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CAPITOLO DODICESIMO
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Sommario: 1. Le diverse concezioni della mente infantile. - 2. Le ipotesi di Vygotskij
e lo scontro con Piaget. - 3. Le teorie dell’apprendimento. - 4. Teoria dell’istruzione e
cultura dell’educazione: Bruner. - 5. Le «intelligenze» di Gardner. - 6. Neuroscienze
e apprendimento. - 7. La psicoanalisi infantile.
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1. LE DIVERSE CONCEZIONI DELLA MENTE INFANTILE
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A) L’approccio di Piaget
Jean Piaget (Neuchâtel 1896 – Ginevra 1980), biologo, psicologo ed
epistemologo svizzero, è, assieme a Freud, unanimamente considerato lo
studioso che ha maggiormente contribuito a modificare un certo tipo di
immagine del fanciullo nel ’900. Studiò scienze naturali all’Università di
Neuchâtel, laureandosi nel 1918. Si dedicò in seguito, sotto la guida di E.
Claparède (1873-1940), agli studi di psicologia dell’infanzia, perfezionandosi a Ginevra e a Parigi. Nel 1922 Piaget divenne professore di psicologia
dell’età evolutiva dell’Istituto Jean Jacques Rousseau fondato a Ginevra da
Claparède e nel 1940 ne fu nominato direttore. Nel 1955 creò, sempre a
Ginevra, il Centro Internazionale d’Epistemologia Genetica. Opere principali: Il linguaggio e il pensiero del fanciullo (1923); Giudizio e ragionamento nel bambino (1924); La rappresentazione del mondo nel Fanciullo
(1926); La nascita dell’intelligenza (1936); La psicologia dell’intelligenza
(1947); Trattato di logica (1949); Introduzione all’epistemologia genetica
(1951); Biologia e conoscenza (1967); Lo strutturalismo (1968). I suoi studi sull’età evolutiva si concentrano soprattutto sul problema dello sviluppo
delle facoltà cognitive.
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B) I capisaldi della teoria
Ogni attività mentale, secondo Piaget, presuppone una maturazione
neuro-biologica che ne orienta lo sviluppo: questo non è dunque esclusivamente riducibile all’influenza di fattori esterni sociali e culturali sul bambino (come invece sostenevano, più o meno contemporaneamente a Piaget, i
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rappresentanti del Comportamentismo). Esso deve, in altri termini, tener
conto anche e soprattutto dell’esistenza di un livello genetico alla base delle
formazioni cognitive. L’ipotesi fondamentale di Piaget è infatti che ci sia un
«parallelismo tra i progressi compiuti, l’organizzazione razionale e logica
della conoscenza, e i corrispettivi processi psicologici formativi». Il bambino, ad esempio, cresce e potenzia le proprie capacità mentali rispettando
una sequenza determinata di variazioni e di mutamenti connessi a certi stadi
della sua vita. Ogni stadio che nello sviluppo cognitivo si differenzia da un
altro presuppone necessariamente lo stadio precedente. In senso stretto, nulla
è innato, poiché ogni fase riflette e ha bisogno delle acquisizioni pregresse.
Lo sviluppo nasce così da un’interazione molto complessa e stratificata
tra individuo e ambiente (che, ripetiamo, non è esclusivamente un ambiente socio-culturale): la mente stessa è come un organismo vivente che in
rapporto con l’esterno si accresce e si sviluppa. In questo senso, secondo
Piaget i fattori generali dello sviluppo sono:
• la maturazione del sistema nervoso;
• l’interazione con l’ambiente biologico e, più limitatamente, con quello
sociale, storico, culturale;
• l’integrazione adattiva attraverso cui il bambino «autoregola» progressivamente il proprio sviluppo.
