Eutanasia, aiuto a morire e stato vegetativo permanente: ragioni etiche e diritto a confronto Silvia Zullo 1. Premessa - 2. La visione liberale e il principio di autonomia - 3. La visione utilitarista e il principio di qualità della vita - 4. Considerazioni sull’etica della cura e della responsabilità – 5. La morale, il caso clinico e la regola giuridica – 6. Lo stato vegetativo permanente. 1. Premessa Il controverso tema delle ragioni etiche alla base delle scelte di fine vita, uno degli aspetti topici del dibattito bioetico contemporaneo, rientra nelle questioni sui fondamenti dell’etica in ambito biomedico, si tratta infatti del conflittuale riconoscimento collettivo dei principi orientativi dell’agire morale, tema riportato anche da Jonas con queste parole: “[…] che in generale l’etica abbia qualcosa da dire nelle questioni della tecnica, oppure che la tecnica sia soggetta a considerazioni etiche, consegue dal semplice fatto che la tecnica è esercizio di potere umano, vale a dire è una forma dell’agire, e ogni agire umano è esposto a un esame morale”1. Nell’attuale dibattito sull’ammissibilità morale dell’eutanasia e del suicidio assistito, in particolare in relazione alla ricerca dei riferimenti etici alla base di tali scelte, le posizioni critiche si 1 H. JONAS, Tecnica e medicina, Torino, Einaudi, 1998, p. 28. 1 sono pronunciate secondo diversi approcci al problema. In questa analisi verranno prese in considerazione le teorie liberali, la visione utilitarista e un ultimo sguardo sarà dedicato alla prospettiva socio-culturale del “prendersi cura” e all’etica della cura. Le teorie liberali, seppur divise al loro interno da posizioni differenti, sono accomunate dalla difesa del principio di autonomia dell’individuo. Le tesi dell’utilitarismo, che si ramifica anch’esso in forme diverse e spesso contrastanti, sono sostenute dal principio di beneficenza, un principio assoluto da cui dipendono i principi del danno, del rispetto dell’autonomia e della giustizia. L’etica della cura, incentrata su premesse psicologiche e sulla relazionalità, ha trovato un terreno fertile nelle questioni bioetiche di fine vita, nonostante la difficoltà di questo approccio nel conciliare la parzialità della sua prospettiva di indagine con linee adottabili in un contesto pluralistico. Nel dibattito bioetico contemporaneo sulle scelte di fine vita 1'analisi di singoli casi controversi, corre il rischio di diventare una collezione di opinioni se non si assumono norme, principi o prospettive di indagine intorno al problema. Se un pericolo è rappresentato dal decisionismo, che annulla i principi universali nel pluralismo delle decisioni, l’altro pericolo è quello del fondamentalismo, che afferma l’unità dei principi sino al punto da rendere del tutto impossibile la pluralità delle decisioni. La complessa decifrazione di questo scenario è rafforzata dalla particolarità delle situazioni concrete, dinanzi alle quali le regole universali spesso cadono. Si pensi, nella fattispecie, alle esperienze della sofferenza, della morte e del morire, le più individuali e meno generalizzabili di tutte. Il dibattito sulle implicazioni etiche e giuridiche di fine vita è alquante acceso anche in riferimento ai casi di stato vegetativo permanente. Tale dibattito è iniziato a partire degli anni ’70 con il noto caso americano di Karen A. Quinlan, una donna tenuta in stato vegetativo tramite alimentazione e idratazione artificiali dal 1975 e che morì nel 1985. Precedentemente, nel 1976, i genitori della donna avevano ottenuto la sospensione della ventilazione artificiale, in quanto mezzo straordinario, ma la paziente aveva iniziato a respirare autonomamente e non era morta. Alimentazione e idratazione invece vennero considerati 2 mezzi ordinari di sostentamento e così furono erogati fino alla fine. Nancy Cruzan visse una vicenda analoga: entrata in coma nel 1983, venne tenuta in vita tramite idratazione e alimentazione artificiali (la respirazione era autonoma). Nel 1990 lo Stato del Missouri accolse la richiesta di sospendere il trattamento,in quanto molti amici della donna testimoniarono che Nancy aveva più volte espresso in vita il desiderio di morire nel caso in cui si fosse trovata in una situazione del genere. In Italia il dibattito si è accesso in seguito al caso di Eluana Englaro, una ragazza entrata in coma nel 1992 e tutt’oggi alimentata e idratata artificialmente. Il padre ha più volte chiesto di sospendere i mezzi di prolungamento e consentire alla ragazza di morire, ma i tribunali si sono sempre opposti. Tenendo in considerazione i casi sopra menzionati, in questa riflessione si farà riferimento anche al complesso e problematico ruolo del diritto nelle decisioni di fine vita: le leggi, nell’attuale dibattito, sono chiamate a farsi carico dell’imprescindibile rapporto tra etica e diritto, infatti, nella scelta di dare la morte a una persona che soffre e chiede di morire si impongono due volontà ugualmente imperative, il medico, che ha il dovere fondamentale di tutelare la vita, e il paziente, che reclama la sua capacità di autodeterminazione. 3 2. La visione liberale e il principio di autonomia Nella prospettiva liberale, l’attenzione è rivolta al valore della libertà e dell’autonomia dell’individuo. Il principio di autodeterminazione o di autonomia è alla base delle scelte etiche di fine vita in quanto garanzia delle decisioni individuali. Tuttavia, come suggerisce Maffettone, il principio di autonomia riconosce la capacità delle parti di darsi da sole la loro norma di comportamento, ma rimane neutrale sulle conseguenze di questi comportamenti2. Infatti, nonostante l’enfasi posta sul concetto di autonomia, si riconosce che quest’ultima può essere violata in alcuni casi, qualora le parti da sole agiscano contro l’interesse pubblico o quello proprio o di altre parti. Per esempio, nelle teorie politiche di Rawls3 e di Nozick4, si muove dalla libertà individuale di scelta e si perviene alle sue limitazioni in nome delle conseguenze che questa potrebbe generare. Il conflitto interno alla prospettiva liberale riguarda proprio le diverse visioni che si hanno del concetto di persona e del concetto di società. Se la libertà, in quest’ottica, costituisce la qualifica della natura umana, non per questo è automaticamente etico tutto ciò che favorisce qualsiasi tipo di libertà solo perché “liberamente scelto”. L’autonomia e la responsabilità non significano indipendenza da qualsiasi regola naturale, morale o civile. Vi sono degli obblighi, morali e politici poiché i casi conflittuali della bioetica dimostrano che il diritto alla libertà e all’autonomia è condizione necessaria, ma non sempre sufficiente affinché l’atto sia morale, cioè conforme alla dignità di chi lo compie e di chi lo subisce. Per esempio, il diritto alla libertà risulta invalido quando non rispetta la vita e la libertà altrui. Uno dei tentativi di teorizzare la prospettiva del principio di autonomia e dell’etica contrattualistica, è dato da Engelhardt.5. Il principio del permesso di Engelhard fonda la morale dell’autonomia e del rispetto reciproco. In questo contesto avviene il passaggio da un 2 Per un approfondimento si veda S. MAFFETTONE, Il valore della vita. Una interpretazione filosofica pluralistica, Milano, Mondadori, 1998. 3 J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1982. 4 R. NOZICK, Anarchia, Stato, Utopia. I fondamenti dello Stato minimo, Milano, Il Saggiatore, 1999. 5 Per un approfondimento della concezione morale di Engelhardt, si rimanda a H.T. ENGELHARDT, Manuale di bioetica, trad. it. di R. Rini, Milano, Il Saggiatore, 1991. 4 concetto di autonomia, pensato all’interno del soggetto, ad un permesso esterno al soggetto. Si tratta del passaggio da una libertà intesa come valore ad una libertà intesa come vincolo. La stessa concezione della persona di Engelhardt è intesa attraverso la capacità di intendere e di volere, di dare e di ricevere consenso. Perché ci sia persona occorre, infatti, che ci sia autocoscienza razionale, libertà e moralità. In quest’ottica, il ragionamento di Engelhardt legittima il diritto di non ricevere un trattamento, come pure il diritto di sospenderlo. Inoltre, in quest’ottica vengono a cadere le distinzioni tra atti e omissioni, tra uccidere e lasciar morire. Egli sostiene che queste distinzioni hanno motivo di esistere solo all’interno di dottrine specifiche, mentre fuori da un particolare contesto religioso o morale, le differenze tra intenzione e previsione, eutanasia attiva e passiva, cessano di avere un significato morale intrinseco. Tutti i casi sono legittimi in una società pluralista, purché rispettino la libera scelta dell’individuo. Detto questo, diviene irrilevante il modo in cui le scelte siano soddisfatte, se con l’azione o con l’aiuto di un terzo, se con un atto o con un’omissione. La libera scelta degli individui competenti porta alla legittimità dell’eutanasia volontaria, mentre viene esclusa soltanto l’eutanasia involontaria. Nell’ambito della visione liberale, si sono espressi alcuni dei massimi esponenti di questo paradigma: R. Dworkin, T. Nagel, R. Nozick, J. Rawls, T. Scanlon e J. Thomson (si presentano come gli Amici Curiae). Secondo tali pensatori, i casi di eutanasia, nella prospettiva della politica pubblica, non richiedono giudizi morali, etici, o religiosi a proposito di come le persone dovrebbero affrontare o confrontare con la propria morte. Ciò che si deve riconoscere, invece, è che ogni individuo ha un forte interesse, che comporta un corrispondente diritto, affinché gli sia concesso di esprimere il suo giudizio su questi problemi. Le istituzioni devono poter limitare la libertà dell’individuo, quando il desiderio di accelerare la morte sia irrazionale o sia espresso sotto pressione o in virtù di informazioni sbagliate. Ma costringere a un’ esistenza che i malati terminali reputano