Appunti per una teoria dell`architettura

Appunti per una teoria dell’architettura
Bibliotheca
Francesco Collotti
Appunti per una teoria dell’architettura
Con una raccolta di testi su architettura e città
Quart Edizioni Lucerna
Appunti per una teoria dell’architettura
Francesco Collotti
Volume 1 della collana Bibliotheca
Edizione originale in lingua tedesca (2001. ISBN 3-907631-18-8)
Titolo: Architekturtheoretische Notizen
Curatore: Martin Tschanz, Zurigo
Redazione: Martin Tschanz, Christoph Schläppi
Collaborazione: Felicitas Rausch
Traduzioni originali: Katrin Schoess, Corinna Westphal, Giovanni Ferrara,
Michel Kempter, Marion Schiffner, Martin Tschanz
Edizione in lingua italiana
Curatrice: Chiara Wolter, Milano
Traduzioni originali: Chiara Wolter, Giacomo Pirazzoli, Francesco Collotti
Stampa: beagdruck, Emmenbrücke
© Copyright 2002
Quart Edizioni Lucerna
Tutti i diritti riservati
isbn 3-907631-44-7
Quart Edizioni s.r.l.
Rosenberghöhe 4, CH-6004 Lucerna
Telefono +41 41 420 20 82, Fax +41 41 420 20 92
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Printed in Switzerland
Premessa
Lo aveva voluto giallo, Francesco Collotti, il piccolo libro messo insieme
nel 1996 come memoria delle sue lezioni di teoria dell’architettura all’eth
di Zurigo, inizialmente solo per uso interno. Non nero e nemmeno di uno
di quei toni caldi di grigio più consoni alla moda dell’architettura del
tempo, ma nemmeno un acido colore fluorescente tipico del look tecno
della grafica, ma di un caldo giallo brillante, un giallo allo stesso tempo
classico, come quello usato da Josef Frank per la copertina dei suoi scritti
«Architettura come simbolo».
Questo omaggio a Josef Frank non è un caso. I testi di Francesco Collotti
sono imparentati ai suoi nel loro rifiuto alle mode passeggere e nel loro
scetticismo nei confronti delle risposte semplici alle domande dell’architettura. Insistono sulla molteplicità e la complessità, lasciano spazio
all’ambiguità e al libero uso delle associazioni di idee; preferiscono tollerare il dubbio piuttosto che asserire prematuramente certezze esclusive e
conclusive.
Così questi scritti si pongono di traverso rispetto alle correnti della
attuale teoria dell’architettura. Perché non costruiscono una mitologia
individuale, né cercano di alleggerire il mestiere dell’architetto da responsabilità e competenze; non nel senso di un nuovo funzionalismo né
di una ritirata verso un formalismo che si libera da ogni legame e quindi da
qualsiasi responsabilità.
Questa raccolta intende l’architettura come una produzione culturale
completa piuttosto che come una disciplina delle integrazioni. Crea significato e identità, le sue opere portano memoria e tracce, e si pongono in
una tradizione che trasformano, portando a figure nuove adeguate al loro
tempo: memoria e metamorfosi sono due concetti chiave inscindibili
come anche costruzione e ornamento. Non ci si deve stupire che questi
«Appunti» prendano l’avvio con notazioni sul principio del rivestimento
rimandando a Gottfried Semper e ad Adolf Loos.
Francesco Collotti è di Milano e le sue radici affondano nell’area che fu
monarchia austroungarica: in un ambiente culturale, quindi, dove è caratteristica la varietà delle influenze culturali, qui ben amalgamate. La Mittel5
europa è presente qui tanto quanto il razionalismo francese, la cultura
mediterranea è vicina quasi quanto quella alpina. E non possono che essere molteplici anche i riferimenti che vengono intrecciati negli «Appunti»,
nei testi scritti appositamente per questa occasione ma anche nelle testimonianze tratte dai Maestri, tra i quali si trovano tanto Plečnik quanto
Boullée, Tessenow, E. N. Rogers, e molti altri. Sempre percepibile è durante la lettura la consapevolezza che l’architettura evocata sembri sapersi
sottrarre a una completa descrivibilità: una architettura vivente e poetica
che non conosce solo la ratio ma anche il segreto.
Martin Tschanz
Indice
Introduzione
Il principio del rivestimento
Ornamento, decorazione e costruzione
Il tipo come promessa di forma
Pianta, Raumplan e grande pianta
Memoria, tradizione, metamorfosi
Costruzione, ricostruzione
Faccia, facciata
Il tetto
Fonte delle illustrazioni
Bibliografia
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Introduzione
Questo libro presenta una sintesi dei materiali preparati quale Gastdozent
per una serie di lezioni di Architekturtheorie presso il Politecnico Federale
di Zurigo. Appunti su questioni aperte, più che saggi esaurienti e completi.
Quasi una promessa o un desiderio di ricerca per i prossimi anni. Appunti
che cercano di rappresentare un mattone per la costruzione di una teoria
dell’architettura. Un’opera che dura da molto e che forse non avrà mai
fine, ma solo continuo perfezionamento.
Le riflessioni sulle singole questioni sono nate da un processo di lavoro e
di approfondimento verificato quotidianamente con gli studenti. La scelta
dei testi che vi si accompagna è soggettiva, antologica, talvolta parziale e,
comunque, consapevole di non essere completa. Il risultato è così a metà
strada tra un libro vero e proprio e una dispensa.
Pagine scritte non da uno storico, né da un critico, ma da un architetto che
legge i testi, che scrive, ma che soprattutto cerca di progettare e di trovare una verifica nella rara architettura che ci viene concesso di costruire.
Forse queste note non sarebbero state scritte, oppure sarebbero diverse,
se le condizioni del nostro mestiere consentissero di prendere atto quotidianamente, sul cantiere, dello stato delle cose relativo alla nostra disciplina. Siamo invece costretti ancora una volta a riflettere sulla plausibilità
e la credibilità del fare architettura oggi. Siamo alla ricerca di una ridefinizione degli elementi fondamentali per questa arte pratica.
Poiché nell’arco dell’ultimo secolo gli architetti si sono sempre più isolati
dalla vita quotidiana proponendo, solo per le riviste o per i collezionisti di
industrial design, oggetti irrealizzabili o case impossibili ed eccezionali,
torneremo a parlare della normalità. E potrà allora sembrare paradossale
che, in un'epoca che tesse l'elogio della complessità, noi cerchiamo di
mettere in opera la semplificazione formale e l’economia espressiva insieme a quella vita quotidiana fatta anche di caso, stupore e ironia (ai futuri
architetti verrebbe voglia di suggerire di non prendersi troppo sul serio).
Il nostro tempo si prefigge di descrivere e riprodurre il mondo esattamente con la massima precisione e risoluzione, per averne l’immagine più
fedele. Tecnologie sempre più perfette modificano la nostra percezione
del reale, nello spazio e nel tempo. Nasce una cultura dell’istante e del real
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time. Tutto pare essere possibile senza limiti. Parallelamente a ciò sembra
però continuamente crescere una sostanziale miseria di contenuti. Avanzatissima tecnologia, ma per che cosa?
Per questo abbiamo ricominciato da questioni semplici. Senza la presunzione di ripartire da zero, ma con l’obiettivo di indagare il significato di
domande antiche alla luce dei nuovi problemi che l’architetto ha di fronte: concetti di base, fondativi, che sono andati in parte perduti oppure che
non vengono più usati, altri che sono invece smaccatamente accademici
(rivestimento, ornamento, decorazione). Altri argomenti, dopo anni di
dibattito, necessitavano invece di essere ricollocati in un orizzonte più
ampio per essere indagati. Questioni articolate e ambigue che vengono
qui riproposte sotto forma di antinomie o giustapposizioni (costruzionericostruzione, memoria-tradizione-metamorfosi).
Diversi tra gli argomenti qui trattati hanno un’origine distante dall’eth di
Zurigo, in scuole più affollate, come il Politecnico di Milano, o un tempo
più inquiete, come l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Si
ritroverà in queste pagine più di un accenno alla stagione in cui a Venezia
fu pubblicato da Luciano Semerani il «Dizionario critico illustrato dei
termini utili all’architetto moderno», cresciuto intorno alla Fondazione
Masieri e alla redazione della rivista Phalaris (scomparsa nel nulla dopo
venti numeri, come nei racconti di Conrad). Essendo stato tra i collaboratori di quell’esperienza, mi permetto qui di prendere a prestito alcuni
ragionamenti allora iniziati. Altri invece tra gli argomenti qui affrontati
sono radicati in quella laica e aperta formazione che, venendo dal gaddiano nòster Politèknik, ho ritrovato a Zurigo. È l’idea di unità tecnica ed
estetica della costruzione che di Semper ancora oggi è attuale e, parallelamente, la sua capacità di forzare il linguaggio classico, oppure di parlare di
tipo come carattere e non come schema ripetuto da catalogare (vengono in
mente i ritratti di August Sander).
Tutto ciò nella convinzione che la contaminazione di culture e conoscenze, più che la verità imposta d’ufficio di segni da imitare a tutti i costi, possa far produrre progetto in una scuola di architettura. Sottolineare il
valore della contaminazione significa anche tornare a riflettere sulla composizione architettonica, saggiando la sua capacità di mettere in crisi gli
stereotipi e le forme consacrate. E per questa via si vorrebbe riuscire a
suscitare il dubbio su paradigmi talvolta presi per certezze, disabituando
al culto dogmatico, addestrando magari non a copiare le opere dei Maestri, ma a coglierne l’atteggiamento, a imitarne e saccheggiarne le parti. Per
poi rifarle a modo proprio.
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L’Istituto di Teoria e Storia dell’Architettura del Politecnico Federale di
Zurigo (gta) e i suoi Professori Vittorio Magnago Lampugnani, Werner
Oechslin e Kurt Foster mi hanno invitato a tenere i corsi di Architekturtheorie presso l’eth per gli anni 1995 e 1996. Sono loro molto riconoscente
per la straordinaria possibilità offertami e per la fiducia che hanno saputo
concedermi. Tra quelli che mi hanno aiutato in questo lavoro ringrazio
Martin Tschanz e Christoph Schläppi, le cui osservazioni critiche, sensibili,
talvolta piene di dubbi, hanno fatto maturare queste note e sicuramente
aumentare le incertezze. Senza di loro l’organizzazione delle lezioni e del
libro sarebbe stata impossibile.
Milano/Zurigo, novembre 2000
Nota all’edizione italiana
Questi appunti per una teoria dell’architettura sarebbero forse rimasti nel
tetragono scrigno della lingua tedesca per la quale furono originariamente
pensati se un gruppo di professori non avesse sostenuto la mia chiamata a
tenere una cattedra di Composizione Architettonica presso l’Università
degli Studi di Firenze. Tra quanti ancora credono nella necessità di far
scaturire le ragioni del progetto più da una teoria antica che non da affannati esperimenti, sono per questo riconoscente a Paolo Zermani, Maria
Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi e Giacomo Pirazzoli (quest’ultimo
poi, vincendo la pigrizia di cui va orgoglioso, ha saputo per l’occasione
rivisitare i cinque punti di Le Corbusier nella nostra lingua).
A Chiara Wolter un ringraziamento particolare per la sensibilità e la cura
con cui ha atteso all’impresa (per nulla tecnica né neutrale) di far tornare
verso il Mediterraneo concetti e mondi di forme che, a suo tempo, mi ero
sforzato di far trasmigrare in modo plausibile a nord delle Alpi.
Dedico questo libro a Chiara e Matteo, arrivati col nascere del millennio
portando speranza e serenità (contro ogni ragionevolezza rispetto al reale
e, ancora una volta, malgrado tutto).
Milano/Firenze, settembre 2002
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Il principio del rivestimento
La cultura architettonica del secolo appena passato ci ha abituato a un
linguaggio moralista severo, mettendoci in guardia dal falso, portandoci a
credere solo nel cosiddetto vero. Vero era tutto ciò che aveva a che fare
con la struttura. Vero, e cioè positivo e condivisibile, corrispondeva a
pulito, libero, ampio, luminoso (e perciò bianco), trasparente. Vero cioè
ripetibile, trasmissibile, comunicabile. Essenziale e cioè semplificato, reso
astratto, non figurativo. La cosiddetta sincerità costruttiva fece divenire la
funzionalità tecnica unica misura del bello; la necessità pratica sola garanzia di buon risultato e così via. La descrizione asciutta, tecnica, senza concessioni poetiche prendeva il posto del racconto, rendeva non più dicibile
il mito. L'astrazione dei diagrammi dei sociologi si è per lungo tempo
sostituita alle figure degli architetti. Costruire e vivere apparivano più
democratici e accettabili di arte e architettura (per tutti lo precisa Le
Corbusier in difesa dell’architettura nella polemica risposta a Karel Teige,
1929). Gli architetti non sono più stati capaci di far vedere le cose oltre,
persa la parola e la maestria nel far sognare (tra gli ultimi forse proprio
Le Corbusier, con pochi altri).
