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ILMUCCHIOSELVAGGIO
ASSO
FOTO DI ROBERTO CAVALLI
MUSICA
Il nome sulla carta d’identità è Alessandro Stefana, ma nell’ambiente
lo conoscono tutti come “Asso”. Ha ventotto anni e suona prevalentemente la chitarra, ma “maneggia” un sacco di altri strumenti, produce,
inventa. Fa musica per sé ma anche conto terzi, e quando veste i panni
del “gregario” sa come fare la differenza. Quella che vi raccontiamo
è la storia di un personaggio davvero speciale. Nomen omen.
di Andrea Marotta
PROLOGO
Ho conosciuto Alessandro Stefana il 29 settembre del 2008. Bello
ricordare la data esatta delle cose. Il giorno prima, a Firenze, la mia
ragazza mi chiama dalla radio dove lavora e mi fa: “Guarda che qui
stanno facendo un po’ di pulizia in redazione. Hanno raccolto una valanga di vecchi dischi promo. Tra due ore finiranno nella spazzatura”.
Quello 007 mi conosce troppo bene. Mezz’ora dopo sono lì e comincio a fare incetta. I cd sono sparsi su un tavolo bianco, nella maniera più confusionaria possibile. Spuntano fuori, tra gli altri e in ordine
sparso, Saturday Night Wrist dei Deftones, i Tryo, Tutti contro tutti di
Giorgio Canali e Rossofuoco, Art Brut, Giulio Casale. Insomma, una
trentina di titoli in tutto. Prendevo i cd in blocchi da venti, sfogliavo
la margherita e mettevo da una parte o dall’altra. Con me o, purtroppo, al macero. In uno di questi sfogli, a un certo punto, sbuca
fuori un disco cartonato color marrone scuro. Solo un cerottino bianco con la scritta Poste e telegrafi e un timbro in ceralacca. “Li avevo
preparati io uno ad uno, quei demo”, ricorda oggi “Asso” sorridendo.
Il giorno dopo mi metto in macchina: il lavoro chiama e devo tornare a Roma. Imbocco l’autostrada: è una giornata di pioggia, di quelle che viaggiare a fianco dell’Appennino mentre la luce si butta gonfia e grigia a ovest ti fa sentire grande. Accendo una sigaretta e frugo
nella busta dei cd scampati alla triturazione. “Toh, quello della ceralacca!”. Quando premo il tasto play, ho appena passato Incisa.
Circa un anno dopo, con Alessandro Stefana ci ritroviamo al telefono per una chiacchierata che cerca di rendere conto di uno dei percorsi artistici più interessanti e atipici a livello nazionale. Un chitarrista gregario, se capite cosa intendo. E cioè uno estremamente dotato. Che mescola il blues ai Kraftwerk, il jazz al folk e al country&western, senza intestardirsi nell’eclettismo. Talentuoso e poliedrico, ma in silenzio, senza scalpitare per la prima fila o il centro
della scena. Di quelli che, quando raccontano qualcosa che hanno
fatto, chiedono sempre se ne hai sentito parlare. “Non so se hai ascoltato questo mio Poste e telegrafi. Secondo me ci son dei pezzi che sono
canzoni. Sono canzoni senza la voce”. E quel che ha fatto è sterminato per un ragazzo classe 1981. Che a diciassette anni registra l’omonimo album di debutto dei suoi Lumière Electrique. Che impara a
suonare la chitarra grazie al padre e, poi, si allarga a lap steel e pedal
steel guitar, pianoforte, ukulele, banjo, “trafficando” anche con loop
di vinili, echi a nastro, vibrafono e strumenti indiani. Inanella, tra i
ventuno e i ventidue anni, collaborazioni con gente come Marco
Parente, Paolo Benvegnù, Marc Ribot, Cristina Donà, Vinicio
Capossela, Emidio Clementi fino a Mike Patton (Mondocane) e al
recente ritorno di Edda con Semper biot. Da musicista si trasforma
anche in produttore (il vinile di Larkin Grimm & Rosolina Mar, come
vedremo, è solo il caso più recente) e autore di musiche per cortometraggi sperimentali (Watershed di Graziano Staino). “Il bello” dice - “è che in tutti i casi si è trattato di cose molto naturali. Senza pressioni, tantomeno da parte mia, per trovare qualcuno con cui suonare.