intollerabile può essere giustificato solamente sulla base di convinzioni etiche a proposito del valore o del significato della vita stessa: “In una società libera gli individui devono avere l’opportunità di prendere queste decisioni per se stessi, in accordo con la propria fede, coscienza e convinzione” (The 5 Philosopher’s Brief)6. Le persone con visioni morali differenti possono attribuire un diverso valore e significato alla vita e, alla luce di quanto detto, nessuno di questi punti di vista può essere definito irrazionale e quindi nessuna costrizione a loro danno può essere legittima. In tale modo gli Amici Curiae difendono la legittimità dell’eutanasia e del suicidio assistito. Essi concludono affermando che lo Stato non può decretare un divieto generalizzato del suicidio assistito e dell’eutanasia. Come si può vedere la proposta liberale si riferisce a quella che deve essere una normativa pubblica sull’eutanasia. Tale approccio è stato esposto e difeso anche dal filosofo americano contemporaneo Ronald Dworkin. Il filosofo prende in esame i casi in cui il soggetto in stato di non consapevolezza si trovano in condizione di poter sopravvivere a lungo anche senza il supporto medico. La richiesta di sospendere i sostegni alle funzioni vitali può provenire dai familiari e uno dei problemi morali, che si può presentare a questo punto, è la discordanza di atteggiamenti tra lo stato attuale dell’ammalato, privo delle facoltà intellettuali, e il desiderio di morte espresso nel pieno possesso delle facoltà. Che cosa deve prevalere? Dworkin, similmente agli Amici Curiae, ritiene che la preoccupazione per il rispetto dell’autonomia è fondamentale anche quando le persone non sono in stato cosciente, in questo caso ci si deve chiedere che cosa avrebbe deciso la persona stessa prima di perdere coscienza. Nell’opinione di Dworkin, si può risolvere il problema dell’interpretazione dei desideri di una persona pensando all’insieme della sua vita. Si tratta di riconoscere come la persona stessa ha strutturato la sua vita e quindi di permetterle di morire in un modo coerente con questo modello. Qui, l’argomento che porta Dworkin a differenziare la sua posizione all’interno del dibattito è quello inerente al miglior interesse. Per determinare il migliore interesse di una persona bisogna assegnare la dovuta cura all’effetto dell’ultima fase della sua vita, sul carattere della sua vita nell’insieme, così come “assegneremmo la dovuta cura all’effetto dell’ultima scena 6 Il documento degli Amici Curiae, in cui viene sollecitata la Corte Suprema degli Stati Uniti a riconoscere il diritto del malato terminale di essere aiutato a morire, è pubblicato nella versione italiana sull’inserto speciale, dal titolo Suicidio assistito: la memoria dei filosofi, in «La Rivista dei libri», 7/8 luglio-agosto (1997), p.43. 6 di una rappresentazione”7. In una tale prospettiva, la scelta va concessa a ciascun individuo, poiché diversi sono gli ideali di vita, e quindi diverse le modalità nelle quali strutturare anche gli ultimi momenti della propria esistenza. La conclusione di Dworkin è che “anche il rispetto della beneficenza, oltre a quello dell’autonomia, sostiene che lo Stato non deve imporre alcuna visione uniforme e generale per il tramite di una legge sovrana”8. Dunque, rappresenterebbe un danno alla libertà dell’individuo il fatto di imporgli un sistema di valori, di obbligarlo a seguire una ragione che dia valore (renda sacra) alla vita. Anche quando l’individuo ha perso le proprie facoltà intellettuali, il diritto all’autonomia deve essere rispettato in relazione alla persona che l’individuo era prima di perdere le proprie capacità. Come si è visto, agire nei confronti di questo individuo in modo contrario a quello che era lo schema complessivo della sua vita, vuol dire intaccare la sua dignità. Da questa prospettiva, deriva, di conseguenza, il fatto che non si ha rispetto della dignità della persona se si infrangono i suoi desideri precedenti alla perdita delle facoltà intellettuali. L’importante è che il modo di morire sia conforme all’espressione della personalità del soggetto che si manifesta negli atti finali della sua esistenza. E’ il concetto di autonomia come integrità. In generale, una critica rivolta alla visione liberale nel campo dell’eutanasia e del suicidio assistito, riguarda il concetto di autonomia invocato che sembra essere fittizio. I soggetti interessati, infatti, non sarebbero in grado di esercitarla veramente, a causa del rischio sociale implicito nel concetto di autonomia. Infatti si potrebbe pensare che l’invocazione dell’autonomia del morente sia guidata dalla volontà di promuovere una morale orientata ad un certo funzionalismo, secondo la quale la vita di un individuo, che dipende dalla cura di altri, diviene non dignitosa. Affinché la scelta sia autonoma nel senso liberale, una scelta che esprima veramente la capacità deliberativa della persona, è necessario che questa sia fatta senza l’oppressione di una società che è condizionata dalla presenza del morente, sia perchè questi può essere sentito come un peso emotivo o finanziario, sia perché può intralciare una concezione 7 Per un approfondimento dell’argomento del miglior interesse si rimanda a R. DWORKIN, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano, Edizioni di Comunità, 1994. 8 Ibidem, p. 212. 7 morale efficientistica. In questo senso il paradigma liberale, secondo la critica di parte opposta, dovrebbe orientarsi verso una riforma della giustizia distributiva, grazie alla quale maggiori mezzi vengono destinati ai malati terminali, quale parziale rimedio alla loro difficile situazione e affinché abbiano una reale facoltà di scelta. Emergono in quest’ottica di indagine tutte le difficoltà di fare dipendere tutta la vita etica da una concezione in cui l’autonomia di una persona è legata alla capacità di svolgere complicate attività razionali. Muovendo da questa concezione razionalistica dell’agente morale, molti studiosi hanno notato che le difficoltà nascono, non solo quando si tratta di valutare se un soggetto che sottoscrive la carta di autodeterminazione ha la competenza razionale per farlo, ma ancora di più quando si tratta di stabilire se in uno stadio successivo la stessa persona abbia l’autorità per annullare una deroga precedentemente manifestata. E, in luogo della posizione razionalistica assunta da Dworkin, si può notare che viene fatta valere una più ridotta concezione dell’agente morale, assunto nei termini della capacità di esprimere in modo comprensibile preferenze sulla propria vita. Per superare le difficoltà a cui va incontro il tentativo di dedurre soluzioni da un principio di salvaguardia assoluta dell’autonomia razionale dell’agente (difficoltà dovute al fatto che in molte occasioni le persone coinvolte non possono essere ricondotte alla descrizione di persona razionale, presupposto da questa teoria come unico requisito adeguato), il dibattito attuale è incline a rivolgere l’attenzione sull’universo dei pazienti morali, verso cui un trattamento morale è comunque doveroso, anche laddove essi abbiano perso o non abbiano mai avuto la competenza per essere moralmente responsabili. Tenendo conto di questo tipo di pazienti morali, viene contestato, dalla critica contemporanea, il principio di autonomia morale assunto da chi auspica la diffusione delle carte di autodeterminazione come unico fondamento di validità etica. Questo genere di contestazione è riconoscibile nelle critiche di coloro che denunciano le carte di autodeterminazione, in quanto il loro limite starebbe nel postulare una forma di autonomia e di indipendenza individuale che è praticamente irrealizzabile e che comporta una concezione egoistica e ristretta della vita morale. Critiche più direttamente normative sono mosse poi da etiche differenti, che denunciano la negatività di una concezione morale che in realtà ipotizza un agente astratto, privo di relazioni e di affetti. Va rilevato, d’altro canto, che l’argomento dell’autonomia raccoglie la maggioranza dei consensi all’interno del dibattito attuale 8 sull’eutanasia e, nonostante i limiti applicativi sopra elencati, è il solo argomento a soddisfare requisiti minimi di universalità. Tuttavia, è opinione largamente condivisa, nel tentativo di ovviare ad alcuni dei suoi limiti applicativi, collocare il principio di autonomia individuale all’interno di una concezione morale più ampia, che la giustifichi e ne definisca la natura, non in termini di completa indipendenza, ma di responsabilità. Si è ormai riconosciuto, infatti, che tale principio, non può essere considerato come un dato acquisito nella vita etica delle persone, ma piuttosto una componente di una più ampia prescrizione etica, che raccomanda di creare le condizioni in cui effettivamente le persone divengano più autonome. 