. A p. CAPITOLO DODICESIMO S. LA PSICOPEDAGOGIA DEL NOVECENTO br i Sommario: 1. Le diverse concezioni della mente infantile. - 2. Le ipotesi di Vygotskij e lo scontro con Piaget. - 3. Le teorie dell’apprendimento. - 4. Teoria dell’istruzione e cultura dell’educazione: Bruner. - 5. Le «intelligenze» di Gardner. - 6. Neuroscienze e apprendimento. - 7. La psicoanalisi infantile. li 1. LE DIVERSE CONCEZIONI DELLA MENTE INFANTILE yr ig ht © Es se A) L’approccio di Piaget Jean Piaget (Neuchâtel 1896 – Ginevra 1980), biologo, psicologo ed epistemologo svizzero, è, assieme a Freud, unanimamente considerato lo studioso che ha maggiormente contribuito a modificare un certo tipo di immagine del fanciullo nel ’900. Studiò scienze naturali all’Università di Neuchâtel, laureandosi nel 1918. Si dedicò in seguito, sotto la guida di E. Claparède (1873-1940), agli studi di psicologia dell’infanzia, perfezionandosi a Ginevra e a Parigi. Nel 1922 Piaget divenne professore di psicologia dell’età evolutiva dell’Istituto Jean Jacques Rousseau fondato a Ginevra da Claparède e nel 1940 ne fu nominato direttore. Nel 1955 creò, sempre a Ginevra, il Centro Internazionale d’Epistemologia Genetica. Opere principali: Il linguaggio e il pensiero del fanciullo (1923); Giudizio e ragionamento nel bambino (1924); La rappresentazione del mondo nel Fanciullo (1926); La nascita dell’intelligenza (1936); La psicologia dell’intelligenza (1947); Trattato di logica (1949); Introduzione all’epistemologia genetica (1951); Biologia e conoscenza (1967); Lo strutturalismo (1968). I suoi studi sull’età evolutiva si concentrano soprattutto sul problema dello sviluppo delle facoltà cognitive. C op B) I capisaldi della teoria Ogni attività mentale, secondo Piaget, presuppone una maturazione neuro-biologica che ne orienta lo sviluppo: questo non è dunque esclusivamente riducibile all’influenza di fattori esterni sociali e culturali sul bambino (come invece sostenevano, più o meno contemporaneamente a Piaget, i 123 A . La psicopedagogia del Novecento C op yr ig ht © Es se li br i S. p. rappresentanti del Comportamentismo). Esso deve, in altri termini, tener conto anche e soprattutto dell’esistenza di un livello genetico alla base delle formazioni cognitive. L’ipotesi fondamentale di Piaget è infatti che ci sia un «parallelismo tra i progressi compiuti, l’organizzazione razionale e logica della conoscenza, e i corrispettivi processi psicologici formativi». Il bambino, ad esempio, cresce e potenzia le proprie capacità mentali rispettando una sequenza determinata di variazioni e di mutamenti connessi a certi stadi della sua vita. Ogni stadio che nello sviluppo cognitivo si differenzia da un altro presuppone necessariamente lo stadio precedente. In senso stretto, nulla è innato, poiché ogni fase riflette e ha bisogno delle acquisizioni pregresse. Lo sviluppo nasce così da un’interazione molto complessa e stratificata tra individuo e ambiente (che, ripetiamo, non è esclusivamente un ambiente socio-culturale): la mente stessa è come un organismo vivente che in rapporto con l’esterno si accresce e si sviluppa. In questo senso, secondo Piaget i fattori generali dello sviluppo sono: • la maturazione del sistema nervoso; • l’interazione con l’ambiente biologico e, più limitatamente, con quello sociale, storico, culturale; • l’integrazione adattiva attraverso cui il bambino «autoregola» progressivamente il proprio sviluppo. Il pensiero del bambino dunque e si accresce da sé grazie ad alcuni meccanismi fondamentali, che Piaget definisce «invarianti funzionali», cioè dei principi costantemente attivi e operanti a qualsiasi età; questi sono l’organizzazione, l’adattamento, l’equilibrazione. All’interno della mente vige il principio di organizzazione, che è «l’accordo del pensiero con se stesso»: il pensiero infatti tende a strutturarsi come un insieme coerente di concetti, schemi di comportamento e strategie di risoluzione dei problemi. All’esterno la mente segue il principio di adattamento, che è «l’accordo del pensiero con le cose». Il processo di adattamento del pensiero alla realtà avviene attraverso l’assimilazione, che consiste nell’integrare i dati nuovi alle conoscenze già possedute, e l’accomodamento, in cui invece vengono modificati gli schemi preesistenti in funzione delle nuove esperienze. L’ultima invariante funzionale è il principio di equilibrazione, secondo cui l’adattamento continuo tra assimilazione e accomodamento genera sempre nuovi equilibri. Le fasi di questo equilibrio sono identificabili in stadi, ognuno dei quali ha una struttura che permette un’interazione diversa fra individuo e 124 A . Capitolo Dodicesimo p. ambiente. Ogni stadio deriva dal precedente che incorpora e trasforma, quando si acquisisce un nuovo stadio il pensiero del precedente scompare. C op yr ig ht © Es se li br i S. C) La struttura stadiale La teoria piagetiana distingue quattro stadi principali, che vanno dalla nascita all’adolescenza. 