Il pensiero del bambino dunque e si accresce da sé grazie ad alcuni meccanismi fondamentali, che Piaget definisce «invarianti funzionali», cioè
dei principi costantemente attivi e operanti a qualsiasi età; questi sono l’organizzazione, l’adattamento, l’equilibrazione. All’interno della mente vige
il principio di organizzazione, che è «l’accordo del pensiero con se stesso»:
il pensiero infatti tende a strutturarsi come un insieme coerente di concetti,
schemi di comportamento e strategie di risoluzione dei problemi. All’esterno la mente segue il principio di adattamento, che è «l’accordo del pensiero
con le cose». Il processo di adattamento del pensiero alla realtà avviene
attraverso l’assimilazione, che consiste nell’integrare i dati nuovi alle conoscenze già possedute, e l’accomodamento, in cui invece vengono modificati gli schemi preesistenti in funzione delle nuove esperienze. L’ultima
invariante funzionale è il principio di equilibrazione, secondo cui l’adattamento continuo tra assimilazione e accomodamento genera sempre nuovi
equilibri. Le fasi di questo equilibrio sono identificabili in stadi, ognuno dei
quali ha una struttura che permette un’interazione diversa fra individuo e
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ambiente. Ogni stadio deriva dal precedente che incorpora e trasforma, quando si acquisisce un nuovo stadio il pensiero del precedente scompare.
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C) La struttura stadiale
La teoria piagetiana distingue quattro stadi principali, che vanno dalla
nascita all’adolescenza.
1) Stadio sensomotorio (da 0 a 2 anni). In questa fase il bambino non riesce a distinguere tra se stesso e l’ambiente, né tra gli oggetti e le azioni
che esercita su di essi. Conosce il mondo attraverso l’intelligenza sensomotoria, che gli permette di intervenire sulle cose, percepire gli effetti
dell’azione e tornare ad agire. Non appena il bambino verifica il successo di un’azione, tende a ripeterla. Il risultato ottenuto per caso la prima
volta diventa uno schema d’azione, che viene riprodotto attivamente in
seguito. Piaget chiama questo genere di comportamenti «reazioni circolari». Dalla nascita ai due anni la conoscenza sensomotoria progredisce, attraverso un graduale affinamento e controllo delle reazioni circolari: comincia a differenziare sé dall’ambiente e impara a rispondere ai
feed-back esterni (ad esempio, emette suoni e li ascolta), migliora le sue
capacità di coordinare le azioni che a un certo punto da casuali diventano intenzionali. Soltanto verso la fine di questo periodo, ad esempio, il
bambino acquisisce completamente il concetto di «permanenza» dell’oggetto: un oggetto continua ad esistere anche quando non è percettivamente presente. Si tratta di una conquista che Piaget considera il fondamento della capacità di rappresentazione mentale: il bambino non
apprende più per tentativi ed errori, ma è finalmente in grado di rappresentarsi, di «immaginare» mentalmente le operazioni da compiere.
2) Stadio preoperatorio (da 2 a 7 anni, a sua volta distinto in «stadio prelogico», da 2 a 4 anni e «stadio intuitivo», da 4 a 7 anni). Mentre nel
primo periodo l’intelligenza ha carattere sensoriale e motorio, ossia si
manifesta con azioni ed è legata al dato percettivo del momento, in questo periodo lo sviluppo intellettivo trae impulso dalla capacità del soggetto di svincolarsi dall’apparenza dei fenomeni. Fino ad ora l’azione
era puramente concreta e momentanea; in questo periodo essa viene interiorizzata: il bambino ne conserva una traccia nella mente. Il bambino
acquisisce la capacità di rappresentazione, cioè di riprodurre mentalmente un oggetto o un avvenimento con le medesime caratteristiche spazio-temporali con cui è stato percepito la prima volta. Tuttavia, eccetto
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che per la conquista delle rappresentazioni, la descrizione che Piaget fa
di questo stadio verte più sugli aspetti negativi del pensiero del bambino
che su quelli positivi. Il pensiero preoperatorio è infatti:
• uniforme, riesce a elaborare solo una rappresentazione mentale per
volta;
• rigido, non permette di immaginare trasformazioni e vedere le cose
da punti di vista diversi;
• prelogico, è un pensiero ingenuo e poco astratto nei ragionamenti.
Il pensiero del bambino in questo stadio non ha perciò raggiunto ancora
il livello delle operazioni mentali, che implicano la reversibilità, ossia la
capacità di tornare al punto di partenza: ad esempio se su uno dei piatti
di una bilancia si pone un peso, l’equilibrio tra i due piatti si può ricomporre o togliendo il peso (inversione) o mettendo un peso uguale sull’altro piatto (reciprocità). Reversibilità significa «flessibilità», e quindi nello
stadio preoperativo il bambino mostra un’intelligenza rigida, incapace
di tenere conto del punto di vista altrui (egocentrismo), di separare le
cause dagli effetti (finalismo), di distinguere l’animato dall’inanimato
(animismo).
