breve storia dell`ateismo

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Ernesto Riva
BREVE STORIA DELL’ATEISMO
Torino 2006
Copyright by www.filosofiaedintorni.net
Torino 2006
INDICE
1. Introduzione generale. Gli atei nell’antichità …… p. 3
2. Gli atei nell’età moderna e nell’Illuminismo:
Meslier, d’Holbach, Sade ………………………... p. 8
3. Gli atei dell’Ottocento (1^ parte):
Schopenhauer Nietzsche Stirner Bakunin ………… p. 13
4. Gli atei dell’Ottocento (2^ parte) :
Feuerbach Marx Engels Lenin Le Dantec ………… p. 18
5. Gli atei nel Novecento: Freud Sartre
Merleau-Ponty Camus Lévi-Strauss
Foucault, Onfray ……………………………… p. 24
6. Gli atei nel Novecento in Italia: Rensi,
Flores d’Arcais, Odifreddi, Eco, Giorello ………… p. 33
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STORIA DELL’ATEISMO
a cura di Ernesto Riva
1. Introduzione generale. Gli atei nell’antichità
Non si sfugge al fatto che ogni credenza, come ogni miscredenza,sono entrambi fenomeni
prettamente umani. Ciò significa che è solo per l'uomo che Dio è un problema, un mistero, una
certezza; è solo l'uomo che si pone il problema di Dio, che tenta di risolverlo e che dà le più diverse
soluzioni. Così, il problema di Dio è inevitabile e è anche e soprattutto "esistenziale" ed umano.
Atei e credenti sono d'accordo nel ritenere il problema di Dio un problema fondamentale. Gli uni
possono dire: "Il problema di Dio è un problema umano che riguarda il rapporto degli uomini tra
loro, un problema totale che ciascuno risolve con la sua intera esistenza e la cui singola soluzione
rispecchia l'atteggiamento adottato da ciascuno nei confronti degli altri uomini e di se stesso"(l)
Gli altri scrivono: "Inest homini inclinatio secondum naturam rationis, quae est sibi propria,sicut
homo habet naturalem inclinationem ad hoc quod veritatem cognoscat de Deo et ad hoc quod in
societate vivat" (2); ma tutti sono d'accordo (almeno in generale) nel ritenere Dio un problema di
cui vale la pena di discutere, sia per negarlo successivamente, sia per affermarlo. Il problema di Dio
è inevitabile perché tutti gli uomini, prima o poi, direttamente e indirettamente, devono confrontarsi
con esso. Anche coloro i quali dicono che, per essi, Dio non è mai stato un problema o perché
secondo loro il problema non sussiste essendo uno pseudo-problema,perciò privo di qualsiasi
significato; o perché essi non hanno mai avuto dubbi in proposito,ecc. - devono necessariamente
esserselo posto, anche indirettamente, e risolto conseguentemente, sia pure in modo negativo, ma, in
ogni caso, il problema gli si è parato dinanzi. Infatti, negare che sussista il problema è già aver dato
una risposta allo stesso,affermando implicitamente che lo si è risolto con la sua negazione. Il
problema di Dio è anche inevitabile perché esso è strettamente legato alla risposta che ogni singolo
uomo dà alla sua vita, e al significato dell'esistenza in generale. Coloro che si professano credenti
pensano che, alla fine, il problema fondamentale sia proprio quello del significato dell'esistenza e
che esso implichi necessariamente l'affermazione di Dio: d'altra parte, i cosiddetti miscredenti non
pensano di ritenere fondamentale la nostra presenza a questo mondo, ma, in entrambi i casi, si è
data una risposta al problema del senso della vita. Se il problema di Dio è, appunto, un problema,
che si pone alla mente umana - come il problema dei valori, come ogni problema scientifico,
letterario, ecc. resterà per ciò stesso presente finché vi sarà mente umana, finché l'uomo sarà
presente su questo mondo, e perciò posso arrischiare la affermazione che il problema di Dio, oltre
ad essere inevitabile, è anche ineliminabile. Non sono d'accordo, in altre parole, con quelli che
sostengono che il problema di Dio potrà sparire dalla circolazione in un tempo più o meno
lungo,ammesse certe condizioni, poiché ritengo - ripeto - che la mente umana non potrà mai evitare
di porselo in quanto problema e susseguente soluzione come non potrà evitare di porsi tutti gli altri
problemi, finché vi sarà.
In generale, rispondere che la vita non ha un senso che la trascenda, vuol dire affermare la sola
esistenza dell'uomo, senza alcuna divinità che intervenga, e vuol dire quindi essere, se non atei,
miscredenti. Al contrario, ritenere la vita, se così può dirsi, dipendente da un essere assoluto e
trascendente, significa generalmente essere credenti, professare una fede religiosa. Dio è una
risposta al problema dell'esistenza e, viceversa, il nostro comportamento nell'esistenza è una
risposta al problema di Dio.
Il problema di Dio, s'è detto all'inizio, è un problema esistenziale. Infatti in esso si pongono tre
condizioni: l'interrogante, cioè l'uomo; l'interrogato, in questo caso Dio; e la risposta al problema,
che è la risposta dell'uomo alla presenza o alla assenza di una divinità. Però, in concreto, chi fa le
veci del giudice e della parte in causa è sempre e solo.. l'uomo, perché Dio non interviene a
rispondere (a meno di non ammettere la Rivelazione, ma questo è un altro discorso) e non vi sono
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dei segni che possano suggerire la soluzione del problema: è sempre e solo l'uomo che ricerca,
interpreta, cerca di dare una soluzione. Inoltre, sia per il credente come per il miscredente, la cosa
più importante sembra essere la coerenza nell'impegno assunto.
Per l'ateo ciò vorrà dire trarre tutte le conseguenze dalla constatazione dell'assenza di qualunque
Dio; per il credente sarà importante la viva testimonianza della sua fede: rendere partecipi gli "atei"
del suo credo, "illuminarli,informarli su certi fatti che essi ignorano,e su altri che essi interpretano
male"(3). Bisogna però fare una precisazione: che infatti il problema di Dio condizioni l'intera vita
umana è valido solo nel caso del credente, per il quale, ovviamente, l'esistenza e la presenza provvidenziale della divinità è essenziale nei riguardi della sua vita intera. Per il credente è
importantissimo determinare la natura del Dio in cui crede, cercare di spiegare la sua presenza al di
là delle possibili contraddizioni,trovare delle formule e dei riti atti a propiziarsene i favori od a
revocare, per quanto possibile, i suoi decreti, impostare le sue scelte in modo che siano aderenti al
credo religioso a cui appartiene,e cose simili. Insomma il credente isola il problema di Dio
ponendolo come il fondamentale, al contrario del miscredente, per il quale tale problema è uno fra i
tanti. Per il miscredente e per l'ateo, tutto quel che s'è detto prima non sussiste una volta assunto che
non e'è Dio, tutti i problemi sopracitati sono resi inutili, superflui,assurdi, perché è ovviamente un
non senso regolare le proprie scelte in base a chi si crede non esista o non si interessi a noi. Quindi
il problema di Dio è si presente alla mente umana, ma la sua presenza o sia estende durante tutta
una vita qual è il caso del credente, o riaffiora di tanto in tanto, in particolari occasioni,senza che
però con questo il miscredente sia necessariamente indotto a rovesciare la sua certezza contraria od
a porre in revisione ulteriore i suoi valori. Con ciò, può sembrare che la miscredenza sia
semplificatrice(4), ma questo è vero fino ad un certo punto. Se la miscredenza e l'ateismo sono, in
un certo senso, l'assenza di alcuni problemi, non per questo sono assenza di problematica. Infatti
l'argomentazione potrebbe essere a sua volta capovolta e rivolgere la stessa "accusa" al credente, il
quale ha problemi diversi dall'ateo. Il punto è solo questo: ognuna delle due "parti in causa" ha
problemi che ritiene più importanti ed a cui dà a preminenza. Occorre semplicemente prenderne atto
e decidere per l'una o l'altra alternativa.
Nelle pagine seguenti mi occuperò dell'ateismo, analizzerò le interpretazioni attuali che ne vengono
date e quindi farò un excursus storico del fenomeno a partire dalle sue origini probabilmente greche
fino a giungere all'età contemporanea, dove sembra che l'ateismo abbia trovato il suo culmine ma
anche la fine delle sua parabola ascendente, e quindi la sua "morte". L'analisi del fenomeno ateistico
non è affatto semplice, ma non dobbiamo, d'altra parte, farei spaventare dalla sua complessità se
vogliamo vedere un po' chiaro in esso. Questo è appunto il mio scopo principale: a elucidare un
poco la posizione avuta dall'ateismo in questi più di duemila anni di storia del pensiero,
distinguendolo nettamente da altre manifestazioni similari ma distinte, come il fenomeno generale
della miscredenza (che richiederebbe uno studio a sé), o affermazioni di scetticismo, di indifferenza
e simili.
L'assunto principale di quest'opera è che si può chiamare ateo colui il quale, come diceva Hobbes,
“directe negaverit Deum esse”(5) e quindi non si considerano "atee" posizioni come lo
scetticismo, il panteismo,il deismo, il monismo, ecc. In altre parole, mi occuperò solamente degli
atei dichiarati e non di coloro che hanno posto dei dubbi sull'esistenza di Dio o hanno concepito Dio
in un modo diverso da quello della dogmatica cristiana. Come si vedrà, il numero degli atei sarà
molto più piccolo di quanto si pensi, appunto perché mi dedicherò espressamente ad una analisi
dell'ateismo e non di pensatori scettici o agnostici o deisti. Delimitando così il tema, mi auguro di
essere stato abbastanza esauriente e preciso, in modo che non sorgano questioni che si basano su
una cattiva interpretazione del mio assunto fondamentale. Comunque riconosco volentieri che non è
affatto facile dare una definizione esaustiva di un fenomeno così complesso com'è quello
dell'ateismo. Si può dire, intanto, che esso è una risposta al problema di Dio, come la è lo
scetticismo, il panteismo, il razionalismo,ecc., e la fede. Ogni credenza ha le sue caratteristiche, le
sue particolarità, e non possiamo elevare una sulle altre affermando la sua superiorità e validità. In
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fondo, se si può parlare di "ateismo" è perché una ta1e posizione è diversa da qualsiasi altra ed ha
determinate caratteristiche che la distinguono dalla rimanenti: in caso contrario, che significherebbe
un tale termine ?
Prima di addentrarci nell'esame dei singoli pensatori atei è bene dare uno sguardo generale allo
sviluppo dell'ateismo e alle sue caratteristiche generali dall'antichità ad oggi iniziando a dare un
breve cenno delle concezioni orientali per poi non accennarne più poiché il nostro studio si riferisce
soprattutto all'ateismo occidentale e non a quello orientale o musulmano.
Si deve dire, innanzi tutto, che è sbagliato sia imputare di le concezioni orientali di "ateismo"
perché hanno un concetto di Dio diverso dal nostro, sia ritenere che in Oriente non vi sia alcuna
forma di ateismo. In Oriente abbiamo soprattutto il buddismo che viene considerata come la
religione "atea" per eccellenza, ma non c'è solo essa. Accanto alle scuole teistiche che
proclamavano un Dio creatore e reggitore del mondo, c'erano le scuole che concepivano il mondo
come un processo di autocreazione ab aeterno senza alcun intervento di divinità. Queste ultime
scuole sono alcune buddhistiche, quelle Jainiche e Mimansa , le quali criticano il concetto di Dio .
Sembra comunque che la confutazione dell'esistenza di Dio architettata sia dai Jaina che dai
Buddhisti non sia altro che una confutazione delle prove logiche che i Naiyayika avevano proposto.
Dio, dicono entrambi le scuole, non può essere dimostrato mediante nessuna inferenza; in questo si
trovarono d'accordo con il più fervido assertore dell'esistenza di Dio, Ramanuja . Venendo al
Buddhismo, si può dire che esso è sì una religione "atea" in quanto non contempla un essere
creatore, ma non per questo essa ha mai negato la cosiddetta Realtà Ultima. Il Buddha ha solo
rifiutato per essa un nome qualsiasi, una qualsiasi personificazione, il che per lui, come per la più
schietta tradizione indiana, voleva dire cadere nell'antropomorfismo. Il cosiddetto "ateismo"
buddhista non è una caratteristica essenziale del Buddhismo, perché vi sono molte scuole che non
possono affatto dirsi atee .
Nell’Islam vi fu solo una setta, a quanto pare, che negò dichiaratamente la divinità, e fu quella dei
Mu att ila. Non si può quindi dire che c'è un ateismo musu1mano, ma vi sono solo dei musu1mani
atei. L'ateismo musulmano non è rifiuto di Dio, ma è ateismo con Dio. Se l'idea di Dio è stata
raramente criticata, al contrario è stata molte volte criticata l'idea della profezia.
Giungiamo quindi all'ateismo occidentale, che sembra fare la parte del leone in questa "storia"
dell'ateismo. I primi atei del pensiero occidentale li troviamo fra i Greci. Teodoro, Diagora,
Evemero,ecc. sono veri e propri negatori della divinità, non semplici agnostici (come forse fu
Protagora). Non per nulla Teodoro esortava tutti a rubare, a compiere sacrilegi poiché credeva che
non vi fosse alcun Dio che lo potesse punire per quello che avrebbe fatto.
Gli atei nel pensiero antico greco e romano
Nella storia della filosofia occidentale i primi veri e propri atei di cui si fa menzione sono Diagora
di Melo, Teodoro di Cirene e Evemero di Messana, per parlare solo dei più famosi (tralasciando
quindi Bione di Boristene, Sti1pone di Megara, ecc.). Purtroppo le notizie che abbiamo a loro
riguardo sono molto poche e su queste poche dobbiamo basarci. Bastano, comunque, a darci
un'idea, sia pure sommaria, del loro ateismo dichiarato.
Diagora di Melo fu un sofista e un poeta vissuto nel V sec. a.C. La tradizione vuole che si facesse
beffe degli dèi, deridendone i misteri, perciò fu detto "l'Ateo", e gli ateniesi lo condannarono a
morte; essendo egli riuscito a fuggire, gli posero una taglia sul capo e ne distrussero gli scritti.
Diagora morì a Corinto. Questo è in sintesi quel che sappiamo della sua vita. Qualcosa di più
preciso ci dice Cicerone nel De natura deorum : “Si dice che Diagora sia stato spinto all'ateismo dal
vedere che gli Dei permettevano che fosse felice un uomo colpevole, a quanto pare, di averg1i
rubato un poema”. Ed ancora: “Trovandosi una volta a Samotracia Diagora, quello ch'è chiamato
l'Ateo,uno dei suoi amici gli mostrò più quadri votivi di gente ch'era scampata alla violenza delle
tempeste. 'Tu che non credi alla Provvidenza,guarda quanta gratitudine di gente che si è salvata per
le preghiere innalzate agli Dei!'. 'Sta bene fu la risposta; - ma quelli che hanno fatto naufragio e
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sono periti in mare,dove li hanno dipinti?'. Trovandosi egli stesso in mezzo ad una forte burrasca, i
suoi compagni di viaggio, atterriti,gli dissero che giustamente incombeva su di loro una disgrazia,
poiché lo avevano ricevuto nella nave. Ed egli mostrando loro altre navi esposte, dai medesimi
venti, agli stessi pericoli,disse: 'Credete forse che anche quelle portino seco Diagora?" ".
Da Diagora veniamo a Teodoro di Cirene, vissuto tra la seconda metà del IV e l’inizio del III sec.
a.C. La fonte principa1e su di lui è Diogene Laerzio. Teodoro ascoltò le lezioni di Zenone Cizico,
seguì anche gli insegnamenti di Brisone e di Pirrone lo scettico. Fondò una propria scuola chiamata
Teodorea. Fu cacciato da Atene in seguito ai suoi insegnamenti e riparò presso Lisimaco. Avrebbe
corso pericolo di essere portato in giudizio davanti a11’Aeropago se non lo avesse protetto
Demetrio Fa1areo. Altri invece dicono che fu condannato a bere la cicuta. Teodoro ebbe anche una
famosa disputa con Ipazia, donna filosofa e matematica, che sembra sia riuscito a confutarlo.
Teodoro scrisse un libro intitolato Sugli dèi che Diogene Laerzio giudica "non disprezzabile".
Teodoro distrusse in esso ogni opinione sugli dèi : tutti i ragionamenti sulla divinità non sono che
vuote chiacchiere. Egli pensava infatti che la divinità non esistesse e perciò incitava tutti a rubare,
spergiurare, rapinare e a non morire per la patria. Concepì come fini la gioia e il dolore: l'una posta
nella saggezza, l'altro nell'insensatezza. Beni sono la saggezza e la giustizia, mali i comportamenti
contrari, intermedi il piacere e la sofferenza. Rifiutò anche l'amicizia come insussistente sia per gli
insensati che per i saggi: per gli uni, infatti, tolta di mezzo l'utilità, anche l'amicizia sfuma; i secondi
poi sono sufficienti a se stessi,e tali da non aver bisogno di amici. Diceva anche che è ragionevole
che l'uomo di valore non si sacrifichi per la patria: poiché è sconsiderato buttar via la propria
saggezza per l'utilità degli insensati. La patria è l'universo; è lecito rubare, commettere adulterio e
compiere sacrilegi,ma al momento opportuno: nessuna di queste cose è infatti turpe per natura,una
volta che sia stata rimossa l'opinione che sussiste per accordo degli stolti. Apertamente il saggio
farà uso delle cose da lui bramate,senza alcuna esitazione.
Evemero o Eumero di Messana, vissuto tra il 340 e il 260 a.C. completa la triade dei primi atei
greci. Egli è l'autore della Sacra scrittura o Scritto sacro, scritto verso il 280. Visse alla corte del re
macedone Cassandro (311-297 a.C.). Di lui Cicerone parla in questi termini: “Eumero, che il nostro
Ennio ha copiato e sguito, e che racconta persino ove gli Dei son morti e dove s trovano le loro
sepolture". Nello Scritto sacro Evemero narra un viaggio immaginario nell'Arabia e nell'Oceano
Indiano. Giunto nell'isola di Panchea, egli avrebbe trovato là uno stato costruito sulla base di un
collettivismo utopico e reso accettabile dalla assenza di ogni estremismo, fondato su tre classi di
persone: sacerdoti-artigiani, coltivatori,soldati. Nello stesso luogo, su una colonna del Tempio di
Giove Trifilio, egli avrebbe trovato scritta tutta la storia primitiva del genere umano. Così egli svelò
il concetto che tutti i miti riguardanti gli dèi non sono che storia umana avvolta nel meraviglioso;
che tutti gli dèi e gli eroi non furono che uomini notevoli per forza ed accortezza a cui, dopo la
morte, si tributarono onori divini: lo stesso Zeus aveva fatto scolpire la colonna a ricordo delle
proprie opere.
Non si può concludere una panoramica generale sull'ateismo greco senza ricordare colui il quale,
pur non essendo dichiaratamente ateo (ecco perché non l'abbiamo citato prima), contribuì più di
molti altri alla causa della miscredenza - se non vogliamo parlare di ateismo -, ed è stato a lungo
considerato come un uomo abietto, un edonista sfrenato, un materialista della peggior risma: si
tratta di Epicuro (341- 270 a.C.) Epicuro non ha però mai negato l'esistenza degli dèi. Infatti egli
scrive: “Considera la divinità come un essere vivente incorruttibile e beato, - secondo attesta la
comune nozione del divino,- e non attribuirle nulla contrario all'immortalità,o discorde dalla
beatitudine. Ritieni vero invece intorno alla divinità, tutto ciò che possa conservarle la beatitudine
congiunta a vita immortale. Perché gli dèi certo esistono: evidente infatti n'è la conoscenza: ma non
sono quali il volgo li crede; perché non li mantiene conformi alla nozione che ne ha. Non è perciò
irreligioso chi gli dèi del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi. Perché non
sono prenozioni, ma presunzioni fallaci,le opinioni del volgo sugli dèi".
