diversi gradi di espressività, nel corso di tutta la vita
(McCance-Katz, 1991).
Per quanto riguarda i ritardi di sviluppo cognitivo, Sowder e Burt (1980)
hanno riscontrato punteggi più bassi (rispetto alla popolazione normale) nei tests
di intelligenza dei figli di tossicodipendenti dai 3 ai 7 anni, mentre dagli 8 ai 18
anni hanno rilevato maggiori difficoltà scolastiche (di apprendimento, adattamento ambientale e comportamento). Ciò conferma che il rischio di disadattamento
scolastico per i figli di tossicodipendenti sarebbe comunque superiore alla norma,
nonostante la tendenza all’iperadeguatezza. In particolare, le difficoltà scolastiche
sono una problematica riscontrabile appunto solo in età scolare e quindi potenzialmente sottostimata nel campione da noi studiato, in cui i bambini hanno un’età
media coincidente con l’inizio della scolarità.
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DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
Come abbiamo già evidenziato a proposito dei tossicodipendenti adulti, anche
per i loro figli si notano limiti nella rilevazione psicodiagnostica. I figli spesso
suscitano attenzione più per le difficoltà evidenziate dalla madre (infatti i figli di
madri con disturbo borderline sono segnalati al Tribunale per i Minorenni nella
quasi totalità dei casi) piuttosto che per le difficoltà direttamente osservate su di
loro (infatti solo alla metà di essi è attribuita una forma di disturbo psicologico).
Nella nostra indagine, la rilevazione psicodiagnostica sui figli riguarda la
maggioranza dei casi, tuttavia abbiamo riscontrato che, nonostante il riferimento
ad una medesima griglia di disturbi, i criteri di formulazione non possono essere
considerati del tutto omogenei. In diverse situazioni la stima del disagio dei bambini, fornita al momento dell’intervista, appariva influenzata, più che dall’osservazione sistematica, dall’area di funzionamento psicologico osservata in modo privilegiato. Le diverse opzioni cliniche dei professionisti, quindi, ci sono sembrate
avere un ruolo preponderante nel selezionare gli aspetti da osservare e queste variazioni metodologiche riducono le possibilità di apprezzare chiaramente la presenza
di disturbi psicologici o dei loro precursori soprattutto in bambini di età prescolare. Ciò avviene a maggior ragione nella prima infanzia, fase dello sviluppo infantile in cui la patologizzazione dei segni di disagio psicologico è un’operazione delicata a causa della plasticità degli equilibri evolutivi. A questo bisogna aggiungere
che il 20% dei figli non è stato conosciuto dai Consultori Familiari e la rilevazione diagnostica non è quindi stata effettuata.
Tali considerazioni delineano la presenza di un problema simmetrico tra
Servizi Dipendenze e Consultori Familiari che aggiunge un ulteriore argomento a
favore della costruzione di modalità operative e metodologiche integrate nella diagnostica e nella cura dei genitori tossicodipendenti e dei loro figli.
Queste osservazioni avvalorano la scelta di utilizzare la diagnosi dell’attaccamento, che offre indubbi vantaggi comparativi in quanto verte su una dimensione
psicologica cruciale sia del bambino che dell’adulto.
A proposito della diagnosi dell’attaccamento del bambino nell’età prescolare
possiamo citare alcuni strumenti interessanti, tra cui i seguenti. Il Test di
Completamento di Storie di Emde, descritto in Fava Viziello et al. (1997b), nel
quale il bambino è invitato a concludere storie incomplete di personaggi di una
famiglia. L’Attachment Q-Sort (AQS) di Waters, nell’adattamento italiano di
Cassibba e D’Odorico (2000), che permette di osservare alcuni semplici comportamenti del bambino in ambienti naturali. Il Separation Anxiety Test (SAT) di
Klagsbrun e Bowlby nella versione adattata di Attili (2001) che valuta l’attaccamento dei bambini attraverso reazioni e risposte a ipotetiche separazioni dai genitori presentate attraverso illustrazioni.
