DIRITTO PENALE PARTE GENERALE Giovanni FIANDACA

DIRITTO PENALE PARTE GENERALE
Giovanni FIANDACA - Enzo MUSCO
RIASSUNTO DELLA PRIMA PARTE
CAPITOLI 1 - 2 - 3 – 4 - 5
CAPITOLO 1: Caratteristiche e funzioni del diritto penale
1. Il diritto penale è quella parte del diritto pubblico che disciplina i fatti costituenti reato.
Il reato è ogni fatto umano alla cui realizzazione la legge riconnette sanzioni penali.
Sono sanzioni penali: la pena e la misura di sicurezza; entrambe hanno come obiettivo quello di
difendere la società dal delitto e risocializzare il delinquente.
Il principio che sta alla base del diritto penale è il principio di DIFESA SOCIALE, secondo cui
l’ordinamento giuridico ha bisogno di sanzioni penali per punire fatti del tutto intollerabili. Il
principio di difesa sociale va però bilanciato con altri principi garantistici che stanno alla base dello
Stato di diritto; questi sono:
1.
2.
3.
4.
Principio di materialità
Principio di offensività o di necessaria lesività
Principio di legalità
Principio di colpevolezza
Questi principi si pongono come limite al principio di difesa sociale ed hanno come scopo quello di
evitare un uso arbitrario del potere giudiziario. L’applicazione integrale del principio di difesa
sociale comporterebbe la tirannia.
Esaminiamo nel dettaglio questi principi.
1. PRINCIPIO DI MATERIALITA’ , secondo il quale non può esservi reato se la volontà
criminosa non si materializza in un comportamento esterno. Tale principio ha quindi rilievo
solo nei reati di azione, dove la condotta criminosa è un’azione, non un’omissione. Nei reati
di omissione, invece, il principio di materialità non rileva perché la condotta criminosa,
consistendo in una omissione, non ha una consistenza esteriore, in questi casi ciò che conta è
che il comportamento criminoso risulti offensivo; nei reati di omissione, quindi, il principio
di materialità è assorbito dal principio di offensività.
2. PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’: Posto che il diritto penale trova legittimazione soltanto
nella tutela di beni socialmente rilevanti, ai fini della sussistenza di un reato non basta la
realizzazione di un comportamento materiale, ma è necessario che tale comportamento leda
o ponga in pericolo beni giuridici.
La fonte costituzionale del principio di offensività è l’art. 25 della Costituzione che parla di
fatto di reato, il quale deve essere offensivo.
Per offesa si intende un danno o pericolo ad un bene giuridico. Non si puniscono soltanto le
effettive lesioni, ma anche le condotte che mettono in pericolo un bene giuridico.
Il principio di offensività è pertanto strettamente legato al concetto di bene giuridico.
Per bene giuridico si intende un bene socialmente rilevante considerato, in ragione della sua
importanza, meritevole di protezione giuridica.
RADICI STORICHE del principio di offensività: Il principio di offensività trova la sua
radice storica nell’Illuminismo, ma solo nella prima metà dell’800 è stato coniato il concetto
di bene giuridico. Gli illuministi parlavano più che altro di «violazione di un diritto
soggettivo». A criticare la concezione proto-illluministica del reato fu Birnbaum, il quale, in
uno scritto apparso nel 1834, sosteneva che la concezione illuministica di bene giuridico non
fosse di per sé idonea a spiegare la punizione di fatti lesivi di beni considerati di particolare
rango, ma non riconducibili al paradigma del diritto soggettivo ( si pensi ad esempio alla
moralità pubblica e al sentimento religioso). Questa originaria teorizzazione del bene
giuridico presentava una certa ambiguità perché faceva riferimento appunto a beni giuridici,
come il sentimento religioso, la moralità pubblica, che, anziché restringere il principio di
offensività a fatti effettivamente pregiudizievoli, ne comportavano una notevole estensione.
La preoccupazione di escogitare una teoria del bene giuridico, idonea in qualche modo a
limitare la potestà punitiva dello Stato, emerse con particolare forza alla fine dell’800
nell’opera di Franz v. Liszt. Liszt sosteneva che il bene giuridico è un’entità preesistente
all’incriminazione, quindi il legislatore si sarebbe semplicemente limitato a tutelare beni
giuridici preesistenti. Questa teoria è alla base della moderna teoria del bene giuridico, anche
se è troppo semplicistica perché dire che i beni giuridici preesistono non è sempre vero. La
critica che viene mossa alla teoria di Liszt è che tale teoria non riesce a precisare i criteri atti
a selezionare i dati pregiuridici che dovrebbero materializzare il concetto di bene giuridico,
per cui la pretesa di vincolare il legislatore nella scelta degli oggetti tutelabili rimane, in
definitiva, più enunciata che soddisfatta.
La concezione del reato come lesione di un bene giuridico ha ricevuto, in Italia, una prima
compiuta esposizione nella celebre opera di Arturo Rocco, intitolata “L’oggetto del reato e
della tutela giuridica penale”, apparsa nell’1913. In quest’ opera Arturo Rocco ha
sostenuto che la determinazione del concetto di bene giuridico non potrebbe prescindere da
valutazioni normative già compiute dal legislatore, per cui finirebbe con il coincidere con
l’oggetto di tutela di una norma penale già emanata.
Durante il periodo fascista il concetto di bene giuridico venne sostituito con il concetto di
scopo dell’incriminazione (Teoria Metodologica). Con la teoria metodologica, la portata di
bene giuridico venne ridimensionata perché ogni incriminazione ha un suo scopo.
Secondo la teoria metodologica, il bene giuridico non è preesistente alla norma, ma si riduce
al risultato di una interpretazione c.d. di scopo della norma incriminatrice.
Questa concezione finisce con l’identificare il bene giuridico con la ratio legis.
L’idea della protezione dei beni giuridici come scopo del diritto penale fu oggetto di uno
studio approfondito da parte di un giudice costituzionale, il quale, nel 1965, pubblicò un
libro sul reato impossibile.
L’art. 49 del codice penale è rubricato “Reato impossibile” e dispone:
2°comma: «la punibilità è esclusa quando per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza
dell’oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso».
4° comma: «il giudice può ordinare che l’imputato sia sottoposto a misura di sicurezza».
Con riferimento al reato impossibile si parla di “quasi reato” perché il legislatore prevede
che il giudice può sottoporre l’imputato solo a misure di sicurezza, non a pene.
La particolarità dell’art. 49 è proprio questa, ovvero che il legislatore, già in astratto,
prevede l’applicazione di sole misure di sicurezza; non è il giudice a prevedere
l’applicazione delle sole misure di sicurezza.
Questo articolo può essere collegato con l’art. 115 del codice penale.
L’art. 115 del codice penale, rubricato “Accordo per commettere un reato”, dispone che:
«Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di
commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto
dell’accordo.
Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una
misura di sicurezza».
Anche qui il legislatore prevede l’applicazione di sole misure di sicurezza. Anche qui si
parla di “quasi reato”. Sono solo queste le ipotesi di quasi reato previste dal nostro codice
penale.
In queste due ipotesi è il legislatore a prevedere l’applicazione di sole misure di sicurezza,
non il giudice. Si parla di quasi reato, anche se in realtà è un reato vero e proprio perché la
misura di sicurezza è una sanzione penale.
L’ipotesi di reato impossibile è stata oggetto di tre teorie:
1. TEORIA TRADIZIONALE
2. TEORIA PIU’ RECENTE
3. CONCEZIONE REALISTICA DEL REATO
Art. 56: “Chi
compie atti idonei,
diretti in modo non
equivoco a
commettere un
delitto, risponde di
delitto tentato, se
l'azione non si
compie o l'evento
non si verifica”.
Art. 49, secondo comma: “la punibilità è esclusa
quando per la inidoneità dell’azione o per
l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile
l'evento dannoso o pericoloso”
1. TEORIA TRADIZIONALE: Secondo la teoria tradizionale, l’art. 49, secondo comma,
va letto insieme all’art. 56 che riguarda il delitto tentato. Il punto di concomitanza tra
l’art. 56 e l’art. 49, secondo comma, è l’IDONEITA’.
Riguardo all’idoneità dobbiamo distinguere tre aspetti:
1. Il GRADO DI PERICOLO: l’idoneità può essere intesa o come una generica possibilità
di consumazione o come una specifica probabilità di consumazione. All’interno del
concetto di probabilità si possono individuare delle probabilità più o meno elevate (la
probabilità è un concetto graduale). Secondo la dottrina prevalente occorrono delle
probabilità di consumazione, non basta una generica possibilità di consumazione. Il
giudizio di idoneità è un giudizio che va fatto in concreto, non in astratto. Nell’ambito di
questo giudizio bisogna fissare il livello di probabilità che è indeterminato, ma che deve
essere più o meno apprezzabile.
2. MOMENTO DEL GIUDIZIO DI IDONEITA’’: si parla al riguardo di prognosi
postuma. Il giudizio di idoneità è un giudizio postumo perché il giudice lo ricollega a
fatti già verificatesi, ma è anche un giudizio ex ante perché il giudice deve porsi nel
momento in cui si è verificato il fatto per verificare se era più o meno probabile il
verificarsi di un certo evento, di un certo risultato.
3. BASE DEL GIUDIZIO DI IDONEITA’: il giudice che conoscenze deve avere per
valutare la probabilità del verificarsi della consumazione? Deve avere la conoscenza
massima o media?
Ci sono al riguardo due teorie:
1. TEORIA DELLA BASE PARZIALE: secondo la quale il giudizio di
prognosi postuma va compiuta ponendosi nel momento in cui si è posta in
essere la condotta ed utilizzando la conoscenza dell’uomo medio, arricchita
da quella ulteriore, eventualmente posseduta, dall’agente concreto (cioè da
colui che ha tentato di commettere un reato)
2. TEORIA DELLA BASE TOTALE: secondo la quale bisogna tener conto di
tutte la conoscenze esistenti in quel momento, quindi di conoscenze maggiori
che vanno al di là delle conoscenze dell’uomo medio. Il giudizio è sempre ex
ante, però la valutazione va fatta tenendo conto di tutte le situazioni di
riferimento.
Esempio: un borseggiatore introduce una mano nella tasca dell’abito della vittima
designata, senza però riuscire ad impossessarsi di danaro perché la tasca è vuota.
Secondo la teoria della base parziale, il tentativo di furto era idoneo, cioè il fatto che
uno tenta di rubare il danaro, occasionalmente assente, non farebbe venir meno
l’esistenza del tentativo in quanto gli atti sarebbero idonei; ciò perché secondo un
osservatore medio in quel momento sarebbe stato probabile riuscire a sottrarre il denaro
ed impossessarsene.
Secondo la teoria della base totale, invece, si perviene alla conclusione che non c’è il
tentativo perché il dato certo che mancava il denaro fa venir meno il pericolo della
condotta e quindi il rischio della consumazione del reato di furto. Non si può derubare
chi non ha denaro.
Le due teorie portano a due conclusioni diverse.
La teoria dominante è quella di base parziale.
Altro elemento del delitto tentato è l’UNIVOCITA’ degli atti di tentativo (univoco
= non equivoco)
Al riguardo ci sono due teorie:
1.
TEORIA PROCESSUALE O SOGGETTIVA
2.