Epicuro considera quindi gli dèi esistenti, beati, che non si occupano degli affari umani, ma vivono
tranquillamente negli interstitia mundi. Aver negato la provvidenza divina è bastato per farlo
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considerare un immorale, un dissoluto. Egli fu contrastato, soprattutto dai posteri cristiani, poiché la
sua filosofia rappresentava un modello in netta antitesi con le dottrine professate dalla Chiesa.
Infatti, alla teoria che il mondo non abbia valore in sé ma lo debba trovare in un fine che lo
trascende, Epicuro oppone il suo materialismo e meccanicismo; all' idea che la vita degli uomini
non sia che una preparazione ad una buona morte, Epicuro oppone il suo ideale di vita
completamente terreno e il non senso del problema della morte. Per questo egli fu cosi avversato dai
Padri: una concezione cosi fondamentalmente diversa, cosi diametralmente opposta alla cristiana
non poteva non aver sentore di "ateismo", di "eresia" !
Però, guardando un po' più a fondo le cose, Epicuro fu forse ateo? Non lo credo, poiché negò solo
un attributo della divinità - la provvidenza - ma non l’esistenza. La sua filosofia epochizzava, per
cosi dire, cioè metteva da parte gli dèi, ma ciò non vuol dire che li avesse negati o combattuti. La
sua visione del mondo era "laica", "mondana", ma ciò non significa che fosse "antireligiosa".. Oggi,
ancora più di una volta, possiamo affermare serenamente che Epicuro non fu un ateo, poiché egli
potrebbe stringere tranquillamente la mano a teologi come Bonhoeffer ecc., i quali tentano di
liberare la cultura e la religione da influssi superstiziosi.
Come Epicuro, così Lucrezio nel mondo latino col De rerum natura diffuse l’idea della divinità che
esiste ma non interviene nel mondo.
Esaminiamo infine quali furono le caratteristiche fondamentali dell'ateismo greco. Esso sembra
essere stato vero e proprio ateismo, cioè dichiarazione netta e precisa della assenza degli dèi (non si
può parlare ancora di un unico Dio). In secondo luogo, la dichiarazione di ateismo fatta da quei
pensatori non era passata sotto silenzio, ma essi la difendevano apertamente e per questo erano
costretti a fuggire, a nascondersi per sostenere le proprie idee. Non possiamo dire molto di più: non
possiamo ad esempio dire se questo primitivo ateismo sia stato una sorta di teologia negativa o una
critica dell'antropomorfismo religioso; comunque, sembra constatato che, fin dai primordi greci,
l'ateismo fu un fenomeno positivo, e non tanto un antiteismo. Gli atei greci non si scagliano infatti
contro gli dèi, ma vivono la loro vita al di là di preoccupazioni ultraterrene; anzi, in casi come
quello di Teodoro, egli incitava ]e persone a rubare, a spergiurare, per far vedere quanto fosse
convinto che gli dèi non ci fossero. Gli atei greci, e gli agnostici(Protagora), gli scettici (Sesto
Empirico ecc.), insomma la miscredenza greca forma un quadro in sé completo. Sia l'ateismo che la
religione greca sono fenomeni culturali in essi computi, che non hanno nulla da "invidiare" a
nessuno. Del resto non si può dire che l'ateismo greco fosse stato qualcosa di provvisorio, di
superficiale, di immaturo perché privo, ad esempio, di quella "spiritualità" tipicamente cristiana.
Non bisogna giudicare il greco con lo stesso metro del cristiano e viceversa. Le due civiltà - greca e
cristiana - sono l'una anteriore all'altra e non possono essere giudicate con lo stesso metro comune.
NOTE
1) J-P. Sartre,"Attualità di Gide" in Che cos'è la letteratura?,trad.it. Il Saggiatore, Milano, 1966,
p.466.
2) S.Tommaso, Summa theologiae, I-II, q. 94, a. 2.
3) M.M-Yvonne, Lettere a un non credente, trad.it. Roma 1973 ,p.1l.
4) Cfr. J.Guitton: “L'ateismo è semplificatore,è vivificatore”, in Perché credo, trad.it. ed. SEI,
Torino 1973, p. 79.
5) T.Hobbes, Appendix ad Leviathan, c.II, ed.Molesworth, rist. Aalen 1961, t. III, p. 548.
Libri che trattano la storia dell’ateismo in generale sono i seguenti:
Torno, Senza Dio? , ed. Mondadori
Torno, Pro e contro Dio, Oscar Saggi Mondadori
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STORIA DELL’ATEISMO
a cura di Ernesto Riva
2. Gli atei nell’età moderna e nell’Illuminismo: Meslier, d’Holbach, Sade
Dopo l’ateismo antico, si verifica uno strano fenomeno: dalla Grecia fino ad arrivare
all'Illuminismo non si hanno casi di ateismo esplicito. Durante il Medioevo e il Rinascimento
abbiamo casi di scetticismo, di materialismo, di panteismo, di naturalismo e simili, ma nessuno dei
pensatori ha mai varcato totalmente la soglia dell'ateismo, se diamo retta a quanto attestano i loro
scritti. Né Vanini, né Bruno, né Spinoza, né Hume, né Bayle (per citare solo i più famosi) sono atei
nel senso vero e proprio del termine ma solo, se vogliamo, miscredenti. Questo per la semplice
ragione che, come scrisse Kant, "nessuno per il solo fatto che non crede di poter affermare qualche
cosa, può essere accusato di volerla negare" (cfr. Critica della ragion pura, dial. tr., libro 2°, cap.
3°, sez. VII).
Riguardo Vanini, egli disse, prima di morire: “ Solo la Natura è Dio” (cfr. Opere, Lecce 1912, pp
CCXXVIII). E' quindi un caso di naturalismo o se volete di panteismo ma non di ateismo. Ne
L'anfiteatro della eterna Provvidenza, Vanini dice che non possiamo sapere che cosa sia Dio,
poiché “se lo sapessi, sarei Dio” ( Opere, cit., p.25) , ma non che non c'è Dio. Anzi, che vi sia una
Provvidenza è dimostrato da molte cose : ad es. dalla creazione del mondo,dal moto dei cieli, dai
miracoli,ecc.(in Opere, cfr. le esercitazioni 4^,5^,8^) . Ne Dei mirabili arcani della natura regina e
dea dei mortali, Vanini ribadisce la sua religione della natura: “...Ma in quale religione gli antichi
filosofi credevano che Dio fosse venerato con verità e santamente? ... Nella sola religione della
Natura: religione della Natura stessa che è Dio (infatti è principio di movimento) scolpita nel cuore
di tutti i mortali"( in Opere, p. 308).
Giordano Bruno distingue nettamente il campo della scienza da quello della fede; se poi vogliamo
ammettere una causa prima, questa non può essere che "la natura stessa o pur riluce ne l'ambito e
grembo di quella"(Dialoghi italiani, Firenze 1958 ,p.229). La natura è "Dio che è in tutte le
cose"(op.cit., p.274). Bruno ripete spesso la sua idea dominante: Dio è tutto in tutte le cose, "per
quanto si comunica alli effetti della natura,ed è più intimo a quelli che la natura stessa; di maniera
che se lui non è la natura istessa,certo è la natura de la natura ed è l'anima del mondo,se non è
l'anima istessa"(Ibid., p.783). La religiosità bruniana è cosmica, è amore per l'infinito, per
l'universo, per il tutto.
Spinoza ci lasciò nella Epistola LXXIII la sua "confessione di fede". Egli dice che "Dio è, come si
dice, la causa immanente, non già la causa transeunte di tutte le cose. Affermo cioè con Paolo che
tutte le cose sono in Dio e in Dio si muovono"(in Opere scelte, a cura di A.Deregibus,Milano I970,
p.208). Anche questo è un caso di naturalismo o, meglio, di acosmismo, e non di ateismo.
Hume è dichiaratamente uno scettico. La conclusione della sua indagine sul problema di Dio è
questa: “Tutto è ignoto; un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio,incertezza,sospensione di
giudizio appaiono l'unico risultato della nostra più accurata indagine a proposito” (cfr. D. Hume,
Storia naturale della religione, Laterza, Bari I970, p. 115). E questo scetticismo, per Hume, non è
negazione della religione, anzi "essere uno scettico filosofico è, per un uomo colto, il primo e più
essenziale passo che conduce ad essere un vero cristiano, un credente"(Dialoghi sulla religione
naturale, Laterza, Bari I963,p.I67).
In ultimo, Bayle è uno dei padri della moderna miscredenza ma non del moderno ateismo. Egli si
dilunga a dimostrare, in diverse opere, che gli atei non sono persone amorali e perverse come spesso
li si considera. Non è affatto strano che un ateo viva virtuosamente, quanto è strano che un cristiano
compia dei crimini. “ Se noi - dice Bayle - vediamo tutti i giorni quest'ultima specie di
mostro,perché crediamo che l'altra sia una cosa impossibile?”. Possiamo benissimo avere l’idea di
onestà senza credere affatto in Dio (Oeuvres diverses,rist. Hildesheim 1966, tomo 3°,cfr. pp. 109
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segg.). Riguardo Dio, Bayle non si sbilancia mai nel sostenere che esiste oppure che non esiste. Si
giustifica dicendo: “1a libertà a questo riguardo è abbastanza grande; e purché un dottore ammetta
che questa esistenza si può provare in altri modi, gli si lascia la libertà di criticare questa o quella
determinata prova" ( cfr. Dictionaire historique et critique , Rotterdam 1740 , tomo 4°, p.530, tr. it.
parziale Dizionario storico-critico, ed. Laterza ). Bayle si mantenne sempre su posizioni di critica
più o meno pacata, affermando il que sais-je ?
Si può definire ateismo moderno l’ateismo proprio del periodo illuministico. Uomini come Meslier,
d’Holbach, Sade hanno portato l’ateismo ad una violenza e radicalità mai viste prime. Nelle loro
tesi atee si intrecciano diversi motivi, dal materialismo al meccanicismo, dal determinismo al
razionalismo, non del tutto nuovi, ma quel che è nuovo è la radicalità con cui queste affermazioni
vengono sostenute. Forse essi sono anche dogmatici ma ciò rivela come essi vogliano tagliare
nettamente i ponti col passato e con tutto quello che ha sentore di religione.
Il curato Jean Meslier (1664-1729) è uno dei casi più singolari nel panorama della letteratura atea.
Per tutta la vita egli tenne nascosta la sua vera opinione su Dio, libertà e immortalità, e solo dopo la
sua morte si venne a conoscenza di quel che realmente credeva quel povero prete di campagna. Ne
sono testimonianza le tre copie del Testamento che ha lasciato. Nell’opera egli sostiene a spada
tratta che Dio non esiste ed elabora addirittura otto prove “dell’inconsistenza e della falsità delle
religione”. Per dimostrare che ogni religione è in sé falsa e dannosa. Il suo ateismo nasce dalla
insoddisfazione nel vedere tanti soprusi giustificati dalla religione ed egli vuole appunto liberare i
poveri, gli ignoranti dallo stato di servitù e sottomissione a cui erano soggiogati dalla Chiesa e dallo
Stato. Il suo è, per così dire, un ateismo politico. Non è fine a se stesso, ed è quindi, in un certo
senso, già un superamento dell’ateismo come semplice posizione teoretica.
Nella prima prova Meslier sostiene che le religioni non sono altro che invenzioni umane dato che
tutte si escludono e si combattono l’un l’altra. La seconda prova sostiene che la fede è fonte di
illusioni, di errori, imposture. La fede è una credenza cieca, che obbliga a credere tutto ciò che
viene presentato sotto il nome e l’autorità di Dio. La terza prova nega la rivelazione divina. Poiché
secondo Meslier, non sono state compiute le magnifiche promesse legate a tali pretese rivelazioni
divine. La quarta prova è un ampliamento della terza: le promesse e profezie dell’Antico
Testamento sono tutte false. Esse non si sono avverate che in senso spirituale e allegorico e quindi
ne consegue che sono false. La quinta prova è dedotta dalle false credenze contenute nella dottrina e
morale cristiana. Il cristianesimo, dice Meslier, obbliga a credere non solo in cose false, ma anche
ridicole e assurde come la Trinità, come la divinità di Gesù, la transustanziazione ecc. e nel
condannare moralmente le passioni della carne e nel fare cose contro natura come amare i propri
nemici. La sesta prova è tratta dagli abusi, vessazioni, tirannie dei potenti che la religione tollera e
autorizza. Meslier enumera sei abusi di cui sarebbe colpevole il cristianesimo: mantenere la
disparità fra le diverse concezioni sociali degli uomini; tollerare, mantenere e autorizzare che si vi
siano diverse categorie sociali che non sono né utili né necessarie alla società: Meslier si riferisce
ovviamente ai “ricchi fannulloni” e agli ecclesiastici, preti, monaci e monache. Appropriazione
individuale che gli uomini fanno dei beni e delle ricchezze della terra, che dovrebbero invece essere
“posseduti da tutti in parti uguali”. Dominazione tirannica dei poveri, indissolubilità del
matrimonio, da cui deriva “un’infinità di matrimoni infelici, di famiglie sventurate”. La tirannide
dei grandi, dei re e dei principi che dominano mediante un potere assoluto sul resto degli uomini. La
settima prova è dedotta dalla falsità e dalla credenza nella presunta esistenza degli dèi. Questa
settima prova è quella trattata più ampiamente nel Testamento. L’origine della credenza negli dèi si
trova nel fatto che alcuni uomini sottili e malvagi hanno assunto il nome e la funzione di Dio e di
Signore assoluto per suscitare più timore e rispetto. Egli cerca appiglio in ogni dove per giungere a
dimostrare la sua tesi della inesistenza di Dio. L’ultima prova è dedotta dalla falsità dell’idea
dell’immortalità. L’anima, secondo Meslier, è una parte della materia più fine e più fluida, rispetto
all’altra più corposa di cui sono fatte le membra e le parti visibili del nostro corpo. Nella
conclusione, Meslier riassume l’intento dell’opera dicendo che “tutto questo ammasso di religioni e
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di leggi politiche” non è altro che “un cumulo di misteri di iniquità”. La salvezza degli uomini, e
soprattutto dei poveri, dei derelitti, degli ignoranti è “nelle vostre mani, la vostra liberazione
dipenderebbe solo da voi, se riusciste a mettervi d’accordo”. È la forza stessa della verità che mi ha
fatto scrivere questo Testamento – dice Meslier – e non è che l’odio per l’ingiustizia, per
l’impostura, per la tirannia e per ogni altra iniquità che mi fa parlare così.
Paul-Henri Dietrich d’Holbach (1723-1789) è stato forse l’ateo più famoso dell’Illuminismo
francese. Il suo Sistema della natura fu la bibbia del materialismo ateo settecentesco. L’opera, in
verità, non è affatto originale. In essa d’Holbach riassume tutti gli argomenti antireligiosi di duemila
anni di storia del pensiero. Il suo ateismo però, a differenza di quello di Meslier, è ancora
aristocratico, poiché secondo lui soltanto le persone che si innalzano al di sopra delle credenze del
popolino ottengono la liberazione dalle credenze religiose.
Nel Sistema della natura, opera prolissa e infarcita di citazioni, d’Holbach tenta di fondare una
completa visione del mondo atea appoggiandosi ad ogni possibile contributo da parte della filosofia
e della scienza. L’unico merito del Sistema della natura è appunto questo: aver tentato di avanzare
una visione del mondo e dell’uomo completamente diversa da quella religiosa. L’opera è divisa in
due parti, intitolate rispettivamente Della natura e Di Dio. La prima parte è una esposizione delle
leggi del moto e della materia, delle cose viventi e non viventi, in modo tale che esse vengano
spiegate e comprese autonomamente, senza fare ricordo ad un ente trascendente e creatore. La
seconda parte, come suggerisce il titolo, vuole essere una critica radicale al concetto di Dio, alle
prove della sua esistenza, alla Provvidenza, alla religione ecc. un rilievo interessante a questo
proposito è notare come d’Holbach, settant’anni prima circa de L’essenza del Cristianesimo di
Feuerbach, affermi che l’uomo in Dio non vede né può vedere altro che un essere di specie umana,
di cui si sforzerà invano di ingrandirne le proporzioni per farne un essere totalmente spirituale. Si
attribuisce a Dio – dice d’Holbach – l’intelligenza, la saggezza, la bontà, l’onniscienza,
l’onnipotenza perché è lo stesso uomo che è buono, intelligente, saggio ecc.
Ma vediamo più da vicino le argomentazioni holbachiane. Egli ritiene che se non esistesse affatto il
male nel mondo, l’uomo non avrebbe mai immaginato e creato una divinità. Fu quindi nella
“fabbrica della tristezza” che l’uomo infelice formò il fantasma di cui fece il suo Dio. Con la parola
Dio gli uomini hanno designato la causa più nascosta, la causa più lontana, la causa più sconosciuta
degli effetti che essi vedevano. Dal momento in cui gli uomini persero il filo delle cause, o da
quando il loro spirito non poté più seguirne la concatenazione, essi troncarono la difficoltà
terminando le loro ricerche chiamando Dio l’ultima delle cause, cioè la causa al di là di tutte le
cause conoscibili. Fu sulle rovine della natura che gli uomini costruirono il colosso immaginario
della divinità. Per cui, dice d’Holbach, se l’ignoranza della natura ha fatto nascere gli dèi, la
conoscenza della natura è fatta per distruggerli. La religione – continua d’Holbach – è fondata sul
principio assurdo secondo cui l’uomo è obbligato fermamente a credere ciò che è nella impossibilità
totale di comprendere. Secondo la teologia – egli dice – l’uomo deve essere in una ignoranza
invincibile riguardo la nozione di Dio. Si assicura che Dio ha creato l’universo per l’uomo, unico re
della natura. Povero monarca!, dice d’Holbach. Basta un granello di sabbia, qualche umore fuori
posto per distruggere l’esistenza del tuo regno, e tu pretendi che un Dio buono abbia fatto tutto per
te! Che cos’è la razza umana in confronto alla Terra? E che cos’è questa terra in confronto al Sole?
Che cos’è questo nostro Sole in confronto a quell’insieme di soli che, a immense distanze,
riempiono la volta del firmamento? O uomo vano, sta al tuo posto!
D’Holbach analizza quindi le prove dell’esistenza di Dio. La prova più forte che l’idea della divinità
non è fondata che su un errore – egli dice – è che gli uomini sono venuti a poco a poco
perfezionando tutte le scienze che avevano per oggetto qualcosa di reale, meno la scienza di Dio,
che non è stata mai perfezionata: essa è dappertutto allo stesso punto; tutti gli uomini ignorano
ugualmente qual è l’oggetto che adorano, e ciò di cui si sono più seriamente occupati non fa che
oscurare sempre più le primitive idee che gli uomini si erano formati. Tutti vedono il Sole ma
nessuno vede Dio. Ecco la sola differenza fra la realtà e la chimera: l’una esiste e l’altra no. La
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teologia è un mondo in cui tutto segue delle leggi completamente diverse dalle nostre. L’idea di Dio
non è che un errore madornale del genere umano; la nozione di divinità non serve che a corrompere
gli uomini; Dio è un essere superfluo: non è che il caso che ha prodotto l’universo, è da se stesso
che esso esiste, esso c’è necessariamente e da tutta l’eternità. Ed ecco che d’Holbach inizia la
polemica, a quei tempi agli inizi, fra ateismo e morale. A questo proposito d’Holbach dice
chiaramente che voler fondare la morale su una chimera è come fondarla sul nulla. Dire che senza
l’idea di Dio l’uomo non può avere sentimenti morali significa non poter più distinguere il vizio
dalla virtù. Diversamente dalla morale teologica, la morale della natura è chiara ed evidente anche
per quelli che la oltraggiano. La natura – dice d’Holbach – invita l’uomo ad amarsi, a conservarsi,
ad aumentare incessantemente la somma della sua felicità; la natura dice all’uomo di consultare la
sua ragione e di prendere essa come guida; la natura dice all’uomo di cercare la verità, di essere
socievole, di amare i propri simili, di essere giusto; la natura dice all’uomo: tu sei libero, nessuna
potenza sulla terra può legittimamente privarti dei tuoi diritti. Che cos’è dunque un ateo? La
risposta di d’Holbach non si fa attendere: un ateo è un uomo che distrugge le chimere nocive al
genere umano per riportare gli uomini alla natura, all’esperienza, alla ragione. È un uomo che,
avendo meditato sulla materia, la sua energia,le sue proprietà, non ha bisogno, per spiegare i
fenomeni dell’universo e le operazioni della natura, di immaginare potenze ideali, intelligenze
immaginarie, esseri di ragione che, lungi dal far conoscere meglio questa natura, non fanno che
renderla capricciosa, inesplicabile, in conoscibile, inutile alla felicità umana. Quindi se per ateo si
intende un uomo che nega l’esistenza di una forza inerente alla materia e senza la quale non si possa
concepire la natura, ed a questa forza motrice si dà il nome di Dio, non esistono affatto atei. Ma se
per atei si intendono uomini guidati dall’esperienza e dalla testimonianza dei sensi, che non vedono
nella natura che quel che si trova realmente, essi vi sono e combattono ogni forma di fanatismo. Per
d’Holbach dunque o si è atei oppure si è pieni di pregiudizi, di falsità, di contraddizioni. Neppure il
deismo si salva da questa sorte: “il deismo – scrive d’Holbach – è un sistema a cui lo spirito umano
non arrendersi per lungo tempo; fondato su una chimera, degenererà presto o tardi in una
superstizione assurda e pericolosa”. Quindi o ateismo cioè verità o niente cioè falsità, ignoranza,
assurdità.