Ma la qualità dell’attaccamento diagnosticabile sul figlio è in qualche modo
trasmessa, come abbiamo visto nell’introduzione, dalle modalità di rapporto proposte dal genitore, costruite nella storia dei suoi attaccamenti infantili a loro volta
diagnosticabili con l’Adult Attachment Interview. Questa catena intergenerazionale della qualità dell’attaccamento è confermata anche da recenti studi. Utilizzando
l’AAI, Fava Viziello et al. (2000) hanno riscontrato in madri tossicodipendenti una
STUDI E RICERCHE
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prevalenza di attaccamenti insicuri, associati all’impossibilità di organizzare un
modello di attaccamento unitario, alla caratteristica dell’invischiamento e alle
manifestazioni agite nel sintomo. Per converso, Simonelli e Fava Viziello (2002)
hanno messo in evidenza in figli di madri tossicodipendenti l’81% di pattern di
attaccamento insicuro, come strategia prevalente nell’interazione diadica. Madri
insicure, quindi, hanno più facilmente figli insicuri e l’insicurezza dell’attaccamento rappresenta un carattere comune e transgenerazionale.
La connessione descritta influenza anche l’approccio alla valutazione del
danno dei figli. Zeanah (1997), ad esempio, considera la valutazione dell’esperienza soggettiva del genitore come parte integrante della diagnosi dell’attaccamento del bambino (soprattutto le percezioni del genitore e l’interazione genitorefiglio). Hirsberg (1996) sostiene che la valutazione psicodiagnostica dei bambini
deve essere effettuata all’interno del contesto delle loro famiglie, ponendo attenzione sia alla sofferenza che i genitori rivelano, sia alla storia che riportano circa i
problemi del bambino. Emde et al. (1996) parlano della necessità di sviluppare una
valutazione intergenerazionale della salute mentale del bambino. In primo luogo,
perché le trasformazioni in età evolutiva devono essere classificate diversamente
rispetto alle rigide costellazioni di sintomi che indicano la presenza di disturbi nelle
successive fasi della vita. In secondo luogo, perché la valutazione del bambino
dovrebbe essere orientata alla prevenzione, avendo attenzione ai disturbi potenziali quanto a quelli manifesti.
Infine, nella prospettiva di creare una sinergia operativa per la costruzione del
contesto di valutazione della recuperabilità del tossicodipendente genitore, pensiamo che la psicodiagnosi del bambino debba soddisfare alcune caratteristiche.
Innanzitutto, dovrebbe comprendere il disturbo del figlio come collegabile al comportamento dei genitori, leggere cioè il disturbo in termini eminentemente relazionali, per poterlo qualificare come “danno” subìto in rapporto causale con il comportamento dei genitori, nel contesto in cui si richiede ai genitori un cambiamento. Ciò comporta la condivisione di questa significazione del disturbo anche tra i
professionisti dei diversi servizi. In secondo luogo, dovrebbe identificare il disagio
anche come indizio e non solo espressione di un disturbo psicologico, perseguire
cioè finalità preventive, con l’utilizzo di metodi e criteri clinici mirati ed uniformi.
Avendo l’obiettivo di attivare, se non proprio la collaborazione dei genitori, perlomeno l’attenzione dei servizi, anche in presenza di un “danno” non manifesto.
Relazioni familiari
La percentuale di separazioni tra i genitori tossicodipendenti (circa la metà
dei casi nel nostro campione) condiziona la vita dei figli, spesso collocati presso
i nonni o aventi una relazione costante con un solo genitore (nella maggioranza
dei casi la madre, soprattutto nel caso della tossicodipendenza esclusivamente
paterna).
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Anche Marconi (1992) attraverso un’indagine sulla popolazione italiana ha
messo in evidenza, tra i fattori di rischio per i figli di tossicodipendenti, le separazioni della coppia genitoriale (anche più frequenti di quelle da noi riscontrate, circa
i tre quarti dei casi) che comportano interruzioni di rapporto, sostituzioni di persona e carenza della figura paterna.
Nella nostra rilevazione, la tendenza alla separazione non sembra associata
alla presenza della tossicodipendenza paterna o materna, ma risulta piuttosto una
caratteristica generalizzata di questa popolazione.
