Appunti per una teoria dell’architettura Bibliotheca Francesco Collotti Appunti per una teoria dell’architettura Con una raccolta di testi su architettura e città Quart Edizioni Lucerna Appunti per una teoria dell’architettura Francesco Collotti Volume 1 della collana Bibliotheca Edizione originale in lingua tedesca (2001. ISBN 3-907631-18-8) Titolo: Architekturtheoretische Notizen Curatore: Martin Tschanz, Zurigo Redazione: Martin Tschanz, Christoph Schläppi Collaborazione: Felicitas Rausch Traduzioni originali: Katrin Schoess, Corinna Westphal, Giovanni Ferrara, Michel Kempter, Marion Schiffner, Martin Tschanz Edizione in lingua italiana Curatrice: Chiara Wolter, Milano Traduzioni originali: Chiara Wolter, Giacomo Pirazzoli, Francesco Collotti Stampa: beagdruck, Emmenbrücke © Copyright 2002 Quart Edizioni Lucerna Tutti i diritti riservati isbn 3-907631-44-7 Quart Edizioni s.r.l. Rosenberghöhe 4, CH-6004 Lucerna Telefono +41 41 420 20 82, Fax +41 41 420 20 92 E-Mail [email protected], www.quart.ch Printed in Switzerland Premessa Lo aveva voluto giallo, Francesco Collotti, il piccolo libro messo insieme nel 1996 come memoria delle sue lezioni di teoria dell’architettura all’eth di Zurigo, inizialmente solo per uso interno. Non nero e nemmeno di uno di quei toni caldi di grigio più consoni alla moda dell’architettura del tempo, ma nemmeno un acido colore fluorescente tipico del look tecno della grafica, ma di un caldo giallo brillante, un giallo allo stesso tempo classico, come quello usato da Josef Frank per la copertina dei suoi scritti «Architettura come simbolo». Questo omaggio a Josef Frank non è un caso. I testi di Francesco Collotti sono imparentati ai suoi nel loro rifiuto alle mode passeggere e nel loro scetticismo nei confronti delle risposte semplici alle domande dell’architettura. Insistono sulla molteplicità e la complessità, lasciano spazio all’ambiguità e al libero uso delle associazioni di idee; preferiscono tollerare il dubbio piuttosto che asserire prematuramente certezze esclusive e conclusive. Così questi scritti si pongono di traverso rispetto alle correnti della attuale teoria dell’architettura. Perché non costruiscono una mitologia individuale, né cercano di alleggerire il mestiere dell’architetto da responsabilità e competenze; non nel senso di un nuovo funzionalismo né di una ritirata verso un formalismo che si libera da ogni legame e quindi da qualsiasi responsabilità. Questa raccolta intende l’architettura come una produzione culturale completa piuttosto che come una disciplina delle integrazioni. Crea significato e identità, le sue opere portano memoria e tracce, e si pongono in una tradizione che trasformano, portando a figure nuove adeguate al loro tempo: memoria e metamorfosi sono due concetti chiave inscindibili come anche costruzione e ornamento. Non ci si deve stupire che questi «Appunti» prendano l’avvio con notazioni sul principio del rivestimento rimandando a Gottfried Semper e ad Adolf Loos. Francesco Collotti è di Milano e le sue radici affondano nell’area che fu monarchia austroungarica: in un ambiente culturale, quindi, dove è caratteristica la varietà delle influenze culturali, qui ben amalgamate. La Mittel5 europa è presente qui tanto quanto il razionalismo francese, la cultura mediterranea è vicina quasi quanto quella alpina. E non possono che essere molteplici anche i riferimenti che vengono intrecciati negli «Appunti», nei testi scritti appositamente per questa occasione ma anche nelle testimonianze tratte dai Maestri, tra i quali si trovano tanto Plečnik quanto Boullée, Tessenow, E. N. Rogers, e molti altri. Sempre percepibile è durante la lettura la consapevolezza che l’architettura evocata sembri sapersi sottrarre a una completa descrivibilità: una architettura vivente e poetica che non conosce solo la ratio ma anche il segreto. Martin Tschanz Indice Introduzione Il principio del rivestimento Ornamento, decorazione e costruzione Il tipo come promessa di forma Pianta, Raumplan e grande pianta Memoria, tradizione, metamorfosi Costruzione, ricostruzione Faccia, facciata Il tetto Fonte delle illustrazioni Bibliografia 9 13 25 37 49 63 73 83 95 104 106 Introduzione Questo libro presenta una sintesi dei materiali preparati quale Gastdozent per una serie di lezioni di Architekturtheorie presso il Politecnico Federale di Zurigo. Appunti su questioni aperte, più che saggi esaurienti e completi. Quasi una promessa o un desiderio di ricerca per i prossimi anni. Appunti che cercano di rappresentare un mattone per la costruzione di una teoria dell’architettura. Un’opera che dura da molto e che forse non avrà mai fine, ma solo continuo perfezionamento. Le riflessioni sulle singole questioni sono nate da un processo di lavoro e di approfondimento verificato quotidianamente con gli studenti. La scelta dei testi che vi si accompagna è soggettiva, antologica, talvolta parziale e, comunque, consapevole di non essere completa. Il risultato è così a metà strada tra un libro vero e proprio e una dispensa. Pagine scritte non da uno storico, né da un critico, ma da un architetto che legge i testi, che scrive, ma che soprattutto cerca di progettare e di trovare una verifica nella rara architettura che ci viene concesso di costruire. Forse queste note non sarebbero state scritte, oppure sarebbero diverse, se le condizioni del nostro mestiere consentissero di prendere atto quotidianamente, sul cantiere, dello stato delle cose relativo alla nostra disciplina. Siamo invece costretti ancora una volta a riflettere sulla plausibilità e la credibilità del fare architettura oggi. Siamo alla ricerca di una ridefinizione degli elementi fondamentali per questa arte pratica. Poiché nell’arco dell’ultimo secolo gli architetti si sono sempre più isolati dalla vita quotidiana proponendo, solo per le riviste o per i collezionisti di industrial design, oggetti irrealizzabili o case impossibili ed eccezionali, torneremo a parlare della normalità. E potrà allora sembrare paradossale che, in un'epoca che tesse l'elogio della complessità, noi cerchiamo di mettere in opera la semplificazione formale e l’economia espressiva insieme a quella vita quotidiana fatta anche di caso, stupore e ironia (ai futuri architetti verrebbe voglia di suggerire di non prendersi troppo sul serio). Il nostro tempo si prefigge di descrivere e riprodurre il mondo esattamente con la massima precisione e risoluzione, per averne l’immagine più fedele. Tecnologie sempre più perfette modificano la nostra percezione del reale, nello spazio e nel tempo. Nasce una cultura dell’istante e del real 9 time. Tutto pare essere possibile senza limiti. Parallelamente a ciò sembra però continuamente crescere una sostanziale miseria di contenuti. Avanzatissima tecnologia, ma per che cosa? Per questo abbiamo ricominciato da questioni semplici. Senza la presunzione di ripartire da zero, ma con l’obiettivo di indagare il significato di domande antiche alla luce dei nuovi problemi che l’architetto ha di fronte: concetti di base, fondativi, che sono andati in parte perduti oppure che non vengono più usati, altri che sono invece smaccatamente accademici (rivestimento, ornamento, decorazione). Altri argomenti, dopo anni di dibattito, necessitavano invece di essere ricollocati in un orizzonte più ampio per essere indagati. Questioni articolate e ambigue che vengono qui riproposte sotto forma di antinomie o giustapposizioni (costruzionericostruzione, memoria-tradizione-metamorfosi). Diversi tra gli argomenti qui trattati hanno un’origine distante dall’eth di Zurigo, in scuole più affollate, come il Politecnico di Milano, o un tempo più inquiete, come l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Si ritroverà in queste pagine più di un accenno alla stagione in cui a Venezia fu pubblicato da Luciano Semerani il «Dizionario critico illustrato dei termini utili all’architetto moderno», cresciuto intorno alla Fondazione Masieri e alla redazione della rivista Phalaris (scomparsa nel nulla dopo venti numeri, come nei racconti di Conrad). Essendo stato tra i collaboratori di quell’esperienza, mi permetto qui di prendere a prestito alcuni ragionamenti allora iniziati. Altri invece tra gli argomenti qui affrontati sono radicati in quella laica e aperta formazione che, venendo dal gaddiano nòster Politèknik, ho ritrovato a Zurigo. È l’idea di unità tecnica ed estetica della costruzione che di Semper ancora oggi è attuale e, parallelamente, la sua capacità di forzare il linguaggio classico, oppure di parlare di tipo come carattere e non come schema ripetuto da catalogare (vengono in mente i ritratti di August Sander). Tutto ciò nella convinzione che la contaminazione di culture e conoscenze, più che la verità imposta d’ufficio di segni da imitare a tutti i costi, possa far produrre progetto in una scuola di architettura. Sottolineare il valore della contaminazione significa anche tornare a riflettere sulla composizione architettonica, saggiando la sua capacità di mettere in crisi gli stereotipi e le forme consacrate. E per questa via si vorrebbe riuscire a suscitare il dubbio su paradigmi talvolta presi per certezze, disabituando al culto dogmatico, addestrando magari non a copiare le opere dei Maestri, ma a coglierne l’atteggiamento, a imitarne e saccheggiarne le parti. Per poi rifarle a modo proprio. 10 L’Istituto di Teoria e Storia dell’Architettura del Politecnico Federale di Zurigo (gta) e i suoi Professori Vittorio Magnago Lampugnani, Werner Oechslin e Kurt Foster mi hanno invitato a tenere i corsi di Architekturtheorie presso l’eth per gli anni 1995 e 1996. Sono loro molto riconoscente per la straordinaria possibilità offertami e per la fiducia che hanno saputo concedermi. Tra quelli che mi hanno aiutato in questo lavoro ringrazio Martin Tschanz e Christoph Schläppi, le cui osservazioni critiche, sensibili, talvolta piene di dubbi, hanno fatto maturare queste note e sicuramente aumentare le incertezze. Senza di loro l’organizzazione delle lezioni e del libro sarebbe stata impossibile. Milano/Zurigo, novembre 2000 Nota all’edizione italiana Questi appunti per una teoria dell’architettura sarebbero forse rimasti nel tetragono scrigno della lingua tedesca per la quale furono originariamente pensati se un gruppo di professori non avesse sostenuto la mia chiamata a tenere una cattedra di Composizione Architettonica presso l’Università degli Studi di Firenze. Tra quanti ancora credono nella necessità di far scaturire le ragioni del progetto più da una teoria antica che non da affannati esperimenti, sono per questo riconoscente a Paolo Zermani, Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi e Giacomo Pirazzoli (quest’ultimo poi, vincendo la pigrizia di cui va orgoglioso, ha saputo per l’occasione rivisitare i cinque punti di Le Corbusier nella nostra lingua). A Chiara Wolter un ringraziamento particolare per la sensibilità e la cura con cui ha atteso all’impresa (per nulla tecnica né neutrale) di far tornare verso il Mediterraneo concetti e mondi di forme che, a suo tempo, mi ero sforzato di far trasmigrare in modo plausibile a nord delle Alpi. Dedico questo libro a Chiara e Matteo, arrivati col nascere del millennio portando speranza e serenità (contro ogni ragionevolezza rispetto al reale e, ancora una volta, malgrado tutto). Milano/Firenze, settembre 2002 11 Il principio del rivestimento La cultura architettonica del secolo appena passato ci ha abituato a un linguaggio moralista severo, mettendoci in guardia dal falso, portandoci a credere solo nel cosiddetto vero. Vero era tutto ciò che aveva a che fare con la struttura. Vero, e cioè positivo e condivisibile, corrispondeva a pulito, libero, ampio, luminoso (e perciò bianco), trasparente. Vero cioè ripetibile, trasmissibile, comunicabile. Essenziale e cioè semplificato, reso astratto, non figurativo. La cosiddetta sincerità costruttiva fece divenire la funzionalità tecnica unica misura del bello; la necessità pratica sola garanzia di buon risultato e così via. La descrizione asciutta, tecnica, senza concessioni poetiche prendeva il posto del racconto, rendeva non più dicibile il mito. L'astrazione dei diagrammi dei sociologi si è per lungo tempo sostituita alle figure degli architetti. Costruire e vivere apparivano più democratici e accettabili di arte e architettura (per tutti lo precisa Le Corbusier in difesa dell’architettura nella polemica risposta a Karel Teige, 1929). Gli architetti non sono più stati capaci di far vedere le cose oltre, persa la parola e la maestria nel far sognare (tra gli ultimi forse proprio Le Corbusier, con pochi altri). E ciò che si presumeva vero era anche oggettivo, logico e intersoggettivo. Falso era, al contrario, ciò che copriva il nudo, ciò che impediva l'esibizione della struttura: essa doveva essere spoglia, spogliata, nuda, priva di rivestimento. Nel luogo comune modernista essa era liberata e indipendente. Un architetto, grande visionario e inventore, Carlo Mollino, ha vestito le donne lasciando maliziosamente scoperte parti usualmente celate, cercando di suscitare il dubbio a proposito di queste presunte certezze. La nostra immaginazione lavora sul confine tra coperto e scoperto; è l'andirivieni continuo tra rivestimento e struttura che suscita il nostro interesse. Ci seduce l'ambiguità tra il corpo e il vestito, quando il vestito asseconda il corpo, quando si intuisce il corpo malgrado il vestito, quando il vestito inganna lasciando immaginare un corpo che magari non c'è (e intendiamo qualcosa di più raffinato dell’odierno push-up cult). Può il rivestimento essere del tutto indipendente dallo spazio che circonda? Posso concepire uno spazio a prescindere dal rivestimento? 13 Ultimo nel procedimento costruttivo, l'atto del rivestire la casa nel pensiero dell'architetto dovrebbe far parte della composizione sin dal primo momento. Esso concorre a definire il carattere di ciò che stiamo costruendo, quell'immagine che sta innanzi a tutto, ancor prima di affrontare i problemi statici o funzionali. È ciò che vogliamo dire. Rivestimento aiuta a esprimere la Stimmung di uno spazio, carattere e stato d’animo al contempo, qualcosa che comunque ci fa propendere per la non separabilità del rivestimento dallo spazio. Dal punto di vista tecnico-pratico, al rivestimento compete la protezione dal freddo o dal caldo, dall'acqua o dal vento; dal punto di vista figurativo e simbolico, è imparentato con l'ornamento, col carattere dell'edificio, con la sua faccia, con la rappresentazione, con le intenzioni e le promesse di forma. Ornamento e decorazione qualificano il rivestimento. Lo fanno parlare, lo fanno appartenere a un linguaggio, gli danno un’impronta, uno stile quando necessario. Come quasi tutti i temi che riguardano la costruzione, anche il rivestimento è una questione antica, così antica da avere a che fare con le origini, con il mito, con alcune forme primigenie. Dal naturale all'artificiale, dal casuale al disegnato, dal gioco della luce alla modanatura è il percorso di ogni progetto: il pensiero dell'uomo col tempo carica di significati e memorie questa progressiva trasformazione della natura. Possiamo chiederci se abbia ancora senso oggi ritornare sul principio del rivestimento. Che cosa resta oggi delle riflessioni di Adolf Loos quando ci poniamo il problema di realizzare una parete ventilata funzionale al risparmio energetico? Ed è poi vero che i cambiamenti tecnologici e produttivi impongono una modificazione dell'aspetto tradizionale degli edifici? La ricerca della sincerità costruttiva ha oggi affidato alla struttura anche il ruolo simbolico e rappresentativo che un tempo era proprio del rivestimento. Alla struttura è stata imposta l'avventura, forse impossibile, di riassumere tutto: simbolo e figura. In molti casi l'architettura delle avanguardie si è deliberatamente rinchiusa nel silenzio, impiegando l'intonaco come unico rivestimento accettabile, lenzuolo teso tra gli scheletri e le cartilagini bianche. Altri, come Wright, Plečnik, Behrens, Berlage fino a Siza e Moneo hanno preferito diversi, più condivisibili, percorsi. Un modo di intendere l'unità della costruzione ogni volta cercando quella comune tensione tra carattere e tipo che concorre in modo determinante a conferire significato civile e collettivo all'edificio. Aalto impiega il marmo di Carrara in modo sensibile e raffinato, dichiarandone con leggeri scollamenti la natura di rivestimento, non solo epidermide, ma messa in opera del carattere. Dal marmo Gio Ponti, Adalberto Libera, Luigi Moretti hanno tagliato lastre preziose, componen14 do figure e arabeschi, esaltando le caratteristiche del materiale, il suo ornamento per così dire naturale. Una particolare idea di mediterraneità, che ci piace pensare sia arrivata, in alcune felici stagioni, fino a Berlino o a Helsinki, ci si è fissata negli occhi: sono le lastre di marmo ritrovate negli edifici e nelle città romane d'Africa o del Vicino Oriente, i pilastri bizantini di Ravenna o quei gioielli incastrati nelle facciate di alcune chiese veneziane. Marmi che fissano nella pietra dura la sigla della loro genesi da una materia plastica incandescente, compressa all'inverosimile e imprigionata nelle viscere della terra. Marmi che spesso rivivono una seconda vita dopo la spoliatio dalle fabbriche di origine. Con il gesto mitico di chi riporta alla luce la memoria minerale e geologica del mondo riordiniamo le lastre su una facciata, facendo vivere una seconda vita a tutti i materiali preziosi che il caso ha voluto riunire in venatura, onda, nuvola, segni strani in cui la mente crede di riconoscere figure. La seconda metà del secolo ci ha abituato anche ad altre pelli. Esse sono sottili, vetrate, autonome, talvolta trasparenti, talaltra assolutamente riflettenti, corrono davanti a telai di ferro o di cemento armato. Il telaio è nascosto da pannelli che, per essere autonomi, hanno a loro volta avuto bisogno di una struttura e così via. Persa in molti casi l'origine per metamorfosi di elementi legati alla terra, quali i mattoni e la pietra, l'architettura si pone nuovi dubbi. Che cosa resta della feconda distinzione tra parete tessile e muro-struttura? La ritroviamo forse nella fin troppo precisa separazione tra il telaio in legno e la parete in scandole nella cappella di montagna di Peter Zumthor (Sogn Benedegt): la parete in legno è assolutamente autonoma dai montanti verticali. Corpo e pelle quasi non si toccano. La parete è viva, scricchiola, respira, si adegua alla temperatura, al passare delle stagioni. L'identità del rivestimento è concretamente percepibile, un fatto fisico esperibile. Altrove il rivestimento resta una tenda appesa a breve distanza dalla struttura. Come due discorsi di nuovo totalmente distinti, struttura e rivestimento vengono avvicinati in alcuni recenti progetti di Renzo Piano. L'accostamento è duro, difficile. In alcuni punti della costruzione c'è ancora la pelle, ma non più la struttura. Il pannello di rivestimento imparentato al cotto è talvolta superficie di osmosi tra l'esterno e il retrostante vuoto, mentre in altri casi è il vestito della festa che corre immediatamente davanti alla struttura rustica in cemento armato (verrebbe da sospettare che rivestimento sia qui valore aggiunto di carattere economico). Molti esempi recenti lavorano sulla separazione tra rivestimento e struttura. In diversi casi il rivestimento diviene l'architettura tout court. Il 15 rivestimento diventa in alcuni casi l'essenza dell'architettura. Proviamo a togliere i pannelli macchinosi e sensibili che sono l'immagine dell'Istituto del mondo arabo di Jean Nouvel a Parigi. Che cosa resta? Proviamo a scartare le fasce di rame che cingono il volume dei trasformatori della stazione di Basilea di Herzog & de Meuron. Che cosa resta? In alcuni progetti di Nouvel o di Herzog & de Meuron il rivestimento diviene vestito, sistema che riveste a sua volta la pelle con griglie metalliche o vetrate supertecnologiche. In alcuni casi (Centro culturale a Blois, 1991) gli edifici divengono pannelli pubblicitari. Sotto il vestito niente. Dunque facciate, solo facciate? Facciate che potrebbero fare a meno del resto. Facciate messaggio. Il rivestimento, oltre che cosa viva, oltre che superficie sensibile e reattiva come un occhio, diviene continuamente variabile. Talvolta persino virtuale. Che cosa resta allora del principio del rivestimento? A differenza di Laugier, che teorizzò la capanna primitiva come origine dell'architettura, e a differenza di Quatremère de Quincy, che affiancò alla capanna la grotta e la tenda, ripercorrendo tre tradizioni costruttive diverse (i coltivatori sedentari greci, i cacciatori e pescatori egiziani, i pastori nomadi mongoli), per Loos la casa originaria è solo un'idea di riparo: un tappeto con intorno un telaio che regge in verticale quattro coperte. E proprio la coperta è il più antico particolare dell’architettura! Per questa via l’umanità ha imparato a costruire/abitare (cioè bauen, che è anche coltivare la terra). Figura e tecnica si incontrano, ma con fatica. Nel conciliare la distanza tra solidità e mise en oeuvre sta per Loos tutto il lavoro dell’architetto. E se il suo compito è nel mettere in opera uno spazio caldo e accogliente, la sua seconda missione è costituita dall’invenzione di una plausibile struttura a ciò finalizzata. Tutto il pensiero di Loos sul rivestimento muove da Gottfried Semper: nei suoi Vier Elemente der Baukunst (1851) ricostruisce la genesi del rivestimento. Esso viene prima della struttura. Il rivestimento ha origine dall'antico recinto fatto di pali e rami intrecciati e poi ricoperti da tappeti. Nella lingua tedesca Semper apparenta parete-Wand e rivestimento-Gewand, distinguendoli da muro-Mauer. Il tappeto come parete verticale è forma originaria e basilare (Urform/Grundform) per l'architettura. Il muro, al contrario, è imparentato al mondo del terreno, dei terrazzamenti, dei terrapieni. Nella teoria sull’evoluzione delle arti pratiche che Semper ipotizza, la tettonica si riconosce per la sovrapposizione di elementi finiti subordinati a un ordine e a una gerarchia pilastro-trave-pilastro, mentre l’arte tessile è l’evoluzione per intreccio di fibre vegetali (Semper, 1860 e 1863 – Marras, 1993). L'arte tessile e le sue varianti diventano per questa via fondamento 16 di ogni ornamento in architettura, e da esse andrebbero dunque dedotte le leggi dell'ornamento. La stessa policromia delle pareti verticali deriverebbe dall’originario uso di tappeti per delimitare uno spazio. Questo concetto di decorazione è sempre profondo e non banalmente ridotto alla pura superficie grafica: la decorazione trova la sua raison d'être più nella lavorazione del materiale e nella tecnologia impiegata, che non nell’ornato. È in questo modo del resto che si spiega l'interesse di Semper per le arti applicate e per la loro evoluzione nel tempo. Così Loos ha in mente una forma necessaria e una figura tecnica che si oppongono alla gratuità originale del gesto artistoide. L'architetto deve essere fedele al materiale che impiega, non deve tradirlo. Forme e materiali non sono intercambiabili, come invece lascerebbero credere i cataloghi di pattern che ogni biblioteca di programma per disegno al computer ostenta. Chi sa lavorare il materiale, lo rispetta. Dei suoi anni di apprendistato da lapicida fu, del resto, sempre orgoglioso Palladio. La forma non è separabile dal materiale. Ogni materiale sembra portare con sé la sua forma precisa; la metamorfosi è permessa solo con il consenso del materiale (è la legge del rivestimento). C'è una incolmabile distanza tra chi crede che il mondo delle forme sia il risultato di un lento perfezionamento sviluppato nel corso del tempo, e chi presuntuosamente pensa ogni volta di reinventare gli utensili della vita quotidiana (tra cui anche la casa). Ecco la differenza tra Baumeister e designer, ed è la distanza che separa Loos dai decoratori e dai tappezzieri della Wiener Sezession. Ancora oggi molti riducono il rivestimento all'imballaggio, al confezionamento bien fait della struttura (oppure a una finitura da pasticceria). Esiste allora lo spazio senza rivestimento? Può lo spazio essere una semplice scatola, puro contenitore indifferente a ciò che lo circonda? Può lo spazio essere disponibile a un rivestimento qualsivoglia? E come cambia il rivestimento al variare dello spazio? In che modo il rivestimento allude, quasi alla maniera di una elaborazione letteraria, all'interno, senza rappresentarlo direttamente? E che cosa è oggi ancora praticabile del concetto loosiano di Stimmung, vale a dire possibilità con l’esterno di evocare il carattere dell’interno in modo allusivo (faccia e corpo che esprimono o celano stati d’animo, diremmo per una persona)? Loos rimproverava agli accademici di aver fatto dipendere l'illuminazione degli interni della casa dai capricci della facciata. L'unica necessaria sincerità costruttiva è per Loos quella che riguarda la composizione della facciate: le finestre si dispongono sulla parete con un movimento che va dall'interno all'esterno, e vengono poi a loro volta ricomposte secondo una tensione che riguarda l’unità della costruzione. Rivestimento è per Loos architecture parlante. Le 17 facciate per il concorso del Kriegsministerium sono nei colori dell’imperialregio vessillo (le fasce orizzontali in terracotta gialla contrastano con quelle di granito nero lucido). Un antico pensiero dei taoisti cinesi ricorda che ciò che l'uomo cerca nella casa è ciò che casa non è. L'uomo non abita nei muri, ma negli spazi. E l'uomo cerca gli spazi; per questo l’architetto dovrebbe pensare più al vuoto che non al pieno. Molti architetti oggi, come del resto al tempo di Loos, pensano da stilisti al solo spessore di muri e di successive pelli sfogliate, illudendosi che ciò che resta libero da queste elucubrate sovrapposizioni si possa automaticamente definire spazio. Per astrazione didattica separiamo in un edificio la struttura degli spazi, la struttura tecnologica e la struttura figurativa (Quaroni 1977, Progettare). Ecco riecheggiare attuale la triade vitruviana di utilitas, firmitas e venustas. E se all'origine, nel racconto mitico, il rivestimento precede la struttura, il mondo delle forme sviluppa nel corso del tempo una sorta di interno metabolismo, una vita sotterranea che presiede alle metamorfosi (Semper, Focillon). Da Palazzo Rucellai fino alle facciate viennesi di Fischer von Erlach o agli esemplari esercizi di Auguste Perret (Rue Franklin, Paris), il rivestimento rappresenta e mette in scena una seconda ipotetica struttura che non necessariamente descrive la vera struttura portante. Lo scambio continuo tra figura, spazio e tecnica è l'architettura. Non siamo più capaci oggi di enunciare con tanta sicurezza un principio del rivestimento. Ciò che ci affascina è in realtà il continuo scambio di significati tra struttura e rivestimento. E se da un lato accettiamo, con Loos, la sincerità di un materiale, sappiamo d’altro canto che il rivestimento non sa più dire univocamente la verità. Vero e falso convivono. Il rivestimento nobilita, impreziosisce, fa credere che sottili lastre di marmo siano spessi blocchi di pietra, oppure alleggerisce. Il rivestimento dà illusioni. La lingua tedesca, in altri casi precisa e inequivocabile, lascia indeterminata la differenza tra stoffa e materia, e forse ci piace giocare con questa ambiguità. In italiano rivestimento è imparentato con travestimento. Vi sono molti luoghi comuni sulla presunta sincerità dell’architettura. Molti ritengono che l’architettura debba essere onesta. Sosterremo qui le ragioni di un’architettura che dovrà non essere onesta, ma sembrare onesta. 