3) Stadio delle operazioni concrete (da 7 a 12 anni). Questo periodo è
segnato dalla comparsa delle operazioni, cioè dalla capacità di immaginare trasformazioni della realtà e perciò di compiere manipolazioni
mentali delle cose in base a determinate regole. Comprende i meccanismi dell’addizione, della sottrazione, della moltiplicazione, della divisione, dell’ordinamento in serie, della reversibilità. In questo stadio il
bambino acquisisce il concetto di conservazione, del numero (disponendo diversamente un insieme di oggetti la loro quantità non cambia),
della quantità di liquido (che resta uguale anche travasandola in un recipiente stretto), della massa (la quantità di una pallina di plastilina schiacciata resta uguale), del volume. Matura anche la logica delle classificazione e in particolare l’acquisizione del principio d’inclusione, secondo
cui esistono categorie più piccole comprese in altre più ampie. Il pensiero in questo stadio non è coerentemente strutturato: un bambino può
avere acquisito la conoscenza in certi ambiti e non in altri (ad esempio,
può essere in grado di pensare alla conservazione della massa, ma non
ha ancora applicato lo stesso principio al volume). Piaget definisce que-
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sto sfasamento cronologico nell’acquisizione delle capacità décalage
orizzontale («spostamento orizzontale»).
4) Stadio delle operazioni formali (da 12 a 15 anni). In questa fase il pensiero del preadolescente è in grado finalmente di staccarsi dal dato concreto per operare su ricordi, immagini mentali, idee e concetti astratti.
Egli effettua dei confronti fra concetti, ragiona per ipotesi e ipotizza
nuove situazioni per comprendere meglio gli eventi reali. Il ragionamento si fa progressivamente complesso e il pensiero diventa formale. Il
ragazzo avverte ora il gusto della discussione animata su problemi astratti
ed esercita le proprie capacità logiche e critiche, dimostrando un notevole grado di concentrazione su problemi astratti. Il ragionamento ora si
avvale del procedimento deduttivo, che consiste nel partire da una relazione già nota fra due proposizioni per individuare la verità o falsità
della prima di esse e affermare con certezza la verità o falsità della seconda. Il pensiero del preadolescente acquista sempre maggior rigore,
per cui egli è in grado di ripetere alcune dimostrazioni scientifiche ed
esperimenti, partendo dalle medesime premesse. In tal modo egli potrà
confermarne o smentirne la validità. Il pensiero operatorio formale non
considera più la realtà come fonte di conoscenza, ma come una delle
manifestazioni del possibile.
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D) Gli effetti pedagogici
La ricaduta delle teorie di Piaget sulle scienze dell’educazione è stata di
notevole rilievo (nonostante Piaget abbia sempre dichiarato di non essere
un «esperto» in questioni pedagogiche). Tutta la sua complessa ricostruzione dello sviluppo cognitivo del bambino spinge infatti in direzione di un
progressivo passaggio della pedagogia ad una fase scientifica con precisi
punti di riferimento nella psicologia sperimentale. Nella prospettiva piagetiana, l’educatore dovrebbe utilizzare, in altri termini, l’enorme bagaglio
conoscitivo offerto dalle ricerche sperimentali ideando le tecniche da sperimentare e adattare personalmente. Il punto più problematico della concezione di Piaget rispetto alle applicazioni educative è la tesi (secondo lo studioso abbondantemente dimostrata a livello sperimentale, ma su cui ancora
oggi non c’è accordo tra gli studiosi) secondo cui i tempi e la successione
delle fasi di sviluppo psicologico siano sostanzialmente immodificabili,
togliendo in tal modo rilevanza ed efficacia all’intervento dell’adulto che
non può né cambiare né accelerare questi aspetti. La dimensione educati-
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va potrebbe dunque da questo punto di vista soltanto creare le condizioni
più adatte per lo sviluppo cognitivo ma mai orientarlo in maniera determinante. Se il «motore» dell’intelligenza, come sostiene Piaget, è la sua azione, l’educatore dovrà definire le condizioni ambientali più idonee all’esercizio di questa azione, adeguando le sue richieste al livello di sviluppo cognitivo dell’allievo e elaborando situazioni affinché tale adeguamento adattivo possa prodursi liberamente ed efficacemente.