1) Stadio sensomotorio (da 0 a 2 anni). In questa fase il bambino non riesce a distinguere tra se stesso e l’ambiente, né tra gli oggetti e le azioni che esercita su di essi. Conosce il mondo attraverso l’intelligenza sensomotoria, che gli permette di intervenire sulle cose, percepire gli effetti dell’azione e tornare ad agire. Non appena il bambino verifica il successo di un’azione, tende a ripeterla. Il risultato ottenuto per caso la prima volta diventa uno schema d’azione, che viene riprodotto attivamente in seguito. Piaget chiama questo genere di comportamenti «reazioni circolari». Dalla nascita ai due anni la conoscenza sensomotoria progredisce, attraverso un graduale affinamento e controllo delle reazioni circolari: comincia a differenziare sé dall’ambiente e impara a rispondere ai feed-back esterni (ad esempio, emette suoni e li ascolta), migliora le sue capacità di coordinare le azioni che a un certo punto da casuali diventano intenzionali. Soltanto verso la fine di questo periodo, ad esempio, il bambino acquisisce completamente il concetto di «permanenza» dell’oggetto: un oggetto continua ad esistere anche quando non è percettivamente presente. Si tratta di una conquista che Piaget considera il fondamento della capacità di rappresentazione mentale: il bambino non apprende più per tentativi ed errori, ma è finalmente in grado di rappresentarsi, di «immaginare» mentalmente le operazioni da compiere. 2) Stadio preoperatorio (da 2 a 7 anni, a sua volta distinto in «stadio prelogico», da 2 a 4 anni e «stadio intuitivo», da 4 a 7 anni). Mentre nel primo periodo l’intelligenza ha carattere sensoriale e motorio, ossia si manifesta con azioni ed è legata al dato percettivo del momento, in questo periodo lo sviluppo intellettivo trae impulso dalla capacità del soggetto di svincolarsi dall’apparenza dei fenomeni. Fino ad ora l’azione era puramente concreta e momentanea; in questo periodo essa viene interiorizzata: il bambino ne conserva una traccia nella mente. Il bambino acquisisce la capacità di rappresentazione, cioè di riprodurre mentalmente un oggetto o un avvenimento con le medesime caratteristiche spazio-temporali con cui è stato percepito la prima volta. Tuttavia, eccetto 125 A . La psicopedagogia del Novecento C op yr ig ht © Es se li br i S. p. che per la conquista delle rappresentazioni, la descrizione che Piaget fa di questo stadio verte più sugli aspetti negativi del pensiero del bambino che su quelli positivi. Il pensiero preoperatorio è infatti: • uniforme, riesce a elaborare solo una rappresentazione mentale per volta; • rigido, non permette di immaginare trasformazioni e vedere le cose da punti di vista diversi; • prelogico, è un pensiero ingenuo e poco astratto nei ragionamenti. Il pensiero del bambino in questo stadio non ha perciò raggiunto ancora il livello delle operazioni mentali, che implicano la reversibilità, ossia la capacità di tornare al punto di partenza: ad esempio se su uno dei piatti di una bilancia si pone un peso, l’equilibrio tra i due piatti si può ricomporre o togliendo il peso (inversione) o mettendo un peso uguale sull’altro piatto (reciprocità). Reversibilità significa «flessibilità», e quindi nello stadio preoperativo il bambino mostra un’intelligenza rigida, incapace di tenere conto del punto di vista altrui (egocentrismo), di separare le cause dagli effetti (finalismo), di distinguere l’animato dall’inanimato (animismo). 