18 Gottfried Semper I quattro elementi dell’architettura, 1851 Il primo segno del riposo umano dell’insediamento stabile, dopo la caccia, la lotta e la vita nomade nel deserto, oggi come allora, quando i primi uomini perdettero il paradiso, è la costruzione del focolare e la fiamma che vivifica, riscalda e cuoce i cibi. Attorno al focolare si raccoglievano i primi gruppi, si strinsero le prime alleanze, le primitive concezioni religiose si codificarono in consuetudini culturali. In tutte le fasi dello sviluppo della società esso costituisce il centro sacro, attorno al quale tutto si ordina e si configura. È il primo e il principale, l’elemento morale dell’architettura. Attorno a esso si concentrano altri tre elementi, in un certo qual modo le negazioni difensive, i protettori dai tre elementi naturali ostili alla fiamma del focolare: il tetto, il recinto e il terrapieno. A seconda di come si costituirono le associazioni umane, sotto i più diversi influssi climatici, della natura del territorio, dei rapporti reciproci, e secondo le differenze delle caratteristiche etniche, le combinazioni in cui questi quattro elementi dell’architettura si fondevano dovevano prendere forme diverse, alcuni sviluppandosi maggiormente e altri retrocedendo in seconda linea. Anche le diverse abilità tecniche degli uomini vi si adeguavano: i lavori e le arti in ceramica e più tardi metallurgici si organizzarono intorno al focolare, le opere idrauliche e le opere murarie intorno al terrapieno, i lavori in legno intorno al tetto e ai suoi accessori. Ma quale tecnica originaria si sviluppò a partire dal recinto? Niente altro che l’arte muraria, cioè degli intrecciatori di stuoie e dei tessitori di tappeti. Questa affermazione, che può apparire sorprendente, necessita di una più accurata spiegazione. Abbiamo ricordato prima gli scrittori che si dedicano con precisione scrupolosa alle ricerche sui primordi dell’arte, facendo derivare da queste le diversità nella prassi edilizia. Di non poca importanza in questo senso è la copertura a padiglione delle tribù nomadi. Mentre tuttavia la loro perspicacia riconosce nella catenaria della figura a padiglione l’uso architettonico tartaro-cinese (benché le stesse forme si ritrovino anche sui berretti e le scarpe di queste popolazioni), essi trascurano l’influsso più generale e meno dubbio esercitato dal tappeto nella sua qualità di parete, di protezione verticale, sullo sviluppo di certe forme architettoniche, così che io Gottfried Semper 19 credo di poter affermare, senza l’appoggio di altre autorità, che l’arazzo ha una parte di grande importanza nella storia dell’arte in generale. Come è noto, ancora oggi il senso artistico che si risveglia presso le popolazioni che si trovano in stadi primitivi (anche quando vanno in giro ancora completamente nudi), si applica subito all’intreccio e alla tessitura di stuoie e coperte. Lo steccato costruito con rami d’albero intrecciati, come recinto archetipico o delimitazione dello spazio e primitivo ornamento a intreccio, è comune anche tra i popoli più selvaggi. Solo l’arte ceramica può forse a buon diritto superare l’anzianità della tessitura dei tappeti. Dall’intrecciare i rami, si passò facilmente a intrecciare la rafia per stuoie e coperte. Da qui si sviluppò anche la tessitura con filati vegetali e così via. Gli ornamenti più antichi sono quelli eseguiti o intrecciando o annodando, o le decorazioni eseguite con le dita sull’argilla morbida appoggiata sul tornio. L’uso di intrecciare pali per delimitare la proprietà rispetto ai beni comuni, delle stuoie e dei tappeti come coperte per i piedi, per ripararsi dal sole o dal freddo e per separare i vani interni alle abitazioni, nella maggior parte dei casi, e specialmente in condizioni climatiche favorevoli, precedette largamente l’uso delle pareti in muratura. Quest’ultima era uno sviluppo dell’arte muraria che si era formata in precedenza per i muri dei terrazzamenti, in condizioni stilistiche molto differenti. Essendo l’intreccio l’elemento originario, anche più tardi, quando le leggere pareti di stuoia si trasformarono in solidi muri in mattoni di terra, di laterizio o in blocchi di pietra, esso conservò, in realtà o anche solo idealmente, tutto il peso della sua primitiva importanza, la vera essenza della parete. Il tappeto rimase sempre la parete, la delimitazione spaziale visibile. I muri dietro di esso, usualmente molto spessi, erano necessari per altri scopi, che non riguardavano la spazialità, ma la garanzia della portata, della maggiore durata e così via. Dove non erano necessari questi requisiti collaterali, i tappeti restavano le uniche separazioni originarie, e anche dove era necessario erigere mura solide, esse costituivano soltanto lo scheletro interno, non visibile, celato dietro ai veri e legittimi rappresentanti della parete, i tappeti variopinti. La parete mantenne questo significato persino quando per una sua maggiore durata, o perché si conservassero meglio i muri retrostanti, o per parsimonia, o al contrario per ostentare un maggior lusso, o per qualsiasi altro motivo, i materiali originari venivano sostituiti da altri. Lo spirito inventivo umano creò un gran numero di questi surrogati, impegnando di volta in volta tutti i rami della tecnica. 20 Gottfried Semper Tra i surrogati più diffusi e forse più antichi, l’arte muraria offriva uno strumento, l’intonacatura a stucco, o in altri paesi l’intonacatura con la pece. Gli artigiani del legno costruivano tavolati ( πινακες ) con cui venivano ricoperte le pareti, specialmente nelle parti inferiori. Gli artigiani del forno producevano terracotte smaltate e piastre metalliche. Come ultimo surrogato possiamo elencare forse le lastre di arenaria, granito, alabastro e marmo, che troviamo diffuse in Assiria, Persia, Egitto e anche in Grecia. Il carattere dell’imitazione seguì a lungo quello del modello originario. La pittura e la scultura su legno, stucco, terracotta, metallo o pietra era e rimase inconsciamente nella tradizione un’imitazione dei ricami variopinti e degli intrecci sulle antichissime pareti a tappeto. L’intero sistema della policromia orientale, strettamente unito con l’arte della pennellatura e del rivestimento dell’architettura più antica, insieme anche all’arte pittorica e dei bassorilievi, deriva dai telai e dalle tintorie degli industriosi Assiri o dai loro predecessori nelle invenzioni dell’antichità. Adolf Loos Il principio del rivestimento, 1898 L’artista invece, l’architetto, pensa dapprima all’effetto che intende raggiungere, poi con l’occhio della mente costruisce l’immagine dello spazio che creerà. Questo effetto è la sensazione che lo spazio produce sullo spettatore: che può essere la paura o lo spavento, come in un carcere; il timore di Dio, come in una chiesa; il rispetto reverenziale per l’autorità, come in un palazzo del governo; la pietà come in un monumento funebre; il senso di calore, come nella propria casa; la spensieratezza, come in un’osteria. Questo effetto viene raggiunto attraverso il materiale e attraverso la forma. Ogni materiale possiede un linguaggio formale che gli appartiene e nessun materiale può avocare a sé le forme che corrispondono a un altro materiale. Perché le forme che si sono sviluppate a partire dalla possibilità di applicazione e dal processo costruttivo propri di ogni singolo materiale, si sono sviluppate con il materiale e attraverso il materiale. Nessun materiale consente un’intromissione nel proprio repertorio di forme. Chi osa, ciononostante, una tale intromissione, viene bollato dal mondo come falsario. L’arte non ha nulla a che fare con la falsificazione, con la menzogna. Le sue vie sono piene di spine, ma pure. [...] Gottfried Semper Adolf Loos 21 Come abbiamo già detto all’inizio, il rivestimento è più antico della costruzione. Le sue giustificazioni possono essere di vario genere. Esso serve ora come protezione contro i danni delle intemperie, come la pittura a olio su legno, ferro o pietra, ora ha una motivazione igienica, come nel caso delle piastrelle smaltate che ricoprono la superficie dei muri nelle toilette, ora serve per ottenere un determinato effetto, come quando si colorano le statue, si tappezzano le pareti, si impiallaccia il legno. Il principio del rivestimento, che Semper enunciò per primo, è applicabile anche alla natura. L’uomo è rivestito di pelle, l’albero di corteccia. Partendo da questo principio del rivestimento, io formulo fra l’altro una legge molto precisa, che chiamerò la legge del rivestimento. Non spaventatevi. Le leggi significano in generale la fine di ogni progresso. Ed è vero che gli antichi maestri se la sono cavata benissimo anche senza leggi. Certo. Dove il furto è sconosciuto sarebbe superfluo creare leggi in merito. Quando i materiali che si usano per rivestimento non venivano ancora imitati non c’era bisogno di nessuna legge. Ora però sembra giunto il momento. La legge suona quindi così: bisogna operare in modo da escludere ogni possibile confusione fra materiale rivestito e rivestimento. Vale a dire: il legno si può dipingere di tutti i colori tranne uno: il color legno. [...] Applicato agli stuccatori, il principio del rivestimento suonerebbe così: con lo stucco si può eseguire qualsiasi ornamento tranne uno – quello che imita la costruzione con mattoni a vista. Sembrerà inutile insistere su una cosa così ovvia, ma proprio di recente mi è stata fatta notare una costruzione in cui i muri intonacati erano dipinti di rosso con l’aggiunta di commessure bianche. Anche la tanto amata decorazione delle nostre cucine, che imita le pietre squadrate, rientra in questo gruppo. In generale tutti i materiali che servono al rivestimento delle pareti, e cioè tappezzerie, tele incerate, stoffe o tappeti, non devono cercare di imitare i mattoni o la pietra. E adesso risulterà chiaro anche perché le gambe delle nostre ballerine in calzamaglia producono un effetto tanto antiestetico. La biancheria lavorata a maglia può essere di qualsiasi colore, tranne color carne. Quando il materiale che viene ricoperto è dello stesso colore del materiale del rivestimento, quest’ultimo può mantenere il suo colore naturale. Così, per esempio, posso ricoprire il ferro, che è già nero, con uno strato di catrame, posso ricoprire (impiallacciare, intarsiare ecc.) il legno con un’altra qualità di legno senza che occorra colorare il legno di rivestimento; posso rivestire un metallo con un altro metallo mediante il fuoco o la 22 Adolf Loos galvanizzazione. Ma il principio del rivestimento vieta di imitare nel colore il materiale ricoperto. Perciò il ferro può benissimo essere incatramato, dipinto con colori a olio o galvanizzato, ma non può mai venir dipinto in color bronzo, cioè nel colore di un altro metallo. Auguste Perret Contributo a una teoria dell’architettura, 1952 Chi dissimula una parte qualsiasi della struttura si priva dell’unico legittimo e del più bel ornamento dell’architettura. Chi dissimula un pilastro commette un errore. Chi ne mette uno falso commette un crimine. Adolf Loos Auguste Perret 23 Ornamento, decorazione e costruzione Il concetto di ornamento da sempre descrive elementi inscindibilmente connessi alle opere artistiche e architettoniche. Nel suo aspetto di abbellimento o trasfigurazione è forse bisogno ancora più antico dell'atto di costruire, legato all'usanza di abbellire e trasfigurare il proprio corpo, al desiderio di mettersi in mostra, oppure di rappresentarsi accentuando i tratti e mostrando magari cose che non ci sono, o, all'opposto, sottolineando e rafforzando un determinato carattere del proprio aspetto. Ornamento e decorazione sono stati spesso accomunati nel dibattito sull’architettura dell’ultimo secolo. Si è cercato in alcuni casi di superare le nozioni generiche approfondendo sia le ragioni dell’ornamento, sia quelle della decorazione (Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, 1993). In prima istanza parrebbe ornamento più prossimo al gesto di applicare un decoro o un elemento ornamentale a un organismo architettonico in sé già compiuto (Erik Gunnar Asplund, Villa Snellman), decorazione invece parrebbe più connaturata alla memoria costruttiva di un edificio e dunque più difficilmente separabile dal resto, strettamente connessa ad alcuni elementi imprescindibili, per quanto essi possano oggi venir stilizzati, resi astratti, omessi. Più tettonica la decorazione, più tessile l’ornamento? Non ci sentiamo di sostenere le ragioni dell’uno o dell’altro partito, quanto, caso mai, di ragionare intorno alla questione e, semmai, di aggiungere altri dubbi. Scrive Ernesto Nathan Rogers: Tre sono i postulati essenziali della decorazione. Il primo è quello di negare, con l’ornato, la realtà costruttiva, creando sorprese e illusioni. Il secondo è, all’opposto, di esaltare espressionisticamente, con l’ornato, la realtà costruttiva, sottolineando gli elementi (Brunelleschi, Francesco di Giorgio). Il terzo, che sta dialetticamente tra i due, è di estrinsecare l’opera d’arte, con l’ornato, ma non nella sua realtà obiettiva e strutturale, sibbene spiegandone il tema e spesso idealizzandolo letterariamente (Rogers, 1958). Nel primo caso verrebbe da pensare a Giulio Romano, anche se il termine negare la realtà costruttiva appare riduttivo, essendo impensabile il lavoro di Giulio senza un profondo rispetto per l’architettura antica, per quanto trasfigurata. Nel secondo caso viene in mente la 25 Madonna del Calcinaio di Cortona. Francesco di Giorgio rappresenta la struttura con una duplice non coincidente orditura, diversa all’interno rispetto all’esterno. Almeno una delle due (quella interna, parrebbe) non coincide con la vera struttura portante. L’apparato decorativo (ornamentale?) allude qui a una struttura possibile. Nel terzo caso ci sembrerebbe di poter riconoscere i lavori di quei Maestri come Leon Battista Alberti, Fischer von Erlach e Karl Friedrich Schinkel che hanno cercato di riflettere sul valore evocativo della decorazione rispetto alle origini dell’architettura cercando di metterne in opera il mito. Così l'ornamento aiuta a mostrare figure e immagini oltre l'immediatezza costruttiva, talvolta ricordando il mito naturalistico da cui trae origine l'architettura oppure ricordando la trasformazione nel tempo degli elementi dell’architettura nel loro passaggio da un materiale a un altro. L'ornamento è qui fondamentale per rendere riconoscibili non solo gli elementi della costruzione, ma anche lo scopo della costruzione, il suo carattere, il suo contenuto funzionale, il suo messaggio simbolico e il programma figurativo conseguente. E se l’ordine architettonico ha dato per secoli la mossa di apertura e il registro entro cui non aver dubbi sull’unità tecnica ed estetica dell’edificio (severità, rudezza, grazia, leggiadria ecc.), ornamento e decorazione sono stati di volta in volta incaricati di estrinsecare il carattere della costruzione attraverso una codificata grammatica di elementi e proporzioni. Per questa via l’edificio si mostra in quanto a carattere, ovvero corrisponde con maggiore o minore adeguatezza al tema. Non solo l’ordine, ma lo stesso programma decorativo a esso subordinato riflettono le due diverse facce delle porte di città di Michele Sanmicheli a Verona. A Porta Nuova l’alzato rivolto alla campagna, la veduta cioè del viaggiatore che stia per varcare le mura, presenta un'architettura tipicamente urbana, da palazzo, quasi ad annunciare la città nei suoi elementi essenziali (basamento, partito, coronamento). Al contrario il lato della porta che guarda verso la città sembra annunciare attraverso una monumentale barchessa l'architettura della campagna. Come in altre fabbriche veronesi vi è qui il tentativo di misurarsi direttamente con i resti dell’architettura romana che non sono in questa città oggetto di idealizzazione, ma presenza fisica, duratura, materiale da costruzione (cfr. Costruzione, ricostruzione). È molto difficile in architettura scindere tra ornamento, decorazione, costruzione. All'ornamento e alla decorazione è stata demandata nei secoli l'esplicitazione dei caratteri dell'edificio e delle sue specificità. Il sistema della decorazione ha costituito quasi sempre il sistema visibile dell'edificio, sovrapposto imposto a quello della costruzione. La tendenza 26 del nostro secolo sembra quella di ricondurre la stessa struttura portante dell'edificio alla funzione ornamentale. Tutta l’esperienza dell'ornamento può essere riassunta nella continua tensione tra mascheramento della forma costruttiva da un lato e disvelamento della sua vera natura dall'altro. Anche l'esibizione della tecnologia che vediamo frequentemente nell'architettura attuale è un modo particolare di trattare tali questioni (usando la tecnica oltre la sua forma necessaria e conferendole valore estetico). L'ornamento ha comunque uno stretto legame con la memoria costruttiva dell'edificio. L'ornamento e, in questo caso, soprattutto la decorazione, sono ciò che resta. Ornamento e decorazione hanno un legame antico con la vicenda dell'architettura nel tempo, ne ricapitolano in un solo momento le origini, ne trasfigurano gli elementi, ne raccontano il mito. La memoria costruttiva e strutturale del tempio arcaico rivive nel tempio classico che reca cristallizzate nella pietra le antiche forme funzionali della precedente struttura lignea. Le gocce d'acqua divenute pietra, le teste delle travi fissate per sempre nel triglifo. Una memoria che rivivrà nei nomi e nelle figure di guttae, palmette, acanti, fogliami, cartocci, volute. Forme ed elementi che avevano una precisa ragione costruttiva in un originario edificio giungono così fino a noi riversati in un altro materiale, dove proseguono una loro seconda vita metaforica o simbolica che non è più legata a una funzione pratica immediata, ma che a essa ancora allude. L’opera di Mies van der Rohe si svolge nella quasi totalità ragionando su pochi antichi elementi dell’architettura. Sempre gli stessi, resi essenziali, talvolta evocati dalla loro omissione, ma ancora riconoscibili. La colonna con l’entasis, il capitello, il collarino o il pulvino, la trabeazione. Un'intera stagione legata alle vicende del Movimento Moderno in architettura (ma generalizzare potrebbe essere poco corretto) reagì all'abuso del campionario stilistico tipico dell'ornamentalismo e del decorativismo tardottocenteschi predicando elementarismo e semplicità, dichiarando la non legittimità dell'ornamento presso un'architettura che credeva di mostrarsi vera nel suo essere spoglia e disadorna. Giusta la critica. Riduttivo e mortificante l'esito? Una sorta di moda del Moderno fu infatti un punto di arrivo formale distante e impoverito rispetto ai fondamenti teorici e pratici da cui l'architettura che noi definiamo moderna aveva preso le mosse. Una lettura limitativa e restrittiva del noto scritto Ornamento e delitto ha per lungo tempo segnato, quasi alla maniera di un comodo pretesto, la distanza tra architettura moderna e ornamento, generalizzando e volgarizzando quella che negli intenti di Loos era polemica soprattutto contro la presunzione degli inventori fin de siècle di ornamenti moderni, 27 nuovi a tutti i costi e fragorosamente distanti da qualunque ragionevole forma necessaria. La posizione di Heinrich Tessenow rispetto a simile questione è meno polemica e radicale anche se altrettanto netta. Restando consapevole di tutti i limiti relativamente all’utilità dell’ornamento rispetto al proprio lavoro, Tessenow accenna a una certa sua inevitabilità. Pur non intendendo qui sostenere le ragioni dei detrattori e dei revisionisti del Moderno, occorre dire che è oggi possibile, lontani da quella polemica, ricominciare a parlare di questi tabù (ornamento, decorazione) in termini più laici, meno ideologicamente legati a un programma o a una missione. È anche il senso di un doveroso risarcimento nei confronti di Adolf Loos, la cui opera (al contrario di quanto furono disposte a riconoscere la critica militante e la storiografia ortodossa del Movimento Moderno) è in realtà piena di figure, immagini, decorazioni e ornamenti che vanno ben oltre il predicato puritanesimo. E raffinato è l’uso evocativo dell’ornamento in Loos. Tra adeguatezza e ironia il progetto per la residenza parigina per Josephine Baker con le facciate a strisce bianche e nere così allusive alla voluta ambiguità dell'attrice. Ecco ancora, sul pendio di una collina, il piccolo raffinato esempio di Haus Spanner la cui pannellatura di rivestimento, dipinta di verde e distanziata da listelli bianchi verticali, rimanda al mondo dei vigneti tra i quali sorge la casa. Qui il colore, il rivestimento, gli stessi materiali sono usati in modo ora metaforico, ora simbolico; trasformano la natura mutevole delle vigne e dei tronchi e la restituiscono sotto la specie di un materiale più stabile e duraturo, un materiale da costruzione. Ancora una volta è difficile distinguere tra ciò che è ornamento e ciò che è costruzione, poiché quanto potrebbe apparire superfluo è in realtà determinante a definire il carattere dell'edificio. Lo stesso interno della casa sembra per Loos uno dei luoghi dove i diversi registri possibili di ornamento e decorazione sono ancora percorribili. Parenti prossimi del vestirsi/travestirsi e truccarsi, i riti del quotidiano esigono le loro figure: la casa come oggetto d'uso e luogo dei gesti ripetuti sopporta la citazione e anche l'eccesso di ornamento persino sui mobili d'epoca (un caso quell'inserzione di mobili in stile su Das Andere?). L'architettura deve saper suscitare sorpresa, stupore, ammirazione. L’uso della decorazione e dell’ornamento sono, in queste trasfigurazioni, anche rappresentazione esagerata, enfatizzazione e terreno di esercitazione di figure retoriche come la metafora o l'iperbole: basi, colonne e pilastri sotto sforzo si deformano rispetto alla proporzione canonica, quasi a rendere fisicamente l'immagine del peso che su di essi grava. Collarino e capitello coincidono fino a confondersi sulle massicce colonne cilindriche di Tournus; altrove è ornamento la smorfia della chiave di volta di un arco, 28 un mostro o un animale fantastico che diventano gargouille (a Chartres, Vézelay, Autun). In ogni caso decorazione resta la rielaborazione su un testo dato; per taluni, anzi, essa non è pensabile all'infuori della citazione: in questo senso è forse rifare cose già fatte, come traccia di ciò che resta dopo infiniti passaggi (gli edifici si costruiscono con altri edifici?). È anche il paradosso dell'impossibilità da parte dell’architetto moderno di inventare un nuovo ornamento. Il progetto è, in simili casi, composizione attraverso il recupero di altri ornamenti precedenti, dei quali si dà per scontato il senso, il significato: elemento simbolico e sintetico, non necessita di essere spiegato. La seconda vita di un fregio o di una modanatura che aveva già senso altrove (o che aveva senso solo altrove) e che viene reimpiegata. Per secoli poi si sono costruiti gli edifici non solo con pietre di altri edifici, ma ricomponendo decorazioni per spoliatio e cercando così di attribuire valore e legittimità al nuovo con un reperto di valore riconosciuto (cfr. Costruzione, ricostruzione). E può darsi il caso in cui il reperto ornamentale sia utilizzato per così dire correttamente, quasi mantenendo una fedeltà di posizione rispetto a quella originaria e ricomponendolo nel nuovo progetto. La tradizione dell'antiquarium e del museo lapidario arriva fino a Schinkel e all'utilizzo del frammento nella composizione. Nella corte di Glienicke il partito architettonico estremamente lineare viene completato dal frammento antico a comporre un’ideale architettura, dove tuttavia il reperto è disposto in modo indifferente alla sua originaria localizzazione. L'ornamento fa vedere o fa credere cose che non ci sono, confonde. Talvolta ornamento può persino divenire intenzionale disturbo nella percezione di uno schema statico-costruttivo, altrimenti banale oppure ovvio. Un architrave e una chiave di volta slittati, un timpano interrotto sulla cuspide (Giulio Romano), un rivestimento obliquo rispetto al riquadro che lo incornicia (Plečnik). Variazione letteraria su questo tema ancora le fughe orizzontali nell'intonaco bianco dello Schlösschen Tegel di Schinkel, che alludono in modo colto e raffinato a quella tradizione di edifici provvisori in tavole di legno come i casini da caccia in Pomerania o Sassonia. Talaltra invece ornamento inganna, imita un materiale più prezioso che non possiamo più realizzare (lo stesso Palladio costruiva le colonne in mattoni e poi le faceva stuccare e intonacare), riveste, dà illusioni. Una pratica antichissima. Le case pompeiane rimandano a un'architettura dipinta fatta di campiture, pannelli, decori che nella storia dell'architettura, passando dalla Camera degli Sposi di Mantegna a Mantova, arriva fino a Schinkel e ai suoi velari dipinti sul soffitto e ai riquadri in rosso pompeiano del grande portico dell’Altes Museum di Berlino. 