SCHEDA 1 - IL MISTERO DI DIO (Ef 1) AI CREDENTI IN CRISTO (Ef 1,1-2) Lo scopo della Lettera è comunicare ai lettori il mistero di Cristo che l’autore, che si presenta come Paolo, dice di conoscere per grazia di Dio. “Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, ai santi che sono (in Efeso) e credenti in Cristo Gesù” (vs 1). Secondo lo stile epistolare ci vengono presentati il mittente, i destinatari della lettera e, nel versetto seguente, i saluti. Tradizionalmente si riteneva che Paolo avesse scritto questa lettera verso la fine della sua prigionia a Roma (anni 61-63). Per un insieme di argomentazioni (la particolare teologia della chiesa che appare in questo scritto, alcuni tratti della cristologia inediti rispetto alle altre lettere, il parallelismo con la Lettera ai Colossesi e la probabile dipendenza da essa) oggi molti studiosi ritengono che la Lettera agli Efesini appartenga alla scuola paolina e non direttamente a Paolo. A noi non interessa entrare nel dibattito, e comunque niente viene tolto al carattere di Parola ispirata e di pensiero paolino dello scritto. “Apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio”. È’ la carta d’identità di Paolo: in quanto apostolo/inviato egli si riconosce vincolato alla chiamata che Dio gli ha rivolto. Non sente, tuttavia, tale legame come una limitazione alla sua libertà personale o come una perdita di essa. Nella chiamata di Dio, Paolo ha sperimentato anzitutto la nuova possibilità, offerta da Cristo, di attuare la propria vita come servizio e di realizzarla completamente quale suo inviato. Il richiamo alla “volontà di Dio” indica che l’autorità di Paolo non è autoreferenziale, ma fa affidamento su Dio stesso. “Ai santi che sono (in Efeso) e credenti in Cristo Gesù”. L’inciso “in Efeso ” manca in alcuni importanti manoscritti antichi ed è ignorato anche da molti scrittori greci, a cominciare dal grande Origene. Questa assenza ha fatto ipotizzare che si tratti di una “lettera circolare”, che doveva essere letta dalle varie chiese dell’Asia. Ai cristiani sono riconosciute due qualità: la santità (santi) e la fede (credenti). Entrambe sono possibili in Cristo; Lui è il “luogo figurato” dove il credente cresce nella santità e nella fede. Con l’aggettivo “santo” Paolo vuole sottolineare che i fedeli partecipano della vita di Dio, il Santo per eccellenza. Etimologicamente “santo” significa “separato”, ma questo non vuol dire che il credente sia un extraterrestre; indica, invece, che egli appartiene già da ora alla speciale famiglia di Dio. La santità di cui Paolo parla non è una qualità morale, come se Paolo scrivesse solo a coloro che tra gli efesini sono già santi, ma indica la dignità della persona. I cristiani sono inoltre chiamati “credenti”. Con questo termine si esprime sia l’idea di fedeltà a qualcuno, sia quella di affidamento: coloro che sono in Cristo sono credenti in lui e chiamati alla fedeltà. “Grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo ” (vs 2). È un saluto che è anche un augurio e un’assicurazione di benedizione (la grazia di Dio che produce la pace). Paolo combina qui il saluto giudaico (shalom) e quello greco (chaire). Invece di “rallegrarsi” o “rallegrati", tipici dell’uso greco, Paolo usa il sostantivo “grazia” per sottolineare il carattere oggettivo della benevolenza, del favore e della bontà di Dio: tutto questo è già presente, si tratta di accoglierlo. L’uomo è liberato dall’affanno della ricerca, ma non dall’impegno di fare proprio il dono ricevuto. Paolo non ha inventato il termine “grazia”, ma l’ha adottato dandogli rilievo nei suoi saluti e indicando con esso che i cristiani si mettono sotto la custodia di Dio. Non lo omette mai nell’inizio delle sue lettere e lo accompagna con “pace” e “misericordia” nelle Lettere Pastorali. Il sostantivo “pace” (in ebraico shalom) nell’Antico Testamento esprime soprattutto il benessere materiale, ma, dal momento che il benessere è un dono di Dio, può avere anche il senso di “relazione amicale con Dio”. Aggiunto a “grazia” nel saluto, “pace” deve essere preso nel suo senso più largo. Se “grazia” è il favore e la protezione divina, “pace” è la somma dei beni che l’uomo riceve: benessere, prosperità spirituale totale, gioia dei doni divini; è la felicità del cristiano. La grazia e la pace provengono da Dio nostro Padre, quale sorgente di tutte le cose, e dal Signore Gesù Cristo, il quale, mediante la sua azione, le ha recate entrambe agli uomini. AL TERMINE DELLA LETTURA 1. Ef 1,1 - “Apostolo di Cristo per volontà di Dio”. L’autore ricorda il suo essere “uomo mandato da Dio” non per porsi in condizione di privilegiato bensì per presentare la sua condizione, che gli permette di scrivere 1 con autorità il messaggio destinato alla chiesa di Efeso. Siamo consapevoli di essere “apostoli”, cioè inviati da Dio? A chi ci sentiamo inviati? Riusciamo a essere portatori del messaggio evangelico soprattutto negli ambienti di lavoro? Rischiamo anche noi di confondere apostolato e proselitismo? 2. Ef 1,1 -“Apostolo di Cristo Gesù. L’apostolo deriva la propria identità da Cristo, è interamente vincolato nel proprio essere a lui e dipende da lui come sua proprietà. Non deve quindi fare da schermo al vero e unico Signore della chiesa. Il cristianesimo è “la religione di una persona, cioè Gesù Cristo” (De Lubac). Quanto la catechesi e la predicazione sono originate e sostenute da un rapporto personale con Cristo? Quali le maggiori difficoltà a cogliere questa centralità cristologica? BENEDETTI IN CRISTO GESÙ (Ef 1,3-14) Anche se nelle nostre traduzioni è reso con più proposizioni principali, questo inno è costruito grammaticalmente parlando - da un solo periodo: una frase lunga, di difficile analisi, dove ogni pensiero si aggancia a quello che lo precede ed è a sua volta ulteriormente specificato da ciò che segue. L’inno inizia, infatti, in Ef 1,3 con una frase principale (una formula di benedizione) e si prolunga in una serie ininterrotta di participi (vv 3b.5.9), di proposizioni relative (vv 7.8.11.13.14), causali (v 4) e infinitive finali (vv 4b.l2), che danno unità e compattezza alla composizione poetica. Possiamo così riassumere questa benedizione: affermazione principale: “benedetto è Dio che ci ha benedetto” (v 3) motivazione: “perché ci ha scelti” (v 4) “ci ha gratificato” (v 6) “ci ha sovrabbondato con la sua grazia in Cristo” (v 8) sviluppo del tema del dono avvenuto in Cristo “nel quale anche siamo stati scelti/messi a parte... essere a lode della sua gloria” (vv 11-12) ad “e nel quale anche voi... foste segnati con lo Spirito santo per il riscatto di ciò che Gli appartiene a lode della sua gloria” (vv 13-14 Dal punto di vista della forma Ef 1,3-14 è certamente una “eulogia” a Dio, cioè una proclamazione di lode per il piano di salvezza stabilito dalla benevolenza del Padre, realizzato dalla mediazione del Cristo e portato a compimento in noi dall’azione dello Spirito. Sia per la forma che per il contenuto si ispira a forme inniche dell’Antico Testamento (cfr. Sai 31,22; 144,1; Tb 13,1 ecc.) e del giudaismo, anzi, la benedizione cristiana ha la sua origine proprio dalla berakah giudaica. Nel Nuovo Testamento solo due inni incominciano con la formula “Benedetto Dio”: il Benedictus (Lc 1,68) e il nostro inno di Ef 1,3-14. Nonostante questi riferimenti formali, bisogna riconoscere che Ef 1,3-14 non ha la forma propria di un Salmo, alla cui forma letteraria si rifà certamente il Benedictus, ma quella delle composizioni di “prosa ritmata” che si incontrano nell’epistolario paolino (Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Ef 