3) Stadio delle operazioni concrete (da 7 a 12 anni). Questo periodo è segnato dalla comparsa delle operazioni, cioè dalla capacità di immaginare trasformazioni della realtà e perciò di compiere manipolazioni mentali delle cose in base a determinate regole. Comprende i meccanismi dell’addizione, della sottrazione, della moltiplicazione, della divisione, dell’ordinamento in serie, della reversibilità. In questo stadio il bambino acquisisce il concetto di conservazione, del numero (disponendo diversamente un insieme di oggetti la loro quantità non cambia), della quantità di liquido (che resta uguale anche travasandola in un recipiente stretto), della massa (la quantità di una pallina di plastilina schiacciata resta uguale), del volume. Matura anche la logica delle classificazione e in particolare l’acquisizione del principio d’inclusione, secondo cui esistono categorie più piccole comprese in altre più ampie. Il pensiero in questo stadio non è coerentemente strutturato: un bambino può avere acquisito la conoscenza in certi ambiti e non in altri (ad esempio, può essere in grado di pensare alla conservazione della massa, ma non ha ancora applicato lo stesso principio al volume). Piaget definisce que- 126 A . Capitolo Dodicesimo Es se li br i S. p. sto sfasamento cronologico nell’acquisizione delle capacità décalage orizzontale («spostamento orizzontale»). 4) Stadio delle operazioni formali (da 12 a 15 anni). In questa fase il pensiero del preadolescente è in grado finalmente di staccarsi dal dato concreto per operare su ricordi, immagini mentali, idee e concetti astratti. Egli effettua dei confronti fra concetti, ragiona per ipotesi e ipotizza nuove situazioni per comprendere meglio gli eventi reali. Il ragionamento si fa progressivamente complesso e il pensiero diventa formale. Il ragazzo avverte ora il gusto della discussione animata su problemi astratti ed esercita le proprie capacità logiche e critiche, dimostrando un notevole grado di concentrazione su problemi astratti. Il ragionamento ora si avvale del procedimento deduttivo, che consiste nel partire da una relazione già nota fra due proposizioni per individuare la verità o falsità della prima di esse e affermare con certezza la verità o falsità della seconda. Il pensiero del preadolescente acquista sempre maggior rigore, per cui egli è in grado di ripetere alcune dimostrazioni scientifiche ed esperimenti, partendo dalle medesime premesse. In tal modo egli potrà confermarne o smentirne la validità. Il pensiero operatorio formale non considera più la realtà come fonte di conoscenza, ma come una delle manifestazioni del possibile. C op yr ig ht © D) Gli effetti pedagogici La ricaduta delle teorie di Piaget sulle scienze dell’educazione è stata di notevole rilievo (nonostante Piaget abbia sempre dichiarato di non essere un «esperto» in questioni pedagogiche). Tutta la sua complessa ricostruzione dello sviluppo cognitivo del bambino spinge infatti in direzione di un progressivo passaggio della pedagogia ad una fase scientifica con precisi punti di riferimento nella psicologia sperimentale. Nella prospettiva piagetiana, l’educatore dovrebbe utilizzare, in altri termini, l’enorme bagaglio conoscitivo offerto dalle ricerche sperimentali ideando le tecniche da sperimentare e adattare personalmente. Il punto più problematico della concezione di Piaget rispetto alle applicazioni educative è la tesi (secondo lo studioso abbondantemente dimostrata a livello sperimentale, ma su cui ancora oggi non c’è accordo tra gli studiosi) secondo cui i tempi e la successione delle fasi di sviluppo psicologico siano sostanzialmente immodificabili, togliendo in tal modo rilevanza ed efficacia all’intervento dell’adulto che non può né cambiare né accelerare questi aspetti. La dimensione educati- 127 A . La psicopedagogia del Novecento i S. p. va potrebbe dunque da questo punto di vista soltanto creare le condizioni più adatte per lo sviluppo cognitivo ma mai orientarlo in maniera determinante. Se il «motore» dell’intelligenza, come sostiene Piaget, è la sua azione, l’educatore dovrà definire le condizioni ambientali più idonee all’esercizio di questa azione, adeguando le sue richieste al livello di sviluppo cognitivo dell’allievo e elaborando situazioni affinché tale adeguamento adattivo possa prodursi liberamente ed efficacemente. br 2. LE IPOTESI DI VYGOTSKIJ E LO SCONTRO CON PIAGET C op yr ig ht © Es se li Lev Semyonovich Vygotskij (Gomel 1896 – Mosca 1934) è uno dei più importanti psicologi sovietici della prima metà del Novecento. Studiò all’università