29 Leo Adler Dizionario Wasmuth dell’architettura, 1929–1932 Lo studio e l’utilizzo di forme ornamentali storiche può essere considerato un tratto distintivo dell’eclettismo dell’arte europea dell’Ottocento. Rispetto al vasto ricorso all’ornamento che si fece in quel periodo, si può notare ora un atteggiamento di netta rinuncia, una caratteristica che sembra essere dettata anche dall’esigenza di oggettività e concretezza dell’architettura moderna. Da un punto di vista della storia dello stile, tuttavia, è proprio l’ornamento a fornire gli elementi più utili a stabilire il passaggio da uno stile a un altro. Da un punto di vista della storia della sua evoluzione è interessante notare come elementi che in origine avevano una funzione esclusivamente strutturale finiscono sovente con l’essere utilizzati come mera forma ornamentale. Nel corso di tale processo si perde a volte persino il ricordo dell’originale funzione strutturale dell’elemento. Lo sviluppo della forma ornamentale è strettamente legato da un lato allo sviluppo stilistico, dall’altro ai materiali e alle tecniche. Adolf Loos Ornamento e delitto, 1908 Ma l’uomo del nostro tempo, che per un suo intimo impulso imbratta i muri con simboli erotici, è un delinquente o un degenerato. È naturale che questo impulso assalga con maggior violenza l’uomo che presenta tali manifestazioni degenerate quand’egli si trova al gabinetto. Si può misurare la civiltà di un popolo dal grado in cui sono sconciate le pareti delle latrine. Nel bambino è una manifestazione naturale: scarabocchiare le pareti con simboli erotici è la sua prima espressione artistica. Ma ciò che è naturale nel Papua e nel bambino è una manifestazione degenerata nell’uomo moderno. Io ho scoperto e donato al mondo la seguente nozione: l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso. Credevo di portare con questo nuova gioia nel mondo, ma esso non me ne è stato grato. Tutti ne sono stati tristi e hanno chinato il capo. Provavano un senso di oppressione di fronte all’idea che non si possa più produrre un ornamento nuovo. Ma come, ciò che può fare ogni negro, che hanno potuto fare tutti i popoli e tutti i tempi prima di noi, è precluso soltanto a noi, uomini del secolo diciannovesimo? Tutto ciò che l’umanità ha creato senza ornamenti nei millenni passati è stato gettato via 30 Leo Adler Adolf Loos senza riguardo e votato a distruzione. Noi non possediamo più nessun banco da falegname dell’età carolingia, ma qualsiasi cianfrusaglia che recasse anche il minimo ornamento è stata raccolta, ripulita e palazzi sontuosi sono stati costruiti per ospitarla. E allora gli uomini si vergognavano della loro impotenza. Ogni età ha avuto il suo stile e solo alla nostra dovrà essere negato uno stile? Per stile s’intendeva l’ornamento. Dissi allora: non piangete! Guardate, questo appunto costituisce la grandezza del nostro tempo, il fatto cioè che esso non sia in grado di produrre un ornamento nuovo. Noi abbiamo superato l’ornamento, con fatica ci siamo liberati dall’ornamento. Guardate, il momento si approssima, il compimento ci attende. Presto le vie della città risplenderanno come bianche muraglie! Come Sion, la città santa, la capitale del cielo. Allora sarà il compimento. [...] Ebbene, l’epidemia decorativa è ammessa dallo Stato e viene anzi sovvenzionata con denaro statale. Ma per conto mio io vedo in ciò un regresso. Per me non ha valore l’obiezione secondo cui l’ornamento può aumentare la gioia di vivere in un uomo colto, per me non ha valore la frase: «Però se l’ornamento è bello...!». In me e in tutti gli uomini civili l’ornamento non suscita affatto una più grande gioia di vivere. Se io voglio mangiarmi un pezzo di pan pepato me ne sceglierò uno che sia tutto liscio e non uno di quelli a forma di cuore o di bambino in fasce o di cavaliere, completamente ricoperti di ornamenti. L’uomo del quindicesimo secolo non mi comprenderà. Ma tutti gli uomini moderni mi comprenderanno benissimo. Il difensore dell’ornamento crede che il mio slancio verso la semplicità equivalga a una mortificazione. No, illustrissimo professore della Scuola di Arti Applicate, io non mi mortifico affatto! È che a me piace di più così. Le composizioni culinarie dei secoli passati, che esibivano tutti gli ornamenti possibili per far apparire più appetitosi i pavoni, i fagiani e le aragoste, provocano in me l’effetto opposto. È con orrore che io mi aggiro in una mostra gastronomica, se mi passa per la mente l’idea di dover mangiare quelle carogne imbalsamate. Io mangio il roast-beef. Adolf Loos 31 Adolf Loos Ornamento ed educazione, 1924 Ventisei anni or sono avevo affermato che di pari passo con il progresso dell’umanità sarebbe scomparso l’ornamento dall’oggetto d’uso, un processo che si attua senza interruzione e con coerenza, e che è altrettanto naturale quanto la scomparsa delle vocali nelle sillabe finali della lingua parlata. Io però non ho mai sostenuto, come ad absurdum hanno fatto i puristi, che l’ornamento debba venire eliminato in modo sistematico e radicale. Però, dove le esigenze stesse del tempo lo hanno escluso, là non è più possibile reintrodurlo. Così come l’uomo non ricomincerà mai più a tatuarsi il volto. [...] Quanto rimane dunque di onesto e di giustificato nell’ornamento del nostro tempo che valga la pena di essere insegnato? La nostra educazione poggia sulla cultura classica. L’architetto è un muratore che ha studiato il latino. Ma gli architetti moderni sembrano piuttosto degli esperantisti. L’insegnamento del disegno deve fondarsi sull’ornamento classico. L’insegnamento classico, nonostante le differenze di lingue e di confini, ha creato l’unità della civiltà occidentale. [...] Nell’insegnamento del disegno l’ornamento classico svolge lo stesso ruolo della grammatica. Non vi sarebbe più alcun motivo di insegnare il latino se si seguisse il metodo Berlitz. Alla grammatica latina, anzi a qualsiasi grammatica in generale, dobbiamo la disciplina della nostra anima, la disciplina del nostro pensiero. L’ornamento classico porta la disciplina nelle forme dei nostri oggetti d’uso, crea una disciplina in noi stessi e nelle nostre forme e conduce, nonostante le differenze etnografiche e linguistiche, all’unità delle forme e dei princìpi estetici. E porta ordine nella nostra vita. La greca – la precisione dell’ingranaggio! La rosetta – la precisa individuazione dell’asse centrale, ma anche la punta della matita ben affilata! Heinrich Tessenow Osservazioni elementari sul costruire, 1928 L’ornamento, o la decorazione, è dovunque; ma è tanto migliore quanto meno è voluto, oppure tanto più ci appaga quanto più lo trattiamo con indifferenza. L’ornamento ha nel nostro lavoro più o meno il ruolo che hanno i modi di dire nella lingua parlata; questi sono inevitabili, riprodu32 Adolf Loos Heinrich Tessenow cono in modo affatto naturale i modi della nostra vita sociale, ma non dobbiamo affidarci troppo alla loro facile presa se non vogliamo che diventino un intralcio. [...] Potremmo dire che l’ornamento, nei casi migliori, è una specie di involontario sorriso, capace di rischiarare tutta la fatica e la serietà di un duro lavoro. L’ornamento è il risultato di tutti i momenti di stanchezza e di rassegnazione che immancabilmente si presentano nella nostra vita e nel nostro lavoro: per questo noi combattiamo l’ornamento con lo stesso impegno con cui cerchiamo di superare tutto ciò che è stanco e mediocre, pago o rassegnato. Ciò che vi è di meglio per quanto riguarda l’ornamento è l’astratto, lo sciocco o l’inesplicabile. [...] C’era una volta un uomo che per un giorno intero si era dato da fare per vivere la sua parte di storia del mondo e che la sera, dopo aver ben mangiato e bevuto, se ne stava seduto tutto contento a conversare con sua moglie, e quando la moglie si era alzata per mettere a letto i bambini, il papà si era accinto, un po’ con diligenza, un po’ con pigrizia, a intagliare la freccia del suo arco. All’incirca così deve essere nato l’ornamento; si trattava quasi di un gioco, ma in parte era anche un lavoro. Se quell’uomo quella sera non fosse già stato un po’ stanco, si presume che, invece di decorare la sua freccia, avrebbe cercato di migliorarne la sua qualità; cioè la sua forma dinamica. L’ornamento è la dimostrazione del fatto che a noi sono sempre mancate la vivacità intellettuale e la forza di discernimento necessarie per cogliere e per migliorare ciò che è essenziale e necessario nel nostro lavoro; potremmo dire che si tratta piuttosto di un mezzo lavoro, fatto prima di andare a dormire. [...] L’ornamento è sempre molto più estetico che artistico. [...] L’amore per il lavoro artigianale comprende anche l’amore per l’ornamento, non può rifiutarlo; in ogni nostro lavoro è come il nostro fischiettare e il nostro canticchiare, o, come nel muro di mattoni, un ornamento che non cerchiamo ma che dà un carattere così particolare al nostro modesto lavoro, oppure è come il papavero nel campo di grano, un secondario sorriso nel campo esteso dell’utilità, un sorriso che non andiamo a cercare, ma che non possiamo evitare e che perciò deve essere silenzioso, il più possibile secondario e timido. Heinrich Tessenow 33 Josef Frank Pier Maria Bardi Architettura come simbolo, 1931 Viaggio di architetti in Grecia, 1933 Che cos’è moderno? [...] La mancanza di ornamento, considerata come tale, è oggi altrettanto ornamentale, come l’antireligiosità è una forma di religione che, limitatamente ai bigotti, mossa con abilità può trasformarsi di nuovo nel suo contrario. Ma l’indifferenza nei confronti delle cose secondarie, la cognizione della varietà del nostro mondo, il riconoscimento dei nostri valori affettivi molto ben giustificati fanno parte delle basi della vita moderna e del suo simbolo, l’architettura moderna. Oggi (senza esprimere un giudizio morale) esistono ancora persone a sufficienza che hanno certe relazioni anche con vecchie forme. Perché forma e contenuto hanno poco da spartire tra loro. L’America ci ha dimostrato che è possibile costruire qualsiasi casa, anche la più comoda, in qualsiasi stile, senza dover rinunciare per nulla al comfort; grazie al definito e sereno stile di vita dei loro abitanti, queste case sono di gran lunga superiori ai nostri giochini formali. Moderna è la casa che può accogliere tutto quanto è vivo nel nostro tempo rimanendo però un’opera cresciuta organicamente. L’architettura moderna tedesca può essere anche oggettiva, pratica, giusta nei suoi principi, spesso persino affascinante, ma rimane priva di vita. Pini, vino, oleandri [...] Le prime colonne furono certamente tronchi d’albero, il piatto di rinforzo della testa di quelle rozze colonne suscitò l’idea del capitello: l’ordine dorico è completamente funzionale, risultato di tecnica di gente semplice che non aveva tempo da perdere. Più tardi si fanno meno guerre, la gente ha più tempo da perdere e, forse, mettendo a posto un capitello dorico non si avvide che aveva schiacciato tra trabeazione e capitello un serpente capitato lassù per caso: i contorcimenti delle due estremità del rettile generarono l’idea del capitello jonico. Più tardi ancora, la gente non ha proprio più niente da fare, e non sa come ingannare il tempo: per fortuna muore una nobile e pura giovinetta, e la servente riunite le vesti e altre suppellettili le mette in un cestino e le depone presso la tomba, con una pietra sopra, le erbe e i fiori crescono intorno al cestello; passa un architetto, guarda, e dice: – ecco il capitello che fa per me –. Era nato lo stile corinzio. 34 Josef F rank Pier Maria Bardi 35 Tipo come promessa di forma Τὺπος significa etimologicamente impronta lasciata sopra un oggetto dopo averlo premuto, segno impresso, impronta, conio; perciò ha acquistato il senso di segno, modello, esemplare. Forma esemplare, a cui si riportano gli individui con le loro varietà. Idea astratta, generale della cosa (di nave da guerra, di aeroplano). Fisionomia caratteristica: di una etnia, della famiglia. Una persona originale: un bel tipo, un brutto tipo. Carattere di stamperia, timbro, piombo per la stampa. Tipo riguarda inoltre l'identità, cioè l'essere identico oppure, in senso lato, il riconoscersi in un mondo identificabile per alcuni suoi tratti comuni. Identità e variazione camminano parallelamente. Identità evoca per noi contemporaneamente il concetto di variazione, identità è il persistere della cosa attraverso il variare degli attributi, degli accidenti, dei modi. Compito dell’entomologo o del botanico è descrivere, classificare e ordinare, ridurre a priori in un sistema. Oggetto e scopo del loro lavoro è, tra l’altro, il tipo (registrare specie diverse, aggiungerne di nuove e sconosciute, studiare differenze e analogie). Ma nel loro caso il tipo è un punto di arrivo. Quale uso invece fa l’architetto del tipo? È anche nel nostro caso un risultato, oppure piuttosto un mezzo? E il nostro lavoro ha come obiettivo l’imbalsamazione dell’oggetto indagato, oppure il suo avanzamento, la vita nuova e il progetto? Dedichiamo queste riflessioni alla dialettica continua tra modello e tipo, cercando di sostenere le ragioni del tipo. E questo non perché le ragioni del modello siano meno valide, ma perché dal concetto di tipo crediamo di avere più cose da imparare. Il modello è un oggetto da ripetere tale quale. Il tipo al contrario ci fa pensare a una traccia secondo la quale ognuno può concepire oggetti imparentati sì, ma non simili (definirlo come schema lo farebbe cristallizzare in un’immagine non ulteriormente sviluppabile). Il modello è congelato. Esso è difficilmente modificabile. Implica, in generale, la fedeltà a una regola. Al contrario, la vaghezza del tipo è un ventaglio di possibilità. Tutto è più o meno vago nel tipo, ancora disponibile. Esso è talvolta una idea astratta della cosa, talaltra invece 37 assume una valenza operativa immediata. Per questo tipo è concetto ambiguo e non univoco. Il tipo non è una forma definita esprimibile con una misura, esso è semmai un progetto di forma, esso ha a che vedere con l'immaginazione (Martí Arís, 1990). Il tipo può al massimo essere l’idea di una forma (Quatremère de Quincy). E se il tipo è privo di misura esso è tuttavia definibile con una proporzione? Il tipo ha un rapporto di scala relativamente aperto? E come varia il tipo al variare delle reciproche posizioni tra i singoli elementi che lo fanno riconoscere come tale? Tipo/tipi come continua variazione. Motivi antichi (della natura, dell’artigianato, dell’arte o dell’arte del costruire) nella loro possibilità di sviluppo e di fusione sono la promessa di una infinita quantità di variazioni (unendliche Mannigfaltigkeit, Semper 1860–1863). Ogni nuova creazione sembrerebbe affondare le sue radici in alcune forme fondamentali. Analogamente alle opere della natura, l’arte trova le sue radici in alcune, poche, idee basilari le cui più semplici espressioni sono certe forme e tipi originari? È in questo modo che il nuovo riesce a collegarsi al vecchio senza esserne una copia. Viene da chiedersi se sia possibile inventare nuovi tipi, oppure se essi siano nell'esperienza dell'architettura già tutti dati. Le stesse forme ritornano, seppur rielaborate? Vi è chi ha sostenuto che il ricorso al tipo avverrebbe nella misura in cui l'esigenza attuale, alla quale l'artista è chiamato a rispondere, ha le sue premesse nel passato. L'interesse per il tipo è per noi, come abbiamo visto, legato al progetto, alla trasformazione e non alla ripetizione. È il chiostro de La Tourette di Le Corbusier dove ritroviamo, trasfigurate, le regulae schizzate nei viaggi giovanili, la Certosa di Ema, il Monte Athos (Pirazzoli, 2000). Ci interessa per il nostro lavoro riconoscere quella fondamentale unità e continuità, nel processo ideativo, del momento della tipologia e del momento dell'invenzione (Argan, 1958–1967). Malgrado i numerosi tentativi di descrizione del tipo che troviamo in ogni trattato di architettura e in ogni ricerca che si prefigga di rifondare la disciplina, dobbiamo tuttavia accontentarci di riconoscere la non-descrivibilità del tipo, se non per alcune geometrie essenziali di cui possiamo, casomai, esprimere le proporzioni, ma non le misure. Ne consegue che da un medesimo tipo possono derivare risultati formali distanti tra loro e realtà architettoniche del tutto diverse. Quando il tipo incontra la misura e si precisa, perde la sua caratteristica ideale e di astrazione, cessa di essere un tipo, diviene un modello. Il tipo non esiste nella realtà, è una astrazione concettuale. Solo le trasformazioni e le metamorfosi del tipo divengono forma. Verrebbe quasi da dire che il tipo è troppo puro e concentrato per poter essere rappresentato, necessita di contaminazioni e deformazioni che lo rendono a noi più accettabile, quasi come un gas 38 perfetto che esiste solo nel mondo virtuale degli esperimenti della fisica. Il tipo, allora, è in quanto viene trasfigurato. Il tipo deve poter restare un'idea verso la quale tendere. Vi è chi ha ridotto il tipo a mera questione di geometria e di instrumento per il controllo del progetto. Nella sua banalizzazione tipo farebbe pensare alla sola visione in pianta dell’architettura. Ma sappiamo che questo è un modo sbagliato e parziale di guardare alle cose. Vi è chi invece ha cercato di ragionare sui legami tra tipo e carattere, lavorando su quella unità tecnica ed estetica della costruzione che riguarda pianta, sezione e facciata tenute insieme dall’adeguatezza delle proporzioni. Ammiriamo la ricerca di quanti, attraverso il tipo, si sono misurati con l’esercizio di conferir carattere alle proprie fabbriche (da François Blondel, Claude Nicolas Ledoux, Etienne Louis Boullée fino a Friedrich Gilly, Peter Speeth, Karl Friedrich Schinkel e Gottfried Semper). Un tempo strettamente interconnessi, tipo e carattere sono oggi distanti. Presi come siamo dalla ricerca a tutti i costi della funzionalità, del risparmio di spazi, della presunta razionalità abbiamo scambiato i mezzi per il fine. Avendo creduto che la funzionalità stessa o l'ottimizzazione dei percorsi in un appartamento fossero l'obiettivo del nostro lavoro, non sappiamo più dare un volto alle idee. Che sono, di volta in volta, un'idea di bellezza, un'idea di leggerezza o di pesantezza, di solidità o di fragilità e così via. Analogamente al pittore che cerca di rappresentare l'idea della femminilità o della grazia, l'architetto deve cercare di mettere in immagine l'idea. E il tipo è, appunto, un'idea. La natura astratta e ideale del tipo fa sì che esso non sia più se stesso ogniqualvolta noi cerchiamo di rappresentarlo. L'unità e la perfezione dell'edificio alludono all'unità e alla perfezione del corpo umano. Con Blondel abbiamo imparato a ragionare sul parallelo tra uomo e costruzione, un rapporto proporzionale perfetto, unito, classico, immutabile. Alle parti del corpo si sovrappongono le parti dell'edificio, si conferiscono agli elementi dell’architettura termini analoghi. La questione di conferire un carattere all’edificio si interseca poi in Boullée con la capacità di esprimere con la pietra gli stati d’animo. È il far di pietra la natura, mettere in opera la luce e l’ombra, alludere al passare delle stagioni, persino la capacità di evocare grandezza, serenità, gioia, tristezza, austerità (quasi una via per un’architettura sensibile e affettuosa?). Quando Boullée vuole descriverci il suo progetto per la biblioteca parla dei libri e solo dei libri, la figura che dovrebbe accomunare tutte le biblioteche. A suo modo, egli descrive un tipo: la grande e semplice idea di Boullée è la biblioteca come casa dei libri. I muri sono ricoperti di libri. 39 La grande volta dà l'impressione dell'unità del sapere raccolto in un unico luogo. Qualche decennio più tardi nei manuali di architettura alla voce biblioteca i libri non si sarebbero più visti; si sarebbero invece prescritte le misure precise della sala di lettura, dei depositi, degli spazi di servizio. La cultura positivista della classificazione e del catalogo ha sostituito la ricerca, impedito la trasfigurazione, trasformato il tipo in modello. Congelata la bellezza possibile in schema, immagine ripetibile con facile pigrizia. Le sistematizzazioni di Jean Nicolas Louis Durand sono state ridotte a modelli, mille volte ricopiati e non invece impiegati come traccia da cui prendere le mosse. Per tipi si classificano le architetture del passato e le città costruite. A interessarci non è però la pura registrazione dello stato delle cose, bensì la sua disponibilità alla trasformazione. L’analisi tipologica dei tessuti urbani è storia operante, atto preliminare per scomporre e ricomporre fenomeni, fatti e figure, promessa di future architetture della città. Ricostruire la successione dello sviluppo urbano nel tempo consente di leggere le persistenze, le permanenze e le sostituzioni della residenza (Lavedan), le addizioni, i ripensamenti persino. Per Saverio Muratori l'individuazione del tipo edilizio e dei suoi caratteri-base nell'insieme dalla realtà edilizia urbana significa saper leggere il contesto del tipo edilizio nella sua linea di sviluppo e stratificazione storica, nel linguaggio e nella tecnica dei singoli momenti, nel senso irreversibile e condizionante della storia. Il rilievo tipologico trasforma lo studio dei caratteri distributivi degli edifici dalla pedante tassonomia positivista, finalizzandolo alla trasformazione e allo sviluppo futuro. Nella cultura architettonica italiana degli anni Sessanta la ricerca sulla città di Venezia avviata da Muratori indica la strada per un importante filone di studio. Tipo come principio di architettura (Aldo Rossi). È del resto la lezione della città classica europea di cui anche la città gotica fa parte appieno, malgrado i luoghi comuni. Possiamo oggi più serenamente riflettere sul concetto di tipo, riconoscendo le contraddizioni che ne hanno caratterizzato l'applicazione e anche il fraintendimento. Una cattiva lettura proprio dei testi di Aldo Rossi, di Giorgio Grassi o di Carlo Aymonino ha fatto spesso confondere le ricerche sul tipo edilizio con il solo rilievo in pianta degli edifici, riducendo l'analisi urbana a un catalogo di edifici da imitare per ingenua ripetizione. L'affermazione giusta secondo cui analisi e progetto devono coincidere (l’analisi è già progetto) è stata spesso presa come pretesto che nascondeva una pigrizia inventiva o un’avarizia didattica che ha tradotto l'oggetto dell'analisi in progetto tout court. La necessità di risarcire anni di approssimazione e di approccio empirico alla città, leggendone invece lo 40 sviluppo e la stessa vita delle forme in termini di oggettività e di ripetibilità, ha talvolta fatto passare in secondo piano il fatto che alla base del progetto, sempre, vi è un’immagine, un atto sintetico. La cultura delle avanguardie ha spesso confuso le carte, spingendo a immaginare l’architettura e la città con metodi propri delle scienze sociali, biologiche e matematiche. L'illusione che anche l'architettura potesse far parte delle scienze esatte ha fatto sopravvalutare nel progetto il ruolo della manualistica tipologica dei caratteri distributivi o degli elementi costruttivi dell'architettura. L'impiego di standard o cataloghi tipologici non è poi di per sé stato garanzia di oggettività né, tantomeno, di quella sincerità dell'architettura che le avanguardie propugnavano. La razionalità dell'architettura, infatti, non sta solo nel metodo o nel processo, bensì nel risultato finale. E non è detto che sia sempre una virtù (Logic is hell, pare abbia gridato Bertrand Russell). È casomai la capacità di mettere in opera una costruzione logica, che non lasci alcun passaggio sospeso o indicibile (anche sotto la forma estrema di un razionalismo esaltato). Altri Moderni avevano cercato invece di tenere aperta una porta su mondi che a noi paiono più prossimi alle narrazioni, alle figure, ai miti e alle scene degli Antichi e di alcuni grandi Maestri del passato. Gli ultimi trent’anni hanno comunque mostrato come i malintesi nell'uso improprio del tipo abbiano comportato il travisamento e lo scivolamento del tipo verso il modello. Sono state messe in crisi le visioni ideologiche del mondo basate su una astrazione statistica di dati contestuali, che venivano a loro volta proiettate su una impostazione tipo-morfologica del rapporto tra architettura e crescita urbana. C'è chi ha parlato a questo proposito di una cadaverica tipizzazione del tipo. Cioè a dire la tendenza a non generare nuove strutture formali, al contrario congelando la sua potenzialità e accettando, consapevolmente o meno, che con i tipi ridotti a modelli potesse essere delineata una risposta utile alle trasformazioni della città. La critica è qui all'impiego di un repertorio formale bloccato, molto facile da ripetere in maniera letterale, aproblematicamente, senza alcun avanzamento della disciplina. A differenza di alcuni modelli, la cui forza è stata la trasmigrazione dichiarata da una regione all'altra (dalla campagna veneta a quella inglese, dal Canton Ticino e dalla Lombardia fin sulle rive della Neva, oppure da Firenze alla Monaco di Leo von Klenze), i tipi edilizi e i caratteri morfologici non sono generalizzabili. E se al mutare del luogo lo sviluppo del modello sembra essere indifferente, non così avviene invece per le trasfigurazioni del tipo. Esso pretende uno studio caso per caso, approfondito città per città, in ogni singola parte della città con caratteri ogni volta particolari. Da questa analisi potremo ricavare 41 costanti proprie di quella particolare realtà, di quella città (sia che esse siano reperite nell’antico impianto, sia che esse siano state inventate per la città nuova). Così potremo capire il carattere, l'andatura, la cadenza di quella città, i suoi tratti inconfondibili, la sua identità. Nelle riflessioni sulla permanenza di alcuni elementi urbani nel corso del tempo, ruolo particolare spetta ai monumenti. Anzi, chiamiamo generalmente monumenti quegli edifici pubblici che in virtù della loro riconoscibilità planimetrica e formale sono rimasti punti di riferimento nel successivo sviluppo della città o del paesaggio. Questo non equivale a riconoscere per esempio al monumento carattere di perenne fissità o impossibilità di mutare nei secoli (ci interessa piuttosto la sua disponibilità alla trasformazione – cfr. Costruzione, ricostruzione). Lo scenario è quello di città fatte di modificazioni, traumi, distruzioni e accrescimenti. Si tratta di prenderne atto con serenità e non di tracciare giudizi sulla bellezza perduta. A loro volta i monumenti sono stati alterati, corretti, risignificati con impronte altre o diverse da quelle originali, eppure la loro peculiarità è nel lasciar sempre leggere la traccia e l’impianto originale. Nella città contemporanea, tuttavia, il monumento pare sempre meno in grado di governare e dirigere i fenomeni urbani, tanto che vi è chi ha parlato, a tal proposito, di solitudine dei monumenti (Zermani, 1995). E se è ancora vero che il monumento è maestro, sempre più rarefatta è la sua capacità di generare architettura della città, sempre maggiore, al contrario, la tendenza a imbalsamarlo senza saperne cogliere la lezione profonda. Ciò che oggi constatiamo, del resto, è una diffusa incapacità di porre ascolto alle singole realtà riversandole nel progetto, trasformandole in figure in grado di restituire identità al paesaggio e alla città. L'analisi tipologica ha talvolta ridotto realtà urbane complesse e feconde a pochi tipi edilizi. Ciò ha fatto passare in secondo piano la composizione della città, le sue figure urbane, i suoi fenomeni complessi non riducibili a una meccanica ripetizione di singoli elementi. Per diversi anni, nelle scuole di architettura italiane, l'analisi e l'indagine tipologica urbana sono state considerate un passaggio obbligato nella formazione dello studente architetto. Il rilievo tipologico è in molti casi divenuto fine a se stesso, puro esercizio di catalogazione. Il mestiere dell'architetto si è impoverito, ridotto a pedanti questioni di metodo, ormai incapace di comporre forme. L'analisi tipologica così concepita è un pretesto per spostare nel tempo il momento in cui gli studenti giungono al progetto. Sembra così che esso sia una conquista raggiungibile solo dopo essere passati attraverso un sacrificio, una distillazione noiosa. Al contrario si vorrebbe qui sostenere le ragioni dell'inutilità di tale bagnomaria che si spaccia come propedeutico 42 al progetto. Il tipo deve poter restare un'idea verso cui tendere e non un modello da ricopiare. Da subito gli studenti dovrebbero essere abituati a manipolare il mondo delle forme, a trattare con disinvoltura i modi della composizione. Da subito, prima che i plagi o i condizionamenti maniacali di alcuni docenti inibiscano la loro capacità di iniziativa e di creazione. A differenza del classificatore paziente, entomologo o botanico, che con zelo redige descrizioni e sistematizza l'esistente, l'architetto usa la storia, forza la storia. Architettura è vedere le cose e trasferirle (Giorgio Grassi). È noto che a chi gli chiedeva come avesse acquisito le proprie conoscenze, Le Corbusier rispondeva, con impunito orgoglio, di essere un grande voleur. Così l’architetto, artista pratico facitore di forme, trasforma la storia in memoria. Su questa memoria lavora con l'immaginazione producendo metamorfosi. La sua abilità consiste ogni volta nel trasfigurare ciò che è o che è già stato. C'è un'intuizione che gli fa trasfigurare la realtà, che lo fa tendere a quell'idea. 43 Etienne-Louis Boullée Gottfried Semper Architettura Saggio sull’arte, 1781–1793 Lo stile,1860–1863 Ascoltiamo un filosofo moderno: tutte le nostre idee, tutte le nostre percezioni – egli ci dice – ci provengono dagli oggetti esterni. Gli oggetti esterni producono su di noi impressioni differenti a seconda della minore o maggiore analogia che essi hanno con il nostro organismo. Aggiungo che noi definiamo belli gli oggetti che hanno il massimo d’analogia con la nostra struttura, e che noi respingiamo quelli che, privi di questa analogia, non si adattano al nostro modo d’essere. [...] Abbiamo annotato come le immagini ridenti dell’autunno siano prodotte dall’estrema varietà delle cose, dal contrasto della luce e delle ombre, dalle forme pittoresche e varie, dalla singolarità e la bizzarria dei colori variopinti e screziati. Ne segue, da questa considerazione, che per produrre delle immagini gaie e ridenti, bisogna conoscere l’arte di renderle variate; in questo caso si deve contare sulle risorse dell’immaginazione. È l’immaginazione che ci presenta le cose in modo nuovo e stimolante e che rende diverse le composizioni. È essa che sa impiegare le forme pittoresche, in modo da travestirle e renderle singolari. È essa che pone contrasti di luci e di ombre in modo da rendere effetti singolari e che con abile miscuglio introduce la screziatura nei colori. È essa ancora che mediante un’analogia felice e ragionata, con proporzioni svelte e slanciate, dà all’architettura un carattere di leggerezza. È essa infine che con una combinazione ingegnosa e ordinando le cose in modo inatteso forma degli spettacoli di sorpresa e presenta la stupefacente attrazione della novità. [...] Abbiamo notato che, nella stagione invernale, gli effetti della luce sono tristi e opachi; che gli oggetti hanno perso il loro splendore e il loro colore; che le forme sono dure e angolose e che la terra spoglia offre un sepolcro universale. Segue da queste osservazioni, che per produrre immagini tristi e fosche bisogna, come io ho tentato di fare nei monumenti funerari, presentare lo scheletro dell’architettura con una muraglia assolutamente nuda, offrire l’immagine di una architettura sepolta, e non impiegare che proporzioni basse e calanti nella terra, dar forma infine con materie che assorbano la luce al nero quadro dell’architettura delle ombre disegnata con l’effetto di ombre ancora più nere. Questo genere di architettura fatto con le ombre è una scoperta artistica che m’appartiene. È una nuova strada che io ho aperto e, se non mi sbaglio, gli Artisti non si rifiuteranno di percorrerla. Così come la natura nella sua immensa ricchezza è molto parsimoniosa nei suoi motivi, così come dimostra una costante ripetizione delle sue forme fondamentali (Grundformen), così come però queste vengono modificate mille volte secondo i gradi di sviluppo delle creature e secondo le loro diverse condizioni di esistenza, in parte ridotte o allungate, in parte dettagliate, in altre solo accennate, così come la natura ha una sua storia evolutiva, al cui interno i vecchi motivi rispuntano ancora in ogni nuova creazione, allo stesso modo alla base anche dell’arte vi sono solamente poche forme regolari e tipi provenienti da una remotissima tradizione che, in un continuo riapparire, presentano tuttavia una infinita quantità di variazioni e hanno, come quei tipi della natura, una loro storia. Nulla è puro caso, ma tutto è condizionato da circostanze e rapporti. 