TEORIA DEL CRITERIO DI ASSENZA
La prima teoria è superata; essa sosteneva che l’univocità non è altro che l’idoneità
di compiere un reato; il giudice deve solo accertare il dolo di tentativo. Questa è una
teoria antica, in quanto è ovvio che l’elemento soggettivo deve essere accertato dal
giudice.
La seconda teoria sostiene, invece, che gli atti sono univoci quando la condotta
risulta univocamente indirizzata alla consumazione del reato.
Il concetto di univocità è un concetto poco chiaro; è stato proposto da Carrara nella
seconda metà dell’800. Si obietta a questo concetto che gli atti presi in
considerazione come tali spesso non sono univoci; ad esempio prendere una scala per
entrare in una casa non è un atto univoco perché si potrebbe usare per fare uno
scherzo, per entrare a casa perché si sono perse le chiavi, per rubare etc. Quindi
bisogna prima verificare la volontà del tentativo di reato e poi vedere se gli atti,
come tali, risultano univoci.
Nel caso in esame, bisogna prima accertare l’elemento soggettivo, cioè il dolo; poi,
una volta accertato il fine dell’agente, ossia quello di rubare, bisogna verificare se gli
atti risultano univoci ed è certo che il fatto di mettere una scala e iniziare a salire è un
atto univoco a commettere il reato di furto.
Chiusa questa parentesi sull’univocità degli atti di tentativo, torniamo a parlare delle teorie
sull’ipotesi di reato impossibile o quasi reato.
Per concludere il discorso sulla teoria tradizionale di reato impossibile, si può dire, in
definitiva, che, secondo questa teoria, il reato impossibile è un tentativo inidoneo su base
parziale.
3. TEORIA PIU’ RECENTE: tale teoria considera reato impossibile un
tentativo inidoneo su base totale. Secondo questa teoria l’idoneità va vista dal
punto di vista totale. Esempio: tentativo di rubare il portafoglio che non c’è;
secondo la teoria più recente, quando un soggetto tenta di rubare un
portafoglio che non c’è manca l’offesa; in questo caso, secondo la teoria più
recente, il soggetto agente è comunque un cattivo esempio e come tale va
sottoposto ad una sanzione blanda come la libertà vigilata. Così facendo però
verrebbe meno la funzione di prevenzione che le norme penali hanno,
essendo il soggetto punito debolmente. Ed è questo il motivo per cui la
giurisprudenza non segue tale teoria. (Fiandaca la segue).
3. CONCEZIONE REALISTICA DEL REATO
Questa teoria risale agli anni ’60.
Secondo questa teoria l’art. 49 sarebbe una norma non collegata all’art. 56, ma autonoma,
che esprimerebbe il principio in base al quale il reato è punibile solo se offensivo. Il reato
impossibile è un reato inoffensivo e come tale non va punito.
INIDONEITA’= INOFFENSIVITA’
AZIONE = condotta completa
ATTI DI CONDOTTA = ricomprendono anche gli atti di tentativo
Secondo la concezione realistica del reato, l’art. 49 è una norma autonoma, non collegata
all’art. 56, per una serie di motivi:
1. L’art. 49 parla di inidoneità dell’azione, mentre l’art. 56 parla di atti inidonei. Per azione
inidonea non si intende tentativo inidoneo, ma condotta inoffensiva.
2. L’art. 49 è rubricato “reato impossibile”, invece, l’art. 56 è rubricato “delitto tentato”.
Quindi, il tentativo non può aversi con riguardo alle contravvenzioni. Il reato impossibile
si potrebbe, invece, presentare anche con riguardo alle contravvenzioni. Secondo la
concezione realistica del reato, l’art. 49 è una norma scissa dall’art.56 e attiene
all’offensività. L’art. 49 attribuisce al giudice il potere di disapplicare la fattispecie
incriminatrice qualora la condotta completa (l’azione) risulti inoffensiva.
Bricola, successivamente, nel 1973, ha approfondito questa teoria, sostenendo che il
bene giuridico deve essere ancorato alla Costituzione. Bricola affermò ciò in quanto
l’art. 13 della Costituzione dispone che “la libertà personale è inviolabile”, quindi può
essere limitata solo in presenza di un bene giuridico di rango costituzionale.
Alcuni autori hanno cercato di fare una piramide dei beni giuridici di rango
costituzionale. Questa teoria, che si basa sull’intento di limitare l’operato del legislatore,
è stata criticata perché non è sempre facile fare una piramide di beni giuridici,in quanto
vi sono beni giuridici che, anche se non hanno una rilevanza costituzionale, meritano
comunque protezione. Bricola risponde a questa critica sostenendo che ciò che conta è
che il bene abbia rilevanza costituzionale, anche implicita.
La critica rivolta a Bricola è che non ci si può basare sul testo costituzionale, non è
opportuno vincolare a tal punto il legislatore, perché il legislatore potrebbe avvertire
l’esigenza di tutelare certi beni giuridici che non sono contenuti nel testo costituzionale;
in sostanza, i beni contenuti nella carta costituzionale sarebbero soltanto orientativi.
CRITICA ALLA CONCEZIONE REALISTICA DEL REATO: la critica che viene
mossa alla concezione realistica del reato è che l’art. 49 non fissa il principio di offensività
perché se fissasse il principio di offensività allora dovrebbe essere posto all’inizio del codice
penale. Altra critica riguarda il fatto che il concetto di azione e il concetto di atto non sono
concetti opposti, ma il concetto di azione è un concetto più ampio che ricomprende il
concetto di atto. Immaginate il concetto di atto come un sottoinsieme del concetto di azione.
AZIONE
ATTO
Quindi l’art. 49 non è una norma del tutto diversa dall’art. 56.
Inoltre, dire che il giudice in presenza di un comportamento tipico può disapplicare la
fattispecie incriminatrice perché manca l’offesa significa mettere in crisi il principio di
legalità in quanto il giudice avrebbe poteri troppo eccessivi.
L’accertamento dell’offesa non è automatico. Nel caso in cui è particolarmente evidente
l’inoffensività non si può punire. La dottrina è consapevole del fatto che il principio di
inoffensività è di difficile attuazione. Quanto alla giurisprudenza, la Corte costituzionale, in
generale, evita di parlare di principio di inoffensività, parla piuttosto di principio di
ragionevolezza, e sostiene che è possibile dichiarare una norma incostituzionale solo in casi
di evidente irragionevolezza. Ad esempio l’art. 670 del codice penale, oggi abrogato, è stato
dichiarato incostituzionale per irragionevolezza dell’ipotesi di reato, perché chi chiede
l’elemosina non dà fastidio a nessuno. L’art. 670 del codice penale puniva, infatti, chiunque
chiedeva l’elemosina in un luogo pubblico.
Non sempre però la Corte costituzionale evita di parlare di principio di inoffensività, non lo
ha fatto, ad esempio, con riferimento al caso di coltivazione di sostanze stupefacenti per uso
personale. La legge prevede la non punibilità di chi viene colto in possesso di sostanze
stupefacenti in misura adeguata all’uso personale, ma la coltivazione, secondo la legge, è
sempre punibile, anche se si tratta di una coltivazione di poche piante per uso personale.
Questa diversità di trattamento ha dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale, il problema
è stato posto al vaglio della Corte costituzionale, la quale ha sostenuto che la coltivazione
per uso personale è sempre punita in quanto prevale il principio di legalità, però nel caso in
cui la coltivazione fa riferimento a delle piante che posseggono una sostanza stupefacente in
quantità minore allora si applica l’art. 49, secondo comma, perché si è in presenza di una
evidente inoffensività. Ecco, quindi, che emerge l’atteggiamento contraddittorio della Corte
costituzionale, prima si rifiuta di parlare di inoffensività e poi applica l’art. 49 secondo
comma (sent. 360/19951)
Per quanto riguarda la legislazione, il d.lgs. 274/2000 sulla competenza penale del giudice di
pace all’art.34, rubricato Esclusione della procedibilita' nei casi di particolare tenuita'
del fatto, dispone che: «Il fatto e' di particolare tenuita' quando, rispetto all'interesse tutelato,
l'esiguità' del danno o del pericolo che ne e' derivato, nonché la sua occasionalista' e il grado
della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del
pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di
studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato».
RIASSUMENDO:
Secondo la TEORIA TRADIZIONALE, il reato impossibile è un tentativo inidoneo su base
parziale.
Secondo la TEORIA PIU’ RECENTE, il reato impossibile è un tentativo inidoneo su base
totale.
Secondo la CONCEZIONE REALISTICA DEL REATO, il reato impossibile è un reato
inoffensivo.
1
Sent. Corte Costituzionale, del 24/07/1995, n. 360: « Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sollevata, in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 Cost., nella parte in cui prevede l'illiceità
penale della condotta di coltivazione di piante indicate dall'art. 26 d.P.R. n. 309/90, da cui si estraggono sostanze
stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all'uso personale, indipendentemente dalla percentuale di principio
attivo contenuta nel prodotto della coltivazione stessa, per sospetta violazione del principio della necessaria
offensività della fattispecie penale nell'ipotesi in cui la coltivazione dia luogo a quantità (o qualità) di infiorescenze
dalle quali non sia ricavabile il principio attivo in misura sufficiente a produrre l'effetto (stupefacente) potenzialmente
lesivo nel caso di successiva assunzione (la Corte, dopo avere rilevato che la condotta della coltivazione di piante da
cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti costituisce tipico reato di pericolo presunto, sul rilievo che
ben può valutarsi come "pericolosa", ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di
arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga,
ha peraltro precisato che altra questione, tipicamente interpretativa e quindi riservata al giudice ordinario, è quella
della verifica dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata)».
Prima di concludere il discorso sul principio di offensività, occorre menzionare altri tre principi, che
non sono altro che la concretizzazione del principio di offensività.
Essi sono:
1.PRINCIPIO DI SUSSIDARIETA’.
Si parla di sussidiarietà del diritto penale per esprimere l’idea dello strumento penale come extrema
ratio.
Il principio di sussidiarietà costituisce una specificazione nel campo del diritto penale del più
generale principio di proporzione e cioè di un principio logico immanente allo stato di diritto, che
ammette il ricorso a misure restrittive dei diritti dei singoli solo nei casi di stretta necessità, vale a
dire quando questi risultino indispensabili per la salvaguardia del bene comune. Vi sono due
concezioni del principio di sussidiarietà:
1. Una concezione realistica, secondo la quale il ricorso allo strumento penale appare
ingiustificato o superfluo quando la salvaguardia del bene giuridico in questione sia già
ottenibile mediante sanzioni di natura extrapenale.
2. Una concezione ampia, secondo la quale la sanzione penale sarebbe cmq da preferire anche
nei casi di non strettissima necessità.
2. PRINCIPIO DI MERITEVOLEZZA
Tale principio esprime l’idea che la sanzione penale debba essere applicata non in presenza di
qualsivoglia attacco ad un bene giuridico degno di tutela, bensì solo nei casi in cui l’aggressione
raggiunga un livello di gravità tale da risultare intollerabile.
3. PRINCIPIO DI FRAMMENTARIETA’
Il principio di frammentarietà è una conseguenza del principio di legalità, ed è operante su tre
diversi livelli:
1. Alcune fattispecie di reato tutelano il bene giuridico oggetto di protezione non da ogni
aggressione proveniente da terzi, ma soltanto da specifiche forme di aggressione.