D’Holbach conclude il ciclo del materialismo antico, i cui eroi erano stati Epicuro e Lucrezio, e
prelude al nuovo materialismo, quello ottocentesco. In questo senso il Sistema della natura è una
pietra miliare dell’ateismo, nonostante tutto quello che ha di dogmatico, pedante, scandaloso.
Nel concludere la nostra panoramica sull’ateismo settecentesco, non possiamo dimenticare un altro
contributo alla causa dell’ateismo che ci viene da un personaggio singolare, il famoso marchese de
Sade (1740-1814). Pur non essendo un filosofo in senso stretto, de Sade ci ha lasciato due testi
molti interessanti da cui possiamo ricavare il suo pensiero su Dio e la religione, i quali ci aiutano a
riflettere sulle problematiche che conducono all’ateismo. Nel primo di essi, il Dialogo tra un prete e
un moribondo, Sade fa una radicale confessione di a teismo; nel secondo, cioè in alcune pagine
della Storia di Juliette, Sade mette in bocca ad uno dei personaggi, un certo Saint-Fond, la teoria
secondo la quale Dio esiste ed è il male. L’antitesi è interessante e merita appunto di essere
esaminata.
Nel Dialogo Sade narra di un moribondo che, “giunto all’istante fatale”, è visitato da un prete che
gli propone di confessarsi. Il moribondo però, invece di pentirsi e chiedere perdono dei suoi peccati,
inizia a snocciolare uno dopo l’altro tutti gli argomenti e le critiche per provare che Dio non c’è.
Cristo è definito come “il più volgare dei bricconi ed il più rozzo degli impostori”. I miracoli, le
profezie ed i martiri sono tutte sciocchezze e non dimostrano la verità della religione. Amico mio –
conclude il moribondo – un Dio giusto avrebbe scolpito nel cuore degli uomini così tante opinioni
diverse fra le quali mi è materialmente impossibile operare una scelta? “Va’, predicatore, tu offendi
il tuo Dio presentandomelo in questo modo, lascia che io lo neghi del tutto, perché, se esiste, lo
offendo meno io con la mia incredulità che tu con le tue bestemmie”. Il Dialogo, come è noto, fu
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composto nel 1782, e cioè prima delle opere che diedero fama a Sade, ed in esso è ancora presente
un pensiero non del tutto originale, non ancora così estremistico e radicale come sarà più avanti.
Del tutto originale ed estremistico è invece l’altra opera sadiana citata, la Storia di Juliette (1797).
In essa Sade fa dire a Saint-Fond, uno dei personaggi, che Dio esiste e che l’anima è immortale però
questo Dio non è buono ma è malvagio. Saint-Fond vede dappertutto il male, il disordine, il delitto,
e quindi conclude: “Convinto di tale premessa, io mi dico: esiste un Dio; una mano qualsiasi ha
necessariamente creato tutto quanto vedo, ma essa l’ha creato soltanto per il male, essa si compiace
soltanto del male; il male è la sua essenza, e tutto quello che essa ci fa commettere è indispensabile
ai suoi intenti; non le importa che io soffra questo male, visto che a lei è necessario… Ora se il
male, o almeno ciò che noi chiamiamo tale, è l’essenza sia del Dio che ha creato tutto, sia degli
individui formati a sua immagine, come non essere certi che le conseguenze del male debbano
essere eterne? … L’essere buono non esiste: colui che chiamate virtuoso non è buono, o se lo è nei
vostri confronti, non lo è certamente nei confronti di Dio, il quale non è altro che male, non vuole
che il male, non pretende che il male. …L’autore dell’universo è il più malvagio, il più feroce, il più
spaventevole di tutti gli esseri. Le sue opere non possono essere altro che il risultato oppure il
movimento della scelleratezza. Senza il massimo moto di malvagità nulla potrebbe reggersi
nell’universo”.
Di fronte a simili parole, è naturale rimanere scandalizzati. Sade mette infatti in bocca a Clairwil,
altro personaggio della Storia di Juliette, le seguenti parole: “Il tuo sistema trae origine dal
profondo orrore che tu hai per Dio”. E Saint-Fond confessa: “è vero, io l’aborrisco; ma non è l’odio
che ho per lui l’origine del mio sistema; esso è il frutto soltanto della mia saggezza e delle mie
meditazioni”.
Che dire dunque dell’ateismo sadiano? Sade si rispecchia più nel moribondo o in Saint-Fond? Egli
ha senz’altro avuto il merito di aver portato all’estremo le tesi atee o, forse è più corretto,
antiteistiche. Nessun scrittore dopo di lui ha mai più sostenuto tesi radicali quanto quelle del divin
marchese. Né Nietzsche nell’Anticristo, né Proudhon sono giunti là dove è giunto Sade. Infatti che
Dio sia il male è rifiutato non solo dai credenti ma anche dagli stessi atei o miscredenti in generale, i
quali piuttosto che ammettere un Dio siffatto lo negano del tutto, come hanno fatto Juliette e il
moribondo. L’importanza dell’ateismo sadiano è dunque qui, in questa sua radicalità, in questo
completo ribaltamento di valore per quel che riguarda l’essenza di Dio. Egli ha osato sostenere per
la prima e ultima volta nel pensiero occidentale che Dio esiste ed è il male. Certo è una
affermazione all’interno di un romanzo, quindi c’è da chiedersi se abbia una valenza filosofica
autentica, però l’importante è aver posto la tesi ed è per questo che l’ho citato.
L’ateismo settecentesco è in pratica tutto qui. Tralascio di parlare di Lamettrie e di Helvetius, di
Diderot e di Voltaire, perché seguendo la mia linea interpretativa, essi non si sono mai dichiarati
atei e dunque non vengono qui presi in esame.
L’ateismo illuministico può essere visto come una tappa verso la svolta decisiva che arriverà con
l’ateismo post-hegeliano.
BIBLIOGRAFIA MINIMA
J. Meslier, Il Testamento, ed. Guaraldi
P.H. D. d’Holbach, Sistema della natura, UTET
Sade, Opere scelte, Feltrinelli, oppure Opere complete, Newton Compton.
Copyright by Ernesto Riva
www.filosofiaedintorni.net
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STORIA DELL’ATEISMO
a cura di Ernesto Riva
3. Gli atei dell’Ottocento (1^ parte): Schopenhauer Nietzsche Stirner Bakunin
L’ateismo post-hegeliano è quello in cui l’ateismo raggiunge forse il suo punto più alto con le
critiche demolitrici dei grandi atei dell’Ottocento. Infatti l’ateismo contemporaneo, in generale, non
potrà che rifarsi a questi maestri per confermare la sua posizione di negazione della religione.
Dall’Illuminismo in poi l’ateismo sembra acquistare anche una sempre maggiore importanza
“sociologica” perché sembra estendersi a strati via via sempre più ampi della popolazione. Il che si
può spiegare con la graduale laicizzazione o secolarizzazione della vita, cioè con il diffondersi di un
modello di vita che evita di richiamarsi ad una trascendenza ma affonda le sue radici in una
immanenza sempre più completa. Tutto questo porterà alla diffusione di un ateismo pratico, della
indifferenza religiosa, che sembra essere il segno distintivo dei nostri tempi. Dall’ottocento in poi,
non si è avuto il predominio dell’ateismo teoretico quanto piuttosto una crescente diffusa
indifferenza e/o ignoranza verso i valori religiosi. Almeno, per la precisione, per quel che riguarda il
mondo occidentale: nei paesi islamici è oggi invece in atto una vera e propria rivoluzione culturale
che consiste nella lotta tra il modello occidentale, considerato negativo, e il modello islamico
tradizionale, considerato l’unica risposta in grado di opporsi alla diffusione del nichilismo
occidentale. Ma torniamo all’Ottocento.
Arthur Schopenhauer (1788-1861) è stato definito da Nietzsche “il primo ateo dichiarato e
irremovibile che noi Tedeschi abbiamo avuto”(cfr. La gaia scienza). La sua critica alla religione
non è particolarmente originale ma se non altro egli segna l’inizio vero e proprio del pensiero posthegeliano e anti-hegeliano, ed in questo senso procede cronologicamente persino Feuerbach.
La filosofia moderna – scrive Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione – non va
a cercare una causa efficiente o una causa finale del mondo intero; non indaga l’origine e la finalità
del mondo, ma solo che cosa sia il mondo. Non possiamo superare il mondo stesso e, in quanto alla
sua spiegazione, essa fa già parte del mondo: è assurdo cercarla al di fuori di esso. Anzi sono solo
“pigrizia e ignoranza” che “dispongono a richiamarsi troppo presto alle forze originarie”. Del resto,
“che l’assunzione di un limite del mondo nel tempo non sia affatto un pensiero necessario alla
ragione, si può perfino provare anche storicamente, giacché gli hindù non insegnano siffatta cosa
neanche nella religione popolare, e tanto meno nei Veda”. Componente essenziale dell’ateismo
schopenhaueriano è il suo pessimismo. “La vita dei più – egli scrive – non è che una diuturna
battaglia per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa perdurare in questa sì
travagliata battaglia non è tanto l’amore per la vita, quanto la paura della morte, la quale non di
meno sta inevitabile sullo sfondo, e può ad ogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un mare
pieno di scogli e di vortici, cui l’uomo cerca di sfuggire per la massima prudenza e cura; pur
sapendo, che quand’anche gli riesca con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta
con ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabile e irreparabile
naufragio: la morte. Questo è il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti gli
scogli, ai quali è scampato”.
L’ottimismo, dal punto di vista schopenhaueriano, “sembra non punto un pensare assurdo, ma anche
iniquo davvero, un amaro scherno dei mali senza nome patiti dall’umanità”. Come credere, dopo
tutto ciò, in un Dio creatore e provvidente? È naturale quindi che Schopenhauer consideri una tale
idea inaccettabile. “Per parte mia – egli dice – debbo confessare che alla mia ragione un tale
pensiero è impossibile, e che nelle parole, che lo qualificano, io non posso pensare niente di
preciso”. Secondo Schopenhauer, l’uomo si crea a propria immagine demoni, dèi e santi. “A essi
devono incessantemente venire tributati sacrifici, preci, adornamento di templi, voti e conseguenti
offerte, pellegrinaggi, saluti, addobbo delle immagini ecc. Il loro culto si intreccia dappertutto con
la realtà, anzi l’oscura: ogni avvenimento della vita viene preso allora come un effetto dell’azione di
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quegli esseri: i rapporti con loro riempiono metà della vita, alimentano diuturnamente la speranza e
diventano spesso, nel fascino dell’illusione, più interessanti dei rapporti con la vita reale. Sono
l’espressione e il sintomo del doppio bisogno, che spinge l’uomo da una parte verso aiuto e
sostegno, dall’altra verso occupazione e passatempo… e questo è il frutto, tutt’altro che
disprezzabile, d’ogni superstizione”. Però tutto questo è inutile: invano l’uomo chiede aiuto agli dèi,
perché rimane implacabilmente in preda al suo destino. Gli dèi sono quindi superflui e le dottrine
religiose sono generalmente “rivestimenti mitici delle verità impenetrabili dalla rozza mente
umana”.
Quel che dà forza ad ogni dottrina religiosa è esclusivamente il suo lato etico. Non certo
direttamente, ma essendo collegato col rimanente dogma mitico, proprio di ciascuna dottrina
religiosa, sembra spiegabile solo per mezzo di quest’ultimo. Da ciò deriva che nei popoloi
monoteisti l’ateismo, ossia l’assenza della religione, è diventato sinonimo di assenza di ogni
moralità.
Schopenhauer non vuole adottare mezze misure. O si crede in Dio o si proclama l’ateismo assoluto.
Il panteismo, dal suo punto di vista, è quindi inaccettabile. “Il panteismo – egli dice – è un concetto
che annulla se stesso, poiché il concetto di Dio presuppone come sua antitesi essenziale un mondo
da lui distinto. Se per contro il mondo stesso deve assumere la parte di Dio, ci si trova di fronte ad
un mondo assoluto privo di Dio: panteismo è dunque un termine eufemistico, in luogo di ateismo”.
Ammesso comunque un Dio, e cioè un essere personale, individuale, trascendente e creatore,
Schopenhauer dice che “l’ammettere un essere di tale specie come origine della natura stessa, anzi
di ogni esistenza in generale, è un pensiero colossale e sommamente ardito, di fronte a cui noi
rimarremmo meravigliati se lo udissimo per la prima volta, ed esso non ci fosse divenuto familiare
attraverso le impressioni infantili e le ripetizioni costanti”; inoltre l’ipotesi di un Dio, oltre ad essere
inutile nella filosofia, “persino nella religione esso è assolutamente inessenziale” perché ad esempio
il buddismo non lo contempla affatto. Per Schopenhauer poi, le religioni orientali sono molto
superiori al cristianesimo. Egli è convinto che “in India non potranno mai mettere radici le nostre
religioni: la sapienza originaria dell’umano genere non sarà soppiantata dagli accidenti successi in
Galilea. Viceversa, torna l’indiana sapienza a fluire verso l’Europa, e produrrà una fondamentale
mutazione del nostro sapere e pensare”.
Schopenhauer, si è detto, è il primo tedesco ateo dichiarato. È strano che in Germania solo nel 1800
si possa parlare di ateismo vero e proprio, mentre ad es. in Francia l’ateismo di un d’Holbach
preceda di circa un secolo (d’altra parte, in Inghilterra non si hanno casi clamorosi di ateismo
dichiarato. C’è oggi l’esempio di Bertrand Russell, ma secondo quanto egli stesso dichiarò, la sua
posizione è quella dell’agnostico e non dell’ateo. Si veda Perché non sono cristiano, ed.
Longanesi).
Anche per Friedrich Nietzsche (1844-1900) l’ateismo è un punto di partenza, qualcosa di evidente,
palpabile. “In me l’ateismo non è né una conseguenza, né tanto meno un fatto nuovo: esiste in me
per istinto. Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi di una
risposta così grossolana. Dio è una risposta grossolana, un’indelicatezza verso noi pensatori; anzi,
addirittura, non è altro che un grossolano divieto contro di noi: non dovete pensare”(cfr., Ecce
homo).
Fin da La nascita della tragedia Nietzsche concepisce il cristianesimo come moralità decadente,
che nasconde un odio profondo per la vita, poiché tutta la vita non è che un richiamo all’apparenza,
all’arte, all’illusione, alla necessità dell’errore. Il cristianesimo è da lui visto come la forma più
pericolosa di una “volontà di distruzione”, è il segno di stanchezza, di impoverimento della vita. Per
questo egli si è rivoltato ed ha sostenuto una visione che ha chiamato dionisiaca. In Umano, troppo
umano dichiara esplicitamente: “Nessuna religione ha mai finora contenuto, né direttamente né
indirettamente, né come dogma né come allegoria, una verità. Poiché ciascuna è nata dalla paura e
dal bisogno e si è insinuata nell’esistenza fondandosi su errori della ragione”. Sulla stessa falsariga,
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dirà nell’Anticristo: “Quel che un teologo avverte come vero, non può non esser falso: si ha in ciò
quasi un criterio di verità”.
Ma quali sono le motivazioni che porta Nietzsche per giustificare questo odio verso la religione in
generale e verso la cristiana in particolare ? Ci si aspetterebbe da un filosofo come lui chissà quali
teorie, mentre in realtà egli dice che “vi è un buon gusto anche in religione; questo buon gusto disse
alla fine: ‘basta con questo Dio! Meglio nessun Dio! Meglio che ciascuno si faccia da solo il
proprio destino, meglio essere folli, meglio essere Dio se stessi!’”. Dobbiamo dunque sbarazzarci di
Dio. Ma perché ? Perché “vedeva con occhi che tutto vedevano, vedeva le profondità e gli abissi
dell’uomo, tutte le sue vergogne, le sue brutture nascoste. Non conosceva pudore la sua pietà; egli si
insinuava nei miei recessi più immondi. Doveva morire, quel troppo curioso, troppo indiscreto,
troppo pietoso. Sempre mi scopriva; dovevo vendicarmi di un tal testimonio, oppure cessare di
vivere. Quel Dio che tutto vedeva, anche l’uomo, quel Dio doveva morire! L’uomo non sopporta
che viva un tal testimonio”. In altre parole, l’uomo deve uccidere Dio perché in Dio è sintetizzato
tutto ciò che è contro la vita e perché Dio è un’idea che “rende storto tutto quanto è diritto, e fa
girare tutto quello che è stabile”.
Se l’uomo ha ucciso Dio, quali sono le conseguenze di una simile azione? In primo luogo
ovviamente spetta agli uomini l’enorme compito di governare la terra senza farla cadere in rovina.
Questo sarà appunto il compito dei “grandi spiriti del secolo prossimo”(cfr. Umano, troppo umano)
Anzi, “noi filosofi e ‘spiriti liberi’, alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come
illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia,
di presentimento, d’attesa, - finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che
non è sereno, - finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro
ad ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso: il mare, il nostro
mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così ‘aperto’”.
Ma stanno veramente così le cose? Sono cadute forse tutte le illusioni e le falsità? Il cristianesimo è
stato abbattuto ma – ecco il punto – la religione non è stata sconfitta. Infatti, si badi, per Nietzsche
la morte del cristianesimo non significa la morte della religione, della fede. La filosofia moderna è
apertamente anticristiana ma non è in alcun modo antireligiosa. L’istinto religioso non è stato vinto
ma è in “pieno rigoglio” pur rifiutando “con profonda diffidenza, l’appagamento ateistico”.
Nietzsche confessa insomma di aver dichiarato guerra “all’anemico ideale cristiano (e a tutto quanto
è con esso strettamente apparentato), non nell’intento di distruggerlo, ma solo per por fine alla sua
tirannia e sgombrare il campo per nuovi ideali, per ideali più robusti”.
L’uomo in fondo si è solo illuso di aver ucciso Dio, il Dio cristiano. Ecco l’amara constatazione di
Niezsche: l’uomo ha ucciso Dio ma l’ha ucciso per niente. Quel che lo fa stupire è che ancora oggi
si continui ad essere cristiani, se non di fatto almeno di nome. Più volte egli si chiede: “Quando in
un mattino di domenica sentiamo rimbombare le vecchie campane, ci chiediamo: ma è mai
possibile? Ciò si fa per un ebreo crocefisso duemila anni fa, che diceva di essere il figlio di Dio…
Chi crederebbe che una cosa simile viene ancora creduta?”.