La fragilità delle unioni familiari dei tossicodipendenti è sostenuta dalla difficoltà che essi presentano nel portare a termine il processo di emancipazione dal
rapporto primario con i propri genitori. Cirillo et al. (1996) rilevano come gli stessi comportamenti tossicomanici sarebbero il sintomo di un difficile processo di
regolazione delle distanze, complicato dalla mancata autonomia e differenziazione
dalla famiglia di origine. Questa sarebbe la ragione per cui anche per la riuscita del
trattamento terapeutico essi considerano opportuno coinvolgere anche i genitori se
non i nonni dei pazienti stessi. Gli autori hanno messo in evidenza come il tratto
che caratterizza il sistema familiare del tossicodipendente è la trasmissione intergenerazionale di una carenza misconosciuta, cioè di una sofferenza che coinvolge
almeno tre generazioni: il tossicodipendente, i suoi genitori e i genitori dei suoi
genitori.
Conseguenza di questa difficile transizione è che i nonni hanno un ruolo spesso preponderante anche nei confronti dei nipoti, i quali si trovano inseriti all’interno di una complessa rete di rapporti intergenerazionali. Nello studio epidemiologico di Bricca et al. (1997) la presenza dei nonni nella vita dei bambini, sia come
conviventi insieme ai genitori, sia come affidatari, riguarda il 37.4% dei casi. Al
contrario il ricorso all’adozione come misura di tutela dei minori è stata riscontrata solo in casi eccezionali. Nella ricerca di Pigatto (1997) la presenza dei nonni in
qualità di affidatari dei nipoti è stimata nella misura del 23,7%. Nel nostro caso, i
figli collocati presso i nonni (anche con la presenza più o meno transitoria di un
genitore) sono rilevati in una percentuale analoga, il 22% del totale. Le collocazioni di affido eterofamiliare e di adozione risultano invece più limitate, entrambe
nel 5% dei casi. Non abbiamo riscontrato associazioni tra il tipo di collocamento e
la rilevazione di disturbi psicologici nei figli.
A proposito dell’affidamento eterofamiliare gli studi sottolineano aspetti non
sempre coerenti, che meriterebbero ulteriori approfondimenti. McNichol e Tash
(2001), in uno studio comprendente 268 bambini di età scolare in affidamento,
hanno riscontrato che i figli di madri tossicodipendenti, attive durante la gravidanza, presentavano inizialmente prestazioni cognitive basse (tendenti però a migliorare significativamente durante l’affido) e anche una più alta incidenza di problemi comportamentali nella scuola. Tyler et al. (1997), al contrario, hanno osservato
che i figli cresciuti nelle famiglie di origine avevano uno sviluppo cognitivo
migliore di quelli cresciuti in famiglie affidatarie. Leenders e Groeneweg (1988),
che hanno condotto uno studio longitudinale su una casistica di figli di tossicodi-
STUDI E RICERCHE
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pendenti cresciuti in famiglia o in affidamento, hanno riscontrato sia una significativa percentuale di situazioni positive in ambito familiare, sia un’assenza di correlazione tra l’uso di sostanze e la qualità dell’interazione genitore-bambino.
Leenders commenta quindi che “in determinate condizioni, e probabilmente grazie
ad attitudini particolari, una maternità o una paternità più o meno accettabili possono combinarsi con un uso ‘integrato’ della droga” (1997, p. 41-42). A partire da
questo risultato l’autore rileva la necessità di una particolare attenzione nelle scelte di allontanamento (da attuarsi possibilmente con il consenso dei genitori e
soprattutto dei figli, se già possono esprimersi), così come nella valutazione delle
effettive potenzialità dei genitori tossicodipendenti.
A proposito dell’ affido ai nonni, i professionisti dei servizi spesso optano per
questa soluzione perché pensano che il legame di attaccamento tra nonni e nipoti
sia l’unico in grado di fornire al bambino quella continuità, necessaria all’equilibrio psicologico, che il rapporto con il genitore tossicodipendente non riesce a
garantirgli. Tuttavia, anche se la collocazione familiare del figlio non sembra rappresentare in sé un elemento di rischio (come emerge anche dai nostri risultati),
alcuni autori, tra cui Cirillo (1996), esprimono perplessità sulla scelta di affido ai
nonni, in particolare riguardo al rischio di riproduzione, all’interno della relazione
tra nonni e nipoti, delle stesse modalità patogenetiche che hanno portato alla tossicodipendenza dei figli.