2,14-18; Rom 8,31-39) e nel Prologo di Giovanni (Gv 1,1- 18). In Ef 1,3-14, infatti, si riscontrano gli stessi fenomeni già registrati negli altri inni paolini: ritmo incalzante delle frasi, vocabolario piuttosto ricercato, parallelismo dei membri della frase, assonanze verbali, scarso uso delle parti- celle di connessione, impiego dei participi per creare collegamenti (l,3b; 1,5; 1,9; 1,11; 1,13), ripetizione di formule come “ secondo il beneplacito della sua volontà” (1,5; 1,7; l,9)o “a lode della sua gloria ” (1,6; 1,12; 1,14) e il ripetersi martellante - anche se variato nelle forme pronominali di “in lui” e “nel quale ” - della formula molto cara a Paolo “in Cristo” (1,3.4.5.6.7.9.10-11.12.13). E opportuno evidenziare la strutturazione del testo: A. Ef 1,3: introduzione 1°) v 3a Dio oggetto della nostra benedizione Benedetto (è) il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, 2°) v 3b Dio soggetto della nostra benedizione che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo B. Ef 1,4-6: Eletti per essere santi e figli 1°) v 4a: il motivo della eulogia: l’elezione poiché ci ha scelto in lui prima della fondazione del mondo, 2°) vv 4b-5: scelti per la santità e la figliolanza per essere santi e senza macchia davanti a Lui nell’amore predestinandoci alla figliolanza adottiva per opera di Gesù Cristo in vista di lui/per sé, secondo il beneplacito della sua volontà, 3°) v 6: il fine dell’elezione a lode gloriosa (lett. di gloria) della sua grazia con la quale ci ha gratificato nell’Amato. C. Ef 1,7-10: I benefici apportati da Cristo 1°) vv 7-8a: la redenzione nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione delle cadute, secondo la ricchezza della sua grazia, che ha fatto sovrabbondare in noi con totale sapienza e senno, 2°) vv 8b-10: la conoscenza del mistero facendoci conoscere il mistero della sua volontà secondo il suo beneplacito, che prestabilì in lui per amministrare la pienezza dei tempi ossia raccogliere sotto un solo capo tutte le cose nel Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra. D. Ef 1,11-13: giudei e pagani segnati con lo Spirito per la salvezza 1°) vv 11-12: i giudei scelti per primi in Cristo, nel quale anche siamo stati fatti eredi, essendo stati predestinati - secondo il proposito di colui che opera potentemente secondo la decisione della sua volontàad essere a lode della sua gloria (a lode della sua gloria), i primi ad aver sperato nel Cristo. 2°) v 13: i pagani segnati con lo Spirito della promessa nel quale anche voi, avendo ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, in lui avendo anche creduto, foste segnati con lo Spirito santo della promessa, E. Ef 1,14: Conclusione: lo Spirito, caparra della nostra eredità che è pegno della nostra eredità per il riscatto di ciò che gli appartiene a lode della sua gloria. Introduzione (v.3) “Benedetto (è) il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo” (v 3). La lode di Dio e del suo Nome era l’impegno principale del vero e pio israelita. Paolo non invita semplicemente a benedire Dio, ma a riconoscere che Lui è già benedetto per il fatto che ci ha benedetti in Cristo. Si tratta di un indicativo presente, “è benedetto”; esso esprime, infatti, una proclamazione di lode nei riguardi di Dio. Il termine greco include l’idea di lode, di gloria, di onore da dover rendere a Dio. Dato il contesto di benedizione comunitaria, inoltre, esso racchiude in sé anche il concetto di “proclamare”, “esaltare”, “magnificare” Dio per i prodigi del suo amore. In breve, l’uomo benedice Dio in quanto riconosce che è da lui benedetto e per questo magnifica le sue opere compiute “in Gesù Cristo Signore nostro ”. Mentre i saggi d’Israele trovavano soprattutto nella creazione la ragione della lode e dell’obbedienza a Dio, Paolo, presentandoci Dio nella sua realtà di “Padre di Gesù Cristo”, si riallaccia alla teologia della storia e della rivelazione: l’invisibile, che si era già manifestato ai padri con fatti e parole, si è reso visibile nel suo Figlio Gesù. Si manifesta così come il Dio dell’incarnazione e della redenzione. Nell’espressione “Signore nostro Gesù Cristo” l’aggettivo possessivo mostra che Gesù non è presentato solo nel suo rapporto intimo con il Padre, ma anche nel suo rapporto con gli uomini; in quanto “nostro”, Gesù ci comunica il dono della figliolanza divina e della salvezza. “Ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo”. Il Padre non solo è “benedetto ” (oggetto della benedizione), ma è anche “colui che benedice” (soggetto della benedizione). Nel primo caso il termine “benedire” è equivalente a “lodare, celebrare, magnificare”, nel secondo assume il senso di “concedere abbondanza di doni”, “fare benevolenza” e concretamente nel nostro testo “elargire il dono della salvezza”. Tutto questo è avvenuto in un momento preciso: nel sacrificio cruento di Cristo (1,10), per mezzo del quale abbiamo avuto parte alla sorte dei santi (1,7.11); nella fede, con cui abbiamo avuto parte alla “parola della verità”, al “vangelo della salvezza” (1,13); nel battesimo, quando siamo stati segnati con lo Spirito (1,13-14) per ricevere la redenzione (1,7.14), la remissione dei peccati (1,7), l’adozione a figli (1,5.14) e l’abbondanza della grazia (1,7-8). Non si tratta di tre momenti differenti, ma di tre aspetti diversi dell’unica benedizione divina: la morte cruenta di Cristo è l’aspetto oggettivo della benedizione che il Padre opera a nostro favore; la fede è l’aspetto esperienziale-individuale con cui il fedele si unisce a Cristo e riceve la benedizione del Padre; il battesimo è l’aspetto esperienzialeecclesiale con cui il cristiano sperimenta, segnato dallo Spirito, i benefici della benedizione del Padre. In base a ciò è evidente che il pronome “noi” si riferisce a tutti i cristiani che, nella fede e nel battesimo, sono divenuti oggetto della benedizione, cioè della benevolenza della volontà del Padre (1,5.7.9.11). La benedizione del Padre che si compie nel Cristo è ulteriormente descritta come “spirituale” e “nei cieli”. Con l’aggettivo “spirituale” siamo invitati a pensare all’intervento benevolo di Dio in un ordine che trascende i doni materiali e soprattutto all’opera dello Spirito in noi quale pienezza del dono del Padre. L’espressione “nei cieli”, tipica di questa lettera (ricorre ben cinque volte: 1,3.20; 2,6; 3,10; 6,12), indica in senso locale quello che è detto subito dopo in termini personali con “in Cristo”; probabilmente si vuole indicare così la realtà della resurrezione: Cristo è nei cieli alla destra del Padre, la sua vittoria sulla morte è apportatrice di ogni benedizione per l’uomo. AL TERMINE DELLA LETTURA 1. Ef 1,3. - La benedizione è un genere letterario ricorrente sia nel Primo che nel Nuovo Testamento (1Cr 29,10-13; Lc 1,68-79; Lc 1,46-55; 2Cor 1,3; 1Pt 1,3-12). Con essa si loda il Signore per le meraviglie da lui compiute nella storia del popolo e di ciascuno. La benedizione che sale dall’uomo non è altro che il ritorno al Padre della benedizione con la quale egli ci benedice. Quanto questo linguaggio e questo atteggiamento di lode affiora spontaneamente nella nostra esistenza quotidiana? Per quali motivi si leva a Dio la nostra preghiera di benedizione? Solo per quello che egli compie nella nostra esistenza o anche per la sua azione nelle vicende dell’intera umanità? Quanto benediciamo Dio per tutto l’amore che continua a donarci nonostante i nostri limiti e le nostre resistenze? 