“il nostro tempo sa…Quel che una volta era soltanto malato, oggi è divenuto indecoroso – è
indecoroso essere oggi cristiani. E qui ha inizio la mia nausea … Anche il prete sa, come lo sanno
tutti, che non esiste più alcun ‘Dio’, alcun ‘peccatore’, alcun ‘redentore’… Tutti i concetti della
Chiesa sono riconosciuti per quello che sono, come la più maligna falsificazione di monete che
esista, mirante a invilire la natura, i valori della natura… Noi sappiamo, la nostra coscienza oggi
sa… Ognuno lo sa: e ciononostante tutto permane nell’antico stato … Che specie mai di aborto di
falsità deve essere l’uomo moderno, per non vergognarsi, a onta di tutto ciò, di chiamarsi ancora
cristiano!”. Tutto rimane dunque come prima. Ecco quel che scandalizza Nietzsche: come ci si può
proclamare cristiani ancora oggi? Ed è uno dei motivi per cui il filosofo prova “disgusto” per
l’uomo, che ha potuto inventare e credere a “simili cose”!
Del resto Nietzsche ritiene che i suoi contemporanei non sono ancora pronti al superamento della
fede, alla proclamazione della morte di Dio e alla tra svalutazione di tutti i valori. “Vengo troppo
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presto… non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo
il suo cammino: non è ancora arrivato alle orecchie degli uomini”.
Max Stirner (1806-1856) fu un Nietzsche ante litteram per la sua critica non solo a Dio ma agli
idoli, per il suo concetto egoistico dell’amore, per l’esigenza di concretezza, per l’aver considerato
la moralità “fanatica” come la religione, per considerare la verità come una astrazione ecc.
Stirner inizia la sua opera più famosa, L’unico e la sua proprietà (1845), con la stessa identica frase
con cui la conclude: io ho fondato la mia causa sul nulla. E qual è la sua causa? “La causa mia non
è né il divino né l’umano, non è né il vero, il buono, il giusto, la libertà e così via, ma soltanto ciò
che è mio, e non è una causa universale, bensì unica, come unico sono io. Nessun’altra cosa mi
interessa più di me stesso”. Egli è perciò contro Dio, contro il divino e contro qualsiasi altro
assoluto. Infatti, “che cosa guadagniamo se, per cambiare, collochiamo in noi il divino che era fuori
di noi?”. Per cui “come si può sperare di allontanare gli uomini da Dio, lasciando loro il divino?”.
La religione è il regno delle essenze, cioè degli spettri, dei fantasmi, come lo è la morale, lo Stato
che rendono schiavo l’uomo e l’uomo, se vuole essere libero, deve liberarsi dal loro giogo. Stirner
vuole distruggere ogni astrazione, ogni universale che si opponga all’Unico. Da questo punto di
vista, pure la verità è criticata: “… la verità è un semplice pensiero, non uno dei tanti, bensì il
pensiero per eccellenza, che sta sopra tutti gli altri, incontestabile, è il pensiero in persona, che
consacra tutti gli altri, è la consacrazione dei pensieri, il pensiero ‘assoluto’, ‘santo’. La verità dura
più di tutti gli dèi; perché solo al suo servizio e per amor suo si sono abbattuti tutti gli dèi e infine
Dio stesso. ‘La verità’ sopravvive al crepuscolo degli dèi, poiché è l’anima immortale di questo
caduco mondo divino, è la divinità stessa”. Perciò “finché tu credi nella verità, non credi in te e sei
un servo, un uomo religioso”. Stirner sembra così un ateo totale, e il suo Unico è apertamente un
vangelo anticristiano come lo sarà Così parlò Zarathustra di Nietzsche.
Stirner continua dicendo: “Se la religione ha enunciato il principio che noi siamo tutti peccatori, io
vi contrappongo l’altro: siamo tutti perfetti! Poiché ad ogni istante noi siamo tutto ciò che possiamo
essere, e non abbiamo mai bisogno di essere di più. Siccome in noi non ci sono difetti, così anche il
peccato non ha alcun senso”. Quindi “non cercate la libertà che vi fa perdere proprio la vostra
personalità nell’ “abnegazione”, ma cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi diventi un io
onnipotente”. Per diventare o meglio, essere l’Unico, non ci si deve considerare uno strumento
dell’idea o vaso di Dio, non si deve riconoscere alcuna missione, non si deve esistere per contribuire
all’evoluzione dell’umanità, “ma vive per se stesso, senza curarsi se questo sia un bene o un male
per l’umanità”. Per questo “io sono padrone della mia forza, e lo sono quando so d’esser Unico.
Nell’Unico lo stesso possessore ritorna nel suo nulla creatore, da cui è stato generato. Ogni essere
superiore o no, sia Dio, sia l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce
davanti al sole di questa coscienza. Se pongo in me, l’Unico, la mia causa, essa poggia sul creatore
caduco e mortale, che consuma se stesso; e posso dire: io ho fondato la mia causa nel nulla”.
Stirner e il suo Unico poggiano sul nulla. Egli non può sperare nulla da esso. La sola cosa da fare è
amarsi egoisticamente, allontanando da sé ogni legame con le altre cose, siano esse Dio o lo Stato o
gli ideali. Di fronte a questa prospettiva, nessun Dio e nessun assoluto possono reggere al confronto
ed avere un senso, ed il problema di Dio non viene neppure posto. L’ateismo è perciò per Stirner il
punto di partenza e non il punto di arrivo della sua speculazione. Egli è un uomo che ha portato
all’estremo la sua critica alla religione, tanto da non potersi più chiamare neppure “ateo”, visto che
per lui gli atei stessi sono ancora gente pia.
Mikhail Bakunin (1814-1876) è stato uno dei padri dell’anarchismo. La sua opera più famosa
nell’ambito della critica religiosa è Dio e lo Stato (1871). L’umanità, secondo Bakunin, non è che lo
sviluppo più alto dell’animalità. I nostri antenati furono dotati in maggior grado degli altri animali
di ogni specie di due preziose facoltà: il pensiero ed il bisogno di ribellarsi. Come si vede, la rivolta
è naturale all’uomo, per l’anarchico Bakunin. È questa rivolta che vincerà gli dèi poiché essi sono
contro l’uomo e l’uomo non può che esser loro contro. La fede non può che essere una credenza
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cieca, stupida, assurda. I credenti, dice ancora Bakunin, non possono fare a meno di ripetere con
Tertulliano le “parole che riassumono la quintessenza stessa della teologia: credo quia absurdum”.
Ma – si chiede Bakunin – come è nato il bisogno di credere in Dio? Ed egli risponde dicendo che
l’ignoranza in cui è stato mantenuto il popolo da parte dei governi è la causa principale della
accettazione delle credenze religiose. Infatti l’esistenza piatta e monotona che conduce il popolino
non ha altro sfogo che la taverna o la chiesa. “tutte le religioni con i loro dèi, i loro semidei e i loro
profeti, i loro messia e i loro santi, furono create dalla fantasia credula degli uomini non ancora
giunti al pieno sviluppo e al pieno possesso delle loro facoltà intellettuali. Il cielo religioso non è
altra cosa che uno specchio ove l’uomo esaltato dalla ignoranza e dalla fede trova la sua propria
immagine, ma ingrandita e rovesciata cioè divinizzata. Secondo Bakunin vi è un’unica alternativa: o
Dio o l’uomo, ed egli sceglie ovviamente il secondo. Infatti, secondo lui, “Dio essendo tutto, il
mondo reale e l’uomo è nulla. Dio essendo la verità, la giustizia, il bene, il bello, la potenza e la
vita, l’uomo è la menzogna, l’iniquità, il male, la bruttezza, l’impotenza e la morte. Dio essendo il
padrone, l’uomo è lo schiavo. …l’idea di Dio implica l’abdicazione della ragione e della giustizia
umana; essa è la negazione più decisiva della libertà umana e ha per scopo la servitù degli uomini,
tanto in teoria che in pratica. …se Dio è, l’uomo è schiavo; ora, l’uomo può, deve essere libero:
dunque Dio non esiste”. Di fronte alla presunta antitesi fra la libertà umana e l’onnipotenza divina,
Bakunin sceglie la libertà di tutti gli uomini anzi, essa è un modo di “dimostrare” che Dio non esiste
e che “se Dio esistesse, bisognerebbe abolirlo”. L’uomo, dopo aver eliminato Dio, non ha più
padroni ultraterreni ma rimane ancora lo Stato, ugualmente, deve essere abbattuto. Il risultato di
tutto ciò sarà la libertà umana in modo tale che ogni uomo “obbedisca alle leggi naturali perché le
ha riconosciute egli stesso per tali e non perché gli siano state esteriormente imposte da una
volontà estranea, divina e umana, collettiva o individuale qualsiasi”. Questo non vuol dire,
secondo Bakunin, il rifiutare ogni autorità. Piuttosto vuol dire non riconoscere alcuna autorità
infallibile, assoluta, ma accettare liberamente le loro indicazioni, le loro proposte. Accetto l’autorità
– dice Bakunin - che non viene imposta da nessuno, né dagli uomini né da Dio, altrimenti la
respingo “con orrore”. In conclusione, il compito del libertario (così si definisce Bakunin) è quello
di abolire ogni idolo e per farlo non ci si deve arrestare di fronte a nulla, fosse anche l’onnipotenza
divina. Quando l’uomo è libero non teme ostacoli alla sua libertà: essa fronteggia tutto e tutti.
L’ateismo di Bakunin è un presupposto indispensabile del suo anarchismo. O meglio, si può dire
che l’anarchismo è inevitabilmente ateo, mentre l’ateismo non è detto sia anarchismo. Tale
precisazione è importante poiché è bene ricordare che l’ateismo può contenere in sé elementi
anarchici, antiteistici, materialistici ecc. ma l’inverso non è valido.
BIBLIOGRAFIA MINIMA
Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, ed. Mursia, Mondatori ecc.
Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Adelphi
Nietzsche, Opere complete, Adelphi o Newton Compton
Stirner, L’unico e la sua proprietà, Mursia o in AA.VV., Gli anarchici, Utet 1971.
Bakunin, Dio e lo Stato, Roma 1971
Copyright by Ernesto Riva
www.filosofiaedintorni.net
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STORIA DELL’ATEISMO
a cura di Ernesto Riva
4. Gli atei dell’Ottocento (2^ parte) : Feuerbach Marx Engels Lenin Le Dantec
Ludwig Feuerbach (1804-1872) rappresenta il superamento dell’hegelismo e di quanto di
teologico era ancora esplicito o implicito in esso. Da notare inoltre in Feuerbach il tentativo di
“superamento” dell’ateismo, cercando di arrivare a posizioni che superano le definizioni di ateo o
credente poiché per lui quel che conta non è disputare all’infinito se Dio esista o non esista, ma
capire il senso di una tale ammissione o negazione. Infatti in Su spiritualismo e materialismo scrive:
“Non è compito dei miei scritti sull’immortalità, sull’essenza della religione ecc. negare l’esistenza
della divinità e dell’immortalità – chi può negare che esistano almeno in libri e immagini, nella fede
e nella rappresentazione? – bensì solo riconoscere il senso e il motivo vero, il testo originale non
falsificato della divinità e dell’immortalità, o, che è tutt’uno, della fede in esse – un riconoscimento
attraverso cui la questione della loro esistenza o non esistenza si risolve da sé”.
L’essenza del cristianesimo(1841) è il capolavoro di Feuerbach ma in esso l’essenza della religione
è vista solo dal punto di vista dell’uomo e di una religione particolare, il cristianesimo, mentre ne
L’essenza della religione si tenta di ricondurre il segreto della teologia non solo alla antropologia
(come nell’opera del 1841) ma anche ad un punto di vista più ampio, naturalistico o, come egli lo
chiama, fisiologico.
Iniziamo quindi da L’essenza del cristianesimo. Feuerbach indica la distinzione tra l’uomo e gli
animali proprio nella religione. Infatti la coscienza che l’uomo ha di sé (e che manca alle bestie) è
coscienza della specie e non solo di sé come individuo. La religione è la coscienza dell’infinito;
essa è dunque la coscienza che l’uomo ha dell’infinità del suo essere. L’uomo come individuo può
riconoscersi limitato ma solo perché ha di fronte a sé come oggetto la perfezione, l’infinità della
specie. Nel rapporto con le cose esteriori la coscienza che l’uomo ha dell’oggetto si distingue dalla
coscienza che l’uomo ha di sé stesso; ma nel caso dell’oggetto religioso, coscienza e autocoscienza
si identificano. La coscienza che l’uomo ha di Dio è la conoscenza che l’uomo ha di sé. Il non
essere consapevole di ciò è l’essenza della religione. Perciò Feuerbach dice che la religione è la
prima, ma indiretta autocoscienza dell’uomo. Il compito di Feuerbach è, come egli dice, di
“mostrare che la distinzione fra il divino e l’umano è illusoria, cioè che null’altro è se non la
distinzione fra l’essenza dell’umanità e l’uomo individuo e che per conseguenza anche l’oggetto e il
contenuto della religione cristiana sono umani e nient’altro che umani”. L’essere divino non è che
l’essere dell’uomo liberato dai limiti dell’individuo e oggettivato, cioè contemplato come un altro
essere da lui distinto. “L’uomo – questo è il mistero della religione – proietta il proprio essere fuori
di sé e poi si fa oggetto di questo essere metamorfosato in soggetto, in persona”. Dapprima l’uomo
inconsapevolmente e involontariamente crea Dio secondo la propria immagine, e solo allora Dio a
sua volta consapevolmente e volontariamente torna a creare l’uomo secondo la propria immagine.
Ma perché l’uomo crea Dio? Perché la religione, dice Feuerbach, mira al bene, alla salvezza, alla
beatitudine dell’individuo: Dio è la beatitudine dell’uomo. Però questa beatitudine non è un bene
terreno. La felicità terrena allontana l’uomo da Dio ed è solo l’infelicità, la sofferenza che riconduce
l’uomo a Dio, o meglio, a ciò di cui abbisogna, dove Dio è sentito come necessità. Nella sofferenza
l’uomo si concentra su se stesso poiché il suo unico interesse è la propria salvezza e la risposta è
data da Dio, “questo essere immaginario rispetto al mondo e alla natura in genere, ma reale per
l’uomo”.
Ne L’essenza della religione(1846), Feuerbach fa un passo avanti nella “critica” alla religione. Egli
si rese conto che doveva andare oltre l’antropologia: Dio era nell’opera del 1841 un d desiderio
umano, ma questo è vero solo per una religione spiritualista, per una religione che è giunta ad un
alto grado di civiltà; nella realtà, l’uomo si imbatte dapprima in una natura non addomesticata, non
spirituale, ed è “Dio” per lui ciò che lo fa vivere, ciò di cui non può fare senza: ecco perché egli
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parlerà adesso della natura come il vero segreto per comprendere la religione. L’opera si apre infatti
con la dichiarazione che il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione:
l’oggetto di questo sentimento di dipendenza è appunto la natura. Perciò dire che la religione è
innata nell’uomo è falso se per religione si intendono le rappresentazioni del teismo, ma è vero se
per religione si intende il sentimento dell’uomo di non poter esistere senza un ente che sia altro da
lui, cioè di non dovere a se stesso la propria esistenza. Quindi ciò da cui dipende la vita e l’esistenza
dell’uomo è da lui considerato Dio. La credenza che Dio abbia un’esistenza indipendente da quella
dell’uomo ha la sua radice nel fatto che in origine è considerato come Dio l’ente che esiste fuori
dell’uomo, cioè il mondo, la natura. Infatti il concetto di Dio è che egli è l’esistenza che precede
quella dell’uomo, che ne è il presupposto. Ma questa non è che la natura, la cui esistenza non si
appoggia all’esistenza dell’uomo, e tanto meno alle ragioni dell’intelletto e del cuore umano. Tutte
le proprietà di Dio non sono altro che proprietà astratte della natura. L’atteggiamento che l’uomo ha
originariamente verso la natura è di considerarla come lui stesso è. L’uomo involontariamente fa
dell’ente naturale un ente dell’animo, un ente soggettivo, umano. In un secondo momento, l’uomo
ne fa consapevolmente un oggetto di preghiera e di religione. Nella religione l’uomo ha come
oggetto solamente se stesso, il suo Dio non è che la sua propria essenza. Il presupposto della
religione è il contrasto tra volere e potere, desiderare e ottenere. Nel volere, nel desiderare, nel
rappresentare l’uomo è illimitato, onnipotente, Dio; ma nel potere, nell’ottenere, nella realtà l’uomo
è condizionato, dipendente, limitato. Il fine della religione è togliere tale contrasto; e l’ente in cui le
contraddizioni sono tolte è Dio. Dio è un ente il cui concetto e rappresentazione non dipende dalla
natura, ma dall’uomo, e dall’uomo religioso. Così Dio c’è solo nella religione e nella fede. Dio,
essendo un oggetto solo della religione, non esprime che l’essenza della religione. Ma che cos’è che
fa diventare un oggetto un oggetto religioso? Secondo Feuerbach, è solo l’immaginazione, la
fantasia, il cuore umano. L’oggetto della religione è oggetto di fede solo perché, essendo oggetto di
religione non ha esistenza reale, ma è in contraddizione con la realtà. Si trova Dio solo nella fede
perché Dio non è altro che l’essenza della fantasia e del cuore umano.
Karl Marx (1818-1883) è uno dei padri dell’ateismo post-hegeliano. L’ateismo è per lui un punto
di partenza, per cui si potrebbe dire che il comunismo marxiano è naturalmente ateismo e non
potrebbe essere diverso. Fin dalla prefazione alla sua tesi di laurea, il giovane Marx dichiarò il suo
intento: “La professione di fede di Prometeo απλω λόγω τους πάντας εχθαίρω θεούς è la sua
professione di fede, la sua sentenza contro tutti gli dèi celesti e terreni, che non riconoscono
l’autocoscienza umana come la divinità più alta. Nessuno può starle alla pari”.
La critica religiosa marxiana, come vedremo subito, è il presupposto della critica sociale e politica.
Infatti per Marx la filosofia è al servizio della storia: il suo compito è quello di essere critica, non
solo teorica ma soprattutto pratica (ricordiamo la 11^ tesi su Feuerbach) e pratica rivoluzionaria.
Vediamo quindi uno dei testi classici dell’ateismo marxiano, la Introduzione alla Critica della
filosofia del diritto hegeliana del 1843. Conviene riportare quasi integralmente il famosissimo
brano: “Per la Germania la critica della religione è in sostanza terminata, e la critica della religione
è il presupposto di ogni critica. L’esistenza profana dell’errore è compromessa, da quando è stata
confutata per la sua sacra oratio pro aris et focis. L’uomo, che nella fantastica realtà del cielo, dove
cercava un superuomo, ha trovato soltanto il riflesso di se stesso, non sarà più propenso a trovare
solo l’apparenza di sé, solo il non uomo, là dove cerca e deve cercare la sua vera realtà. Il
fondamento della critica irreligiosa è questo: l’uomo fa la religione, la religione non fa l’uomo. E
precisamente la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che o non ha ancora
acquistato o ha subito perduto se stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto, rintanato fuori del
mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società, producono
la religione, una coscienza del mondo rovesciata, perché essi sono un mondo rovesciato. La
religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in
forma popolare, il suo point-d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il
suo completamento solenne, la sua ragione generale di giustificazione e di conforto. È la
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realizzazione fantastica dell’essenza umana, perché l’essenza umana non ha vera realtà. La lotta
contro la religione è così mediatamente la lotta contro quel mondo di cui la religione è la
quintessenza spirituale. La miseria religiosa è da una parte l’espressione della miseria reale e
dall’altra la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il
cuore di un mondo spietato, come è lo spirito di una condizione priva di spirito. Essa è l’oppio del
popolo. La vera felicità del popolo esige la eliminazione della religione in quanto illusoria felicità.
L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla propria condizione è l’esigenza di rinunciare ad una
condizione che ha bisogno dell’illusione. La critica della religione è così in germe la critica della
valle di lacrime, di cui la religione è il nimbo.[...] La critica della religione disinganna l’uomo,
affinché pensi, agisca, plasmi la sua realtà come un uomo disincantato, arrivato al possesso del
giudizio, affinché si muova intorno a se stesso e quindi intorno al suo vero sole. La religione è
soltanto il sole illusorio, che si muove attorno all’uomo finché egli non si muove intorno a se stesso.