L’autore sottolinea invece la necessità di considerare il più precocemente possibile un intervento provvisorio di tutela del bambino e un parallelo incarico ai servizi competenti, da parte del Tribunale per i Minorenni, di valutare le risorse dei
suoi genitori. Un eventuale collocamento provvisorio extrafamiliare coniugherebbe infatti l’esigenza di protezione del minore con le esigenze di cura dei genitori, i
quali possono venire motivati al proprio recupero dal richiamo alla responsabilità
genitoriale.
Cirillo critica invece l’affidamento ai nonni come misura generalizzata e quasi
automatica, la quale sembra rispondere nell’immediato all’esigenza di protezione
dei bambini, ma rischia di frapporre gravissimi ostacoli al recupero dei genitori.
Perché per il tossicodipendente l’incapacità genitoriale è spesso un messaggio
rivolto ai propri genitori. Ad esempio, per una giovane donna tossicodipendente il
figlio può essere usato come un estremo richiamo nei confronti di una madre frustrante ed insoddisfacente. In realtà il fallimento delle aspettative di ottenere qualche vantaggio è inevitabile, e si produce sia quando la nonna non risponde al
richiamo rifiutando di occuparsi del nipote, sia quando si mostra disponibile
instaurando con lui un rapporto che esclude la figlia. L’affido ai nonni quindi frequentemente rischia di demotivare i genitori anziché mobilitarli. Lo stabilirsi di un
rapporto diretto nonno-nipote scavalca il figlio-genitore facendolo sentire sempre
più inutile e doppiamente fallito, come figlio e come genitore. Per il bambino che
rimane nella stessa famiglia allargata è concreto il rischio di ripetere la stessa storia patologica del genitore o viceversa di essere violentemente sospinto a differenziarsi da lui, con l’evidente danno rappresentato dalla distruzione dell’immagine
parentale.
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DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
Servizi e presa in carico
La letteratura internazionale conferma che un supporto psicologico e sociale
alle madri tossicodipendenti risulta particolarmente indicato, in quanto esse tendono a presentare le maggiori difficoltà nel comportamento interattivo e, soprattutto all’inizio della maternità, sembrano essere particolarmente motivate a perseguire l’astinenza e ad accettare aiuto (Luthar e Suchman, 2000; Pajulo et al., 2001;
Eiden, 2001). Zeanah (1997) sottolinea l’utilità degli interventi sulla crisi familiare, come pure delle consultazioni di sostegno e della psicoterapia madre-bambino.
Ma in particolare egli sostiene che l’unica peculiarità di questa casistica sarebbe la
necessità di coordinare l’intervento sui bambini con quello sui genitori tossicodipendenti. Come abbiamo visto, Cirillo (1997) propone, nell’intervento psicoterapeutico con il tossicodipendente genitore, un’alleanza sul riconoscimento della sua
sofferenza di figlio, utilizzando a fini terapeutici la motivazione a recuperare la
propria genitorialità danneggiata.
Riguardo agli interventi finalizzati a migliorare la sensibilità e responsività
genitoriale materna, Van Ijzendoorn et al. (1995b) hanno riscontrato maggiori
risultati con trainings ed interventi preventivi a breve termine rispetto ad interventi terapeutici a lungo termine. Tuttavia la sperimentazione dell’efficacia di un training metariflessivo con madri tossicodipendenti non ha portato a risultati univoci.
Per quanto riguarda gli interventi rilevati dalla nostra indagine, il Servizio
Dipendenze ha effettuato prevalentemente interventi di psicoterapia individuale e
di inserimento in comunità, conformemente alla generale prassi di lavoro con i tossicodipendenti. Gli interventi proposti alle madri e ai padri trovano una diversa
percentuale di collaborazione, quelli effettuati sulle madri sono la maggioranza e
ciò sembra rendere conto, insieme al più diretto coinvolgimento nella gravidanza,
della risposta globalmente più positiva di remissione dall’uso di sostanze. Il ruolo
positivo della maternità sull’esito del percorso terapeutico è confermato dal fatto
che le madri presentano percentuali di remissione quasi doppie rispetto alla percentuale media della casistica trattata, alla quale si conformano invece i padri.
L’intervento dei Consultori Familiari, invece, si compone in prevalenza di
interventi di supporto ai genitori e di supporto al figlio palesando un’attenzione
condivisa per genitori e figli ma coprendo soltanto la metà della casistica dei figli
minori, un quinto dei quali risultano completamente sconosciuti ai servizi. Di questi bambini, anche in questo senso inascoltati, è quindi impossibile stabilire lo stato
di salute, oltre che intervenire in senso preventivo o terapeutico.