44 Etienne-Louis Boullée Giorgio Grassi Architettura lingua morta, 1988 Il tipo è promessa di architettura. Saverio Muratori Studi per una operante storia urbana di Venezia, 1960 L’individuazione del tipo edilizio e dei suoi caratteri base nella congerie della realtà dell’edilizia urbana, significa saperne leggere il contesto nella sua linea di sviluppo e stratificazione storica, nel linguaggio e nella tecnica dei singoli momenti, nel senso irreversibile e condizionante della storia. Aldo Rossi Terreni della tipologia, 1985 La tipologia di un edificio è un insieme di dati geometrici, tecnici e storici che stanno alla base di ogni progetto. [...] Pensare che gli studi tipo-morfologici siano la via maestra della architettura potrebbe essere un altro modo per chiudere la libertà della formazione del giovane. Gottfried Semper Giorgio G rassi Save rio Muratori Aldo Rossi 45 Carlos Martí Arís Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura, 1990 Nella nostra definizione di tipo ci siamo riferiti principalmente alla sua dimensione concettuale, presentandolo come un enunciato logico capace di trascendere il livello di mero schema al quale lo riconducono altre impostazioni. Lo schema, secondo la classica definizione kantiana, è una rappresentazione che deriva dal campo empirico della percezione ed è in grado di agire come mediazione tra fenomeni e categorie. Pertanto, sebbene lo schema sia un’immagine che conduce al concetto o procede da esso, non è propriamente il concetto ma, tutt’al più, la sua rappresentazione grafica. È innegabile che lo schema, potendo riassumere con immediatezza ed evidenza alcune caratteristiche della forma, costituisce uno strumento operativo fondamentale per il progetto architettonico. Però questo non deve indurci a identificare lo schema con il tipo. Questa identificazione ha come conseguenza la fossilizzazione del tipo in un’immagine, l’impoverimento dei suoi contenuti nonché la riduzione delle sue capacità di trasformazione. Ma da queste variazioni, come da quelle interessanti la distribuzionecomunicazione degli spazi interni, colle loro misure specificate, coi loro materiali e colori anche solo parzialmente diversi, col modo diverso di tagliare le finestre – in verticale, per esempio, o in orizzontale – e di collocarle nella parete della stanza o nella facciata, possono derivare risultati diversissimi. Ludovico Quaroni I terreni della tipologia, 1985 Ammonizione contro l’uso sbagliato del tipo Effettivamente negli ultimi dieci anni, e forse più, gli studi compiuti sui tipi storici d’una città portavano gli architetti a prenderli come modelli per le case da costruire oggi, non tenendo conto di tutti i cambiamenti che sono avvenuti, nel nostro modo d’essere e di abitare, di costruire e di spendere il denaro, dal secolo XIII, poniamo, fino a oggi. Paolo Zermani Ludovico Quaroni Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura, 1977 Genericità dei termini ‹modello› e ‹tipo› La parola ‹tipo› alle volte [viene] usata con accezione generica (quando ad esempio si parla genericamente di case a schiera, di case in linea ecc.), simile a quella di ‹modello› in matematica. [...] Abbiamo accennato al doppio significato della parola ‹tipo›: risulta quindi evidente come, prendendo il termine nel suo significato più generico di modello tipologico, si possano avere realtà architettoniche del tutto diverse: l’insula romana, la casa tradizionale olandese sui canali di Amsterdam, di Haarlem o di Delft, la terrace-house georgiana di Londra, Edimburgo o Bath, sono tutti esempi riconducibili al tipo ‹a schiera›, cioè a un modello di casa unifamiliare articolata in verticale su più piani. Questa similitudine tipologica ha dato la possibilità, in molti casi, di passare dalla casa medievale alla casa illuministica o addirittura alla casa razionalista utilizzando le stesse misure del lotto, la stessa dimensione di facciate sul fronte e sul retro, gli stessi due muri ciechi sui lati: solo il numero dei piani e le altezze degli stessi sono stati suscettibili di variazioni e fino a un certo punto. 46 Carlos Martí Arís Ludovico Quaroni Identità dell’architettura, 1995 I Monumenti sono oggi, nella maggior parte, delle entità isolate, attorno alle quali nasce un contesto diversamente motivato. L’edilizia minore si è sempre adattata al Monumento, è sempre vissuta del necessario riflesso, ma ora il Monumento è realmente isolato, non solo dal punto di vista topografico, non determina più processi di strutturazione consequenziale del paesaggio, né principi di imitazione stilistica, elementi che potevano considerarsi positivi nella città antica. Ludovico Quaroni Paolo Ze rmani 47 Pianta, Raumplan e grande pianta Nelle descrizioni a posteriori di dizionari ed enciclopedie, pianta è tecnicamente la rappresentazione di una sezione orizzontale di un edificio contenente tutte le informazioni particolareggiate di larghezza, lunghezza e profondità che in relazione con l’alzato (prospetto o sezione) rendono comprensibile materialmente la costruzione. Secondo questa interpretazione la pianta potrebbe essere un semplice elemento che rappresenta e comunica, quasi uno strumento neutrale. Chi può accontentarsi di descrivere il reale è servito. L’architetto che invece intenda imparare a trasformare le idee in forme e volumi deve sapere che la pianta appartiene alle mosse di apertura. Ancor prima di essere tracciato che prende forma sul piano, la pianta è idea formata nella mente. Idea allo stato puro sul punto di trasformarsi in immagine concreta. Ordine e geometria nella forma più concentrata, sottratti ancora per pochi istanti alla metamorfosi che brucia il concetto nella figura, il pensiero nell’espressione (pensiamo per concetti, ci esprimiamo con figure?). Ordine, disposizione, composizione. Pianta, immaginazione e disciplina secondo Le Corbusier (1923). Daniele Barbaro nel commento ai dieci libri dell’architettura di Vitruvio (1567) descrive l’unità della costruzione e la non separabilità di ichnografia (pianta), orthografia (alzato) e sciografia (sezione). Così l’architetto forma nel suo pensiero un nucleo condensato dell’opera che proietta poi, disegnandolo, in queste tre maniere secondo le quali l’intenzione prende corpo. E se la ichnografia estrinseca la collocazione delle parti, essenziale è che l’elevazione sia conforme al tracciato della pianta. Altrimenti non sarebbe una istessa cosa quella che nasce e quella che cresce: il che sarebbe grave errore, contra la natura delle cose. Alla fine l’edificio sarà organismo complesso e articolato, frutto di un bilanciato equilibrio tra tensioni. Anche la più elementare delle costruzioni rimanda a un sistema. L’analogia con la vita naturale evocata dal Barbaro allude al concetto di sistema cui il dispositivo della pianta tende: nelle piante e ne gli animali si uede quello che nasce e quello che cresce esser lo istesso. Organismo, per l’appunto, cui non è possibile aggiungere alcuna altra parte senza modificare il tutto. E se è chiaro che la pianta corrisponde concretamente al tracciato di base che sul 49 piano definisce il futuro edificio, ci interessano quelle definizioni che evocano non solo la capacità di suddivisione dello spazio, per così dire le qualità geometriche della pianta, ma anche le analogie con la figura umana. Nella nota lettera di Raffaello al Papa Leone X il tracciamento delle fondamenta si associa alla figura della pianta del piede e su come essa occupi sul terreno quello spazio che è fondamento di tutto il corpo. Ma se già si è accennato al tema dell’impronta a proposito del tipo, occorre qui approfondire il passaggio secondo cui quell’idea generatrice, quel fascio di idee e intenzione integrata in questo fascio di idee, a differenza del tipo, ha come destino di incontrare la forma concreta, divenendo spazio, distanza, enfilade traguardata, vuoto bilanciato da pieni (per questo la pianta non coincide con il tipo edilizio, anche se la pianta è uno dei modi che noi abbiamo per riconoscerlo). L’idea tradotta in realtà è costretta a misurarsi con l’esperienza e necessita di figure che la esprimano. Tanto peggio per chi è privo di immaginazione, tuona Le Corbusier nella prima delle tre avvertenze agli architetti di Vers une Architecture. L’immaginazione non porta da nessuna parte se non è temperata dalla disciplina, e senza pianta, senza disciplina cioè, vi è solo disordine e arbitrio. Tendenziosamente potremmo rileggere Vitruvio definendo con ordine la gerarchia degli obiettivi che ci si è prefissati di raggiungere (la classificazione delle intenzioni), mentre con disposizione intendiamo la capacità di tenere insieme le parti e il tutto. La pianta ha delle regole. Procede da dentro a fuori. Anche l’esterno è un interno. Abbiamo percezione dello spazio in quanto è delimitato. Si costruisce con gli elementi architettonici che sono la luce, l’ombra, il muro e lo spazio. In questa oscillazione tra idea prima del farsi materiale e concreto, e dispositivo operativo che presiede alla regia dello spazio è il carattere peculiare della pianta. Un andirivieni continuo tra idee ed esperienza, che caratterizza del resto altre questioni su cui si ragiona pensando allo stato dell’arte del fare architettura oggi. Problemi a prima vista piuttosto desueti che vengono qui ancora una volta trattati nella convinzione che le ragioni del progetto scaturiscano più da un continuo scambio con la teoria che non dalla rincorsa di esperimenti ansiosi di ricominciare da zero. È il progetto che ogni volta si rinnova e pone questioni inaspettate, non la disciplina. Due prospettive distinte separano quanti pensano al progetto come procedura e sequenza di risposte a una serie di problemi funzionali e distributivi (illudendosi che il buon risultato derivi dalla garantita sommatoria di pratiche ripetute meccanicamente) e quanti invece, ragionando sulla composizione, continuano a ritenere che il nostro mestiere deve tendere 50 al raggiungimento di quell’unità formale e funzionale della costruzione oltre il puro soddisfacimento delle questioni immediatamente utili e necessarie. Chi dice ordinare, dice comporre: è in questo modo che parliamo di pianta, ma alludiamo a pensare classificare trovare-ritrovare. Se è vero che l’architettura deve assolvere in modo plausibile in primo luogo a un compito pratico, proprio partendo da quella motivazione rigorosamente funzionale, non va dimenticato che essa ha il compito di mettere in opera lo svolgimento appropriato del tema. Obiettivo è appunto l’unità tecnica ed estetica della costruzione. Architettura come arte pratica che lavora per la messa in opera di un immaginario tecnico (tecnica e arte hanno del resto comune origine). Il funzionalismo ingenuo si impegnò con enfasi militante per scindere questi due aspetti, cercando di spogliare l’architettura da quelle figure retoriche, elementi evocativi, simboli che sono parte sostanziale nel ruolo rappresentativo dell’edificio. Tale indebolimento del sistema eloquente non sembra essere stato compensato da una maggiore trasmissibilità, ha semmai provocato una nuova estetica che si ritrova nell’indifferente anything goes (qualcuno forse un giorno rimetterà al giusto posto la presbiopia ideologica e presuntuosa di una parte del Moderno che si illuse di essere mondo nuovo non accorgendosi di trovarsi invece tutto dentro le estreme conseguenze della cultura positivista). La pianta è la messa in opera di una singolare coincidenza programmatica (l’organizzazione spaziale analoga del Danteum di Terragni e Lingeri come viaggio iniziatico verso la luce). È nella pianta che si compiono le scelte e si distribuiscono i pesi della forma costruita. La pianta, disegno destinato a non essere mai esperito nella sua completezza come vera e propria parte dell’edificio (Gallo, 1993), seleziona gerarchie e dispone gli spazi secondo un ordine definito. Vi sono epoche in cui la coincidenza tra idea e programma precipita in forme e tipi molto chiari e riconoscibili come per esempio nel programma dell’ Alberti per la chiesa ideale. L’edificio a pianta centrale isolato e su un piedistallo diviene simbolo della massima perfezione, ove il programma ideale di unità, infinita essenza, uniformità e giustizia divina incontra la forma circolare perfetta, dominata da una cupola emisferica, sorretta da un ordine dorico severo. Tra i moderni solo Bramante con il tempietto al Gianicolo sta vicino agli antichi nei libri di Palladio. La pianta è antica. Essa è l’ambito dei fenomeni più stabili dell’architettura. Permanenza, talvolta (cfr. Tipo come promessa di forma). Ne parla Wittkower a proposito della geometria palladiana presentando la sequenza di piante schematiche di undici ville e citando il primo dei Quattro Libri ove si evidenzia come anco gli Antichi variarono, né però si partirono mai da 51 alcune regole universali et necessarie dell’Arte (Wittkower, 1964). L’ampia sala quasi sempre loggiata sull’asse centrale, le scale e gli ambienti di servizio disposti ai lati dello spazio centrale, le stanze simmetriche lungo i fianchi. Gli spazi tutti in progressione armonica proporzionale, non solo all’interno di ciascun ambiente, ma nelle relazioni degli ambienti fra loro. La pianta è qui generatrice e impronta di volumi coerenti. La geometria non è il fine, ma un mezzo per il controllo delle idee finalizzato al raggiungimento di quell’unità compiuta. La pianta concorre alla vocazione narrativa dell’architettura (Gallo, 1993). La pianta scandisce il racconto della sequenza di spazi. La pianta governa l’organizzazione degli spazi conferendo un ritmo preciso, le cui variazioni sul tema corrispondono alle svariate cadenze in cui si può declinare la composizione architettonica. Con Le Corbusier riconosciamo un ritmo che è di volta in volta equilibrio per simmetria e ripetizione, compensazione ottenuta dal movimento di contrari, modulazione a partire da un’invenzione plastica originaria. Per Josef Frank (Haus Beer, Wenzgasse, 1929–30) la casa diviene sequenza di spazi organizzati secondo le figure di strada e piazza. Energia: si avvita intorno alla scala e sale attratta da vani più stretti e verticali. Il movimento è centrifugo, esattamente come per i rami di un albero che hanno un’origine comune nel tronco, ma che si dirigono verso l’esterno della chioma. Quiete: negli spazi pacati che si aprono sul lato del percorso (tutti hanno un centro che invita allo stare). Una soglia, una porta, un disimpegno da cui si esce non in asse, una finestra, con la funzione di accogliere, invitare, respingere. A volte, per raggiungere una sensazione, il suolo si alza di un gradino (Le Corbusier, 1923). La pianta nello spazio è Raumplan. La grande intuizione di Adolf Loos. Non esiste più un piano terra, un piano nobile o una cantina. Ci sono unicamente spazi in collegamento continuo. Ma non è il fluire di Frank. Nella composizione più generale si articolano frasi, motivi, sequenze, sistemi sottomessi all’unità e pure a questa tendenti. Nel Raumplan l’economia degli spazi si salda all’unità complessiva della costruzione. Anche per Loos la casa si costruisce dall’interno all’esterno, ma nei suoi lavori vi è sempre una figura unitaria che la tiene insieme, a differenza delle case di Frank. Laddove quest’ultimo scomponeva spazi, piani, livelli, corpi aggiunti e equilibri dinamici tenuti insieme da figure che per non sciogliersi dovevano non fermarsi mai (l’architettura si istituisce a metafora del movimento con piante garbatamente squilibrate), nella composizione loosiana vi è a un certo punto un gesto che tiene insieme il tutto con arte antica. Come Palladio. Come Schinkel. Sappiamo che per comporre dobbiamo smontare, ordinare, disporre. Siamo tante cose contemporaneamente. Ciò 52 che si oppone converge, e la più bella delle trame si forma dai divergenti, e tutte le cose sorgono secondo la contesa (Aristotele, Etica Nicomachea). Ecco che tutto si ri-compone. I contrasti, le giustapposizioni tra i singoli elementi trovano un motivo superiore per non sciogliersi. Le scale che si avvolgono a spirale o che si distendono su enfilade virtuali di spazi sovrapposti o incastrati sono in Loos centrate su un nucleo interno: la biblioteca, la stanza della signora ecc. Se prendessimo a prestito concetti familiari agli studiosi di grammatica della musica potremmo qui riconoscere che la scala è il tema, intendendo con ciò quel motivo che è di così netta riconoscibilità da essere il protagonista o il nucleo generatore di una composizione. Il semperiano equilibrio tra tecnica e figura incontra nel Raumplan la necessità di economizzare gli spazi e il loro star dentro la figura compatta che ci annuncia la casa, in linea di massima un cubo. Vi è chi ha enfatizzato il valore economico della pianta nello spazio (Kulka, 1931). A Loos sembra però interessare soprattutto come la composizione riesca a tenere insieme questi mondi dissonanti. Casa isolata è qui un modo di vedere la città e il mondo. Nel Raumplan loosiano mai una scala che si ripeta sovrapposta a se stessa, come invece accade nei quartieri della città borghese (si faranno anche quelli – sì che si faranno, ma con quello spirito di servizio che obbligherà il Baumeister a compiere un passo indietro). Lo stesso arredamento è dispositivo per misurare lo spazio e i riti domestici. Non è giustapposto al muro, ma pensato come muro di legno o di stoffa. Scansione coerente della sequenza di spazi, sempre consonante e mai in contrasto. Modulo di parapetto, montante di balaustra, riquadro di anta, cielino di pianerottolo sono pensati da costruttore facitore di spazi e non decoratore. E se a proposito dei movimenti che portano alla pianta potremmo pensare alla figura di una partita a scacchi, Loos ha voluto farci evocare nel Raumplan la partita a scacchi nel cubo (La casa isolata, 1989). La sfida è fare il vuoto con il tutto pieno? Vi è chi ha, a tal proposito, cercato anche di istituire un parallelo dialettico con le ricerche di Le Corbusier sulla liberazione della pianta dalla schiavitù del muro perimetrale e dalla figura tradizionale della stanza rettangolare o quadrata. Lasciando la questione aperta possiamo però dire che a maggior ragione dopo l’invenzione della pianta nello spazio, non possiamo così tranquillamente affermare che il dispositivo della pianta, strumento di controllo orizzontale del progetto, sia lo scenario esaustivo entro il quale si apre e si chiude l’intera esperienza della composizione. Solo il progetto saprà di volta in volta mettere alla prova i dubbi o aumentare le incertezze (Raumplan versus Plan Libre nella antinomia indagata da Stanislaus von Moos e Max Risselada). 53 Grande pianta, composizione. Grande pianta non è una pianta grande. Grande pianta è composizione al livello più alto. Comporre come arte del tenere insieme disgiungendo. Abbiamo imparato come in architettura sia più difficile scollegare e disgiungere che non collegare e riunificare (Tessenow, 1916). Comporre significa anche saper rendere ogni cosa necessaria all'altra, ma al contempo far sì che ciascuna cosa sia pure se stessa. Non è un caso che Le Corbusier associ al ragionamento sulla pianta il ragionamento sul piano come programma e disposizione strategica che allude a un organismo complesso (in taluni casi antichi segni in relazione con altre dimensioni conformi, la relazione col cosmo, l’incontro tra l’architettura illuminista e le culture orientali – Chandigarh). Un palazzo, che come nell’analogia albertiana, oscilla tra l’essere piccola città o grande casa. I palazzi dell’imperatore sulle rive del Mediterraneo, figure sul limite oltre il castrum e verso la città. Spalato, Ravenna. La città-mondo col teatro della memoria di Adriano a Tivoli (forse la prima città analoga?). La villa romana come principio di società e di città, sia che fosse grandiosa residenza suburbana, sia che costituisse l’avamposto in terre lontane di una aristocrazia agraria. Per frammenti Palladio costruisce magioni nella campagna veneta, ma nei suoi libri sono la villa degli Antichi. L’impianto grandioso di Villa Thiene a Quinto Vicentino, la cosmogonia di Villa Trissino a Meledo. E se il palazzo di città si sviluppò intorno alla corte, persino nella forzata riduzione di impianti a elle come la piccola casa dello stesso Palladio a Vicenza, nella villa prevale l’asse. L’asse è ciò che mette ordine nell’architettura. L’ordine è la gerarchia degli assi, da cui la gerarchia dei fini, la classificazione delle intenzioni (Le Corbusier, 1923). Dal principio della corte intorno a cui gravita il palazzo di città nelle sue varianti memore della sequenza atrio/tablino/ peristilio, ai sistemi complessi che lavorano sul convergere/divergere di una pluralità di assi, fuochi, scene urbane. Talvolta figure tra città e campagna hanno una grande inerzia nella esperienza dell’architettura nel tempo (l’Ospedale Maggiore di Filarete, per esempio). Mostrano la via magari senza esperirla del tutto. Al variare delle destinazioni resta in molti casi la permanenza della grande pianta (la strada colonnata romana generatrice nel tempo del suq di Aleppo). Fischer von Erlach rivisita le figure mitiche del Mediterraneo, i grandi impianti ideali in cui confondiamo palazzo, acropoli, città. E come Palladio, Schinkel lavora su Plinio. Ri-letture e messa in opera delle descrizioni, ri-costruzioni, pensieri che filtrati attraverso Potsdam giungono per rigenerazione fino alla reggia di Orianda. La domus contrapposta all’insula. Grande pianta come struttura sequenziale e giustapposizione di piccoli e meno piccoli sistemi planetari, non iterazione di un principio astratto. Per questo forse la grande pianta è per noi 54 l’altro estremo possibile della città moderna rispetto a quelle magnifiche e progressive sorti che ancora sul nascere del Novecento fingevano ipotesi di metropoli a sviluppo illimitato. I progetti di Loos per Vienna hanno la forza della grande pianta. Nella Vienna dominata dalla Sezession riprendono Semper laddove era stato costretto a fermarsi. Gli edifici pubblici sono al contempo architettura della città e frammenti di piano incaricati di lavorare sul tema del risarcimento urbano (cfr. Costruzione, ricostruzione). Gli schizzi per la nuova stazione di Vienna o per un grandioso teatro sono sequenze di spazi pubblici articolati e complessi, gerarchie di corti e di piazze non lontane dalle terme dei Romani ridisegnate da Palladio e da Semper. Gli stessi alberghi di Loos per la Friedrichstrasse a Vienna, l’Hotel Esplanade ad Agram, il Grand Hotel Babylon di Nizza, la proposta per gli Champs-Élysées a Parigi sono prosecuzione della città e suo annuncio al tempo stesso. E se a supporto delle considerazioni sulla grande pianta già da altri (Gallo, 1993) sono stati richiamati esempi illuminanti quali il progetto dell’E42 di Marcello Piacentini (Roma, 1938) o la New Cleveland Play House di Philip Johnson e John Burgee (Ohio, 1980–83), dovremo continuare a riflettere su alcuni esempi che mostrano come l’operatività di questo concetto continui a essere feconda e a mostrare la strada. A bilancio provvisorio di un secolo appena finito vorremmo poter avere sempre presenti quei progetti che hanno lavorato su impianti urbani della città classica. È la memoria della città mediterranea che ritorna in Louis Kahn dopo il suo viaggio in Italia e in Medio Oriente compiuto sul finire degli anni quaranta: per esempio i suoi progetti per il Trenton Jewish Community Center (1955). Classical training e modern ideas si rispecchiano dialetticamente nella grande pianta del centro dando vita a una sequenza di edifici il cui tracciato antico rivive con alzati inaspettati e sorprendenti (Solomon, 2000). Sinfonia. La sinfonia è semplicemente l’adattamento della sonata a un’intera orchestra. Così scrive Ottó Károlyi nella sua Grammatica della musica. Per le grandi possibilità musicali che racchiude, specialmente per quanto riguarda i colori orchestrali e la gradazione di volume sonoro, la composizione sinfonica ha un’importanza predominante nella storia della musica. Essa è un po’ il romanzo della letteratura musicale; nel suo ambito strumentale, c’è posto per qualsiasi cosa, dal lirismo più tenero all’eroismo più esasperato. Non ci dispiace pensare a un parallelo arbitrario con la grande pianta. 