Cose capitate in un corso normale di vita”.
EPIFANIE BLUES
Il giorno della chiacchierata, “Asso” (“Era così che pronunciavo il mio
nome da bambino, Alessandro non riuscivo proprio a dirlo”: involontaria profezia, insomma) ha appena finito i lavori di muratura nel suo
studio di Nave, ai bordi di Brescia. Un laboratorio che ha battezzato
Perpetuum Mobile, in omaggio a una folgorazione musicale per
Simon Jeffes And The Penguin Cafè Orchestra; e dove al mattino,
spiega, ha lavorato a un nuovo pezzo. “È pieno di arpeggi strani, mi
vien voglia di farlo cantare in giapponese”, dice.
Hai mai provato a scrivere testi? Nel senso di “parole e musica”?
Ho addirittura provato a cantare, una volta. Era il disco d’esordio dei
Lumière Electrique, che è stata la mia prima band. Nove anni fa. Lo
feci in un brano solo e non l’ho più ripetuto. Sentivo che non era la
mia strada. Non avevo degli obiettivi precisi in quella direzione,
quindi non avrei neanche avuto i mezzi per raggiungerli.
Collabori spesso con cantautori. Quando lavori per te, non vivi l’assenza di testi come una sottrazione al tuo processo compositivo?
Assolutamente no. Quasi tutta la musica che ascolto è strumentale.
Le parole vincolano, costringono a concentrarti sul significato. La
musica, quando è da sola, lascia la possibilità di interagire, di pensarci delle cose “sopra”. Mi piace avere questi spazi, da ascoltatore,
e quindi mi viene spontaneo produrli quando compongo. Ed è un
approccio che conservo anche quando lavoro con chi adopera la
parola in musica.
Nonostante il tuo lavoro ti porti spesso altrove, continui a vivere a
Brescia. Perché?
Sto bene nella provincia. Rifuggo dalle grandi città anche quando ci
vado a suonare. Mi piace restare ai bordi dal caos. Adoro Londra o
Parigi, così come vado a Milano per qualche concerto - di recente ci
sono andato per Edda -, ma torno a casa sempre molto volentieri.
Avrei detto che, per un musicista che vive nella periferia lombarda,
Milano fosse il centro del mondo: concerti, locali…
In realtà, quand’ero ragazzino, a Brescia c’era un posto dove si sentiva sempre ottima musica. Si chiamava “Donne e motori”, veniva a
suonarci gente come David Grubbs e tanti gruppi di rock alternativo.
Insomma, il giro non è mai mancato. Una volta, in un altro circolo
qua vicino, si esibirono gli Scisma, che sono stati la mia prima autentica folgorazione musicale. Avevo ascoltato alla radio Rosemary plexiglas e ne ero rimasto davvero colpito. È stato il disco che mi ha spinto a fare musica, a registrare le prime cose… Solo dieci anni fa, recuperare un “quattro piste” era impresa fantascientifica. Con i Lumière
registrammo un demo direttamente dal mixer su audiocassetta. E,
quando gli Scisma vennero a Brescia quella volta lì, ne lasciai una
copia con scritto il mio telefono di casa a Paolo Benvegnù. Mi chiamò una settimana dopo, entusiasta. Tant’è che Lumière Electrique
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nacque sul lago di Garda, nello stesso studio dove gli Scisma registrarono Armstrong, il loro ultimo disco.
Passaggi di testimone. Da Brescia allo stile western, così presente
nella tuo mood sonoro. Che c’azzeccano?