Ciò segnala, in primo luogo, le caratteristiche sfuggenti della popolazione in
esame, il cui coinvolgimento si attua nella maggior parte dei casi in seguito alla
richiesta prescrittiva del Tribunale per i Minorenni. Anche Leenders (1997) sottolinea questo aspetto riferendo che in Olanda più della metà dei bambini e dei loro
genitori consumatori di droghe pesanti risulterebbero sconosciuti ai servizi. Egli
sostiene che il cosiddetto “segreto di famiglia” può impedire ai tossicodipendenti
di chiedere aiuto, e la paura di essere sanzionati e respinti rende questi gruppi familiari molto difficili da avvicinare. Questo anche da parte di servizi il cui obiettivo
STUDI E RICERCHE
41
è la riduzione del danno attraverso interventi di prevenzione primaria (dalla diagnosi precoce dei disturbi di relazione, all’affiancamento dei genitori nella cura del
bambino). D’altra parte Leenders mette in guardia anche dal fatto che l’individuazione non richiesta di tali famiglie potrebbe creare problemi supplementari, soprattutto incidendo sul delicato equilibrio comunque costruito con l’ambiente sociale
circostante.
L’adattamento sociale dei figli di tossicodipendenti, inoltre, potrebbe anche
apparire adeguato, anche se ciò non garantirebbe del loro stato di buona salute psichica. Così come non risulta essere una garanzia il fatto che, anche in età scolare,
dalle istituzioni educative non provengano segnalazioni ai servizi. Infatti , come
abbiamo visto, questi bambini non tendono a manifestare comportamenti distruttivi (possibili antecedenti di un disturbo impulsivo di personalità), ma eventualmente la tendenza al ritiro o all’isolamento (possibili antecedenti di un disturbo affettivo) che a prima vista possono essere interpretabili anche come doti di tranquillità e riflessività.
La totale mancanza di informazioni su una rilevante percentuale di casi può
prestarsi a interpretazioni contrastanti, non si tratta di postulare la presenza di un
rischio evolutivo in tutti i casi sconosciuti, sicuramente buona parte di essi non
arrivano ai servizi perché effettivamente non presentano significativi disagi.
Tuttavia, in funzione preventiva, appare necessaria una particolare attenzione perché i bambini con problematiche sfuggenti possano essere conosciuti e ascoltati dai
servizi. Può essere indicato avere un’attenzione non persecutoria ma capace di passare, dalla costruzione dell’alleanza con i genitori, all’attesa di una disponibilità a
trattare gli eventuali problemi del figlio. In altri casi invece l’attenzione per la
manifestazione di un possibile danno al figlio deve contemplare il ruolo del
Tribunale per i Minorenni nel progetto di necessario cambiamento dei genitori.
Ma modulare l’attenzione ed effettuare le scelte più opportune è un obiettivo
che presuppone un intervento possibilmente integrato da parte dei servizi, cioè presume che i servizi si ascoltino reciprocamente .
Secondo i risultati della nostra ricerca preliminare, citata nell’introduzione
(condotta dal 1997 al 1999), le prassi dei Servizi Sociosanitari nella gestione della
casistica dei tossicodipendenti genitori e dei loro figli erano le più varie. Spesso,
da parte dell’Ospedale dove nasce il figlio, veniva attivato il Tribunale per i
Minorenni, ma ciò non avveniva di norma in tutti i casi, anche quando il riscontro
di una crisi di astinenza nel neonato forniva la conferma di un rischio. Anche per
quanto riguarda il tipo di rapporto tra i servizi, si osservavano modalità diverse: in
alcune zone la collaborazione instaurata permetteva al Consultorio Familiare di
conoscere molti bambini i cui genitori erano in carico al Servizio Dipendenze, in
altri casi questa conoscenza appariva ridotta al minimo.
La collaborazione tra Servizio Dipendenze e Consultorio Familiare è stata stimolata anche attraverso il percorso della ricerca-intervento. In particolare nell’area
di Pavia è possibile riscontrare, nei risultati della presente indagine, il raggiungimento di una discreta intesa organizzativa, oltre all’aumento della percentuale di
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genitori conosciuti sul totale dei pazienti tossicodipendenti in carico. Nella maggior parte dei casi si riscontra una collaborazione tra diversi servizi e le segnalazioni al Tribunale per i Minorenni (che possono avvenire solo quando i minori sono
conosciuti) sembrano rispondere efficacemente a finalità preventive.