2. Ef 1,3. - “Origine e fonte di benedizione è Dio, benedetto nei secoli, che è al di sopra di tutte le cose; lui solo è buono e ha fatto ogni cosa, per colmare di benedizione tutte le sue creature” (dal Benedizionale). Ci sentiamo benedetti da Dio? Riusciamo a evitare il rischio di considerarci benedetti solo quando attorno a noi regnano gioia, serenità, salute? Secondo Gen 31,30 Giacobbe viene benedetto allo Iabboq dopo una lotta che lo lascia ferito. Che cosa vuol dire questo? 3. Ef 1,3. - Tutto il brano è ritmato dalla formula “in Cristo”, “in lui”. Gesù è l’unico mediatore (Eb 12,24) attraverso il quale Dio ci rende suoi figli, suoi eredi; uniti a Cristo riceviamo salvezza e realizzazione piena. La nostra fede è incentrata in Cristo? Abbiamo coscienza del legame tra la storia di Gesù e il destino di salvezza di tutti gli uomini, oppure pensiamo la missione del Figlio come un evento lontano, privo di implicazioni con la nostra esistenza? La storia di Gesù è per noi solo un esempio da imitare. 4. Ef 1,3. - “In Cristo”. All’incorporazione in Cristo come centro della vita cristiana ci ha richiamati con forza Giovanni Paolo II, dall’inizio del suo pontificato (enciclica “Redemptor hominis”) al Giubileo (con il suo motto “Christus heri, hodie, semper”), fino a oggi (Novo Millennio Ineunte), che presenta un’ampia sezione cristologica. Come possiamo tradurre nella vita ordinaria delle nostre comunità l’appello a ritornare a Cristo? Eletti per essere santi e figli (vv 4-6) “Poiché ci ha scelto in lui prima della fondazione del mondo” (v 4a). Paolo ci presenta qui il fondamento e la causa della benedizione. Insieme a tutti gli uomini si sente desiderato, pensato, voluto da Dio: la vita dell’uomo non è dovuta a un capriccio, ma a un atto libero e gratuito di amore che dura da sempre. Richiamandosi a “prima della fondazione del mondo”, egli vuole indicare in termini temporali-spaziali ciò che è fuori del tempo: Dio da sempre ha voluto in se stesso scegliere, chiamare all’esistenza. Il tema dell’elezione non è introdotto per contrapporre la volontà pre-destinatrice di Dio alla libertà dell’uomo, ma per aprire l’uomo alla risposta di amore di fronte a questo immenso dono di Dio. Questo tema, specifico della teologia del popolo ebraico che da Dio si è sentito scelto (basta pensare ad Is 41,9: “mio servo tu sei, Israele, io ti eletto e non ti ho rigettato”), giunge qui a uno sviluppo ecclesiologico: nel Nuovo Testamento l’elezione appartiene “non solo ai discendenti di Abramo secondo la carne ”, ma a tutti, in quanto tutti sono chiamati a far parte dell’unico popolo dei salvati. Il verbo “ci ha scelto” è usato nella forma del medio e, in sintonia con la teologia veterotestamentaria dell’elezione, può essere reso con “scelgo qualcuno per me ”, come descrive il versetto seguente. “Per essere santi e senza macchia davanti a Lui nell’amore, predestinandoci alla figliolanza adottiva per opera di Gesù Cristo in vista di lui/per sé, secondo il beneplacito della sua volontà ” (vv 4b-5). Il fine della elezione è la comunione; i credenti sono stati scelti per poter stare davanti a Dio. Viene così espressa la dignità della relazione e la sua profondità. Il credente non teme il guardarsi “faccia a faccia” con Dio, sa di poterlo contemplare e non morire. Come un dono gradito a Dio veniva offerto sull’altare alla presenza della gloria divina e veniva da lui accolto, così i credenti, mediante l’elezione, sono santificati, passano al livello divino e divengono la vera offerta, senza macchia, da Lui ben accetta. Mediante gli aggettivi “santo” e “senza macchia”, che sono propri del linguaggio cultuale, si esprime la sacralità della vita del credente e il gradimento da parte di Dio. Cristo ha offerto se stesso a Dio “senza macchia” (Eb 9,14); così anche la vita del cristiano deve essere culto spirituale, senza macchia davanti a Dio (cfr. Rom 12). Tutto questo non può avvenire se non “nell’amore”, perché solo chi ama può tendere all’offerta santificante di se stesso. “Predestinandoci alla figliolanza adottiva per opera di Gesù Cristo in vista di lui/per sé, secondo il beneplacito della sua volontà”. L’idea della predestinazione riprende quella della elezione e serve a rassicurare i credenti quanto alla loro dignità. L’accento non è posto sull’esclusione di qualcuno, ma sull’inclusione di tutti nell’attenzione particolare del cuore di Dio. Come il concetto di predestinazione è un modo di esprimere l’elezione, così la figliolanza adottiva è un modo per dire “essere santi e senza macchia davanti a Lui”. La nostra elezione alla santità coincide con il “nostro essere figli” e si realizza nella nostra condotta filiale. Per esprimere la condizione del credente, Paolo usa qui il termine greco “hyiothesia” (figliolanza adottiva), usato in tutta la Bibbia greca solo da Paolo (Gal 4,5; Rom 8,15.23; Ef 1,5). Anche se il termine è mutuato dal lessico giuridico greco-romano, la “filiazione” in senso paolino è sempre “naturale”; non consiste, infatti, in un semplice atto giuridico da parte di Dio, ma nel suo crearci figli nell’ordine spirituale, glorificandoci realmente. Con questo sostantivo Paolo vuole esprimere, 5 quindi, la gratuità del dono e non la sua efficacia, la sua realtà e non un diritto astratto. La nuova condizione esistenziale in cui il credente è immesso per iniziativa di Dio è realizzata storicamente da Dio mediante il Cristo (“per opera di Gesù Cristo”), per cui il credente è “figlio nel Figlio”. Viene così presentato uno dei tratti specifici della teologia paolina, la mediazione di Cristo nella nostra predestinazione a figli. La locuzione “In vista di lui/per sé” esprime un senso di finalità o scopo. E difficile dire se “Lui” indichi Cristo, come causa esemplare ultima (cfr. Col l,16f.20) verso cui si indirizza la nostra figliolanza per avere la sua pienezza di gloria (cfr. Rom 8,29; Fil 3,21; Ef 4,13-16), oppure il Padre, che ci ha resi figli per sé, per la lode gloriosa che a lui noi tutti dobbiamo (Ef 1,6.12.14). Quest’ultima possibilità sembra più probabile, dato che nel contesto il soggetto è Dio e che tutto il piano della salvezza si compie “a lode della sua gloria”. Con l’espressione “secondo il beneplacito della sua volontà”, singolare anche nella sua costruzione, si sottolinea fortemente la corrispondenza tra piano salvifico del Padre e predestinazione a figli mediante l’opera di Cristo. La volontà del Padre è volontà di benevolenza e di salvezza; essa è la ragione di fondo e la norma suprema, la fonte unica nella quale tutto è ricapitolato e la ragione pre-temporale da cui tutto scaturisce. “A lode gloriosa (lett. di gloria) della sua grazia con la quale ci ha gratificato nell’Amato” (v 6). Con questa affermazione viene completata la descrizione della finalità della elezione/predestinazione. L’espressione “a lode gloriosa” ricorre altre due volte all’interno di questo inno (vv 12.14) e ciò sottolinea la sua importanza. Per l’uomo biblico la “gloria” è l’attributo che rappresenta nel modo più avvincente la grandezza divina, inaccessibile e insopportabile agli occhi come un sole abbagliante. Il primo dovere del credente è perciò glorificare Dio. La Bibbia è piena di inni di lode e nel Nuovo Testamento le dossologie e le esortazioni ad agire per la gloria di Dio rispondono allo stesso scopo. Molto spesso nella Scrittura è detto che le azioni di Dio hanno manifestato la sua gloria oppure che egli ha agito per la sua gloria. Su questa stessa linea sono le affermazioni di Paolo: “Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio” (Rom 15,7); “il Padre dà secondo la ricchezza della sua gloria” (Ef 3,16). Così pure le predestinazioni manifestano la ricchezza di questa gloria (Rom 9,22-23). “Della sua