55 Raffaello Sanzio Lettera a Papa Leone X La pianta si è quella che comparte tutto el spazio piano dal luoco da edificare, o – voglio dir – el dissegno del fondamento di tutto lo edificio, quando già è rasente al pian della terra. [...] e chiamasi questo disegno – come è dicto – pianta; quasi che così questa pianta del piede occupa quel spazio che è fondamento di tutto il corpo. sformazioni del processo che conduce alla pianta il tipo rimane sempre riconoscibile, anche se gli elementi si mescolano e portano così a soluzioni spesso particolarmente singolari, in cui in particolare l’architettura barocca ha trovato uno stimolo sempre rinnovato. Tipi naturali sono nati in modo analogo in tutte le categorie di edifici, sia che le architetture si siano sviluppate nel corso del tempo in figure anche sempre più complicate oppure al contrario se a seguito di una sempre maggiore specializzazione degli incarichi edilizi si siano addensate in soluzioni sempre più semplici. Leo Adler Dizionario Wasmuth dell’architettura, 1929–1932 Voce ‹Pianta› La pianta è in senso geometrico la proiezione ortogonale di una dimensione spaziale (come la distanza) su un piano usualmente orizzontale – cioè sul piano della pianta. Nella prassi tecnica la pianta è generalmente la proiezione orizzontale di un oggetto, in particolare la rappresentazione grafica di una sezione orizzontale attraverso un edificio. Nella creazione della pianta – fondamentale per la suddivisione degli spazi, per l’articolazione interna e per la formazione del corpo edilizio stesso – si intrecciano le necessità pratiche funzionali con le idee artistico-estetiche, in modo particolarmente stretto. Sono le prime che, nel tipo di edifici per cui il programma funzionale condizionato dall’uso rimane essenzialmente lo stesso oppure conosce relativamente poche variazioni nel corso del tempo, hanno come conseguenza una profonda permanenza in tutti gli sviluppi della storia dell’architettura, una permanenza che poco a poco porta a una formazione per così dire naturale di tipi e a una selezione di forme dello spazio. Si ricordano solo di sfuggita tipologie di piante per la basilica, le costruzioni a padiglione e quelle a pianta centrale, che nel loro sviluppo nel tempo vengono modificate principalmente da tre fattori: 1. necessità liturgiche; 2. materiali e strutture edilizi (costruzioni a volta!) e 3. la trasformazione delle concezioni estetiche. Queste serie di tipi vengono coinvolti su due fronti. Da una parte dall’evoluzione dei bisogni e delle necessità: nel caso della storia comparativa dell’amministrazione della giustizia ci sono esempi particolarmente evidenti negli edifici dei fori e dei tribunali. In secondo luogo mediante necessità imparentate con consuetudini di per sé completamente diverse, per cui si può citare come esempio culminante la ripresa della basilica romana per gli scopi della messa paleocristiana. Nonostante queste tra56 Raffaello Sanzio Leo Adler Le Corbusier Verso un’architettura, 1923 L’architettura non ha niente a che vedere con gli ‹stili›. Essa sollecita le facoltà più elevate, mediante la sua stessa astrazione. L’astrazione architettonica ha questo di particolare e magnifico, che, radicandosi nella concretezza dei fatti, li spiritualizza. Tale realtà è passibile di idea solo attraverso l’ordine che vi si proietta. Il volume e la superficie sono gli elementi mediante i quali l’architettura si manifesta; essi sono determinati dalla pianta. È la pianta l’elemento generatore. Tanto peggio per chi non ha immaginazione! [...] La pianta è la generatrice. L’occhio dello spettatore si muove in un paesaggio fatto di strade e di case, ricevendo lo choc dei volumi che si levano intorno. Se questi volumi sono formali e non degradati da alterazioni intempestive, se la disposizione che li raggruppa esprime un ritmo chiaro e non un insieme incoerente, se i rapporti dei volumi e dello spazio sono costruiti in proporzioni giuste, l’occhio trasmette al cervello sensazioni coordinate e lo spirito ne trae sensazioni di piacere di ordine elevato: questa è architettura. L’occhio osserva nella sala le superfici multiple dei muri e delle volte; le cupole determinano spazi; le volte dispiegano superfici; le colonne, i muri si allineano seguendo un ordine razionale comprensibile. Tutta la struttura s’innalza dalla base e si sviluppa secondo una regola impressa nella pianta: belle forme, varietà di forme, unità di principio geometrico. Trasmissione profonda di armonia; questa è architettura. La pianta sta alla base. Senza pianta non c’è né grandezza di intenzione e di espressione, né ritmo, né volume, né coerenza. Senza pianta c’è una sensazione insopportabile di cosa informe, di povertà, di disordine, di arbitrio. Leo Adler Le Corbusier 57 La pianta richiede la più attiva immaginazione e insieme la più severa disciplina. La pianta determina tutto: è il momento decisivo. La pianta non ha il disegno grazioso del viso di una madonna; è un’austera astrazione; non è che un’algebrizzazione arida. Ma il lavoro del matematico resta in ogni caso una delle più elevate attività dello spirito umano. L’ordine è un ritmo afferrabile che agisce su qualsiasi essere umano in ugual modo. La pianta porta in se stessa un ritmo primario determinato: l’opera si sviluppa in estensione e in altezza, secondo le sue prescrizioni, dal semplice al complesso, seguendo la stessa legge. L’unità della legge è la legge di una pianta corretta: legge semplice infinitamente modulabile. Il ritmo è uno stato di equilibrio che procede da simmetrie semplici o complesse o da compensazioni sapienti. Il ritmo è un’equazione: uguaglianza (simmetria, ripetizione) (templi egiziani, indù); compensazione (movimento di contrari) (Acropoli di Atene); modulazione (sviluppo di un’invenzione plastica iniziale) (Hagia Sofia). Altrettante reazioni profondamente diverse dell’individuo, malgrado l’unità di scopo: il ritmo, come stato di equilibrio. Da qui la diversità così sorprendente tra le grandi epoche, diversità che sta nel principio architettonico e non nei modi ornamentali. Nella pianta è già compreso il principio della sensazione. Le Corbusier Verso un’architettura, 1923 La pianta procede da dentro a fuori; l’esterno è il risultato di un interno. Gli elementi architettonici sono la luce, l’ombra, il muro e lo spazio. L’ordine è la gerarchia degli scopi, la classificazione delle intenzioni. L’uomo vede le cose dell’architettura con i propri occhi che sono a un metro e settanta dal suolo. Non possiamo prendere in considerazione altro che scopi concretizzabili in immagini, che intenzioni traducibili in elementi dell’architettura. Se ci si affida a intenzioni che non sono proprie del linguaggio dell’architettura, si finisce nell’illusione delle piante, si trasgrediscono le regole della pianta per errore di concezione o per inclinazione alla vanità. Fare una pianta è precisare, fissare delle idee. Significa avere avuto delle idee. Significa ordinare queste idee in modo che esse divengano intelligibili, fattibili e comunicabili. Occorre dunque dimostrare un’intenzione precisa, aver avuto delle idee a partire da un’intenzione. La pianta in qualche 58 Le Corbusier modo è un concentrato come una tavola analitica delle materie. In una forma così concentrata da apparire come un cristallo, come un disegno di geometria, contiene un’enorme quantità di idee e un’intenzione motrice. [...] La pianta, fascio di idee e intenzioni integrata in questo fascio di idee, è diventata un foglietto di carta in cui dei punti neri, che sono i muri, e dei tratti, che sono gli assi, giocano a fare il mosaico, il pannello decorativo, fanno dei grafici di stelle scintillanti, provocano l’illusione ottica. La stella più bella diventa il Grand Prix di Roma. Ora, la pianta è l’elemento generatore, «la pianta è la determinazione di tutto; è un’austera astrazione, un’arida algebrizzazione». È un piano di battaglia. La battaglia segue ed è questo il grande momento. La battaglia è fatta dello choc dei volumi nello spazio e del morale della truppa, è il fascio di idee preesistenti e l’intenzione motrice. Senza una buona pianta non c’è niente, tutto è fragile e non dura, tutto è povero anche sotto il mucchio dell’opulenza. Adolf Loos Architettura, 1909 La nostra cultura si fonda sul riconoscimento della inarrivabile grandezza dell’antichità classica. Dai Romani abbiamo derivato la tecnica del nostro pensiero e del nostro modo di sentire. Ai Romani dobbiamo la nostra coscienza sociale e la disciplina della nostra anima. Non è un caso che i Romani non fossero in grado di inventare un nuovo ordine di colonne, un nuovo ornamento. Per fare questo erano già troppo progrediti. Essi hanno derivato tutto questo dai Greci e lo hanno adattato ai loro scopi. I Greci erano individualisti. Ogni edificio doveva avere la sua modanatura, il suo ornamento. I Romani invece pensavano socialmente. I Greci non riuscivano neppure a governare le loro città, i Romani dominarono la terra intera. I Greci sprecarono la loro forza inventiva negli ordini delle colonne, i Romani applicarono la loro alla pianta. E chi sa risolvere la grande pianta non pensa a nuove modanature. Da quando l’umanità ha compreso la grandezza dell’attività classica, un solo pensiero unisce fra loro i grandi architetti. Essi pensano: così come io costruisco avrebbero costruito anche gli antichi Romani. Noi sappiamo che hanno torto. Tempo, luogo, scopo, clima, ambiente glielo impediscono. Ma ogni volta che l’architettura si allontana dal suo modello con i minori, i decorativisti, ricompare il grande architetto che la riconduce all’antichità. Le Corbusier Adolf Loos 59 Fischer von Erlach nel sud, Schlüter nel nord furono a buon diritto i grandi maestri del secolo diciottesimo. E sulla soglia del diciannovesimo secolo c’era Schinkel. Lo abbiamo dimenticato. Possa la luce di questa straordinaria figura illuminare la nostra futura generazione di architetti! Adolf Loos Josef Veillich, 1929 [...] Quando a Stoccarda io cercai di partecipare all’esposizione con una mia casa, mi fu decisamente negato. Avrei avuto qualcosa da mostrare, cioè un’abitazione i cui locali fossero distribuiti nello spazio e non sul piano, come è stato fatto finora sovrapponendo un appartamento all’altro. Grazie a questa soluzione avrei consentito all’umanità di risparmiare parecchio tempo e lavoro sulla via del progresso. [...] Questa rappresenta una grande rivoluzione nel campo dell’architettura: la soluzione di una pianta nello spazio! Prima di Kant, l’umanità non poteva ancora pensare nello spazio e gli architetti erano costretti a fare il gabinetto alto quanto il salone. Soltanto dividendo tutto in due potevano ottenere locali più bassi. E come un giorno l’uomo riuscirà a giocare a scacchi su un cubo, così anche gli altri architetti risolveranno il problema della pianta nello spazio. Heinrich Kulka Adolf Loos. L’opera dell’architetto, 1931 Con Adolf Loos venne alla luce un pensiero spaziale essenzialmente nuovo, più alto: il libero pensare nello spazio, la progettazione di spazi che stanno a livelli diversi e non sono legati a un piano continuo, la composizione di spazi in relazione tra di loro in un unicum armonioso e inseparabile, a comporre una figura economico-spaziale. Gli spazi hanno a seconda del loro scopo e del loro significato non solo dimensioni diverse, ma anche diverse altezze. Loos riesce così con gli stessi strumenti edilizi a creare più superficie abitabile, perché in questo modo ospita nello stesso cubo, sulle stesse fondazioni, sotto lo stesso tetto, tra gli stessi muri esterni, più spazi. Il materiale e il volume edificato vengono da lui utilizzati fino all’ultimo. In altre parole si potrebbe dire: l’architetto, che pensa solo nella dimensione piana (bidimensionale) ha bisogno di uno spazio costruito più grande per ricreare lo stesso spazio abitabile. In questo modo le distanze 60 Adolf Loos Heinrich Kulka all’interno della casa diventano inutilmente lunghe, la gestione non redditizia, l’abitabilità inferiore, e un tale edificio sarà di conseguenza meno economico richiedendo maggiori costi di manutenzione. [...] Solo uno riesce a creare le basi per un’economia dello spazio: Adolf Loos. E come fino a oggi si è parlato di pianta, da Loos in poi si può parlare di Raumplan. Esiste un principio fondamentale: solo quando la statica si lega con l’economia dello spazio è possibile parlare di un’architettura moderna (e parsimoniosa). Luciano Semerani La villa di Plinio. La narrazione, 1991 Ciò che colpisce nei progetti di Loos è la collocazione strategica delle scale. Ogni scala sale liberamente come se dovesse descrivere un tema del tutto indipendente: a una si aggrapperanno il salone e la sala da pranzo, all’altra lo studio del signore, il suo bagno e la sua stanza da letto, il suo vestibolo, a un’altra la biblioteca e la sala da musica, con un’altra infine si può salire, indisturbati, dalla signora. Sotto il portico esastilo e lo scalone d’arrivo a tenaglia della villa al Modena Park si dispongono cantine, dispense, cucine, alloggi per la servitù: un’organizzazione signorile dell’abitare; ma dietro il porticato uno, due, tre, quattro, cinque, sei diversi tipi di scale, una ellittica, una a C, una scala doppia, una a L, cominciano a sviluppare il potenziale insito nella loro strategica collocazione e nella loro tipologia. Come i pezzi sulla scacchiera. Tanto più quanto l’impianto è stereometrico, preferibilmente quadratico e tendenzialmente cubico, l’apertura della partita è data dal numero e dalla collocazione delle scale. La loro configurazione sfugge ragioni di simmetria e le asimmetrie dinamiche degli interni sono stabilite proprio dalle diversità tematiche che ogni nucleo-scala innesta dentro il solido geometrico. Heinrich Kulka Luciano Semerani 61 Memoria, tradizione, metamorfosi L’architetto ricorda, ma con una memoria trasfigurata e tendenziosa. La forma filtrata dalla memoria subisce una metamorfosi che la porta a essere analoga, ma non identica all’originale di partenza. Nell’architettura contemporanea la memoria parrebbe aver assunto il significato che un tempo aveva la ricerca filologica storica e stilistica. L’uso della memoria nel progetto non passa più attraverso l’imitazione degli antichi, né costituisce una restaurazione accademica. La relazione che il progetto stabilisce oggi col passato non si sviluppa più secondo sapienti citazioni di fonti storicistiche o ripetendo antichi monumenti, cioè a dire non è più immediata trasposizione di un catalogo di stili ed esempi, quanto invece svolgimento per modi analogici, secondo un intreccio complesso di articolazioni e un gioco disinibito di segni e significati, tipico dei processi mnemonici (Sabini 1993, ‹Memoria›). Una forma non si ripete mai, ma porta con sé un sottile e, talvolta, raffinato rimando al suo stampo originario. Ogni volta rinnovata, ancora reinterpretata e trasmutata, lascia però trasparire, nei casi migliori, quel cominciamento da cui prese le mosse. Persino le più recenti invenzioni possono portare con sé una memoria trasformata della propria origine. Ecco dunque quel ricordare selettivo che secondo modi del tutto particolari sa essere in costante rapporto col processo creativo. Esiste una memoria invertita dell’artista che gli consente di bruciare il passato in una metamorfosi e di fonderlo nell’opera. Accettiamo che in questo gesto egli dimentichi consapevolmente talune cose, esageri la forma di alcuni elementi, ne stravolga altri, così da ottenere particolari effetti. L’anonimo scultore medievale altera, trasforma ed enfatizza le proporzioni del capitello, lo distrae dal suo modello classico, fino a fargli rappresentare lo sforzo e la deformazione conseguente al carico che lo schiaccia (e tuttavia il canone originale resta fondamentale per coglierne il tradimento). Come per il lavoro dell’artigiano, il lavoro di quell’artista pratico che è l’architetto è sempre un’interpretazione. Nella dialettica tra adesione a un codice riconosciuto e nella sua trasgressione/tradimento è del resto inscritta tutta l’esperienza dell’architettura nel tempo. Da un lato i rigorosi partiti di Raffaello che lavorano su e con gli antichi, cercando di competere con essi e portandoli avanti, d’altro lato le opere mantovane di 63 Giulio Romano, dove troviamo tutta la consapevolezza della lezione classica ma anche la sua forzatura, la rottura controllata, la trasgressione, l’ironia. La consapevolezza di un linguaggio esperibile ormai forse solo sul limite. Entrambi però accomunati in una genealogia che seppe magistralmente leggere la lezione dell’architettura romana e con essa costruire altri edifici, altre città. Il progetto è una serie consapevole di falsificazioni. E non accade diversamente al pittore che per meglio rappresentare una montagna o restituirci una profondità sposta una cengia, trascolora un’ombra, accentua l’ansa di un fiume. Il progetto dunque non dice necessariamente la verità, ci lascia invece illudere, inganna talvolta, spiazza, seduce, evoca circostanze inaspettate. Parlare di memoria significa anche parlare di tradizione e del rapporto tra questa e l’invenzione. Come già abbiamo argomentato a proposito della memoria, tradizione non nel senso della nostalgia o della imitazione, bensì quale energia necessaria alla metamorfosi della forma (Rogers, 1958). Con Focillon riconosciamo che esistono personalità di artisti che, pur distogliendosi energicamente dal passato, hanno tuttavia in esso ritrovato antenati e ragioni di riferimento (il caso di Mies van der Rohe è in tal senso esemplare). Tradizione è la conferma di lunghe inerzie al fianco di quella energia delle mutazioni cui accenna Rogers. La storia del resto, ci ricorda ancora Focillon, non è il divenire hegeliano. La storia, e in modo del tutto particolare la storia dell’arte e l’esperienza dell’architettura nel tempo, non è una nitida sequenza di belle immagini, ma un insieme di molteplicità che recano in sé scambio continuo, diffferenti gradi di evoluzione, conflitto. Vi è un tranquillo scorrere di forme più sicure al fianco di inquiete fughe in avanti compiute in nome della sperimentazione. Tempi diversi presiedono alla vita delle forme. Crescita e distruzione corrono parallele nell’esperienza tecnica (un processo in evoluzione continua e dialettica, non una tranquilla pratica di mestiere). Al contrario del procedere per imitazione, l’attenzione a un certo modo di intendere la tradizione coincide con la laica e non ideologica disponibilità a riconoscere nel mondo delle forme compresenti diversità, variazioni, ritardi e contaminazioni. Nel lavoro sul patrimonio consolidato della tradizione riconosciamo quanti mostrano un avanzamento della ricerca. Coloro cioè che, pur ragionando sul passato non lo considerano repertorio congelato, cercando di usarlo come materia viva della propria pratica costruttiva. E così facendo mostrano la strada. Tra diversi esempi che vengono in mente, possiamo prendere il caso della chiesa di Notre Dame du Raincy di Auguste Perret. La pianta è antica/l’alzato-sezione è una sorpresa. 64 Tradizione e Maestri, dunque. Sono le forme del pensiero che accomunano gli uomini e li fanno riconoscere tra loro nel tempo, stabilendo legami molto più solidi di qualunque similitudine delle apparenze (Focillon, 1943). I Maestri che compongono queste famiglie spirituali sono uniti più da un comune atteggiamento nei confronti della vita e del mondo che non dagli esiti formali di un processo creativo. E se la trasmissione del sapere tradizionale (ancorché continuamente rielaborato e, talvolta, tradito con giudizio) è ciò che unisce nel corso del tempo le genealogie cui allude Focillon, la famiglia di Maestri che a noi preme di ritrovare sembra riconoscersi nel rifiuto delle ispirazioni estemporanee così come delle mode passeggere, cercando nell’opera d’arte più che altro il risultato di un metodo intellettuale consapevole pazientemente perseguito. Ma chi sono allora i veri allievi? L’attenzione verso l’opera dei Maestri non è mai univoca, poiché in essa convivono anime diverse. Vi sono da un lato i manieristi, i continuatori di modi, che trovano senso e ragione nel lavorare sulla permanenza di contenuti già sperimentati e nell’applicazione pratica di modelli creati da personalità emergenti. E vi sono, d’altro lato, i veri allievi, che non saranno gli imitatori, bensì quelli che del Maestro stesso avranno saputo più in profondo assimilare l’insegnamento, magari distaccandosene sul piano del risultato finale. I veri discepoli si discostano nella realtà da quanti non hanno saputo leggere il verbo, oltre la calligrafia del Maestro (Rogers, 1955). Anticipazioni veloci e gesti antichi. In questa frase dunque troviamo il senso di molta parte del nostro lavoro. In una forma o in un edificio possono convivere tempi differenti, anticipazioni ed esperimenti che corrono veloci, ma anche un lento fluire di forme più certe, forse pervenute a una fissità quasi non ulteriormente perfettibile. Questo il segreto della composizione architettonica: equilibrio dinamico derivante da una tensione sul punto di sciogliersi. Opposizione parallela di contrasti, fondata sull'unità dei contrari (la disarmonia è solo apparente, come potremmo apprendere dagli alchimisti). Essere contemporanei non basta per essere moderni. E se contemporaneo potrebbe essere solo una questione di stile, moderno non è uno stile, non un altro nuovo stile, bensì un modo di porsi nei confronti della realtà. Moderno è una tendenza intellettuale. 65 Henri Focillon Arte d’occidente, 1938 Se si considera l’ornamento non come un vocabolario stabile, non come un inerte repertorio di formule, bensì come una dialettica o come uno sviluppo articolato le cui parti scaturiscono le une dalle altre, la dialettica della scultura figurativa ripete, nel suo movimento e nella sua molteplicità, la dialettica ornamentale. Tre motivi principali, il fogliame, l’asso di cuori, con o senza una palmetta, il motivo costituito da due rametti disposti da una parte e dall’altra di un asse generano numerose variazioni ornamentali la cui forma e i rapporti reciproci si ritrovano nelle forme e nei rapporti di un gran numero di temi figurativi della scultura romanica. Henri Focillon La vita delle forme, 1943 Le forme nello spirito La memoria mette a disposizione d’ognuno di noi un ricco repertorio. E, come il sogno ad occhi aperti genera le opere dei visionari, così l’educazione della memoria elabora in certi artisti una forma intima che non è né l’immagine propriamente detta, né il mero ricordo, e che permette loro di sfuggire al dispotismo dell’oggetto. Ma questo ricordo così formato ha già proprietà sue particolari: vi ha lavorato una specie di memoria invertita, fatta di dimenticanze deliberate. Dimenticanze deliberate a quali fini e con quali misure? Noi entriamo in un dominio diverso da quello della memoria e dell’immaginazione. Presentiamo che la vita delle forme nello spirito non è ricalcata sulla vita delle immagini e dei ricordi. [...] Arte repentina delle immagini, che ha tutta l’inconsistenza della libertà; arte insidiosa dei ricordi, che disegna con lentezza delle fughe sul tempo. La forma esige di abbandonare questo dominio: la sua esteriorità, noi l’abbiam visto, è il suo principio interno, e la sua vita in ispirito è una preparazione della vita nello spazio. Prima ancora di separarsi dal pensiero e di entrare nell’estensione, nella materia e nella tecnica, essa è estensione, materia e tecnica. Non è mai indifferente. Come ogni materia ha la sua vocazione formale, ogni forma ha la sua vocazione materiale, già abbozzata nella vita interiore. Essa vi è ancora impura, cioè a dire instabile, e, fino a che non è nata, cioè fatta esteriore, non cessa di muoversi, nell’assai stretto reticolo dei pentimenti tra i quali oscillano le sue esperienze. [...] Come il musicista non sente dentro di sé il disegno della sua musica, un 66 Henri Focillon rapporto di numeri, ma sente dei timbri, degli strumenti, un’orchestra, così il pittore non vede in sé l’astrazione del suo quadro, ma vede dei toni, un modellato, un tocco. La mano, nel suo spirito, lavora. Nell’astratto essa crea il concreto e, nell’imponderabile, il peso. Constatiamo anche una volta la differenza profonda che separa la vita delle forme e la vita delle idee. L’una e l’altra hanno un punto in comune, che le distingue ambedue dalla vita delle immagini e dalla vita dei ricordi: hanno cioè la qualità di organizzarsi per l’azione, di combinare un certo ordine di rapporti. Ma è chiaro che, se esiste una tecnica delle idee, e se pure è impossibile separare le idee dalla loro tecnica, questa non si misura che con se stessa ed il suo rapporto col mondo esterno è ancora un’idea. L’idea dell’artista è forma, e la sua vita affettiva prende la medesima piega. [...] E se dovremo cercare legami e rapporti tra tutti loro [artisti], vedremo che essi, nel corso delle stesse vite, non sono tanto determinati dalle circostanze, quanto da affinità di spirito in relazione alle forme. Dicendo che a un certo ordine di forme corrisponde un certo ordine di spiriti, siamo necessariamente condotti alla nozione di famiglie spirituali, o piuttosto di famiglie formali. Non basta dire che esistono gli intellettuali, i sensibili, gli immaginativi, i melanconici, i violenti; e sarebbe pericoloso per noi il cercar di configurare queste nature e questi caratteri dal di dentro. Bisogna partire dai fenomeni nello spazio. Non contano dunque essi, quando si tratta di definire e di raggruppare gli altri uomini? Ma le tracce dell’azione comune sono presto scancellate, e fin dal principio molto commiste. Inoltre, ogni atto è gesto, ed ogni gesto scrittura. Questi gesti, queste scritture hanno per noi un valore primordiale e, se è vero, come ha mostrato il James, che ogni gesto ha sulla vita dello spirito un’influenza, che non è se non quella d’ogni forma, il mondo creato dall’artista agisce su di lui, ed agisce sugli altri. La genesi crea il dio. Una concezione statica e macchinale della tecnica, che escludesse le metamorfosi, ci porterebbe a confondere scuola e famiglia: ma nella stessa scuola, all’insegnamento della stessa disciplina, v’è una differenza di vocazione formale, forme inedite o rinnovate lavorano faticosamente su se stesse, l’azione tende a nascere e a svilupparsi. Allora vediamo gli uomini della medesima tempra riconoscersi e chiamarsi, e l’amicizia umana può intervenire in queste relazioni e favorirle; ma il gioco delle affinità recettive e delle affinità elettive nel mondo delle forme si esercita in una regione diversa da quella della simpatia, che può esserle indifferente, propizia o avversa. Queste affinità non hanno per cornice e per limite il momento. Si sviluppano con ampiezza nel tempo. Ogni uomo è in primo luogo contemporaHenri Focillon 67 neo di se stesso e della sua generazione, ma è anche contemporaneo del gruppo spirituale di cui fa parte. Più ancora l’artista; perché quegli avi e quegli amici gli sono, non ricordo, ma presenza. Essi stanno ritti davanti a lui, più che mai vivi. Così, in particolare, si spiega la funzione dei musei nel secolo XIX: hanno aiutato le famiglie spirituali a definirsi e a legarsi, oltre i tempi, oltre i luoghi. Anche nel tempo e nel paese dove le testimonianze e gli esempi sono dispersi, anche quando lo stato degli stili impone una fermezza canonica, anche negli ambienti sociali di più rigorose esigenze, la varietà delle famiglie spirituali si esercita con forza. E l’epoca che si distoglie più violentemente dal passato è costruita da uomini che hanno avuto antenati. Tempi ed ambienti, che non sono quelli della storia, si insediano nella storia stessa; e vediamo che vi si propagano razze, che non son quelle dell’antropologia. Esse possono avere o non avere coscienza di sé; ma esistono. Per essere, non hanno bisogno di conoscersi. Tra maestri che non hanno mai avuto tra loro il minimo legame e che tutto separa: natura, distanza, secoli, la vita delle forme stabilisce stretti rapporti. Nuova restrizione della dottrina delle influenze: non soltanto esse non sono mai passive, ma non c’è bisogno di invocarle ad ogni costo per spiegare delle parentele ad esse anteriori e indipendenti da ogni contratto. Lo studio di queste famiglie come tali ci è indispensabile. Joze Ple∏nik da una lettera di Plecnik del 3 agosto 1925 all’ing. Anton Suhaldolc sulla chiesa di San Francesco a Lubiana Siska Le colonne di mattoni già costruite dai greci, dai romani, nell’epoca romanica, le costruivano persino in pieno rinascimento, le costruiva Palladio e in seguito durante tutto il barocco. Se è impossibile farle belle si dovrebbe farle grezze e poi intonacarle: naturalmente rimangono le misure dei diametri: avverto però che intonacarle costerebbe molto, molto! Penso sempre che nel costruire si risparmia nel posto sbagliato: io farei semplicemente gli stampi in lamiera, diciamo al minimo tre o meglio cinque o sei stampi per una colonna, e li collocherei dal pavimento sino alla sommità come una specie di emballage, che va riempito dopo con i mattoni. L’unico lavoro del muratore sarebbe: lavorare in orizzontale – verticalmente si dirigerebbe da solo! 68 Henri Focillon Joze Ple∏nik Ernesto Nathan Rogers Gli elementi del fenomeno architettonico, 1961 Invenzione e memoria Approfondiamo, da un altro punto di vista, il nesso, sempre reperibile, tra la creazione di