di Mosca occupandosi di psicologia dello sviluppo e di psicopatologia. Il lavoro sistematico di Vygotskij in psicologia cominciò nel 1924 quando lo psicologo russo Alexander Lurija, colpito dalla portata di una sua conferenza, lo inserì presso l’Istituto di psicologia di Mosca. La sua opera principale Pensiero e linguaggio (postuma 1934), fu messa al bando nel 1935 dallo stalinismo probabilmente perché divergeva dall’impostazione pavloviana, e potè circolare liberamente solo a partire dal 1962 influenzando enormemente sia la psicologia sovietica che quella occidentale. Il contributo principale di Vygotskij riguarda lo studio dei processi cognitivi e l’origine del linguaggio. Il rapporto tra pensiero e linguaggio è descritto in maniera quasi opposta rispetto a Piaget. Secondo Piaget nelle prime fasi dello sviluppo infantile il pensiero è «autistico», ossia non comunicabile e non rispondente alla realtà. Nelle fasi successive il pensiero diventa «egocentrico», per cui il bambino non concepisce punti di vista diversi dal proprio e anche il linguaggio è autoreferenziale e non aperto alla comunicazione interpersonale. Il linguaggio egocentrico scompare progressivamente man mano che il pensiero diventa più completo e si razionalizza. Per Vygotskij il rapporto tra pensiero e linguaggio è esattamente inverso: il bambino è fin dalle prime fasi di sviluppo immerso in relazioni interpersonali. Il primo linguaggio è dunque soprattutto sociale e riesce ad esprimere emozioni ed affetti. La funzione interpsichica del linguaggio precede dunque quella intrapsichica. Solo in seguito, con il processo di interiorizzazione, il linguaggio diventa uno strumento del pensiero contribuendo alla strutturazione dei processi mentali. Quando il processo di interiorizzazione è completato, il linguaggio diventa interiore: è una forma di pensiero che si struttura utilizzando le regole della lingua, le parole e i loro significati. 128 A . Capitolo Dodicesimo se li br i S. p. Vygotskij nell’analisi dello sviluppo linguistico e cognitivo del bambino individua la cosiddetta «zona di sviluppo prossimale» che consiste nella differenza tra il livello di sviluppo effettivo del bambino e il livello di sviluppo potenziale. Secondo Vygotskij, come abbiamo appena visto, i sistemi mentali di rappresentazione non derivano, come per Piaget, nel rapporto dell’individuo con il mondo, ma vengono generati dal contesto socio-culturale. Lo sviluppo mentale non è un fatto individuale, ma è un processo di interiorizzazione di forme culturali. Vygotskij sostiene infatti che la prima attività intellettiva è sostanzialmente pratica e concreta, non isolata dal contesto sociale, ma sempre interna all’interazione bambino/ambiente. Le prime forme di intelligenza sono di tipo preverbale e si manifestano mediante l’attività pratica, in cui il bambino inventa e usa strumenti per adattarsi all’ambiente. Il linguaggio egocentrico ed interiore non è la prima fase dello sviluppo linguistico, ma è uno strumento del pensiero a cui possiamo ricorrere in ogni età della vita, non soltanto nell’infanzia, ogni qualvolta dobbiamo fronteggiare situazioni problematiche. A due anni il linguaggio acquista significato. La parola rappresenta una mediazione fra linguaggio e pensiero; essa serve sia a comunicare socialmente (funzione sociale), sia a pensare e ragionare (funzione individuale). L’apprendimento efficace richiede il passaggio dalla soluzione singola di un problema alla collaborazione con gli altri (coetanei più capaci oppure adulti), per affrontare e risolvere i problemi. C op yr ig ht © Es Sintetizziamo i punti di divergenza tra le posizioni di Piaget e quelle di Vygotskij: • nella prospettiva piagetiana, la differenza tra l’uomo e gli altri esseri viventi consiste in una maggiore capacità adattiva rispetto all’ambiente garantita dalla capacità di elaborare un ragionamento concettuale e astratto (un livello che viene raggiunto compiutamente solo nel passaggio dal terzo al quarto stadio dello sviluppo cognitivo). L’adattamento all’ambiente costituisce un processo di conoscenza controllato da organizzazioni mentali (schemi) che gli individui utilizzano per comprendere il mondo circostante e per organizzare le loro azioni. Le ipotesi di Piaget hanno determinato alcune conseguenze molto importanti per le scienze