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2. LE IPOTESI DI VYGOTSKIJ E LO SCONTRO CON PIAGET
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Lev Semyonovich Vygotskij (Gomel 1896 – Mosca 1934) è uno dei
più importanti psicologi sovietici della prima metà del Novecento. Studiò
all’università di Mosca occupandosi di psicologia dello sviluppo e di psicopatologia. Il lavoro sistematico di Vygotskij in psicologia cominciò nel 1924
quando lo psicologo russo Alexander Lurija, colpito dalla portata di una sua
conferenza, lo inserì presso l’Istituto di psicologia di Mosca. La sua opera
principale Pensiero e linguaggio (postuma 1934), fu messa al bando nel
1935 dallo stalinismo probabilmente perché divergeva dall’impostazione
pavloviana, e potè circolare liberamente solo a partire dal 1962 influenzando enormemente sia la psicologia sovietica che quella occidentale.
Il contributo principale di Vygotskij riguarda lo studio dei processi cognitivi e l’origine del linguaggio. Il rapporto tra pensiero e linguaggio è
descritto in maniera quasi opposta rispetto a Piaget. Secondo Piaget nelle
prime fasi dello sviluppo infantile il pensiero è «autistico», ossia non comunicabile e non rispondente alla realtà. Nelle fasi successive il pensiero
diventa «egocentrico», per cui il bambino non concepisce punti di vista
diversi dal proprio e anche il linguaggio è autoreferenziale e non aperto alla
comunicazione interpersonale. Il linguaggio egocentrico scompare progressivamente man mano che il pensiero diventa più completo e si razionalizza.
Per Vygotskij il rapporto tra pensiero e linguaggio è esattamente inverso: il
bambino è fin dalle prime fasi di sviluppo immerso in relazioni interpersonali. Il primo linguaggio è dunque soprattutto sociale e riesce ad esprimere emozioni ed affetti. La funzione interpsichica del linguaggio precede
dunque quella intrapsichica. Solo in seguito, con il processo di interiorizzazione, il linguaggio diventa uno strumento del pensiero contribuendo alla
strutturazione dei processi mentali. Quando il processo di interiorizzazione
è completato, il linguaggio diventa interiore: è una forma di pensiero che si
struttura utilizzando le regole della lingua, le parole e i loro significati.
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Vygotskij nell’analisi dello sviluppo linguistico e cognitivo del bambino individua la cosiddetta «zona di sviluppo prossimale» che consiste nella differenza tra il livello di sviluppo
effettivo del bambino e il livello di sviluppo potenziale. Secondo Vygotskij, come abbiamo
appena visto, i sistemi mentali di rappresentazione non derivano, come per Piaget, nel rapporto
dell’individuo con il mondo, ma vengono generati dal contesto socio-culturale. Lo sviluppo
mentale non è un fatto individuale, ma è un processo di interiorizzazione di forme culturali.
Vygotskij sostiene infatti che la prima attività intellettiva è sostanzialmente pratica e concreta, non isolata dal contesto sociale, ma sempre interna all’interazione bambino/ambiente. Le
prime forme di intelligenza sono di tipo preverbale e si manifestano mediante l’attività pratica, in cui il bambino inventa e usa strumenti per adattarsi all’ambiente. Il linguaggio egocentrico ed interiore non è la prima fase dello sviluppo linguistico, ma è uno strumento del pensiero
a cui possiamo ricorrere in ogni età della vita, non soltanto nell’infanzia, ogni qualvolta dobbiamo fronteggiare situazioni problematiche. A due anni il linguaggio acquista significato. La
parola rappresenta una mediazione fra linguaggio e pensiero; essa serve sia a comunicare socialmente (funzione sociale), sia a pensare e ragionare (funzione individuale). L’apprendimento efficace richiede il passaggio dalla soluzione singola di un problema alla collaborazione
con gli altri (coetanei più capaci oppure adulti), per affrontare e risolvere i problemi.