Dunque il compito della storia, dopo che è scomparso l’al di là della verità, è di stabilire la verità
del di qua. Il compito della filosofia che è al servizio della storia, dopo che è stata smascherata la
figura sacra dell’autoalienazione umana, è in primo luogo di mascherare l’autoalienazione nelle sue
figure profane. La critica del cielo si converte nella critica della terra, la critica della religione nella
critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. [...] La critica della filosofia
speculativa del diritto non si esaurisce in se stessa, ma in compiti, per la cui soluzione c’è solo un
mezzo: la praxis [...] la teoria è capace di impadronirsi delle masse, non appena dimostra ad
hominem ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale è afferrare le
cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso. La prova evidente del radicalismo della
teoria tedesca, e dunque della sua energia pratica, è il suo partire dalla decisa soppressione positiva
della religione. La critica della religione finisce con la dottrina che l’uomo è l’essere supremo per
l’uomo, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un
essere umiliato, asservito, abbandonato, spregevole, rapporti che non si possono raffigurare meglio
che con l’esclamazione di un francese a proposito di una progettata imposta sui cani: poveri cani!
Vi si vuole trattare come uomini!”.
Secondo Marx, come s’è visto, l’unico modo per abolire la religione è quello di abolire “una
condizione che ha bisogno dell’illusione”, cioè strappare alla radice il bisogno illusorio, fantastico
della religione. Quando l’uomo ha riacquistato coscienza di sé come unico fondamento di se stesso,
allora il bisogno religioso è vinto. Visto che il mondo dell’aldilà non è che un riflesso dell’aldiqua,
il problema è riportare la condizione umana alla sua situazione reale e non fantastica, come fa la
religione. La religione è vista per ciò come uno sbaglio di prospettiva che l’uomo necessariamente
corregge quando raggiunge l’autocoscienza; inoltre l’ateismo marxiano è programmatico perché la
critica contro la religione è la base di tutte le altre critiche e senza aver prima superato questa, non
sono possibili critiche ulteriori. Marx non è contro la religione in sé, è contro la religione perché
essa vuole una felicità fantastica per il popolo, mentre Marx vuole dare all’uomo una felicità reale,
terrena, concreta; proprio per questo bisogna eliminare il bisogno religioso e non si ha altra scelta.
L’emancipazione dell’uomo dalla religione non può solo avvenire teoricamente e singolarmente ma
deve essere una emancipazione pubblica, politica. E tale emancipazione può avvenire solo con la
soppressione della borghesia e della proprietà privata. Nei famosi Manoscritti ecomico-filosofici del
1844 Marx scrive: “La religione, la famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte ecc. non
sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale. La soppressione
positiva della proprietà privata, in quanto appropriazione della vita umana, è dunque la
soppressione positiva di ogni estraniazione, e quindi il ritorno dell’uomo, dalla religione, dalla
famiglia, dallo Stato ecc. alla sua esistenza umana, cioè sociale. L’estraniazione religiosa come tale
ha luogo soltanto nella sfera della coscienza dell’interiorità umana; invece l’estraniazione
economica è l’estrazione della vita reale, onde la sua soppressione abbraccia l’uno e l’altro”. E
Marx continua dicendo: “Ma siccome per l’uomo socialista tutta la cosiddetta storia del mondo non
è altro che la generazione dell’uomo mediante il lavoro umano, null’altro che il divenire dalla
natura per l’uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita mediante se stesso, del
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processo della sua origine. Dal momento che l’essenzialità dell’uomo e della natura è diventata
praticamente sensibile e visibile, l’uomo per l’uomo come esistenza della natura, e la natura per
l’uomo come esistenza dell’uomo, è diventato praticamente improponibile il problema di essere
estraneo, di un essere superiore alla natura e all’uomo, dato che questo problema implica
l’ammissione dell’inessenzialità della natura e dell’uomo. L’ateismo, in quanto negazione di questa
inessenzialità, non ha più alcun senso; infatti l’ateismo è, sì, una negazione di Dio e pone attraverso
questa negazione l’esistenza dell’uomo, ma il socialismo in quanto tale non ha più bisogno di questa
mediazione. Esso comincia dalla coscienza teoreticamente e praticamente sensibile dell’uomo e
della natura nella loro essenzialità. Esso è l’autocoscienza positiva dell’uomo, non più mediata dalla
soppressione della religione, allo stesso modo che la vita reale è la realtà positiva dell’uomo, non
più mediata dalla soppressione della proprietà privata, dal comunismo”.
Marx ha raggiunto con queste parole il culmine del suo ateismo. Il problema di Dio non può più
porsi non tanto perché il concetto di Dio è contraddittorio o in contrasto con la libertà umana, ma
perché lo stesso “ateismo” viene ad essere superato dalla visione comunistica della realtà. “L’uomo
produce l’uomo” e non ha quindi senso cercare al di fuori di lui un essere estraneo e trascendente
poiché non è che uno pseudo-problema. L’uomo è sensibile, è materiale, la sua storia non può
essere che sensibile e materiale come lo è la nascita e la crescita. Che senso ha, appunto, parlare di
religione e di ateismo in questa prospettiva? Nessuno, poiché lo stesso ateismo è considerato una
sorta di critica incompleta, che fa ancora il gioco della religione. L’unica risposta è comunismo.
Nelle opere successive al 1844, Marx non svilupperà la propria concezione dell’ateismo e della
religione. Ciò sta a dimostrare che per lui l’ateismo era un problema risolto, e quello che gli
interessava era solo più la praxis,la rivoluzione, non la teoria: “la rivoluzione è la forza motrice
della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria”.
L’ateismo viene sviluppato da Engels (1820-1895) in senso storico-filologico, indagando sulla
autenticità dei testi biblici. Anch’egli è d’accordo con Marx nel ritenere la religione una
sovrastruttura ed una alienazione ma, a differenza di Marx, Engels di dedica appunto a illustrare la
formazione storica e quindi umana della religione e in particolare del cristianesimo.
In Bruno Bauer e il cristianesimo primitivo, Engels dice che “di una religione che ha sottomesso
l’impero mondiale romano e ha dominato per 1800 anni sulla parte di gran lunga più estesa
dell’umanità civilizzata, non ci si può sbarazzare definendola semplicemente un’assurdità messa
insieme, a forza di rappezzature, da imbroglioni. Se ne viene a capo – continua Engels – solo
quando si sappia spiegare la sua origine e il suo sviluppo dalle condizioni storiche sotto le quali è
sorta ed è arrivata al potere. E ciò vale specialmente per il cristianesimo”. Engels sembra dunque
voler affrontare il problema delle origini cristiane in maniera storicamente oggettiva, purtroppo però
il suo tentativo fallisce miseramente quando si leggono le idee engelsiane a riguardo, che non si
rivelano né scientifiche né criticamente fondate. Engels ritiene, come ad es. Bauer, che, dell’intero
contenuto dei Vangeli, quasi nulla sia dimostrabile storicamente, così come si può considerare
problematica la stessa esistenza reale di Gesù. Il vero padre del cristianesimo sarebbe il filosofo
ebreo Filone, visto che gli scritti tramandatici sotto tale nome contengono già tutte le idee essenziali
del cristianesimo stesso: l’innata peccaminosità dell’uomo, il Logos, la penitenza ecc. Engels
aggiunge però che il cristianesimo primitivo non può essere nato esclusivamente dalle idee di Filone
ma ha avuto bisogno d’altro. La conquista romana disgregò le terre sottomesse ponendo al posto
della antica struttura di classe la distinzione fra cittadini romani e cittadini dello Stato; facendo
estorsioni in nome dello Stato romano; giudicando solo col diritto romano e con giudici romani.
Tutto questo ebbe una enorme forza livellatrice, ed alla universale mancanza di diritti e alla
disperazione nella possibilità di una condizione migliore, corrispondeva la generale prostrazione e
demoralizzazione. Non fu una novità quindi che, nelle classi, c’erano un gran numero di persone
che, disperando della liberazione reale, cercavano, per compensazione, una liberazione spirituale.
Ovviamente, la maggior parte di queste persone erano schiavi. In questo clima si fece avanti il
cristianesimo. Esso si rivolgeva a tutti gli uomini, senza alcuna distinzione e, così facendo, divenne
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la prima possibile religione mondiale. Inoltre, con il riconoscimento del peccato come realtà a cui
partecipano tutti gli uomini, e con il sacrificio da parte del figlio di Dio che cancella una volta per
tutte i peccati dell’umanità, esso forniva un modo ovunque comprensibile della liberazione,
generalmente desiderata dal mondo corrotto dell’impero romano. Ed è per questo che, fra tutti i vari
fondatori di religioni, solo il cristianesimo ha avuto un successo così grande fino ad oggi. Ne Il
libro della Rivelazione Engels ribadisce più o meno gli stessi concetti. Il cristianesimo fu creato
dalle masse. Esso nacque “in un modo che ci è completamente ignoto” in Palestina, in un tempo in
cui nascevano a centinaia nuove sette. Si tratta perciò solamente di un fenomeno di “intersecazione”
che si formò spontaneamente per i reciproci attriti delle più progressiste di queste sette, e che in
seguito diventò una dottrina per l’aggiunta delle idee di Filone e, più tardi, per le forti infiltrazioni
stoiche. Secondo Engels, il libro più antico del Nuovo Testamento è proprio il libro della
Rivelazione cioè l’Apocalisse, il quale contiene nel modo più esatto le credenze del primitivo
cristianesimo: in esso, secondo Engels, non si parla né di peccato originale, né della Trinità, Gesù
viene considerato subordinato a Dio; l’unico punto dogmatico è l’affermazione che i fedeli sono
stati salvati dal sacrificio di Cristo e di tutto questo possiamo essere certi perché l’Apocalisse è
l’unico libro del Nuovo Testamento della cui autenticità non si può dubitare!
In Per la storia del cristianesimo primitivo Engels sostiene che i Vangeli e gli Atti degli Apostoli
sono tarde rielaborazioni di scritti oggi perduti, “il cui debole nucleo storico non è più oggi
riconoscibile tra le incrostazioni leggendarie”; che il cristianesimo non sia stato importato nel
mondo greco-romano dall’esterno ma che sia un prodotto giudaico; infatti nei primi tempi non si ha
a che fare con i cristiani consapevoli, ma con persone che si dicono giudei, e quindi il cristianesimo
del libro della Rivelazione è “infinitamente diverso” dalla posteriore religione mondiale
dogmaticamente fissata nel Concilio di Nicea. Non vi è ancora nemmeno l’idea della religione
dell’amore, dell’”amate i vostri nemici”, ma viene predicata aperta vendetta contro tutti i
persecutori dei cristiani.
Insomma, Engels distrugge il cristianesimo in modo tale che non possiamo seriamente credervi. La
sua non è distruzione, ma ridicola critica delle presunte origini cristiane. Se Marx pecca di
arbitrarietà nel rifiutare la religione, non scende però ad affermazioni gratuite nella critica dei testi
scritturali. Engels è in posizione nettamente inferiore a Marx per quanto riguarda le argomentazioni
con cui difende la propria miscredenza, e questo viene oggi riconosciuto dagli stessi marxisti, come
ad es. Kublanov.
Lenin (1870-1924) completa la triade dell’ateismo marxista. Il suo ateismo è prettamente politico e
non dice nulla di nuovo, tranne il fatto che le sue espressioni sono più polemiche e accese di quelle
di Marx e di Engels. Il suo “merito”, se si può chiamar così, è l’aver portato all’estremo la critica
marxista della religione parlando di ateismo e materialismo militante, il che, però, era già implicito
negli scritti dei suoi precedessori.
La religione è, secondo Lenin, uno degli aspetti dell’oppressione spirituale che le masse popolari,
schiacciate dall’incessante lavoro a profitto degli altri, dalla miseria e dall’isolamento, subiscono
ovunque. La fede in una vita migliore, in un altro mondo, nasce inevitabilmente dall’impotenza
delle classi sfruttate nella lotta contro gli sfruttatori. La religione è una sorta di “acquavite
spirituale”, in cui gli oppressi annegano la propria personalità. Però tutto questo non significa, dice
Lenin, proclamare l’ateismo. “Perché non ci proclamiamo atei?”, chiede Lenin. E la sua risposta è
la seguente: il nostro programma è fondato sulla concezione materialistica del mondo, e questo
comprende anche la ricerca delle origini storiche ed economiche dell’oscurantismo religioso. Però –
ed è questo il punto – non si deve porre la questione della religione astrattamente, senza cioè tenere
conto della lotta di classe. “Diffondere la concezione scientifica nel mondo è cosa che faremo
sempre, combattere l’incoerenza di certi cristiani è necessario, ma ciò non significa che dobbiamo
dare alle questioni religiose il primo posto, che ad esse non spetta, né che possiamo distrarre le
forze dalla lotta economica e politica effettivamente rivoluzionaria per sacrificarle ad opinioni di
terz’ordine”. Lenin è, in questo passo, fedele alla più schietta tradizione marxiana del problema
22
religioso. Nel Sull’atteggiamento del partito operaio di fronte alla religione, Lenin ripete la stessa
idea: il marxismo, che è materialismo, deve lottare contro la religione. Ma deve lottare in modo tale
da poter spiegare materialisticamente l’origine della fede e della religione. Ed a questo deve
aggiungere la pratica concreta del movimento di classe tendente a far scomparire le radici sociali
della religione. Inoltre la propaganda atea deve essere subordinata al suo compito fondamentale e
cioè allo sviluppo della lotta di classe delle masse sfruttate contro gli sfruttatori. Il marxista – dice
Lenin – deve essere materialista, ma un materialista dialettico, tale cioè che considera la lotta contro
la religione sul terreno della lotta di classe, quindi tenendo conto della situazione concreta. A questo
riguardo, alla domanda se un prete possa o no fare parte del partito, Lenin risponde categoricamente
che “una risposta assolutamente affermativa è falsa”. Per cui il marxismo è, almeno secondo Lenin,
materialismo programmatico e non si può parlare di intesa fra marxisti e cristiani, essendo gli uni
l’antitesi degli altri. Ancora più chiaramente, nel saggio Sul significato del materialismo militante,
Lenin afferma che il marxismo è ateismo militante. Per essere tale, si deve condurre una
propaganda ed una lotta instancabile per l’ateismo, seguendo attentamente tutte le pubblicazioni in
materia, facendo tradurre o almeno recensire quelle che hanno un qualche valore. L’essenziale è
comunque saper interessare le masse ancora assolutamente incolte ad un atteggiamento cosciente
verso le questioni religiose e ad una critica illuminata delle religioni. Il marxismo ha, concludendo,
cercato di risolvere una volta per tutte il problema religioso negando alla base il bisogno religioso,
separando nettamente Chiesa e Stato (dichiarando quindi che la religione è un affare privato) e
impegnando il proletariato nella lotta contro le concezioni ideologico-religiose della borghesia.
Questo deve essere fatto in modo “positivo”, non solo di critica negativa ma, come Lenin ha detto
più sopra, con la prassi concreta della lotta di classe. Lenin vuole combattere i “pregiudizi religiosi”
in modo molto cauto perché bisogna abbattere la povertà e l’ignoranza senza cadere nel fanatismo
religioso o antireligioso che avrebbe effetti deleteri e controproducenti per lo sviluppo del
materialismo dialettico.
Ateo dichiarato e senza possibilità di equivoci è Felix Le Dantec (1869-1917). Egli inizia l’opera
L’ateismo affermando: “io sono ateo, come sono bretone, come si è bruni o biondi, senza averlo
voluto”. La dichiarazione diventa subito chiara se si pensa che egli negava la libertà, come si
conveniva nell’Ottocento ad un convinto scienziato monista e positivista. Egli rigetta Dio perché la
sua esistenza non spiega nulla ed è quindi una ipotesi inutile, e del resto Le Dantec sostiene di non
aver mai avuto una simile idea, “considerata come comune a tutti gli uomini”. L’operetta non è per
nulla originale: monismo, materialismo, determinismo sono i suoi comuni denominatori, niente
affatto insoliti in un’epoca come l’Ottocento. Quel che è forse diverso dagli altri atei è la
dichiarazione che egli fa della impossibilità di una società formata da tutti atei perché “una tale
società – spiega Le Dantec – finirebbe con un’epidemia di suicidio anestetico” in quanto l’ateo non
può avere sentimenti sociali e morali, essendo un essere completamente determinato e
irresponsabile.
BIBLIOGRAFIA MINIMA
Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, Laterza
Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, Feltrinelli
Feuerbach, L’essenza della religione, Laterza o Newton Compton
Feuerbach, Opere, Laterza
Marx-Engels, Scritti sulla religione, Roma 1973
Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi
Lenin, Sulla religione, Milano s.d.
Le Dantec, L’ateismo, tr.it. Milano 1925.
Copyright by Ernesto Riva
www.filosofiaedintorni.net
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STORIA DELL’ATEISMO
a cura di Ernesto Riva
5. Gli atei nel Novecento: Freud Sartre Merleau-Ponty Camus Lévi-Strauss Foucault Onfray
Sigmund Freud (1856-1939) non è stato un filosofo di professione ma, nel campo che qui
interessa, è di somma importanza per aver affrontato da una angolazione diversa il problema della
religione. Gli scritti che Freud dedicò più specificamente all’analisi della religione sono Totem e
tabù e L’avvenire di un’illusione. Nel primo di questi descrive nei seguenti termini la probabile
origine della religione: nei tempi antichi vi fu un solo padre prepotente, geloso, che teneva per sé
tutte le femmine e che scacciava i maschi man mano che crescevano. Un giorno i fratelli scacciati si
riunirono, uccisero il padre e lo divorarono. Il padre violento era stato senza dubbio – dice Freud –
il modello nello stesso tempo invidiato e temuto da ogni membro della schiera dei maschi scacciati.
A questo punto, essi realizzarono, divorando il padre, l’identificazione con lui, e si appropriarono di
una parte della sua forza. Il pasto totemico, in altre parole, non sarebbe altro che la ripetizione e la
commemorazione di questa primitiva azione criminale, la quale segnò l’inizio delle organizzazioni
morali e sociali e della religione. Il totemismo può essere considerato, secondo Freud, come un
primo tentativo di religione. Questo deriva dal tabù che proteggeva la vita del totem. Infatti la
religione totemica nacque probabilmente dal senso di colpa dei figli, come un tentativo di attenuare
questa sensazione e di riconciliarsi quindi il padre offeso con la cosiddetta “obbedienza
retrospettiva”. Nello stesso tempo, la religione del totem serve a ricordare il trionfo sul padre, la
soddisfazione così raggiunta è la causa della festa in memoriam espressa dal pasto totemico.
Garantendosi reciprocamente la vita, i fratelli affermano che nessuno di loro può venir trattato da un
altro fratello come fu trattato il padre. Al divieto di uccidere il totem si unisce il divieto del
fratricidio: “non ammazzare”. La società poggiava allora sulla correità nel delitto perpetrato
insieme, la religione sulla coscienza del rimorso e della colpa, la moralità sulle necessità proprie di
questa società e sulle pene imposte dal senso di colpa. Come interviene la divinità?, si chiede ora
Freud. Nel frattempo, egli dice, è affiorata, non si sa come, non si sa dove, l’idea di Dio. La
psicoanalisi ci insegna, afferma Freud, che il Dio si configura per ciascuno secondo l’immagine del
padre, che quindi il rapporto personale con il Dio dipende dal proprio rapporto con il padre carnale
e che, in ultima analisi, il Dio non è altro che un padre a livello superiore. Sarebbe un’ipotesi ovvia
– dice Freud – che lo stesso Dio fosse l’anima totemica e che si fosse sviluppato dall’animale in una
fase successiva del sentimento religioso. Così il totem può essere la prima forma di sostituto
paterno, e il Dio invece una forma successiva, in cui il padre ha riacquistato la sua figura umana.
L’elevazione del padre al Dio era un tentativo di espiazione molto più serio di quanto fosse stato, in
origine, il patto col totem. Nel mito cristiano – spiega Freud – il peccato originale è indubbiamente
un’offesa a Dio padre. Ora, se il Cristo ha liberato gli uomini dal peccato sacrificando la sua stessa
vita, questo “ci costringe” a concludere che questa colpa fu un assassinio. Infatti, il sacrificio della
propria vita conduce alla riconciliazione con Dio padre, il crimine da espiare non può essere che
l’uccisione del padre. In tal modo l’umanità confessa, nella dottrina cristiana, l’azione colpevole
commessa nella notte dei tempi. Naturalmente questa teoria è possibile solo con l’ipotesi di una
psiche collettiva in cui i processi mentali si compiono come nella vita mentale dell’individuo. In
particolare, dice Freud, facciamo sopravvivere per millenni il senso di colpa provocato da
un’azione, e lo facciamo rimanere operante su generazioni e generazioni che di questa azione non
potevano saper nulla.