E ciò che si presumeva vero era anche oggettivo, logico e intersoggettivo.
Falso era, al contrario, ciò che copriva il nudo, ciò che impediva l'esibizione della struttura: essa doveva essere spoglia, spogliata, nuda, priva di
rivestimento. Nel luogo comune modernista essa era liberata e indipendente. Un architetto, grande visionario e inventore, Carlo Mollino, ha
vestito le donne lasciando maliziosamente scoperte parti usualmente
celate, cercando di suscitare il dubbio a proposito di queste presunte certezze. La nostra immaginazione lavora sul confine tra coperto e scoperto;
è l'andirivieni continuo tra rivestimento e struttura che suscita il nostro
interesse. Ci seduce l'ambiguità tra il corpo e il vestito, quando il vestito
asseconda il corpo, quando si intuisce il corpo malgrado il vestito, quando
il vestito inganna lasciando immaginare un corpo che magari non c'è (e
intendiamo qualcosa di più raffinato dell’odierno push-up cult). Può il
rivestimento essere del tutto indipendente dallo spazio che circonda?
Posso concepire uno spazio a prescindere dal rivestimento?
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Ultimo nel procedimento costruttivo, l'atto del rivestire la casa nel pensiero dell'architetto dovrebbe far parte della composizione sin dal primo
momento. Esso concorre a definire il carattere di ciò che stiamo costruendo, quell'immagine che sta innanzi a tutto, ancor prima di affrontare i
problemi statici o funzionali. È ciò che vogliamo dire. Rivestimento aiuta a
esprimere la Stimmung di uno spazio, carattere e stato d’animo al contempo, qualcosa che comunque ci fa propendere per la non separabilità del
rivestimento dallo spazio. Dal punto di vista tecnico-pratico, al rivestimento compete la protezione dal freddo o dal caldo, dall'acqua o dal vento; dal
punto di vista figurativo e simbolico, è imparentato con l'ornamento, col
carattere dell'edificio, con la sua faccia, con la rappresentazione, con le
intenzioni e le promesse di forma. Ornamento e decorazione qualificano
il rivestimento. Lo fanno parlare, lo fanno appartenere a un linguaggio, gli
danno un’impronta, uno stile quando necessario.
Come quasi tutti i temi che riguardano la costruzione, anche il rivestimento è una questione antica, così antica da avere a che fare con le origini,
con il mito, con alcune forme primigenie.
Dal naturale all'artificiale, dal casuale al disegnato, dal gioco della luce alla
modanatura è il percorso di ogni progetto: il pensiero dell'uomo col
tempo carica di significati e memorie questa progressiva trasformazione
della natura. Possiamo chiederci se abbia ancora senso oggi ritornare sul
principio del rivestimento. Che cosa resta oggi delle riflessioni di Adolf Loos
quando ci poniamo il problema di realizzare una parete ventilata funzionale al risparmio energetico? Ed è poi vero che i cambiamenti tecnologici
e produttivi impongono una modificazione dell'aspetto tradizionale degli
edifici? La ricerca della sincerità costruttiva ha oggi affidato alla struttura
anche il ruolo simbolico e rappresentativo che un tempo era proprio del
rivestimento. Alla struttura è stata imposta l'avventura, forse impossibile,
di riassumere tutto: simbolo e figura. In molti casi l'architettura delle
avanguardie si è deliberatamente rinchiusa nel silenzio, impiegando l'intonaco come unico rivestimento accettabile, lenzuolo teso tra gli scheletri e
le cartilagini bianche. Altri, come Wright, Plečnik, Behrens, Berlage fino a
Siza e Moneo hanno preferito diversi, più condivisibili, percorsi. Un modo
di intendere l'unità della costruzione ogni volta cercando quella comune
tensione tra carattere e tipo che concorre in modo determinante a conferire significato civile e collettivo all'edificio.
Aalto impiega il marmo di Carrara in modo sensibile e raffinato, dichiarandone con leggeri scollamenti la natura di rivestimento, non solo
epidermide, ma messa in opera del carattere. Dal marmo Gio Ponti,
Adalberto Libera, Luigi Moretti hanno tagliato lastre preziose, componen14
do figure e arabeschi, esaltando le caratteristiche del materiale, il suo
ornamento per così dire naturale. Una particolare idea di mediterraneità,
che ci piace pensare sia arrivata, in alcune felici stagioni, fino a Berlino o a
Helsinki, ci si è fissata negli occhi: sono le lastre di marmo ritrovate negli
edifici e nelle città romane d'Africa o del Vicino Oriente, i pilastri bizantini di Ravenna o quei gioielli incastrati nelle facciate di alcune chiese veneziane. Marmi che fissano nella pietra dura la sigla della loro genesi da una
materia plastica incandescente, compressa all'inverosimile e imprigionata
nelle viscere della terra. Marmi che spesso rivivono una seconda vita dopo
la spoliatio dalle fabbriche di origine. Con il gesto mitico di chi riporta alla
luce la memoria minerale e geologica del mondo riordiniamo le lastre su
una facciata, facendo vivere una seconda vita a tutti i materiali preziosi che
il caso ha voluto riunire in venatura, onda, nuvola, segni strani in cui la
mente crede di riconoscere figure.
La seconda metà del secolo ci ha abituato anche ad altre pelli. Esse sono
sottili, vetrate, autonome, talvolta trasparenti, talaltra assolutamente riflettenti, corrono davanti a telai di ferro o di cemento armato. Il telaio è
nascosto da pannelli che, per essere autonomi, hanno a loro volta avuto
bisogno di una struttura e così via. Persa in molti casi l'origine per metamorfosi di elementi legati alla terra, quali i mattoni e la pietra, l'architettura si pone nuovi dubbi. Che cosa resta della feconda distinzione tra
parete tessile e muro-struttura?
La ritroviamo forse nella fin troppo precisa separazione tra il telaio in
legno e la parete in scandole nella cappella di montagna di Peter Zumthor
(Sogn Benedegt): la parete in legno è assolutamente autonoma dai montanti verticali. Corpo e pelle quasi non si toccano. La parete è viva,
scricchiola, respira, si adegua alla temperatura, al passare delle stagioni.
L'identità del rivestimento è concretamente percepibile, un fatto fisico
esperibile. Altrove il rivestimento resta una tenda appesa a breve distanza
dalla struttura. Come due discorsi di nuovo totalmente distinti, struttura
e rivestimento vengono avvicinati in alcuni recenti progetti di Renzo
Piano. L'accostamento è duro, difficile. In alcuni punti della costruzione
c'è ancora la pelle, ma non più la struttura. Il pannello di rivestimento
imparentato al cotto è talvolta superficie di osmosi tra l'esterno e il
retrostante vuoto, mentre in altri casi è il vestito della festa che corre
immediatamente davanti alla struttura rustica in cemento armato (verrebbe da sospettare che rivestimento sia qui valore aggiunto di carattere
economico).
Molti esempi recenti lavorano sulla separazione tra rivestimento e struttura. In diversi casi il rivestimento diviene l'architettura tout court. Il
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rivestimento diventa in alcuni casi l'essenza dell'architettura. Proviamo a
togliere i pannelli macchinosi e sensibili che sono l'immagine dell'Istituto
del mondo arabo di Jean Nouvel a Parigi. Che cosa resta? Proviamo a
scartare le fasce di rame che cingono il volume dei trasformatori della stazione di Basilea di Herzog & de Meuron. Che cosa resta? In alcuni progetti di Nouvel o di Herzog & de Meuron il rivestimento diviene vestito,
sistema che riveste a sua volta la pelle con griglie metalliche o vetrate
supertecnologiche. In alcuni casi (Centro culturale a Blois, 1991) gli edifici
divengono pannelli pubblicitari. Sotto il vestito niente. Dunque facciate,
solo facciate? Facciate che potrebbero fare a meno del resto. Facciate messaggio. Il rivestimento, oltre che cosa viva, oltre che superficie sensibile e
reattiva come un occhio, diviene continuamente variabile. Talvolta persino virtuale.
Che cosa resta allora del principio del rivestimento? A differenza di Laugier,
che teorizzò la capanna primitiva come origine dell'architettura, e a differenza di Quatremère de Quincy, che affiancò alla capanna la grotta e la
tenda, ripercorrendo tre tradizioni costruttive diverse (i coltivatori sedentari greci, i cacciatori e pescatori egiziani, i pastori nomadi mongoli),
per Loos la casa originaria è solo un'idea di riparo: un tappeto con intorno
un telaio che regge in verticale quattro coperte. E proprio la coperta è il
più antico particolare dell’architettura! Per questa via l’umanità ha imparato
a costruire/abitare (cioè bauen, che è anche coltivare la terra). Figura e
tecnica si incontrano, ma con fatica. Nel conciliare la distanza tra solidità
e mise en oeuvre sta per Loos tutto il lavoro dell’architetto. E se il suo
compito è nel mettere in opera uno spazio caldo e accogliente, la sua
seconda missione è costituita dall’invenzione di una plausibile struttura a
ciò finalizzata.
Tutto il pensiero di Loos sul rivestimento muove da Gottfried Semper: nei
suoi Vier Elemente der Baukunst (1851) ricostruisce la genesi del rivestimento. Esso viene prima della struttura. Il rivestimento ha origine dall'antico recinto fatto di pali e rami intrecciati e poi ricoperti da tappeti. Nella
lingua tedesca Semper apparenta parete-Wand e rivestimento-Gewand, distinguendoli da muro-Mauer. Il tappeto come parete verticale è forma originaria e basilare (Urform/Grundform) per l'architettura. Il muro, al contrario, è imparentato al mondo del terreno, dei terrazzamenti, dei terrapieni.
Nella teoria sull’evoluzione delle arti pratiche che Semper ipotizza, la
tettonica si riconosce per la sovrapposizione di elementi finiti subordinati a
un ordine e a una gerarchia pilastro-trave-pilastro, mentre l’arte tessile è
l’evoluzione per intreccio di fibre vegetali (Semper, 1860 e 1863 – Marras,
1993). L'arte tessile e le sue varianti diventano per questa via fondamento
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di ogni ornamento in architettura, e da esse andrebbero dunque dedotte
le leggi dell'ornamento. La stessa policromia delle pareti verticali deriverebbe dall’originario uso di tappeti per delimitare uno spazio. Questo
concetto di decorazione è sempre profondo e non banalmente ridotto alla
pura superficie grafica: la decorazione trova la sua raison d'être più nella
lavorazione del materiale e nella tecnologia impiegata, che non nell’ornato. È in questo modo del resto che si spiega l'interesse di Semper per le
arti applicate e per la loro evoluzione nel tempo. Così Loos ha in mente
una forma necessaria e una figura tecnica che si oppongono alla gratuità
originale del gesto artistoide. L'architetto deve essere fedele al materiale
che impiega, non deve tradirlo. Forme e materiali non sono intercambiabili, come invece lascerebbero credere i cataloghi di pattern che ogni
biblioteca di programma per disegno al computer ostenta.
Chi sa lavorare il materiale, lo rispetta. Dei suoi anni di apprendistato da
lapicida fu, del resto, sempre orgoglioso Palladio. La forma non è separabile dal materiale. Ogni materiale sembra portare con sé la sua forma
precisa; la metamorfosi è permessa solo con il consenso del materiale (è
la legge del rivestimento). C'è una incolmabile distanza tra chi crede che il
mondo delle forme sia il risultato di un lento perfezionamento sviluppato
nel corso del tempo, e chi presuntuosamente pensa ogni volta di reinventare gli utensili della vita quotidiana (tra cui anche la casa). Ecco la differenza tra Baumeister e designer, ed è la distanza che separa Loos dai decoratori e dai tappezzieri della Wiener Sezession. Ancora oggi molti riducono
il rivestimento all'imballaggio, al confezionamento bien fait della struttura
(oppure a una finitura da pasticceria).
Esiste allora lo spazio senza rivestimento? Può lo spazio essere una semplice scatola, puro contenitore indifferente a ciò che lo circonda? Può lo
spazio essere disponibile a un rivestimento qualsivoglia? E come cambia il
rivestimento al variare dello spazio? In che modo il rivestimento allude,
quasi alla maniera di una elaborazione letteraria, all'interno, senza rappresentarlo direttamente? E che cosa è oggi ancora praticabile del concetto
loosiano di Stimmung, vale a dire possibilità con l’esterno di evocare il
carattere dell’interno in modo allusivo (faccia e corpo che esprimono o
celano stati d’animo, diremmo per una persona)? Loos rimproverava agli
accademici di aver fatto dipendere l'illuminazione degli interni della casa
dai capricci della facciata. L'unica necessaria sincerità costruttiva è per
Loos quella che riguarda la composizione della facciate: le finestre si
dispongono sulla parete con un movimento che va dall'interno all'esterno,
e vengono poi a loro volta ricomposte secondo una tensione che riguarda
l’unità della costruzione. Rivestimento è per Loos architecture parlante. Le
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facciate per il concorso del Kriegsministerium sono nei colori dell’imperialregio vessillo (le fasce orizzontali in terracotta gialla contrastano con
quelle di granito nero lucido).