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Sintetizziamo i punti di divergenza tra le posizioni di Piaget e quelle di
Vygotskij:
• nella prospettiva piagetiana, la differenza tra l’uomo e gli altri esseri
viventi consiste in una maggiore capacità adattiva rispetto all’ambiente garantita dalla capacità di elaborare un ragionamento concettuale e
astratto (un livello che viene raggiunto compiutamente solo nel passaggio dal terzo al quarto stadio dello sviluppo cognitivo). L’adattamento
all’ambiente costituisce un processo di conoscenza controllato da organizzazioni mentali (schemi) che gli individui utilizzano per comprendere il mondo circostante e per organizzare le loro azioni. Le ipotesi di
Piaget hanno determinato alcune conseguenze molto importanti per le
scienze educative, che possiamo così riassumere:
• i bambini non sono semplici soggetti passivi da «riempire» di conoscenze, ma attivi elaboratori di conoscenze;
• la conoscenza è in costante costruzione e riformulazione: si tratta
di un cammino creativo che dura tutta la vita;
• lo sviluppo cognitivo è soltanto facilitato, non prodotto, dalle attività
svolte o dalle situazioni che impegnano chi apprende e che richiedono il suo adattamento all’ambiente;
• i materiali di apprendimento e le attività proposte agli studenti dovrebbero sollecitare operazioni mentali ad un livello appropriato al
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loro grado di sviluppo cognitivo, evitando di «forzare» le tappe e di
proporre compiti che oltrepassano le capacità cognitive disponibili;
• a livello pedagogico, il ruolo dell’insegnante, dal punto di vista di
Piaget, consiste nel garantire un sostegno alla costruzione del pensiero astratto. Proprio però in relazione al fatto che Piaget si dichiarò
sempre contrario alla forzatura delle tappe del percorso cognitivo, il
suo modello evolutivo privilegia una visione in cui la costruzione di
conoscenze procede per sequenze mentali che hanno una profonda
base biologica (neurologica per la precisione).
Secondo Vygotskij invece:
• le interazioni sociali sono in grado di generare un cambiamento continuo del pensiero degli individui e dei loro comportamenti e che, pertanto, possono non solo variare enormemente in relazione al contesto culturale entro cui l’individuo vive, ma possono anche essere stimolate,
accresciute, potenziate ben al di là di quanto uno sviluppo puramente
naturale possa consentire;
• lo sviluppo cognitivo dipende dalle interazioni tra le persone e dagli
strumenti che la cultura produce per dare forma alla concezione del
mondo delle persone stesse;
• più in generale, gli individui costruiscono socialmente e interattivamente le loro conoscenze: lo sviluppo cognitivo non può essere mai
scisso dal contesto sociale;
• l’apprendimento può portare allo sviluppo cognitivo indipendentemente
dal livello di partenza;
• il linguaggio socializzato costituisce un elemento centrale nello sviluppo cognitivo.
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Vygotskij ritiene cioè che l’intervento pedagogico generi un processo di
apprendimento che porta allo sviluppo di ciò che egli definì area di sviluppo prossimale, cioè la differenza tra ciò che l’individuo può fare con le sue
forze e ciò che può raggiungere con l’aiuto di una persona esperta: secondo
Vygotskij l’impatto dell’ambiente sociale, della cultura, dell’educazione,
del linguaggio sul potenziale di sviluppo della mente del bambino è assolutamente fondamentale.
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3. LE TEORIE DELL’APPRENDIMENTO
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A) Apprendimento e processo educativo: il comportamentismo in pedagogia
Nella seconda metà del ’900, si consolida un vasto intreccio tra le teorie
generali dello sviluppo cognitivo del bambino, che abbiamo visto in Piaget
e Vygotskij, e nuovi studi specifici sui meccanismi di apprendimento dei
bambini: si consolida dunque, a vari livelli, un approccio nuovo: la psicopedagogia, cioè la sistematica applicazione delle scoperte psicologiche all’universo dei problemi educativi. Questa applicazione deve molto al clima
di ricerca sviluppatosi nei primi anni del Novecento soprattutto grazie ai
rappresentanti del comportamentismo. Numerose pratiche didattiche sono
ancora attualmente influenzate da questo complesso di ipotesi, di pratiche,
di suggerimenti. Come noto, l’approccio comportamentista si concentra attorno allo studio di quelle azioni umane e animali direttamente osservabili e
su cui applicare metodologie sperimentali. L’idea centrale dei comportamentisti è che il soggetto, agendo a seguito di stimoli provenienti dall’ambiente e nell’interazione con esso, produca una modifica del suo comportamento o delle sue conoscenze di base grazie ad una sequenza di associazioni tra stimolo e risposta.