nuovi fenomeni e l’osservazione dei fenomeni esistenti (invenzione e rilievo): l’interpretazione della storia, fatta dall’artista, caratterizza la sua interpretazione del periodo in cui egli vive e si manifesta nell’opera d’arte. Sia che si muovano nel tempo, sia che si muovano nello spazio, gli artisti si trovano al centro di un sistema di influenze: il tempo passato si colora secondo la gamma dello spirito dell’artista e il presente non può non sentirne l’effetto. In misura più modesta e più direttamente controllabile, è sempre visibile l’influenza dei viaggi, sia in chi li compie, sia in chi viene visitato. Non si potrebbe capire Palladio senza i suoi studi sulla romanità né astraendolo dall’influenza diretta dei luoghi (e delle persone) conosciuti. L’elemento memoria è dunque inerente alla costituzione dell’attività artistica, nel soggetto e nell’oggetto. Il maestro dell’uso attivo della memoria è Marcel Proust (Il tempo ritrovato, Torino 1952, pag. 333). «Ora la ricostruzione della memoria di impressioni che avrei dovuto in seguito approfondire, illuminare, trasformare in equivalenti intellettuali, non era forse una delle condizioni, quasi l’essenza stessa dell’opera d’arte, così come l’avevo concepita...?». L’operazione creativa viene influenzata da due azioni della memoria, o meglio nel rapporto dialettico di due tensioni opposte: la prima azione si rivolge al passato, trae alimento cosciente o subcosciente dalle esperienze già consumate per crearne di nuove. È il senso dei ricordi ancestrali (anche senza considerare gli argomenti della psicanalisi) della conservazione, del ripensamento; la rielaborazione per cui le cose già fatte continuano in noi, determinano una tradizione, cioè si portano avanti tramite nostro, s’inverano nell’oggi, gli danno stabilità con fondamenta più ampie di quel che avrebbero se nascessero solo da noi. La memoria conferisce alle cose dello spazio la misura del tempo: di tutto quel tempo che è prima di noi. Ma è il tempo di coloro che ci hanno preceduti e in gran parte è il tempo dei morti, riuniti in consorzio per ammonirci di essere vivi, come essi sono stati nel loro momento. Ammonire e ricordare (moneo e memini) hanno la stessa radice semantica e da essa acquista valore la parola monumento ed il concetto simbolico che essa racchiude. Monumento, nel concetto moderno (e già lo era in parte per il Palladio), non è soltanto la casa di Dio e del Principe, ma soprattutto Ernesto Nathan Rogers 69 la casa dell’uomo e ogni altro organismo edificato che sintetizzi nella sua fattura l’utilità e la bellezza, ai fini di una determinata società. Qui è l’altra azione della memoria, non quella che si muove da noi verso le cose, ma dalle cose a noi e oltre noi. Un artista non è tale se non ha la memoria dell’esperienza altrui e se ad essa non aggiunge i due significati elaborati nella contemplazione e nell’attività. L’equilibrio dinamico [...] La memoria è condizione dell’invenzione che si muove dalle sue premesse; perciò la memoria è elemento necessario dell’azione artistica ma non è in sé sufficiente al perpetuarsi del fenomeno artistico nella sua irriducibile originalità. L’invenzione fa scaturire i nuovi fenomeni che sono individuati dall’azione personale: i nuovi fenomeni sono concepiti da un atto d’amore che, come ogni altro atto d’amore, si fonda sulla responsabilità della persona la quale lo determina. S’illude tanto chi crede che la cultura, basata sulla conoscenza dei dati, basti a garantire la creazione, quanto colui che pensa di poterne fare a meno: la difficoltà sta proprio nel costituire l’equilibrio dinamico tra queste tendenze antinomiche, così che il risultato (la sintesi) sia sempre l’affermazione d’un presente aperto verso indicazioni future e non una critica, per quanto attiva, del passato né, peggio, soltanto la verifica del passato. L’opera presente serve da tramite tra il passato e il futuro; non è un momento di sosta ma il punto obbligato di passaggio della storia dall’ieri verso il domani. La garanzia della validità di un’opera odierna è proprio nell’obbligare la storia a passare per le nuove invenzioni, in modo che non si potrà mai più fare a meno di esse quando si considereranno i fatti degli uomini per trasformarli nella loro ineluttabile evoluzione. [...] processo dell’esperienza: invece di affermarne l’influenza, la si nega violentemente. La novità sta soprattutto nel cambiare il punto di vista dal quale si considerano i dati e nel porsi là dove si possono scoprire orizzonti inesplorati, in un punto, cioè, che abbraccia visioni proprie alle originali condizioni storiche in cui si è indotti ad operare. Da questo punto si dipartiranno tutte le linee della nuova visione, secondo una coerente prospettiva. Questa capacità di porsi in un punto d’osservazione imprevisto non è soltanto caratteristico delle epoche di nuove emergenze, ma anche di uomini particolarmente dotati che si distaccano dal modo di vedere dei loro contemporanei. Si può dire che genio è proprio un uomo dotato della facoltà di svelare, con le sue forze individuali, segreti preclusi all’intendimento degli altri uomini. Non è questione di intelligenza più acuta ma di più vibratile percezione. Jacques Le Goff Enciclopedia Einaudi, 1977–1984, Voce ‹Documento/Monumento› La memoria collettiva e la sua forma scientifica, la storia, si applicano a due tipi di materiali: i documenti e i monumenti. L’intuizione rivoluzionaria La proporzione tra memoria e invenzione può variare da momento a momento, da artista a artista, da opera a opera d’un medesimo artista. Vi sono fenomeni in cui la memoria ha un peso maggiore e altri dove è assai più in sottordine. I momenti rivoluzionari sembrano privi di memoria perché tutte le energie sono rivolte (strategicamente) verso il domani: in verità si tratta solo di una sospensione della memoria, la quale serve essenzialmente per rovesciarne le naturali conseguenze: la novità non è nell’aver dimenticato il passato, ma nel farne un uso opposto al normale 70 Ernesto Nathan Rogers Ernesto Nathan Rogers Jacques Le Goff 71 Costruzione, ricostruzione Edifici o progetti come il Palazzo Orsini costruito sopra il Teatro di Marcello, oppure il duomo di Siracusa dove la cattedrale fu costruita nella cella del precedente tempio dorico, oppure ancora il duomo di Siena, la cui navata attuale sarebbe dovuta divenire il transetto del progettato Duomo Nuovo, tutti dimostrano il ricorso a un concetto di costruire non lontano da quello di ricostruire, tutti invitano a considerare serenamente i traumi o le vicende che nei secoli hanno modificato gli edifici. Quale spazio per il progetto nel misurarsi con l'antico, quale rapporto tra il vecchio e il nuovo, quale continuità, quale distanza? Questi interrogativi vorrebbero poter andare oltre la secca e pretestuosa divaricazione tra restauro e progetto, all'interno della quale sembra invischiato e confuso il dibattito architettonico contemporaneo. Da un lato troviamo i sostenitori della più totale imbalsamazione attuata mediante il restauro conservativo puro e semplice, e dall'altro incontriamo i profeti disarmati di quel disordinato e scomposto liberi tutti che paiono ridurre il problema del progetto all'esercizio delle più svariate e fantasiose forme di intasamento funzionale (l’apoteosi del momento è nel ground zero cui vengono ridotte le aree dismesse). È ancora possibile pensare a una seconda vita per gli antichi edifici? Come si usano gli antichi edifici per costruirne di nuovi? Ed è possibile contrastare col progetto l’attuale tendenza all’imbalsamazione delle antiche costruzioni fatta passare per loro conservazione? In ogni progetto c'è un processo obbligato di accumulazione che di volta in volta il nostro lavoro scompone e ricompone. È come se l'architettura potesse lavorare sempre e solo sullo stesso materiale (e questo materiale è l'architettura stessa). Per secoli i nuovi edifici si sono costruiti sulle rovine e sulle fondazioni di precedenti opere, di queste utilizzando in vario modo i materiali: ora per spoliatio, reimpiegando capovolte trabeazioni e lapidi epigrafate a platea di muri bizantini o romanici (come avviene per lo Sveti Donat di Zara), ora invece ridando senso a precisi elementi architettonici entro nuovi organismi che ne mutano anche il segno: il grande portale scolpito che intro- 73 duce alla cappella di Sant'Aquilino nel San Lorenzo di Milano raffigura giochi e corse di cavallo e proviene forse dal vicino circo trasformato in cava. Non ci attira il romanticismo di queste rovine, ma la loro capacità di acquistare un ruolo simbolico che viene disinvoltamente ripreso nella città successiva. Fisicamente sono dei muri cui ci si attacca, delle fondazioni a disposizione sotto le quali il terreno è già compatto e sicuro. Un modo particolare di volgersi alla città antica, quel modo di leggere l'esperienza della città romana forse attraverso Piranesi architetto e non Piranesi rovinista. Questo tipo di attenzione verso l'antico (e, con le debite differenze, comunque verso l'esistente) non può ridursi al solo reperimento nello stato di fatto di una regola da ripetersi senza modifiche. Pur riconoscendo l'autorità di vecchie fondazioni e di allineamenti certi, si tratta di un atto di trasformazione non neutrale, non di semplice prosecuzione già magari tutta scritta dentro lo stato di fatto. Restauro creativo l’avevamo definito nella felice stagione che consentì di raccogliere in un Dizionario dei termini utili quella cosmogonia di piccoli sistemi planetari (associazioni di idee, opposizioni, omologie, contrasti) costruita su questioni attuali per il mestiere dell’architetto (Dizionario, 1993). L'atteggiamento nei confronti di antiche o vecchie costruzioni interessa qui quando riesce a porre le questioni della loro trasformazione attuale, della restituzione all'uso con forme e tipi disponibili alla continuazione della vita al loro interno, del loro nuovo esser presi dentro la realtà e rimessi in circolo. Per alcuni limitati e straordinari casi si dovrebbe persino valutare la possibilità di una pura e semplice liberazione dall’uso. La costruzione-ricostruzione dello scenafronte del teatro romano operata a Sagunto da Giorgio Grassi è sicuramente un'interpretazione tendenziosa del teatro romano in generale considerato come tipo e di quel teatro in modo particolare, ma proprio per questo è avanzamento rispetto alla rovina, versione dei fatti possibile oggi, una nuova figura diversa e inaspettata, non tutta prevista rispetto al destino tecnico dell'edificio. C'è un progetto di architettura che non c'era nell'aggiustamento rovinistico effettuato sui resti del teatro nel corso dell'Ottocento. È come se il progetto compisse il gesto di mettere in cornice cose di cui si è perso il contorno, ritornando a un ordine che però non può più in alcun modo essere quello del teatro originario (Grassi 1988, 1996). E se quell’opera, sul finire del Novecento, ha marcato con un segno netto e preciso il rapporto tra vecchio e nuovo risarcendo tanta sospensione della memoria operata dal Moderno, almeno tra gli architetti e tra quanti hanno a cuore 74 il patrimonio storico dell’architettura dovrebbe suscitare civile indignazione la violenta polemica portata avanti contro il progetto di Grassi da zelanti custodi di rovine imbalsamate. Gli architetti, ricostruendo edifici perduti, scomparsi o anche solo incompleti, si misurano con un aspetto del tutto particolare del rapporto tra vecchio e nuovo. L'interesse per la composizione oltre il rilievo preciso delle rovine, distingue le ambizioni archeologiche di Haller von Hallerstein dallo Schinkel attento alla costruzione. Il primo misura con ossessione i resti del tempio greco o le tracce della cavea, il secondo, pur consapevole e ammirato rispetto all'antica regola, ricostruisce a Berlino una trasfigurazione dell’amatissima Italia (invano, forse, inseguendo il demone di quella luce meridiana dalle ombre nette che aveva conosciuto in Sicilia). Fondamentale è qui il rispecchiamento tra un determinato mondo di forme e il programma culturale che in quel mondo si riconosce. Il continuo scambio che sul piano letterario Ladislao Mittner ha saputo individuare tra l’Ellade germanizzata e la Germania ellenizzata sembra qui traslare verso occidente lungo le rive del Mediterraneo e trovare compimento nei Reisetagebücher e negli schizzi dei due viaggi in Italia di Schinkel (1803–1805, 1824). E se da un lato l’antichità rimisurata, rilevata e ricostruita dalle passeggiate dei teatri romani fino alla Villa di Plinio o alle terme diviene materiale da costruzione trasmigrato verso nord nei quaderni di viaggio di Friedrich Weinbrenner, Carl von Fischer, Leo von Klenze, la presenza fisica della rovina condiziona inevitabilmente il lavoro degli architetti. Nel caso delle città venete, ma non solo, è nota quella straordinaria capacità dell’antico di fecondare il mondo delle forme a distanza di secoli. Contaminati, trasformati, ampliati, misurati e ricostruiti ovvero ri-utilizzati in una seconda vita, i resti classici (meglio con Riegl e Bettini diremmo tardoclassici e deuterobizantini) delle città altoadriatiche di origine romana sono il materiale su cui la città si costruisce nei secoli successivi. Giovanbattista da Sangallo, Giovanni Caroto, Giulio Romano, Sebastiano Serlio misurano, quotano, rilevano, trasfigurano le antichità romane venete e di Verona in particolare, le riversano nei loro progetti, conferiscono loro una seconda vita a fianco o altrove. Le opere di Michele Sanmicheli e di Andrea Palladio sono impensabili senza quella lunga continuità e quella misura fisica diretta con le opere classiche e tardo classiche che caratterizzano l'intera area altoadriatica. La presenza dell’antico produce progetto. I loro lavori sono anche progetti altri rispetto a quei modelli, sono anche una reinvenzione dell'antichità, una ricostruzione possibile di quel grande programma di trasfor- 75 mazioni territoriali e urbane realizzato nei modi e nella maniera delle contaminazioni che contraddistinguono le costruzioni di confine (Porta Leoni e Porta Borsari a Verona, Porta Gemina a Pola). Dentro questo stesso mondo sono le mura che Plečnik ricostruisce su una labile traccia di ruderi a Lubiana. Il rapporto tra progetto e antichi edifici è qui anche occasione per l'innesto e la contaminazione tra un linguaggio arcaico e il parlar aulico. Ansia di sprovincializzazione rispetto alla cadenza del vernacolo, ma al contempo invenzione delle origini. Il progetto cresce costantemente sulla base di quella memoria invertita dell'artista (cfr. Memoria, tradizione, metamorfosi) falsificata, ricostruita su un plausibile segno precedente, ma inesorabilmente più avanti di questo. Non ripetizione, ma forse metamorfosi per fusione in altro stampo del medesimo materiale. Le mura della mitica Emona, ma ancor più le pietre del palazzo di Auersperg incluse nel muro della Biblioteca conferiscono autorevolezza e ritrovano radici, ma vengono al contempo riversate in un nuovo progetto, diventano qualcosa d'altro rispetto alla loro precedente vita. Nel caso di Lubiana il rapporto con l’antico è ristabilito mediante una serie di correzioni e aggiustamenti continui, tuttavia rispettosi di quei tempi successivi della città sedimentati per leggeri scostamenti. La memoria di fatti urbani, o anche solo di tracce che rischiano di andare perdute, è chiamata a legittimare il presente con quell'autorevolezza che siamo soliti riconoscere alle cose già state ed esperimentate. Il progetto è una sorta di alta manutenzione che non disdegna i segni minimali. Nel caso di Giuseppe De Finetti a Milano, il tema del rapporto con le origini e la grande tradizione urbana classica è quello loosiano del risarcimento, attraverso il progetto, della memoria ferita o perduta della città. Ancora da quel trattato per la costruzione di una città (corpus eccezionale e per lungo tempo inedito) che è il vero progetto di città e di architettura alternative proposto dal De Finetti per la ricostruzione di Milano, impariamo per quale via una città possa ambire a ritrovare l’alveo maestro della sua tradizione senza negarsi alla modernità (De Finetti, 1969). La tragedia della guerra è qui considerata come straordinaria occasione di riforma urbana. Esistono nell’esperienza della città luoghi e figure imprescindibili a cui la memoria del progetto ritorna tutte le volte che gli architetti sono chiamati a ridare senso e definizione a siti paesaggi giaciture o topografie che nel tempo hanno perso il rapporto con la città precedente. Persa per sempre quell’immagine capace di tutto comprendere che rispecchiava un ordine razionale e analitico, sciolti quei vincoli e quelle figure che rimandavano a una compattezza e a una continuità non più transitabile, la nostra capacità 76 di ri-leggere i fenomeni urbani e di ordinarli attraverso il progetto è costretta a sopravvivere per frammenti. Per frammenti di piani, di architetture, di idee, vive la città contemporanea (Ferlenga, 1990). Per frammenti possiamo ancora evocare compiti spesso dimenticati per questo mestiere, il cui destino non può che essere quello di continuare a costruire la città e il paesaggio, ritrovandone col progetto la memoria, per quanto trasfigurata possa essere. 77 Aldo Rossi L’architettura della città, 1966 Gli elementi primari e l’area E l’analisi del concreto [della] struttura [della città] non può che essere condotta sui singoli fatti urbani. Sarà utile avanzare qui due esempi relativi a queste questioni tolti dalla storia dell’urbanistica; o costituenti il tentativo di una comprensione verificabile in sede storica dei fatti urbani. Le città romane o gallo-romane dell’occidente crescono mediante la continua tensione di questi elementi. Questa tensione è ancora oggi riscontrabile nella loro forma. Quando alla fine della pax romana le città delimitano le mura esse coprono una superficie inferiore a quella della città romana. In questa definizione delle mura sono abbandonati dei monumenti, delle zone spesso popolose; la città si rinchiude nel suo nucleo. A Nimes l’anfiteatro è trasformato in fortezza dai Visigoti e racchiude una piccola città di 2000 abitanti; vi si accede da quattro porte corrispondenti ai punti cardinali; all’interno si trovano due chiese. In un secondo tempo intorno a questo monumento comincerà di nuovo a crescere la città. Lo stesso fenomeno succede per la città di Arles. La vicenda di queste città è straordinaria; essa ci induce anche ad alcune considerazioni sulla dimensione e dimostra che la qualità di alcuni fatti è più forte della loro dimensione. L’anfiteatro ha una forma precisa e inequivocabile è anche la sua funzione; esso non è pensato come un contenitore indifferente, al contrario è estremamente precisato nelle sue strutture, nella sua architettura, nella sua forma. Ma una vicenda esterna, uno dei momenti più drammatici della storia dell’umanità, ne capovolge la funzione, un teatro diventa una città. Questo teatro-città è altresì una fortezza; racchiude e difende tutta la città. In altri casi una città si sviluppa tra le mura di un castello che ne costituiscono il limite preciso e anche il paesaggio; così a Vila Viçosa in Portogallo. La presenza dell’opera, con il suo significato e con la sua architettura, che è il modo reale con cui l’opera viene definita, è il segno delle trasformazioni. Perché solo la presenza di una forma chiusa e stabilita permette la continuità e il prodursi di azioni e di forme successive. Così la forma, l’architettura dei fatti urbani, emerge nella dinamica della città. In questo senso ho parlato delle città romane, della forma rimasta della città romana; prendete l’acquedotto romano di Segovia che attraversa la città come un fatto geografico, i teatri e il ponte di Merida in Estramadura, il Pantheon, il Foro Romano. Questi esempi che qui vediamo dal punto di vista dei fatti urbani possono condurre a numerose considerazioni nel campo della tipologia. Gli elementi della città romana di trasfor78 Aldo Rossi mano, cambiano la loro funzione. Un altro esempio eccezionale è costituito dal progetto di Sisto V per la trasformazione del Colosseo in una filanda di lana; anche qui si tratta di questa straordinaria forma dell’anfiteatro. Al pianterreno erano sistemati i laboratori e nei piani superiori le abitazioni degli operai; il Colosseo sarebbe diventato un grande quartiere operaio e una fabbrica razionale. Aldo Rossi I caratteri urbani delle città venete, 1970 Dalla romanità delle città (escludendo Brescia che pure appartiene alla X regione) è fortissima non solo la presenza dei monumenti spesso insigni come opere d’architettura, ma il disegno planimetrico. Verona (con Pavia, Aosta, Torino) è un esempio noto dell’azione della pianta romana ma mentre in una città come Pavia alla presenza straordinaria della pianta e degli isolati romani non si accompagna la presenza del monumento, Verona possiede in forma eccezionale anche rispetto a Roma la regolare continuità della pianta e degli isolati unita alle grandi infrastrutture monumentali romani (anfiteatro, teatro, porte) che ci permettono di costruire le leggi genetiche della città d’occidente. La stessa trasformazione e uso della natura diventa caratteristica individuale di Verona dove, come nel teatro, vi è quasi un ripetersi della condizione dell’architettura presa nel rapporto con il paesaggio, condizione che per l’architettura romana si può cogliere solo in Provenza e che costituirà una nota tipica della città veneta. [...] In questo carattere di legame con la natura in senso classico vi è la base, come immagine figurativa preminente, dell’unione delle architetture veronesi con il paesaggio. Come le torri e i ponti scaligeri sul Mincio e nella campagne veronesi, i volumi staccati del medioevo e la compenetrazione dei diversi momenti architettonici con la sua antica struttura romana. La trasformazione subita a Verona dagli elementi romani sarà una componente fondamentale della morfologia della città veneta. Essa investe nel territorio un’importanza di primo ordine, poiché costituisce il sistema della campagna scaligera: sistema che è nella sua formazione di carattere militare – nel senso che costituisce delle strutture fisiche la cui funzione è originariamente militare – e che diventa elemento di costruzione e definizione del paesaggio. Aldo Rossi 79 Giorgio G rassi Giuseppe De Finetti Forma liberata, non cercata, 1983 La città, corpo vivente, 1937 Quando guardiamo le architetture del passato, le buone architetture, e le vediamo così stabilite, necessarie, affermative prima di tutto, allora riconosciamo che il loro segreto sta proprio nell’incondizionata adesione alla regola dell’architettura e nella loro totale sottomissione. E così, ricorrendo all’autorità degli esempi, riconosciamo che le buone architetture sono sempre dei gesti di fedeltà e di ammirazione per quanto li ha preceduti e resi possibili, riconosciamo che le buone architetture sono sempre qualcosa che va ad aggiungersi a un corpus interamente condiviso, il mondo ordinato e reso accessibile delle forma dell’architettura. E ciò che unisce esperienze diverse e lontane fra loro nel tempo è proprio questa fedeltà e questo confronto che sempre si rinnova. Qual è altrimenti il senso dello studio dell’antichità in architettura, il senso di tante appassionate ispezioni e dei rilievi? Come spiegare tanta dedizione e tanta volontà costruttiva unite insieme? Qual è il senso delle tante prove compiute, delle ricostruzioni reali e fantastiche e poi degli ampliamenti, dei completamenti di tanti antichi edifici? Il senso di quegli esempi in cui il nuovo è inseparabile dal vecchio, in cui il nuovo è tanto debitore al vecchio da essere impensabile altrimenti? Come spiegare palazzo Orsini, il tempo Malatestiano il palazzo ducale di Gubbio o la basilica di Vicenza? Come spiegare altrimenti la storia di quei grandi complessi cresciuti nel tempo, come appunto la reggia di Mantova? Come spiegare in altro modo la storia stessa delle nostre antiche città? Il volto della città è inciso, aumentato da vicende così complesse e da forze così continue, che non saprei trovare tra le opere umane cosa più mutevole e che vien fatto di assomigliarlo al delta dei grandi fiumi, dove le correnti intaccano, cancellano e riplasmano le sponde secondo una viva trama, dal disegno vagante ed effimero. Per talune città la vita procede lenta e uguale per secoli, grazie a un bilancio che gli uomini riescono a raggiungere opponendo misurati e avari atti di manutenzione all’inesorabile azione di deperimento e d’usura compiuta dalla pioggia, dal vento e dall’attrito costante della vita. Per talune città alla nascita segue immediato uno sviluppo tanto pieno e possente da far gridare al miracolo; per altre a una vivace formazione iniziale succede rapida la decadenza; per altre ancora si ha alternanza di fasi di sviluppo, con lunghe soste e con vivaci riprese. Milano medievale, distrutta dal fuoco del Barbarossa nel 1162, ricostruisce il suo corpo là dove già erano state la città gallica e la città romana e incontra così la sua quarta primavera. Milano spagnola si cinge tra il 1549 e il 1560 di un nuovo più ampio bastione e inizia un periodo di vita durato per trecent’anni senza mutamenti del suo circuito, nei quali si ebbe solo una variazione della direttrice dello sviluppo interno, giacché per due secoli circa predominò il raggio della Porta Romana, con la metà del Settecento divenne primeggiante il raggio della Porta Venezia. 