Un approccio integrato dei servizi (in particolare tra Servizi Dipendenze e
Consultori Familiari o Servizi di Neuropsichiatria Infantile) è implicato dal rapporto necessario che lega la valutazione del danno nel figlio al contesto di valutazione della recuperabilità del genitore. Questi due percorsi di valutazione possono
portare ad eventuali interventi paralleli su genitori e figli e convergono in particolare sul tema della genitorialità. Ciò è favorito dalla condivisione di un modello
interpretativo fondato sulla matrice sistemica della teoria dell’attaccamento che
permette di comprendere, nella sua complessità, sia il disagio dei genitori che quello dei figli, e inquadrare meglio le difficoltà di un paziente che è contemporaneamente tossicodipendente, portatore di una psicopatologia e genitore.
A nostro avviso, un modello di lavoro integrato contribuisce a creare un contesto di contenimento che favorisce anche l’integrazione dell’identità del tossicodipendente, il cui mondo interno scisso tende a riprodursi nel rapporto con l’esterno, condizionando inevitabilmente anche le dinamiche dei servizi stessi. Di conseguenza, l’integrazione rappresenta anche un fattore protettivo per la salute mentale dei professionisti, in quanto permette di creare uno spazio comune di riflessione
sui propri vissuti emotivi.
CONCLUSIONI
I risultati della ricerca e i temi discussi ci portano a riflettere su alcune delle
affermazioni e delle prassi dei professionisti dei servizi, che a volte esprimono concezioni e credenze al limite del pregiudizio. Nell’immaginario collettivo concetti
come genitorialità, tossicodipendenza e tutela dei minori non hanno una facile
convivenza e alcuni autori ipotizzano che, all’origine dello scarso interesse degli
studi per queste tematiche, ci sia una sorta di resistenza a trattare insieme queste
condizioni. Mentre la genitorialità rappresenta la realizzazione piena della persona, la tossicodipendenza invece è vista come il segno di un fallimento esistenziale.
Indubbiamente, si tratta di un contesto in cui scelte e valutazioni sono di per
sé molto difficili. Spesso assistiamo a contrapposizioni rigide, tra l’interesse del
figlio e quello del genitore, che paralizzano la potenziale collaborazione dei servizi. Altrettanto spesso la valutazione di una situazione di rischio per il bambino (con
la conseguente attivazione del Tribunale per i Minorenni) non è per niente semplice, soprattutto a causa dell’indeterminabilità dell’evoluzione psicologica e relazionale infantile. Così, anche per i professionisti, può risultare difficile distinguere se
una segnalazione è protettiva per il figlio o punitiva per i genitori, e lo stesso vale
anche per la valutazione dei vantaggi e degli svantaggi della separazione tra genitori e figli.
STUDI E RICERCHE
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Ma è nell’esperienza emotiva dei professionisti che possiamo apprezzare l’influenza dei pregiudizi culturali. Sia per chi si occupa di tossicodipendenti, sia per
chi si occupa di tutela dei minori, non è semplice tollerare il fatto che questi genitori sono spesso resistenti a farsi curare, sono disattenti nei confronti dei figli ed
hanno continue alternanze di comportamento, senza diventare punitivi nei loro
confronti o, in alternativa, negare la sofferenza dei bambini.
Inoltre, l’irritazione verso il tossicodipendente può non essere completamente
compresa nella sua valenza controtransferale e continuare ad alimentarsi dei pregiudizi legati ad una patologia fortemente stigmatizzata sul piano sociale. In altre
parole, mentre lo studio e l’esperienza solitamente aiutano il professionista a superare le idee preconcette, sembra che la compresenza di un figlio trascurato e di un
genitore tossicodipendente attivi livelli emotivi profondi, in cui il pregiudizio ritorna ad avere spazio e potere.
Le risposte emotive di rabbia e rifiuto dei professionisti possono esprimere
convinzioni come quella che i tossicodipendenti non dovrebbero avere figli, o evocare la rappresentazione del drogato come “peccatore” e del bambino come vittima “senza colpa” che bisogna difendere dal proprio genitore.