Nulla! Se non che, sin da bambino, sono sempre stato molto fantasioso. E l’immaginario dei film western, da John Wayne a Clint Eastwood,
mi ha sempre affascinato. È stato un processo di astrazione, più che di
simbiosi, col posto in cui sono nato e cresciuto. Ancora oggi, quando
vedo in tv un cappello a tesa larga, sono lì che drizzo le antenne.
Facciamo un salto. Nel 2003 dai alla luce il tuo laboratorio Perpetuum
Mobile. Perché a ventitré anni sentivi l’esigenza di uno studio tutto tuo?
Devo essere sincero: gli studi di registrazione non mi mettono mai
nella situazione giusta. O perché paghi, e paghi un sacco di soldi. O
perché sei costretto a fare tutto di corsa, con l’orologio in mano. Come
fai a immaginarti una cosa che desideri quando sai che stai spendendo 800 euro? Se mi viene un’idea, devo poterla mettere in musica in
quel momento e con gli strumenti che voglio. Col tempo, poi, mi sono
reso conto di avere una grande affinità col suono e i suoi segreti. Mi
piace “smacchinarci”, con le mie mani. È il motivo per cui son finito a
coprodurre l’ultimo disco di Capossela, Da solo. E anche Marco Parente
verrà qui per lavorare al suo prossimo album.
Ecco, le collaborazioni. Partiamo da quest’ultima con Parente: quand’è
nata?
Nel 2002. Lui era a Brescia con Marco Tagliola - all’epoca mio grandissimo amico, oggi anche socio del Perpetuum Mobile - per terminare le
sovraincisioni di Trasparente (prodotto da Manuel Agnelli, Ndr). Stava
mixando un pezzo e mancava una chitarra, era quasi mezzanotte. Mi
arriva questa telefonata e io scendo di corsa in macchina: ero un grande fan di Marco e del suo Testa, di’ cuore. Dopo aver suonato, ci scambiammo i numeri e da allora son sette anni che lavoriamo insieme.
GUANO PADANO
GUANO PADANO
(Important)
Basterebbe la (geniale) sigla adottata, fra tradizione e irriverenza, a definire le coordinate
“concettuali” dell’ultimo progetto di Alessandro Stefana, allestito con Danilo Gallo (contrabasso, vibrafono,
tastiere) e Zeno De Rossi (batteria, glockenspiel): un viaggio che in
questo suo esordio in undici tracce (una proposta in due esecuzioni), sponsorizzato da un’etichetta americana, si sviluppa in intricate trame strumentali - unica eccezione la brillante rilettura di
Ramblin’ Man di Hank Williams, affidata alla voce calda e suadente di Bobby Solo - che dipingono a tinte forti uno scenario sospeso tra country, blues, surf, spaghetti western, aperture pseudocameristiche e assortite digressioni. Sorretti da perizia e inventiva
non comuni nel mischiare le carte, l’eclettico leader - alle prese
anche con banjo, steel guitar e altri strumenti - e i suoi compagni
(entrambi implicati, tra le varie cose, nel collettivo El Gallo Rojo) si
muovono così fra suggestive atmosfere di gusto vagamente esotico, spesso all’insegna di una (quasi) festosa crepuscolarità. Una
sorta di versione mutante dei Calexico, onirica-ma-straniante,
arricchita di attrattive da ospiti quali Gary Lucas (già alla chitarra
per Captain Beefheart e Jeff Buckley), Alessandro Alessandroni
(compositore e polistrumentista, nonché “fischiatore” in tante
colonne sonore di Ennio Morricone), Chris Speed (clarinettista in
contesti jazz inusuali), Enrico Gabrielli. Gran bel sentire.
Federico Guglielmi
ILMUCCHIOSELVAGGIO
E Capossela, invece?