Un antico pensiero dei taoisti cinesi ricorda che ciò che l'uomo cerca nella
casa è ciò che casa non è. L'uomo non abita nei muri, ma negli spazi. E
l'uomo cerca gli spazi; per questo l’architetto dovrebbe pensare più al
vuoto che non al pieno. Molti architetti oggi, come del resto al tempo di
Loos, pensano da stilisti al solo spessore di muri e di successive pelli
sfogliate, illudendosi che ciò che resta libero da queste elucubrate sovrapposizioni si possa automaticamente definire spazio.
Per astrazione didattica separiamo in un edificio la struttura degli spazi, la
struttura tecnologica e la struttura figurativa (Quaroni 1977, Progettare).
Ecco riecheggiare attuale la triade vitruviana di utilitas, firmitas e venustas.
E se all'origine, nel racconto mitico, il rivestimento precede la struttura, il
mondo delle forme sviluppa nel corso del tempo una sorta di interno
metabolismo, una vita sotterranea che presiede alle metamorfosi (Semper,
Focillon). Da Palazzo Rucellai fino alle facciate viennesi di Fischer von
Erlach o agli esemplari esercizi di Auguste Perret (Rue Franklin, Paris), il
rivestimento rappresenta e mette in scena una seconda ipotetica struttura
che non necessariamente descrive la vera struttura portante. Lo scambio
continuo tra figura, spazio e tecnica è l'architettura.
Non siamo più capaci oggi di enunciare con tanta sicurezza un principio
del rivestimento. Ciò che ci affascina è in realtà il continuo scambio di significati tra struttura e rivestimento. E se da un lato accettiamo, con Loos,
la sincerità di un materiale, sappiamo d’altro canto che il rivestimento non
sa più dire univocamente la verità. Vero e falso convivono. Il rivestimento
nobilita, impreziosisce, fa credere che sottili lastre di marmo siano spessi
blocchi di pietra, oppure alleggerisce. Il rivestimento dà illusioni. La lingua
tedesca, in altri casi precisa e inequivocabile, lascia indeterminata la differenza tra stoffa e materia, e forse ci piace giocare con questa ambiguità. In
italiano rivestimento è imparentato con travestimento.
Vi sono molti luoghi comuni sulla presunta sincerità dell’architettura. Molti ritengono che l’architettura debba essere onesta. Sosterremo qui le
ragioni di un’architettura che dovrà non essere onesta, ma sembrare onesta.
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Gottfried Semper
I quattro elementi dell’architettura, 1851
Il primo segno del riposo umano dell’insediamento stabile, dopo la caccia,
la lotta e la vita nomade nel deserto, oggi come allora, quando i primi
uomini perdettero il paradiso, è la costruzione del focolare e la fiamma
che vivifica, riscalda e cuoce i cibi. Attorno al focolare si raccoglievano i
primi gruppi, si strinsero le prime alleanze, le primitive concezioni religiose si codificarono in consuetudini culturali. In tutte le fasi dello sviluppo della società esso costituisce il centro sacro, attorno al quale tutto si
ordina e si configura.
È il primo e il principale, l’elemento morale dell’architettura. Attorno a
esso si concentrano altri tre elementi, in un certo qual modo le negazioni
difensive, i protettori dai tre elementi naturali ostili alla fiamma del focolare: il tetto, il recinto e il terrapieno.
A seconda di come si costituirono le associazioni umane, sotto i più
diversi influssi climatici, della natura del territorio, dei rapporti reciproci,
e secondo le differenze delle caratteristiche etniche, le combinazioni in cui
questi quattro elementi dell’architettura si fondevano dovevano prendere
forme diverse, alcuni sviluppandosi maggiormente e altri retrocedendo in
seconda linea.
Anche le diverse abilità tecniche degli uomini vi si adeguavano: i lavori e
le arti in ceramica e più tardi metallurgici si organizzarono intorno al
focolare, le opere idrauliche e le opere murarie intorno al terrapieno, i
lavori in legno intorno al tetto e ai suoi accessori.
Ma quale tecnica originaria si sviluppò a partire dal recinto? Niente altro
che l’arte muraria, cioè degli intrecciatori di stuoie e dei tessitori di
tappeti.
Questa affermazione, che può apparire sorprendente, necessita di una più
accurata spiegazione.
Abbiamo ricordato prima gli scrittori che si dedicano con precisione scrupolosa alle ricerche sui primordi dell’arte, facendo derivare da queste le
diversità nella prassi edilizia. Di non poca importanza in questo senso è la
copertura a padiglione delle tribù nomadi. Mentre tuttavia la loro perspicacia riconosce nella catenaria della figura a padiglione l’uso architettonico
tartaro-cinese (benché le stesse forme si ritrovino anche sui berretti e le
scarpe di queste popolazioni), essi trascurano l’influsso più generale e
meno dubbio esercitato dal tappeto nella sua qualità di parete, di protezione verticale, sullo sviluppo di certe forme architettoniche, così che io
Gottfried Semper
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credo di poter affermare, senza l’appoggio di altre autorità, che l’arazzo
ha una parte di grande importanza nella storia dell’arte in generale.
Come è noto, ancora oggi il senso artistico che si risveglia presso le
popolazioni che si trovano in stadi primitivi (anche quando vanno in giro
ancora completamente nudi), si applica subito all’intreccio e alla tessitura
di stuoie e coperte.
Lo steccato costruito con rami d’albero intrecciati, come recinto archetipico o delimitazione dello spazio e primitivo ornamento a intreccio, è
comune anche tra i popoli più selvaggi. Solo l’arte ceramica può forse a
buon diritto superare l’anzianità della tessitura dei tappeti.
Dall’intrecciare i rami, si passò facilmente a intrecciare la rafia per stuoie
e coperte. Da qui si sviluppò anche la tessitura con filati vegetali e così via.
Gli ornamenti più antichi sono quelli eseguiti o intrecciando o annodando, o le decorazioni eseguite con le dita sull’argilla morbida appoggiata sul
tornio. L’uso di intrecciare pali per delimitare la proprietà rispetto ai beni
comuni, delle stuoie e dei tappeti come coperte per i piedi, per ripararsi
dal sole o dal freddo e per separare i vani interni alle abitazioni, nella
maggior parte dei casi, e specialmente in condizioni climatiche favorevoli,
precedette largamente l’uso delle pareti in muratura. Quest’ultima era
uno sviluppo dell’arte muraria che si era formata in precedenza per i muri
dei terrazzamenti, in condizioni stilistiche molto differenti.
Essendo l’intreccio l’elemento originario, anche più tardi, quando le leggere pareti di stuoia si trasformarono in solidi muri in mattoni di terra, di
laterizio o in blocchi di pietra, esso conservò, in realtà o anche solo
idealmente, tutto il peso della sua primitiva importanza, la vera essenza
della parete.
Il tappeto rimase sempre la parete, la delimitazione spaziale visibile. I muri
dietro di esso, usualmente molto spessi, erano necessari per altri scopi,
che non riguardavano la spazialità, ma la garanzia della portata, della
maggiore durata e così via.
Dove non erano necessari questi requisiti collaterali, i tappeti restavano le
uniche separazioni originarie, e anche dove era necessario erigere mura
solide, esse costituivano soltanto lo scheletro interno, non visibile, celato
dietro ai veri e legittimi rappresentanti della parete, i tappeti variopinti.
La parete mantenne questo significato persino quando per una sua maggiore durata, o perché si conservassero meglio i muri retrostanti, o per
parsimonia, o al contrario per ostentare un maggior lusso, o per qualsiasi
altro motivo, i materiali originari venivano sostituiti da altri.
Lo spirito inventivo umano creò un gran numero di questi surrogati, impegnando di volta in volta tutti i rami della tecnica.
20
Gottfried Semper
Tra i surrogati più diffusi e forse più antichi, l’arte muraria offriva uno
strumento, l’intonacatura a stucco, o in altri paesi l’intonacatura con la
pece. Gli artigiani del legno costruivano tavolati ( πινακες ) con cui venivano ricoperte le pareti, specialmente nelle parti inferiori.
Gli artigiani del forno producevano terracotte smaltate e piastre metalliche. Come ultimo surrogato possiamo elencare forse le lastre di arenaria,
granito, alabastro e marmo, che troviamo diffuse in Assiria, Persia, Egitto
e anche in Grecia.
Il carattere dell’imitazione seguì a lungo quello del modello originario. La
pittura e la scultura su legno, stucco, terracotta, metallo o pietra era e
rimase inconsciamente nella tradizione un’imitazione dei ricami variopinti
e degli intrecci sulle antichissime pareti a tappeto.
L’intero sistema della policromia orientale, strettamente unito con l’arte
della pennellatura e del rivestimento dell’architettura più antica, insieme
anche all’arte pittorica e dei bassorilievi, deriva dai telai e dalle tintorie
degli industriosi Assiri o dai loro predecessori nelle invenzioni dell’antichità.
Adolf Loos
Il principio del rivestimento, 1898
L’artista invece, l’architetto, pensa dapprima all’effetto che intende raggiungere, poi con l’occhio della mente costruisce l’immagine dello spazio
che creerà. Questo effetto è la sensazione che lo spazio produce sullo
spettatore: che può essere la paura o lo spavento, come in un carcere; il
timore di Dio, come in una chiesa; il rispetto reverenziale per l’autorità,
come in un palazzo del governo; la pietà come in un monumento funebre;
il senso di calore, come nella propria casa; la spensieratezza, come in
un’osteria. Questo effetto viene raggiunto attraverso il materiale e attraverso la forma.
Ogni materiale possiede un linguaggio formale che gli appartiene e nessun
materiale può avocare a sé le forme che corrispondono a un altro materiale. Perché le forme che si sono sviluppate a partire dalla possibilità di
applicazione e dal processo costruttivo propri di ogni singolo materiale, si
sono sviluppate con il materiale e attraverso il materiale. Nessun materiale consente un’intromissione nel proprio repertorio di forme. Chi osa,
ciononostante, una tale intromissione, viene bollato dal mondo come
falsario. L’arte non ha nulla a che fare con la falsificazione, con la menzogna. Le sue vie sono piene di spine, ma pure. [...]
Gottfried Semper
Adolf Loos
21
Come abbiamo già detto all’inizio, il rivestimento è più antico della
costruzione. Le sue giustificazioni possono essere di vario genere. Esso
serve ora come protezione contro i danni delle intemperie, come la
pittura a olio su legno, ferro o pietra, ora ha una motivazione igienica,
come nel caso delle piastrelle smaltate che ricoprono la superficie dei
muri nelle toilette, ora serve per ottenere un determinato effetto, come
quando si colorano le statue, si tappezzano le pareti, si impiallaccia il
legno. Il principio del rivestimento, che Semper enunciò per primo, è
applicabile anche alla natura. L’uomo è rivestito di pelle, l’albero di
corteccia.
Partendo da questo principio del rivestimento, io formulo fra l’altro una
legge molto precisa, che chiamerò la legge del rivestimento. Non spaventatevi. Le leggi significano in generale la fine di ogni progresso. Ed è vero
che gli antichi maestri se la sono cavata benissimo anche senza leggi.
Certo. Dove il furto è sconosciuto sarebbe superfluo creare leggi in merito. Quando i materiali che si usano per rivestimento non venivano ancora
imitati non c’era bisogno di nessuna legge. Ora però sembra giunto il
momento.
La legge suona quindi così: bisogna operare in modo da escludere ogni
possibile confusione fra materiale rivestito e rivestimento. Vale a dire: il
legno si può dipingere di tutti i colori tranne uno: il color legno. [...]
Applicato agli stuccatori, il principio del rivestimento suonerebbe così:
con lo stucco si può eseguire qualsiasi ornamento tranne uno – quello che
imita la costruzione con mattoni a vista. Sembrerà inutile insistere su una
cosa così ovvia, ma proprio di recente mi è stata fatta notare una costruzione in cui i muri intonacati erano dipinti di rosso con l’aggiunta di
commessure bianche. Anche la tanto amata decorazione delle nostre
cucine, che imita le pietre squadrate, rientra in questo gruppo. In generale tutti i materiali che servono al rivestimento delle pareti, e cioè tappezzerie, tele incerate, stoffe o tappeti, non devono cercare di imitare i
mattoni o la pietra. E adesso risulterà chiaro anche perché le gambe delle
nostre ballerine in calzamaglia producono un effetto tanto antiestetico. La
biancheria lavorata a maglia può essere di qualsiasi colore, tranne color
carne.
Quando il materiale che viene ricoperto è dello stesso colore del materiale del rivestimento, quest’ultimo può mantenere il suo colore naturale.