grazia con la quale ci ha gratificato fin greco echaritôsen) nell’Amato”. I principi che guidano tutti i passi di Dio riguardo alle sue creature sono, oltre la sua volontà elettiva, la sua grazia e il suo amore. Soprattutto in questo interviene la mediazione di Cristo, dal momento che questa grazia divina è destinata e data in Lui, 1’“Amato”; egli è il primo che ha beneficiato pienamente dell’amore di Dio e da lui questo amore si diffonde su di noi. I benefici divini mirano a far magnificare la grazia e l’amore di Dio, datoci da Gesù Cristo, per trascinarci nella stessa corrente. Bisogna sottolineare che la grazia con cui Dio ci ha amato nell’Amato non comporta solo un “essere guardati con favore”, ma un venir trasformati mediante questo favore o grazia. Questo è ben sottolineato dal verbo greco qui impiegato - charitoô - che come tutti i verbi che terminano in -oô indicano la trasformazione dell’oggetto. Quello che è avvenuto per Maria, che è stata resa “graziosa” (piena di grazia) dallo sguardo di Dio (in greco kecharitômenê sou), ora è dato a tutti gli uomini per l’opera della grazia divina nell’Amato Figlio. AL TERMINE DELLA LETTURA 1. Ef 1,4. - “Dio ci ha scelti per essere santi e irreprensibili davanti a lui nell ’amore”. Tutti gli uomini sono chiamati da Dio alla santità, alla comunione con lui nell’amore (cfr. Lumen Gentium cap. V). Siamo abituati a identificare la santità con la perfezione morale, ma la santità è prima di tutto partecipazione alla santità di Dio, per suo dono. In che modo rispondiamo alla chiamata alla santità (cfr. Mt 5,48)? Siamo consapevoli che questa chiamata è per tutti? Siamo ancora condizionati da una visione del “santo” come “eroe morale”? Quanta importanza attribuiamo all’iniziativa di Dio e quanta al nostro impegno etico? Quali esempi di santità sentiamo più vicini? 2. Ef 1,4. - “Santi e immacolati nell’amore”. La via del matrimonio è via di santità. Siamo consapevoli che il Signore ci ha scelti e chiamati a servirlo nella via della sponsalità? Come abbiamo scoperto questo disegno di amore su di noi? Riusciamo a percepire la grandezza della nostra vocazione matrimoniale? 3. Ef 1,4 “Ci ha predestinati”. “La predestinazione è un’espressione del vangelo e non la strettoia nella quale il vangelo si perde e naufraga. Proclama che Dio è salvatore. La predestinazione è quindi una determinazione propria dell’eterna sapienza e dell’eterno volere con cui Dio sceglie la nostra salvezza in Cristo Gesù” (G. Colzani). Che cosa pensiamo quando sentiamo parlare di predestinazione? Quali sono le parole del vangelo che secondo noi illuminano il senso della predestinazione? Sappiamo cogliere che l’eterna volontà salvifica di Dio è preveniente, che ci ama prima di ogni realtà ed è fondamento della nostra elezione, ma esige la nostra libera adesione? Per comprendere meglio questo tema leggiamo Rom 8,29 e il Catechismo degli adulti. La verità vi farà liberi", nn. 352-356. 4. Ef 1,4 “A essere suoi figli adottivi". I cristiani sono “figli nel Figlio”, figli adottivi nel Figlio Cristo Gesù, per dono di Dio. Nella vita quotidiana che significato ha per noi essere “figli di Dio”? Siamo coscienti di questa nostra dignità e operiamo di conseguenza? 5. Ef 1,6. - “A lode della gloria della sua grazia ”. Queste parole ricorrono più volte nel brano per esprimere un’idea di fondo: gli uomini, con la loro storia, celebrano (la lode) la gloria di Dio in quanto manifestano la sua amorosa benevolenza (la grazia). Questa gloria viene restituita a Dio attraverso il canto di lode del popolo che egli si è scelto. La nostra vita è vissuta a lode e gloria di Dio? Come popolo di Dio, quale spazio diamo nella nostra vita e nelle nostre celebrazioni liturgiche alla sua glorificazione e alla sua lode? 6. Ef 1,4-6. - La Chiesa è parte dell’umanità, vive in una storia già segnata dall’azione salvifica di Dio in Cristo e nello Spirito. Come vivono oggi le nostre comunità questo essere parte del mondo, della storia, della società? Quali chiusure sono da superare? I benefici apportati da Cristo (vv 7-10) “Nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione delle cadute, secondo la ricchezza della sua grazia” (v 7). Nell’Amato il progetto divino si fa storia e si attua anzitutto quale redenzione/riscatto (in greco apolytrôsis) dalla alienazione del peccato. Usando il linguaggio giuridicocultuale del riscatto degli schiavi la condizione degli uomini viene presentata come situazione di chi non appartiene più a se stesso. Nella gratuità e nell’abbondanza del suo amore Cristo offre il suo sangue, la sua vita. Il linguaggio usato è figurato: non c’era bisogno di pagare un riscatto a qualcuno, ma la morte di Cristo, l’offerta del suo sangue, si è resa necessaria nella dinamica interna dell’amore di Dio che ha messo fine all’impotenza dell’uomo. È difficile vedere, come a volte è stato affermato, il senso del pagamento e del riscatto nel senso reale, in quanto il popolo ebraico è proprietà di JHWH; i nemici che se ne sono impossessati contro Dio non possono avere nessuna contropartita, perché l’azione liberatrice di JHWH rivendica il suo diritto di sovranità sul popolo. Siamo, insomma, nell’immagine biblica del “redentore” (in ebraico gô’el), che può essere applicata anche a JHWH. Il sangue di Cristo versato sulla croce per noi ci fa capire che “la ricchezza della grazia” divina è realmente infinita, al di là dell’immaginabile: la croce, infatti, ci presenta la follia di un amore indomito che risponde al rifiuto con il dono totale della vita, senza alcuna riserva. “[La grazia] che Egli ha fatto sovrabbondare in noi con totale sapienza e senno, facendoci conoscere il mistero della sua volontà secondo il suo beneplacito, che prestabilì in lui ” (vv 8-9). Vengono riaffermati i due motivi delle decisioni divine: il beneplacito della sua volontà e la sua grazia sovrabbondante. Uno degli effetti di questa grazia è l’intelligenza soprannaturale, caratteristica della fede cristiana; così comprendiamo meglio il mistero della redenzione compiuta: una realtà attuale posseduta dai cristiani. Essa è il compimento del piano con il quale Dio “dispone la sua casa terrena”, la sua “economia”. Dio attendeva che i tempi fossero compiuti (Gal 4,4; Mc 1,15; 1Cor 10,11) per mettere in esecuzione il suo disegno. Quest’ultimo è indicato con due espressioni: la prima - “la redenzione con il sangue di Cristo, la remissione dei peccati” - costituisce uno dei frutti della morte sacrificale di Cristo; con la seconda - la “ricapitolazione” di tutte le creature, sia terrene che celesti - si afferma l’effetto finale. “Con totale sapienza e senno”. L’abbondanza della bontà divina riversata su di noi comporta una reazione adeguata, anch’essa dono di Dio, qui espressa come sapienza, prudenza, saggezza pratica. La benevolenza di Dio riversa sul cristiano l’abbondanza della “sapienza”, per cui egli, grazie a una conoscenza propria prodotta dalla fede, potrà rendersi conto di tutti i problemi della sua vita religiosa e comprenderne le implicazioni. Avrà poi anche quella “saggezza pratica” e quel discernimento che gli 7 permettono un’applicazione concreta. Dio, quindi, non solo perdona, ma anche illumina, con la comprensione del suo piano, coloro che ha riconciliato a sé come figli. “Facendoci conoscere il mistero della sua volontà secondo il suo beneplacito, che prestabilì in lui”. Redenzione, sapienza e, in genere, tutti i doni della benedizione divina rientrano nel quadro del “mistero”, cioè del piano di Dio, da lui voluto, escogitato e vagheggiato, in conformità a ciò che Lui è. Il termine greco “mysterion”, con riferimento alle pratiche misteriche, specialmente a quelle di Cabiri e di Eleusi, significava originariamente “luogo del segreto”. Nel Nuovo Testamento ha il senso fondamentale di una verità-valore rivelata da Dio agli uomini, un “segreto-aperto”. Il contesto indica poi le diverse forme e sfumature che determinano ulteriormente il significato di base. La letteratura apocalittica dell’Antico Testamento canonica (Daniele) e apocrifa (Apocalisse di Baruch, IV Libro di Esdra) e i testi di Qumran ci offrono delle precisazioni interessanti: il “mysterion ” è un segreto rivelato che riguarda la storia e gli eventi umani. Esso è definito “rivelato” e “contenuto” nelle parole dei profeti ed è particolarmente familiare a chi è destinatario di una rivelazione speciale di Dio. In Paolo “mysterion” assume proprio questi significati: è il piano di Dio che riguarda la storia. Dal momento che Paolo vede tutta la storia come uno sviluppo del progetto divino che porta alla realizzazione completa di Cristo-Chiesa, il “mysterion” viene da lui identificato con Cristo stesso. Il “mysterion ” nasce quasi nell’intimo stesso di Dio, come l’intuizione in un artista; Dio ne è come affascinato e ne fa oggetto della sua volontà esecutiva. “Per amministrare (in greco oikonomia) la pienezza dei tempi, ossia ricapitolare/raccogliere sotto un capo tutte le cose nel Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (v 10). Come la conduzione di una casa ha bisogno di un’amministrazione (è questo il senso etimologico del sostantivo greco “oiko-nomia ”), così pure il piano salvifico di Dio richiede di essere amministrato. Dio quindi stabilisce gli eventi e coordina tempi e modi che finalizzano la storia alla pienezza della signoria di Cristo. “Pienezza dei tempi" (in greco “pleroma ton kairon”): il vocabolo usato per designare il tempo - in greco “kairos - non si riferisce a un normale periodo di tempo (in tal senso sarebbe stato usato il greco “chronos”) ma designa il “tempo giusto, determinato e favorevole”, tempo privilegiato in ordine alla salvezza. La frase “l’amministrazione della pienezza dei tempi” indica quindi che il piano di Dio, strutturato e concreto, passa per tutte le singole ere ed età storiche, le ingloba in sé e le porta così a quella pienezza che è il fine della storia stessa. “Ricapitolare/raccogliere sotto un capo tutte le cose nel Cristo”. Paolo impiega qui un vocabolo difficile, oggetto di grandi discussioni tra gli esegeti: “anakefalaiôsasthai”. Due sono le linee interpretative fondamentali: la prima, seguendo la traduzione latina della Volgata (instaurare), vede qui espressa l’idea di riportare tutte le cose all’ordine o all’integrità delle origini; la seconda, traducendo con “riportare/raccogliere tutto sotto un solo capo”, vede espressa la progettualità divina per la quale Cristo è il termine del movimento ascendente, il punto di convergenza, la sintesi suprema di tutto. In altri termini, Dio si impegna attivamente per realizzare la signoria di Cristo in modo che tutto il cosmo tenda verso di lui e in lui trovi unità, fondamento e pienezza di senso. Ricorrendo al registro spaziale cielo-terra (“quelle nei cieli e quelle sulla terra”) si afferma che nulla sfugge alla sovranità di Cristo e quindi alla riconciliazione di tutte le cose in lui. AL TERMINE DELLA LETTURA 1. Ef 1,7 - Mediante la croce, Gesù ci ha liberati dal peccato e dalla morte per renderci partecipi della vita di Dio. Come viviamo la realtà della grazia divina che si concretizza nel perdono? Come viviamo questa consapevolezza nel celebrare i sacramenti in particolare l’eucarestia? Celebriamo in questa ottica il sacramento della riconciliazione? Come lo viviamo? 2. Ef 1,8-9 - La rivelazione del mistero avviene nella pienezza dei tempi, quando con la redenzione si svela il piano di Dio in Cristo. Penetriamo nella rivelazione di Dio grazie al dono della sapienza e dell’intelligenza che Dio ci ha concesso. Come viviamo e coltiviamo questa “sapienza e intelligenza”? Siamo consapevoli che la comprensione del mistero salvifico non è un’operazione solo intellettuale, ma coinvolge tutte le nostre facoltà e si traduce in una costante opera di discernimento? 3. Ef 1,9. -“Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà”. La volontà di Dio è uno dei grandi temi della lettera agli Efesini 1,1.5.9.11; 5,17; 6,6. Cosa significa per noi “volontà di Dio”? Ne abbiamo una comprensione fatalistica, limitata alla nostra vicenda individuale (cosa Dio vuole da me)? Cogliamo che l’autore della lettera ci apre una prospettiva più universalistica e storico-salvifica? Come possiamo conoscere la volontà di Dio? 4. Ef 1,9-10. - Ai credenti è stata data la conoscenza che tutte le cose e tutti gli esseri creati appartengono al Signore e in lui trovano unità e compimento. Cristo riconduce a unità ciò che era frammentato e diviso. Riusciamo a fare del Signore Gesù la chiave di senso e di unificazione delle nostre vite, anche quando queste ci appaiono ‘tortuose’? Sappiamo leggere la storia dell’umanità nell’orizzonte della ricapitolazione di tutto in Cristo? In che modo contribuiamo perché tutto e tutti arrivino alla comunione e all’unità? 5. Ef 1,9-10. - “Ricapitolare in Cristo tutto/tutti”. Un’interdipendenza crescente in tutti i campi - a livello economico, politico, scientifico, culturale, di comunicazione - segna il mondo contemporaneo. Si tratta però di un fenomeno caratterizzato da forti ambivalenze, in cui il potere si concentra nelle mani di pochi e in cui disuguaglianza e sfruttamento crescono ai danni di intere popolazioni e culture. Come valutiamo questi fenomeni alla luce del disegno di Dio e di ricapitolazione di tutto/tutti in Cristo? Quali occasioni abbiamo avuto per riflettere sulla globalizzazione? Sappiamo che cosa chiedono i movimenti “no global”? Siamo consapevoli che le nostre scelte (economiche, politiche, di gestione della vita quotidiana) hanno ripercussioni che oltrepassano il cerchio ristretto della nostra esistenza e influiscono, seppur indirettamente, sulla vita di interi popoli? Eredi secondo la promessa (vv 11-14) “In Cristo, nel quale anche siamo stati fatti eredi essendo stati predestinati - secondo il proposito di colui che opera potentemente secondo la decisione della sua volontà, - ad essere a lode della sua gloria, i primi ad aver sperato nel Cristo” (vv 11-12). In rapporto con Cristo i cristiani, come eletti e figli, sono stati ammessi all’eredità di Dio. La prima persona plurale, “siamo stati fatti eredi”, si riferisce probabilmente a Paolo e agli altri appartenenti al popolo giudaico. Spesso, infatti, nell’Antico Testamento il popolo è designato come eredità di Dio (cfr. Dt 9,26.29; 32,9); gli ebrei, infatti, sono stati scelti per primi per ricevere i benefici della salvezza, l’eredità data in Cristo. “Secondo il proposito di colui che opera potentemente secondo la decisione della sua volontà (in greco boulên tou thelêmatos autou)”. La realtà è spinta dinamicamente in avanti verso la realizzazione del mistero. Dio opera questa spinta energizzante perché lo vuole, perché così ha stabilito. Il testo greco indica, poi, un passaggio dalla volontà in senso generale (thelêma) ai singoli momenti esecutivi (boulên). Il progetto salvifico di Dio, per il quale i giudei sono stati scelti per primi, non è quindi sindacabile. Lo scopo di questo piano divino per gli ebrei è indicato da Paolo con l’espressione “essere a lode della sua gloria”: l’elezione è preordinata alla manifestazione della grandezza gloriosa e potente dell’amore del Padre. Con la frase “i primi ad aver