In L’avvenire di un’illusione Freud estende la concezione psicoanalitica, limitata nell’opera
precedente alle forme primitive, alle religioni più evolute considerandole da un punto di vista
generale. L’opera rappresenta, nello stesso tempo, il credo di Freud, un credo laico, fiducioso nelle
possibilità della ragione umana. La vita è dura da sopportare con le privazioni derivanti dalla civiltà
e dalla natura. L’uomo, per proteggersi dalle forze naturali, le umanizza e dà loro il carattere di
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padre, ne fa degli dèi. Gli dèi hanno una triplice funzione: esorcizzare i terrori della natura,
riconciliare con la crudeltà del fato, specialmente quale si manifesta nella morte, risarcire le
sofferenze e le sofferenze imposte all’uomo dalla vita civile in comune. Viene in tal modo costituito
un tesoro di rappresentazioni che proteggono l’uomo contro i pericoli naturali e contro le offese
della vita civile. Si tratta in breve, di questo: la vita in questo mondo mira probabilmente ad un
perfezionamento dell’essere umano. Oggetto di questa elevazione deve essere la parte spirituale
dell’uomo, l’anima che, “lenta e riluttante, nel corso dei tempi, si è separata dal corpo”. Tutto ciò
che accade a questo mondo è sotto gli occhi di una benevola Provvidenza; la morte stessa non è un
annientamento, ma l’inizio di un nuovo modo di esistenza, alla fine tutto il bene trova la sua
ricompensa se non già in questa vita, nelle ulteriori esistenze che cominciano dopo la morte. “è la
saggezza superiore, che governa questo corso di eventi, l’infinita bontà che in esso si esprime, la
giustizia, che in esso si attua, costituiscono gli attributi degli esseri divini che hanno creato sia noi
che l’universo nel suo insieme; o piuttosto dell’unico essere divino in cui, nella nostra civiltà, si
sono condensati tutti gli dèi del passato”. Ma qual è il significato psicologico delle rappresentazioni
religiose? Secondo Freud, esse sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più
pressanti dell’umanità. Mediante il benigno governo della Provvidenza, l’angoscia di fronte ai
pericoli della vita viene calmata, l’istituzione di un ordine morale universale assicura
l’appagamento dell’esigenza di giustizia, il prolungarsi dell’esistenza terrena mediante una vita
futura istituisce la struttura spazio-temporale dove questi appagamenti di desideri trovano il proprio
compimento. Inoltre vengono sviluppate risposte agli enigmatici interrogativi che scaturiscono
dall’umana brama di sapere, che contribuiscono a dare un enorme sollievo a tutte le nostre esigenze
insoddisfatte. Dicendo che la religione è un’illusione, specifica Freud, non intendo dire che essa sia
necessariamente falsa. Piuttosto significa che tutte le credenze religiose sono indimostrabili e
nessuno può essere costretto a credere; del resto, come sono indimostrabili, sono anche
inconfutabili, e sappiamo ancora troppo poco a loro riguardo.
Freud non aderisce alla religione non perché è una illusione, ma perché essa non ha espletato il suo
compito. La religione, egli dice, ha reso alla civiltà umana grandi servizi, ma non è riuscita a
rendere felici la maggioranza degli uomini: tuttora vi è un numero spaventosamente grande di
uomini che è insoddisfatto della civiltà e che la sente come un giogo che occorre scrollarsi di dosso.
È quindi dubbio che al tempo dell’illimitato dominio delle dottrine religiose gli uomini furono nel
complesso più felici di oggi; certo, dice Freud, non furono più morali. Le religioni hanno ormai
fatto il loro tempo. Se la religione può definirsi come la “nevrosi ossessiva universale
dell’umanità”, è da prevedere che l’abbandono della religione deve avere luogo con l’inesorabilità
fatale di un processo di crescita, e che ora troviamo proprio in pieno in questa fase di sviluppo.
L’uomo può quindi fare a meno della religione. Distogliendo in tal modo dall’aldilà le sue speranze
e concentrando sulla vita terrena tutte le forze così rese disponibili, l’uomo probabilmente riuscirà a
rendere sopportabile la vita per tutti e la civiltà non sarà più oppressiva per nessuno.
Jean-Paul Sartre (1905-1980) è stato forse l’ateo più noto della Francia contemporanea. Il suo
ateismo è sempre stato totale, senza che mai si possa aver assistito ad un declino o ad una revisione
delle sue idee ateistiche. Del resto il suo no all’esistenza di Dio risale molto indietro nel tempo,
come egli stesso ci dice ne Le parole: “Una mattina, nel 1917, a La Rochelle, aspettavo dei
compagni che dovevano accompagnarmi al liceo; erano in ritardo e presto non seppi più cosa
inventarmi per distrarmi: decisi di pensare all’Onnipotente. Immediatamente ruzzolò nel cielo e
sparì senza dare spiegazioni: non esiste, mi dissi con uno stupore di cortesia, e credetti risolto il
problema. In un certo modo era risolto, dato che mai, in seguito, ho avuto la minima tentazione di
riaprirlo”.
Per Sartre, che Dio non vi sia è una evidenza. Dio è, inoltre, superfluo ed il suo concetto implica
contraddizione. Il problema di Dio però è un problema molto importante, è “un problema totale, che
ciascuno risolve con la sua intera esistenza e la cui singola soluzione rispecchia l’atteggiamento
adottato da ciascuno nei confronti degli altri uomini e di se stesso”. Anche se “non abbiamo bisogno
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di Dio, nonostante il fatto che Dio sia morto “anche nel cuore dei credenti”, Sartre riconosce che
“tuttavia l’uomo non è diventato ateo. Il problema, oggi come ieri, resta immutato; il silenzio del
trascendente, congiunto al perdurare, nell’uomo moderno, dell’esigenza religiosa”. L’ateismo di
Sartre è quindi un ateismo ben conscio del suo ruolo nell’età contemporanea. È un ateismo che, al
di là di alcune affermazioni in apparenza blasfeme, si può definire “provvisorio”, come egli stesso
lo definì una volta. Egli è consapevole che “l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro”, ed è
quindi impegnativo dichiararsi atei: lo vedremo tra breve in L’esistenzialismo è un umanismo.
Analizziamo adesso le ragioni per cui Sartre si proclama ateo. Fin dal suo primo romanzo, La
nausea, è chiaro che la contingenza fondamentale della vita umana e della realtà, è un ostacolo
insormontabile per l’affermazione di un Dio. Come si fa ad affermare Dio, il non-contingente, se
tutto è contingente? “La contingenza – dice Sartre – non è una falsa sembianza, una apparenza che
si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito”. Dio stesso,
dirà Sartre ne L’essere e il nulla, “è contingente”. Ma com’è definito Dio da Sartre? Egli è “l’in-séper-sé, cioè l’ideale di una coscienza che sarebbe fondamento del suo proprio essere-in-sé mediante
la pura coscienza che prenderebbe di se stessa”. L’uomo è, per Sartre, l’essere che progetta di
essere Dio. Però, se il senso del desiderio è in ultima analisi il progetto di essere Dio, il desiderio
non è mai costituito da questo senso, ma invece rappresenta sempre una invenzione particolare dei
suoi fini. In altre parole, la realtà umana è puro sforzo di diventare Dio, ma la sintesi proposta tra insé e per-sé è impossibile. Il concetto di Dio come causa sui comporta in sé quello di presenza a sé,
cioè della decompressione d’essere annullante. Per essere progetto di fondarsi, dice Sartre,
bisognerebbe che l’in-sé fosse originariamente presenza a sé, cioè fosse già coscienza. Così questo
essere causa sui è impossibile e il suo concetto implica contraddizione. È come se il mondo, l’uomo
e l’uomo-nel-mondo, dice Sartre, non giungessero a realizzare che un Dio mancato. È come se l’insé e il per-sé si presentassero in uno stato di disintegrazione in rapporto ad una sintesi ideale. Non
che l’integrazione abbia mai avuto luogo, ma invece precisamente perché – ecco il punto – essa è
sempre indicata e sempre impossibile. È la continua sconfitta che spiega, secondo Sartre, sia
l’indissolubilità del rapporto fra l’in-sé e il per-sé e sia la loro indipendenza. L’uomo, conclude
Sartre, è una passione inutile. In L’esistenzialismo è un umanismo viene trattato ancor più
chiaramente il problema di Dio. Il concetto di Dio è paragonabile per Sartre a quello di un artigiano
supremo: cioè Dio, quando crea, sa con precisione quello che crea. Nel secolo XVIII, egli dice, la
nozione di Dio viene eliminata, ma non l’idea che l’esistenza venga dopo l’essenza. Ma, continua
Sartre, l’esistenzialismo ateo, “che io rappresento” è più coerente: se Dio non esiste, esso afferma,
c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere
definito da un concetto cioè l’uomo. Così non c’è una natura umana poiché non c’è un Dio che la
concepisca. Insomma, Dio non mi ha creato quindi Dio non esiste. Però che Dio non esista non è
certamente una cosa comoda. Infatti, se Dio non c’è, dice Sartre, non ci possono essere valori in un
cielo intelligibile, cioè già dati; non può esserci un bene a priori poiché non c’è coscienza infinita a
pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, dato che siamo su un piano dove ci sono
solamente uomini. Tutto è quindi lecito se Dio non esiste, e di conseguenza l’uomo è abbandonato a
se stesso perché non trova né in sé né fuori di sé possibilità di ancorarsi. Così non abbiamo
giustificazioni o scuse e la responsabilità della vita del mondo ricade su di noi. A chi ci rimprovera
– afferma Sartre – la gratuità dei valori, rispondo di essere molto spiacente che sia proprio così, ma
siccome ho soppresso Dio Padre è pur necessario qualcuno per inventare i valori. D’altra parte, dire
che noi inventiamo i valori vuol dire che la vita non ha un senso già dato. Prima che voi viviate la
vita non è nulla, ma sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete. Così è
possibile creare una comunità umana. L’esistenzialismo, dice ancora Sartre, non è altro che lo
sforzo per dedurre tutte le conseguenze da una posizione atea coerente. L’esistenzialismo non è
ateismo nel senso che si limiti a dimostrare che Dio non esiste, ma preferisce affermare: anche se
Dio esistesse, non cambierebbe nulla. Il problema non è quello della sua esistenza. Bisogna che
l’uomo ritrovi se stesso, fosse anche una prova valida dell’esistenza di Dio.
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Come per Sartre, anche per Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) l’esistenza di Dio è superflua.
“Che ci sia o no un pensiero assoluto – dice Merleau-Ponty in Senso e non senso – e, in ogni
problema pratico, una valutazione assoluta, per giudicare dispongo solo di opinioni mie che, per
quanto severamente le discuta, restano capaci di errori … tanto che infine la mia fede nell’assoluto,
in quel che ha di solido, si riduce alla mia esperienza d’un accordo con me stesso e con altri.
Quando non è inutile, il ricorso ad un fondamento assoluto distrugge proprio quel che deve fondare.
… se invece ho capito che verità e valore possono essere per me soltanto il risultato delle nostre
verificazioni e delle nostre valutazioni a contatto con il mondo, dinanzi agli altri e in situazione di
conoscenza e d’azione date, che anche queste nozioni perdono ogni senso fuori dalle prospettive
umane, allora il mondo riacquista rilievo, gli atti particolari di verificazione e di valutazione nei
quali riafferro un’esperienza dispersa riassumono importanza decisiva, c’è qualcosa di irrecusabile
nella conoscenza e nell’azione appunto perché non pretendo di trovarvi l’evidenza assoluta. La
coscienza metafisica e morale muore a contatto con l’assoluto perché è proprio lei, al di là del
mondo piatto della coscienza abituata e addormentata, la viva connessione di me con me e di me
con altri”.
Il cristianesimo, dice Merleau-Ponty, rifiuta il Dio dei filosofi ed ammette un Dio che assume forma
umana: in ciò consiste la sua novità rispetto alle altre religioni. La religione cristiana da questo
punto di vista, fa parte della cultura, non è né un dogma né una credenza, ma un grido, dato che
insegna che la colpa dell’uomo è una felix culpa, che il mondo senza colpa sarebbe meno buono e
che la creazione è un bene: in conclusione essa costituisce la negazione più risoluta di un infinito
concepito. Però vi sono nel cristianesimo anche ambiguità e contraddizioni. Secondo MerleauPonty il paradosso del cristianesimo e del cattolicesimo consiste nel fatto che essi non si attengono
mai al Dio esterno e al Dio interno, ma sono sempre tra l’uno e l’altro. Si tratta di perdere la propria
vita, ma perdendola la si salva. La fede è fiducia, ma il cristiano sa a che cosa si affida: scio cui
credidi. Il cattolicesimo, per Merleau-Ponty, arresta lo sviluppo della religione: la Trinità non è un
movimento dialettico, le tre Persone sono coeterne. Analogamente, la Chiesa non si fonda nella
società degli uomini, ma si incarna in essi in maniera privilegiata. L’ambiguità politica del
cristianesimo, dice Merlau-Ponty, è evidente. Il cattolico, in quanto cattolico, non ha senso
dell’avvenire: deve aspettare che questo avvenire sia passato per aderirvi. Per fortuna il cattolico,
come cittadino, resta sempre libero di cooperare ad una rivoluzione. Ma egli non ci metterà la parte
migliore di sé e, in quanto cattolico, gli è indifferente.
Nell’opera Elogio della filosofia, MerleaPonty afferma la disparità di vedute tra la filosofia e la
teologia. La filosofia, egli dice, rifiuta sia l’umanesimo prometeico che le opposte affermazioni
della teologia. Essa non dice che sia possibile un superamento finale delle contraddizioni umane e
che l’uomo completo ci attende nell’avvenire: come tutti la filosofia non sa nulla di ciò. La filosofia
afferma – ed è tutt’altra cosa – che il mondo sempre comincia, che noi non possiamo giudicare del
suo avvenire soltanto in base al suo passato, che l’idea di un destino che domini le cose non è
un’idea ma una vertigine, che i nostri rapporti con la natura non sono fissati una volta per tutte, che
nessuno può sapere ciò che può fare la libertà; non affida la sua speranza a nessun destino, anche se
è favorevole, ma proprio a ciò che in noi non è destino, alla contingenza della nostra storia: la sua
posizione è proprio la negazione. Si può dire che la filosofia è umanistica? No, se si intende per
“uomo” un principio di spiegazione da sostituire ad altri principi. Non si spiega nulla con l’uomo,
poiché esso non è una forza, ma una debolezza nel cuore dell’essere, non un fattore cosmologico ma
il luogo in cui tutti i fattori cosmologici, in una mutazione che non finisce mai, mutano senso e
diventano storia. L’esistenza dell’uomo, dice ancora Merleau-Ponty, si estende a troppe cose – per
essere precisi, a tutte – per poter diventare essa stessa oggetto di autocompiacenza e ciò che si ha
ragione di considerare come un “fanatismo umanistico”. Ora, continua Merleau-Ponty, la stessa
instabilità che non rende possibile una religione dell’umanità, è anche quella che toglie i suoi
sostegni alla teologia. La teologia, infatti, non constata la contingenza dell’essere umano se non per
farla derivare da un essere necessario, e cioè non la constata se non per disfarsene: si serve della
“meraviglia” filosofica soltanto per motivare una affermazione che la sopprime. L’idea dell’essere
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necessario come quella della materia eterna, al filosofo sembra prosaica in confronto al sorgere dei
fenomeni in ogni piano del mondo ed è questa continua nascita che egli si preoccupa di descrivere.
In questa situazione egli può benissimo comprendere la religione come l’espressione di un
fenomeno fondamentale, ma non è la stessa cosa il porre la religione e il comprenderla. Si passa
dunque solo a lato della filosofia quando la si definisce come ateismo: è una filosofia vista dal
punto di vista teologico. La sua negazione non è che l’inizio di una attenzione, di una serietà, di
un’esperienza, in base alle quali bisogna giudicarla. La filosofia, che non fissa mai il sacro in un
determinato luogo, ma lo vede nella relazione delle cose e delle parole, sarà sempre esposta a certi
attacchi anche se da essi non potrà mai essere toccata. La filosofia, conclude Merleau-Ponty, si
domanda soltanto se il concetto di Dio come essere necessario non è, inevitabilmente, quello
dell’imperatore del mondo e se, senza quel concetto, il Dio cristiano non cessi di essere l’autore del
mondo e se per caso non è appunto la filosofia che conduce fino alle estreme conseguenze la lotta
contro i falsi dèi che il cristianesimo ha inserito nella storia. Il brano citato ci deve fa riflettere. Esso
non ha nulla in comune con l’ateismo antiteistico, dogmatico dei tempi passati. È una posizione
coerente, ponderata, che non critica negativamente la religione ma si pone, come egli scrive, su un
altro piano e non può essere toccata dalle critiche teologiche. Egli, piuttosto che scrivere “non c’è
Dio”, ha scritto “c’è l’uomo”; invece di dire “la religione è falsa”, scrive: “essa è un grido, un
fenomeno fondamentale”. Il brano citato dal filosofo francese può essere additato come esempio del
nuovo ateismo contemporaneo o, meglio, della nuova posizione riguardo la religione che, finora, è
soltanto all’inizio. Prima di concludere, è interessante citare un brano riguardante i rapporti fra
filosofia e cristianesimo. “Se la filosofia è un’attività autosufficiente, che comincia e finisce con
l’apprensione del concetto, e la fede un assenso alle cose non viste e date a credere dai testi rivelati,
la differenza che le separa è troppo profonda perché ci possa essere conflitto. Ci sarà invece
conflitto quando l’adeguazione razionale si presenterà come esaustiva. Ma basta che la filosofia
riconosca, al di là dei possibili dèi quali è giudice, un ordine del mondo attuale i cui particolari
dipendono dall’esperienza, e che si assuma il dato della rivelazione come un’esperienza
soprannaturale, perché non ci sia rivalità tra fede e ragione. Il segreto del loro accordo è nel
pensiero infinito, che è il medesimo quando concepisce il possibile e quando crea il mondo attuale”.
Parlare quindi di “ateismo” di Merleau-Ponty è, per dirla con un termine a lui caro, ambiguo. C’è in
lui, come in tutti i grandi pensatori, l’impossibilità di vedersi ricondotto ad una particolare
definizione, la quale non farebbe che limitarne la prospettiva e falsarne gli intenti.
Albert Camus (1913-1960), nei suoi romanzi come nei saggi egli, che filosofo in senso proprio
non è, ha dato la sua risposta al problema di Dio in modo estremamente lucido e coerente.