Un anno dopo, alla Casa 139 di Milano. Galeotto fu Parente e un suo
live, al quale c’erano come spettatori anche Manuel Agnelli e Cesare
Basile. A fine concerto, è iniziata tra noi una jam alla quale, poi, intervenne anche Vinicio. Ricordo che stavo scendendo dal palco e lui mi
fece: “No, no, fermati: suona questo pezzo con me”. Io verso di lui sentivo, e continuo a sentire anche oggi, una grande reverenza, per cui
provai a smarcarmi dicendo: “Ma non so cosa vuoi suonare…”. E lui:
“Mi bemolle, mi bemolle”. Facemmo Ovunque proteggi, credo una
delle prime esecuzioni pubbliche prima di finire su disco. Capossela
tra l’altro è stato decisivo in un altro senso.
Quale?
Quando mi contattò per chiedermi di sonorizzare in giro per l’Italia i
reading del libro Non si muore tutte le mattine, mi costrinse a una
scelta definitiva. Almeno fino allora. Quella tra il lavoro di musicista
e quello di postino. Fino a quel momento mi ero diviso tra l’uno e l’altro. Quando gli dissi sì, capii che dovevo licenziarmi dal secondo.
Ti è pesato?
Molto. Alle Poste avevo un posto di lavoro: precario, perché ero un
Co.Co.Co., tuttavia piuttosto sicuro. L’ho fatto per tre anni. Sveglia alle 6,
al lavoro alle 7, ma mi lasciava sempre libero il pomeriggio per poter
suonare. Continuo ancora oggi a vedermi con quegli ex colleghi. Forse,
il giorno in cui smetterò di fare il musicista, tornerò a fare il postino.
Le tue collaborazioni spaziano da organici minimali, come l’esordio
solistico di Poste e telegrafi all’orchestra di Mondocane con Mike
Patton. C’è un numero perfetto?
Due, senza dubbio. Anche se c’è da dire che il progetto di Mike Patton
è una cosa molto diversa dal mio solito. Primo, perché viene ripreso un
repertorio - quello della canzone italiana degli anni 50 e 60 - per essere
riarrangiato. E, poi, hai una tua partitura scritta davanti e sei più un esecutore: la chitarra fa questo, il basso quest’altro e così via. Di solito mi
trovo assai più spesso a creare, sviluppare idee, fare l’intelaiatura di un
pezzo. E in due è tutto molto più schietto. Non hai intermediari, ti dici
quello che ti devi dire. Adesso, per esempio, usciranno due album con
quel fuoriclasse totale che è Alessandro Fiori, il cantante dei Mariposa.
Uno è il suo disco solista, che spero sarà fuori presto; l’altro sono canzoni psichedeliche in duo. “Uno più uno” è un po’ una piccola famiglia.
Tra i tuoi progetti più stabili c’è Guano Padano, con cui hai appena realizzato il primo omonimo album. Molto bello. Colpisce la scelta di una
cover impegnativa e riuscitissima, cioè Ramblin’ Man di Hank Williams,
affidata alla voce di Bobby Solo. Quello che Non si cresce mai (con
Little Tony a Sanremo 2003), che Una lacrima sul viso, che cantava a
“Premiatissima” con i Robot insieme a Rosanna Fratello. Perché?
(risata, Ndr) Ma lui in realtà è molto legato all’immaginario western. È
il nostro Johnny Cash (in effetti risulta un Le canzoni del West, album
del 1966, con canzoni tradizionali niente male, Ndr).
Visto che qualcuno potrebbe farlo, lo chiedo in anticipo. È una forma
di provincialismo storcere il naso su Bobby Solo?
Io spero che riusciremo a fare altre cose insieme a lui. Ha una voce
pazzesca. Quando l’ho sentito dal vivo, senza amplificazioni, in studio, da qui a un metro… Notevole, davvero. Credo che storcere il naso
sia una questione culturale. E un errore. Negli anni 50 in Italia s’è
fatta grande musica. Morricone scriveva le orchestrazioni per brani
pop. È un fatto generazionale. Non è tanto rifiuto, quanto ignoranza.