educative, che possiamo così riassumere: • i bambini non sono semplici soggetti passivi da «riempire» di conoscenze, ma attivi elaboratori di conoscenze; • la conoscenza è in costante costruzione e riformulazione: si tratta di un cammino creativo che dura tutta la vita; • lo sviluppo cognitivo è soltanto facilitato, non prodotto, dalle attività svolte o dalle situazioni che impegnano chi apprende e che richiedono il suo adattamento all’ambiente; • i materiali di apprendimento e le attività proposte agli studenti dovrebbero sollecitare operazioni mentali ad un livello appropriato al 129 A . La psicopedagogia del Novecento ht © Es se li br i S. p. loro grado di sviluppo cognitivo, evitando di «forzare» le tappe e di proporre compiti che oltrepassano le capacità cognitive disponibili; • a livello pedagogico, il ruolo dell’insegnante, dal punto di vista di Piaget, consiste nel garantire un sostegno alla costruzione del pensiero astratto. Proprio però in relazione al fatto che Piaget si dichiarò sempre contrario alla forzatura delle tappe del percorso cognitivo, il suo modello evolutivo privilegia una visione in cui la costruzione di conoscenze procede per sequenze mentali che hanno una profonda base biologica (neurologica per la precisione). Secondo Vygotskij invece: • le interazioni sociali sono in grado di generare un cambiamento continuo del pensiero degli individui e dei loro comportamenti e che, pertanto, possono non solo variare enormemente in relazione al contesto culturale entro cui l’individuo vive, ma possono anche essere stimolate, accresciute, potenziate ben al di là di quanto uno sviluppo puramente naturale possa consentire; • lo sviluppo cognitivo dipende dalle interazioni tra le persone e dagli strumenti che la cultura produce per dare forma alla concezione del mondo delle persone stesse; • più in generale, gli individui costruiscono socialmente e interattivamente le loro conoscenze: lo sviluppo cognitivo non può essere mai scisso dal contesto sociale; • l’apprendimento può portare allo sviluppo cognitivo indipendentemente dal livello di partenza; • il linguaggio socializzato costituisce un elemento centrale nello sviluppo cognitivo. C op yr ig Vygotskij ritiene cioè che l’intervento pedagogico generi un processo di apprendimento che porta allo sviluppo di ciò che egli definì area di sviluppo prossimale, cioè la differenza tra ciò che l’individuo può fare con le sue forze e ciò che può raggiungere con l’aiuto di una persona esperta: secondo Vygotskij l’impatto dell’ambiente sociale, della cultura, dell’educazione, del linguaggio sul potenziale di sviluppo della mente del bambino è assolutamente fondamentale. 130 A . Capitolo Dodicesimo p. 3. LE TEORIE DELL’APPRENDIMENTO ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Es se li br i S. A) Apprendimento e processo educativo: il comportamentismo in pedagogia Nella seconda metà del ’900, si consolida un vasto intreccio tra le teorie generali dello sviluppo cognitivo del bambino, che abbiamo visto in Piaget e Vygotskij, e nuovi studi specifici sui meccanismi di apprendimento dei bambini: si consolida dunque, a vari livelli, un approccio nuovo: la psicopedagogia, cioè la sistematica applicazione delle scoperte psicologiche all’universo dei problemi educativi. Questa applicazione deve molto al clima di ricerca sviluppatosi nei primi anni del Novecento soprattutto grazie ai rappresentanti del comportamentismo. Numerose pratiche didattiche sono ancora attualmente influenzate da questo complesso di ipotesi, di pratiche, di suggerimenti. Come noto, l’approccio comportamentista si concentra attorno allo studio di quelle azioni umane e animali direttamente osservabili e su cui applicare metodologie sperimentali. L’idea centrale dei comportamentisti è che il soggetto, agendo a seguito di stimoli provenienti dall’ambiente e nell’interazione con esso, produca una modifica del suo comportamento o delle sue conoscenze di base grazie ad una sequenza di associazioni tra stimolo e risposta. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Qual è l’ipotesi di partenza del comportamentismo? ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ yr ○ ig ht © L’idea di fondo è che gli organismi viventi siano in grado di trasferire la propria capacità di risposta da uno stimolo dell’ambiente ad un altro, mostrandosi capaci di generalizzazione (risposta a stimoli simili o uguali), discriminazione (risposta a un certo tipo di stimolazioni diverse da quelle già conosciute) e inibizione (interruzione delle risposte quando ciò si dimostri necessario). Il ruolo del soggetto che apprende, in questo contesto, è sostanzialmente passivo, cioè guidato da meccanismi non controllabili dalla volontà o dalla motivazione. Successivamente, Skinner mise in evidenza il ruolo dei rinforzi positivi, cioè dei premi che il soggetto può ricevere dall’ambiente, come elementi importanti per migliorare la selezione delle risposte e la successiva ripetizione dei comportamenti più efficaci. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ C op In sintesi, l’apprendimento secondo la prospettiva comportamentista: • è generato da associazioni stimolo/risposta; • è un processo di conoscenza, derivante dall’impatto con l’ambiente, in grado di modificare in modo durevole i comportamenti; • è condizionato dall’insegnamento inteso come attività organizzata di contenuti e di stimoli da trasmettere e di obiettivi misurabili da raggiungere. 131 A . La psicopedagogia del Novecento S. p. I riflessi di questa concezione sulle idee che le persone hanno del processo di insegnamento e apprendimento sono molto profondi: si impara quello che ci viene comunicato e si dimostra di avere imparato rispondendo agli stimoli in maniera ampiamente prevedibile. Anche la pedagogia e la didattica sono dunque molto influenzate dal comportamentismo e tanti insegnanti impostano spontaneamente la loro relazione educativa cercando di stimolare associazioni tra idee e nozioni. C op yr ig ht © Es se li br i B) Riprese attuali del comportamentismo: il Mastery Learning Nonostante gli studi successivi abbiano notevolmente ampliato il complesso delle conoscenze psicologiche utili alle pratiche educative, una parte della psicopedagogia attuale, soprattutto di tipo cognitivista, ha nuovamente proposto una descrizione dei processi di apprendimento simile a quella diffusa della tradizione comportamentista. Una delle teorie più recenti, ad esempio, è il Mastery Learning (che possiamo tradurre con «apprendimento per padronanza»). Si tratta di una metodologia didattica, teorizzata da Benjamin S. Bloom (1979), fondata sul presupposto che tutti gli studenti possono raggiungere una adeguata comprensione di una materia qualora venga garantito loro un tempo necessario. L’insegnante deve procedere all’analisi e alla scomposizione del compito o del contenuto da comunicare alla classe, o al gruppo degli studenti «più lenti». La comunicazione migliore è costituita da un flusso di informazioni ordinato in piccoli «frammenti» di conoscenza. Di fronte a questo tipo di azione formativa, lo studente acquisisce, elabora e infine restituisce a modo suo gli elementi appresi. La pratica ripetuta dei comportamenti richiesti per la restituzione di quanto appreso (cioè l’esercizio), lo metterà in grado di trasferire gli apprendimenti da un contesto ad un altro. L’esercizio individuale può prevedere la ripetizione di prestazioni scritte o orali e costituisce una pratica indispensabile per il successo scolastico ma anche, per estensione, per quello extrascolastico. In maniera simile, gli studi e le proposte di R.M. Gagné (1965) hanno influenzato la pratica didattica attraverso un modello di lezione formalmente innovativo, ma ancora basato sulla trasmissione di conoscenze (adeguatamente organizzate e semplificate) da un soggetto esperto (l’insegnante) ad uno passivo (l’allievo). Una novità di questi approcci, rispetto al comportamentismo, è che le dimensioni affettive ed emozionali dell’apprendimento hanno pari valore della dimensione cognitiva: l’insegnante, prima di introdurre nuove conoscenze, deve orientare e motivare psicologicamente 132 A . Capitolo Dodicesimo Es se li br i S. p. l’allievo, suscitando la sua «naturale» curiosità, nonché controllare i prerequisiti (le conoscenze di base) necessari per affrontare il successivo stadio di apprendimento. L’insegnamento diventa così una specie di «modellaggio» (modeling) continuo. Da questa prospettiva, le condizioni che favoriscono l’apprendimento sono: • il controllo continuo da parte dell’insegnante sugli studenti; • l’aumento della autonomia dello studente nella gestione