I risultati della nostra ricerca, e le conseguenti riflessioni, sembrano invece
sconfermare alcuni diffusi luoghi comuni. Basta pensare al fatto che avere figli stimola nei tossicodipendenti la disponibilità agli interventi terapeutici e che, in particolare le madri, aumentano significativamente la percentuale di remissione dall’uso di sostanze, accettano e condividono percorsi terapeutici anche impegnativi
(come l’inserimento in comunità con il figlio). Ciò contraddice lo stereotipo del
tossicodipendente resistente alla cura e del genitore tossicodipendente disinteressato ai propri figli.
Sugli esiti dell’allontanamento dei figli dalla famiglia di origine i nostri risultati sono molto parziali, ma gli studi internazionali mettono in luce dati contradditori che non confermano l’idea preconcetta che un’altra famiglia sia necessariamente salvifica rispetto a quella di origine, dove invece una gran parte dei figli può
crescere senza presentare disagi conclamati. Al contrario una separazione non sufficientemente preparata, un affido eterofamiliare d’urgenza o il passaggio ai nonni,
possono comportare problematiche aggiuntive dannose per genitori e figli.
Anche la rilevazione che solo la metà dei bambini è oggetto di interventi, e che
un quinto di loro risulta addirittura sconosciuto dai servizi, pur prestandosi ad
interpretazioni discordanti, non conferma lo stereotipo che i figli di tossicodipendenti siano vittime con un destino segnato. Diversi studi interpretano la significativa percentuale di figli asintomatici che vivono con genitori tossicodipendenti
(dato evidente anche nella nostra ricerca) come indizio, insieme ad altri, della presenza di fattori protettivi nello sviluppo di questi bambini.
Nella maggior parte dei casi i figli sono seguiti dai propri genitori e spesso non
presentato problemi così gravi da arrivare ai servizi. Anche questi dati, quindi,
sembrano sconfermare lo stereotipo del genitore tossicodipendente come sempre
trascurante. Inoltre, la consapevolezza che non è la tossicodipendenza in sé, bensì
la psicopatologia che l’accompagna a comportare maggiori danni per il figlio
44
DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
(facilmente verificabile nei numerosi casi di inadeguatezza genitoriale non accompagnata da uso di sostanze), sconferma il pregiudizio che la tossicodipendenza
renda la genitorialità inevitabilmente inadeguata.
L’incapacità genitoriale dei tossicodipendenti (sicuramente a volte anche
grave) è invece, come abbiamo visto, il segnale di uno stallo evolutivo che a sua
volta può connettersi all’abuso di sostanze. Tossicodipendenza e trascuratezza
genitoriale vengono così a rappresentare due sintomi di una stessa sofferenza psicologica.
Per concludere riteniamo che i servizi dovrebbero rapportarsi ai tossicodipendenti genitori sviluppando attenzione, sostegno e modalità di ascolto che permettano di intervenire opportunamente nei momenti di crisi. Ovvero quando essi possono elaborare le loro difficoltà ed eventualmente formulare una più matura richiesta di aiuto. L’ascolto, attento e paziente, permette di lavorare sulla coincidenza tra
l’interesse del genitore e quello del figlio, con il proposito di contrastare, per quanto possibile, la trasmissione della carenza. Questo può diventare l’obiettivo condiviso della collaborazione tra servizi, la quale può comprendere, avvalendosi di
percorsi diagnostici sistematizzati, anche la valutazione comune dei modi e dei
tempi di un eventuale allontanamento del bambino e della proposta di recupero del
genitore.
In questa prospettiva, la genitorialità del tossicodipendente, liberata dai pregiudizi culturali, in molti casi può iniziare ad essere “accolta” come un’occasione
di cambiamento e fornire risorse per la cura della relazione tra il genitore e il
figlio.