3. La visione utilitarista e il principio della qualità della vita Un aspetto ulteriore mediante cui si può rendere conto delle diverse visioni etiche circa la pratica dell’eutanasia e del suicidio assistito è dato dallo scontro tra etica utilitaristica ed etica deontologica, tra il dovere di considerare le conseguenze delle proprie azioni e, contemporaneamente, gli obblighi dettati dal codice deontologico della professione medica, per cui è dovere imprescindibile del medico difendere sempre e comunque la vita. Secondo l’approccio utilitaristico, non esiste alcun bene assoluto tale da imporre un forte vincolo al rispetto di esso. Ogni bene possiede sempre un valore relativo dipendente da circostanze e situazioni. Anche la vita del singolo individuo non ha un valore tale da impedire, per esempio, la violazione della regola “non uccidere”, quando la morte possa costituire un beneficio per un gruppo di soggetti. Completamente diversi sono gli assunti dell’etica deontologica, dove i principi morali sono prescrizioni universali, non semplicemente generalizzazioni descrittive. Il principio di sacralità della vita, ad esempio, si rifà a componenti di tipo deontologico. L’argomento utilitarista, a favore dell’eutanasia, si fonda sul principio di beneficenza o della qualità della vita. Esso riconosce un ruolo rilevante all’autonomia dell’individuo e alla soddisfazione dei suoi interessi. Tuttavia, i sostenitori del principio che fa leva sulla qualità della vita ritengono che il principio di autonomia possa contrastare con il principio utilitarista. Il problema si pone quando si esercita la scelta per altri, nei casi di eutanasia non volontaria. In questo caso, la dottrina della qualità della vita adotta come soluzione il 9 criterio utilitarista più classico. Le decisioni devono essere sempre motivate dalla massimizzazione dell’utilità. Hare, nella sua opera, Il pensiero morale, sostiene che la scelta morale ideale è sempre quella dell’utilitarismo dell’atto9,cioè, in ogni caso specifico, si dovrebbe fare il calcolo utilitarista delle migliori conseguenze e optare per la soluzione individuata. Quello che occorre fare, dice Hare, è sviluppare delle disposizioni che nell’insieme ci portino a massimizzare l’utilità. Gli utilitaristi, in linea generale, rappresentano i critici più rigorosi del principio di sacralità della vita in quanto sostengono la liceità morale dell’interruzione della vita al fine di non arrecare sofferenze inutili all’individuo. Se è così, vi sono senz’altro casi in cui l’eutanasia volontaria, ossia richiesta da una persona competente e informata, appare moralmente non controversa. Infatti: “I pazienti terminali talvolta soffrono dolori così terribili da essere a stento compresi da chi non li ha mai provati. Le loro sofferenze possono essere così terribili che non ci piace nemmeno leggerne o pensarci; rifuggiamo persino dalla loro descrizione. L’argomento della pietà dice: l’eutanasia è giustificata perché mette fine a questo”10 . Questo argomento, nelle sue formulazioni più rigorose, riprende le idee centrali dell’utilitarismo, alla luce dei suoi sviluppi contemporanei. Come ad esempio, la seguente formulazione: se un’azione promuove gli interessi di tutti quelli che vi sono coinvolti, allora quell’azione è moralmente accettabile; almeno in alcuni casi, l’eutanasia promuove gli interessi di tutti quelli che vi sono coinvolti; pertanto, almeno in alcuni casi, l’eutanasia è moralmente accettabile. La distinzione tra un modo passivo e un modo attivo di soppressione del paziente costituisce il primo punto di attacco alla posizione tradizionale, ovvero al principio di sacralità della vita, da parte degli utilitaristi, i quali affermano che un atto di uccisione diretto è moralmente equivalente all’omissione di un atto in grado di salvare la vita. In quest’ottica, non è moralmente rilevante se il medico lasci morire il paziente sottraendogli delle cure o se gli inietti una sostanza letale, ma piuttosto se l’esito mortale costituisca un beneficio per il 9 R.M. HARE, Il pensiero morale. Livelli, metodi, scopi, trad. it. di S. Sabattini, Bologna, Il Mulino, 1989. 10 J. RACHELS, La fine della vita, Torino, Sonda, 1989, p. 160. 10 paziente oppure no. Infatti, la regola che vieta di uccidere non ha lo scopo di tenere in vita esseri umani innocenti, ma quello di proteggere le vite e gli interessi che alcuni individui hanno in virtù del fatto che sono soggetti di una vita. Rachels, ad esempio, distingue, in proposito, tra “essere vivi” e “avere una vita”; quest’ultima espressione indica la vita in senso biografico, cioè l’insieme dei progetti, aspirazioni, relazioni che costituiscono l’esistenza. Pertanto, secondo Rachels, non tutti i viventi, hanno una vita in senso biografico. Perciò, quando non vi è più una vita in senso biografico, la morte può costituire un bene per chi muore e non è importante il modo nel quale l’esito viene raggiunto. Anzi, una volta ammesso che la morte sia un beneficio, l’eutanasia attiva è preferibile alla sospensione delle cure, perché realizza l’obiettivo più rapidamente, minimizzando le sofferenze. L’autore sostiene che l’intenzione che spinge un soggetto a compiere un’azione non ha rilevanza nella valutazione della moralità dell’azione compiuta. Da questa premessa, Rachels deriva la sua teoria dell’equivalenza morale tra uccidere e lasciar morire. Eutanasia attiva e eutanasia passiva sono due azioni analoghe dal punto di vista morale, in quanto egli valuta esclusivamente le conseguenze rispettivamente dell’azione e dell’omissione. La critica più frequente, mossa a questo tipo di argomentazione, riguarda proprio l’incoerenza circa l’aspetto intenzionale. Infatti, la scissione tra valutazione dell’agente e valutazione dell’atto, conduce ad un’incoerenza di fondo tra azione e omissione. Se si afferma che un atto non può essere giusto o sbagliato in rapporto alle diverse intenzioni con cui viene fatto, non si può poi ricorrere alle motivazioni dell’agente per equiparare azione e omissione. Questo aspetto dovrebbe essere rilevante per la valutazione degli agenti, ma irrilevante per la valutazione dell’atto: infatti, l’intenzione non è rilevante per decidere se l’atto è giusto o sbagliato, ma invece è rilevante per stabilire il carattere della persona che lo compie, che è un problema diverso e non può essere invocato per stabilire l’equivalenza tra azione e omissione. Sempre a proposito della distinzione tra uccidere e lasciar morire, un’altra linea di attacco al principio di sacralità della vita è stata avanzata da Helga Khuse, secondo la quale il lasciar morire è un omissione intenzionale, si tratta infatti di astenersi volontariamente dal salvare qualcuno che si ha la capacità e l’opportunità di salvare, per cui la distinzione tra fare qualcosa e non fare nulla, o tra eseguire certi 11 movimenti e non eseguirli, non sussiste11. Nella distinzione, nota Khuse, l’unica differenza rilevante tra uccidere e lasciar morire è quella del differente ruolo causale assunto dall’agente, ma non si trova alcuna spiegazione ragionevole del perché “far accadere” debba comportare una responsabilità morale diversa rispetto a “lasciar accadere”. Pertanto, nelle fasi terminali della malattia, l’interruzione dei trattamenti è moralmente equivalente alla soppressione intenzionale del paziente e, quando la morte è un beneficio, determinarla attivamente risparmia ulteriori sofferenze. Secondo la critica, Khuse adotta un concetto troppo ampio di causa, che si confonde con quello di condizione, infatti l’aspetto pertinente della sua ricostruzione è che per spiegare completamente un evento non basta individuarne la causa, ma occorre menzionare una serie di altre condizioni che consentano di determinare gli effetti e lo sfondo su cui la causa ha agito. Molte di queste condizioni sono necessarie, perché se venissero a mancare la causa non produrrebbe i suoi effetti, perciò si può dire che tali condizioni, dice Khuse, con-causano l’evento. Tuttavia, non distinguendo tra condizioni e cause di un evento, la tesi di Khuse, a giudizio di molti, aumenta enormemente il numero di elementi che possono essere citati come cause, rendendo arbitraria la definizione stessa della causa. Un altro argomento tradizionale per giustificare atti che determinano effetti negativi, come la morte di un individuo, è il principio del duplice effetto. L’intenzionalità qui si identifica con le conseguenze che il soggetto desidera e ricerca come proprio fine o come mezzi per il proprio fine, ma esclude le conseguenze che l’agente si limita a prevedere. In base al principio del duplice effetto, un atto che abbia anche un effetto negativo può essere giustificato a condizione che vi sia un’adeguata proporzione tra i due, ossia che l’effetto buono sia sufficientemente desiderabile da compensare quello cattivo. La critica al principio del duplice effetto è stata oggetto di particolare attenzione anche da parte di Khuse. In riferimento ai casi di eutanasia, secondo Khuse, il medico che pratica un’iniezione letale al proprio paziente lo uccide intenzionalmente non più di quanto non lo faccia il medico che lo lascia morire sottraendogli le terapie di sostegno vitale; entrambi i medici intendono alleviare la 11 La distinzione tra uccidere e lasciar morire, di primaria importanza per gli utilitarista è resa esplicita da Khuse in A Companion to Bioethics, a cura di H. KHUSE, P. SINGER, Oxford, Blackwell, 1998. 12 sofferenza dei loro pazienti ed evitare trattamenti sproporzionati. Non si può dire che il medico, che pratichi un’iniezione letale a un paziente morente, voglia la morte del paziente, mentre quello che gli sottrae terapie sapendo che ciò lo porterà alla morte non la voglia. Entrambi, osserva Khuse, la vogliono in senso condizionale: benché nessuno dei due desideri questo esito di per sé, in entrambi i casi esso si presenta come conseguenza inevitabile di ciò che essi ritengono preferibile fare per il loro paziente. Khuse conclude che l’ambito intenzionale non può essere limitato alle conseguenze desiderate o volute, per cui la responsabilità si estende anche alle conseguenze che, pur non essendo desiderabili o desiderate, sono previste come probabili. L’approccio utilitarista, applicato ai temi dell’eutanasia e del suicidio assistito, compare anche in diversi scritti di Peter Singer, in particolare nel volume Pratical Ethics12 e nell’opera Rethinking Life and Death13. In quest’ultimo volume, in particolare, Singer giustifica l’eutanasia in base al concetto di qualità della vita. Secondo Singer, sulla base della considerazione dei principi utilitaristici, non esistono radicali differenze tra eutanasia volontaria e non volontaria. La differenza si rileva solo in rapporto all’ottenimento del consenso o della richiesta espressi in merito alla possibilità di morire. L’eutanasia volontaria si distingue da quella non volontaria solo perché la prima consiste nell’uccisione di una persona, cioè di un essere umano autocosciente, che ha chiesto di morire, mentre nell’altro caso sono la famiglia o il medico a decidere per il soggetto che non è in grado di farlo. Secondo Singer le persone che pianificano la propria esistenza devono poter pianificare anche la propria morte. Quindi tutelare il proprio diritto alla vita è, contemporaneamente, possibilità di tutelare il diritto di concluderla, quando non è più nostro interesse continuare a vivere. Singer, Khuse e Rachels individuano nell’accettazione dei giudizi di qualità della vita il discriminante tra il paradigma tradizionale del principio di sacralità della vita e il criterio della qualità della vita. In quest’ultima prospettiva, infatti, le decisioni sulla fine della vita umana non sono necessariamente legate alla volontà di morire da parte del paziente; il criterio della qualità della vita vuole essere oggettivo 12 P. SINGER, Pratical Ethics, Cambrdige, Cambridge University Press, 1979; trad. it. di G. Ferranti, Etica pratica, Napoli, Guida, 1989. 