(NOTA BENE: nel caso di beni primari come la vita, il diritto penale non ha carattere
frammentario, ma protegge il bene giuridico,in quanto primario, da ogni forma di
aggressione).
2. La sfera di ciò che rileva penalmente è molto più limitata rispetto alla sfera di ciò che è
qualificato antigiuridico alla stregua dell’intero ordinamento giuridico. Ad esempio la
violazione contrattuale è rilevante per il diritto civile, non per il diritto penale.
3. L’area penalmente rilevante non coincide con ciò che è moralmente riprovevole, come ad
esempio l’omosessualità.
CAPITOLO 2: La funzione di garanzia della legge penale
Art. 25 cost.: Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima
del fatto commesso.
Il principio di legalità nasce con l’illuminismo ed è strettamente connesso al principio di
separazione dei poteri.
Il principio di legalità implica che il reato è una nozione formale. È REATO QUELLO CHE E’
ESPRESSAMENTE PREVISTO DALLA LEGGE COME TALE.
Negli ordinamenti totalitari il reato è una nozione sostanziale. È REATO CIO’ CHE E’
ANTISOCIALE, OVVERO CONTRARIO ALL’ORDINAMENTO GIURIDICO.
Il principio di legalità comporta che il diritto penale ha carattere frammentario, presenta cioè dei
vuoti di tutela. Questi vuoti di tutela rappresentano un difetto minimo rispetto ai pregi che offre il
principio di legalità.
FONDAMENTO DEL PRINCIPIO DI LEGALITA’
La legalità è un principio garantistico, nel senso che si pone come argine alla difesa sociale intesa
come assoluta.
I due possibili fondamenti del principio di legalità sono:
1. FAVOUR LIBERTATIS
2. CERTEZZA DELLE SITUAZIONI GIURIDICHE
Questi due fondamenti di per sé non si escludono a vicenda; spesso sono entrambi degli aspetti della
funzione garantistica del principio di legalità.
I QUATTRO SOTTOPRINCIPI DEL PRINCIPIO DI LEGALITA’
Il principio di legalità si articola in quattro sottoprincipi:
1.
2.
3.
4.
RISERVA DI LEGGE
DETERMINATEZZA
DIVIETO DI ANALOGIA
IRRETROATTIVITA’ DELLA NORMA PENALE PIU’SFAVOREVOLE
RISERVA DI LEGGE: La riserva di legge si pone come argine ai possibili abusi del potere
esecutivo. Il potere punitivo statale spetta esclusivamente al Parlamento, salvi gli atti con forza di
legge del Governo che sono cmq sottoposti al controllo del Parlamento.
Decreto legislativo – Delega
Decreto legge- Conversione
NELLA PRASSI NON C’E’ ALCUN DUBBIO CHE POSSANO CONTENERE NORME
PENALI. UNA PARTE MINORITARIA DELLA DOTTRINA DISCUTE CIRCA LA LORO
AMMISSIBILITA’ A CONTENERE NORME PENALI (FIANDACA).
LA RISERVA DI LEGGE E’ ASSOLUTA O RELATIVA?
ASSOLUTA
RISERVA DI LEGGE
RELATIVA
(quando esclude qualsiasi intervento di fonti sub
legislative dalla disciplina della materia penale).
(quando non esclude l’intervento di fonti sub legislative
dalla disciplina della materia penale. La legge, in questo
caso, disciplina i principi a cui la fonte sub legislativa deve
attenersi. FONTE SUB LEGISLATIVA = REGOLAMENTI,
Per capire se la riserva di legge, in materia penale, è assoluta o relativa si deve fare riferimento alle
singole fonti del diritto.
DECRETI LEGGE: Il decreto legge è l’atto con forza di legge che il Governo emana in casi
straordinari di necessità ed urgenza; entra in vigore immediatamente con la semplice pubblicazione
in Gazzetta Ufficiale, ma perde efficacia ex tunc, ovvero sin dall’inizio, se non viene convertito in
legge dal Parlamento entro 60 giorni dalla pubblicazione.
Il decreto legge non può essere considerato come una fonte del diritto penale perché le ragioni di
necessità ed urgenza che stanno alla base del decreto legge cozzano con le esigenze di ponderazione
che non possono essere eluse in sede di criminalizzazione delle condotte umane.
DECRETI LEGISLATIVI: Il decreto legislativo si pone con la legge delega nello stesso rapporto in
cui si pongono legge e regolamento. La legge delega fissa il precetto sostanziale, rinviando per la
sua concretizzazione al decreto legislativo. Tutto ciò comporta una elusione della garanzia della
riserva di legge.
LEGGI REGIONALI: Le leggi regionali non sono fonti del diritto penale; la riserva di legge statale
ha come scopo quello di far sì che in tutto il territorio nazionale vi siano condizioni di eguaglianza
nella privazione della libertà personale.
La Corte costituzionale, con la sent. n. 487 del 1989, ha sostenuto che: «la criminalizzazione
comporta anzitutto una scelta tra tutti i beni e valori emergenti nell’intera società e tale scelta non
può essere realizzata dai consigli regionali per la mancanza di una loro visione generale dei bisogni
ed esigenze dell’intera società.
Con la riforma del titolo V è stato modificato l’art. 117 della Costituzione, che oggi indica, tra le
materie di esclusiva competenza dello Stato, l’ordinamento penale.
RAPPORTO LEGGE – REGOLAMENTO
NORME PENALI IN BIANCO
(questo è un argomento da studiare bene perché viene spesso chiesto agli esami)
Nel diritto penale la riserva di legge è tendenzialmente assoluta.
Le fonti sub legislative non possono contenere leggi penali.
Nel diritto penale il punto problematico è costituito dalle norme penali in bianco, ovvero dai
LIMITI DI AMMISSIBILITA’ DELLE NORME PENALI IN BIANCO.
La norma penale si compone di due elementi:
 PRECETTO
 SANZIONE
Le norme penali in bianco sono quelle norme che contengono un precetto più o meno indefinito,
che deve essere definito sulla base di fonti sub legislative.
La norma di per sé è determinata nel senso che anche il precetto ha dei contorni ben precisi, però
per determinare il contenuto del precetto occorre fare riferimento all’atto richiamato dalla norma
penale in bianco.
Nell’ambito delle norme penali in bianco, il problema che viene in rilievo non è quello della
indeterminatezza della norma penale, ma è quello del rispetto del principio di riserva di legge.
Se si segue una tesi restrittiva, in ordine all’ammissibilità delle norme penali in bianco, il risultato è
quello di considerare la riserva di legge come assoluta; se, invece, si segue una tesi estensiva, che
tende a legittimare le norme penali in bianco, allora il risultato è quello di considerare la riserva di
legge come relativa.
In astratto, i modelli di integrazione tra legge e fonte normativa subordinata (regolamento,
ordinanza ecc.) possono essere così schematizzati:
a. La legge consente alla fonte secondaria di scegliere i comportarti punibili tra quelli da
quest’ultima disciplinati. (qui il rinvio è massimo, è totale) (art.659 c.p.)
b. La legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle condotte concretamente
punibili (c.d. norme penali in bianco) (art. 650 c.p.)
c. La fonte secondaria disciplina uno o più elementi che concorrono alla descrizione
dell’illecito penale.
d. L’atto normativo subordinato assolve alla funzione di specificare in via “tecnica” elementi
di fattispecie legislativamente predeterminati nel nucleo significativo essenziale.
Fiandaca parla di norme penali in bianco solo con riferimento alla lettera b, ma in realtà, nella
prassi, si parla di norme penali in bianco in tutti i 4 casi.
Il problema della costituzionalità della norma penale in bianco si pone soprattutto con riguardo ai
casi di cui alle lettere a) e b).
Cominciamo con l’esaminare l’ipotesi di integrazione di cui alla lettere b), la norma che viene in
questione è l’art. 650 c.p. che incrimina l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità
amministrativa. Si tratta di un esempio tipico di norma penale in bianco perché la fattispecie
corrispondente è molto generica e simile ad un contenitore vuoto. Il contenuto di questo contenitore,
rappresentato dalle specifiche regole di condotta da osservare, non è conoscibile prima che
l’autorità amministrativa emani il provvedimento.
La Corte costituzionale, con la sent. n. 168 del 1971, ha dichiarato costituzionalmente legittimo
l’art. 650 c.p., sostenendo che la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti
i suoi elementi costitutivi. La Corte ha, inoltre, sostenuto che le norme penali in bianco sono
costituzionalmente legittime, ovvero non violano il principio di legalità, qualora sia una legge dello
Stato – non importa se diversa dalla norma incriminatrice - a fissare i caratteri, i presupposti, il
contenuto ed i limiti dei provvedimenti dell’Autorità amministrativa, alla cui trasgressione l’art. 650
c.p. riconnette sanzioni penali. La sentenza della Corte costituzionale è condivisa dalla dottrina
tradizionale, ma non da quella recente la quale sostiene che ammettere il rinvio, in questi casi,
significherebbe NEGARE CARATTERE ASSOLUTO ALLA RISERVA DI LEGGE.
LE NORME PENALI IN BIANCO SONO SICURAMENTE COMPATIBILI CON IL PRINCIPIO
DI LEGALITA’ NEL CASO DI CUI ALLA LETTERA D).
Nessun problema di violazione della riserva di legge suscita, infatti, quell’apporto della fonte
secondaria che si limiti a specificare, da un punto di vista «tecnico», elementi del fatto già
contemplati dalla legge che configura il reato. Tale contributo appare indispensabile nei settori della
legislazione speciale caratterizzati da complessità tecnica e bisognosi di continuo aggiornamento.
Si pensi al seguente caso:
Ad un industriale si contesta di produrre sostanze alimentari con aggiunta di additivi chimici non
autorizzati dal Ministro della sanità. La difesa eccepisce che nella specie il reato è configurato non
dalla norma penale, ma da un decreto del Ministro.
La specificazione mediante decreto del Ministro della salute degli additivi chimici non autorizzati
non incide sulla completezza del precetto penale, già integralmente costituito col divieto di far uso
degli additivi chimici.
È, invece, certamente illegittimo il modello di integrazione di cui alla lettera a), quello cioè nel
quale la legge consente alla fonte secondaria di selezionare i comportamenti punibili tra quelli da
quest’ultima disciplinati: qui infatti il legislatore si spoglierebbe della funzione legislativa, di cui è
investito in forza del principio della riserva, per delegarlo interamente al potere regolamentare.
CONSUETUDINE
DEFINIZIONE: La consuetudine è un comportamento sociale ripetuto nel tempo sino al punto che,
dimenticata la sua origine o da sempre sconosciuta, viene sentito come obbligatorio, giuridicamente
vincolante.
La consuetudine non può avere funzione incriminatrice perché ciò significherebbe violare il
principio di riserva di legge. Anche la consuetudine abrogatoria non è ammissibile perché se una
legge per lungo tempo non è stata applicata ciò non significa che sia stata abrogata; per abrogarla è
necessario un intervento da parte del legislatore.