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Qual è l’ipotesi di partenza del comportamentismo?
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L’idea di fondo è che gli organismi viventi siano in grado di trasferire la propria capacità di
risposta da uno stimolo dell’ambiente ad un altro, mostrandosi capaci di generalizzazione
(risposta a stimoli simili o uguali), discriminazione (risposta a un certo tipo di stimolazioni
diverse da quelle già conosciute) e inibizione (interruzione delle risposte quando ciò si dimostri necessario). Il ruolo del soggetto che apprende, in questo contesto, è sostanzialmente passivo, cioè guidato da meccanismi non controllabili dalla volontà o dalla motivazione. Successivamente, Skinner mise in evidenza il ruolo dei rinforzi positivi, cioè dei premi che il soggetto
può ricevere dall’ambiente, come elementi importanti per migliorare la selezione delle risposte
e la successiva ripetizione dei comportamenti più efficaci.
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In sintesi, l’apprendimento secondo la prospettiva comportamentista:
• è generato da associazioni stimolo/risposta;
• è un processo di conoscenza, derivante dall’impatto con l’ambiente, in
grado di modificare in modo durevole i comportamenti;
• è condizionato dall’insegnamento inteso come attività organizzata di
contenuti e di stimoli da trasmettere e di obiettivi misurabili da raggiungere.
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I riflessi di questa concezione sulle idee che le persone hanno del processo di insegnamento e apprendimento sono molto profondi: si impara quello
che ci viene comunicato e si dimostra di avere imparato rispondendo agli
stimoli in maniera ampiamente prevedibile. Anche la pedagogia e la didattica sono dunque molto influenzate dal comportamentismo e tanti insegnanti
impostano spontaneamente la loro relazione educativa cercando di stimolare associazioni tra idee e nozioni.
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B) Riprese attuali del comportamentismo: il Mastery Learning
Nonostante gli studi successivi abbiano notevolmente ampliato il complesso delle conoscenze psicologiche utili alle pratiche educative, una parte
della psicopedagogia attuale, soprattutto di tipo cognitivista, ha nuovamente proposto una descrizione dei processi di apprendimento simile a quella
diffusa della tradizione comportamentista. Una delle teorie più recenti, ad
esempio, è il Mastery Learning (che possiamo tradurre con «apprendimento per padronanza»). Si tratta di una metodologia didattica, teorizzata da
Benjamin S. Bloom (1979), fondata sul presupposto che tutti gli studenti
possono raggiungere una adeguata comprensione di una materia qualora
venga garantito loro un tempo necessario. L’insegnante deve procedere all’analisi e alla scomposizione del compito o del contenuto da comunicare
alla classe, o al gruppo degli studenti «più lenti». La comunicazione migliore è costituita da un flusso di informazioni ordinato in piccoli «frammenti»
di conoscenza. Di fronte a questo tipo di azione formativa, lo studente acquisisce, elabora e infine restituisce a modo suo gli elementi appresi. La
pratica ripetuta dei comportamenti richiesti per la restituzione di quanto
appreso (cioè l’esercizio), lo metterà in grado di trasferire gli apprendimenti da un contesto ad un altro. L’esercizio individuale può prevedere la ripetizione di prestazioni scritte o orali e costituisce una pratica indispensabile
per il successo scolastico ma anche, per estensione, per quello extrascolastico. In maniera simile, gli studi e le proposte di R.M. Gagné (1965) hanno
influenzato la pratica didattica attraverso un modello di lezione formalmente innovativo, ma ancora basato sulla trasmissione di conoscenze (adeguatamente organizzate e semplificate) da un soggetto esperto (l’insegnante)
ad uno passivo (l’allievo). Una novità di questi approcci, rispetto al comportamentismo, è che le dimensioni affettive ed emozionali dell’apprendimento hanno pari valore della dimensione cognitiva: l’insegnante, prima di
introdurre nuove conoscenze, deve orientare e motivare psicologicamente
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l’allievo, suscitando la sua «naturale» curiosità, nonché controllare i prerequisiti (le conoscenze di base) necessari per affrontare il successivo stadio
di apprendimento. L’insegnamento diventa così una specie di «modellaggio» (modeling) continuo. Da questa prospettiva, le condizioni che favoriscono l’apprendimento sono:
• il controllo continuo da parte dell’insegnante sugli studenti;
• l’aumento della autonomia dello studente nella gestione dei comportamenti finalizzati al successo, attraverso l’imitazione del modello proposto dall’insegnante;
• i cambiamenti prodotti dai risultati negativi delle verifiche;
• la gratificazione dei premi ricevuti per le prestazioni positive.