Così, per esempio, posso ricoprire il ferro, che è già nero, con uno strato
di catrame, posso ricoprire (impiallacciare, intarsiare ecc.) il legno con
un’altra qualità di legno senza che occorra colorare il legno di rivestimento; posso rivestire un metallo con un altro metallo mediante il fuoco o la
22
Adolf Loos
galvanizzazione. Ma il principio del rivestimento vieta di imitare nel colore il materiale ricoperto. Perciò il ferro può benissimo essere incatramato, dipinto con colori a olio o galvanizzato, ma non può mai venir dipinto
in color bronzo, cioè nel colore di un altro metallo.
Auguste Perret
Contributo a una teoria dell’architettura, 1952
Chi dissimula una parte qualsiasi della struttura si priva dell’unico legittimo e del più bel ornamento dell’architettura. Chi dissimula un pilastro
commette un errore. Chi ne mette uno falso commette un crimine.
Adolf Loos
Auguste Perret
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Ornamento, decorazione e costruzione
Il concetto di ornamento da sempre descrive elementi inscindibilmente
connessi alle opere artistiche e architettoniche. Nel suo aspetto di abbellimento o trasfigurazione è forse bisogno ancora più antico dell'atto di
costruire, legato all'usanza di abbellire e trasfigurare il proprio corpo, al
desiderio di mettersi in mostra, oppure di rappresentarsi accentuando i
tratti e mostrando magari cose che non ci sono, o, all'opposto, sottolineando e rafforzando un determinato carattere del proprio aspetto.
Ornamento e decorazione sono stati spesso accomunati nel dibattito
sull’architettura dell’ultimo secolo. Si è cercato in alcuni casi di superare
le nozioni generiche approfondendo sia le ragioni dell’ornamento, sia
quelle della decorazione (Dizionario critico illustrato delle voci più utili
all’architetto moderno, 1993). In prima istanza parrebbe ornamento più
prossimo al gesto di applicare un decoro o un elemento ornamentale a un
organismo architettonico in sé già compiuto (Erik Gunnar Asplund, Villa
Snellman), decorazione invece parrebbe più connaturata alla memoria
costruttiva di un edificio e dunque più difficilmente separabile dal resto,
strettamente connessa ad alcuni elementi imprescindibili, per quanto essi
possano oggi venir stilizzati, resi astratti, omessi. Più tettonica la decorazione, più tessile l’ornamento? Non ci sentiamo di sostenere le ragioni
dell’uno o dell’altro partito, quanto, caso mai, di ragionare intorno alla
questione e, semmai, di aggiungere altri dubbi.
Scrive Ernesto Nathan Rogers: Tre sono i postulati essenziali della decorazione. Il primo è quello di negare, con l’ornato, la realtà costruttiva, creando
sorprese e illusioni. Il secondo è, all’opposto, di esaltare espressionisticamente,
con l’ornato, la realtà costruttiva, sottolineando gli elementi (Brunelleschi,
Francesco di Giorgio). Il terzo, che sta dialetticamente tra i due, è di estrinsecare l’opera d’arte, con l’ornato, ma non nella sua realtà obiettiva e strutturale, sibbene spiegandone il tema e spesso idealizzandolo letterariamente
(Rogers, 1958). Nel primo caso verrebbe da pensare a Giulio Romano,
anche se il termine negare la realtà costruttiva appare riduttivo, essendo
impensabile il lavoro di Giulio senza un profondo rispetto per l’architettura antica, per quanto trasfigurata. Nel secondo caso viene in mente la
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Madonna del Calcinaio di Cortona. Francesco di Giorgio rappresenta la
struttura con una duplice non coincidente orditura, diversa all’interno
rispetto all’esterno. Almeno una delle due (quella interna, parrebbe) non
coincide con la vera struttura portante. L’apparato decorativo (ornamentale?) allude qui a una struttura possibile. Nel terzo caso ci sembrerebbe
di poter riconoscere i lavori di quei Maestri come Leon Battista Alberti,
Fischer von Erlach e Karl Friedrich Schinkel che hanno cercato di riflettere sul valore evocativo della decorazione rispetto alle origini dell’architettura cercando di metterne in opera il mito. Così l'ornamento aiuta a
mostrare figure e immagini oltre l'immediatezza costruttiva, talvolta ricordando il mito naturalistico da cui trae origine l'architettura oppure
ricordando la trasformazione nel tempo degli elementi dell’architettura
nel loro passaggio da un materiale a un altro. L'ornamento è qui fondamentale per rendere riconoscibili non solo gli elementi della costruzione,
ma anche lo scopo della costruzione, il suo carattere, il suo contenuto
funzionale, il suo messaggio simbolico e il programma figurativo conseguente.
E se l’ordine architettonico ha dato per secoli la mossa di apertura e il
registro entro cui non aver dubbi sull’unità tecnica ed estetica dell’edificio
(severità, rudezza, grazia, leggiadria ecc.), ornamento e decorazione sono
stati di volta in volta incaricati di estrinsecare il carattere della costruzione attraverso una codificata grammatica di elementi e proporzioni. Per
questa via l’edificio si mostra in quanto a carattere, ovvero corrisponde
con maggiore o minore adeguatezza al tema. Non solo l’ordine, ma lo
stesso programma decorativo a esso subordinato riflettono le due diverse facce delle porte di città di Michele Sanmicheli a Verona. A Porta Nuova
l’alzato rivolto alla campagna, la veduta cioè del viaggiatore che stia per
varcare le mura, presenta un'architettura tipicamente urbana, da palazzo,
quasi ad annunciare la città nei suoi elementi essenziali (basamento, partito, coronamento). Al contrario il lato della porta che guarda verso la città
sembra annunciare attraverso una monumentale barchessa l'architettura
della campagna. Come in altre fabbriche veronesi vi è qui il tentativo di
misurarsi direttamente con i resti dell’architettura romana che non sono
in questa città oggetto di idealizzazione, ma presenza fisica, duratura,
materiale da costruzione (cfr. Costruzione, ricostruzione).
È molto difficile in architettura scindere tra ornamento, decorazione,
costruzione. All'ornamento e alla decorazione è stata demandata nei
secoli l'esplicitazione dei caratteri dell'edificio e delle sue specificità. Il
sistema della decorazione ha costituito quasi sempre il sistema visibile
dell'edificio, sovrapposto imposto a quello della costruzione. La tendenza
26
del nostro secolo sembra quella di ricondurre la stessa struttura portante
dell'edificio alla funzione ornamentale. Tutta l’esperienza dell'ornamento
può essere riassunta nella continua tensione tra mascheramento della
forma costruttiva da un lato e disvelamento della sua vera natura
dall'altro. Anche l'esibizione della tecnologia che vediamo frequentemente nell'architettura attuale è un modo particolare di trattare tali questioni
(usando la tecnica oltre la sua forma necessaria e conferendole valore estetico). L'ornamento ha comunque uno stretto legame con la memoria
costruttiva dell'edificio. L'ornamento e, in questo caso, soprattutto la
decorazione, sono ciò che resta.
Ornamento e decorazione hanno un legame antico con la vicenda dell'architettura nel tempo, ne ricapitolano in un solo momento le origini, ne
trasfigurano gli elementi, ne raccontano il mito. La memoria costruttiva e
strutturale del tempio arcaico rivive nel tempio classico che reca cristallizzate nella pietra le antiche forme funzionali della precedente struttura
lignea. Le gocce d'acqua divenute pietra, le teste delle travi fissate per
sempre nel triglifo. Una memoria che rivivrà nei nomi e nelle figure di
guttae, palmette, acanti, fogliami, cartocci, volute. Forme ed elementi che
avevano una precisa ragione costruttiva in un originario edificio giungono
così fino a noi riversati in un altro materiale, dove proseguono una loro
seconda vita metaforica o simbolica che non è più legata a una funzione
pratica immediata, ma che a essa ancora allude. L’opera di Mies van der
Rohe si svolge nella quasi totalità ragionando su pochi antichi elementi
dell’architettura. Sempre gli stessi, resi essenziali, talvolta evocati dalla
loro omissione, ma ancora riconoscibili. La colonna con l’entasis, il capitello, il collarino o il pulvino, la trabeazione.
Un'intera stagione legata alle vicende del Movimento Moderno in architettura (ma generalizzare potrebbe essere poco corretto) reagì all'abuso
del campionario stilistico tipico dell'ornamentalismo e del decorativismo
tardottocenteschi predicando elementarismo e semplicità, dichiarando la
non legittimità dell'ornamento presso un'architettura che credeva di
mostrarsi vera nel suo essere spoglia e disadorna. Giusta la critica. Riduttivo e mortificante l'esito? Una sorta di moda del Moderno fu infatti un
punto di arrivo formale distante e impoverito rispetto ai fondamenti teorici e pratici da cui l'architettura che noi definiamo moderna aveva preso
le mosse. Una lettura limitativa e restrittiva del noto scritto Ornamento e
delitto ha per lungo tempo segnato, quasi alla maniera di un comodo pretesto, la distanza tra architettura moderna e ornamento, generalizzando e
volgarizzando quella che negli intenti di Loos era polemica soprattutto
contro la presunzione degli inventori fin de siècle di ornamenti moderni,
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nuovi a tutti i costi e fragorosamente distanti da qualunque ragionevole
forma necessaria. La posizione di Heinrich Tessenow rispetto a simile
questione è meno polemica e radicale anche se altrettanto netta. Restando
consapevole di tutti i limiti relativamente all’utilità dell’ornamento rispetto al proprio lavoro, Tessenow accenna a una certa sua inevitabilità.
Pur non intendendo qui sostenere le ragioni dei detrattori e dei revisionisti del Moderno, occorre dire che è oggi possibile, lontani da quella polemica, ricominciare a parlare di questi tabù (ornamento, decorazione) in
termini più laici, meno ideologicamente legati a un programma o a una
missione. È anche il senso di un doveroso risarcimento nei confronti di
Adolf Loos, la cui opera (al contrario di quanto furono disposte a riconoscere la critica militante e la storiografia ortodossa del Movimento
Moderno) è in realtà piena di figure, immagini, decorazioni e ornamenti
che vanno ben oltre il predicato puritanesimo. E raffinato è l’uso evocativo dell’ornamento in Loos. Tra adeguatezza e ironia il progetto per la
residenza parigina per Josephine Baker con le facciate a strisce bianche e
nere così allusive alla voluta ambiguità dell'attrice. Ecco ancora, sul pendio
di una collina, il piccolo raffinato esempio di Haus Spanner la cui pannellatura di rivestimento, dipinta di verde e distanziata da listelli bianchi verticali, rimanda al mondo dei vigneti tra i quali sorge la casa. Qui il colore,
il rivestimento, gli stessi materiali sono usati in modo ora metaforico, ora
simbolico; trasformano la natura mutevole delle vigne e dei tronchi e la
restituiscono sotto la specie di un materiale più stabile e duraturo, un
materiale da costruzione. Ancora una volta è difficile distinguere tra ciò
che è ornamento e ciò che è costruzione, poiché quanto potrebbe apparire superfluo è in realtà determinante a definire il carattere dell'edificio.
Lo stesso interno della casa sembra per Loos uno dei luoghi dove i diversi
registri possibili di ornamento e decorazione sono ancora percorribili.
Parenti prossimi del vestirsi/travestirsi e truccarsi, i riti del quotidiano esigono le loro figure: la casa come oggetto d'uso e luogo dei gesti ripetuti
sopporta la citazione e anche l'eccesso di ornamento persino sui mobili
d'epoca (un caso quell'inserzione di mobili in stile su Das Andere?).
L'architettura deve saper suscitare sorpresa, stupore, ammirazione. L’uso
della decorazione e dell’ornamento sono, in queste trasfigurazioni, anche
rappresentazione esagerata, enfatizzazione e terreno di esercitazione di
figure retoriche come la metafora o l'iperbole: basi, colonne e pilastri
sotto sforzo si deformano rispetto alla proporzione canonica, quasi a
rendere fisicamente l'immagine del peso che su di essi grava. Collarino e
capitello coincidono fino a confondersi sulle massicce colonne cilindriche
di Tournus; altrove è ornamento la smorfia della chiave di volta di un arco,
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un mostro o un animale fantastico che diventano gargouille (a Chartres,
Vézelay, Autun). In ogni caso decorazione resta la rielaborazione su un
testo dato; per taluni, anzi, essa non è pensabile all'infuori della citazione:
in questo senso è forse rifare cose già fatte, come traccia di ciò che resta
dopo infiniti passaggi (gli edifici si costruiscono con altri edifici?). È anche il
paradosso dell'impossibilità da parte dell’architetto moderno di inventare
un nuovo ornamento. Il progetto è, in simili casi, composizione attraverso
il recupero di altri ornamenti precedenti, dei quali si dà per scontato il
senso, il significato: elemento simbolico e sintetico, non necessita di
essere spiegato. La seconda vita di un fregio o di una modanatura che
aveva già senso altrove (o che aveva senso solo altrove) e che viene reimpiegata. Per secoli poi si sono costruiti gli edifici non solo con pietre di
altri edifici, ma ricomponendo decorazioni per spoliatio e cercando così di
attribuire valore e legittimità al nuovo con un reperto di valore riconosciuto (cfr. Costruzione, ricostruzione).