13 P. SINGER, Rethinking Life and Death, Melbourne, Text Publishing Co., 1994; trad. it. di S. Rini, Ripensare la vita, Milano, Il Saggiatore, 1996. 13 perché non si concentra esclusivamente sull’autonomia e sulle preferenze individuali, ma chiede di agire in vista del miglior interesse del paziente. Perciò, oltre a riconoscere piena autorità morale ai giudizi sulla qualità della propria vita espressi da pazienti consapevoli, l’etica della qualità della vita si applica anche a individui non più in grado di esprimere le proprie preferenze. Questi casi possono essere decisi non solo sulla base dell’attestazione delle preferenze da parte del paziente, ma anche applicando il criterio della qualità della vita, ossia chiedendosi se il prolungamento della vita sia più o meno benefico. 14 4. Considerazioni sull’etica della cura e della responsabilità Una prospettiva etica alternativa alla visione liberale e alla visione utilitarista è comunque imprescindibile dal considerare l’influenza che le innovazioni tecnologiche hanno sia sulla qualità della morte sia sulla tutela della libertà e del rispetto delle scelte individuali. Le linee etiche alternative di orientamento sulle scelte di fine vita derivano e si configurano non solo dai già accennati principi di autonomia e di beneficenza, ma anche dalla configurazione di una sorta di pragmatica etica situazionale. In relazione a ciò, la responsabilità e la cura per l’altro, in unione al principio di giustizia, che pone il problema dell’equità da garantire, rappresentano le componenti essenziali di una visione etica contemporanea proiettata verso la considerazione delle ricadute sociali delle decisioni su cui si è chiamati a pronunciarsi. Le domande etiche sul diritto di morire stanno diventando sempre più pressanti e dibattute, sia nella sfera pubblica sia nella sfera privata, e anche se certe decisioni non possono essere prese a meno che non ci si trovi obbligati a prenderle, molte questioni legate alla morte e al morire possono essere consapevolmente anticipate, ponderate e discusse nel contesto socio-culturale dell’individuo. Allo stato attuale, il principio di autonomia ha trovato piena espressione, ed è ormai generalmente riconosciuto, sia nella pratica legale, sia nella pratica medica, per quel che riguarda il diritto di un paziente, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, di rifiutare terapie indesiderate. La visone liberale, che si appella al diritto personale di autogestione, ossia alla capacità di gestirsi da sé, di essere liberi e moralmente indipendenti, si spinge oltre e intende riconoscere la liceità del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria, concedendo al medico il diritto di non agire in contrasto con la propria concezione degli obblighi professionali. Nei casi di eutanasia non volontaria, l’accettazione liberale dell’eutanasia deve far ricorso a criteri decisionali che in qualche modo sostituiscano la soggettività del paziente (direttive anticipate, fiduciario che agisca come decisore sostitutivo…). In mancanza di totale informazione, viene meno il presupposto di neutralità morale della tesi liberale e si procede 15 scegliendo quello che appare il miglior interesse del paziente nella situazione data14. Tuttavia, l’autonomia personale è limitata dal diritto che gli altri hanno di esercitare la loro e può essere anche limitata dalla società, che esercita diritti in nome della comunità. Occorre dunque sottolineare che l’autonomia personale è un concetto complesso e spesso ambiguo. Se la bioetica liberale contemporanea raccoglie consensi in crescendo, non è infatti immune da importanti obiezioni e controversie circa il modo di sostenere la liceità dell’eutanasia. Ad esempio, la pratica del suicidio assistito non potrà mai risultare un accordo meramente privato, dal momento in cui si inserisce all’interno di strutture pubbliche che coinvolgono, oltre al medico, anche una serie di figure professionali che forniscono servizi assistenziali alla cittadinanza. La critica alla concezione individualista dell’autonomia, che si esprime nella necessità di integrare il rispetto dei diritti individuali con le componenti proprie dell’etica della cura e della responsabilità15, fa leva sulla opportunità di mettere in relazione il principio o la norma generale con il caso singolo. Dunque, ci si chiede quale dovrebbe essere secondo tale linea di pensiero l’opzione morale da attuare tra il dovere di vivere e il diritto di morire. Molti sostenitori dell’etica della cura affermano che la questione di avviare procedure per accelerare intenzionalmente la morte dovrebbe essere collocata nel contesto del “bene comune” della società. Ciò significa che un’eccessiva enfasi sull’importanza delle scelte personali rischia di far perdere di vista il fatto che nessun aspetto dell’esperienza umana sia completamente personale e privato. Charles Dougherty afferma a riguardo che il modo in cui moriamo, ossia quando e in quali circostanze e per quali cause o motivi, è condizionato in modo profondo dalle relazioni che abbiamo con gli 14 In questo caso si tratta di una valutazione analoga a quella operata dagli utilitaristi: individui non più in grado di elaborare un progetto di vita sono al di fuori dell’ambito di applicazione dell’autonomia, per cui in tali casi si deve applicare il principio di benevolenza. Ma a differenza dell’approccio utilitaristico, l’approccio liberale esclude il calcolo degli effetti su altri quando è in questione il diritto alla vita. 15 Per quel che riguarda l’etica della cura, in questa analisi si farà accenno principalmente alla sua dimensione relazionale ineludibile e fondativa e non riducibile alle categorie astratte di giustizia, equità e diritto. Da questa componente essenziale non discende una precisa ontologia di valori o una teoria della normatività, trattandosi piuttosto di un’etica basata sugli atteggiamenti. Anche l’idea di responsabilità non dipende da principi ultimi e diritti naturali ma si incentra sulla irriducibilità dell’esperienza personale. 16 altri e dalle grandi forze sociali e istituzionali16. Se il morire in un contesto medico è caratterizzato come un’esperienza che implica sofferenza e dolore, si potrebbe servire meglio il bene comune della società prendendo misure che aggiungano semplicità e dignità al processo del morire, come ad esempio l’incremento dell’assistenza domiciliare e dei programmi hospice. Questa linea di pensiero non è poi così lontana dal contesto di una riflessione sull’eutanasia fondata sull’etica della cura, che si oppone all’isolamento del soggetto, presupposto dall’individualismo liberale, per porre l’enfasi sui soggetti concreti, sulla loro relazionalità e sulla dipendenza da altri. In questa ottica, l’etica della cura pone attenzione non tanto agli atti e alle conseguenze, ma all’attitudine fondamentale con cui il soggetto si relaziona agli altri e al mondo. In riferimento alla centralità che riveste questo aspetto, l’etica della cura non rappresenterebbe una teoria morale in senso stretto, ma piuttosto una tradizione di ricerca politica, sociale, psicologica e morale, la cui identità è emersa solo recentemente17. Tuttavia, l’obiettivo comune di una prospettiva di questo tipo è la contestualizzazione dell’agente razionale presupposto dalle teorie della decisione all’interno del processo relazionale mediante cui si è costituita l’identità dell’individuo. In questa direzione, l’etica della cura ritiene che i principi considerati validi devono essere compatibili con giudizi particolari, spesso basati su sentimenti di empatia e su relazioni di cura. Sul tema controverso dell’eutanasia e dell’aiuto al suicidio, il diritto all’autodeterminazione è stato letto, in questo ambito, sotto la luce della responsabilità e della cura per l’altro. Gli argomenti sulla legalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia attiva non si avvalgono del diritto di disporre del proprio corpo, giudicato un principio astratto, ma si riferiscono al paziente quale soggetto concreto, inserito in un contesto di relazioni e il cui accesso alle cure è condizionato dalla società. In questo ambito, si considera la richiesta 16 Si veda C. J. DOUGHERTY, The Common Good, Terminal Illness, and Euthanasia, in «Issues in Law and Medicine», 9 (1993), pp. 151-166. 17 Alcuni sviluppi contemporanei dell’etica delle cura sono stati ripresi dal femminismo: l’aspetto maggiormente condiviso riguarda la critica all’astrattezza del soggetto come individuo privo di relazioni. Sotto il profilo dei contenuti normativi, né il femminismo né l’etica della cura sono considerati teorie morali sistematiche in quanto non rientrano nelle etiche deontologiche, consequenzialistiche e nelle etiche delle virtù. 