FUNZIONE INTEGRATRICE DELLA CONSUETUDINE: parte della dottrina ammette una
funzione integratrice della consuetudine. Al concetto di consuetudine integratrice spesso si fa
ricorso per alludere a quei casi in cui il giudizio penale presuppone il rinvio a criteri sociali di
valutazione, come ad es. in materia di osceno.
Ammissibile è il ricorso alla consuetudine cd. SCRIMINANTE. Le norme che configurano cause di
giustificazione non hanno carattere specificatamente penale, per cui le situazioni scriminanti non
sono necessariamente subordinate al principio della riserva di legge; così ad esempio è ammissibile
che l’esercizio di un diritto, quale causa di giustificazione, abbia la sua fonte in una norma
consuetudinaria.
PRINCIPIO DI LEGALITA’ E MISURA DI SICUREZZA
Art. 199 del codice penale: «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano
espressamente previste dalla legge e fuori dai casi espressamente previsti».
Lo stesso principio è ribadito dall’art. 25, comma 3, della costituzione: «nessuno può essere
sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge».
RISERVA DI LEGGE E NORMATIVA COMUNITARIA
Non c’è un diritto penale europeo in quanto il diritto penale è piuttosto resistente ad esigenze di
europeizzazione; ciò perché il diritto penale riguarda la sfera della sovranità dello Stato, è diretta
espressione e manifestazione della sovranità dello Stato.
Un processo di europeizzazione, ovvero l’introduzione di norme penali comunitarie, comporterebbe
effetti negativi in quanto il diritto penale per essere effettivo deve essere condiviso, deve rispondere
ad esigenze ritenute importanti all’interno di un determinato ordinamento. Il diritto penale non deve
avere una funzione promozionale, ma deve intervenire con riferimento a situazioni già emerse;
creare nuovi beni o nuove norme in vista della realizzazione di certi obiettivi comunitari
comporterebbe effetti negativi, perché tali norme non risponderebbero ad esigenze del nostro
ordinamento. Poi vi è anche da dire che attualmente gli atti normativi non provengono direttamente
dal Parlamento europeo, ma dal Consiglio che è espressione dei governi degli Stati membri. Vi è
quindi un DEFICIT DI DEMOCRATICITA’.
Quando questo verrà meno allora sarà possibile riconoscere una vera e propria competenza europea
a emanare norme penali.
Pur non potendo creare direttamente fattispecie incriminatrici, l’Unione europea è cmq interessata
ad una tutela penale c.d. mediata degli interessi comunitari:essa cioè si preoccupa che tali interessi
ricevano, anche a mezzo del diritto penale, una protezione non solo efficace, ma anche il più
possibile omogenea nell’ambito delle diverse legislazioni nazionali rientranti nello spazio europeo.
Le tecniche utilizzate per raggiungere un simile obiettivo sono fondamentalmente tre:
 ASSIMILAZIONE degli interessi comunitari agli interessi statali mediante l’estensione ai
primi delle forme di tutela previsti per i secondi. (ad esempio Tutela delle frodi comunitarie)


ARMONIZZAZIONE delle legislazioni penali nazionali, realizzabile dagli Stati membri
mediante la predisposizione di modelli di incriminazione tendenzialmente simili, in modo da
consentire alle autorità competenti una più efficace persecuzione dei reati all’interno dello
spazio europeo.
UNIFICAZIONE delle discipline penali nazionali, sfociante nella predisposizione di una
norma penale comune (ci vogliono tempi lunghissimi per raggiungere un simile obiettivo).
L’armonizzazione che viene perseguita dall’UE attraverso direttive non obbliga lo Stato membro a
introdurre norme penali, perché per mezzo di direttive l’Unione Europea si limita ad indicare gli
obiettivi da raggiungere lasciando libero lo Stato circa l’adozione di una sanzione penale, civile o
amministrativa.
Si è discusso se l’Unione Europea attraverso le direttive possa imporre allo Stato italiano di adottare
delle disposizioni penali e fino al 2005 si è ritenuto che ciò non è possibile. Nel 2005 c’è stata una
sentenza della Corte di giustizia con la quale si è sostenuto che le direttive possono fare obbligo allo
Stato di introdurre norme penali. Con tale pronuncia, la Corte di Giustizia afferma esplicitamente,
per la prima volta, la competenza della normativa comunitaria ad imporre agli Stati membri
l’obbligo di prevedere sanzioni penali finalizzate alla tutela di un bene giuridico comunitariamente
rilevante, costituito nel caso di specie dall’ambiente. I giudici di Lussemburgo hanno altresì
affermato che l’obbligo di penalizzazione di fonte comunitaria va imposto con lo strumento della
direttiva , ed hanno superato le obiezioni dei resistenti sostenendo che la riserva della materia
penale agli Stati membri non può impedire al legislatore comunitario di adottare provvedimenti in
relazione agli ordinamenti penali interni che lo stesso diritto comunitario ritiene necessari per
garantire la piena efficacia delle proprie norme. Con la pronuncia in questione sembra, dunque, che
la Corte di Giustizia non si sia limitata a ribadire che gli ordinamenti nazionali hanno l’obbligo di
predisporre sanzioni adeguate alla tutela degli interessi comunitari, ma si sia spinta oltre, sino ad
esigere l’adozione di sanzioni penali in senso stretto.
EFFICACIA SCRIMINANTE DELLE NORME COMUNITARIE: Le norme comunitarie possono
avere efficacia scriminante. Qualora un diritto venga riconosciuto da una norma comunitaria,
l’esercizio di tale diritto è da ritenersi giustificato. Si pensi al diritto di stabilimento.
Ci sono norme penali che puniscono l’esercizio abusivo di certe professioni come la professione di
avvocato. Il reato di esercizio abusivo viene meno quando l’imputato è un cittadino dell’U.E. che
nel suo Stato è abilitato ad esercitare quella professione.
PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ o di DETERMINATEZZA
Il principio di tassatività e il divieto di analogia hanno in comune il fatto che la ratio garantistica
propria della legge si indirizza rispetto ai possibili abusi del potere giurisdizionale.
Attraverso questi criteri si vuole garantire il cittadino in ordine ai possibili abusi da parte del potere
giurisdizionale. Il principio di determinatezza implica che il legislatore deve formulare le norme
penali in modo da fissare limiti applicativi della disposizione stessa in termini sufficientemente
chiari e precisi.
Il problema è estremamente complesso perché le norme penali si prestano ad interpretazioni più o
meno ampie.
È possibile distinguere tre tipi di norme penali:
1. NORMA PENALE RIGIDA, gli elementi contenuti nella norma penale rigida sono elementi
precisi, rigidi. Non si pongono problemi interpretativi.
2. NORMA PENALE CHE CONTIENE ELEMENTI ELASTICI, è una norma che è
suscettibile di diverse interpretazione e per tal motivo provoca pronunce contrastanti. È però
possibile che si formi una tesi giurisprudenziale prevalente.
3. NORMA VAGA, è una norma contraria al principio di determinatezza in quanto gli
elementi in essa contenuti sono vaghi e nonostante gli sforzi interpretativi non è possibile
pervenire ad una tesi prevalente. La norma vaga è una norma incostituzionale.
Fiandaca-Musco distingue due elementi della norma penale
ELEMENTI NORMATIVI
Sono elementi normativi
quegli elementi che fanno
riferimento ad un sistema di
norme che possono essere
giuridiche o extragiuridiche.
Se il sistema è costituito da
norme extragiuridiche si ha
violazione del principio di
determinatezza, in quanto le
norme extragiuridiche (norme
sociali o di costume) sono
indeterminate.
ELEMENTI DESCRITTIVI
Sono elementi descrittivi quegli
elementi che fanno riferimento
alla realtà esteriore e quindi
sono maggiormente rispettosi
del principio di determinatezza.
La Corte costituzionale raramente è pervenuta a sentenze di incostituzionalità per violazione del
principio di determinatezza. Uno dei casi rari di pronuncia di incostituzionalità per violazione del
principio di indeterminatezza ha riguardato il delitto di plagio (art. 603 c.p.).
L’art. 603 c.p. disponeva che: «chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurlo
in totale stato di soggezione è punito con la reclusione da 5 a 15 anni».
Il plagio era una condotta di assoggettamento psicologico di una persona, ma non era chiaro in che
cosa consisteva, mancava l’elemento descrittivo di tipo naturalistico, la realtà esteriore non era
facilmente individuabile; per questi motivi, la Corte costituzionale, nel 1981, lo ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo per violazione del principio di determinatezza. (nota bene: il
principio di determinatezza è un sottoprincipio del principio di legalità).
MISURE DI SICUREZZA: le misure di sicurezza sono fissate dal legislatore nella durata minima e
non anche nella durata massima; ciò urta con il principio di determinatezza. In realtà si deve tener
conto che il principio di determinatezza deve essere bilanciato con il principio di rieducazione. Le
misure di sicurezza sono volte alla rieducazione del reo, ecco perché il legislatore ne fissa solo la
misura minima e non anche quella massima.
In questa prospettiva, la violazione del principio di determinatezza è compensata dal rispetto del
principio di rieducazione. Nel bilanciamento tra principio di rieducazione e principio di
determinatezza prevale il primo.
DIVIETO DI ANALOGIA
Il divieto di analogia non è previsto dalla Costituzione. L’art. 25 della Costituzione fa riferimento
alla riserva di legge e al principio di irretroattività della norma penale incriminatrice e non anche al
principio di determinatezza e al divieto di analogia, ma si è concordi nel ritenere questi siano stati
costituzionalizzati, ovvero che abbiano una rilevanza costituzionale anche se implicita, in quanto,
senza questi principi, la garanzia di legalità sarebbe compromessa.
Vi sono due modi per colmare le lacune:


Analogia (ragionamento per similitudine)
Argomentum a contrari, se un comportamento non è espressamente previsto dalla legge
come illecito allora vuol dire che è lecito.
Per quanto riguarda l’ANALOGIA:
L’art. 12 delle Preleggi dispone che: «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro
senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e
dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa
disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe
(ANALOGIA LEGIS); se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali
dell'ordinamento giuridico dello Stato (ANALOGIA IURIS)».
L’art. 14 delle Preleggi dispone che:« Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali
o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati».
Il problema dell’ammissibilità dell’analogia non è quindi un problema che si pone in diritto penale.
I presupposti dell’analogia sono, infatti:
1. Identica ratio
2. Norma non penale
3. Norma non eccezionale (una norma è eccezionale quando disciplina vicende o situazioni
singolari che pongono l’esigenza di disporre regole altrettante singolari e in ambiti
delimitati, in deroga alle regole generali).
FONDAMENTO DEL PRINCIPIO DI LEGALITA’
I due possibili fondamenti del principio di legalità sono:
 Favour libertatis
 Certezza delle situazioni giuridiche
Qualora si ritenga che il fondamento del principio di legalità sia la certezza delle situazioni
giuridiche allora l’analogia sarebbe inammissibile; il divieto di analogia sarebbe assoluto perché
un’analogia a favore del reo (colui che ha commesso il reato) sarebbe contraria ad esigenze di
certezza delle situazioni giuridiche.
Qualora, invece, si ritenga che il fondamento del principio di legalità sia il favour libertatis allora il
divieto di analogia sarebbe relativo, e cioè l’analogia opererebbe solo a favore del reo.