dei comportamenti finalizzati al successo, attraverso l’imitazione del modello proposto dall’insegnante; • i cambiamenti prodotti dai risultati negativi delle verifiche; • la gratificazione dei premi ricevuti per le prestazioni positive. Molto più recentemente questi suggerimenti sono divenuti la base per la cosiddetta formazione a distanza, soprattutto quella veicolata da Internet, cioè il cosiddetto e-learning. In questo tipo di approccio formativo, assai innovativo rispetto alla tradizione e ancora non molto sviluppato proprio perché legato inscindibilmente alle nuove tecnologie (che in non tutti i paesi sono diffuse in maniera uniforme) i materiali didattici sono quasi sempre costruiti in sequenze ordinate e prefigurano percorsi specifici di lavoro individuale. C op yr ig ht © C) Lo sviluppo della scienza cognitiva A partire dagli anni Quaranta, negli Stati Uniti, nuove scoperte sui meccanismi di funzionamento del cervello e soprattutto la formulazione della teoria matematica dell’informazione favorirono una ripresa degli studi sui processi cognitivi superiori (l’attenzione, la percezione, l’elaborazione, la soluzione di problemi, la memoria, i meccanismi del linguaggio e così via). Penetrò largamente la convinzione che saper programmare un calcolatore (cioè essere in grado di fornirgli delle «istruzioni») potesse aiutare a capire anche come insegnare in modo più efficace alle persone. Si ipotizzò ad esempio che tutti i sistemi che elaborano informazioni, compresa la mente umana, siano retti da «regole» o da procedure precise in grado di stabilire come trattare gli input, cioè gli impulsi provenienti dall’esterno. Un insieme molto articolato di studi e ricerche, che ha coinvolto studiosi provenienti da differenti campi e discipline, ha così influenzato in modo significativo la pedagogia e la didattica. Questi studi sono indicati come appartenenti ad un unico grande ambito, il cognitivismo, al cui interno possiamo individuare 133 A . La psicopedagogia del Novecento C op yr ig ht © Es se li br i S. p. molte posizioni eterogenee. Sintetizziamo i riflessi che questi studi hanno avuto nella definizione delle pratiche educative: • l’apprendimento è visto anzitutto come un processo di elaborazione delle informazioni, in analogia al computer; • l’insegnante fa speso uso di sequenze di istruzioni, per far progredire lo studente a piccoli passi verso l’acquisizione di strategie di apprendimento e di soluzione dei problemi (problem solving) sempre più complicati; • lo studente può diventare «esperto» attraverso una attività di riflessione su di sé: essere consapevoli delle proprie competenze e del proprio modo di acquisirle è molto importante in prospettiva cognitivista. L’insegnante può facilitare questo percorso di conoscenza di sé attraverso un continuo «dialogo educativo»; • la mente umana viene ritenuta capace di elaborare un numero quasi infinito di informazioni per stadi sequenziali, dopo che le informazioni in ingresso (input) sono state semplificate e organizzate; • le informazioni, per essere elaborate, devono essere codificate, cioè rese più semplici e gestibili da ciascun studente. Per questo l’insegnante ha il compito di scomporre le informazioni e di facilitarne la codificazione. La spiegazione fornita dall’esperto è lo strumento di semplificazione dei contenuti. Le rappresentazioni mentali dei dati e delle informazioni possono essere agevolate attraverso la presentazione e la costruzione di schemi, copioni (cosiddetti script), cornici (frames), immagini, mappe concettuali, presentazioni multimediali, e così via; • l’insegnamento non è puramente nozionistico, cioè non somma una serie di dati e di informazioni slegate tra loro; piuttosto mira ad organizzare strategie, cioè operazioni mentali utili a convogliare le informazioni generali in unità più piccole e più facilmente utilizzabili. Tenuto conto di tutti questi elementi, il compito dell’insegnante non è tanto verificare cosa ha capito lo studente, ma «se» ha capito, cioè se le conoscenze sono diventate significative, elaborate e memorizzate. Si insegnano infatti principi e regole di azione che devono essere appresi, ricordati e successivamente applicati: essere abili (cioè «bravi» a scuola) non significa saper fare qualcosa, ma essere in grado di acquisire nuove conoscenze.