80 Giorgio G rassi Giuseppe De Finetti 81 Faccia, facciata In una disciplina che non intenda essere empirica, ma che cerchi di riflettere sul continuo scambio/rispecchiamento nell’esperienza di una teoria, i nomi e i ruoli degli attori sono importanti. A seconda dei termini che usiamo per identificare le parti di un organismo architettonico attribuiamo gerarchie e conferiamo un ordine alle cose, che è del resto il compito prioritario della composizione. Vi è chi ritiene tutto ciò pedante esercizio accademico. Al contrario, cercare di leggere ri-leggere più nitidamente le cose abitua anche a lavorare sul confine di concetti sempre meno netti e labili. La ricerca dell’appropriatezza in architettura consente di aprire scenari e mondi, non di cristallizzarli. Talvolta consente di alludere a una voluta ambiguità. Il significato di termini (e concetti) varierà sulla scena urbana a seconda del registro su cui sapremo collocarli e far loro reggere la parte. Faremo avanzare o arretrare i personaggi, ne enfatizzeremo alcuni più deboli, cercheremo di tenerne sotto tono altri magari troppo vincenti. Anche i comprimari faranno la loro parte. Senza grandi distinzioni oggi chiamiamo facciata il lato dominante del perimetro dell'edificio, oppure il verso su cui è posto l'ingresso principale. I termini prospetto e alzato pongono i diversi lati della costruzione il più possibile su un piano di equivalenza. Usando simili termini dichiariamo un interesse per la serie, il dato tecnico, non l'eccezione o l'emergenza di un personaggio. Parliamo invece di lato verso strada o verso corte quando la strada o la corte partecipano in modo decisivo e determinante alla composizione dell'edificio in quel punto. Quando usiamo le nozioni di fronte o di vista sottintendiamo che l’edificio è inserito in un sistema di altri edifici (una cortina, una sequenza), oppure che in relazione a un intorno ci interessa definire il suo aspetto (intorno non equivale a contesto). Oppure vogliamo significare che il suo carattere è fortemente influenzato dagli elementi ambientali che lo circondano. Ma quando parliamo di facciata, anche a proposito di un edificio molto semplice, intendiamo sottolineare un insieme di elementi particolari. La facciata dovrebbe essere il punto verso cui tendono tutti i movimenti e si raggruppano tutte le tensioni dell'edificio, il punto in cui dovrebbe pren83 der forma e corpo il carattere della costruzione. La facciata annuncia e contemporaneamente conclude l'edificio. La facciata riassume il significato dell'intero edificio, oscillando tra un valore simbolico e uno narrativo, oscillando, a seconda dei casi e della sensibilità, tra retorica, eloquenza o descrizione. Oppure ancora dichiarando aperta rinuncia, che è un particolare modo di esplicitare la retorica, mettendosi in mostra con un parallelo tirarsi indietro (anche l’omissione è capace di straordinarie figure). Facciata come luogo ove carattere dell’edificio e figure hanno la possibilità di mostrarsi. L'aspetto primo, e per così dire la fronte o faccia di qualsivoglia fabbrica, o sia tempio, o sia palazzo, o l'altro; ed è quella che in esse fa l'ufizio che fa il viso tra le molte membra del corpo. Facciata, ancora, come messa in opera del carattere. Parliamo di facciata e approfondiamo i diversi gradi di autonomia o di dipendenza che si stabiliscono tra l'interno e l'esterno dell'edificio. Sul limite sorgono figure che mostrano contrasto tra questi due mondi oppure figure che, al contrario, cercano l'unità tra costruzione e rappresentazione. Maschera o estrinsecazione programmatica dell’interno, la difficoltà della facciata è nell’essere figura sul limite. Talvolta pura scena dalla materia quasi tessile, priva di un retrostante organismo architettonico. Vi è chi ha cercato di ricostruire per la facciata una sorta di punto di inizio. Né il recinto con le sue evoluzioni (il tempio arcaico, spazio di cella filtrato dalle colonne), né la potenza dei muri romani hanno la necessità della facciata. Questo concetto è casomai legato a un'idea di percezione prospettica del reale che consente al contempo di misurare lo spazio, di valutare l'architettura in base al suo poter essere anche vista, colta da vicino o da sotto, oppure rivelata da lontano (Fernsichtigkeit) quale seconda natura che opera a fini civili. In una affascinante analisi sull’architettura dei palazzi romanici e sulle loro origini classiche (Swoboda, 1919) la prima definizione della facciata propriamente detta è collocata in un momento particolare dello sviluppo dell'architettura romana. Contaminata dalla ricerca per l’ingentilimento e dall'eleganza ellenistica, toccata da una maniera grafica bidimensionale di origine orientale, l'architettura tardoromana comincia ad alleggerirsi. La sua usuale forza basata sull'accostamento e sull'incastro di volumi assoluti, il suo tradizionale solido spessore murario, vengono smaterializzati e perforati da trasparenti e più gentili loggiati, facciate aeree e luminose che consentono di cogliere nella profondità il gioco dei piani sotto la luce. Seguendo l'evoluzione di facciate sempre più leggere, ritrovate negli affreschi di Pompei, nei mosaici di Ravenna o nei pochi resti sopravvissuti di alcune ville di provincia, potremmo cogliere la nascita della facciata come indissolubilmente legata a quelle figure destina84 te a produrre illusione e a suscitare effetti sullo spettatore; quel mondo di forme e di effetti del quale furono maestri i bizantini nel trasformare litanie spaziali in ingannevoli prospettive, la cui percezione è a sua volta raccorciata dai catini dorati delle absidi. Una precisa scelta della città tardoclassica fu del resto quella di creare facciate illusorie o scenografie in punti significativi della città. Quasi un’ambizione barocca di formare scene urbane mediante septizoni, facciate di biblioteche, castelli d'acqua. La facciata è in questo caso il luogo dell'illusione. E se l’uso del termine prospetto fa pensare a un atto meccanico di trasposizione sul piano verticale di un tracciato o di una pianta, la facciata si rapporta all’espressione degli stati d'animo, tipica del viso. Paul Schmitthenner parla della facciata e del carattere. La casa dal volto serio, la casa con gli occhi profondi, la casa dalla fredda noblesse, la casa ben coperta e senza tetto, la casa dal volto cordiale. Non necessariamente la facciata dice il vero, come una maschera dice e non dice, ovvero dice il falso, oppure ancora lascia intendere solo una mezza verità. E in quei casi in cui il Moderno impone all’esterno l’astrazione intellettuale della tabula rasa, vivono ridotte all’interno della casa le figure della decorazione e i suoi modi, la retorica e l'eloquenza (Loos), la sequenza narrativa (Josef Frank). L’interno resta luogo lecito per il disvelamento di decorazioni, considerate altrimenti indecenti fuori. È il percorso della lingua salvata attraverso facciate mostrate nel luogo della scena, il luogo della finzione assoluta. È il gesto di mettere in cornice la memoria delle facciate in costruzioni particolari, come la tomba o il monumento. Nel primo caso pensiamo per esempio alla sala principale del teatro Carlo Felice di Genova (Aldo Rossi, Ignazio Gardella). Le facciate colorate alla maniera ligure circondano la sala e rimandano alle origini del teatro che fu corte coperta e spettacolo di strada. Altrove, come nel caso del monumento funebre, Aldo Rossi trasforma i rilievi sempre amati delle antiche facciate di porte urbiche romane in modelli di legno che sembrano dichiarare l'impossibilità oggi di parlare un linguaggio codificato se non in alcuni casi particolari, salvati e sacralizzati. La tomba appunto, oppure la facciata di una chiesa. Luoghi particolari, sacri e simbolici, perciò messi su un piedistallo e sottratti alla lingua corrente, così come alla banalità della vita quotidiana. Facciate senza pianta: se sono impensabili prospetti senza una pianta, frontespizi senza un retro che dia le ragioni della posizione o della dimensione delle aperture, potremmo fare molti esempi di facciate senza pianta. Facciata è una linea, una pelle, una tenda dipinta oppure è una parete più spessa, una scultura profonda come sulla rupe di Petra in Gior85 dania. Se dovessimo definire quella proprietà esclusiva della facciata che ci consente di distinguerla dal semplice prospetto o dal frontespizio di una casa, dovremmo parlare della autonomia della facciata, della sua capacità di parlare un linguaggio che può essere indipendente dal retrostante corpo di fabbrica. Vi sono epoche in cui, in modo molto semplice e immediato, la facciata rappresenta la struttura interna del corpo edilizio, mettendo in scena la sezione, variamente elaborandola con diversi gradi di astrazione o di enfatizzazione del contenuto tettonico. La basilica romanica mostra in facciata l'articolazione e le gerarchie della navate: è il diagramma della sezione disegnato sul paramento frontale che chiude la navata. In questo modo si cerca di ridurre la capacità illusoria della facciata soprattutto in momenti in cui l'architettura predica la coincidenza tra verità/costruzione e rappresentazione, condannando l'arte della finzione che è uno dei modi principali secondo cui l'arte del costruire si estrinseca (dell’artista il fin è la meraviglia). La battaglia per la cosiddetta sincerità costruttiva contro il decorativismo e l'uso improprio del catalogo degli stili, spinse per reazione simmetrica e opposta molti architetti a esasperare la rappresentazione in facciata della struttura. Il telaio e la sezione, resi astratti e simbolici. In alcuni casi, come avviene per Pietro Lingeri, Giuseppe Terragni, Cesare Cattaneo la facciata è l'elaborazione della figura della sezione, quasi una esibizione dell'elemento tecnico-strutturale della costruzione (non lontano dal romanico comacino che tutti loro avevano negli occhi). L'elemento tecnico viene nobilitato e trasformato in elemento figurativo ed estetico. La trasformazione della pura tecnica in elemento simbolico e in linguaggio poetico diviene a sua volta una sofisticata messa in scena. In altri casi, al contrario, la facciata vuole dimostrare il proprio valore del tutto autonomo e staccato dal resto della costruzione. Nella storia dell'architettura questo processo avviene per gradi. Pur riprendendo l'andamento obliquo del tetto che copre le navate laterali, la facciata del duomo di Como è una lastra di marmo che porta incastonati i santi, intelaiati da lesene che hanno perso ogni funzione strutturale. Qui la facciata è un monumento autonomo, una occidentale iconostasi. A Orvieto la facciata del duomo è un organismo architettonico di forte spessore, un tappeto molto profondo sospeso tra quattro torricelle. Con Leon Battista Alberti la facciata diviene composizione ab-soluta. Ancora bidimensionale a Santa Maria Novella eppure già nella nuova lingua del Rinascimento, è a Rimini nel tempio malatestiano spazio totalmente autonomo, trascrizione nella profondità dell'ornamento classico, memoria dell'architettura antica e nuova invenzione al tempo stesso. 86 La facciata può allora essere il luogo in cui l'architettura recupera la sua memoria, può essere una elaborazione letteraria. In alcuni casi messaggio simbolico in chiave che solo gli iniziati sono in grado di decifrare (Badia Fiesolana). Per lungo tempo la facciata fu il luogo dove si disponevano gli ordini che consentivano di capire il carattere dell'edificio. Ogni volta una variazione sul tema entro un ambito limitato di soluzioni. In epoche recenti la facciata diviene, in taluni casi, l'ultimo luogo dove è lecito esprimere una lingua, oppure rappresentare il mito dell'architettura. Oggi, del resto, con tutt’altro intento e nostro malgrado, la facciata è il luogo persino degli schermi giganti. La facciata è comunicazione, rappresentazione in movimento, situazione virtuale che cambia a ogni istante e che può raccontarci in tempo reale che cosa sta accadendo all'interno di un teatro, di un museo, di un centro culturale, oppure dall'altra parte del mondo. La totale separazione della facciata dall'organismo retrostante è arrivata a un tale punto da far quasi pensare che oggi ci siano solo facciate. Molti progetti contemporanei fanno sorgere il sospetto di essere un continuo esercizio sul tema, una continua variazione sulla facciata. All'opposto, alcuni pensano che la facciata sia un tema impossibile, una strada non più praticabile, oppure qualcosa di cui si può fare a meno. Viene da pensare alla Scuola Grande della Misericordia di Francesco Sansovino a Venezia: da almeno cinque secoli è in attesa di una pelle che ne completi il non finito apparecchio murario. Come in questo grande edificio veneziano, per alcuni architetti contemporanei la facciata è un tema continuamente rimandato, risolto sempre con un artificio. La facciata dovrebbe essere il punto in cui la forma si conclude, il punto di arrivo e di quiete (Grassi, 1988). Tra questi due estremi solo facciata e la facciata omessa, c'è un vasto spazio oscillante tra retorica, eloquenza e persino didascalicità, nel quale troviamo facciate che cercano ancora di mostrarci il carattere dell'edificio, il suo stato d'animo, di riportare un qualche ordine e una riconoscibilità tra i mille frammenti di una teoria non più transitabile. La facciata moderna, che si illudeva di essersi liberata dalla (presunta) schiavitù di un ordine accademico è ridivenuta accademica rappresentazione del casuale a tutti i costi. Estetica del finto spontaneo. Toccherà ancora una volta tornare a Loos, pensando a quelle sue facciate disposte come attori sulla scena urbana? Michaelerplatz. Le colonne e il più sofisticato dei marmi sono posti al contatto con la città e con la strada, lo zoccolo come in Fischer von Erlach è importante, il partito molto regolare e intonacato ai piani superiori, a coronamento, al posto giusto cioè, le cornici e i particolari che comunque ci ricordano che l'architettura è un 87 fatto civile e collettivo (anche la più privata delle case è un fenomeno che riguarda tutti). Loos crede ancora a una possibile ricomposizione dell'architettura, cerca di salvare un mondo prima che esso vada definitivamente perduto. Ordiniamo gerarchie nel comporre facciate, cercando una corrispondenza tra il carattere dell'edificio e i suoi volti. Finestre uniche irripetibili e, al loro fianco, ordini minori di aperture raggruppate in nuclei che a loro volta individuano centri secondari di simmetria oppure criteri di rigorosa serialità, come nella villa per Alexander Moissi progettata da Loos al Lido di Venezia (Tanto migliore la simmetria quanto più riusciamo a dissimulare il suo asse, Tessenow). A ogni gerarchia ecco corrispondere un'idea di abitare, un modo di savoir vivre, alle figure eccezionali e grandiose corrispondono gli spazi signorili della casa, agli elementi seriali e più dimessi corrispondono gli spazi di servizio e i momenti più tranquilli dell'abitare. Ciò che interessa qui notare è che, per esempio nel caso di Loos, c'è sempre un dialogo tra gli elementi di queste facciate, una ricerca di equilibrio che non è mai raggiungimento di uno stato di quiete. La stessa tecnica del fuoridentro, del bassorilievo e del chiaroscuro, l'attenzione al complesso gioco tra le parti avanzate o arretrate rispetto al filo della facciata enfatizza l'analogia con il volto e autorizza il pensiero che le case di Loos risultino essere proprio come dei personaggi. Come un vestito su misura rispetto ai loro illuminati committenti. C'è anche chi ha parlato a proposito di queste facciate di una precisa volontà fisiognomica. E prima di Loos, i padiglioni ottomani del sultano di Top-Kapi, Theodor Fischer ecc. È forse vero che l'elemento fisiognomico non è un'intenzione creativa consapevole, ma penetra nell'architettura indirettamente. Andrebbe approfondito per esempio se la sola somiglianza di molti edifici col volto umano conferisca loro automaticamente valore fisiognomico. Oppure se non siano piuttosto i mezzi impiegati, come ad esempio la simmetria, a produrre questo effetto (Spalt, 1991). Loos e Frank sono in questo forse i protagonisti di un altro Moderno, meno ideologico delle avanguardie, più attento a un particolare pensiero dell'architettura che ha sempre cercato di esprimere anche il carattere delle costruzioni. Viene da pensare a Boullée oppure a Claude Nicolas Ledoux o, per certi aspetti, agli enigmi ancora irrisolti di Lequeu. La ricerca di Frank è nella direzione di dare un aspetto sensibile della casa. La facciata severa verso strada a difendere dagli estranei, al contrario, verso il giardino, il volto sorridente e aperto delle portefinestre che accolgono il visitatore (Frank, Haus Scholl, 1913– 14). La facciata gioca un ruolo determinante in questa operazione, anche se essa non agisce da sola ma in stretto collegamento con la disposizione narrativa dei diversi elementi che compongono lo spazio: l’interno come 88 strada e piazza, la scala, i punti di passaggio tra uno spazio e l'altro, i luoghi per la quiete intorno al camino oppure quelli destinati al movimento ecc. Le simmetrie disturbate di Frank, le sue figure ordinate in sequenze successive di spazi, sono apparentemente casuali e spontanee, ma in realtà controllatissime sul piano della composizione e degli effetti che si vogliono raggiungere. Sul finire del Novecento la facciata di casa Miggiano a Otranto, di Umberto Riva, sembra riuscire a comprendere tutte le questioni: la facciata classica e il suo disturbo, la regola e l'eccezione, la simmetria e il suo tradimento, lo zoccolo a corsi orizzontali che ricorda la pietra con l'intonaco, la disposizione modernista delle finestre poste dove servono e al contempo una proporzione distante dalla fenêtre en longueur, un’instabilità di fondo che tuttavia, in questo caso, sembra ancora tenuta insieme da fili sottili. Già abbiamo visto a proposito dell’ornamento e della decorazione come esista un sistema visibile dell’architettura cui è sempre più demandata l’estrinsecazione del carattere, imponendolo al sistema della costruzione. La facciata è sicuramente uno dei luoghi in cui è possibile mostrare questo rapporto inquieto e, nei casi migliori, temporaneamente risolto con equilibri dinamici. Ciò che alla fine conta per l’architettura è il risultato. La logica e la razionalità del percorso progettuale non sono di per sé garanzia di bellezza e armonia della costruzione. La non più transitabilità del percorso di certezza, che in passato per l’architettura è stato garantito da regole, ordini, numeri d’oro e algoritmi tesi alla perfezione, ha spostato l’attenzione sulla molteplicità del reale, su uno stato delle cose e su responsabilità individuali che mettono in primo piano la funzione rappresentativa e comunicativa dell’edificio. Le stesse questioni di più di un secolo fa, complicate se possibile dalla inafferrabilità di immagini virtuali, non fissabili, veloci (troppo) da consumarsi. 89 Josef Frank Facciata e interieur, 1928 Tutto ciò che è uniforme ha patos; la nostra architettura moderna, che in grande misura tende nuovamente a una unitarietà, per dare finalmente una meritata conclusione alla sterile confusione di forme edilizie individualiste, per questo motivo è necessariamente patetica. Come forma di propaganda ha un grande valore, ma non appartiene in alcun modo alle intenzioni originali; purtroppo causa ed effetto vengono spesso confusi, cosicché viene perseguito il patos fine a se stesso. A questa categoria appartengono anche i numerosi tentativi di pura arte formale, di impiegare una massima tipizzazione oppure addirittura la sua imitazione anche in casi in cui questa non è necessaria e nemmeno utile. Il patos nella vita quotidiana è insopportabile e per questo bisogna fare tutto quanto possibile per neutralizzare questo effetto una volta ottenuto. A questo scopo non è necessario fare sforzi violenti per creare variazioni con raggruppamenti, colori, tetti e ornamenti, ma questo deve succedere in maniera completamente organica mediante gli accessori casualmente aggiunti come affissioni, manifesti, illuminazioni e altro. Questi rendono anche la più semplice strada commerciale così variegata, che in tutto questo le pareti della nostra casa non possono offrire altro che un placido sfondo per la vita. La facciata della casa urbana ha perso per noi qualsiasi altro significato. Oppure questa attenuazione viene realizzata mediante i giardini antistanti che con la loro rapida variazione eliminano ogni monotonia. I vincoli che determinano la facciata e l’interieur sono completamente differenti e non hanno nulla a che spartire gli uni con gli altri. All’interno della casa cade ogni necessità di uniformità con il vicino. Anche la crescente tipizzazione non potrà fare nulla contro di ciò, poiché ci saranno sempre un numero sufficiente di tipi con cui è possibile formulare le più diverse combinazioni. L’esterno e l’interno della casa come tutt’uno inscindibile è un’immagine che appartiene al passato. Oggi siamo arrivati al punto che non vogliamo costringerci, sulla base di nebulose teorie estetiche e morali, a limitarci nel nostro stile di vita attuale e futuro, e le nostre opinioni cambiano come si sa molto in fretta. – Per questo non credo sia assolutamente una contraddizione se la casa è arredata quasi completamente con mobili vecchi. Non si tratta nemmeno di un arredamento vecchio stile, che sarebbe altrettanto poco moderno quanto il moderno, ma una giustapposizione casuale di pezzi singoli, con i quali gli abitanti hanno creato nel corso degli anni una relazione intima, e che quindi sono per loro preziosi. L’obiettivo, il primato ambito da un arreda90 Josef Frank mento non consiste nell’essere il più possibile ricco o il più possibile semplice, ma il più possibile piacevole; uno scopo che sta al centro e che per questo è difficile da comprendere per chi non ha naturalità nel sentire. L’aspirazione agli estremi denota insicurezza, poiché in questo caso il sentire deve essere sostituito da un principio, e attaccarsi a questo principio è un segno di debolezza. – La macchina domestica è sempre stata tipizzata in tutti i tempi. Il XIX secolo ha fatto solo l’errore di utilizzare questi tipi nel modo sbagliato, e di utilizzare per la vita quotidiana quanto era previsto per i casi eccezionali. La nostra battaglia quindi non è contro le forme, ma contro un modo di pensare, o meglio contro la sua assenza, poiché gli uomini riconoscono più facilmente gli accessori che non l’essenziale. – Gli arredi più piacevoli sono da sempre quelli che l’abitante stesso nel corso degli anni ha messo insieme e che non lasciano trasparire alcuna intenzionalità. Niente è più sgradevole di un arredamento che subito elogia come un manifesto le buone qualità dell’abitante. Per questo la cosa più importante è l’educazione del pubblico a un modo garbato di guardare le cose, però questo deve accadere contemporaneamente in tutti i campi per giungere al risultato desiderato. Adolf Loos Architettura, 1909 L’architettura suscita nell’uomo degli stati d’animo. Il compito dell’architetto è dunque di precisare lo stato d’animo. La stanza deve apparire accogliente, la casa abitabile. Il Palazzo di Giustizia deve apparire al vizio segreto come un gesto di minaccia. La sede della banca deve dire: qui il tuo denaro è custodito saldamente e con oculatezza da gente onesta. All’architetto questo riesce soltanto se si collega a quegli edifici che finora hanno suscitato nell’uomo questo stato d’animo. Presso i Cinesi il colore del lutto è il bianco, per noi è il nero. I nostri architetti non riuscirebbero quindi a suscitare con il nero uno stato d’animo gioioso. Josef Frank Adolf Loos 91 Giorgio Grassi Camillo Sitte Architettura, lingua morta, 1988 L’arte di costruire le città, 1909 Una tipica questione sempre rimandata, cioè mai risolta. La facciata di un edificio è una faccenda importante. È per definizione il punto in cui convergono tutti i movimenti, tutte le tensioni ecc. della forma finita, il punto conclusivo, il punto d’arrivo e il punto di quiete, il punto in cui a volte è demandato anche il compito di riassumere il carattere della costruzione: la facciata principale si dice. Ed è proprio per tutte queste ragioni che io non sono mai in condizione di affrontarla come tale. Nei miei progetti avviene infatti esattamente il contrario. Il progetto fa vedere l’esigenza di un punto conclusivo, il bisogno della facciata, ne produce anche l’aspettativa, proprio anche tecnicamente: il progetto sembra quasi rimandare ogni volta oltre l’angolo, letteralmente, il problema; ma non lo affronta mai come tale. E poiché un edificio comunque presenta un suo lato gerarchicamente più importante, questo lato viene sempre risolto con un artificio (i miei lavori ne offrono un’ampia gamma). Un artificio che comunque mostra sempre con evidenza l’imbarazzo, il disagio di fronte al principale problema. Tanto che nei miei progetti il fronte quasi sempre viene affrontato espressivamente con quello che è considerato il suo esatto contrario, cioè con il frontespizio. E così la facciata viene risolta con la parte più secondaria, la parte più casuale del perimetro, la parte meno architettonica, cioè con il fronte cieco dell’edificio. Gli esempi non mancano: basta pensare al progetto di Trieste dove il fronte principale è costituito da una sequenza di frontespizi, o a quello di Chieti, dove praticamente non esiste un fronte esterno. In tutti i progetti avviene più o meno lo stesso: nel quartiere di Pianistrella a Teora, come nel grande edificio unico di Lützowplatz a Berlino. Mentre ad esempio nella chiesa di Teora spetta alla torre del campanile, alle sue misure diverse, al suo volume chiuso che, senza farne parte, sta in mezzo al fronte principale, di dare una risposta a questo ineludibile problema del progetto. Ma, a ben guardare, è sempre la stessa storia: così facendo il progetto non fa che ripetere ogni volta il medesimo gesto, quello di rinviare il suo problema oltre i propri confini fisici, quello cioè di rimandarlo, per così dire alla sua virtuale estensione. Chi a sera, dopo il serio lavoro quotidiano, spinge i suoi passi attraverso gli scavi del Foro [di Pompei], si sente irresistibilmente attirato sulla scalinata del tempio di Giove, per poter guardare ancora una volta dall’alto dello stilobate la bellezza dell’impianto che ci investe con pienezza di armonia, come suoni pieni e puri della musica più bella. Da tale posizione possiamo capire anche le parole di Aristotele, che riassume tutti i principi della costruzione della città quando afferma che una città dovrebbe essere costruita per rendere gli uomini sicuri e allo stesso tempo felici. A tal fine la costruzione della città non deve essere ridotta a una semplice questione tecnica ma dovrebbe a pieno titolo appartenere alla sfera dell’arte nel senso più proprio e più nobile del termine. [...] Per questo non verrà qui proposto né l’atteggiamento da storico né quello da critico, ma verranno invece analizzate città antiche e nuove esclusivamente dal punto di vista della tecnica artistica, per mettere a nudo i motivi della composizione che producevano là armonia e fascino, qui distrazione e noia; e tutto ciò con lo scopo di trovare se possibile una alternativa che ci liberi dal sistema moderno di edifici simili a scatole, che salvi possibilmente le vecchie città dalla distruzione che sempre più tocca loro, e che infine permetta la realizzazione di opere simili a quelle degli antichi Maestri. 92 Giorgio Grassi 93 Il tetto Il posto destinato a custodire il focolare è per Semper il primo e più importante elemento morale dell’arte di costruire. Il tetto, insieme al recinto e al terrapieno, costituisce i tre elementi di difesa che lo proteggono (Semper, 1851). Di fronte a un assunto così fondamentale sembra poca cosa la disputa che pochi decenni più tardi avrebbe coinvolto il meglio della cultura architettonica schierata col Movimento Moderno. Nell’autunno del 1927 esce il numero 7 della rivista Das Neue Frankfurt dedicato al tetto. Tetto piatto o a falde? Gli storici hanno ricostruito con precisione le posizioni dei sostenitori (e dei detrattori) dell’uno e dell’altro. A noi non interessa, a partire dalla forma del tetto, distinguere il bene dal male, riconoscere il progresso e, dall’altra parte, la conservazione, distinguere l’architettura delle regioni da quella dell’international style. Allora saremmo forse stati costretti a schierarci per una tendenza, oppure per una tendenza nella tendenza, come fece per esempio la rivista Quadrante. Avremmo probabilmente scelto il Moderno e quelle consapevoli esagerazioni che impediscono di essere moderati nei momenti rivoluzionari. Oppure avremmo forse scelto quell’altro Moderno, memore di un mito antico dell’architettura, capace di evocare per questa disciplina compiti ormai superati oppure ritenuti dal luogo comune accademici. Oggi che non siamo più costretti a compiere scelte di campo categoriche, possiamo serenamente sostenere le ragioni di un laico eclettismo nella tendenza. Riconosciamo al Moderno la capacità rifondativa della disciplina. Siamo tuttavia consapevoli delle rigidità dogmatiche che impedirono al Neues Bauen di essere duraturo, legato al luogo, capace di ricordare e trasformare la memoria in pietra. Del pari però ci attira la caparbietà di quelle retroguardie che seppero non lasciarsi affascinare dal nuovo a tutti i costi, tenendo aperto un dialogo con la tradizione, con tempi più lenti legati alla normalità di una vita quotidiana fatta di gesti certi e ripetuti. Già è stato notato come sia significativo che Ernst May chiami Heinrich Tessenow a concludere il quaderno monografico dedicato al tetto. Le posizioni sagge e moderate paiono oggi più durature di quelle delle avanguardie categoriche, più convincenti di quelle dei reazionari arrabbiati. 