La domanda, allora, è: IL DIVIETO DI ANALOGIA E’ ASSOLUTO O RELATIVO?
La dottrina comune ritiene che il divieto di analogia sia relativo, opererebbe soltanto per le norme
incriminatrici e ciò perché il fondamento del principio di legalità sarebbe il favour libertatis.
Come opera l’analogia a favore del reo?
Il problema è più teorico che pratico,e ciò perché la giurisprudenza non segue la tesi della dottrina,
ma ritiene che il divieto di analogia sia assoluto, dando così prevalenza al principio di certezza delle
situazioni giuridiche.
I casi di analogia a favore del reo sono infrequenti. Questo perché le norme penali favorevoli spesso
sono norme eccezionali e come tali non applicabili analogicamente. Si pensi all’art. 90 della Cost.
che prevede l’immunità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue
funzioni. Questa è una norma penale favorevole al reo, ma, al contempo, è una norma eccezionale
perché fa riferimento ad un soggetto particolare e alla posizione che riveste.
LE CAUSE DI GIUSTFICAZIONE POSSONO ESSERE ESTESE ANALOGICAMENTE?
Le cause di giustificazione, secondo alcuni, non possono essere estese analogicamente perché sono
norme eccezionali. Secondo altri, come ad es. Fiandaca, le cause di giustificazione possono essere
estese analogicamente perché non sono norme eccezionali. Le norme che prevedono, ad esempio,
l’incapacità di intendere e di volere come esimente dal reato sono norme che, secondo questa parte
della dottrina, hanno un contenuto così ampio da non generare alcun problema di estensione
analogica.
PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’
Il principio di irretroattività fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua
entrata in vigore. Esso è previsto, per tutte le leggi, dall’art.11 delle disposizioni preliminari, il
quale stabilisce che: «La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto reatroattivo».
Il principio di irretroattività ha rango costituzionale solo per la materia penalistica, come si desume
dal secondo comma dell’art. 25 della Costituzione, il quale dispone che: «nessuno può essere punito
se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Tale principio trova
una più articolata disciplina nell’art. 2 del codice penale.
Art. 2, comma 1, del codice penale: «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge
del tempo in cui fu commesso, non costituisce reato».
Questa disposizione si riferisce al fenomeno della c.d. NUOVA INCRIMINAZIONE che ricorre
quando una legge introduce una nuova figura di reato.
Art. 2, comma 2, del codice penale: «nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge
posteriore, non costituisce reato; e se vi è stata condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti
penali».
Questa disposizione si riferisce al fenomeno dell’ABOLITIO CRIMINIS.
Gli autori del reato oggetto di abrogazione non solo non potranno più essere puniti, ma se hanno
subito una condanna ancorché non definitiva ne cessa l’esecuzione e si estinguono tutti i connessi
effetti penali.
Sarebbe irragionevole punire un soggetto per un comportamento ormai tollerato dall’ordinamento
giuridico.
Art. 2, comma 4, del codice penale: «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le
posteriori sono diverse si applica quelle le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia
stata pronunciata sentenza irrevocabile». (SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI NEL TEMPO)
Il fondamento del comma 4 dell’art. 2 del codice penale è la garanzia del favour libertatis, che
assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge del tempo in cui fu
commesso il reato e la legge posteriore, purché nel frattempo non sia stata pronunciata sentenza
definitiva di condanna.
Il principio di irretroattività della norma penale ha valenza relativa perché riguarda solo le norme
più sfavorevoli (vale soltanto per il caso di nuova incriminazione e per il caso in cui la norma
posteriore prevede un trattamento penale più sfavorevole).
La differenza tra il secondo ed il quarto comma è che nel caso di cui al secondo comma viene meno
l’impunità, il fatto non costituisce più reato; nel caso di cui al quarto comma, invece, il fatto
continua a costituire reato solo che per la sua commissione viene previsto un trattamento penale più
favorevole al reo.
Non è facile stabilire quando si versa nell’ipotesi del secondo comma o nell’ipotesi del quarto
comma, soprattutto quando una legge penale successiva, lungi dal limitarsi ad abrogare una
disposizione incriminatrice preesistente, ne riformuli il contenuto mediante la sostituzione degli
elementi costitutivi o l’aggiunta di nuovi.
Si pensi alla sostituzione del reato di infanticidio per causa d’onore con la nuova fattispecie di
infanticidio in condizioni di abbandono morale e materiale della madre. Prima della modifica,
avvenuta nel 1981, l’art. 578 puniva l’infanticidio per ragioni d’onore con una pena più bassa.
L’infanticidio era considerato omicidio, ma se commesso per ragioni d’onore era prevista una pena
più bassa.
Oggi l’infanticidio è punito con una pena più bassa se commesso dalla madre in stato di abbandono
materiale e morale.
Il nuovo art. 578 c.p. dispone, infatti, che: «La madre che cagiona la morte del proprio neonato
immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da
condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro
a dodici anni.
A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad
anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere
diminuita da un terzo a due terzi».
PROBLEMA: l’infanticidio per causa di onore, commesso prima del 1981, può essere punito in
base all’attuale art. 578 c.p. ovvero con una pena più bassa? O si tratta di un’ipotesi di abolitio
criminis ex art. 2, comma 2, c.p.?
I criteri fissati dalla giurisprudenza in relazione a queste situazioni di nuova norma penale sono tre:
1. CRITERIO DELLA CONTINUITA’ DEL FATTO ILLECITO secondo questo criterio si
applica il quarto comma dell’art. 2 quando tra le due norme c’è una continuità, tenendo
conto del bene protetto e delle modalità della condotta. Questo criterio si espone alla facile
obiezione che è troppo elastico, cioè non si capisce quando sussisterebbe questa continuità.
2. CRITERIO DELLA CONTINENZA, secondo questo criterio si applica il quarto comma
quando c’è una situazione di continenza di una norma nell’altra, quando cioè la vecchia
norma è contenuta nella nuova, in virtù di una relazione di genere a specie.
Nuova norma
Vecchia
norma
3. CRITERIO DEL FATTO CONCRETO, secondo questo criterio bisogna vedere se il fatto
concreto è riconducibile sotto entrambe le norme, se è riconducibile sotto entrambe le norme
allora si applica il comma 4 dell’art. 2.
Non c’è un criterio prevalente.
ESAMINIAMO IL CASO DELL’INFANTICIDIO PER RAGIONI DI ONORE
NUOVO ART. 578
VECCHIO ART. 578
PER RAGIONI DI ONORE
MOTIVI DI ABBANDONO MORALE E MATERIALE
INFANTICIDIO
PER
QUALE TRA QUESTE DUE NORME SI APPLICA? Tra il precedente art. 578 e il nuovo articolo
578 non c’è un rapporto di continenza perché la fattispecie alla base è diversa (nel primo caso,
infanticidio per ragioni d’onore; nel secondo caso, infanticidio per motivi di abbandono morale e
materiale della madre). La conclusione è che l’infanticidio per ragioni di onore, una volta abolito, si
pone in rapporto di continenza con l’art. 575 c.p. (omicidio). Tra questi due articoli c’è un rapporto
di continenza perché l’omicidio punisce l’uccisione di un uomo e il bambino è un uomo, quindi si
applica il comma 4 dell’art. 2 c.p., ovvero la regola del favor rei. (L’inapplicabilità dell’art. 578 c.p.
non può portare all’impunità del reato di infanticidio commesso prima del 1981).
Qual è la norma più favorevole? L’art. 575 c.p. o il vecchio art. 575 c.p. ?
Essendo più mite la pena prevista dal vecchio art. 578, si applicherà il vecchio art. 578 (si applica
quindi la norma vigente al tempo in cui è stato commesso il fatto).
Art. 14 della l. 85/06: tale legge ha aggiunto all’art. 2 un ulteriore comma, il comma 3, che prevede
che «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena
pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena
pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135».
Questa norma prevede la modifica nel tempo del trattamento sanzionatorio intervenuta dopo la
sentenza definitiva di condanna.
SUCCESSIONE DI LEGGI TEMPORANEE, ECCEZIONALI E FINANZIARIE
Art. 2, comma quinto, del codice penale: «il principio della retroattività in senso più favorevole al
reo è inoperante rispetto alle leggi temporanee, eccezionali e finanziarie.
LEGGI ECCEZIONALI: sono leggi eccezionali quelle leggi il cui ambito di operatività temporale è
segnato dal persistere di uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dall’ordinario.
LEGGI TEMPORANNE: sono leggi temporanee le leggi rispetto alle quali è lo stesso legislatore a
prefissare un termine di durata.
DIVIETO DI RETROATTIVITA’ E MISURE DI SICUREZZA
Art. 200 c.p. Applicabilità delle misure di sicurezza rispetto al tempo, al territorio e alle
persone.
«Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione.
Se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in
vigore al tempo della esecuzione».
DECRETI LEGGE NON CONVERTITI
Art.2, comma 6, del codice penale: «le disposizioni sulla successione di legge si applicano altresì
nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge
convertito in legge con emendamenti».
È da notare che i decreti legge perdono efficacia ex tunc. Se non esistesse il comma 6 dell’art. 2 del
codice penale, nell’ipotesi di decreti legge non convertiti che eventualmente introducano,
modifichino o abroghino fattispecie penali preesistenti, verrebbe meno la possibilità di configurare
una successione di leggi penali nel tempo; ciò in quanto il fenomeno della successione presuppone
la valida applicazione della legge preesistente al fatto, mentre la caducazione con efficacia ex tunc
di un decreto legge impedirebbe di continuarlo ad applicare anche a fatti commessi sotto la sua
vigenza. Si pensi ad un decreto legge che abroghi una norma incriminatrice preesistente o ne attenui
il trattamento sanzionatorio: si dovrebbe pervenire, in base alle accennate premesse, alla
conclusione che un fatto non costituente reato, o punito meno gravemente al momento in cui fu
commesso, tornerebbe a costituire reato o, rispettivamente, ad essere più gravemente sanzionato,
dopo la caducazione del decreto legge. Tale conclusione sarebbe inaccettabile perché violerebbe il
principio di irretroattività della norma penale incriminatrice o più sfavorevole al reo, sancito
dall’art. 25, comma 2, della Costituzione. Ne consegue che anche le esigenze di cui è espressione
l’art. 77 della Costituzione ( e cioè l’esigenza di un controllo del parlamento sui provvedimenti
urgenti del Governo) devono rimanere subordinate al rispetto del principio di irretroattività della
disposizione penale meno favorevole al reo.
La Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma sesto dell’art. 2 c.p.
per violazione dell’art. 77, comma 3, della Costituzione, nella parte in cui rendeva applicabili le
disposizioni di cui ai commi secondo e quarto ai casi di mancata conversione di un decreto legge
recante norme abrogatrici o più favorevoli. Parte della dottrina ha evidenziato, però, che questa
sentenza fa riferimento ai soli fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legge, nulla
invece si sarebbe detto in ordine a fatti concomitanti, commessi cioè sotto la vigenza del decreto
legge; sicché, con riferimento ai fatti di reato concomitanti, dovrebbe continuare a produrre effetti
il trattamento più favorevole previsto dal decreto legge e ciò per esigenze di favor libertatis che non
potrebbero essere del tutto compromessa.