E può darsi il caso in cui il reperto ornamentale sia utilizzato per così dire correttamente, quasi mantenendo una fedeltà di posizione rispetto a
quella originaria e ricomponendolo nel nuovo progetto. La tradizione
dell'antiquarium e del museo lapidario arriva fino a Schinkel e all'utilizzo
del frammento nella composizione. Nella corte di Glienicke il partito
architettonico estremamente lineare viene completato dal frammento
antico a comporre un’ideale architettura, dove tuttavia il reperto è disposto in modo indifferente alla sua originaria localizzazione.
L'ornamento fa vedere o fa credere cose che non ci sono, confonde. Talvolta ornamento può persino divenire intenzionale disturbo nella percezione di uno schema statico-costruttivo, altrimenti banale oppure
ovvio. Un architrave e una chiave di volta slittati, un timpano interrotto
sulla cuspide (Giulio Romano), un rivestimento obliquo rispetto al riquadro che lo incornicia (Plečnik). Variazione letteraria su questo tema ancora le fughe orizzontali nell'intonaco bianco dello Schlösschen Tegel di
Schinkel, che alludono in modo colto e raffinato a quella tradizione di
edifici provvisori in tavole di legno come i casini da caccia in Pomerania o
Sassonia. Talaltra invece ornamento inganna, imita un materiale più prezioso che non possiamo più realizzare (lo stesso Palladio costruiva le
colonne in mattoni e poi le faceva stuccare e intonacare), riveste, dà
illusioni. Una pratica antichissima. Le case pompeiane rimandano a un'architettura dipinta fatta di campiture, pannelli, decori che nella storia dell'architettura, passando dalla Camera degli Sposi di Mantegna a Mantova,
arriva fino a Schinkel e ai suoi velari dipinti sul soffitto e ai riquadri in
rosso pompeiano del grande portico dell’Altes Museum di Berlino.
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Leo Adler
Dizionario Wasmuth dell’architettura, 1929–1932
Lo studio e l’utilizzo di forme ornamentali storiche può essere considerato un tratto distintivo dell’eclettismo dell’arte europea dell’Ottocento.
Rispetto al vasto ricorso all’ornamento che si fece in quel periodo, si può
notare ora un atteggiamento di netta rinuncia, una caratteristica che sembra essere dettata anche dall’esigenza di oggettività e concretezza dell’architettura moderna. Da un punto di vista della storia dello stile, tuttavia, è
proprio l’ornamento a fornire gli elementi più utili a stabilire il passaggio
da uno stile a un altro.
Da un punto di vista della storia della sua evoluzione è interessante notare come elementi che in origine avevano una funzione esclusivamente
strutturale finiscono sovente con l’essere utilizzati come mera forma
ornamentale. Nel corso di tale processo si perde a volte persino il ricordo
dell’originale funzione strutturale dell’elemento. Lo sviluppo della forma
ornamentale è strettamente legato da un lato allo sviluppo stilistico,
dall’altro ai materiali e alle tecniche.
Adolf Loos
Ornamento e delitto, 1908
Ma l’uomo del nostro tempo, che per un suo intimo impulso imbratta i
muri con simboli erotici, è un delinquente o un degenerato. È naturale che
questo impulso assalga con maggior violenza l’uomo che presenta tali
manifestazioni degenerate quand’egli si trova al gabinetto. Si può misurare
la civiltà di un popolo dal grado in cui sono sconciate le pareti delle latrine. Nel bambino è una manifestazione naturale: scarabocchiare le pareti
con simboli erotici è la sua prima espressione artistica. Ma ciò che è naturale nel Papua e nel bambino è una manifestazione degenerata nell’uomo
moderno. Io ho scoperto e donato al mondo la seguente nozione: l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso. Credevo di portare con questo nuova gioia nel mondo, ma
esso non me ne è stato grato. Tutti ne sono stati tristi e hanno chinato il
capo. Provavano un senso di oppressione di fronte all’idea che non si
possa più produrre un ornamento nuovo. Ma come, ciò che può fare ogni
negro, che hanno potuto fare tutti i popoli e tutti i tempi prima di noi, è
precluso soltanto a noi, uomini del secolo diciannovesimo? Tutto ciò che
l’umanità ha creato senza ornamenti nei millenni passati è stato gettato via
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Leo Adler
Adolf Loos
senza riguardo e votato a distruzione. Noi non possediamo più nessun
banco da falegname dell’età carolingia, ma qualsiasi cianfrusaglia che
recasse anche il minimo ornamento è stata raccolta, ripulita e palazzi
sontuosi sono stati costruiti per ospitarla. E allora gli uomini si vergognavano della loro impotenza. Ogni età ha avuto il suo stile e solo alla nostra
dovrà essere negato uno stile? Per stile s’intendeva l’ornamento. Dissi
allora: non piangete! Guardate, questo appunto costituisce la grandezza
del nostro tempo, il fatto cioè che esso non sia in grado di produrre un
ornamento nuovo. Noi abbiamo superato l’ornamento, con fatica ci siamo
liberati dall’ornamento. Guardate, il momento si approssima, il compimento ci attende. Presto le vie della città risplenderanno come bianche
muraglie! Come Sion, la città santa, la capitale del cielo. Allora sarà il
compimento. [...]
Ebbene, l’epidemia decorativa è ammessa dallo Stato e viene anzi sovvenzionata con denaro statale. Ma per conto mio io vedo in ciò un regresso.
Per me non ha valore l’obiezione secondo cui l’ornamento può aumentare la gioia di vivere in un uomo colto, per me non ha valore la frase: «Però
se l’ornamento è bello...!». In me e in tutti gli uomini civili l’ornamento
non suscita affatto una più grande gioia di vivere. Se io voglio mangiarmi
un pezzo di pan pepato me ne sceglierò uno che sia tutto liscio e non uno
di quelli a forma di cuore o di bambino in fasce o di cavaliere, completamente ricoperti di ornamenti. L’uomo del quindicesimo secolo non mi
comprenderà. Ma tutti gli uomini moderni mi comprenderanno benissimo.
Il difensore dell’ornamento crede che il mio slancio verso la semplicità
equivalga a una mortificazione. No, illustrissimo professore della Scuola di
Arti Applicate, io non mi mortifico affatto! È che a me piace di più così. Le
composizioni culinarie dei secoli passati, che esibivano tutti gli ornamenti possibili per far apparire più appetitosi i pavoni, i fagiani e le aragoste,
provocano in me l’effetto opposto. È con orrore che io mi aggiro in una
mostra gastronomica, se mi passa per la mente l’idea di dover mangiare
quelle carogne imbalsamate. Io mangio il roast-beef.
Adolf Loos
31
Adolf Loos
Ornamento ed educazione, 1924
Ventisei anni or sono avevo affermato che di pari passo con il progresso
dell’umanità sarebbe scomparso l’ornamento dall’oggetto d’uso, un processo che si attua senza interruzione e con coerenza, e che è altrettanto
naturale quanto la scomparsa delle vocali nelle sillabe finali della lingua
parlata. Io però non ho mai sostenuto, come ad absurdum hanno fatto i
puristi, che l’ornamento debba venire eliminato in modo sistematico e
radicale. Però, dove le esigenze stesse del tempo lo hanno escluso, là non
è più possibile reintrodurlo. Così come l’uomo non ricomincerà mai più a
tatuarsi il volto. [...]
Quanto rimane dunque di onesto e di giustificato nell’ornamento del
nostro tempo che valga la pena di essere insegnato?
La nostra educazione poggia sulla cultura classica. L’architetto è un
muratore che ha studiato il latino. Ma gli architetti moderni sembrano
piuttosto degli esperantisti. L’insegnamento del disegno deve fondarsi
sull’ornamento classico.
L’insegnamento classico, nonostante le differenze di lingue e di confini, ha
creato l’unità della civiltà occidentale. [...]
Nell’insegnamento del disegno l’ornamento classico svolge lo stesso ruolo
della grammatica. Non vi sarebbe più alcun motivo di insegnare il latino se
si seguisse il metodo Berlitz. Alla grammatica latina, anzi a qualsiasi grammatica in generale, dobbiamo la disciplina della nostra anima, la disciplina
del nostro pensiero. L’ornamento classico porta la disciplina nelle forme
dei nostri oggetti d’uso, crea una disciplina in noi stessi e nelle nostre
forme e conduce, nonostante le differenze etnografiche e linguistiche,
all’unità delle forme e dei princìpi estetici.
E porta ordine nella nostra vita. La greca – la precisione dell’ingranaggio!
La rosetta – la precisa individuazione dell’asse centrale, ma anche la punta
della matita ben affilata!
Heinrich Tessenow
Osservazioni elementari sul costruire, 1928
L’ornamento, o la decorazione, è dovunque; ma è tanto migliore quanto
meno è voluto, oppure tanto più ci appaga quanto più lo trattiamo con
indifferenza. L’ornamento ha nel nostro lavoro più o meno il ruolo che
hanno i modi di dire nella lingua parlata; questi sono inevitabili, riprodu32
Adolf Loos
Heinrich Tessenow
cono in modo affatto naturale i modi della nostra vita sociale, ma non
dobbiamo affidarci troppo alla loro facile presa se non vogliamo che
diventino un intralcio. [...]
Potremmo dire che l’ornamento, nei casi migliori, è una specie di involontario sorriso, capace di rischiarare tutta la fatica e la serietà di un duro
lavoro.
L’ornamento è il risultato di tutti i momenti di stanchezza e di rassegnazione che immancabilmente si presentano nella nostra vita e nel nostro
lavoro: per questo noi combattiamo l’ornamento con lo stesso impegno
con cui cerchiamo di superare tutto ciò che è stanco e mediocre, pago o
rassegnato.
Ciò che vi è di meglio per quanto riguarda l’ornamento è l’astratto, lo
sciocco o l’inesplicabile. [...]
C’era una volta un uomo che per un giorno intero si era dato da fare per
vivere la sua parte di storia del mondo e che la sera, dopo aver ben
mangiato e bevuto, se ne stava seduto tutto contento a conversare con
sua moglie, e quando la moglie si era alzata per mettere a letto i bambini,
il papà si era accinto, un po’ con diligenza, un po’ con pigrizia, a intagliare
la freccia del suo arco. All’incirca così deve essere nato l’ornamento; si
trattava quasi di un gioco, ma in parte era anche un lavoro. Se quell’uomo
quella sera non fosse già stato un po’ stanco, si presume che, invece di
decorare la sua freccia, avrebbe cercato di migliorarne la sua qualità; cioè
la sua forma dinamica.
L’ornamento è la dimostrazione del fatto che a noi sono sempre mancate
la vivacità intellettuale e la forza di discernimento necessarie per cogliere
e per migliorare ciò che è essenziale e necessario nel nostro lavoro; potremmo dire che si tratta piuttosto di un mezzo lavoro, fatto prima di
andare a dormire. [...]
L’ornamento è sempre molto più estetico che artistico. [...]
L’amore per il lavoro artigianale comprende anche l’amore per l’ornamento, non può rifiutarlo; in ogni nostro lavoro è come il nostro fischiettare
e il nostro canticchiare, o, come nel muro di mattoni, un ornamento che
non cerchiamo ma che dà un carattere così particolare al nostro modesto
lavoro, oppure è come il papavero nel campo di grano, un secondario sorriso nel campo esteso dell’utilità, un sorriso che non andiamo a cercare,
ma che non possiamo evitare e che perciò deve essere silenzioso, il più
possibile secondario e timido.
Heinrich Tessenow
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Josef Frank
Pier Maria Bardi
Architettura come simbolo, 1931
Viaggio di architetti in Grecia, 1933
Che cos’è moderno?
[...] La mancanza di ornamento, considerata come tale, è oggi altrettanto
ornamentale, come l’antireligiosità è una forma di religione che, limitatamente ai bigotti, mossa con abilità può trasformarsi di nuovo nel suo
contrario. Ma l’indifferenza nei confronti delle cose secondarie, la cognizione della varietà del nostro mondo, il riconoscimento dei nostri valori
affettivi molto ben giustificati fanno parte delle basi della vita moderna e
del suo simbolo, l’architettura moderna. Oggi (senza esprimere un giudizio morale) esistono ancora persone a sufficienza che hanno certe relazioni anche con vecchie forme. Perché forma e contenuto hanno poco da
spartire tra loro. L’America ci ha dimostrato che è possibile costruire qualsiasi casa, anche la più comoda, in qualsiasi stile, senza dover rinunciare
per nulla al comfort; grazie al definito e sereno stile di vita dei loro abitanti, queste case sono di gran lunga superiori ai nostri giochini formali.