17 di eutanasia e di aiuto al suicidio come il risultato di certi fattori, per esempio, il fatto di ricevere cure inadeguate. In questa prospettiva non si nega l’autonomia dell’individuo bensì si nega la semplice accettazione dell’eutanasia e della richiesta di assistenza al suicidio, come atto di affermazione della propria libertà, che non tiene conto della dimensione della relazionalità. Gli argomenti a favore dell’eutanasia in questo contesto di riflessioni sono ritenuti sospetti perché sembrano non tenere conto della vulnerabilità dei soggetti, così c’è chi sostiene che l’etica della cura non può essere impiegata per giustificare l’eutanasia come atto benevolo: gli atti di cura non sono finalizzati a introdurre pratiche che potrebbero danneggiare i soggetti deboli, le cui richieste di aiuto sono condizionate dal contesto socioculturale. Sulla base di queste riflessioni, Susan Wolf si associa a Carol Gilligan nel suggerire di conciliare l’etica della giustizia con l’etica della cura, rinviando chiaramente alle più recenti versioni della bioetica dei principi, in cui la specificazione rispetto al contesto bilancia e compensa l’astrattezza dei principi. Laddove il guarire è impossibile, la medicina e l’etica divengono “arte del curare”. Si apre qui il grande capitolo della medicina palliativa che, approfondendo sempre più nuove terapie per il dolore, pone particolare attenzione alla dignità della persona, nel suo momento culmine, ossia alla “dignità del morire”: una dignità che va salvaguardata nel rispetto dell’autonomia, superando però il rischio dell’isolamento. E’ compito della medicina palliativa distinguere il rispetto che la persona ci impone dall’abbandono, a cui “il diritto di essere lasciati soli” può condurci. Dinanzi alla medicina palliativa, il morente ha il diritto alla verità sugli effetti e sugli esiti della cura palliativa, affinché la sua autonomia non sia solo apparente, solo così il rispetto dell’autonomia si interseca con il grande tema della cura. L’aspetto più rilevante dell’etica della cura è la compassione, un “esperire con”, che riguarda “non solo un momento isolato”, ma anche “il processo” insito nella sofferenza. Nel testo ormai classico di Elizabeth Kubler-Ross, La morte e il morire18, si può vedere come il malato terminale attraversi varie fasi: dal rifiuto/ribellione, al patteggiamento, alla depressione, all’accettazione. Fasi che scandiscono un itinerario verso la morte in cui l’unico sollievo può e 18 E. K. ROSS, La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1996. 18 deve essere la possibilità di essere ascoltati e assistiti. L’interpretazione degli atteggiamenti nei confronti delle malattie mortali, elaborata da Kubler-Ross, è servita da stimolo per comprendere meglio come le persone affrontano la prospettiva di morire. Ma si è anche compreso meglio come tali schemi interpretativi non devono essere applicati indiscriminatamente perché le circostanze, sempre mutevoli, di una malattia mortale determinano un’ampia varietà di pensieri e di emozioni. Alla luce di questi ultimi aspetti, occorre sottolineare che l’etica della cura ha senza dubbio contribuito a rimettere al centro della riflessione morale la dimensione della relazionalità come costitutiva delle decisioni dell’individuo, anche nelle questioni di fine vita, infatti è proprio in tale contesto che siamo indotti a comportarci moralmente in quanto ci “prendiamo cura” di qualcuno e non perché ci capita di interagire con soggetti che ci sono del tutto indifferenti. Tuttavia si possono riscontrare anche in questa prospettiva atteggiamenti ambigui, perché la complessa diversità delle circostanze e dei legami che un soggetto intrattiene con i diversi interlocutori può tradursi in forme di cura almeno apparentemente contraddittorie: come ad esempio optare pro o contro l’eutanasia. In questo caso la questione cruciale diventa quella di individuare come sia possibile per il soggetto e per i suoi interlocutori discernere forme autentiche della cura dalla sue degenerazioni. Si tratta della difficoltà dell’etica della cura di restare fedele al contesto, di evitare, allo stesso tempo, il situazionismo, e infine di elaborare strategie di cura socialmente equa. Chiaramente, come sottolinea Roberto Mordacci, tali difficoltà sono dovute anche al fatto che non vi è un criterio normativo specifico della cura, ossia un nucleo normativo che indichi come debba essere correttamente intesa: “Cura e giustizia, differenza e identità, particolare e universale, devono certamente essere pensati insieme, ma occorre precisare, per esempio, in quale modo la cura traduca praticamente il rispetto verso ogni agente: su quale base, se non l’identità personale o, in modo più labile, l’appartenenza al mondo vivente, si può esigere il rispetto della differenza di ciascuno?”19. 19 R. MORDACCI, Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la Bioetica, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 253. 19 Nel prendere in considerazione non solo la cura e l’assistenza al morente, ma anche le richieste di assistenza al suicidio di chi desidera morire prima che la sofferenza diventi intollerabile, occorre ammettere indubbiamente che esse sono influenzate dalle credenze e dalle tradizioni etiche e culturali che ci caratterizzano e ci appartengono. Interessante, a questo punto, è l’attenzione che Battin20 rivolge alla necessità di un cambiamento culturale e sociale per comprendere il rapporto tra dolore, sofferenze e suicidio. Secondo Battin è proprio di un cambiamento di prospettiva che il dibattito contemporaneo necessita per intendere i tratti del processo del morire e della sua regolazione. L’assistenza al suicidio e la pianificazione di quest’ultimo, quando il dolore non ha ancora raggiunto livelli estremi e insopportabili, possono divenire, in un cambiamento di prospettiva, un passaggio normale del processo del morire. Sarebbe dunque razionale per qualsiasi individuo avere l’opportunità, se ovviamente lo desidera, di assicurarsi in vita la pianificazione del suo suicidio. In questo modo la scelta, preventivata con prudenza, sarebbe sicura perché riconosciuta dal contesto culturale della società e dei suoi membri. E ciò sarebbe visto come un corso normale dell’azione e non come una possibilità estrema, clandestina ed eccezionale. Attualmente vengono messe in atto altre strategie di accelerazione della morte, come l’uso della morfina o di altri stupefacenti, l’interruzione della nutrizione artificiale o la sedazione terminale, ma questi atti sono attuati solo quando il soggetto ha raggiunto livelli estremi di sofferenza, mentre l’ideazione del suicidio assistito avrebbe una funzione preventiva. Il soggetto cosciente potrebbe decidere dove morire, con quali familiari, assistenti sanitari e il tipo di cerimonia, religiosa o simbolica, che desidera, unitamente alla possibilità di pianificare altre pratiche sociali che possono essere implementate dal contesto culturale. Le attitudini verso la morte sono fortemente condizionate dalla società e questa componente rappresenta una precondizione per lo sviluppo dei supporti morali a sostegno delle scelte di fine vita. Queste ultime possono includere anche un’ampia gamma di supporti pratici, legali, assicurativi, e altre policies che 20 Si veda Physician Assisted Suicide. Expanding the Debate, a cura di M.P. Battin, R. Rhodes, A. Silvers, London, Routledge, 1998. 20 contribuirebbero a rendere l’assistenza alla morte come un fenomeno socialmente accettabile. In questo processo delineato da Battin, il concetto di autonomia si evolverebbe nel consenso sociale e culturale sulle modalità del morire e delle attitudini alla morte. Battin ritiene che l’aiuto a morire, incluso l’aiuto del medico a morire, possa divenire “raro”e “sicuro” se diretto dall’autonomia del paziente sulla base del consenso collettivo, perché se l’individuo ha la possibilità di avere la libertà psicologica e sociale per riflettere a lungo termine sulle future scelte del processo del suo morire, vedrà tale pianificazione non come l’ultima scappatoia disperata dalla vita e dalle pessime circostanze in cui si trova, ma come un’esperienza prudente, significativa e preventivata. Anche se l’orientamento prevalente degli ultimi anni è quello di consentire una maggiore libertà di scelta all’individuo su come e dove morire, il dibattito etico-filosofico sull’ammissibilità del suicidio assistito e dell’eutanasia continua e c’è chi sostiene, come John Pridonoff, direttore della Hemlock Society, che l’assistenza hospice e l’aiuto a morire non siano incompatibili e che possano essere due aspetti complementari di un approccio globale alle decisioni di fine vita21. 5. La morale, il caso clinico e la regola giuridica In una società, cosiddetta democratica, il dibattito sulla moralità e sulla legalità delle pratiche di aiuto al suicidio dovrebbe rimanere aperto per promuovere quelle condizioni di discussione e di ascolto necessarie a chi si trova in uno stato di bisogno disperato e desidera morire in pace. Così, la domanda sulla “buona vita” e sulla “buona morte” è imprescindibile dall’obbligo di prestare attenzione alle “differenze” per garantirne il riconoscimento e la tutela. La coscienza sociale, la giurisprudenza e la legislazione statunitense ed europea, hanno rivolto un’attenzione crescente negli ultimi trent’anni ai 21 J. A. PRIDONOFF, Introduction, in Hospice and Hemlock: Retaining Dignity, Integrity, and Self-Respect in End-of-Life Decisions, ed. M.A. TREPKOWSKI, Eugene, Hemlock Society, 1998. 