Il mito di Sisifo è il saggio in cui Camus analizza più a fondo il problema di Dio. Il protagonista del
saggio è “l’uomo assurdo” cioè l’uomo che, pur essendo cosciente della assurdità della vita, e anzi
proprio per questo, vuol continuare a vivere. Camus inizia dicendo che “vi è solamente un problema
filosofico veramente serio: quello dei suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di
essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”. Morire volontariamente,
sostiene Camus, presuppone che si sia riconosciuto la mancanza di ogni profonda ragione di vivere,
l’indole insensata della quotidiana agitazione e l’inutilità della sofferenza. Però non è detto che
negare un senso alla vita conduca forzatamente a dichiarare che non valga la pena di viverla; al
contrario, essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà alcun senso: vivere è dar vita
all’assurdo; dargli la vita è innanzi tutto saper guardarlo. La morte e l’assurdo sono i principi, dice
Camus, della sola libertà favorevole. La vita in un universo del genere vuole un’etica della quantità
e non più della qualità, non essendoci scala di valori, una scelta delle preferenze. Vivere il più
possibile: ecco quel che l’uomo assurdo può fare. E vivere il più possibile significa sentire la
propria vita, la propria rivolta e la propria libertà il più intensamente possibile. In che termine si
pone allora il problema di Dio? L’assurdo, dice Camus, cioè lo stato metafisico dell’uomo
cosciente, non conduce a Dio: l’assurdo è il peccato senza Dio. Così, Camus confessa
candidamente: “la percezione di un angelo o di un Dio non ha senso per me”. L’uomo assurdo, egli
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dice, è colui che, senza negarlo, nulla fa per l’eterno. “Non so – scrive Camus – se il mondo abbia
un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco questo senso e che, per il momento, mi è
impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione? Io
posso comprendere soltanto in termini umani. Ciò che tocco e che mi resiste, ecco quanto
comprendo. E queste due certezze, la mia brama di assoluto e di unità e l’irriducibilità del mondo a
un principio razionale e ragionevole, so anche che non posso conciliarle. Quale altra verità posso
riconoscere senza mentire, senza far intervenire una speranza che non ho e che non significa nulla
entro il limite della mia condizione?”. “Si tratta di ostinarsi”, dice Camus. Ad un certo punto del
cammino, l’uomo assurdo è incalzato. La storia non è priva né di religioni né di profeti, anche senza
dèi. Gli si chiede di saltare. Tutto quello che può rispondere è che non comprende bene, perché ciò
non è evidente. Egli, appunto, non vuol fare quello che non capisce. Lo si assicura che è peccato
d’orgoglio (ma egli non afferra la nozione di peccato); che forse, alla fine, c’è l’inferno (ma egli
non ha sufficiente immaginazione per raffigurarsi questo strano avvenire); che perderà la vita
immortale (ma questo gli sembra futile). Si vorrebbe fargli riconoscere la sua colpevolezza ma egli
si sente innocente. A dire il vero, egli non sente che questo: la propria innocenza irreparabile. È
questa che gli permette tutto. Cosicché, ciò che egli richiede da se stesso è solamente vivere con ciò
che sa, adattarsi a ciò che è, e non far intervenire nulla che non sia certo. Gli viene risposto che
niente lo è; ma questa, almeno, è una certezza. È con questa che ha a che fare: egli vuol sapere se è
possibile vivere senza ricorso. Sì – conclude onestamente Camus – l’uomo è fine a se stesso; ed è
anche il suo solo fine. So bene, egli dice, che tutte le chiese sono contro di noi. Ma io non so che
farmene delle idee e dell’eterno. Le verità che sono alla mia portata, possono essere toccate con
mano. Non posso separarmi da loro. “Così, persuaso della origine esclusivamente umana di tutto ciò
che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in
cammino”.
Radicale immanenza e umanismo sono le caratteristiche dell’ateismo camusiano. Anzi, escludere
Dio sarebbe per Camus una nuova affermazione e quindi non accetta di “ateo”. L’uomo di Camus
non ha molte certezze, ma un capello di donna ne Lo straniero è superiore alla certezza
dell’immortalità. Attaccato alle poche certezze terrene, l’uomo può affrontare l’assurdità della vita.
Anni fa una nuova corrente di pensiero influenzò parecchio la cultura occidentale: si tratta dello
strutturalismo, nato come metodologia in ambito linguistico e letterario e poi esteso a molti altri
campi del sapere, dalla psicoanalisi alla filosofia, all’arte all’esegesi biblica ecc. Riguardo il tema
che qui ci interessa, cioè l’ateismo, a rigore non si dovrebbe forse neppure parlare di un “ateismo
strutturalista” perché tale corrente di pensiero non ha affrontato se non indirettamente il problema
religioso. Tuttavia alcuni pensatori cristiani come ad es. Paul Blanquart hanno invitato a riflettere
sulle conseguenze della metodologia strutturalista in ambito religioso: “C’è critica più radicale
della fede – si chiede appunto Blanquart – di questo movimento di fondo che trascina il pensiero al
di fuori dei luoghi in cui la questione di Dio si pone?”. Insomma, come potrebbe parlare Dio di sé
all’uomo, e quest’ultimo rispondere nella libertà, quando la realtà della parola, del soggetto umano
sono messe fuori del circuito mentale, e quando il mito non rinvia più ad altro che a se stesso?
Vediamo quindi più da vicini alcuni teorici dello strutturalismo riguardo il problema religioso.
Claude Lévi-Strauss non è stato un filosofo di professione ma non bisogna sottovalutare il
profondo significato filosofico del suo pensiero che ha aperto nuovi orizzonti alla ricerca umana. Il
problema di Dio però, a quanto egli stesso dice, non ha mai sfiorato la sua mente se non in modo
indiretto. Le religioni sono per Lèv-Strauss perfettamente spiegabili tenendo conto che l’uomo
possiede meccanismi intellettuali, cerebrali, imperfetti rispetto al ruolo che devono compiere. Di
conseguenza, nel suo sforzo conoscitivo, l’uomo non perviene mai a sintesi totali. Orbene, il
sentimento religioso rappresenta una sorta di crogiuolo virtuale in cui si compirebbe la sintesi
ultima: quella di cui proviamo bisogno ma che non riusciamo mai a portare a termine. La vita
religiosa è un immenso serbatoio di rappresentazioni; ma si tratta di rappresentazioni come le altre e
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non hanno alcun carattere specifico. I miti non ci dicono nulla che ci informi sull’ordinamento
dell’universo, sulla natura del reale, sull’origine dell’uomo e sul suo destino. Non possiamo sperare
da essi nessuna concessione metafisica, né essi verranno in aiuto ad ideologie ormai esaurite.
Comunque, se lo strutturalismo, dice Lévi-Strauss, non annuncia una riconciliazione tra scienza e
fede e tanto meno combatte in suo favore, esso si sente in grado, più del naturalismo e
dell’empirismo, di spiegare e giustificare il posto che il sentimento religioso ha occupato ed occupa
tuttora nella storia dell’umanità: “intuizione confusa” in cui la frattura fra il mondo e lo spirito, la
causalità e la finalità corrispondono non già alla realtà delle cose, ma a un limite verso il quale
tende una conoscenza i cui mezzi intellettuali e spirituali non saranno mai commensurabili alle
dimensioni e all’essenza dei suoi oggetti. Dal punto di vista più teorico, metafisico se vogliamo, alla
domanda quale sia il senso dell’esistenza, Lévi-Strauss risponde che, “a rigore, essa non ne ha
alcuno”. Tale affermazione è basata, egli dice, su considerazioni molto semplici, la prima delle
quali è che l’uomo non è sempre esistito sulla faccia della terra ed è verosimile che egli non esisterà
per sempre. Quindi, tutti i problemi che noi poniamo, un giorno non esisteranno più perché non
esisterà più coscienza per porli. Il problema del senso può essere posto solo rispetto
all’insignificante avvenimento che sarà stato il passaggio dell’uomo nell’universo: quel che
chiamiamo uomo, io, sono solo fantasmi illusori di qualcosa che accade in un certo luogo, in un
certo tempo, e che domani non accadrà più; tutto ciò non ha maggiore importanza del resto. È una
visione del mondo forse pessimistica, ma Lévi-Strauss sembra accettarla con serenità. Se l’uomo
non è sempre esistito sulla faccia della terra, è probabile che “il mondo è cominciato senza l’uomo e
finirà senza di lui”. L’uomo è dunque condannato a morte. Egli deve saperlo e deve anche sapere –
dice Lévi-Strauss con accenti melodrammatici - che un giorno “le sue fatiche, le sue pene, le sue
gioie, le sue speranze e le sue opere, diverranno come se non fossero mai esistite, non essendoci più
alcuna coscienza per conservare almeno il ricordo di quei moti effimeri”.
Mai forse negazione di Dio è stata così radicale. Il problema di Dio non sussiste perché non sussiste
il problema del senso. I problemi umani sono solo umani e spariranno quando l’uomo scomparirà.
Non si può neppure impostare un discorso trascendente, parlare di una rivelazione da parte di Dio
perché è negata alla radice l’individualità in cui poteva essere posto il problema di Dio. L’ateismo è
concepito da Lévi-Strauss non come un atteggiamento positivo (altrimenti egli concederebbe più
realtà al pensiero religioso di quanto egli voglia) ma semplicemente l’assenza di certi problemi, di
certe domande, di certi interrogativi.
Michel Foucault (1926-1984) è stato il più recente pensatore che può essere considerato “ateo”
tenendo sempre presente che un tale termine è oggi molto parziale. Mi sembra però che con la sua
insistenza sulla “morte dell’uomo”, conseguenza diretta della “morte di Dio”, egli sia meno
“radicale” di Lévi-Strauss per quanto riguarda il problema di Dio. Ma è pur vero che i suoi interessi
sono molto diversi da Dio, libertà e immortalità. L’interesse precipuo di Foucault, se diamo retta a
Le parole e le cose, è la risposta alla seguente domanda: “cos’è il linguaggio, come circoscriverlo
per farlo apparire in sé e nella sua pienezza?”. Per cui, se si vuol parlare di “ateismo” in Foucault, è
un ateismo del tutto negativo, come quello di Lévi-Strauss, semplicemente a causa della mera
assenza del problema.
La morte dell’uomo e la morte di Dio non sono asserzioni programmatiche, ma evidenze
indiscutibili, ed è in questo che consiste l’assenza di problematica. Foucault mette subito in chiaro
quanto segue: “Ai nostri giorni, e Nietzsche anche qui indica da lontano il punto d’inflessione, si
afferma non tanto l’assenza o la morte di Dio, quanto la fine dell’uomo […]; si scopre a questo
punto che la morte di Dio e l’ultimo uomo strettamente legati: non è appunto l’ultimo uomo che
annuncia di aver ucciso Dio, ponendo in tal modo il proprio linguaggio, il proprio pensiero, il
proprio riso nello spazio del Dio già morto, ma proponendosi anche come colui che ha ucciso Dio e
la cui esistenza include la libertà e la decisione di tale delitto? Così, l’ultimo uomo è, a un tempo,
più vecchio e più giovane della morte di Dio; avendo ucciso Dio, è lui stesso che deve rispondere
della propria finitudine; ma dal momento che parla, pensa ed esiste entro la morte di Dio, il suo
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crimine stesso è destinato a morire; nuovi dèi, identici, già gonfiano l’oceano futuro; l’uomo
scomparirà”.
La morte di Dio è, per Foucault, “lo spazio ormai costante della nostra esperienza. La morte di Dio,
togliendo alla nostra esistenza il limite dell’illimitato, la riconduce a un’esperienza dove niente può
più annunciare l’esteriorità dell’essere, a un’esperienza per conseguenza interiore e sovrana. Ma
una tale esperienza, nella quale esplode la morte di Dio, scopre, come suo segreto e sua luce, la sua
propria finitudine, il regno illimitato del Limite, il vuoto di questa rottura dove essa viene meno ed è
manchevole. […] La morte di Dio non è stata soltanto l’ “avvenimento” che ha suscitato nella
forma che noi le conosciamo l’esperienza contemporanea: essa ne disegna indefinitamente il grande
sostegno scheletrico”.
Ma, se è vero che Dio non c’è, non esiste, che significa “uccidere Dio”? A questa domanda
Foucault risponde dicendo che, probabilmente, vuol dire ucciderlo perché, al tempo stesso, non
esiste e affinché non esista. In altre parole, uccidere Dio per liberare l’esistenza da questa esistenza
che la limita, ma anche per ricondurla al limite che questa esistenza illimitata cancella; uccidere Dio
per ricondurlo a quel nulla che egli è. La morte di Dio, dice Foucault, non ci restituisce a un mondo
limitato e positivo, ma a un mondo che si snoda nell’esperienza del limite, si fa e si disfà
nell’eccesso che lo oltrepassa. Probabilmente, è proprio questo eccesso che scopre, legati a una
stessa esperienza, la sessualità e la morte di Dio. Un linguaggio rigoroso dice, a partire dalla
sessualità, non il segreto naturale dell’uomo, ma bensì che l’uomo è senza Dio. Questa è l’ultima
parola di Foucault riguardo il problema di Dio.
Concludo questa rassegna con un’opera che ha fatto parlare molto di sé anche se non contiene nulla
di particolarmente originale. Si tratta del Trattato di ateologia di Michel Onfray. L’autore è un
francese nato nel 1959, ha insegnato per un po’ filosofia al liceo e ha quindi fondato nel 2002 la
Università Popolare di Caen.
“Io non disprezzo i credenti – dice Onfray – ma temo che preferiscano rassicuranti finzioni infantili
alle crudeli certezze degli adulti”, insomma, essi vivono secondo un eterno infantilismo mentale
(Trattato di ateologia, p. 18. D’ora in poi citato con TA). Per cui egli sente da un lato compassione
per le vittime dell’inganno, dall’altro una collera violenza contro coloro che continuamente le
ingannano. Per combattere questo stato di cose, egli propone la ragione e la riflessione
correttamente guidate; l’oscurantismo, che è l’humus delle religioni - egli dice - si combatte con la
tradizione razionalista occidentale, con l’ateismo insomma, che è salute mentale recuperata (TA,
20). Anzi, più esattamente lo si combatte con una ateologia (termine mutuato da Bataille), che non
è altro che una ontologia materialista. Bisogna combattere, secondo Onfray, l’idea ebraico-cristiana
che la materia, la realtà e il mondo non esauriscono la totalità (TA,53). Bisogna combattere l’odio
dell’intelligenza, alla quale i monoteisti preferiscono l’obbedienza e la sottomissione; odio della
vita, accompagnato da un’indefettibile passione tanatofila; odio per questo mondo, incessantemente
valorizzato in confronto all’aldilà, unica riserva possibile di senso, di verità, di certezza e di
beatitudine; odio del corpo corruttibile, disprezzato in ogni più piccolo dettaglio; odio per le donne,
infine, per il sesso libero e liberato (TA, 65). La religione del Dio unico lavora all’odio verso sé, al
disprezzo del proprio corpo, al discredito dell’intelligenza, alla disistima della carne, alla
valorizzazione di tutto ciò che nega la soggettività dischiusa; proiettata contro gli altri, fomenta il
disprezzo, la cattiveria, l’intolleranza che a loro volta producono i razzismi, la xenofobia, il
colonialismo, le guerre, l’ingiustizia sociale (TA, 72-73). Decostruire i monoteismi, demistificare la
religione ebraico-cristiana- ma anche l’islam - , poi smontare la teocrazia, ecco tre cantieri
inaugurali per l’ateologia. In seguito occorrerà lavorare a un nuovo progetto etico per creare in
Occidente le condizioni di una vera morale postcristiana, in cui il corpo cessi di essere una
punizione, la terra una valle di lacrime, la vita una catastrofe, il piacere un peccato, le donne una
maledizione, l’intelligenza una presunzione, la voluttà una dannazione. A ciò si potrebbe poi
aggiungere una politica sedotta meno dalla pulsione di morte che dalla pulsione di vita (TA, 67). Si
deve andare oltre una laicità ancora troppo impregnata di ciò che essa vorrebbe combattere.
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Mettendo infatti tutte le religioni e la loro negazione su un piano di uguaglianza, come invita a fare
la laicità oggi trionfante, si avalla il relativismo: uguaglianza tra pensiero magico e pensiero
razionale, tra la favola, il mito e il discorso argomentato, tra il discorso taumaturgico e il pensiero
scientifico. Ma questo relativismo è – dice Onfray – dannoso. Ormai, col pretesto della laicità, tutti i
discorsi si equivalgono: l’errore e la verità, il vero e il falso, il serio e lo stravagante. Il mito e la
favola pesano quanto la scienza. Il sogno quanto la realtà. Ma non è affatto vero che i discorsi si
equivalgono: quelli della nevrosi, dell’isteria e del misticismo appartengono a un mondo diverso da
quello del positivismo. Nel momento in cui si profila uno scontro decisivo (ma aggiunge Onfray:
forse già perduto…) per difendere i valori dell’Illuminismo contro le affermazioni magiche, bisogna
promuovere una laicità postcristiana, ossia atea, militante e radicalmente opposta a quella che ci
obbliga a scegliere tra la religione ebraico-cristiana occidentale e l’Islam che la combatte. Ne
Bibbia né Corano. Esiste un solo mondo e ogni offerta di un oltremodo ci fa perdere l’uso e il
beneficio del solo mondo esistente. È questo il vero peccato mortale (TA, 196-198). E con queste
parole si conclude l’opera di Onfray.
BIBLIOGRAFIA MINIMA
Freud, Totem e tabù, Boringhieri
Freud, L’avvenire di un’illusione, Boringhieri
Sartre, Le parole, ed. Il Saggiatore
Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore
Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia
Merleau-Ponty, Senso e non senso, Garzanti
Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, Paravia
Merleau-Ponty, Segni, Bompiani
Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani
Camus, Lo straniero, Bompiani
Lévi-Strauss, L’uomo nudo, Il Saggiatore
Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore
Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli
Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli
Onfray, Trattato di ateologia, Fazi Editore
Un libretto interessante pubblicato parecchi anni fa che dà una panoramica degli atei francesi
contemporanei è quello a cura di C.Chabanis, Dio esiste? No, rispondono…, Mondadori Milano
1974, che raccoglie le interviste del giornalista con i maggiori rappresentanti atei della cultura
francese (da Henri Petit a Edgar Morin, da Roger Garaudy a Lévi Strauss ecc.)
Copyright by Ernesto Riva
www.filosofiaedintorni.net
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STORIA DELL’ATEISMO
a cura di Ernesto Riva
7. Gli atei nel Novecento in Italia: Rensi, Flores d’Arcais, Odifreddi, Eco, Giorello
Pensando alla storia precedente, l’Italia può vantare durante il Medioevo e il Rinascimento alcuni
pensatori chiaramente scettici, materialisti, naturalisti ma mai dichiaratamente atei. Né Biagio
Pelacani da Parma, né Giulio Cesare Vanini, né Giordano Bruno sono atei bensì anticristiani,
panteisti, materialisti.
Biagio Pelacani (metà XIV sec.) fu un seguace del determinismo astrologico e dell’eternità del
mondo; i suoi contributi sono soprattutto dedicati all’ottica. È stato uno “scienziato” e non si è mai
proclamato chiaramente ateo.
Riguardo Vanini (1585-1619), egli disse prima di morire: “Solo la Natura è Dio” (cfr. Opere, Lecce
1912, pp. CCXXVIII). È quindi un caso di naturalismo e non di ateismo. Ne L’anfiteatro della
eterna provvidenza, Vanini dice che non possiamo sapere che cosa sia Dio poiché “se lo sapessi
sarei Dio” (in Opere, cit., p. 25), ma non dice che non c’è Dio. Anzi, che vi sia una Provvidenza è
dimostrato da molte cose: ad es. dalla creazione del mondo, dal moto dei cieli, dai miracoli ecc. (cfr.
Opere, cit., le esercitazioni nn. 4,5,8). Ne Dei mirabili arcani della natura regina e dea dei mortali
Vanini ribadisce la sua religione della natura: “Ma in quale religione gli antichi filosofi credevano
che Dio fosse venerato con verità e santamente? …Nella sola religione della Natura: religione della
Natura stessa che è Dio (infatti è principio di movimento) scolpita nel cuore di tutti i mortali” (in
Opere, cit., p. 308).
Giordano Bruno (1548-1600) distingue nettamente l’ambio della scienza da quello della fede. Se
poi vogliamo ammettere una causa prima, questa non può essere che “la natura stessa o pur riluce
ne l’ambito e grembo di quella” (Dialoghi italiani, Firenze 1958, p. 229). La natura è Dio che è in
tutte le cose (Op.cit., p. 274). Bruno ripete spesso la sua idea dominante: Dio è tutto in tutte le cose,
“per quanto si comunica alli effetti della natura, ed è più intimo a quelli che la natura stessa; di
maniera che se lui non è la natura istessa, certo è la natura de la natura; ed è l’anima del mondo, se
non è l’anima istessa”(ibid., p. 783). La religiosità bruniana è cosmica, è amore per l’infinito, per
l’universo, per il tutto. Se vogliamo, non è certo cristianesimo anzi è violentemente anticlericale ma
non per questo è ateismo dichiarato.