CAPITOLO 3: L’interpretazione delle leggi penali
Per poter sussumere un caso concreto nella fattispecie generale ed astratta occorre procedere ad
un’attività di interpretazione della legge penale.
In base al soggetto che procede all’attività di interpretazione, possiamo distinguere tra:




INTERPRETAZIONE AUTENTICA, che è quella effettuata dallo stesso legislatore che ha
introdotto la norma.
INTERPRETAZIONE UFFICIALE, che è quella effettuata dai pubblici funzionari dello
Stato nell’ambito delle loro competenze istituzionali.
INTERPRETAZIONE GIUDIZIALE, che è quella effettuata dai giudici nell’emanare
sentenze.
INTERPRETAZIONE DOTTRINALE, che è quella realizzata dagli studiosi di diritto nelle
opere di dottrina.
Che il giudice sia la pura «bocca della legge» è solo una pia illusione, giacché ciò che veramente
conta per il giudice non è il semplice significato linguistico di una disposizione, ma il suo obiettivo
di tutela; ed in non pochi casi, per individuare un tale obiettivo, può risultare necessaria un’indagine
che vada al di là del tenore della formula linguistica.
L’ordinamento italiano contiene una norma, l’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile,
che si preoccupa di indicare all’interprete i criteri da seguire nell’interpretare una disposizione.
Questi criteri sono due:
1. Il significato proprio delle locuzioni legislative
2. L’intenzione del legislatore
L’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile dispone, infatti, che:
«Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse , e dalla intenzione del legislatore».
La maggiore debolezza di questa norma consiste nella omessa esplicitazione di un loro ordine
gerarchico: e cioè, il legislatore non dice quale criterio debba prevalere, ove la lettera della legge si
ponga in contrasto con l’intenzione più o meno palese sottesa alla legge medesima.
Per tal motivo la dottrina ha elaborato dei canoni di interpretazione.
Essi sono:
1. CRITERIO SEMANTICO, che tende ad individuare il senso della norma facendo leva sul
significato lessicale dei termini utilizzati nella formula legislativa.
2. CRITERIO STORICO, che mira a ricostruire la volontà espressa dal legislatore al momento
dell’emanazione delle norme.
3. CRITERIO LOGICO-SISTEMATICO, che consiste nel cogliere le connessioni concettuali
esistenti tra la norma da applicare e le restanti norme, sia del sistema penale che dell’intero
ordinamento giuridico.
4. CRITERIO TELEOLOGICO, che mira ad individuare l’attuale obiettivo di tutela della norma.
Come già detto in precedenza, il giudice è più attento allo scopo di tutela della norma piuttosto che
al suo significato letterale Questo metodo di interpretazione, c.d. teleologico, ha finito con
l’estendere l’area del penalmente rilevante; la giurisprudenza cioè estende il novero dei
comportamenti punibili, anche al di là di una loro previsione espressa, facendo leva sulla loro
analoga attitudine a ledere il bene protetto.
Capitolo 4: Ambito di validità spaziale e personale della legge penale
Sezione I: Ambito di validità spaziale della legge penale
Per determinare i limiti di applicabilità della legge penale è possibile ricorrere in astratto a 4
principi:
1. PRINCIPIO DI TERRITORIALITA’, per il quale la legge nazionale si applica a chiunque –
cittadino, straniero, o apolide, delinque nel territorio dello Stato;
2. PRINCIPIO DI DIFESA O TUTELA, che rende applicabile la legge dello Stato cui
appartengono i beni offesi o cui appartiene il soggetto passivo del reato;
3. PRINCIPIO DI UNIVERSALITA’, secondo il quale la legge nazionale si applica a tutti i
delitti dovunque e da chiunque commessi;
4. PRINCIPIO DI PERSONALITA’, in virtù del quale si applica sempre la legge dello Stato di
appartenenza del reo.
Dall’analisi della disciplina, contenuta nel nostro codice penale agli artt. 6 e seguenti, sembra
potersi desumere che nessuno di questi principi predomini in modo assoluto, ma che piuttosto si
assista ad una combinazione di essi imposta dall’esigenza di contemperare la tutela di molteplici
interessi. Una cosa sembra essere certa, ovvero che il principio di territorialità stia subendo oggi un
forte ridimensionamento dovuta all’esigenza di reprimere condotte criminali aventi carattere
transazionale. Si assisterebbe quindi ad un soppiantamento del principio di territorialità a favore del
principio di universalità.
Reati commessi nel territorio dello Stato
L’art. 6, comma 1, del codice penale sancisce il principio di territorialità, disponendo che:
«chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana».
La nozione di territorio è fornita dall’art. 4 del codice penale, il quale dispone che: «agli effetti della
legge penale è territorio dello Stato il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla
sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili sono soggetti alla sovranità dello Stato, ovunque si
trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera».
NOTA BENE: Il territorio dello Stato è costituito dalla superficie terrestre compresa nei sui confini
geografici e politici, nonché dal mare costiero e dallo spazio aereo. Più precisamente il mare
costiero è quella parte di mare compreso entro le 12 miglia marine dalla linea costiera e dalle linee
rette che uniscono i promontori. Lo spazio aereo è costituito dalla atmosfera terrestre e trova il suo
limite nella zona cd. ultra atmosferica, cioè sovrastante l’atmosfera terrestre. Ovviamente, fa parte
del territorio dello Stato anche il sottosuolo fino alle profondità raggiungibili con l’impiego di
mezzi meccanici, rispetto alle quali è perciò possibile l’esercizio di un’effettiva sovranità. Un
concetto convenzionale di territorio vale per le navi e gli aeromobili che si considerano come
territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale,
a una legge territoriale straniera. L’applicabilità di questo principio, detto della bandiera, è
incondizionata per le navi e gli aeromobili di Stato, mentre per quelli privati è limitata alle ipotesi in
cui essi si trovano in alto mare, o comunque in una zona non soggetta alla sovranità straniera.
Ma quand’è che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato? Il secondo comma
dell’art. 6 sancisce il principio dell’ubiquità, stabilendo che:«il reato si considera commesso nel
territorio dello Stato Italiano quando l’azione od omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto
o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione».
Si discute su cosa debba intendersi per “azione od omissione in parte compiuta nel territorio dello
Stato”, cioè ci si chiede se la parte di azione od omissione, compiuta nel territorio dello Stato, per
assumere rilevanza penale debba contenere gli estremi del tentativo punibile. Secondo una parte
della dottrina non è necessario che la parte di azione od omissione, compiuta nel territorio dello
Stato, contenga gli elementi del tentativo punibile perché l’art. 56 presuppone che la azione non si
sia compiuta o che l’evento non si sia verificato, l’art. 6 invece fa riferimento ad ipotesi delittuose
che, realizzandosi in tutti gli estremi, pervengono allo stadio di reati consumati e come tali vengono
punti; pertanto, secondo questa parte della dottrina, è sufficiente accertare che la parte o frazione di
azione compiuta nel territorio dello Stato rappresenti un anello essenziale della condotta criminosa.
Quanto ai casi di concorso di persone, l’applicabilità del principio di ubiquità comporta che il reato
si considera commesso nel territorio dello Stato sia qualora l’azione venga iniziata all’estero e
proseguita in Italia, sia nel caso in cui, pur essendo il reato eseguito interamente all’estero, un
qualsiasi atto di partecipazione sia compiuto in Italia (o viceversa).
REATI COMUNI COMMESSI ALL’ESTERO
Quanto ai reati comuni commessi all’estero, vi è da dire che vi sono dei reati comuni commessi
all’estero, non importa se commessi da un cittadino o da uno straniero, che vengono puntiti
incondizionalmente dalla legge italiana, e questi sono: 1) i delitti contro la personalità dello Stato
italiano; 2) i delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto; 3) i
delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte
di pubblico credito italiano; 4) i delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato,
abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni; 5) ogni altro reato per il quale
speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge
penale italiana».
Vi sono, invece, altri reati comuni commessi all’estero, la cui punibilità è soggetta a delle
condizioni, previste dall’art. 9 del codice penale, ovvero che: 1. si tratti di delitto per il quale la
legge italiana stabilisce l’ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni; 2. che il
cittadino si trovi nel territorio dello Stato. Qualora si tratti di delitti punibili con una pena inferiore
a tre anni, occorre,oltre alla presenza del reo nel territorio dello Stato, anche la richiesta del ministro
della Giustizia, ovvero l’istanza o la querela della persona offesa. Qualora si tratti di delitto comune
commesso all’estero a danno di uno Stato Estero o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta
del Ministro della Giustizia, sempreché l’estradizione non sia stata concessa o accettata. Quanto
detto è quanto dispone l’art. 9 del codice penale.
Quanto all’art. 10 del codice penale, esso dispone che: «Lo straniero, che fuori dei casi indicati
negli articoli 7 e 8, commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un cittadino, un delitto per
il quale la legge italiana stabilisce l'ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, è
punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato, e vi sia richiesta del
Ministro
della
giustizia,
ovvero
istanza
o
querela
della
persona
offesa.
Se il delitto è commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il
colpevole è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che:
1)
si
trovi
nel
territorio
dello
Stato;
2) si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena dell'ergastolo ovvero della reclusione non
inferiore
nel
minimo
a
tre
anni;
3) l'estradizione di lui non sia stata concessa, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato
in cui egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli appartiene».
DELITTO POLITICO COMMESSO ALL’ESTERO
Ai sensi dell’ 8 del codice penale: «Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che
offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì
considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici.
Il cittadino o lo straniero, che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra
quelli indicati nel n. 1 dell’articolo precedente (ovvero delitti contro la personalità dello Stato
italiano), è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia.
Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, occorre, oltre tale richiesta, anche la
querela».
Sezione II: Ambito di validità personale della legge
L’art. 3 del codice penale sancisce il principio di obbligatorietà della legge penale, stabilendo che:
«la legge penale italiana obbliga tutti coloro, cittadini o stranieri, che si trovano sul territorio dello
Stato; e tutti coloro, cittadini o stranieri, che si trovano all’estero nei casi stabiliti dalla legge
medesima o dal diritto internazionale».
Dopo aver fissato il principio di obbligatorietà, l’art. 3 del codice penale fa salve «le eccezioni
stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale». Queste eccezioni vengono
denominate IMMUNITA’ PENALI.
Le immunità si distinguono in:
IMMUNITA’ DI CARATTERE ASSOLUTO
RELATIVO
LE IMMUNITA’ HANNO CARATTERE ASSOLUTO
QUANDO SI ESTENDONO A TUTTI I REATI, SENZA
DISTINZIONE ALCUNA TRA ATTIVITA’ FUNZIONALE
ED ATTIVITA’EXTRAFUNZIONALE.
IMMUNITA’ DI CARATTERE
LE IMMUNITA’ HANNO CARATTERE RELATIVO
QUANDO SONO RICONOSCIUTE SOLO IN
COSTANZA DI CARICA E RICHIEDONO
UN’AUTORIZZAZIONE AL PROCEDIMENTO PENALE
DA PARTE DI ORGANI DIVERSI DAL GIUDICE
ORDINARIO.