Molto più recentemente questi suggerimenti sono divenuti la base per la
cosiddetta formazione a distanza, soprattutto quella veicolata da Internet,
cioè il cosiddetto e-learning. In questo tipo di approccio formativo, assai
innovativo rispetto alla tradizione e ancora non molto sviluppato proprio
perché legato inscindibilmente alle nuove tecnologie (che in non tutti i paesi sono diffuse in maniera uniforme) i materiali didattici sono quasi sempre
costruiti in sequenze ordinate e prefigurano percorsi specifici di lavoro individuale.
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C) Lo sviluppo della scienza cognitiva
A partire dagli anni Quaranta, negli Stati Uniti, nuove scoperte sui meccanismi di funzionamento del cervello e soprattutto la formulazione della
teoria matematica dell’informazione favorirono una ripresa degli studi sui
processi cognitivi superiori (l’attenzione, la percezione, l’elaborazione, la
soluzione di problemi, la memoria, i meccanismi del linguaggio e così via).
Penetrò largamente la convinzione che saper programmare un calcolatore
(cioè essere in grado di fornirgli delle «istruzioni») potesse aiutare a capire
anche come insegnare in modo più efficace alle persone. Si ipotizzò ad esempio che tutti i sistemi che elaborano informazioni, compresa la mente umana, siano retti da «regole» o da procedure precise in grado di stabilire come
trattare gli input, cioè gli impulsi provenienti dall’esterno. Un insieme molto articolato di studi e ricerche, che ha coinvolto studiosi provenienti da
differenti campi e discipline, ha così influenzato in modo significativo la
pedagogia e la didattica. Questi studi sono indicati come appartenenti ad un
unico grande ambito, il cognitivismo, al cui interno possiamo individuare
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molte posizioni eterogenee. Sintetizziamo i riflessi che questi studi hanno
avuto nella definizione delle pratiche educative:
• l’apprendimento è visto anzitutto come un processo di elaborazione delle
informazioni, in analogia al computer;
• l’insegnante fa speso uso di sequenze di istruzioni, per far progredire lo
studente a piccoli passi verso l’acquisizione di strategie di apprendimento e di soluzione dei problemi (problem solving) sempre più complicati;
• lo studente può diventare «esperto» attraverso una attività di riflessione
su di sé: essere consapevoli delle proprie competenze e del proprio modo
di acquisirle è molto importante in prospettiva cognitivista. L’insegnante può facilitare questo percorso di conoscenza di sé attraverso un continuo «dialogo educativo»;
• la mente umana viene ritenuta capace di elaborare un numero quasi
infinito di informazioni per stadi sequenziali, dopo che le informazioni
in ingresso (input) sono state semplificate e organizzate;
• le informazioni, per essere elaborate, devono essere codificate, cioè rese
più semplici e gestibili da ciascun studente. Per questo l’insegnante ha il
compito di scomporre le informazioni e di facilitarne la codificazione.
La spiegazione fornita dall’esperto è lo strumento di semplificazione
dei contenuti. Le rappresentazioni mentali dei dati e delle informazioni
possono essere agevolate attraverso la presentazione e la costruzione di
schemi, copioni (cosiddetti script), cornici (frames), immagini, mappe
concettuali, presentazioni multimediali, e così via;
• l’insegnamento non è puramente nozionistico, cioè non somma una serie di dati e di informazioni slegate tra loro; piuttosto mira ad organizzare strategie, cioè operazioni mentali utili a convogliare le informazioni
generali in unità più piccole e più facilmente utilizzabili.
Tenuto conto di tutti questi elementi, il compito dell’insegnante non è
tanto verificare cosa ha capito lo studente, ma «se» ha capito, cioè se le
conoscenze sono diventate significative, elaborate e memorizzate. Si insegnano infatti principi e regole di azione che devono essere appresi, ricordati
e successivamente applicati: essere abili (cioè «bravi» a scuola) non significa saper fare qualcosa, ma essere in grado di acquisire nuove conoscenze.