95 Ma che cos’è un tetto adeguato? Dando per scontato che esso tecnologicamente assolva alla funzione di proteggere i muri e allontanare l’acqua, parliamo di un tetto che copre bene? È un tetto che completa la casa? Un tetto che pur dando l’idea di coprire bene o di completare la casa adeguatamente, si mostra il meno possibile? Oppure fa bella mostra di sé esagerando la propria figura a dichiarare di essere proprio un tetto? Per Semper, come abbiamo visto, è una delle figure originarie e generatrici della casa. Forma e figura necessaria. Per Loos il contadino/costruttore non si chiede certo quali aggettivi accompagnino il tetto. Egli fa il tetto. Quale tetto? Il tetto. Un’antichissima idea di spazio imparenta la tenda al tetto. Due mondi diversi e distanti separano i nomadi fabbricatori di tende dai popoli stanziali costruttori di terrapieni in terra, terrazzi di pietra e piramidi, ma tutte queste genti lavorano sulla stessa figura originaria (Semper, 1851). Il tetto dunque ha a che fare con il mito della costruzione e con primordiali e ancestrali atti protettivi (tranquillizzanti e perciò necessari). Nella straordinaria rappresentazione di Piero della Francesca il manto della Madre è casa, tenda, tetto. Una e cosmo, figura che protegge. Anche quando apparentemente non se ne coglie la presenza, il tetto esiste (tra le sue variazioni sul tema della forma costruita Paul Schmitthenner propone la casa ben coperta, eppure senza tetto). Con il tetto la casa è finita. Si festeggia in alcuni paesi l’occasione con la cima di un albero. Rileggendo l’esperienza dell’architettura nel tempo ci si accorge che la querelle sui diversi modi di realizzare il tetto, se osservata a una maggiore distanza, riguarda in realtà un problema fondamentale della costruzione. Come risolvere in modo adeguato quel punto particolarmente delicato del partito di facciata in prossimità della trabeazione? Come cioè, nei diversi casi, l’ordine viene definito e coerentemente concluso oppure come, in tempi recenti, sul lenzuolo teso del prospetto viene annunciata e marcata la presenza della copertura? Anche nel caso più dimesso e semplice, come per esempio nell’unità di abitazione orizzontale di Adalberto Libera al Tuscolano (Roma, 1950–1954), uno sporto minimo diviene al contempo definizione dell’alzato e promessa di protezione. Ciò che resta del tetto è un’ala leggera. Linea sensibile, appena spezzata, pronta a volar via. Un segno discreto di grande effetto. Quella linea sottile resa importante dalla sua ombra è ancora tutta dentro la cultura classica della costruzione. Per secoli del resto il timpano fu ciò che restava in facciata della memoria del tetto. La messa in scena della sezione quale modo di risolvere la facciata parrebbe non essere invenzione dei soli moderni. I discreti timpani dei progetti di Tessenow per una casa signorile di campagna conferiscono con quasi timido gesto un valore aulico al fronte. Un 96 rimando al tetto necessario può rimanere nel paramento di mattoni perforato in figura di timpano di alcuni monumenti padani (Paolo Zermani, Teatro di Felegara 1984). Altrove il tetto si carica di significati tali da non poter essere discreto, in alcuni casi diviene uno dei luoghi della decorazione. Nei templi arcaici di Sicilia costruiti in terracotta poi dipinta di colori vivaci, piccole epitome leonine marcano il canale di gronda convogliandone l’acqua alla maniera di fantastici doccioni. Il tetto porta figure e simboli, ammonisce, incute paura a chi minaccia il tempio. Spostandoci verso nord e passando per il medioevo fantastico delle cattedrali di Francia si arriva a mondi meno solari, e perciò meno sereni, come quello delle chiese in legno norvegesi. Teste di drago, corazze di animali e trasfigurazioni spaventose rivivono nelle figure di squame ottenute da scandole di larice sottili. Pelle spessa e guscio centinato sembrano imparentare l’arte del costruire alla maestria dei carpentieri di scafi. Lo scambio tra navi e costruzione di tetti sembra poi certo a Genova e a Venezia (Codussi). Nell’Arsenale dei Veneziani il tetto diviene macchina, ambito degli argani e delle pulegge. Nei teatri neoclassici (Friedrich Weinbrenner, Carl von Fischer) la copertura è machinerie scenica molto complessa destinata alla creazione di effetti e illusioni. In altri mondi dove la città borghese ottocentesca ha programmato e definito tutti gli spazi disponibili, lo spessore del tetto si disintegra e diviene spazio riconquistato all’abitare (Wohnraum per Siegfried Giedion), il luogo dei giardini pensili cinti da muri che escludono alla vista il tumulto della metropoli. Le Corbusier parla del suo progetto per casa Beistegui sugli Champs-Elysées (1930–1931) come di un ambito sottratto agli avidi venditori di tegole e di lastre di ardesia. I traguardi sulla città sono isolati, alla maniera dei surrealisti. I monumenti incorniciati divengono a loro volta sculture tra le altre che popolano la scena di questo giardino di pietra. Il tetto ci dice poi del luogo e cioè del rapporto tra la costruzione e il sole. Ma quelle che all’origine furono motivazioni tecniche riflesso diretto del clima si sono col tempo trasformate anche in ragioni figurative e simboliche. Il tetto rendeva riconoscibile un luogo da un altro, oppure accomunava situazioni (i tetti di rame di Parigi che i B.B.P.R. richiamano per la Torre Velasca a Milano, un’idea di città europea). Le contaminazioni che da sempre arricchiscono l’architettura hanno rimescolato mondi, ma anche rafforzato identità (a latere di tutto ciò meriterebbe, altrove, interrogarsi sulla imperante antinomia globalizzazione o identità, sostenendo invece i motivi che dovrebbero spingerci a pensare globalizzazione e identità). Il tetto degli edifici è tra le impressioni che ricordiamo di alcune città o regioni. Nelle città toscane il tetto sottile retto da mensole e con sbalzo 97 esagerato. E i progetti che lavorano su questa identità precisa, come lo sporto della Borsa Merci di Pistoia di Giovanni Michelucci. Il tetto non si vede. È un’ombra marcata, una linea continua che frena il volume rispetto al cielo. Per Mario Ridolfi il tetto è un capodopera artigianale di antica origine, una parte della casa ancora sottratta alla modernità, una forma tradizionale che viene ogni volta complicata e subordinata alle esigenze planimetriche (queste invece sì di vulgata moderna) della costruzione. Il tetto non è qui uno strato sottile, ma un corpo complesso, figura con uno spessore marcato, piano inclinato incaricato di trasformarsi in comignolo, cuspide, terminale elaborati alla maniera di una tradizione colta. C’è qualcosa di Borromini in tutto questo, come se la sua maestria si fosse radicata contaminandosi con parlate meno auliche nei luoghi dell’architettura minore. Elemento terminale della facciata, la linea di gronda che annuncia il tetto unifica le addizioni urbane conferendo loro il carattere del tessuto storico. È il modo di controllare l’architettura della città. Un filo unico che accetta, sotto di sé, partiti differenti. A Lisbona con Pombal, nella berlinese südliche Friedrichsstadt, a Monaco con la Ludwigstrasse di Leo von Klenze, nelle belle città cisalpine governate dalle Commissioni d’Ornato. È ancora il grande tetto a unificare edifici disparati. A Trnovo Plečnik raduna sotto uno stesso tetto una schiera di case disomogenee trasformandole in una architettura civile (1944). La grande aula voltata, il palazzo della ragione, il broletto sono il luogo dove si riconosce lo spirito collettivo di una città. Figura sospesa tra città e campagna, spazio centrale solo porticato nel tutto pieno della città gotica, ma anche luogo memore della grande scala che misura in distanza le cascine. Ecco la tradizione lombarda del coperto. Spazio collettivo in terra di pianura, sorretto da pilastri e voltato da un grande tetto. Un grande tetto sotto il quale la gente forse amerà chiacchierare, vendere, comprare, discutere, prender parte alla vita della comunità. Grandi tetti e grandi ombre, sequenze di pilastri, toni caldi, una certa durezza funzionale, non leziosa, ottenuta badando alla materia, all’effetto complessivo dei corpi più che al loro dettaglio. Tetto anche come carattere, identità: nei progetti di trasformazione dei castelli e residenze di campagna Karl Friedrich Schinkel modifica sempre la forma del tetto. È una questione di stile, ma questo gesto corrisponde anche alla transizione dal carattere contadino di un’aristocrazia conservatrice a un’ambizione più colta e sprovincializzata. E poi in sequenza tetti appena appoggiati, tetti che potrebbero non esserci, tetti del tutto indipendenti. Oppure al contrario coronamenti inseparabili, parti indispensabili al funzionamento della costruzione. Il tetto è 98 uno strumento di lavoro, un grande vano per asciugare il fieno, raccogliere il grano e i cereali. In alcune zone delle Alpi è a partire dal tetto che si distinguono due grandi tradizioni, quella romana/latina che porta solide e profonde murature in pietra e quella più nordica/sassone legata all’uso sapiente del legno, più deperibile, ma anche versatile, leggero, intrecciabile. Ancora il tetto scende dal culmine della casa per sorreggere i balconi in legno che corrono davanti alla muratura intonacata. Il tetto si trasmuta in parete verticale, perforata, tessile, un grigliato trasparente che filtra la luce. In zone di montagna dal clima ingrato il tetto diventa sensibile. Un corpo che reagisce al vento dominante e alla pioggia (Casa Lois Welzenbacher, Valgardena) oppure il tetto si apre verso il sole della valle, lo sguardo diretto verso le cime più alte delle montagne (Gio Ponti, Hotel Valmartello; Plečnik, casa fra i monti). E tutto questo per cercare di non avere un atteggiamento ideologico nei confronti del tetto. Prendiamo il lavoro di Ignazio Gardella, per esempio. Nel corso della sua vita è stato protagonista delle battaglie impegnate che la cultura architettonica italiana del secolo appena passato ha saputo combattere per il rinnovamento. Ma è stato al contempo colui che, con altri compagni di strada come Rogers e Samonà, si è impegnato affinché il linguaggio del Moderno non divenisse un nuovo stile. Ecco i tetti piatti di Gardella negli Anni Trenta, quando si trattava di affermare una posizione dimostrativa (la rogersiana rivoluzionaria sospensione della memoria). E poi nel dopoguerra la successione di tetti a falde con forti sporti per una chiesa nei dintorni di Milano, i tetti leggeri appena appoggiati alle travi delle case operaie di Alessandria, la variazione sul tema tradizionale della copertura per una casa tra i vigneti. Conclusione provvisoria, con poche certezze e quelle poche consapevolmente provvisorie. Nel Moderno vivono e si sviluppano altre posizioni ricche di immagini e feconde di figure che continuano a costruire il tetto senza pregiudizi di sorta. Ci siamo accorti della scarsa utilità nella costruzione (come nell’insegnamento dell’architettura) di posizioni categoriche o intransigenti. Anche per il tetto, come per la facciata e per la decorazione, ciò cui dovremmo tendere è l’appropriatezza della soluzione (per anni l’avevamo definita Zweckmäßigkeit). Sbilanciatesi le avanguardie, dignitosamente avendo resistito la retroguardia, siamo oggi consapevoli che le ragioni del Moderno possano vivere solo se contaminate con altre ragioni. Cioè quelle di sempre. Il luogo, il paesaggio e la memoria: da qui ricominciare a ragionare per intero su tutta l’esperienza dell’architettura nel tempo. E, per questa via, imparare ancora. 99 Adolf Loos Ernst May Architettura, 1909 Das Neue Frankfurt, 1927 Il contadino ha delimitato sull’erba verde il terreno su cui deve sorgere la nuova casa e ha scavato la terra per i muri maestri. Ora compare il muratore. Se c’è nelle vicinanze un terreno argilloso, c’è anche una fornace per i mattoni. Se non c’è, basta la pietra delle rive. E mentre il muratore dispone mattone su mattone, pietra su pietra, il carpentiere ha preso posto accanto a lui. Allegri risuonano i colpi d’ascia. Egli costruisce il tetto. Che specie di tetto? Un tetto bello o brutto? Non lo sa. Il tetto. La copertura piana [...] Tra i numerosi problemi costruttivi specifici che vengono sollevati oggi dalla tecnica edilizia, nessuno ha tanto agitato gli animi quanto il problema: tetto piano o tetto a falde. Nonostante il fatto che entrambi i tipi di copertura siano stati applicati per millenni in tutte le parti del mondo e che la soluzione della copertura piana adottata anche nei paesi nordeuropei sia nell’epoca classica che in quella successiva, senza che questo avesse mai sollevato pubblici dibattiti, la controversia riempie oggi le pagine della stampa quotidiana e di quella specializzata. La durezza della battaglia che si conduce intorno alla copertura piana si può far risalire a due importanti fattori. Le difficoltà economiche del dopoguerra resero le industrie estremamente sensibili a ogni misura che sembrasse comportare una diminuzione della richiesta. Non è quindi un caso che tutto il lavoro connesso alla costruzione delle coperture si sentisse letteralmente minacciato, sul piano della sopravvivenza, dalla diffusione del tetto piatto e che in particolare la categoria dei mastri carpentieri, più direttamente danneggiata dall’applicazione delle coperture piane realizzate in cemento, intraprendesse una battaglia per opporsi a un simile pericolo per il loro lavoro. Se nel caso della copertura piana si fosse trattato soltanto di una qualsiasi moda architettonica, le obiezioni della categoria sarebbero state giustificate. Un giudice imparziale dovrà però ammettere che una moda non possiederà mai la forza morale e la tenacia di farsi strada, passo per passo, contro l’ostilità più accesa se non fosse sostenuta da quella forza etica che è sempre stata la premessa per l’affermazione di una forza espressiva nuova e negatrice del caos stilistico che l’aveva preceduta. L’altro motivo importante di questa ostilità sarebbe da attribuire in particolare agli intellettuali e al loro atteggiamento verso la storia. La bellezza e l’armonia del tetto a falde nell’immagine delle città che sorsero in condizioni di vita completamente differenti dalle nostre, ha indotto costoro a scegliere il passato come modello per il futuro. Costoro non avvertono l’incalzare dei tempi nuovi, ignorano i cambiamenti intervenuti nelle nostre abitudini di vita. Si battono per lo stenditoio ricavato nel tetto a falde, che tuttavia con il tetto a terrazza si può parimenti realizzare, se necessario, in condizioni anche migliori; mentre nei quartieri di abitazione più grandi la lavanderia viene sempre più spesso centralizzata e si rendono perciò sempre meno necessari il lavatoio e lo stenditoio. Essi ignorano Le Corbusier I cinque punti per una nuova architettura, 1926 Il tetto-giardino. Da secoli un sottotetto tradizionale ha il compito di resistere all’inverno con il suo manto di neve, e la casa è riscaldata con delle stufe. Da quando c’è il riscaldamento centrale, il tetto tradizionale non è più appropriato. Il tetto non deve più essere in rilievo, ma incavato. Deve riversare le acque all’interno e non più all’esterno. Verità inconfutabile: i climi freddi impongono la soppressione del sottotetto inclinato e richiedono la costruzione di tetti-terrazza incavati, con scolo delle acque all’interno della casa. Il cemento armato è il nuovo mezzo che permette la realizzazione di coperture omogenee. Il cemento armato si dilata fortemente. La dilatazione fessura la struttura nei momenti di forte ritiro. Invece di cercare di far defluire rapidamente l’acqua piovana, bisogna cercare di mantenere una umidità costante sul cemento della terrazza e attraverso questa una temperatura regolare sul cemento armato. Misura particolare di protezione: sabbia ricoperta di lastre spesse di cemento, a giunti sfalsati; questi giunti sono seminati di erba. Sabbia e radici lasciano filtrare l’acqua lentamente. I giardini-terrazza diventano opulenti: fiori, arbusti e alberi, prato. Ragioni tecniche, ragioni di economia, ragioni di comfort e ragioni di sensibilità ci portano ad adottare il tetto-terrazza. 100 Adolf Loos Le Corbusier Ernst May 101 che il lavoro logorante a cui sono oggi sottoposte le persone necessita sempre di più di una compensazione attraverso una sistematica cura del corpo, tanto che non si può più rinunciare a sfruttare l’aria pura e il silenzio offerto dai tetti a terrazza delle case d’affitto urbane, costringendo invece la gente a trascorrere il proprio tempo libero nella polvere e nel rumore delle strade. Essi si appellano alla tutela delle bellezze artistiche e al ristabilimento dell’armonia nell’immagine della città, mentre dimenticano che nessuna forma di copertura può meglio di quella piana contrapporsi al caos dei tetti a mansarda, dei tetti a due falde, dei tetti a una falda, dei tetti curvi, ecc. che perdippiù sono generalmente realizzati nei più svariati colori e secondo le tecniche più disparate e hanno contribuito in misura rilevante a peggiorare l’aspetto delle nostre città e dei nostri paesi; essi non si rendono conto del fatto che nessuna forma più del tetto a terrazza può diventare promotrice di una nuova unità stilistica. Dimenticano inoltre che è superato il tempo in cui la facciata prevaleva sulla pianta, essi non percepiscono ancora l’aspirazione delle masse, che si afferma vittoriosa nella moderna architettura di tutti i paesi, verso una forma architettonica che non maschera più nulla, non crea forme illusorie, ma concepisce la forma architettonica come la realizzazione della specifica funzione edilizia. tutta la linea significherebbe sottovalutare assurdamente il tetto a falde, che senza dubbio da noi – particolarmente per l’edilizia a basso costo – avrà una diffusione sempre maggiore, non foss’altro che per il fatto che per il nostro clima è la forma basilare incontestabilmente migliore. Poiché la nostra architettura d’avanguardia mostra di preferire il tetto piatto essa ha anche naturalmente accaniti avversari: avviene sempre che vi siano degli avversari quando si tentano nuove strade; e quindi ora, nel caso che quanto detto fin qui non fosse sufficientemente chiaro, voglio ancora una volta porre l’accento sul fatto che io non mi trovo dalla parte di questi avversari. Amo il tetto piatto e l’ho spesso adottato nei miei progetti; ma in questo caso come in ogni altro, invito a diffidare degli slogan, e nel caso della nostra architettura d’avanguardia il tetto piatto è diventato incontestabilmente uno slogan. Heinrich Tessenow Das Neue Frankfurt, 1927 [...] Possediamo una tradizione sperimentata e antica di secoli nella costruzione delle coperture che non solo ci consente di riconoscerne la validità, ma anche – mi riferisco in particolare alle diverse esperienze delle cupole e delle torri – ci spinge a misurarci con il tetto come elemento dell’architettura, tanto che sarebbe assolutamente ingiustificabile che noi – più o meno improvvisamente – rinunciassimo del tutto, o anche soltanto in gran parte, al tetto in vista o al tetto a falde. Il principio del tetto a falde (con il nostro clima temperato) è altrettanto solido e giustificato quanto il principio delle scale che usiamo normalmente, queste ultime non hanno meno valore per il fatto che oggi esistono anche delle scale mobili, degli ascensori o dei nastri trasportatori. Il fatto che noi ci battiamo in favore del tetto piatto, che cerchiamo di migliorarlo e in determinati casi lo scegliamo – per così dire – per il suo carattere di negazione, dovrebbe apparire naturale a qualsiasi architetto; ma pensare che la copertura piana dovrà vincere entro breve tempo su 102 Ernst May Heinrich Tessenow Heinrich Tessenow 103 Fonte delle illustrazioni Pagina 12 Gottfried Semper: Capanna caraibica, 1863 Da: Gottfried Semper: Der Stil. Bd. 2: Keramik, Tektonik, Stereotomie, Metallotechnik. München: Bruckmann 1863 Pagina 24 Karl Friedrich Schinkel: Bauakademie a Berlino, 1831-1836 Da: Karl Friedrich Schinkel: Sammlung architektonischer Entwürfe. Berlin: 1858, Tav. 119 (dettaglio) Pagina 36 Alexandre Cozens: Principles of Beauty relative to the Human Head. London: 1777-1778 Stiftung Bibliothek Werner Oechslin, Einsiedeln Pagina 72 Giorgio Grassi (con Manuel Portacelli): Il teatro romano di Sagunto. Schizzo, 1985. Da: phalaris, 6 (1990) Pagina 82 Francesco Collotti: Disegni di raffronto tra facciate Josef Frank: Haus Scholl, Wien, 1913-1914 (in alto) Adolf Loos: Villa a Haifa, 1931 (in basso) Pagina 94 Francesco Collotti e Franca Ravara: Coperto Peschiera Borromeo, 1995-2001 Pagina 48 Adolf Loos: Hotel Esplanade, Agram (Zagabria), primi schizzi, 1921 Da: Adolf Loos: Kat. Graphische Sammlung Albertina. Wien 1989 Adolf Loos-Archiv, Inv.-Nr. 0399. © Pro Litteris Pagina 62 La palmetta, variazioni. Palmette (in alto), Lescure (in centro a sinistra), La Charité sur Loire (in centro a destra), Milano, Sant’Ambrogio (in basso a sinistra), Lichères (in basso a destra) Da: Henri Focillon: Art d’occident, le moyen âge roman et gothique. Paris: Librairie Armand Colin 1938 (secondo Baltrusaitis) 104 105 Bibliografia Argan, Giulio Carlo: Tipologia. In: Enciclopedia universale dell’arte. Venezia, Roma: Istituto per la collaborazione culturale 1958-1967 Frank, Josef: Fassade und Interieur. 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Roma: Officina Edizioni 1995 110 111 Francesco Collotti Biografia 1960 1984 1985 1986-1995 1986-1994 1989-1994 1989 1990 1991 1995-2000 1993 1994 1994-1996 1995-2002 1996-1999 1998-2000 1997 1997-2002 112 nato a Milano laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano (Prof. Giorgio Grassi) studio di architettura a Milano collaboratore redazione Domus progetto per il recupero del complesso teresiano di Maso Spilzi in Costa di Folgaria (Tn) con destinazione a museo etnografico collaboratore della Fondazione Masieri in Venezia e redattore Phalaris progetto e realizzazione di scuola materna in Peschiera Borromeo (Mi) ampliamento scuola elementare e corte monumentale in Peschiera Borromeo (Mi) dottore di ricerca in Composizione Architettonica, Istituto Universitario Architettura Venezia docente Terzo Seminario Internazionale di progettazione, Napoli Castel S. Elmo promosso da Dipartimento Progettazione Urbana Università degli Studi di Napoli, DOMUS, D.A.M. Frankfurt a. M. progetto e realizzazione di piazza e coperto a Peschiera Borromeo (Mi) progetto di quartiere a grandi corti nel verde a Peschiera Borromeo (Mi) progetto di concorso per la ricostruzione dei suq di Beirut Gastdozent presso ETH Zürich per la cattedra di teoria dell’architettura – Institut GTA riqualificazione ambientale e paesaggistica delle rive del lago di Varese e realizzazione del piazzale a lago progetto e realizzazione di due palazzine e parco urbano ex lege 167 a Origgio (Va) docente incaricato di Teorie della Ricerca Architettonica Contemporanea, Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, Università degli Studi Firenze comitato scientifico Rivista tecnica (CH) progetto e realizzazione di museo della Grande Guerra nel forte austroungarico di Belvedere (Lavarone – Tn) comitato scientifico Archi (CH) concorso di progettazione nuova sede I.U.A.V. a Venezia nell’area dei magazzini frigoriferi a San Basilio 1999 progetti e realizzazioni per il recupero museale e paesaggistico di sistema di fortezze austroungariche in Trentino progetto di casa sperimentale per edilizia economica e popolare a Settimo Milanese (Mi) 2000 progetto di case a corte a Zibido San Giacomo (Mi) studi per un albergo di montagna 2000-2001 Gastprofessur per la cattedra di Entwerfen und Städtebau, Facoltà di Architettura, Universität Dortmund piano esecutivo e progetto per la realizzazione della cittadella extradoganale e artigianale di Livigno (Sondrio) studi per la riqualificazione progettuale dei luoghi della memoria e dei beni culturali e monumentali della Grande Guerra, in area triveneta progetto di concorso per Isaac Rabin Peace Forum, Tel Aviv studi per una piccola casa mediterranea con grande pergolato sulle colline di Lamezia 2001 Professore Associato di Composizione architettonica, Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, Università degli Studi di Firenze 1998 Bibliografia breve 1993 La prova di Salzburg – Clup CittàStudi, Milano voci ‹ Ornamento› e ‹ Restauro creativo› nel Dizionario dei termini utili all’architetto moderno – celi, Faenza 1994 DOMUS Dossier Musei – Anticipazioni veloci e gesti antichi? – Editoriale Domus, Milano 1998 Pietro Lingeri – Flach-, Mittel-, oder Hochbau in Mailand? saggio in Milano – Architetture, Mailand – die Bauten - eth Zürich 2001 Architekturtheoretische Notizen – Quart Verlag, Luzern Case normali?– Hild&K, München 2002 Le colonne di San Lorenzo – Universität Dortmund, Lehrstuhl Entwerfen und Städtebau Prof. Christoph Mäckler, Dortmund 113 Quart Edizioni Lucerna Parlare di architettura significa parlare di qualcosa che in fondo parla già da sé. Tuttavia, l’uomo sente il desiderio di riflettere sul suo fare, di avvicinarsi tramite pensiero e parola al mistero delle cose. La casa editrice Quart intende pubblicare parole, frasi e pensieri che descrivono, analizzano e pongono delle domande. Inoltre, rappresenta con piacere edifici, architettura del paesaggio e arte con fotografie, piante e schizzi. In questo modo la casa editrice Quart si mette al servizio di una «scienza dell'architettura e arte». Bibliotheca – La collana «Bibliotheca» riunisce scritti sull’architettura e sull'arte. Francesco Collotti, Milano: Appunti per una teoria dell’architettura (italiano e tedesco) Markus Breitschmid, Charlotte (USA): Der Baugedanke bei Friedrich Nietzsche (tedesco) Miroslav Šik, Zurigo: Altneue Gedanken. Texte und Gespräche 1987–2001 (tedesco) Manfred Sack, Amburgo: Vorträge, Aufsätze, Essays 1981–2001 (tedesco) In preparazione: Vittorio M. Lampugnani, Milano: Neuere Texte De aedibus – La collana «De aedibus» presenta architetti contemporanei e le loro opere. Corpi cavi – Valentin Bearth & Andrea Deplazes, Coira (italiano, tedesco e inglese) Vecchio-nuovo – Miroslav Šik, Zurigo (italiano, tedesco e inglese) Abdruck Ausdruck – Max Bosshard & Christoph Luchsinger, Lucerna (tedesco) Beat Consoni, Rorschach (tedesco) Dieter Jüngling e Andreas Hagmann, Coira (tedesco e inglese) Quintus Miller & Paola Maranta, Basilea (tedesco) In preparazione: Andrea Bassi, Ginevra; Meinrad Morger & Heinrich Degelo, Basilea; Axel Fickert e Katharina Knapkiewicz, Zurigo Arcadia – Arcadia è la collana sull’architettura del paesaggio. I volumi trattano questioni di crescente importanza riguardanti il paesaggio, la città, il giardino, il parco e la natura. Eaux, strates, horizons – Agence Ter, Parigi (tedesco e francese) Zulauf Seippel Schweingruber, Baden (tedesco) In preparazione: Christophe Girot, Versailles/Zurigo Panta rhei – Questa collana di carattere teorico presenta testi impegnativi di architetti che trattano della teoria dell’architettura, della città contemporanea e di opere costruite. Nicola Di Battista, Roma: Verso una architettura d'oggi (italiano, tedesco e inglese) José Luis Mateo, Barcellona: Bauen und Denken (tedesco) In preparazione: Hans Kollhoff, Berlino: Texte zur Architektur Notatio – Testi più brevi sull’architettura e sull'arte. Ignasi de Solà-Morales, Barcellona: Mediationen. Vermittlungen von Architektur und urbaner Landschaft (tedesco e inglese) Bart Verschaffel, Gent (B): Architektur als Geste (tedesco e inglese) Kornel Ringli, Zurich: Über Gleiches und Ungleiches im Denken von Adolf Loos und Friedrich Nietzsche (tedesco) Stadtlicht. Ein Farb-Licht-Projekt für Basel (tedesco) Edizioni individuali 14 Progetti di studenti con Valerio Olgiati 1998–2000 (in 3 lingue: tedesco, inglese, italiano) Anna Maria Kupper, Lucerna: Tafelbilder und Zeichnungen 1999–2001 (tedesco) Giorgio Grassi: Ausgewählte Schriften 1970–1999 (tedesco) Silvia Buol – Raum Zeit Tanz (tedesco) Valentin Bearth & Andrea Deplazes, Coira: Gesamtmonografie (tedesco/inglese) Architekturführer Luzern (tedesco/inglese) Quart Edizioni s.r.l., Heinz Wirz Casa editrice per architettura e arte Rosenberghöhe 4, CH-6004 Lucerna Telefono +41 41 420 20 82, Telefax +41 41 420 20 92 E-mail [email protected], www.quart.ch