Le immunità si distinguono inoltre in
IMMUNITA’ DI NATURA SOSTANZIALE
PROCESSUALE
LE IMMUNITA’ DI NATURA SOSTANZIALE SI
RIFERISCONO AGLI ATTI COMPIUTI, ALLE
OPINIONI ESPRESSE E AI VOTI DATI
NELL’ESERCIZIO DI FUNZIONI
IMMUNITA’ DI NATURA
LE IMMUNITA’ DI NATURA PROCESSUALE SI
RIFERISCONO AGLI ATTI COMPIUTI FUORI
DELL’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI, E PERSEGUIBILI
AL MOMENTO DELLA CESSAZIONE DELLA CARICA.
La FONTE dell’immunità può essere il diritto pubblico interno o il diritto internazionale.
DIRITTO PUBBLICO INTERNO: Le immunità derivanti dal diritto pubblico interno mirano a
garantire e proteggere l’espletamento di determinate funzioni o uffici di particolare importanza per
il corretto funzionamento del sistema politico. Non si tratta quindi di privilegi concernenti persone
fisiche, bensì prerogative riguardanti le funzioni esercitate e quindi valide solo nei limiti
tassativamente fissati dalla legge.
Tali immunità possono riassumersi nel modo seguente:
1.
Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue
funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.).
2.
Il Presidente del Senato, che esercita le funzioni di Presidente della Repubblica, gode delle
stesse immunità per tutto il periodo della supplenza.
3.
I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e
dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
4.
Non rispondono delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni
anche i giudici della Corte costituzionale, i membri dei consigli regionali e i membri del Consiglio
superiore della Magistratura.
DIRITTO INTERNAZIONALE: Le immunità derivanti dal diritto internazionale sono riconosciute
dall’ordinamento giuridico italiano in forza di trattati, convenzioni o accordi internazionali, ovvero
in forza dell’art. 10, comma 1, della Costituzione, che garantisce la conformità della nostra
legislazione «alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute».
La Corte costituzionale ha comunque precisato che il meccanismo di adeguamento automatico
previsto dall’art. 10 della Costituzione non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi
fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, operando in un sistema che ha i suoi cardini
nella sovranità popolare e nella rigidità costituzionale.
Tali immunità possono così riassumersi:
1. La persona del Sommo Pontefice è considerata sacra ed inviolabile. Queesta immunità è
assoluta e viene riconosciuta non solo nella sua veste di capo dello Stato estero, ma anche
nella sua altissima posizione spirituale di Capo della cristianità.
2. I capi di Stato esteri e i Reggenti che si trovano in tempo di pace nel territorio dello Stato
beneficiano di un’immunità totale che si estende anche al seguito e ai familiari che li
accompagnano.
3. Il presidente del consiglio e i ministri per gli affari esteri godono di un’immunità per tutti i
fatti commessi nell’esercizio delle loro funzioni.
4. Gli agenti diplomatici godono dell’ immunità penale assoluta dello Stato accreditato e
dell’esenzione da qualsiasi misura coercitiva, a norma della Convenzione di Vienna del 18
aprile 1961.
5. I funzionari internazionali godono della sola immunità funzionale per gli atti compiuti
nell’esercizio delle loro funzioni. Questa immunità trova normalmente la sua fonte in trattati
internazionali.
6. I consoli e gli agenti consolari si avvantaggiano dell’immunità se ciò è stabilito dai trattati
internazionali tra l’Italia e gli altri Stati.
7. Gli agenti diplomatici e gli inviati dei governi presso la Santa Sede godono delle stesse
immunità degli agenti diplomatici presso lo Stato italiano.
8. L’immunità sussiste anche per i giudici della Corte dell’Aja, e in misura più ridotta per i
giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo.
9. Godono infine di immunità i militari stranieri che si trovano, con previa relativa
autorizzazione, nel territorio dello Stato.
NATURA GIURIDICA DELL’IMMUNITA’: secondo la dottrina dominante, l’immunità ha natura
di causa di esclusione della pena; questa tesi è criticata dalla dottrina minoritaria in quanto non
coglierebbe la ratio sostanziale sottesa all’immunità. Secondo questa parte della dottrina, per
determinare la natura giuridica dell’immunità occorre individuare l’effetto tipico della situazione di
immunità di volta in volta esaminata, nonché il contesto nel quale essa si trova ad operare. Così, in
relazione all’effetto tipico, in tutti i casi in cui l’immunità di un soggetto è conseguenza
dell’esercizio delle sue funzioni, non può seriamente contestarsi che si è in presenza di una causa di
giustificazione (esercizio di un diritto, adempimento di un dovere). In altri casi, l’immunità va
invece spiegata con il ricorso alla categoria dell’incapacità processuale o penale. Con riferimento al
contesto è invece possibile distinguere a seconda che si tratti di immunità funzionali di diritto
interno o internazionale; nel primo caso, infatti, la tutela delle funzioni attiene ad interessi
coessenziali all’integrità del nostro sistema e dunque prevalenti rispetto ad altri contro interessati;
mentre nel secondo caso il riconoscimento dell’immunità discende dalla necessità di mantenere
relazioni diplomatiche con Stati esteri, a garanzia di una pacifica convivenza tra i popoli. Ciò
induce a ravvisare nell’immunità un mero limite all’esercizio del potere giurisdizionale.
Capitolo 5: Nozioni di teoria generale del reato
DIFFERENZA FRA DELITTI E CONTRAVVENZIONI
DELITTI: i delitti sono le forme più gravi di illecito penale. L’art. 17 del codice penale stabilisce
che le pene principali stabilite per i delitti sono:
1. Ergastolo
2. Reclusione
3. Multa
CONTRAVVENZIONI: le contravvenzioni sono le forme meno gravi di illecito penale. L’art. 17
del codice penale stabilisce che le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono:
1. Arresto
2. Ammenda
Nota bene: mentre i delitti richiedono di regola il dolo e la punibilità a titolo di colpa è l’eccezione;
nelle contravvenzioni si risponde indifferentemente per dolo o per colpa, a meno che non si versi in
quei casi eccezionali in cui è la stessa struttura del fatto contravvenzionale a richiedere di per sé
necessariamente il dolo ( ad esempio il fatto di recare molestia o disturbo alle persone per
petulanza) o per colpa ( ad esempio la rovina di edifici ex art. 676 c.p.). Il tentativo è configurabile
esclusivamente nell’ambito dei delitti.
COLPEVOLEZZA NELLE CONTRAVVENZIONI:
L’ art. 42, quarto comma, del codice penale stabilisce che: «nelle contravvenzioni ciascuno risponde
della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa»
Nel 1930, quando è stato approvato il codice Rocco, alcuni autori hanno sostenuto che il quarto
comma dell’art. 42 implicherebbe che si potrebbe prescindere dal’accertamento dell’elemento
soggettivo; si è affermato che, in questo caso, ci sarebbe una responsabilità oggettiva. Questa
interpretazione è un ricordo storico, e dimostra come in passato si fosse poco sensibili al principio
di colpevolezza. È chiaro che il quarto comma richieda che ci sia almeno la colpa.
L’ART. 42, QUARTO COMMA, STA A SIGNIFICARE NON TANTO CHE LA PUNIBILITA’
DELLE CONTRAVVENZIONI POSSA PRESCINDERE DAL DOLO O DALLA COLPA,
QUANTO CHE E’ INDIFFERENTE LA PRESENZA DELL’UNA O DELL’ALTRA SPECIE DI
COLPEVOLEZZA.
Mentre nel campo dei delitti il dolo rappresenta il criterio tipico di imputazione e la colpa
l’eccezione, con la conseguenza che di colpa si risponderà soltanto nei casi espressamente previsti
dalla legge, rispetto alle contravvenzioni sarà sufficiente la sola colpa.
SOGGETTO ATTIVO DEL REATO
Il soggetto attivo del reato è colui il quale realizza un fatto conforme ad una fattispecie astratta di
reato. L’autore di un reato nel diritto penale moderno può essere soltanto una persona umana.
Per capacità penale si intende l’attitudine di tutte le persone a porre in essere un fatto rilevante per il
diritto penale.
Presupposta tale capacità, occorre distinguere altre due capacità:
CAPACITA’ ALLA PENA o IMPUTABILITA’
DI SICUREZZA
(che richiede la capacità di
intendere e di volere)
CAPACITA’ ALLA MISURA
(che presuppone la
pericolosità sociale)
IMMUNITA’ = incapacità ad essere assoggettati a conseguenze penali.
Quando il soggetto attivo può essere chiunque allora il fatto incriminato prende il nome di REATO
COMUNE. Quando il soggetto attivo deve avere certi requisiti allora la fattispecie incriminatrice
prende il nome di REATO PROPRIO.
I requisiti possono essere naturalistici (ad esempio l’essere madre nel reato di infanticidio) o
giuridici (si pensi al reato di peculato dove il soggetto attivo deve essere il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio).
SOGGETTO PASSIVO: Il soggetto passivo del reato è la persona offesa dal reato, ovvero il titolare
del bene giuridico protetto dalla singola fattispecie incriminatrice di parte speciale.
Il concetto di soggetto passivo non coincide necessariamente con quello di danneggiato dal reato
(cioè colui che subisce un danno patrimoniale o non patrimoniale risarcibile e che è pertanto
legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale). Ad esempio, nel reato di omicidio il
soggetto passivo è la vittima, i danneggiati sono i familiari.
La posizione del soggetto passivo può spettare:




Alla persona fisica
Allo Stato (si pensi ai delitti contro la personalità internazionale dello Stato)
Alle persone giuridiche (si pensi ai reati societari)
Alla collettività non personificata (si pensi ai reati contro l’incolumità pubblica)
Il codice penale, all’art. 82, prevede l’irrilevanza del soggetto passivo.
Il soggetto passivo rileva con riferimento a certi istituti e soprattutto con riferimento al consenso
dell’avente diritto e alla cd. querela. In certi casi il legislatore prevede che la punibilità di un reato è
possibile anche senza la querela del soggetto passivo. Con riferimento a certi reati, invece, per
punire un reato è necessaria la querela della persona offesa. Esempio: Reati di Truffa (Art. 640 del
codice penale: «la truffa è punita a querela della persona offesa»)
OGGETTO MATERIALE: è l’entità fisica verso cui si indirizza la condotta punibile (esempio
corpo umano nel reato di omicidio). L’oggetto materiale assume rilevanza quale requisito che
concorre a determinare o specificare il fatto tipico.
BENE GIURIDICO: è l’interesse protetto dalla norma penale e offeso dalla condotta punibile. Ad
esempio la vita nel reato di omicidio.
Vi sono tanti beni giuridici rispetto ai quali la consistenza materiale è più o meno evidente, ad
esempio la fede pubblica (fiducia della collettività in ordine alla veridicità di certi fatti). Nei reati di
falso, il bene giuridico leso è la fede pubblica.
La fede pubblica è bene giuridico che si presta ad essere una copertura per espandere la punibilità.
Si pensi alla punibilità dei venditori ambulanti di prodotti contraffatti.