Moderna è la casa che può accogliere tutto quanto è vivo nel nostro
tempo rimanendo però un’opera cresciuta organicamente. L’architettura
moderna tedesca può essere anche oggettiva, pratica, giusta nei suoi principi, spesso persino affascinante, ma rimane priva di vita.
Pini, vino, oleandri
[...] Le prime colonne furono certamente tronchi d’albero, il piatto di
rinforzo della testa di quelle rozze colonne suscitò l’idea del capitello:
l’ordine dorico è completamente funzionale, risultato di tecnica di gente
semplice che non aveva tempo da perdere. Più tardi si fanno meno guerre,
la gente ha più tempo da perdere e, forse, mettendo a posto un capitello
dorico non si avvide che aveva schiacciato tra trabeazione e capitello un
serpente capitato lassù per caso: i contorcimenti delle due estremità del
rettile generarono l’idea del capitello jonico.
Più tardi ancora, la gente non ha proprio più niente da fare, e non sa come
ingannare il tempo: per fortuna muore una nobile e pura giovinetta, e la
servente riunite le vesti e altre suppellettili le mette in un cestino e le
depone presso la tomba, con una pietra sopra, le erbe e i fiori crescono
intorno al cestello; passa un architetto, guarda, e dice: – ecco il capitello
che fa per me –. Era nato lo stile corinzio.
34
Josef F rank
Pier Maria Bardi
35
Tipo come promessa di forma
Τὺπος significa etimologicamente impronta lasciata sopra un oggetto dopo averlo premuto, segno impresso, impronta, conio; perciò ha acquistato
il senso di segno, modello, esemplare. Forma esemplare, a cui si riportano gli individui con le loro varietà. Idea astratta, generale della cosa (di
nave da guerra, di aeroplano). Fisionomia caratteristica: di una etnia, della
famiglia. Una persona originale: un bel tipo, un brutto tipo. Carattere di
stamperia, timbro, piombo per la stampa. Tipo riguarda inoltre l'identità,
cioè l'essere identico oppure, in senso lato, il riconoscersi in un mondo
identificabile per alcuni suoi tratti comuni. Identità e variazione camminano parallelamente. Identità evoca per noi contemporaneamente il
concetto di variazione, identità è il persistere della cosa attraverso il variare degli attributi, degli accidenti, dei modi.
Compito dell’entomologo o del botanico è descrivere, classificare e ordinare, ridurre a priori in un sistema. Oggetto e scopo del loro lavoro è, tra
l’altro, il tipo (registrare specie diverse, aggiungerne di nuove e sconosciute, studiare differenze e analogie). Ma nel loro caso il tipo è un punto
di arrivo. Quale uso invece fa l’architetto del tipo? È anche nel nostro caso
un risultato, oppure piuttosto un mezzo? E il nostro lavoro ha come
obiettivo l’imbalsamazione dell’oggetto indagato, oppure il suo avanzamento, la vita nuova e il progetto?
Dedichiamo queste riflessioni alla dialettica continua tra modello e tipo,
cercando di sostenere le ragioni del tipo. E questo non perché le ragioni
del modello siano meno valide, ma perché dal concetto di tipo crediamo
di avere più cose da imparare. Il modello è un oggetto da ripetere tale
quale. Il tipo al contrario ci fa pensare a una traccia secondo la quale
ognuno può concepire oggetti imparentati sì, ma non simili (definirlo come schema lo farebbe cristallizzare in un’immagine non ulteriormente
sviluppabile). Il modello è congelato. Esso è difficilmente modificabile.
Implica, in generale, la fedeltà a una regola. Al contrario, la vaghezza del
tipo è un ventaglio di possibilità. Tutto è più o meno vago nel tipo, ancora
disponibile. Esso è talvolta una idea astratta della cosa, talaltra invece
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assume una valenza operativa immediata. Per questo tipo è concetto
ambiguo e non univoco. Il tipo non è una forma definita esprimibile con
una misura, esso è semmai un progetto di forma, esso ha a che vedere con
l'immaginazione (Martí Arís, 1990). Il tipo può al massimo essere l’idea di
una forma (Quatremère de Quincy). E se il tipo è privo di misura esso è
tuttavia definibile con una proporzione? Il tipo ha un rapporto di scala
relativamente aperto? E come varia il tipo al variare delle reciproche
posizioni tra i singoli elementi che lo fanno riconoscere come tale?
Tipo/tipi come continua variazione. Motivi antichi (della natura, dell’artigianato, dell’arte o dell’arte del costruire) nella loro possibilità di sviluppo
e di fusione sono la promessa di una infinita quantità di variazioni (unendliche Mannigfaltigkeit, Semper 1860–1863). Ogni nuova creazione sembrerebbe affondare le sue radici in alcune forme fondamentali. Analogamente alle opere della natura, l’arte trova le sue radici in alcune, poche,
idee basilari le cui più semplici espressioni sono certe forme e tipi originari?
È in questo modo che il nuovo riesce a collegarsi al vecchio senza esserne
una copia. Viene da chiedersi se sia possibile inventare nuovi tipi, oppure
se essi siano nell'esperienza dell'architettura già tutti dati. Le stesse forme
ritornano, seppur rielaborate? Vi è chi ha sostenuto che il ricorso al tipo
avverrebbe nella misura in cui l'esigenza attuale, alla quale l'artista è chiamato a rispondere, ha le sue premesse nel passato. L'interesse per il tipo è
per noi, come abbiamo visto, legato al progetto, alla trasformazione e non
alla ripetizione. È il chiostro de La Tourette di Le Corbusier dove ritroviamo, trasfigurate, le regulae schizzate nei viaggi giovanili, la Certosa di
Ema, il Monte Athos (Pirazzoli, 2000). Ci interessa per il nostro lavoro
riconoscere quella fondamentale unità e continuità, nel processo ideativo, del
momento della tipologia e del momento dell'invenzione (Argan, 1958–1967).
Malgrado i numerosi tentativi di descrizione del tipo che troviamo in ogni
trattato di architettura e in ogni ricerca che si prefigga di rifondare la
disciplina, dobbiamo tuttavia accontentarci di riconoscere la non-descrivibilità del tipo, se non per alcune geometrie essenziali di cui possiamo,
casomai, esprimere le proporzioni, ma non le misure. Ne consegue che da
un medesimo tipo possono derivare risultati formali distanti tra loro e
realtà architettoniche del tutto diverse. Quando il tipo incontra la misura
e si precisa, perde la sua caratteristica ideale e di astrazione, cessa di
essere un tipo, diviene un modello. Il tipo non esiste nella realtà, è una
astrazione concettuale. Solo le trasformazioni e le metamorfosi del tipo
divengono forma. Verrebbe quasi da dire che il tipo è troppo puro e concentrato per poter essere rappresentato, necessita di contaminazioni e
deformazioni che lo rendono a noi più accettabile, quasi come un gas
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perfetto che esiste solo nel mondo virtuale degli esperimenti della fisica.
Il tipo, allora, è in quanto viene trasfigurato. Il tipo deve poter restare
un'idea verso la quale tendere.
Vi è chi ha ridotto il tipo a mera questione di geometria e di instrumento
per il controllo del progetto. Nella sua banalizzazione tipo farebbe pensare alla sola visione in pianta dell’architettura. Ma sappiamo che questo è
un modo sbagliato e parziale di guardare alle cose. Vi è chi invece ha
cercato di ragionare sui legami tra tipo e carattere, lavorando su quella
unità tecnica ed estetica della costruzione che riguarda pianta, sezione e
facciata tenute insieme dall’adeguatezza delle proporzioni. Ammiriamo la
ricerca di quanti, attraverso il tipo, si sono misurati con l’esercizio di
conferir carattere alle proprie fabbriche (da François Blondel, Claude
Nicolas Ledoux, Etienne Louis Boullée fino a Friedrich Gilly, Peter Speeth,
Karl Friedrich Schinkel e Gottfried Semper).
Un tempo strettamente interconnessi, tipo e carattere sono oggi distanti.
Presi come siamo dalla ricerca a tutti i costi della funzionalità, del risparmio di spazi, della presunta razionalità abbiamo scambiato i mezzi per il
fine. Avendo creduto che la funzionalità stessa o l'ottimizzazione dei percorsi in un appartamento fossero l'obiettivo del nostro lavoro, non sappiamo più dare un volto alle idee. Che sono, di volta in volta, un'idea di
bellezza, un'idea di leggerezza o di pesantezza, di solidità o di fragilità e
così via. Analogamente al pittore che cerca di rappresentare l'idea della
femminilità o della grazia, l'architetto deve cercare di mettere in immagine l'idea. E il tipo è, appunto, un'idea. La natura astratta e ideale del tipo
fa sì che esso non sia più se stesso ogniqualvolta noi cerchiamo di rappresentarlo. L'unità e la perfezione dell'edificio alludono all'unità e alla perfezione del corpo umano. Con Blondel abbiamo imparato a ragionare sul
parallelo tra uomo e costruzione, un rapporto proporzionale perfetto,
unito, classico, immutabile. Alle parti del corpo si sovrappongono le parti
dell'edificio, si conferiscono agli elementi dell’architettura termini analoghi. La questione di conferire un carattere all’edificio si interseca poi in
Boullée con la capacità di esprimere con la pietra gli stati d’animo. È il far
di pietra la natura, mettere in opera la luce e l’ombra, alludere al passare
delle stagioni, persino la capacità di evocare grandezza, serenità, gioia,
tristezza, austerità (quasi una via per un’architettura sensibile e affettuosa?).
Quando Boullée vuole descriverci il suo progetto per la biblioteca parla
dei libri e solo dei libri, la figura che dovrebbe accomunare tutte le
biblioteche. A suo modo, egli descrive un tipo: la grande e semplice idea
di Boullée è la biblioteca come casa dei libri. I muri sono ricoperti di libri.
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La grande volta dà l'impressione dell'unità del sapere raccolto in un unico
luogo. Qualche decennio più tardi nei manuali di architettura alla voce
biblioteca i libri non si sarebbero più visti; si sarebbero invece prescritte le
misure precise della sala di lettura, dei depositi, degli spazi di servizio. La
cultura positivista della classificazione e del catalogo ha sostituito la ricerca, impedito la trasfigurazione, trasformato il tipo in modello. Congelata
la bellezza possibile in schema, immagine ripetibile con facile pigrizia. Le
sistematizzazioni di Jean Nicolas Louis Durand sono state ridotte a modelli, mille volte ricopiati e non invece impiegati come traccia da cui prendere le mosse.
Per tipi si classificano le architetture del passato e le città costruite. A interessarci non è però la pura registrazione dello stato delle cose, bensì la
sua disponibilità alla trasformazione. L’analisi tipologica dei tessuti urbani
è storia operante, atto preliminare per scomporre e ricomporre fenomeni,
fatti e figure, promessa di future architetture della città. Ricostruire la successione dello sviluppo urbano nel tempo consente di leggere le persistenze, le permanenze e le sostituzioni della residenza (Lavedan), le addizioni, i ripensamenti persino. Per Saverio Muratori l'individuazione del tipo
edilizio e dei suoi caratteri-base nell'insieme dalla realtà edilizia urbana significa saper leggere il contesto del tipo edilizio nella sua linea di sviluppo e stratificazione storica, nel linguaggio e nella tecnica dei singoli momenti, nel senso
irreversibile e condizionante della storia. Il rilievo tipologico trasforma lo
studio dei caratteri distributivi degli edifici dalla pedante tassonomia positivista, finalizzandolo alla trasformazione e allo sviluppo futuro. Nella
cultura architettonica italiana degli anni Sessanta la ricerca sulla città di
Venezia avviata da Muratori indica la strada per un importante filone di
studio. Tipo come principio di architettura (Aldo Rossi). È del resto la lezione della città classica europea di cui anche la città gotica fa parte appieno,
malgrado i luoghi comuni.
Possiamo oggi più serenamente riflettere sul concetto di tipo, riconoscendo le contraddizioni che ne hanno caratterizzato l'applicazione e anche il
fraintendimento. Una cattiva lettura proprio dei testi di Aldo Rossi, di
Giorgio Grassi o di Carlo Aymonino ha fatto spesso confondere le ricerche sul tipo edilizio con il solo rilievo in pianta degli edifici, riducendo
l'analisi urbana a un catalogo di edifici da imitare per ingenua ripetizione.