E veniamo al Novecento. Ricordo, en passant, che la filosofia dominante in Italia nella prima metà
del Novecento fu l’idealismo di Croce e di Gentile. Entrambi non assunsero mai una posizione
anticristiana anzi, il loro idealismo fu da essi considerato come una sorta di baluardo nei confronti
della religione. Da interpretare certo “filosoficamente”, “idealisticamente” ma mai da criticare in
senso ateistico. L’esempio più eclatante fu quel famoso saggio di Croce intitolato Perché non
possiamo non dirci “cristiani”, che fece parecchio scalpore (da notare subito quel cristiani tra
virgolette). In esso sostiene che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani, e che questa
denominazione è semplice osservanza della verità. Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione
che l’umanità abbia mai compiuta. Tutte le altre rivoluzioni non sostengono il suo confronto. Ma
non solo: le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni non si possono pensare senza
la rivoluzione cristiana. Questo nuovo atteggiamento morale e questo nuovo concetto di Dio si
presentarono in parte ravvolti in miti (Croce considera tale la resurrezione ecc.) ma non perciò –
dice Croce - non furono sostanzialmente quelli che abbiamo in breve enunciati e che ognuno sente
risuonare dentro di sé quando pronunzia a sé stesso il nome di “cristiano”. Inoltre il cristianesimo è
stato in grado di adattarsi nel corso dei secoli alle vicende storiche (la chiesa si rinsanguò e si
riformò tacitamente più volte) e così è riuscito a dominare il corso della storia e a soddisfare le
sempre nuove esigenze e le nuove domande. Poi bisogna riconoscere che la polemica
antichiesastica si è sempre arrestata e ha taciuto nei confronti della figura di Gesù. Potrà aver
“sparato a zero” nei confronti della istituzione ma non così nei confronti di Cristo, “sentendo che
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l’offesa a lui sarebbe stata offesa a sé medesima, alle ragioni del suo ideale, al cuore del suo cuore”.
Perciò, conclude Croce, noi, nella vita morale e nel pensiero, ci sentiamo direttamente figli del
cristianesimo. E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre
ricorrente bisogno, oggi più che mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza. E il Dio cristiano
è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, e se noi non lo adoriamo più
come mistero, è perché sappiamo che sempre esso sarà mistero all’occhio della logica astratta e
intellettualistica, ma che limpida verità esso è all’occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi
“divina”, intendendola nel senso cristiano come quella alla quale l’uomo di continuo si eleva, e che,
di continuo congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo.
Queste sono dunque le conclusioni di Croce nei confronti del cristianesimo. Come si vede, nulla di
ateistico anche se il cristianesimo è reinterpretato in senso idealistico.
In Italia, agli inizi del secolo, usciva un’operetta del prof. Giuseppe Rensi (prima giornalista poi
docente universitario a Genova, 1871-1941), scettico e ateo dichiarato, dal titolo Apologia
dell’ateismo. L’Italia, nella sua storia, ha avuto pochissimi miscredenti ed ancor meno atei
dichiarati. Non può neppure essere paragonata, da questo punto di vista, alla Germania o alla
Francia, vere e proprie fucine del pensiero ateistico. Rensi è appunto uno di quei rarissimi casi di
filosofi italiani (e non solo) che si dichiarano apertamente atei e difendono la loro posizione.
Rensi è sicuro del proprio ateismo: anzi, negare l’ateismo è cadere nell’allucinazione, nella pazzia.
Questo si chiarisce pensando che, se il concetto di essere è definito come “ciò che si può vedere,
toccare, percepire”, allora Dio è relegato ovviamente nella sfera del non-essere, cioè egli, per
definizione, non può esistere. Rensi dice: “O Dio è limitato, circoscritto, conforme alle condizioni
formali dell’esperienza, oggetto fra oggetti, e non è più Dio. O è infinito ed allora cade fuori
dell’Essere, è non-Essere. O Essere e non-Dio, o Dio e non-Essere”. Non ci sono alternative:
secondo Rensi, che Dio non sia è una verità sullo stesso piano di 2+2=4. “Dio non è” è un giudizio
analitico – egli dice – come “il corpo è esteso”. Il predicato “non è” si ricava dal soggetto “Dio” con
la stessa certezza e irrecusabilità logica e quasi tautologica come “esteso” da “corpo”. Questa può
essere definita, dice ancora Rensi, come la prova ontologica dell’inesistenza di Dio. Il concetto di
Dio è quindi per Rensi identico al concetto del non-essere, del nulla. Ma in più, il concetto è in se
stesso contraddittorio ed assurdo. Infatti, dice Rensi, o Dio è fuori del tempo, ed è cosa immobile e
morta, che non fa e non vive; oppure è nel tempo ed allora abbiamo un Dio che cangia. O morto o
cangiante, in entrambi i casi non-Dio. Del resto, chiamare il mondo stesso Dio come fa il panteismo
è una tautologia insignificante; né giova chiamare Dio la forza, la natura naturans, l’evoluzione
creatrice: ciò è soffocare e far sparire Dio in energie naturali; neppure è valido considerare Dio un
essere impersonale: è una parola mal adoperata, una contradictio in adiectio. Nonostante tutto quel
che ha detto, paradossalmente, Rensi non esclude però l’ateismo dal campo della religione.
Vediamo in che senso: l’ateismo è secondo lui una sorta di religione, anzi la più pura e alta delle
religioni perché l’uomo si sente di fronte al Tutto nella sua immensa grandezza e ciò esclude ogni
egoismo. La religiosità predicata dal Rensi è di tipo cosmico e si può quindi fare a lui lo stesso
rimprovero che egli imputava ai cosiddetti “falsi dèi”: non è una vera religione. Gli diamo
comunque atto della coerenza con cui ha difeso il suo ateismo, cercando di renderlo puro e totale.
E oggi? Se si consulta il sito web della UAAR (Unione Atei Agnostici Razionalisti, www.uaar.it )
troviamo nomi come Margherita Hack (astronoma) , Piergiorgio Odifreddi (matematico e logico),
Danilo Mainardi (etologo), tutti intellettuali ma nessun filosofo. Come mai? Possibile che i nostri
filosofi “miscredenti” (penso ai vari Eco, Giorello, ecc.) non osino definirsi apertamente atei, tranne
pochissimi come Flores d’Arcais, ma preferiscano parlare di laicismo o usino altri termini?
Umberto Eco (1932-viv.) è forse l’intellettuale italiano più famoso, anche all’estero. Da un
cattolicesimo giovanile è passato ad una posizione di sereno ateismo, dichiarato più volte anche con
pungente ironia: “Sì, è vero, non credo più in Dio, ma forse Dio crede ancora in me. Dunque
34
manteniamo tra noi un certo rapporto” (citato in V. Messori, Inchiesta sul cristianesimo, p. 35).
Però non ama definirsi ateo bensì preferisce agnostico perché “non si lasciano le sacrestie dei
clericali per rifugiarsi in quelle degli atei”. È dunque un “cane sciolto”e, se proprio vogliamo
trovargli una collocazione, egli stesso parla di “illuminista bizantino”, nel senso che “il semplice
illuminista è uno che crede impossibile trovare una spiegazione globale del mondo. L’illuminista
bizantino sarebbe d’accordo, ma sospetta sempre che forse non è plausibile neppure quello
scetticismo: è uno che non esclude che anche quella rete, quel labirinto che è l’universo dei segni in
cui siamo immersi abbia una nascosta spiegazione”. “Sì, l’aspetto razionale non basta a spiegare la
mia storia – confessa Eco – ma non basta neppure quello biografico. Altri che hanno avuto le mie
vicende, la fede l’hanno conservata”. Eco confessa ancora la “tragicità della scommessa
sull’inesistenza di Dio: chi punta così deve produrre molto più amore del credente, per giustificare
la sua vita e la sua morte”. E comunque – dice ancora Eco – “sono convinto che alla fine, e anche
qui non so come, ce la caveremo”. Se per caso il Cristo come giudice c’è davvero e vuole
imbastirmi un processo, gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei: ho ragionato così e così e
sono arrivato alla conclusione che non avresti dovuto esserci tu ad aspettarmi. Credo che in questo
modo potremmo arrivare a patti ragionevoli. Se invece ragionevole non è, se è un Dio crudele e
vendicativo che ha già deciso in anticipo il mio destino, allora non voglio avere nulla a che fare con
lui. Mi mandi pure all’inferno dove almeno c’è gente per bene. Ma sono sicuro che, se Dio c’è, c’è
il dio di San Tommaso; e con lui si può ragionare. Abbiamo studiato sugli stessi libri. Siamo
entrambi ex-allievi della stessa università”.
Paolo Flores d’Arcais (!944-viv.) è uno dei pochissimi intellettuali italiani a proclamarsi ateo. È
fondatore e direttore della rivista Micromega, ricercatore presso l’università “La Sapienza” di
Roma, pubblicista; ha partecipato a dibattiti sui rapporti ragione e fede, laicità ecc. Il più famoso è
stato l’incontro moderato da Gad Lerner tra lui e l’allora cardinale Joseph Ratzinger (ora papa
Benedetto XVI) e pubblicato col titolo Dio esiste? . Altro testo importante, edito da Einaudi, è il suo
Etica senza fede. Comincerei proprio da quest’ultimo.
Già nelle prime righe della prefazione, Flores d’Arcais dichiara: “Carte in tavola. Questo è un libro
ateo…”. L’ateismo è per lui “il sobrio rifiuto di occultare la nostra ineludibile finitezza dietro
l’ipostasi suprema … o dietro il mistero” (cfr. Etica senza fede, Einaudi, Torino 1992, pp. VI e VII;
d’ora in poi citato come ESF). Mentre alienazione è proprio il rifiuto di accettare la nostra
condizione di finitezza (ESF, 236); d’altra parte, non vi è mistero da svelare: mistero è ormai solo il
nome che diamo al sapere che non troviamo il coraggio di sopportare. Non c’è significato da
scoprire negli enti, che con gli accadimenti esauriscono la realtà; ormai sappiamo la risposta alla
domanda sul senso: nulla. (ESF; 229). Di fronte a questa condizione, moltiplichiamo le strategie di
fuga: razionalizzazione, rimozione, consolazione, assoluzione (ESF, 230). Anzi, sembra che oggi
abbiano vinto o continuino a vincere le idolatrie. L’eclisse del sacro, cioè dell’obbedienza
all’alterità, non sarà mai tale fino a che non coinciderà con il tramonto delle ipostasi, cioè di ogni
idolatria. Il ritorno del sacro è la conseguenza della vera drammatica eclissi dei nostri tempi,
l’eclissi della democrazia, e ne rappresenta la forma virtuosa e presentabile di rimozione e
rassegnazione (ESF, 235). Dobbiamo poter lottare per le promesse di libertà e giustizia della
modernità; dobbiamo poter lottare per un’etica della coerenza rispetto alla finitezza del disincanto
(ESF, 237). Ogni concessione alle illibertà e alle illegalità sono distruzione di democrazia. La cura
per la democrazia esige preliminare cura per la critica, e infaticabile vigilanza contro l’assedio della
sragione dogmatico-fideistica, che dalla sua avrà sempre potentissime pulsioni (ESF, 238).
Nell’altro testo citato, Dio esiste?, Flores d’Arcais ritiene che il cattolicesimo non si ponga più il
problema della verità dei suoi contenuti. Oggi la Chiesa teme solo lo scetticismo consumistico,
l’ateismo pratico dell’edonismo, l’indifferenza sazia e disperata. E pensa perciò a convertire a
partire da emozioni e bisogni, non da ragioni. Il cattolicesimo crede di aver fatto definitivamente i
conti con l’ateismo solo perché li ha vittoriosamente conclusi con il comunismo. Ma questo non a
niente a che fare con la ragione scientifica moderna, con pensiero critico del disincanto (Dio esiste?,
35
p. 85; d’ora in poi citato con D). A parte quello, egli ripete le classiche obiezioni all’esistenza di
Dio e alla religione: il male, il peccato originale, “la fede come dado di senso per il brodo
dell’esistenza” (D,95). È Dio che va provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, poiché il finito c’è.
Se poi la religione è proposta come salvezza, si cade in una religione-psicologia, che dovrebbe
consolare ma si vede subito che sarebbe una risposta utilitaristica e pragmatica, “fin troppo umana”;
per cui una religione del senso (anziché della verità) sarebbe una religione non più di persone ma di
meri consumatori di senso (D, 97). E non ci si rifugi, dice Flores d’Arcais, nell’obiezione che la
religione sarebbe connaturata all’essere umano: visto che l’uomo può arrivare all’ateismo, allora
questa è la definitiva verità dell’Homo sapiens, mentre la religione costituirebbe solo il residuo più
sofisticato del primitivo animismo (D, 101). Egli conclude dicendo due cose: da una parte, solo a
partire da una fede che riconosca l’ateismo della ragione, e che si proclami e pratichi perciò “quia
absurdum”, è possibile un agire comune fra uomo di fede e uomo del disincanto, e anzi un comune
agire evangelico; dall’altro però – e questo lascia stupefatti dopo tutto quello che Flores d’Arcais ha
detto in precedenza – il praticare la solidarietà effettiva e il primato del tu implica un dovere di
sacrificarsi che riesce in genere solo se si ha fede in un Altro (inteso proprio come Dio padre); la
pietra d’inciampo per l’ateo è l’incapacità della carità (D, 110-111). Quest’ultima affermazione è
molto pesante e rimette in discussione la posizione dell’ateo: egli sarebbe comunque superato dal
punto di vista morale dal credente? La santità è la risposta all’ateismo?
Cito qui Piergiorgio Odifreddi (1950-viv.), docente universitario di matematica e logica, autore di
libri di divulgazione scientifica e di critica religiosa, perché nei siti web e nei libri spara a zero
contro il cristianesimo e la Chiesa cattolica ma non osa mai proclamare chiaramente il suo ateismo:
ed in effetti si tratta, nel suo caso, di un razionalismo oserei dire esacerbato!
Per quanto riguarda la figura di Gesù, egli è un seguace della via mitica: non sa se Gesù sia
realmente esistito (quindi conclude che non esiste) ed è dunque spiegabile come un mito.
Ne Il Vangelo secondo la Scienza, ritiene che “non solo non è razionale credere in Dio ma è
razionale non credervi”(d’ora in poi citato come VSS, 189). La credenza nella religione cattolica è
messa in discussione per due sue caratteristiche: la prima è il dogmatismo su cui si fonda, che la
rende incompatibile con la concezione della dignità umana conquistata politicamente attraverso le
rivoluzioni inglese, americana, francese e russa, e teorizzata filosoficamente da illuminismo,
romanticismo, marxismo ed esistenzialismo; la seconda è l’elenco dei dogmi che determinano la
fede cattolica: trinità, duplice natura di Cristo, purgatorio, transustanziazione, immacolata
concezione e assunzione, infallibilità pontificia. Odifreddi chiede: come si possono credere
affermazioni che non si possono capire? Il cattolicesimo si impicca dunque con la sua stessa corda:
escludendo dalla comunità ecclesiale coloro che non ne accettano tutti i dogmi, si autodefinisce
come una fede in cui nessuno può credere (VSS, 190-191). Alla domanda perché c’è questo
universo invece di un altro? Ovvero perché l’universo è strutturato nella maniera che conosciamo?
La risposta porta solo eventualmente al panteismo: Dio è il programma del mondo, più che il suo
programmatore (VSS, 206-209). Alla fine del percorso, riscopriamo, dice Odifreddi, quel che già
diceva Pitagora: la vera religione è la matematica, e il resto è superstizione. O, detto altrimenti, la
religione è la matematica dei poveri di spirito. Il che, secondo Odifreddi, permette di salvare il
salvabile, e cioè l’esperienza spirituale, a cui si dovrebbe ridurre la religione. L’esperienza
spirituale è qualcosa che non ha ovviamente nulla di soprannaturale e che consiste nella percezione
del livello dell’intelletto, dell’ordine implicato, dell’infinito assoluto, dell’atemporalità. Questa è la
soluzione proposta da Odifreddi per fondare una religione veritiera, su corretti fondamenti
scientifici e matematici (VSS, 211-215).
Concludo la rassegna con Giulio Giorello (1945-viv.), che insegna filosofia della scienza
all’Università di Milano, sulla cattedra che fu già di Ludovico Geymonat, suo maestro. Il suo
ateismo è sui generis, ammesso che lo si possa definire ateismo. La sua posizione rifiuta piuttosto
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ogni assolutismo, sia da parte religiosa che da parte atea: ecco perché non vuole essere di nessuna
chiesa, sia essa ecclesiastica o scientifica o storica o politica o atea.
Nel suo libro più recente, Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Egli critica in primo luogo il
concetto di relativismo, confuso – secondo Giorello – con una sorta di nichilismo o di appiattimento
della verità, mentre il contrario del relativismo è l’assolutismo. “Là dove abbiamo buone ragioni
per credere nella verità di una teoria o nella bontà di una norma, non possiamo escludere in linea di
principio che si possano trovare argomenti per teorie o norme rivali”. E ciò vale per la scienza,
come per il mito e la religione. Dal confronto (e dallo scontro) ognuno ha da guadagnare; viceversa,
far tacere anche uno solo è un danno, prima che per lui, per il resto della comunità. È superstizione
ritenere che per tale confronto siano necessari un linguaggio e un patrimonio di valori condivisi. E
queste non sono questioni puramente accademiche, bensì riguardano le ragioni del vivere civile e le
stesse condizioni dell’etica. Non riguarda tanto la abusata contrapposizione tra fede e ragione,
quanto quella tra fallibilismo e infallibilismo, tra una verità che non pretende di salvare neanche se
stessa e una verità che promette salvezza a chiunque vi si sottometta, tra una ragione che misura la
propria gratuità e finitezza senza aver nostalgia di un fondamento e una ragione che
nell’imposizione del fondamento trova il proprio sostegno e la propria giustificazione.
Essere di nessuna chiesa significa tollerare ogni chiesa, riconoscendone il diritto all’espressione
anche nel libero atto di prenderne le distanze. In questo senso, l’indifferenza è la migliore garanzia
di una piena fioritura umana. Sotto questo cielo, la vera minaccia alla libertà viene non dal Diavolo,
ma da terrene misure coercitive in cui si dispiega la tentazione dell’infallibilità. Con ciò – afferma
Giorello – non intendo dire che il vecchio Dio dei monoteismi sia tramontato: chi è di nessuna
chiesa non si ritrova neppure in una chiesa di atei. Non ho nulla – conclude Giorello – contro l’idea
che un qualche Dio prenda corpo nella storia e partecipi alle vicende degli uomini: sappia solo che
può anche rischiare di prendersi una coscia di toro sul volto, come capitò, stando all’Epopea
sumerica e accadica, alla dea Inanna (Istar), oltraggiata dall’eroe Enkidu, sodale di Gigamesh nella
ribellione: “Se tu aiuti me, io aiuto te. Chi può prevalere su di noi?”.
In un dibattito con Bruno Forte su ragione e fede, Giorello ricordava che già Carlo Maria Martini, il
famoso studioso e arcivescovo di Milano, diceva che il confine tra credente e non credente non
divide esteriormente la popolazione ma passa dentro ciascuno di noi. Se dunque dentro di sé ogni
credente riconosce un non credente e un non credente riconosce un credente, non c’è ragione per
erigere inutili steccati che separino le persone, le quali invece decidono liberamente di mettersi in
relazione pur nelle differenze delle loro convinzioni. Questo è il nucleo di una genuina società
pluralistica.
BIBLIOGRAFIA MINIMA
Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, ed. in volume, Bari, Laterza 1944 (in realtà
pubblicato nella rivista La Critica, 20 novembre 1942).
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Flores d’Arcais, Etica laica tra disincanto e rivincita di Dio, ed. Casini
Forte-Giorello, Dove fede e ragione si incontrano? , San Paolo
Giorello, Di nessuna Chiesa. La libertà del laico, Cortina editore
Messori, Inchiesta sul cristianesimo, SEI
Odifreddi, Il Vangelo secondo la scienza, Einaudi
Ratzinger-Flores d’Arcais, Dio esiste?, il fondaco di Micromega,
Rensi, Le aporie della religione, ed. Etna
Rensi, Apologia dell’ateismo, n.ed. La Fiaccola Ragusa 1967
Rensi, Filosofia dell’assurdo, Adelphi
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