Cioè, non abbiamo gli strumenti per riconoscere il coraggio che c’era
in quella musica?
Non c’è neppure l’interesse e la voglia di farlo. Le colonne sonore di
Bacalov, i dischi di Mina: i più giovani non sanno nemmeno cosa c’è
prima degli anni 80.
MUSICA
con i Guano Padano
“Quando mi contattò, Capossela mi costrinse a una scelta definitiva,
quella tra il lavoro di musicista e quello di postino.
Quando gli dissi sì, capii che dovevo licenziarmi dal secondo”
A guardare oltre senza avere la cultura sufficiente per capire, però,
non si rischia il passatismo? Internet in questo non aiuta granché, in
parte incentiva la scomparsa della cultura come “saldo possesso”.
Musica compresa.
Sono d’accordo. Posso solo dirti che a me non interessa avere
migliaia di file mp3 nel computer. Che, poi, magari sai il nome del
gruppo, ma non sai che album è, che canzone è, che musicista ha
suonato, dove l’hanno registrato, ed è come non averlo. È bello
averle in mano le cose. Per poterle capire. E lo dice uno che
Internet lo usa tanto, ma per rintracciare vinili o strumenti musicali d’annata. Resto sempre uno che è cresciuto quando le riviste specializzate, dal Mucchio a “Blow Up”, non avevano neppure il sito
Internet. Per avere lo spazio di una recensione si faceva una fatica
pazzesca. Nessuno era così a portata di mano come lo è oggi. Era
fantascienza. Ma era pure tutto molto vivo e cartaceo. Probabilmente più sano.
E oggi, invece?
Io non trovo niente di male nel fatto che un ragazzino registri il suo
demo. Il problema è la pretesa che il 99 percento dei ragazzini, dopo
averlo fatto, hanno di vederlo pubblicato, recensito e di cantarlo dal
vivo. Questa voglia di crescere in pubblico è disorientante.
Ne parlavi già nel 2007 in un’intervista a Fuori dal Mucchio. È quasi un
modo di giustificare a se stessi il fallimento in via preventiva?
È mancanza di modestia e di sincerità con se stessi. Per fare Guano
Padano ci ho messo tre anni. Ne ho impiegati due per Poste e telegrafi.
Questa mia lentezza è dettata dal fatto che ho molti impegni paralleli.
Eppure, anche se non li avessi, non vorrei vivere in un mondo dove fossi
costretto a suonare tutti i giorni. Fare un disco in un mese, per me, è il
massimo dell’improduttività. Come fai a crescere in un mese? C’è un
pezzo della tua vita che stai registrando. Puoi rappresentare un percorso o un punto fermo. E a me, quando riascolto le cose che ho fatto,
piace pensare: “Oh, non cambierei neanche un respiro”.
TITOLI DI CODA
E, allora, torniamo a quel tasto play premuto a Incisa il 28 settembre
2008. La pioggia era finita, intorno a Roma notte e niente traffico.
Poste e telegrafi in loop ininterrotto da due ore e mezza. L’essenzialità
sospesa di Semi tostati di cielo, Poste e telegrafi blues e quell’andatura
da gambero computerizzato, Western soda alcolica e waitsiana. Wow.
Scrissi un sms, che ancora conservo: “Ti è mai capitato di ascoltare un
disco che ti sappia portare proprio nei luoghi dove, senza saperlo, desideravi essere?”. Asso sorride al racconto e aggiunge: “Non ho mai prefissato obiettivi futuri. Guarda, a me in questi anni son successe cose di
un’altra vita e di un altro mondo. Marc Ribot che suona in un mio pezzo
e, poi, nel suo Party Intellectuals, lo rivisita da par suo. Lavorare con
gente, come Capossela e Parente, che seguivo fin da ragazzo. Ho ventotto anni. Lo dicevano i CSI e me ne approprio volentieri: quel che deve
accadere, accade”. Sempre. 55
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