L'affermazione giusta secondo cui analisi e progetto devono coincidere
(l’analisi è già progetto) è stata spesso presa come pretesto che nascondeva una pigrizia inventiva o un’avarizia didattica che ha tradotto l'oggetto dell'analisi in progetto tout court. La necessità di risarcire anni di
approssimazione e di approccio empirico alla città, leggendone invece lo
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sviluppo e la stessa vita delle forme in termini di oggettività e di ripetibilità, ha talvolta fatto passare in secondo piano il fatto che alla base del
progetto, sempre, vi è un’immagine, un atto sintetico. La cultura delle
avanguardie ha spesso confuso le carte, spingendo a immaginare l’architettura e la città con metodi propri delle scienze sociali, biologiche e
matematiche. L'illusione che anche l'architettura potesse far parte delle
scienze esatte ha fatto sopravvalutare nel progetto il ruolo della manualistica tipologica dei caratteri distributivi o degli elementi costruttivi dell'architettura. L'impiego di standard o cataloghi tipologici non è poi di per
sé stato garanzia di oggettività né, tantomeno, di quella sincerità dell'architettura che le avanguardie propugnavano. La razionalità dell'architettura, infatti, non sta solo nel metodo o nel processo, bensì nel risultato
finale. E non è detto che sia sempre una virtù (Logic is hell, pare abbia
gridato Bertrand Russell). È casomai la capacità di mettere in opera una
costruzione logica, che non lasci alcun passaggio sospeso o indicibile (anche
sotto la forma estrema di un razionalismo esaltato).
Altri Moderni avevano cercato invece di tenere aperta una porta su mondi
che a noi paiono più prossimi alle narrazioni, alle figure, ai miti e alle
scene degli Antichi e di alcuni grandi Maestri del passato.
Gli ultimi trent’anni hanno comunque mostrato come i malintesi nell'uso
improprio del tipo abbiano comportato il travisamento e lo scivolamento
del tipo verso il modello. Sono state messe in crisi le visioni ideologiche
del mondo basate su una astrazione statistica di dati contestuali, che venivano a loro volta proiettate su una impostazione tipo-morfologica del
rapporto tra architettura e crescita urbana. C'è chi ha parlato a questo
proposito di una cadaverica tipizzazione del tipo. Cioè a dire la tendenza a
non generare nuove strutture formali, al contrario congelando la sua
potenzialità e accettando, consapevolmente o meno, che con i tipi ridotti
a modelli potesse essere delineata una risposta utile alle trasformazioni
della città. La critica è qui all'impiego di un repertorio formale bloccato,
molto facile da ripetere in maniera letterale, aproblematicamente, senza
alcun avanzamento della disciplina. A differenza di alcuni modelli, la cui
forza è stata la trasmigrazione dichiarata da una regione all'altra (dalla
campagna veneta a quella inglese, dal Canton Ticino e dalla Lombardia fin
sulle rive della Neva, oppure da Firenze alla Monaco di Leo von Klenze),
i tipi edilizi e i caratteri morfologici non sono generalizzabili. E se al mutare del luogo lo sviluppo del modello sembra essere indifferente, non
così avviene invece per le trasfigurazioni del tipo. Esso pretende uno studio
caso per caso, approfondito città per città, in ogni singola parte della città
con caratteri ogni volta particolari. Da questa analisi potremo ricavare
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costanti proprie di quella particolare realtà, di quella città (sia che esse
siano reperite nell’antico impianto, sia che esse siano state inventate per
la città nuova). Così potremo capire il carattere, l'andatura, la cadenza di
quella città, i suoi tratti inconfondibili, la sua identità.
Nelle riflessioni sulla permanenza di alcuni elementi urbani nel corso del
tempo, ruolo particolare spetta ai monumenti. Anzi, chiamiamo generalmente monumenti quegli edifici pubblici che in virtù della loro riconoscibilità planimetrica e formale sono rimasti punti di riferimento nel successivo sviluppo della città o del paesaggio. Questo non equivale a riconoscere per esempio al monumento carattere di perenne fissità o impossibilità di mutare nei secoli (ci interessa piuttosto la sua disponibilità alla
trasformazione – cfr. Costruzione, ricostruzione). Lo scenario è quello di
città fatte di modificazioni, traumi, distruzioni e accrescimenti. Si tratta di
prenderne atto con serenità e non di tracciare giudizi sulla bellezza
perduta. A loro volta i monumenti sono stati alterati, corretti, risignificati
con impronte altre o diverse da quelle originali, eppure la loro peculiarità
è nel lasciar sempre leggere la traccia e l’impianto originale. Nella città
contemporanea, tuttavia, il monumento pare sempre meno in grado di
governare e dirigere i fenomeni urbani, tanto che vi è chi ha parlato, a tal
proposito, di solitudine dei monumenti (Zermani, 1995). E se è ancora vero
che il monumento è maestro, sempre più rarefatta è la sua capacità di
generare architettura della città, sempre maggiore, al contrario, la tendenza a imbalsamarlo senza saperne cogliere la lezione profonda.
Ciò che oggi constatiamo, del resto, è una diffusa incapacità di porre
ascolto alle singole realtà riversandole nel progetto, trasformandole in
figure in grado di restituire identità al paesaggio e alla città. L'analisi tipologica ha talvolta ridotto realtà urbane complesse e feconde a pochi tipi
edilizi. Ciò ha fatto passare in secondo piano la composizione della città,
le sue figure urbane, i suoi fenomeni complessi non riducibili a una meccanica ripetizione di singoli elementi. Per diversi anni, nelle scuole di
architettura italiane, l'analisi e l'indagine tipologica urbana sono state
considerate un passaggio obbligato nella formazione dello studente architetto. Il rilievo tipologico è in molti casi divenuto fine a se stesso, puro
esercizio di catalogazione. Il mestiere dell'architetto si è impoverito,
ridotto a pedanti questioni di metodo, ormai incapace di comporre forme.
L'analisi tipologica così concepita è un pretesto per spostare nel tempo il
momento in cui gli studenti giungono al progetto. Sembra così che esso
sia una conquista raggiungibile solo dopo essere passati attraverso un
sacrificio, una distillazione noiosa. Al contrario si vorrebbe qui sostenere
le ragioni dell'inutilità di tale bagnomaria che si spaccia come propedeutico
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al progetto. Il tipo deve poter restare un'idea verso cui tendere e non un
modello da ricopiare. Da subito gli studenti dovrebbero essere abituati a
manipolare il mondo delle forme, a trattare con disinvoltura i modi della
composizione. Da subito, prima che i plagi o i condizionamenti maniacali
di alcuni docenti inibiscano la loro capacità di iniziativa e di creazione.
A differenza del classificatore paziente, entomologo o botanico, che con
zelo redige descrizioni e sistematizza l'esistente, l'architetto usa la storia,
forza la storia. Architettura è vedere le cose e trasferirle (Giorgio Grassi). È
noto che a chi gli chiedeva come avesse acquisito le proprie conoscenze,
Le Corbusier rispondeva, con impunito orgoglio, di essere un grande
voleur. Così l’architetto, artista pratico facitore di forme, trasforma la storia
in memoria. Su questa memoria lavora con l'immaginazione producendo
metamorfosi. La sua abilità consiste ogni volta nel trasfigurare ciò che è o
che è già stato. C'è un'intuizione che gli fa trasfigurare la realtà, che lo fa
tendere a quell'idea.
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Etienne-Louis Boullée
Gottfried Semper
Architettura Saggio sull’arte, 1781–1793
Lo stile,1860–1863
Ascoltiamo un filosofo moderno: tutte le nostre idee, tutte le nostre
percezioni – egli ci dice – ci provengono dagli oggetti esterni. Gli oggetti esterni
producono su di noi impressioni differenti a seconda della minore o maggiore
analogia che essi hanno con il nostro organismo. Aggiungo che noi definiamo
belli gli oggetti che hanno il massimo d’analogia con la nostra struttura, e
che noi respingiamo quelli che, privi di questa analogia, non si adattano al
nostro modo d’essere. [...]
Abbiamo annotato come le immagini ridenti dell’autunno siano prodotte
dall’estrema varietà delle cose, dal contrasto della luce e delle ombre,
dalle forme pittoresche e varie, dalla singolarità e la bizzarria dei colori
variopinti e screziati.
Ne segue, da questa considerazione, che per produrre delle immagini gaie
e ridenti, bisogna conoscere l’arte di renderle variate; in questo caso si
deve contare sulle risorse dell’immaginazione. È l’immaginazione che ci
presenta le cose in modo nuovo e stimolante e che rende diverse le
composizioni. È essa che sa impiegare le forme pittoresche, in modo da
travestirle e renderle singolari. È essa che pone contrasti di luci e di
ombre in modo da rendere effetti singolari e che con abile miscuglio
introduce la screziatura nei colori. È essa ancora che mediante un’analogia
felice e ragionata, con proporzioni svelte e slanciate, dà all’architettura un
carattere di leggerezza. È essa infine che con una combinazione ingegnosa
e ordinando le cose in modo inatteso forma degli spettacoli di sorpresa e
presenta la stupefacente attrazione della novità. [...]
Abbiamo notato che, nella stagione invernale, gli effetti della luce sono
tristi e opachi; che gli oggetti hanno perso il loro splendore e il loro
colore; che le forme sono dure e angolose e che la terra spoglia offre un
sepolcro universale.
Segue da queste osservazioni, che per produrre immagini tristi e fosche
bisogna, come io ho tentato di fare nei monumenti funerari, presentare lo
scheletro dell’architettura con una muraglia assolutamente nuda, offrire
l’immagine di una architettura sepolta, e non impiegare che proporzioni
basse e calanti nella terra, dar forma infine con materie che assorbano la
luce al nero quadro dell’architettura delle ombre disegnata con l’effetto di
ombre ancora più nere.
Questo genere di architettura fatto con le ombre è una scoperta artistica
che m’appartiene. È una nuova strada che io ho aperto e, se non mi sbaglio, gli Artisti non si rifiuteranno di percorrerla.
Così come la natura nella sua immensa ricchezza è molto parsimoniosa nei
suoi motivi, così come dimostra una costante ripetizione delle sue forme
fondamentali (Grundformen), così come però queste vengono modificate
mille volte secondo i gradi di sviluppo delle creature e secondo le loro
diverse condizioni di esistenza, in parte ridotte o allungate, in parte
dettagliate, in altre solo accennate, così come la natura ha una sua storia
evolutiva, al cui interno i vecchi motivi rispuntano ancora in ogni nuova
creazione, allo stesso modo alla base anche dell’arte vi sono solamente
poche forme regolari e tipi provenienti da una remotissima tradizione
che, in un continuo riapparire, presentano tuttavia una infinita quantità di
variazioni e hanno, come quei tipi della natura, una loro storia. Nulla è
puro caso, ma tutto è condizionato da circostanze e rapporti.
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Etienne-Louis Boullée
Giorgio Grassi
Architettura lingua morta, 1988
Il tipo è promessa di architettura.
Saverio Muratori
Studi per una operante storia urbana di Venezia, 1960
L’individuazione del tipo edilizio e dei suoi caratteri base nella congerie
della realtà dell’edilizia urbana, significa saperne leggere il contesto nella
sua linea di sviluppo e stratificazione storica, nel linguaggio e nella tecnica
dei singoli momenti, nel senso irreversibile e condizionante della storia.
Aldo Rossi
Terreni della tipologia, 1985
La tipologia di un edificio è un insieme di dati geometrici, tecnici e storici
che stanno alla base di ogni progetto. [...]
Pensare che gli studi tipo-morfologici siano la via maestra della architettura potrebbe essere un altro modo per chiudere la libertà della formazione
del giovane.
Gottfried Semper
Giorgio G rassi
Save rio Muratori
Aldo Rossi
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Carlos Martí Arís
Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura, 1990
Nella nostra definizione di tipo ci siamo riferiti principalmente alla sua
dimensione concettuale, presentandolo come un enunciato logico capace
di trascendere il livello di mero schema al quale lo riconducono altre
impostazioni. Lo schema, secondo la classica definizione kantiana, è una
rappresentazione che deriva dal campo empirico della percezione ed è in
grado di agire come mediazione tra fenomeni e categorie. Pertanto, sebbene lo schema sia un’immagine che conduce al concetto o procede da
esso, non è propriamente il concetto ma, tutt’al più, la sua rappresentazione grafica. È innegabile che lo schema, potendo riassumere con immediatezza ed evidenza alcune caratteristiche della forma, costituisce uno
strumento operativo fondamentale per il progetto architettonico. Però
questo non deve indurci a identificare lo schema con il tipo. Questa identificazione ha come conseguenza la fossilizzazione del tipo in un’immagine, l’impoverimento dei suoi contenuti nonché la riduzione delle sue
capacità di trasformazione.
Ma da queste variazioni, come da quelle interessanti la distribuzionecomunicazione degli spazi interni, colle loro misure specificate, coi loro
materiali e colori anche solo parzialmente diversi, col modo diverso di
tagliare le finestre – in verticale, per esempio, o in orizzontale – e di
collocarle nella parete della stanza o nella facciata, possono derivare
risultati diversissimi.
Ludovico Quaroni
I terreni della tipologia, 1985
Ammonizione contro l’uso sbagliato del tipo
Effettivamente negli ultimi dieci anni, e forse più, gli studi compiuti sui tipi
storici d’una città portavano gli architetti a prenderli come modelli per le
case da costruire oggi, non tenendo conto di tutti i cambiamenti che sono
avvenuti, nel nostro modo d’essere e di abitare, di costruire e di spendere
il denaro, dal secolo XIII, poniamo, fino a oggi.