sperato nel Cristo” non ci si riferisce più a tutti i giudei, ma ai giudeo-cristiani, a quegli ebrei cioè che hanno posto la loro fiducia nel Cristo per ottenere la salvezza. Il fatto che Dio abbia scelto “per primi” i giudei riguardava tutto l’Israele storico, di fatto però tale scelta ha conseguito il suo effetto solo per coloro “che hanno sperato in Cristo essi hanno posto la loro totale fiducia non più nella legge, ma nell’azione mediatrice di Cristo e sono stati uniti a lui nel battesimo. In tal modo questi giudeocristiani sono divenuti una “lode per Dio ”, una proclamazione permanente della sua gloria, una testimonianza vivente della sua bontà e del suo amore salvifico. “Nel quale anche voi, avendo ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, in lui, avendo anche creduto, foste segnati con lo Spirito santo della promessa, che è pegno della nostra eredità per il riscatto di ciò che gli appartiene a lode della sua gloria ” (vv 13-14). Paolo si rivolge ora ai suoi destinatari, che non appartengono al popolo giudaico, e annunzia che il mistero salvifico di Dio riguarda anche loro che erano distanti dalla promessa fatta ai padri. I pagani sono giunti alla conoscenza di Cristo mediante l’annunzio del vangelo da cui nasce la prima adesione di fede. Come nei resoconti di missione (cfr. At 8,12-17; 10,34-48; 19,2) ci viene qui presentato lo sviluppo dell’esperienza della fede che conduce alla salvezza. All’inizio c’è la Parola, nella dinamica annuncio/predicazioneascolto/accoglienza. E una “Parola di verità” perché conduce alla verità che è Cristo, è “il vangelo della vostra salvezza”, apportatore del buon annuncio perché capace di comunicare e partecipare l’evento liberatore della risurrezione di Cristo. Non basta però l’ascolto del vangelo; perché esso produca il frutto della salvezza occorre credere: solo allora la parola diventa penetrante e permette di ricevere il battesimo 9 ed essere segnati con lo Spirito santo (“Foste segnati con lo Spirito santo della promessa”). Siamo al punto culminante che segna il fedele con l’appartenenza definitiva a Dio: i cristiani con il loro atto di fede e di adesione a Cristo vengono “contrassegnati” dallo Spirito. I termini greci “sfragis/sfragizô” indicano appunto un contrassegno, un timbro che viene eseguito su uno oggetto o su una persona come indicazione di proprietà permanente. Per il dono dello Spirito il fedele appartiene realmente a Dio. Lo Spirito è detto “della promessa” sia perché era stato promesso per mezzo dei profeti (Ez 36,26; 37,1-14; Gl 2,28ss), sia perché realizza la promessa, cioè la nuova alleanza che doveva avere come realtà costitutiva la forza e la libertà dello Spirito. Dando come caparra/pegno il dono dello Spirito, Dio mostra in anticipo la credibilità del suo progetto, che permette ai credenti - quali figli - di stare davanti a Lui santi e senza macchia. La metafora usata - pegno - indica che lo Spirito garantisce il conseguimento dei beni sperati. Dio si “obbliga” a donare nel tempo opportuno la pienezza della eredità escatologica. Lo Spirito, infatti, non è solo un segno di appartenenza a Dio, ma - in quanto pegno - è la presenza teologica che qualifica la vita dei cristiani in vista della redenzione completa che Dio compirà nei riguardi dei credenti, rendendoli completamente suoi. Questa sarà la pienezza dell’intestazione di tutte le cose a Cristo e sarà quindi la pienezza della manifestazione della gloria. AL TERMINE DELLA LETTURA 1. Ef 1,13. - “La parola della verità, il vangelo della vostra salvezza”. C’è parola e Parola. La parola degli uomini, a volte, è solo suono: la Parola di Dio è sempre avvenimento e verità. Il vangelo è salvezza per chiunque crede (cfr. Rom 1,16-17). Quante volte, nell’ascoltare il Vangelo, pensiamo che per questa Parola la nostra vita può cambiare? 2. Ef 1,1-13. - Ci siamo avvicinati alla lettera agli Efesini attraverso questo grandioso inno di benedizione che con la densità dei pensieri e l’affollarsi delle immagini contempla il “mysterion” di Dio, cioè il suo disegno di salvezza custodito dall’eternità e rivelato pienamente nella storia in Gesù Cristo. Quali sentimenti suscita in noi questo “volo d’aquila” che ci pone di fronte all’agire di Dio, il quale ci ha chiamati a essere parte del suo piano salvifico? Quanto spazio dedichiamo nelle catechesi, nei gruppi d’ascolto e nelle omelie alla riflessione e annuncio del meraviglioso progetto d’amore sugli uomini che Dio ha realizzato in Cristo? 3. Ef 1,13-14. - Con parole tratte dal linguaggio dell’economia ci viene presentata nella sua concretezza l’azione redentrice di Cristo che ci ha “guadagnati come sua proprietà ” e ci ha fatto partecipi della sua “eredità” di figlio di Dio, della quale ci viene dato come “caparra” lo Spirito Santo. La nostra vita è docile all’azione dello Spirito, che ci guida verso il definitivo raggiungimento dei beni paterni (cfr. Rom 8,14)? Riflettiamo sul ruolo dello Spirito nei sacramenti dell’iniziazione cristiana. 4. Ef 1,3-14. - “Il mistero trinitario rappresenta un indicatore per la vita sociale e un archetipo di quella (...). La Trinità compresa come comunione di persone fonda una società di fratelli e di sorelle, di eguali, dove il dialogo e il consenso costituiscono i fondamenti della convivenza tanto per il mondo quanto per la chiesa” (L. Boff). Le nostre relazioni con gli altri sono vissute secondo le dinamiche dell’amore trinitario? In quali tratti la società e la chiesa rivelano l’accoglienza della logica trinitaria? In quali campi riteniamo che sia necessario adoperarci oggi affinché l’orizzonte trinitario animi la convivenza umana? Illuminati gli occhi del cuore (1,15-23) “Perciò anch’io, udita la vostra fede nel Signore Gesù e la vostra carità verso tutti i santi” (v 15). Riconoscendo l’accoglienza del vangelo e il pegno dello Spirito ricevuto dagli Efesini, Paolo scioglie di conseguenza - ecco il senso conclusivo dell’inizio del v 15 “perciò anch’io”- un rendimento di grazie a Dio e conclude poi con una preghiera di supplica per gli ulteriori doni di Dio di cui necessitano i fedeli. “Udita la vostra fede nel Signore Gesù e la vostra carità verso tutti i santi”: l’udibilità della fede implica la sua visibilità; per questo Paolo la colloca accanto alla carità, sapendo che la “fede è attiva attraverso la carità ” (Gal 5,6). La fede “in Cristo ”, infatti, non esprime solo un’adesione astratta o emotiva, ma una realtà comunionale, stabile nella relazione, un essere in lui e un vivere come Lui. L’amore del credente è allora “verso tutti i santi”, proprio perché nasce dallo stesso amore di Cristo. Con l’espressione “verso tutti i santi” Paolo esprime la dinamica di comunione che nasce dalla stessa fede; i “santi” sono appunto tutti coloro che hanno avuto il pegno dello Spirito. In questo contesto la prospettiva di Paolo è intracomunitaria. “Non mi do quiete nel rendere grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere” (v 16). La paternità di Paolo è messa in luce in modo singolare: egli non si ritiene soddisfatto, spiritualmente parlando, del livello a cui sono giunti gli efesini; per questo prega il Padre perché continui la sua opera di perfezione fino alla pienezza. Spesso nell’epistolario paolino ci viene presentato il volto del vero apostolo che continua la sua opera di evangelizzazione nella preghiera incessante, intesa anche come lotta della fede (cfr. 1Ts 3,10-11). “Affinché il Dio del nostro Signor Gesù Cristo, il padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per meglio conoscerlo” (v 17). Prima di Cristo, Dio era conosciuto come “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, il Dio della storia del popolo d’Israele. Con la comparsa di Gesù, il volto di Dio, su indicazione dello stesso Gesù, non può essere conosciuto prescindendo dal Cristo, dalle sue azioni e dalle sue parole; per questo Paolo parla di “Dio del Signore nostro Gesù Cristo”. Probabilmente anche l’altra designazione di Dio quale “padre della gloria”, pur essendo collegata con la tradizione dell’Antico Testamento che descrive con abbondanza la gloria di JHWH, viene qui riconosciuta a partire da quello che il Padre ha mostrato in Cristo, nel corso della sua vita terrena e nell’opera della risurrezione. “Per meglio conoscerlo”. I credenti ai quali l’Apostolo scrive già conoscono Gesù; quindi la conoscenza per la quale Paolo intercede è una penetrazione ulteriore della verità della fede. “Vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione il credente deve entrare dentro il “mistero”, il piano salvifico di Dio, ma solo Lui può dare accesso alla conoscenza; l’uomo è nell’impossibilità e nell’incapacità di comprenderlo. Tutto è già stato detto e rivelato, ma perché il credente giunga a un assenso reale c’è bisogno dell’opera illuminatrice dello Spirito che “rivela ” e permette di giungere a un assenso (sapienza). “Rendendo illuminati gli occhi del vostro cuore, affinché sappiate a quale speranza vi chiama, di quale ricchezza e gloria vi fa suoi eredi tra i santi” (vs 18). Rimproverando la non comprensione degli apostoli, un giorno Gesù disse: “Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite” (Mc 8,18). La comprensione richiesta da Gesù è quella per la quale Paolo prega; essa può venire solo con l’illuminazione del cuore. Secondo la mentalità semitica, il cuore è la sede di tutte le facoltà superiori, in particolare della conoscenza. Lo Spirito esercita la sua azione sul cuore, inteso come simbolo della vita superiore dell’uomo (cfr. Rom 2,29; 5,5; 10,10; Ef 5,19) e come organo dell’intelligenza (come in questo caso). Solo così il credente può comprendere l’oggetto della speranza alla quale è chiamato, “a quale speranza vi chiama, di quale ricchezza e gloria vi fa suoi eredi tra i santi”. La vocazione è la chiamata alla speranza, a vivere nella fiduciosa attesa del compimento della promessa. Il sostantivo “speranza” non indica solo il fatto dello sperare, ma il contenuto stesso della speranza; la chiamata è al conseguimento del bene sperato, in questo versetto indicato come “ricchezza” e “gloria” che sono l’eredità di chi, illuminato dallo Spirito, si fida di Dio e risponde alla chiamata. “Qual è la smisurata grandezza della sua potenza verso noi che crediamo, la capacità attiva del suo forte dominio” (v 19). Dopo aver chiesto per i credenti il dono della conoscenza e la consapevolezza di una speranza che non delude, Paolo domanda al Padre per loro la certezza di essere nelle mani di un Dio potente. Davanti all’esperienza di chi rimane scandalizzato dall’apparente assenza di Dio e dall’arrogante presenza del male, lo Spirito rassicura interiormente il fedele che Dio è attivo e operante oltre ogni misura immaginabile; egli sta realizzando la sua signoria nella storia. “Attuò nel Cristo risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla propria destra nei cieli. Al di sopra di ogni principato, potere, forza, signoria e di ogni nome nominabile non solo il questo tempo ma anche nel futuro ” (vv 20-21). Paolo ha pregato perché i fedeli conoscano quali beni sono stati loro concessi e riservati e ha parlato, come motivo generale di fede e speranza, della forza di Dio. Affinché essi la conoscano meglio e vi fondino la loro fede e speranza, Paolo descrive in questi versetti ciò che Dio, nella sua potenza, ha operato in Cristo: la risurrezione dai morti e la intronizzazione nella suprema gloria e maestà, che insieme costituiscono l’esaltazione del Figlio. Queste opere di onnipotenza rendono certa anche la promessa fatta ai credenti. Il verbo che esprime l’azione di Dio in Cristo è coniugato in greco al 11 perfetto (attuò, ha attuato); descrive così una continuità dell’agire di Dio che raggiunge l’oggi, non solo in ordine a Cristo, ma anche in ordine alla chiesa. Essa sperimenta nel presente questa potenza dal momento che tutti i poteri concessi a Cristo sono, in Lui, a disposizione dei credenti. Cristo risorto diventa la risurrezione e la vita; in Lui è assicurata la resurrezione dei fedeli. Si fa riferimento alla “mano destra di Dio”, che, secondo l’uso biblico, esprime l’esercizio del potere di Dio, la sua capacità di condurre gli eventi. Essere “alla destra di Dio” significa quindi partecipare alla sua gloria e alla sua sovranità. Si esprime quello che Paolo in termini diversi dice in Rom 1,4 “costituito figlio di Dio in potenza...a partire dalla resurrezione dei morti”; risuscitato dai morti, il Figlio ha ricevuto una potenza di tipo nuovo, un potere di carattere specificamente messianico e soteriologico, espresso in termini locali con “essere alla destra” del Padre. “Al di sopra di ogni principato, potere, forza, signoria e di ogni nome nominabile” (v 21). Per indicare la condizione gloriosa che Gesù ha acquistato, Paolo si serve come termine di paragone anche delle categorie angeliche o forze cosmiche che reggono il mondo, presentate nel loro ordine di “principati, potenze ...”. Esse godevano nel mondo biblico della più grande considerazione pensabile nella valutazione umana, ma Paolo sostiene che Gesù è ben al di là di queste categorie spirituali; “nessun nome” - cioè nessun essere - sia nel presente, sia nel futuro, è pensabile superiore a Gesù. Alcuni, a partire dall’affermazione “non solo in questo tempo, ma anche nel futuro”, pensano che certe potestà abbiano una funzione anche nell’era futura, se pur sottomesse a Cristo. L’enfasi del testo, comunque, va nella direzione della sottolineatura della sovranità universale di Cristo. “Tutto sottomise ai suoi piedi e Lo diede, come capo su tutte le cose, alla chiesa” (v 22). L’opera del Padre nei riguardi di Gesù viene ulteriormente arricchita presentando altri due interventi di Dio nei suoi riguardi: dopo l’evento della resurrezione e la collocazione di Gesù alla sua destra, Dio ha sottomesso a Lui ogni realtà e ha donato il Cristo, come capo della realtà, alla chiesa. Nel mondo semitico e biblico l’espressione “sottomettere ai piedi” ha un significato ben preciso: tenere qualcuno o qualcosa sotto i piedi significa averne dominio (cfr. Mt 22,44; Eb 2,8). Sono significative a questo riguardo alcune raffigurazioni pittoriche dell’antico Egitto che mostrano un faraone seduto in trono che poggia i piedi sulla schiena dei nemici in segno di sovranità. Il Sal 8,6 cantava la dignità dell’uomo affermando che Dio gli aveva messo ogni cosa sotto i suoi piedi; ora Paolo ricorda che il creatore ha posto l'uomo e ogni realtà pensabile sotto la sovranità di Gesù. Sappiamo che la signoria di Gesù non è uno spadroneggiare, ma un servire l’uomo stesso. Se il Risorto si è visto sottomettere tutte le cose significa che è capo, ha potestà su tutto. L’espressione “capo su tutte le cose”, infatti, è in parallelo con la precedente “tutto ha posto sotto i suoi piedi”; entrambe esprimono il fatto che la resurrezione ha comportato l’intestazione di tutte le cose a Cristo. Il corpo risorto, “spiritualizzato”, può essere considerato come luogo nel quale si concentra la potenza santificatrice di Dio ed è donato alla chiesa. Viene di fatto realizzato e presentato ora ai fedeli come realtà compiuta il progetto divino di ricondurre tutto sotto un solo capo (Ef 1,10). La