45
STUDI E RICERCHE
APPENDICE
VARIABILI DELL’INTERVISTA E RISULTATI QUANTITATIVI
FIGLI
Età del figlio
Da 0 a 6 anni
Da 7 a 12 anni
Da 13 a 18 anni
59
30
11
Sintomi del figlio alla nascita
Nessun sintomo
Crisi di astinenza da eroina e/o sieropositività HIV
Non rilevato
75
20
5
Disturbi psicologici del figlio
Rilevato nessun disturbo
Rilevato almeno un disturbo
Non rilevati
48
32
20
Tipo di disturbi psicologici del figlio
Disturbi dell’attaccamento (indiscriminato, assente, crisi da separazione
o inibizione/dipendenza, autolesionismo, inversione di ruoli)
Disturbi della condotta (iperattività, oppositività, aggressività, rabbia)
Trascuratezza materiale (sporcizia, denutrizione, disordine nei ritmi di vita)
Difficoltà scolastiche (apprendimento, linguaggio, adattamento, socializzazione)
Disturbi psicosomatici (cutanei, alimentari, respiratori, sonno, enuresi, encopresi)
Ritardo di sviluppo (cognitivo, psicomotorio)
Disturbi dell’umore (ansia, depressione, irritabilità)
Maltrattamento / abuso
Disturbi neurologici
16
15
13
12
10
10
8
3
1
Collocazione del figlio nel giugno 2001
Solo con i genitori (uno o entrambi, anche se in comunità)
Con i nonni (ed eventualmente un genitore)
Allontanato (istituto, affido eterofamiliare o adozione)
Non rilevato
64
22
12
2
GENITORI
Rapporto tra i genitori
Separati
Conviventi
Altro (singoli, vedovi)
Non rilevato
48
40
11
1
46
DIFESA SOCIALE - N. 3, 2004
Tossicodipendenza dei genitori
Solo il padre
Entrambi
Solo la madre
47
42
11
Psicodiagnosi del genitore
Rilevata
Non rilevata
Padri
53
36
Madri
39
14
Tipo di psicodiagnosi del genitore
Disturbo borderline
Disturbo antisociale
Disturbo narcisistico
Disturbo dell’umore
Disturbo dipendente
Disturbo istrionico
Disturbo psicotico
Disturbo schizoide
Disturbo ossessivo-compulsivo
Padri
15
14
10
8
1
0
3
1
1
Madri
22
4
4
4
2
2
1
0
0
Tipo di percorso familiare del genitore
Bloccato nel ruolo di figlio
Triangolato nel gioco relazionale della coppia
Oggetto di gravi carenze di tutela
Non rilevato
Padri
21
7
25
36
Madri
8
14
14
17
Tossicodipendenza del genitore alla nascita del figlio
Attiva
In remissione
Uso di metadone
Non rilevato
Padri
50
24
8
7
Madri
22
20
5
6
Tossicodipendenza del genitore nel 2001
Attiva
In remissione
Uso di metadone
Deceduto
Non rilevato
Padri
25
30
14
5
15
Madri
6
32
8
3
4
SERVIZI
Interventi dei Consultori Familiari
Effettuato almeno un intervento
Non effettuati interventi
Non rilevato
52
47
1
Tipo di intervento prevalente dei Consultori Familiari
Supporto ai genitori o alla relazione genitore-figlio
Monitoraggio nella famiglia (o nell’istituto)
Supporto educativo o psicologico del figlio
Istituzionalizzazione
13
12
10
9
47
STUDI E RICERCHE
Affido eterofamiliare
Psicoterapia al figlio
Psicoterapia all’adulto
5
2
1
Interventi del Servizio Dipendenze
Effettuato almeno un intervento
Non effettuati interventi
Non rilevato
Padri
25
58
6
Madri
39
8
6
Tipo di intervento prevalente del Servizio Dipendenze
Comunità per singoli o coppie con il figlio
Psicoterapia individuale
Comunità per singoli o coppie senza figlio
Sostegno sociale individuale o di coppia
Psicoterapia alla coppia o in gruppi terapeutici
Padri
3
3
4
9
6
Madri
10
10
9
5
5
Collaborazione tra Servizi
Interventi dei Servizi in collaborazione
Interventi solo da parte del Servizio Dipendenze
Interventi solo da parte del Consultorio Familiari e/o Servizi Sociali
59
34
7
Intervento del Tribunale per i Minorenni
Prescrizioni o richieste di indagine ai Servizi
Nessun intervento
59
41
Segnalazione al Tribunale per i Minorenni
Segnalazione da parte dei Consultori Familiari e/o Servizi Sociali
Segnalazione da parte dell’Ospedale
Segnalazione da parte del Servizio Dipendenze
Segnalazione in collaborazione
Altri
15
15
13
8
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