21 problemi connessi alla fine della vita e hanno accolto in varie misure le sollecitazioni provenienti dai diversi gruppi e movimenti impegnati, anche su fronti opposti, nelle dispute e nelle discussioni sulla normativa e sui referenti morali da adottare per “regolamentare” tali fenomeni. Uno dei casi esemplari, che ha scosso la professione medica negli Stati Uniti, agli inizi degli anni novanta, è rappresentato dalla storia della paziente del dott. Timothy Quill22. Si tratta della storia di Diane (1991) e del suo medico, il dott. Quill, che l’aiutò a procurarsi una morte anticipata e dignitosa seconda quanto lei aveva chiesto e desiderato23. La storia è paradigmatica del rapporto di fiducia medico-paziente e di come l’aiuto al suicidio possa essere un atto di responsabilità, schivando forme di violenza fisica e psicologica. Il dott. Quill non è mai stato incriminato e perseguito penalmente per aver fornito assistenza alla sua paziente perché quest’ultima era sola al momento della morte. La donna aveva richiesto, infatti, di morire in solitudine proprio per proteggere la sua famiglia e il dott. Quill da potenziali accuse. Quill a posteriori confermò che Diane non sarebbe morta in solitudine se le leggi vigenti avessero consentito l’assistenza al suicidio. Come medico a capo di una struttura ospedaliera, Quill conosce bene l’importanza della promessa dovuta ai pazienti morenti: i medici non li abbandoneranno quando la loro malattia diverrà devastante. Di conseguenza, Quill, in questa vicenda, sottolinea di essere sempre stato unito e vicino alla sua paziente, in particolare modo dal momento in cui essa ha scoperto di essere affetta da leucemia. Quill parla, nel suo libro, della sua stretta unione con Diane, con la sua persona e con la patofisiologia della sua malattia. Quando la leucemia le venne diagnosticata e confermata, Diane era ovviamente terrorizzata, arrabbiata e 22 Il Dott. Timothy E. Quill dirige il Center for Palliative Care and Clinical Ethics all’Istituto Universitario di Rochester. 23 La storia di Diane è raccontata in T. E. Quill, Death and Dignity: A Case of Individualized Decision Making, in «The New England Journal of Medicine», 324 (1991), pp. 691-94. 22 devastata dal dolore. Lamentando continuamente la tragedia e l’ingiustizia della sua vita, Diane arrivò a maturare la decisione di porre termine alle sue sofferenze. Il suo medico le chiese più volte di riconsiderare questa decisione, ma Diane era convinta che sarebbe morta durante il trattamento e avrebbe così sofferto il processo di ospedalizzazione, il mancato controllo del dolore sul suo corpo, gli effetti della chemioterapia e cosi via. Sebbene Quill le avesse offerto il suo totale supporto nel minimizzare e alleviare la sua sofferenza, e sebbene la sua famiglia si augurasse che prima o poi ella avrebbe optato per il trattamento di cura, Diane non si lasciò persuadere. Consultò anche uno psicologo ma nulla cambiò. Quill gradualmente comprese la decisione di Diane dal suo punto di vista e si convinse del fatto che ella aveva il diritto di decidere. Sottolineando come per Diane fosse importante mantenere il controllo di se stessa e della sua dignità durante il tempo che le sarebbe rimasto da vivere, Quill si rende gradualmente complice e partecipe della sua scelta. Egli aveva avuto modo di esplorare questo desiderio, assistendo la paziente e la sua famiglia in maniera assidua, facendo più di quanto fosse previsto abitualmente dalle pratiche mediche. Nonostante tutto, temeva ancora gli effetti e le ripercussioni di una morte violenta sulla famiglia di Diane, di un suicidio non ben compiuto, e temeva che qualche membro della sua famiglia fosse indotto ad assisterla, con tutte le ripercussioni legali e personali che ne sarebbero conseguite. Alla luce di questi dati, Quill indirizzò Diane presso la Hemlock Society24, dove avrebbe potuto trovare pieno aiuto. Quill continuò ad assicurarsi della sua volontà fino al momento della sua morte e si accertò che ella avesse tutto l’occorrente per un buon esito. Quill era sicuro che Diane non si sentiva abbandonata e che si faceva forza con le sue relazioni personali, con la sua famiglia e con i suoi amici più vicini. Nel pubblicare questa vicenda, Quill 24 La Hemlock Society è nata in Oregon (Usa) nel 1987 come organizzazione no-profit a favore della depenalizzazione del suicidio assistito. Derek Humphry è tra i suoi fondatori. L’associazione ha sponsorizzato, in Oregon, nel 1991, una proposta di legge a favore del suicidio assistito. 23 parla dell’importanza della filosofia della cura come dovere fondamentale del medico per contribuire ad assicurare una morte dignitosa al paziente. Il suo racconto è attraversato da molti dubbi e domande, ed è significativo il fatto che Quill non fosse assolutamente d’accordo con la decisione di Diane, ma l’ha comunque aiutata a metterla in atto. Quill si chiede quanti pazienti gravemente ammalati o moribondi, si tolgano segretamente la vita, morendo da soli e nella disperazione. Per Quill l’accompagnamento del morente non è un’azione disonorevole per il medico. Diane aveva vissuto la maggior parte della sua vita in uno stato di grave sofferenza psicologica e anche il suo futuro sarebbe stato segnato dal dolore, ma ciò che temeva maggiormente era la dipendenza e la sedazione. A un certo punto, dunque, Diane, radunò i suoi amici più intimi per salutarli e, dopo aver richiamato Quill e verificato che tutto fosse a posto, morì due giorni più tardi. Quill fu poi informato dal marito dell’avvenuto decesso. Il marito raccontò al medico come sua moglie lo salutò quel mattino chiedendo a lui e al figlio di lasciarla sola (morire da sola faceva parte della procedura raccomandata dalla Hemlock Society cosicché la famiglia e gli amici fossero tutelati dalle accuse di aiuto al suicidio). Così né il marito, né il figlio, né il medico di fiducia sono stati soggetti a pena25. 25 Dopo la morte di Diane, Quill non venne accusato dal grand jury e il New York State Department of Health's Board for Professional Misconduct considerò la sua azione “legale e eticamente appropriata”. Nel 1994 Timothy Quill, insieme ad altri medici (Caso Vacco v. Quill 1997), fece causa allo statuto dello Stato di New York sul suicidio assistito, poiché, secondo Quill, la prescrizione di farmaci letali a persone mentalmente competenti, ad uno stadio terminale, era in sintonia con il suddetto statuto sulla base della “Equal Protection Clause”, del XIV Emendamento. Questa clausola, secondo Quill, prevedeva che lo Stato trattasse casi simili alla stessa maniera. Dal momento che in America un individuo ha il diritto costituzionale di rifiutare cure mediche, anche se questo rifiuto porta alla morte, Quill sosteneva che tale rifiuto non era distinto rispetto alla pratica del suicidio assistito da medici. La Corte Suprema (1997) respinse la causa di Quill, in quanto lo statuto di New York riteneva che il rifiuto di trattamenti di sostegno vitale da parte di 24 Quill conclude questa storia sottolineando come dalla vicenda di Diane egli abbia compreso l’importanza dell’apertura verso i bisogni dei pazienti, dell’assunzione del rischio e della responsabilità per l’altro. Quill, assistendo la sua paziente, ha creduto nella giustizia della sua azione, tuttavia, si è sempre chiesto perché Diane dovesse essere sola negli ultimi istanti della sua vita. Il morente non dovrebbe mai essere abbandonato, proprio a causa della solitudine si rischia di morire troppo facilmente in uno stato di disperazione. Egli sapeva, inoltre, che molti medici aiutano clandestinamente i loro pazienti a morire in circostanze simili. A riguardo, la storia di Diane è significativa, secondo Quill, perchè è una storia di passione e di fiducia, e queste sono le storie che possono orientare il dibattito attuale a liberarsi dalle ideologie. Per i sostenitori del principio di sacralità della vita il dott. Quill potrebbe aver violato un bene fondamentale, fornendo assistenza al suicidio della sua paziente e Diane non sarebbe dovuta morire in quel modo. La sua famiglia, i suoi amici, il suo medico l’avrebbero dovuta assistere il più a lungo possibile, per educare la comunità alla sofferenze e alla vita degna di essere vissuta. Al di là di quanti giudichino questa vicenda in una tale ottica religiosa, il ruolo e le azioni del dott. Quill si ritiene debbano essere valutate nell’ottica delle virtù della responsabilità, della compassione e della fiducia. I pazienti morenti spesso non hanno scelta, la loro unica cura possibile è non lasciarli soli davanti alla morte. Quill ha ammesso, però, che Diane, come tanti altri, non si meritava di morire sola, sobbarcandosi il peso del suo destino tragico. Sebbene i rischi legali del caso siano serviti poi a giustificare tale modo di procedere, Quill, prima, ha dovuto acconsentire che Diane morisse in solitudine. Confessando il suo atto illegale sperava che la sua azione fosse riconosciuta come azione pietosa. In relazione a quanto detto, Quill non può essere dipinto semplicemente come un medico che aiuta le persone a perseguire una morte dignitosa, al contrario, come ha dimostrato persone competenti è ammesso ma l’assistenza al suicidio da parte di un medico non è concessa. 25 la storia di Diane, l’impegno morale del dott. Quill scoraggia le pratiche di suicidio medicalmente assistito, quale opzione facile e veloce. Piuttosto, si tratta dell’ultima tragica possibilità. Infatti, Quill si sente obbligato, dopo questa vicenda, a informare la comunità su ciò che significa vivere una “buona vita” e morire una “buona morte”, affermando, in riferimento alla sua paziente che sceglie la sua tragica fine, che vi è un diritto per lei di morire in pace. Il dott. Quill, successivamente, è stato riconosciuto e apprezzato per i suoi modi di operare attraverso la consulenza, l’ analisi e l’assunzione di responsabilità verso il paziente26. La stesso non si può affermare per i casi di aiuto a morire da parte di un altro medico, il dott. Kevorkian, che prescriveva dosi letali ai suoi pazienti sostenendo di agire nel loro interesse. Il risultato fu che molti di quei pazienti morivano completamente isolati e nessuno avrebbe potuto testimoniare o assicurare che il paziente avesse preso una decisione ragionevole, che prima avesse valutato tutte le opzioni alternative e che il potere del medico praticante non fosse stato abusivo. Dunque, è evidente che tali pratiche necessitano, ancor prima dell’intervento della norma, del requisito etico di fondo, affinché il medico, o chi altro, sia in grado di distinguere la differenza fra una richiesta di morte e un grido di aiuto a vivere. A parte in casi di legislazioni eccezionali come l’Olanda, il Belgio e lo Stato dell’Oregon in USA27, dove l’aiuto a morire è 26 Sui metodi praticati dal dott. Quill si veda, T. E. Quill, Physician-assisted dying : the case for palliative care and patient choice, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2004. 