La giurisprudenza, nonostante la vendita in questi casi sia grossolana, applica l’art. 474, comma 2,
del codice penale, che è un reato contro la fede pubblica, perché tende a guardare i casi di
contraffazione, anche se scarsamente rilevanti, in maniera molto rigorosa. La giurisprudenza applica
in questi casi l’art. 474 del codice penale ritenendo che in queste ipotesi ci sarebbe una lesione
dell’interesse della collettività a non veder falsificati i prodotti commerciali. Così facendo, la
giurisprudenza ampia il bene giuridico, lo manipola a suo piacimento e ciò è discutibile perché non
è detto che la collettività abbia questo interesse. Questo caso dimostra come la fede pubblica si
presta ad essere un bene giuridico falsamente garantistico. In questo modo si proibiscono condotte
ulteriori e si viola il divieto di analogia.
CLASSIFICAZIONE DEI TIPI DI REATO
1. CLASSIFICAZIONE: REATI DI EVENTO e REATI DI AZIONE
REATI DI EVENTO: si parla di reato di evento quando la fattispecie incriminatrice tipicizza un
evento esteriore come risultato concettualmente e fenomenicamente separabile dall’azione e a
questa legato in base ad un nesso di causalità. Es. morte di un uomo nel delitto di omicidio.
I reati di evento si distinguono, a seconda che il legislatore specifichi o meno le modalità di
produzione dell’evento, in reati di evento a forma libera e reati di evento a forma vincolata.
I reati di evento a forma libera sono quei reati per i quali la legge non specifica le modalità di
produzione dell’evento. Si pensi all’art. 575 del codice penale (reato di omicidio) che punisce
chiunque cagiona la morte di un uomo senza specificare le modalità di aggressione al bene giuridico
vita.
I reati di evento a forma vincolata sono quei reati per i quali la legge specifica le modalità di
produzione dell’evento. Si pensi all’art. 438 del codice penale che punisce chiunque cagiona
un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni.
REATI DI AZIONE consistono nel semplice compimento dell’azione vietata, senza che sia
necessario attendere il verificarsi dell’evento causalmente connesso alla condotta medesima; si
pensi all’evasione dal carcere.
2. CLASSIFICAZIONE: REATI COMMISSIVI e REATI OMISSIVI
REATI COMMISSIVI: sono quei reati dove la condotta tipica è rappresentata da un agire positivo.
REATI DI OMISSIONE: sono quei reati dove la condotta tipica è rappresentata da un omissione. In
corrispondenza alla distinzione tra reati di evento e reati di azione, i reati di omissione si
distinguono in reati omissivi impropri ( o commissivi mediante omissione) e reati omissivi propri.
Si parla di reati omissivi impropri quando l’evento lesivo dipende dalla mancata realizzazione di un
azione DOVEROSA; si pensi all’omicidio colposo dovuto alla mancata sorveglianza di un
bambino. L’art. 40 del codice penale dispone che: «non impedire un evento che si ha l’obbligo
giuridico di impedire equivale a cagionarlo».
Il reato omissivo proprio consiste, invece, nel semplice mancato compimento di un’azione imposta
da una norma penale di comando, a prescindere dal verificarsi di un evento come conseguenza della
condotta.
3. CLASSIFICAZIONE: REATI COMUNI e REATI PROPRI
REATI COMUNI: i reati comuni sono quei reati che possono essere commessi da chiunque.
REATI PROPRI: sono quei reati che possono essere commessi soltanto da chi riveste una
particolare qualifica o posizione, idonea a porre il soggetto attivo in una speciale relazione con
l’interesse tutelato; si pensi alla qualifica di imprenditore nel reato di bancarotta.
4. CLASSIFICAZIONE: REATI INSTANTANEI e REATI PERMANENTI
REATI INSTANTANEI: i reati istantanei sono quei reati dove l’offesa si realizza in un solo
momento; nel momento in cui sono presenti tutti gli elementi del reato previsti dalla fattispecie
incriminatrice, il reato è consumato.
REATI PERMANENTI: sono quei reati dove l’offesa si protrae nel tempo; è una categoria
dottrinaria, la definizione di tale reato è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Non vi è un unico criterio per distinguere i reati permanenti dai reati istantanei. Secondo un criterio
per individuare un reato permanente occorre valutare se il bene è suscettibile di essere compresso
dalla condotta dell’agente, con la conseguenza che il venir meno del reato comporta la riespansione
del bene giuridico. Il reato permanente riguarda beni giuridici comprimibili come la libertà
personale; nel caso di sequestro di persona, l’offesa alla libertà personale si protrae nel tempo. Il
reato è consumato quando la fattispecie incriminatrice si è interamente realizzata in tutti i suoi
elementi costituivi. Per quanto riguarda il sequestro di persona, affinché siano presenti tutti gli
elementi della fattispecie incriminatrice è necessario che la condotta dell’agente si sia protratta nel
tempo. Secondo alcuni quando la condotta si protrae nel tempo, il reato è da ritenersi consumato,
perché sono presenti tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice; altri, invece,
distinguono il momento della perfezione dal momento della consumazione: il momento iniziale
dove sono presenti tutti gli elementi costitutivi della fattispecie sarebbe il momento di perfezione
del reato, la consumazione si avrebbe, invece, al termine della condotta.
Dai reati permanenti occorre distinguere i reati abituali. La categoria dei reati abituali è una
categoria non prevista dai testi normativi, ma frutto di interpretazione; sono reati per la cui
realizzazione occorre la reiterazione nel tempo di più condotte della stessa specie. A differenze che
nel reato permanente caratterizzato dal perdurare nel tempo senza interruzione della situazione
antigiuridica prodotta dall’agente, nel reato abituale ci si trova di fronte alla reiterazione intervallata
nel tempo della stessa condotta o di più condotte omogenee.
REATI DI PERICOLO
Una categoria particolare di reati è rappresentata dai reati di pericolo. Il pericolo è una forma di
offesa meno grave rispetto al danno, ma meritevole ugualemente dell’intervento penale. Il pericolo
è un concetto graduale ed elastico, bisogna vedere quando il legislatore può ricorrere alla punizione.
Il bene suscettibile di essere esso in pericolo è un bene superindividuale ed è difficile che una
singola condotta possa creare un danno ad un bene superindividuale, semmai tale bene può essere
messo in pericolo. Un esempio di bene superindividuale è l’incolumità pubblica..
I reati di pericolo sono tutti legati al principio di offensività.
I reati di pericolo si distinguono in:
Reati di pericolo ASTRATTO
I reati di pericolo astratto sono
quei reati la cui condotta tipica è
qualificata dalla legge pericolosa
in quanto tale.
Reati di pericolo CONCRETO
I reati di pericolo concreto sono
quei reati la cui condotta tipica
non è qualificata dalla legge come
pericolosa in quanto tale, ma deve
essere il giudice ad accertare
l’esistenza in concreto del
pericolo.
I reati di pericolo astratto pongono problemi di violazione del principio di offensività in quanto
possono verificarsi casi i cui la condotta tipica, qualificata dalla legge come pericolosa in quanto
tale, in concreto, risulti non pericolosa. Per tale ragione, la categoria dei reati di pericolo astratto è
stata criticata dalla concezione realistica del reato. Tale teoria ritiene che il reato di pericolo astratto
sia incostituzionale per violazione del principio di offensività e come tale vada eliminato. La
conclusione a cui giunge la concezione realistica del reato potrebbe avere delle conseguenze
notevoli in quanto moltissime fattispecie incriminatrici sono strutturate nella forma del reato di
pericolo astratto. Fiandaca, nel corso degli anni 70, ha ridimensionato il problema sostenendo che
non sempre il ricorso a tale tecnica di incriminazione sarebbe contraria al principio di offensività, lo
sarebbe se la singola fattispecie facesse riferimento a situazioni che non sono altamente pericolose.
Ciò che è importante, secondo Fiandaca, è che il legislatore proceda alla incriminazione di condotte
che, secondo una valutazione statistica, siano altamente rischiose. Si pensi ai reati di strage; l’art.
422 del codice penale punisce chiunque, al fine di uccidere, compia atti tali da porre in pericolo
l’incolumità pubblica.
Un altro esempio di reato di pericolo astratto è dato dall’art. 423, comma 1, che punisce chiunque
cagioni un incendio di cosa altrui; l’arrecare un incendio di cosa altrui è considerata una condotta
pericolosa in quanto tale, a prescindere dal verificarsi di danni. Il comma 2 dell’art. 423 fa invece
riferimento ad un ipotesi di reato di pericolo in concreto, dispone infatti che:« La disposizione
precedente si applica anche nel caso di incendio della cosa propria, se dal fatto deriva pericolo per
la incolumità pubblica.» Il giudice, nei casi di incendio di cosa propria, dovrà quindi valutare in
concreto se quella condotta sia pericolosa per l’incolumità pubblica.
La categoria dei reati di pericolo concreto è più rispettosa del principio di offensività, cioè il fatto
che il legislatore espressamente richieda che il giudice in concreto accerti la pericolosità della
condotta rende questa tecnica di incriminazione rispettosa del principio di offensività. Il problema
consiste però nella difficoltà di accertare in concreto la pericolosità della condotta. Il giudizio di
pericolo, come il giudizio di idoneità del tentativo, è ex ante e la base di giudizio, secondo alcuni,
dovrebbe fondarsi su leggi scientifiche di carattere probabilistico.
ULTERIORI DISTINZIONI …
REATI AGGRAVATI DALL’EVENTO: sono quei reati per i quali è previsto un aumento di pena
se dalla realizzazione del delitto base deriva come conseguenza non voluta un evento ulteriore; si
pensi al reato di omissione di soccorso aggravato dalla morte della persona in pericolo.
DELITTI DI ATTENTATO: sono forme di illecito penale consistenti nel compiere atti o nell’usare
mezzi diretti ad offendere un bene giuridico.
ELEMENTI ESSENZIALI DEL REATO
TIPICITA’: ai fini della tipicità si tiene conto:



Presupposti della condotta
Evento naturalistico
Offesa
ANTIGIURIDICITA’ (causa di giustificazione)
Questo criterio della tripartizione è
il normale criterio utilizzato dal
giudice per individuare il reato.
Prima si verifica se il fatto umano è
tipico, poi si verifica se è
antigiuridico e poi se è colpevole. La
colpevolezza è di difficile
accertamento.
COLPEVOLEZZA (dolo o colpa)
In tema di individuazione del reato vi sono due concezioni: una concezione tripartitica e una
concezione bipartitica. Secondo la concezione tripartitica, il reato è un fatto umano tipico,
antigiuridico e colpevole. Secondo la concezione bipartitica, invece, il reato si compone di due
elementi, l’elemento soggettivo e l’elemento oggettivo; manca l’antigiuridicità come elemento
costitutivo del concetto di illecito penale; tale mancanza è però solo apparente perché secondo
questa teoria le cause di giustificazione sono incluse nell’elemento oggettivo, sarebbero degli
elementi negativi dell’elemento oggettivo.Se un fatto viene commesso per legittima difesa, la
legittima difesa come causa di giustificazione agirebbe come elemento negativo dell’elemento
oggettivo.
La teoria della tripartizione è legata ad una visione più liberale del diritto penale in quanto nel caso
in cui sussiste una causa di giustificazione il fatto di reato sussisterebbe comunque. La teoria della
tripartizione vuole sottolineare il fatto che un conto è il fatto come realtà naturalistica e un’altro
conto sono le cause di giustificazione che, a livello penalistico, escludono la sussistenza del reato.