chiesa viene presentata, a conclusione del v 22, come la continuità di Gesù nel tempo: il Padre, infatti, consegna a essa il Cristo che detiene la sovranità universale. E’ su Cristo che la chiesa, sua erede nello Spirito, fonda la propria speranza. “(La chiesa) che è suo corpo, la pienezza di Colui che riempie tutto in tutti” (vs 23). Dopo aver affermato che Cristo è consegnato alla chiesa e agisce tramite essa, Paolo definisce la chiesa in relazione a Cristo con due predicati: essa è “suo corpo” e “pienezza” (in greco plêrôma). Il termine “corpo” ha un valore personale-collettivo, si riferisce all’insieme dei fedeli considerati nella loro capacità di relazione con Cristo: per la comunità dei credenti essere “corpo” significa dipendenza, sottomissione, visibilità, unione essenziale con Lui; viene indicata l’origine, la superiorità, la forza vitale con cui il Cristo anima la chiesa. La relazione Cristo-Chiesa è poi descritta con il termine “plêrôma”, che va ritenuto apposizione del sostantivo “corpo” e sua esplicitazione. “Plêrôma” è una parola difficile da tradurre, che può avere un significato passivo (ciò che è riempito, cioè il contenitore) o attivo (ciò che riempie, cioè il contenuto). Nel primo senso il testo esprimerebbe l’idea che Cristo riempie la chiesa; la sua presenza “straripa” dalla chiesa perché Gesù dà ciò che egli è, e la chiesa dona ciò che egli le dà. La chiesa è il suo dominio esclusivo ed egli vi si coinvolge in maniera da colmarla di se stesso. Stando a questa lettura, la chiesa vive di Cristo e senza di lui è inesistente; saremmo sulla linea di dipendenza-comunione alla quale ci conduce l’espressione “Chiesa corpo di Cristo”. Se invece diamo a “plêrôma”, un senso attivo abbiamo l’affermazione della dipendenza di Cristo dalla Chiesa, dal momento che essa è il suo riempimento, nel senso che è il frutto del suo amore per l’umanità. Penso che non sia necessario scegliere tra le due prospettive, in quanto entrambe le affermazioni sono vere se si inquadra la relazione Cristo-Chiesa nella dinamica dell’amore, alla quale siamo indirizzati anche grazie al termine corpo: la chiesa comunità dei credenti è tutto per Gesù perché l’ha voluta amare, ma anche la chiesa trova ragione di se stessa solo se si lascia amare e riempire da Cristo, che per amore e non per dominare si concede tutto a tutti. L’immagine del plêrôma completa e mette maggiormente in risalto il rapporto che unisce la chiesa a Cristo: alla sovranità di Cristo, che è una sovranità d’amore, corrisponde la dipendenza della chiesa che non può essere anch’essa che una relazione d’amore. Questa sovranità è rafforzata ulteriormente dal fatto che Cristo “riempie” totalmente (verbo della stessa radice di plêrôma) ogni membro della chiesa: egli riempie tutto e tutti. AL TERMINE DELLA LETTURA . 1. Ef 1,15-16. - L’ autore ringrazia Dio per la fede e l’amore di tutta la comunità di Efeso. Quello che sempre caratterizza la comunità cristiana è il binomio fede-amore. Quali volti e nomi di persone appartenenti alla nostra parrocchia e alla nostra diocesi ci vengono in mente ascoltando le parole della Lettera “avendo udito della vostra fede in Gesù e dell’amore verso tutti i cristiani”? Quali scelte e quali comportamenti permettono di riconoscere nella nostra parrocchia una vita di “fede” e di “amore”! 2. Ef 1,15. - Le Caritas parrocchiali e diocesana, lungi da essere solo centri di servizi e assistenza, hanno “una prevalente funzione pedagogica nell’annuncio della carità”. È stata istituita nella nostra parrocchia la Caritas? Come si rapporta agli altri settori pastorali? Come può attuare il suo fondamentale mandato? Esiste il “centro di ascolto Caritas”? 3. Ef 1,17. - Cosa pensiamo voglia dire avere una “profonda conoscenza” di Dio? Si tratta solo di avere delle nozioni su di Lui oppure questo comporta un’esperienza di vita? Siamo consapevoli che da una maggiore conoscenza di Dio può derivare una più acuta conoscenza di noi stessi? Analizziamo quali potrebbero essere le cause di un rapporto superficiale con il Padre. 4. Ef 1,15-23. - Nella sua preghiera per la comunità l’autore unisce ringraziamento e invocazione dei doni di Dio per i credenti. Preghiamo personalmente per la nostra comunità parrocchiale, per la diocesi, per la chiesa universale? Cosa chiediamo? Per cosa ringraziamo? Mettiamo a confronto la preghiera di Ef 1,15-23 con quanto chiesto nella “preghiera dei fedeli” domenicale. Quali sono i tratti comuni e quali le differenze? 5. Ef 1,18. - La speranza a cui fa appello l’autore non è un semplice ottimismo; i figli di Dio hanno una speranza vivente e sempre qualcosa di nuovo da attendersi nel futuro. Diamo importanza a questo aspetto fondamentale della nostra vita? Lo viviamo anche nei momenti di crisi? Abbiamo mai vissuto l’esperienza di aiutare un'altra persona a maturare speranza? Consideriamo il pessimismo un vero e proprio peccato? Le nostre comunità sono aperte alla speranza? In che modo si vive questa virtù a livello comunitario? 6. Ef 1,19. - Un cristiano e una comunità sono sapienti se sanno vivere secondo l’orientamento escatologico (orientati cioè al definitivo regno di Dio), affidando se stessi alla potenza di Dio che è capace di trasformare la nostra realtà. Come i cristiani possono recuperare tale fondamentale orientamento escatologico? In quali occasioni abbiamo fatto esperienza della potenza di risurrezione e trasformazione di Dio? 7. Ef 1,21. - “Le quattro entità menzionate (principato, autorità, potenza, dominazione) sono solo una esemplificazione di ogni possibile realtà che si collochi presuntuosamente al di sopra dell’uomo” (R. Penna). Riconosciamo Cristo veramente come unico Signore al di sopra di tutti i poteri? Oggi i massmedia presentano la scienza e la tecnica come onnipotenti: cosa pensare questa visione alla luce di queste affermazioni sul primato di Cristo? 13 8. Ef 1,23. - La chiesa è il corpo di Cristo. Le immagini di “capo” e “corpo” esprimono significati molteplici: la comunione di vita e di destino, la dipendenza del corpo che trova nel capo la fonte di vita, e, soprattutto, il compito affidato alla chiesa di essere la presenza visibile di Cristo sulla terra. Per comprendere le implicazioni di questa metafora leggiamo i passi del Nuovo Testamento (1Cor 10,17; 12,12-17; Rom 12,4-5; Col 1,18.24) e del Concilio nei quali è presente questa immagine (Lumen Gentium, 7). 9.Ef 1,15-23. - La chiesa è presentata in questi versetti come comunità di fede e di amore (v 15), tesa verso il compimento ultimo ma capace di vivere nella storia (vv 18-19), consapevole della azione efficace di Dio e ancorata al mistero pasquale del Cristo (vv 20-22). Questa immagine di chiesa corrisponde alla realtà concreta delle nostre comunità parrocchiali? Quale immagine di chiesa trasmettono i massmedia? 10. Ef 1,22-23 - La parola “pienezza” ricorre solo qui associata alla chiesa e ne mette in rilievo la missione: anche attraverso la chiesa Cristo riempie di sé tutto il creato. La chiesa è chiamata a rendere visibile tale mistero con la sua unità e l’articolazione armonica delle sue membra. Siamo consapevoli di questa missione? In quale misura riusciamo a essere membra vive nelle quali si manifesta il mistero divino affidato alla chiesa? Come aiutiamo la nostra comunità a superare la facile tentazione di cadere in una visione ecclesiocentrica, autocentrata sulla vita ecclesiale. PER UN EVENTUALE APPROFONDIMENTO CATECHISTICO CdA (La Verità vi farà liberi): nn. 352-356 – Benedetti in Cristo Gesù – Il progetto salvifico di Dio CdA nn. 414-438 La Chiesa, il Cristo, lo Spirito