27 In Olanda il 10 aprile 2001 è stato approvato il provvedimento che legalizza formalmente l’eutanasia. Il testo è entrato in vigore il 1° aprile 2002. Merito della legislazione olandese è stato quello di aver fatto emergere una diffusa realtà preesistente. Con la formalizzazione in legge delle lineeguida viene sancita la piena validità della richiesta di eutanasia del paziente, se in accordo con determinati criteri e procedure. E’ vigente attualmente nello Stato americano dell’Oregon una legge sull’eutanasia. Vi si stabilisce, in particolare, che non costituirà reato l’assistenza al suicidio qualora una tale condotta risulti posta in essere dal medico, in presenza di una serie di condizioni minuziosamente descritte. La legge, del 1994, è stata confermata 26 legalmente consentito sotto ristrette categorie e rigide linee guida, il diritto, nella maggior parte degli altri paesi, proibisce tali pratiche, anche se vi sono stati casi di aiuto al suicidio rimasti impuniti, seppur in contrasto con l’ordinamento vigente. Infatti, alcuni paesi, tra i quali la Gran Bretagna28, hanno recepito i recenti sviluppi del dibattito internazionale sull’aiuto a morire e segnali di distacco, dei giudizi sociali e morali, dai confini giuridici tradizionali sono tuttora in atto. In Italia, diversi casi giudiziari hanno scosso l’opinione pubblica dal disinteresse per le questioni e le decisioni di fine vita. Dal caso Forzatti, l’ingegnere di Monza che aveva staccato il ventilatore meccanico applicato alla moglie in coma (Sentenza n. 23/02 della Corte Assise d’Appello di Milano, I Sez.), conclusosi con l’assoluzione dall’imputazione di omicidio, per insufficienza della prova dell’esistenza in vita della vittima, al caso di Eluana Englaro, tuttora aperto, dopo che la Corte di Appello di Milano, e in precedenza il Tribunale di Lecco, ha respinto la domanda del padre, tutore di Eluana, di ottenere l’autorizzazione all’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali, che da sedici anni tengono in vita la ragazza che si trova in stato vegetativo permanente29. Il testo della Convenzione Europea, riguardo alle decisioni di fine vita, tenta un’opera di bilanciamento: da una parte, si afferma il principio di autonomia come base del diritto alla vita privata, garantito dall’art. 8, poiché nell’ambito di un concetto più ampio di vita privata si riconosce l’importanza delle scelte per due volte da referendum popolari ed è entrata definitivamente in vigore il 26 ottobre 1997. Recentemente, altri stati americani hanno avviato procedure legislative dirette a riconoscere il diritto all’assistenza medica al suicidio. Così, nello Stato della California, il 22 febbraio 1999, è stato presentato il Death with Dignity Act, speculare alla legge che vige nell’Oregon. 28 Si rinvia alla Corte europea dei diritti dell’uomo, 29/4/2002, Pretty v. United Kingdom. Si tratta della sentenza relativa al caso Pretty, in cui si concede libertà agli stati di regolamentare le forme di aiuto al suicidio, come hanno fatto Olanda e Belgio. 29 Si veda S. Fucci, I diritti di Eluana - Prime riflessioni, in «Bioetica», 1 (2004), pp. 95-99. 27 relative alla qualità della vita, e, dall’altra parte, è rigettata la tesi che, per gli individui mentalmente in grado di intendere, ma fisicamente incapaci, lo Stato sia obbligato a consentire forme di aiuto al suicidio in quanto incluse di quel diritto30. Dunque, si lascia interamente agli Stati la decisione sul modo in cui a questo diritto si debba conferire un minimo di efficacia, si approva l’orientamento generale e assoluto assunto in materia dalla legislazione nazionale ma si autorizzano gli Stati a decidere con una certa flessibilità e a posteriori quali reati debbano essere perseguiti e puniti. In questa fase di reazioni e di cambiamenti morali e sociogiuridici sul grande tema delle decisioni di fine vita, il rischio più temuto, sul piano delle ragioni di carattere di etico, è quello di una giuridicizzazione delle questioni sociali e, in particolare, di una normalizzazione delle pratiche delle forme di aiuto a morire. Si teme che questo processo spinga gli individui ad abdicare dalle loro responsabilità sociali e collettive per ricercare soluzioni mutuamente accettabili e itinerari formali, trasformando questioni di giustizia sociale in questioni tecniche e legali, disconnesse dall’ intimità e dalle relazioni sociali da cui sono emerse. La definizione di strategie etico-giuridiche congiunte e percorribili diviene allora indispensabile affinché la medicina contemporanea possa comprendere se e come sia possibile l’incontro della norma con la morte e il morire, nel perseguire l’obiettivo comune di propiziare una buona morte (pursuing a peaceful death). 30 Articolo 8, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: “ 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. 28 6. Lo stato vegetativo permanente La condizione di chi non può decidere perché non si trova più in uno stato di coscienza, rappresenta attualmente una delle questioni più problematiche del dibattito etico e giuridico di fine vita. Vi sono storie al limite e sono le storie delle persone in stato vegetativo permanente, che continuano a vivere grazie alle tecnologie di sostegno vitale. Proprio queste storie spesso diventano casi mediatici perché attorno ad esse si scatenano conflitti morali e giuridici31, dovuti al gioco delle ipocrisie e alla 31 Di recente, il caso Terri Schiavo. La giovane donna americana in stato vegetativo permanente è morta dopo che la Corte Suprema statunitense aveva autorizzato l’interruzione dei trattamenti su richiesta del marito, in netto disaccordo con il volere dei familiari. In Italia è stato ed è tuttora in discussione il caso di Eluana Englaro, in cui il giudice, al contrario di ciò che aveva autorizzato la Corte Suprema degli Stati Uniti, ha respinto più volte la richiesta del padre di Eluana di poter sospendere i trattamenti di sostegno vitale alla figlia, in qualità di tutore, legale rappresentante, dai quali dipende da sedici anni. La sentenza della Cassazione civile n. 21748 del 16 ottobre 2007 ha segnato però un incisivo cambiamento. Tale sentenza ha, infatti, riconosciuto che prestare il consenso al trattamento destinato all’incapace rientra tra i doveri di cura, in capo al tutore, previsti dall’art. 357 del codice civile. Al tempo stesso, la sentenza ha, però, anche precisato i criteri ai quali deve essere improntata l’attività di cura del rappresentante: «Il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce al tutore … un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta ad un duplice ordine di vincoli». Se il primo vincolo è rappresentato dal perseguimento dell’«esclusivo interesse dell’incapace», il secondo vincolo, funzionale alla ricerca e alla determinazione del «best interest», va ravvisato – usando le efficaci parole della sentenza - nel «decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace». Il caso di Karen Quinlan, invece rappresenta il primo vero caso discusso in America. Karen Quinlan (NJ, 1976), era entrata in coma dopo un incidente. Suo padre chiese il permesso legale di rimuovere il respiratore. Le affermazioni che la donna aveva fatto davanti agli amici e alla famiglia, con cui si rifiutava di essere mantenuta in vita attraverso delle macchine, furono rigettate in quanto rappresentavano una «ripugnanza» o un «desiderio» «remoto e impersonale», emotivo e non una 29 mancata intesa tra posizioni che si fronteggiano, per esempio i familiari da una parte e il contesto clinico dall’altra. Allora l’intervento del giudice si rende necessario. E’ accaduto per Nancy Cruzan, una delle figure protagoniste del dibattito sull’aiuto a morire, quando il suo caso (1988) rappresentò il primo caso di diritto di morire davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti32. La giovane Nancy, in seguito ad un grave incidente automobilistico, rimase in stato vegetativo permanente. Fu alimentata attraverso una gastrostomia, prima che le venisse sospesa l’alimentazione. Nancy, nello stato in cui si trovava, non avrebbe più potuto muovere il suo corpo e la sua corteccia cerebrale era in stato irrimediabilmente compromesso. Con la nutrizione artificiale essa poteva comunque avere un’aspettativa di vita di almeno altri trent’anni. Tuttavia, dopo tre anni di esistenza in una condizione di “morte vivente”, i genitori fecero conclusione razionale. Nel 1976, il sig. Quinlan si rivolse alla Corte Suprema del New Jersey, la quale sentenziò che Karen aveva il diritto costituzionale di morire. La Corte dichiarò che in casi extra-ordinari si poteva applicare un parere extra-legale «in quanto chiunque si fosse trovato in una simile situazione avrebbe voluto morire». In casi simili a questo, né la comunità scientifica, né la società dispongono di criteri morali certi per definire se i pazienti in questione sono o non sono persone e se sono vivi o se sono morti. La difficoltà risiede nel dare giudizi morali rispetto ai bisogni, ai desideri, alle aspettative dei protagonisti del caso e, anche in virtù del principio di autonomia, appare problematico giustificare una decisione estrema quando, ad esempio, le condizioni del paziente sono tali da impedire il suo consenso all’interruzione di un trattamento. Quindi, anche se la scelta di morire dovesse essere corrispondente alla richiesta del paziente avanzata settimane prima, ciò non potrebbe costituire una sufficiente garanzia per l’agire moralmente giusto; va comunque valutata la consapevolezza, l’autenticità e la congruenza con le circostanze. Appare evidente che tali questioni tocchino tre ambiti interconnessi: le leggi, la deontologia medica e i principi etici. 32 Si veda G. Ponzanelli, Nancy Cruzan, la Corte degli Stati Uniti e il right to die, entrambi in «Foro italiano», IV (1991) pp.66; A. Puca, Il caso Nancy Beth Cruzan, in «Medicina e Morale», 5 (1992), pp. 911-932. 30 richiesta di sospendere i trattamenti di sostegno vitale, senza ottenere parere favorevole dalla Corte del Missouri. I genitori si appellarono alla Corte Suprema degli Stati Uniti che si pronunciò nel 1990 per la prima volta sulla questione del diritto di morire. Seguirono due giudizi: la trial court autorizzava l'interruzione, ma la Corte Suprema del Missouri la negava. La famiglia Cruzan perse la causa. La Corte proclamò la libertà degli individui di accettare o rifiutare le cure mediche, tra cui anche l’idratazione e la nutrizione artificiale, ma dichiarò anche che lo Stato ha l’autorità di richiedere prove convincenti su come i pazienti in stato competente hanno espresso il proprio parere su come dover essere trattati in caso di stato vegetativo. Così i coniugi Cruzan tornarono dinanzi al tribunale al quale si erano originariamente rivolti portando testimonianze circa la volontà della figlia, dalle quali si ricavava che essa non avrebbe voluto essere mantenuta in uno stato di incoscienza permanente. Ed è proprio sulla base di queste nuove deposizioni che, dopo la sentenza della Corte Suprema, i genitori Cruzan ottennero da un tribunale del Missouri l'autorizzazione a interrompere l'alimentazione della figlia. Il caso Cruzan, nel suo riesame, risulta estremamente emblematico e interessante ai fini di questa indagine, soprattutto per i due diversi pareri che sono stati formulati dai giudici delle due Corti sulla responsabilità superiore dello Stato di decidere nell’interesse dell’individuo. Nella difesa delle ragioni etiche a sostegno della loro decisione, i giudici si sono differenziati sulla base di un’opinione impersonale e di un’opinione personale. Per quel che riguarda il giudizio impersonale della Corte Suprema, i giudici si sono appellati alle questioni del consenso informato, del grado di competenza del paziente, dell’interesse dello Stato di tutelare la libertà dell’individuo, dell’uso etico delle nuove tecnologie e della costituzionalità del diritto dei genitori a sostituire il giudizio della figlia. Questi sono stati i criteri di giudizio adottati dalla maggioranza, dove, come si può notare, non si fa riferimento ai dettagli circa lo storia personale di Nancy Cruzan. Il giudice Rehnquist, rappresentante della maggioranza e dell’opinione impersonale, in tal senso, argomenta affermando 31 l’interesse prevalente dello Stato su quello degli individui nel difendere la vita dei cittadini, a prescindere dalla sua “qualità”. Ma la risposta del giudice Brennan a questa dichiarazione segna un passaggio significativo circa il ruolo delle responsabilità in casi come questo: “Lo Stato non ha alcun interesse ‘astratto’ e legittimo alla vita di qualcuno che non sia quello della persona che vive quella vita e che possa aver più peso della sua scelta di rinunciare alle cure mediche”33. Secondo la sua visione del caso, per comprendere realmente la storia di Nancy e della sua famiglia occorre scavare ulteriormente e congiungere gli ambiti di competenza dello Stato con i dettagli personali del caso. Ma i giudici della maggioranza non si sono sentiti obbligati a farlo. Il loro discorso, infatti, è stato costruito in conformità con quanto prescriveva la legge, trascurando la sfera delle emozioni e della intimità personale. La minoranza, invece, ha ritenuto opportuno considerare e maturare un’opinione “personale” sul caso, sulla base di una più approfondita conoscenza delle sue componenti empatiche. I giudici, in questo modo, hanno dichiarato che Nancy Cruzan aveva il diritto di credere di morire con dignità. Il loro discorso contrasta con l’indifferenza e l’astrattezza del discorso impersonale presentato dalla maggioranza. Il giudice Brennan, della minoranza, sottolinea, a riguardo, il fatto che l’ottanta per cento degli americani, che muoiono in ospedale sedati e in stato comatoso, sono trattati più come oggetti piuttosto che come soggetti morali. Brennan parla a favore di questi soggetti, che hanno diritti inalienabili garantiti dalla Costituzione. La reale questione davanti alla Corte, secondo Brennan, non riguarda il diritto dello Stato ma il diritto dell’individuo. Egli si chiede perché lo Stato può pensare di poter compiere delle scelte che il paziente avrebbe fatto, se in vita, piuttosto che consentire di compierle a qualcuno che ha conosciuto molto bene il paziente. Lo Stato ha un interesse generale e legittimo a preservare la vita dei cittadini, ma lo Stato 33 Cfr. F. I. Michelman, La democrazia e il potere giudiziario. Il dilemma costituzionale e il giudice Brennan, a cura di G. Bongiovanni e G. Palombella, Bari, Ed. Dedalo, 2004, p. 164. 32 non deve legittimare questo generale interesse nella vita di qualcuno, in maniera completamente astratta dall’interesse della persona che vive “quella” vita. La Corte del Missouri aveva anche dichiarato che la società, nell’insieme, avrebbe potuto beneficiare dei trattamenti somministrati a Nancy Cruzan, infatti, come sostiene anche Leon Kass, dimostrare coraggio e perseveranza dinanzi alla morte e al morire rappresenta un’opportunità per promuovere il senso di umanità e di dignità tra i membri della comunità sociale. In questo dovrebbe consistere l’eroismo della famiglia Cruzan, in un atto di sacrificio, al fine di essere un modello per la moralità degli altri. In riferimento anche a quest’ultima interpretazione, Brennan non esita ad accusare la Corte del Missouri di falso comunitarismo e di ignorare i dettagli personali di questa storia, dettagli che hanno giocato un ruolo marginale nei colleghi della Corte Suprema. Questi ultimi, infatti, si sono avvalsi più delle categorie giuridiche astratte piuttosto che dei fatti e delle circostanze del caso in questione. Secondo Brennan, il giudice è chiamato al faccia a faccia con la dimensione esistenziale di quei dettagli e deve confrontarsi con la prova della loro forza “decostruttiva”. La famiglia Cruzan è stata “forzata” a rispondere al potere dello Stato, con i suoi standard di evidenza chiara e convincente, e i suoi membri non hanno avuto voce. Brennan sottolinea questo aspetto, ad esempio, quando lo Stato, con i suoi standard giuridici prefissati, ritiene non rilevante ciò che sostiene di sapere la sorella di Nancy. Continua a sottolineare che tutto ciò che lo Stato ha scartato come irrilevante al caso, è una prova di come esso si sia rifiutato di trattare il paziente come persona, facendo così di Nancy un simbolo della causa. Lo Stato, argomenta Brennan, è rimasto volutamente estraneo al paziente e quindi dovrebbe ammettere che la sua conoscenza di Nancy non è equiparabile a quella dei genitori. Brennan ritiene prioritario il rispetto dei principi costituzionali, tuttavia, la sua retorica è costruita in modo tale che, prima del riferimento alla Costituzione, il caso sia radicato nella tradizione e nella coscienza dei cittadini che hanno sacrificato a lungo la loro vita per proteggere la libertà di scelta 33 e la storia personale delle loro famiglie. Anche il giudice Stevens aggiunge la sua dissenting opinion a quella di Brennan. Parlando di Nancy Cruzan, Stevens sottolinea come l’attuale sviluppo medico e tecnologico ha trasformato le condizioni sociali e politiche della morte e del morire: gli individui hanno sempre meno certezze di morire a casa e molto più verosimilmente muoiono in strutture pubbliche, come ospedali o case di cura. Di conseguenza, parlare di Nancy Cruzan è parlare anche della sua vita in famiglia, è conoscere quelli che sono stati vicini a lei per consentire alla comunità di approvare scelte che toccano il cuore della libertà e della dignità umana e che si basano su motivazioni irreprensibili. Brennan sostiene che la vita non procede in astratto dalle persone e pretendere altrimenti non è onorare ma sconsacrare la responsabilità dello Stato nel proteggere la vita dei cittadini. Stevens, allo stesso modo, parla di persone e non di astrazioni e ci incita ad avvicinarci alla realtà del dolore e della sofferenza. Il richiamo alle emozioni e alle zone di vulnerabilità sta acquistando sempre più rilevanza nei processi decisionali, in determinate situazioni emotive, in ambito giuridico, dove si inizia a riconoscere che un certo tipo di compassione è “ragionevole”34, anche come circostanza attenuante. Brennan e Stevens hanno ammesso ciò, raccontando le emozioni e sviluppando argomenti sul significato delle decisioni estreme in uno specifico caso, davanti al quale lo Stato deve controbilanciare il suo generico interesse alla difesa della vita con quello del singolo. Anche le emozioni e gli aspetti peculiari alle vicende della famiglia Cruzan rappresentano una forte testimonianza per la comunità sociale: si tratta di un caso che ha avuto ripercussioni sulla coscienza di ognuno nel momento in cui i dettagli personali e “specifici” legati alla decisione finale sono emersi, al di là delle ideologie e delle derive laiche o clericali che molto spesso investono casi come questo. 34 Sul tema dell’accordo delle emozioni con la norma giuridica si veda M. C. Nussbaum, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Roma, Carocci, 2005, pp. 37-94. 34