Paolo Zermani
Ludovico Quaroni
Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura, 1977
Genericità dei termini ‹modello› e ‹tipo›
La parola ‹tipo› alle volte [viene] usata con accezione generica (quando ad
esempio si parla genericamente di case a schiera, di case in linea ecc.),
simile a quella di ‹modello› in matematica. [...]
Abbiamo accennato al doppio significato della parola ‹tipo›: risulta quindi
evidente come, prendendo il termine nel suo significato più generico di
modello tipologico, si possano avere realtà architettoniche del tutto diverse:
l’insula romana, la casa tradizionale olandese sui canali di Amsterdam, di
Haarlem o di Delft, la terrace-house georgiana di Londra, Edimburgo o
Bath, sono tutti esempi riconducibili al tipo ‹a schiera›, cioè a un modello
di casa unifamiliare articolata in verticale su più piani.
Questa similitudine tipologica ha dato la possibilità, in molti casi, di passare dalla casa medievale alla casa illuministica o addirittura alla casa
razionalista utilizzando le stesse misure del lotto, la stessa dimensione di
facciate sul fronte e sul retro, gli stessi due muri ciechi sui lati: solo il numero dei piani e le altezze degli stessi sono stati suscettibili di variazioni
e fino a un certo punto.
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Carlos Martí Arís
Ludovico Quaroni
Identità dell’architettura, 1995
I Monumenti sono oggi, nella maggior parte, delle entità isolate, attorno
alle quali nasce un contesto diversamente motivato. L’edilizia minore si è
sempre adattata al Monumento, è sempre vissuta del necessario riflesso,
ma ora il Monumento è realmente isolato, non solo dal punto di vista
topografico, non determina più processi di strutturazione consequenziale
del paesaggio, né principi di imitazione stilistica, elementi che potevano
considerarsi positivi nella città antica.
Ludovico Quaroni
Paolo Ze rmani
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Pianta, Raumplan e grande pianta
Nelle descrizioni a posteriori di dizionari ed enciclopedie, pianta è tecnicamente la rappresentazione di una sezione orizzontale di un edificio
contenente tutte le informazioni particolareggiate di larghezza, lunghezza
e profondità che in relazione con l’alzato (prospetto o sezione) rendono
comprensibile materialmente la costruzione. Secondo questa interpretazione la pianta potrebbe essere un semplice elemento che rappresenta e
comunica, quasi uno strumento neutrale. Chi può accontentarsi di descrivere il reale è servito. L’architetto che invece intenda imparare a trasformare le idee in forme e volumi deve sapere che la pianta appartiene alle
mosse di apertura. Ancor prima di essere tracciato che prende forma sul
piano, la pianta è idea formata nella mente. Idea allo stato puro sul punto
di trasformarsi in immagine concreta. Ordine e geometria nella forma più
concentrata, sottratti ancora per pochi istanti alla metamorfosi che brucia
il concetto nella figura, il pensiero nell’espressione (pensiamo per concetti, ci esprimiamo con figure?). Ordine, disposizione, composizione. Pianta,
immaginazione e disciplina secondo Le Corbusier (1923).
Daniele Barbaro nel commento ai dieci libri dell’architettura di Vitruvio
(1567) descrive l’unità della costruzione e la non separabilità di ichnografia
(pianta), orthografia (alzato) e sciografia (sezione). Così l’architetto forma
nel suo pensiero un nucleo condensato dell’opera che proietta poi, disegnandolo, in queste tre maniere secondo le quali l’intenzione prende corpo. E se la ichnografia estrinseca la collocazione delle parti, essenziale è che
l’elevazione sia conforme al tracciato della pianta. Altrimenti non sarebbe
una istessa cosa quella che nasce e quella che cresce: il che sarebbe grave
errore, contra la natura delle cose. Alla fine l’edificio sarà organismo complesso e articolato, frutto di un bilanciato equilibrio tra tensioni. Anche la
più elementare delle costruzioni rimanda a un sistema. L’analogia con la
vita naturale evocata dal Barbaro allude al concetto di sistema cui il
dispositivo della pianta tende: nelle piante e ne gli animali si uede quello che
nasce e quello che cresce esser lo istesso. Organismo, per l’appunto, cui non
è possibile aggiungere alcuna altra parte senza modificare il tutto. E se è
chiaro che la pianta corrisponde concretamente al tracciato di base che sul
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piano definisce il futuro edificio, ci interessano quelle definizioni che
evocano non solo la capacità di suddivisione dello spazio, per così dire le
qualità geometriche della pianta, ma anche le analogie con la figura umana.
Nella nota lettera di Raffaello al Papa Leone X il tracciamento delle fondamenta si associa alla figura della pianta del piede e su come essa occupi
sul terreno quello spazio che è fondamento di tutto il corpo.
Ma se già si è accennato al tema dell’impronta a proposito del tipo,
occorre qui approfondire il passaggio secondo cui quell’idea generatrice,
quel fascio di idee e intenzione integrata in questo fascio di idee, a differenza
del tipo, ha come destino di incontrare la forma concreta, divenendo
spazio, distanza, enfilade traguardata, vuoto bilanciato da pieni (per questo
la pianta non coincide con il tipo edilizio, anche se la pianta è uno dei
modi che noi abbiamo per riconoscerlo). L’idea tradotta in realtà è costretta a misurarsi con l’esperienza e necessita di figure che la esprimano.
Tanto peggio per chi è privo di immaginazione, tuona Le Corbusier nella
prima delle tre avvertenze agli architetti di Vers une Architecture. L’immaginazione non porta da nessuna parte se non è temperata dalla disciplina,
e senza pianta, senza disciplina cioè, vi è solo disordine e arbitrio. Tendenziosamente potremmo rileggere Vitruvio definendo con ordine la gerarchia degli obiettivi che ci si è prefissati di raggiungere (la classificazione
delle intenzioni), mentre con disposizione intendiamo la capacità di tenere
insieme le parti e il tutto. La pianta ha delle regole. Procede da dentro a
fuori. Anche l’esterno è un interno. Abbiamo percezione dello spazio in
quanto è delimitato. Si costruisce con gli elementi architettonici che sono
la luce, l’ombra, il muro e lo spazio.
In questa oscillazione tra idea prima del farsi materiale e concreto, e
dispositivo operativo che presiede alla regia dello spazio è il carattere
peculiare della pianta. Un andirivieni continuo tra idee ed esperienza, che
caratterizza del resto altre questioni su cui si ragiona pensando allo stato
dell’arte del fare architettura oggi. Problemi a prima vista piuttosto desueti
che vengono qui ancora una volta trattati nella convinzione che le ragioni
del progetto scaturiscano più da un continuo scambio con la teoria che
non dalla rincorsa di esperimenti ansiosi di ricominciare da zero. È il
progetto che ogni volta si rinnova e pone questioni inaspettate, non la
disciplina.
Due prospettive distinte separano quanti pensano al progetto come procedura e sequenza di risposte a una serie di problemi funzionali e distributivi (illudendosi che il buon risultato derivi dalla garantita sommatoria
di pratiche ripetute meccanicamente) e quanti invece, ragionando sulla
composizione, continuano a ritenere che il nostro mestiere deve tendere
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al raggiungimento di quell’unità formale e funzionale della costruzione
oltre il puro soddisfacimento delle questioni immediatamente utili e necessarie. Chi dice ordinare, dice comporre: è in questo modo che parliamo di
pianta, ma alludiamo a pensare classificare trovare-ritrovare. Se è vero che
l’architettura deve assolvere in modo plausibile in primo luogo a un
compito pratico, proprio partendo da quella motivazione rigorosamente
funzionale, non va dimenticato che essa ha il compito di mettere in opera
lo svolgimento appropriato del tema. Obiettivo è appunto l’unità tecnica
ed estetica della costruzione. Architettura come arte pratica che lavora
per la messa in opera di un immaginario tecnico (tecnica e arte hanno del
resto comune origine). Il funzionalismo ingenuo si impegnò con enfasi militante per scindere questi due aspetti, cercando di spogliare l’architettura
da quelle figure retoriche, elementi evocativi, simboli che sono parte
sostanziale nel ruolo rappresentativo dell’edificio. Tale indebolimento del
sistema eloquente non sembra essere stato compensato da una maggiore
trasmissibilità, ha semmai provocato una nuova estetica che si ritrova
nell’indifferente anything goes (qualcuno forse un giorno rimetterà al
giusto posto la presbiopia ideologica e presuntuosa di una parte del Moderno che si illuse di essere mondo nuovo non accorgendosi di trovarsi
invece tutto dentro le estreme conseguenze della cultura positivista).
La pianta è la messa in opera di una singolare coincidenza programmatica
(l’organizzazione spaziale analoga del Danteum di Terragni e Lingeri come
viaggio iniziatico verso la luce). È nella pianta che si compiono le scelte e
si distribuiscono i pesi della forma costruita. La pianta, disegno destinato a
non essere mai esperito nella sua completezza come vera e propria parte
dell’edificio (Gallo, 1993), seleziona gerarchie e dispone gli spazi secondo
un ordine definito. Vi sono epoche in cui la coincidenza tra idea e programma precipita in forme e tipi molto chiari e riconoscibili come per
esempio nel programma dell’ Alberti per la chiesa ideale. L’edificio a pianta centrale isolato e su un piedistallo diviene simbolo della massima perfezione, ove il programma ideale di unità, infinita essenza, uniformità e
giustizia divina incontra la forma circolare perfetta, dominata da una
cupola emisferica, sorretta da un ordine dorico severo. Tra i moderni solo
Bramante con il tempietto al Gianicolo sta vicino agli antichi nei libri di
Palladio.
La pianta è antica. Essa è l’ambito dei fenomeni più stabili dell’architettura. Permanenza, talvolta (cfr. Tipo come promessa di forma). Ne parla
Wittkower a proposito della geometria palladiana presentando la sequenza di piante schematiche di undici ville e citando il primo dei Quattro Libri
ove si evidenzia come anco gli Antichi variarono, né però si partirono mai da
51
alcune regole universali et necessarie dell’Arte (Wittkower, 1964). L’ampia
sala quasi sempre loggiata sull’asse centrale, le scale e gli ambienti di servizio disposti ai lati dello spazio centrale, le stanze simmetriche lungo i
fianchi. Gli spazi tutti in progressione armonica proporzionale, non solo
all’interno di ciascun ambiente, ma nelle relazioni degli ambienti fra loro.
La pianta è qui generatrice e impronta di volumi coerenti. La geometria
non è il fine, ma un mezzo per il controllo delle idee finalizzato al raggiungimento di quell’unità compiuta.
La pianta concorre alla vocazione narrativa dell’architettura (Gallo, 1993).
La pianta scandisce il racconto della sequenza di spazi. La pianta governa
l’organizzazione degli spazi conferendo un ritmo preciso, le cui variazioni
sul tema corrispondono alle svariate cadenze in cui si può declinare la
composizione architettonica. Con Le Corbusier riconosciamo un ritmo
che è di volta in volta equilibrio per simmetria e ripetizione, compensazione ottenuta dal movimento di contrari, modulazione a partire da
un’invenzione plastica originaria. Per Josef Frank (Haus Beer, Wenzgasse,
1929–30) la casa diviene sequenza di spazi organizzati secondo le figure di
strada e piazza. Energia: si avvita intorno alla scala e sale attratta da vani
più stretti e verticali. Il movimento è centrifugo, esattamente come per i
rami di un albero che hanno un’origine comune nel tronco, ma che si
dirigono verso l’esterno della chioma. Quiete: negli spazi pacati che si
aprono sul lato del percorso (tutti hanno un centro che invita allo stare).
Una soglia, una porta, un disimpegno da cui si esce non in asse, una finestra, con la funzione di accogliere, invitare, respingere. A volte, per raggiungere una sensazione, il suolo si alza di un gradino (Le Corbusier, 1923).
La pianta nello spazio è Raumplan. La grande intuizione di Adolf Loos.
Non esiste più un piano terra, un piano nobile o una cantina. Ci sono
unicamente spazi in collegamento continuo. Ma non è il fluire di Frank.
Nella composizione più generale si articolano frasi, motivi, sequenze,
sistemi sottomessi all’unità e pure a questa tendenti. Nel Raumplan l’economia degli spazi si salda all’unità complessiva della costruzione. Anche
per Loos la casa si costruisce dall’interno all’esterno, ma nei suoi lavori vi
è sempre una figura unitaria che la tiene insieme, a differenza delle case di
Frank. Laddove quest’ultimo scomponeva spazi, piani, livelli, corpi aggiunti e equilibri dinamici tenuti insieme da figure che per non sciogliersi dovevano non fermarsi mai (l’architettura si istituisce a metafora del movimento con piante garbatamente squilibrate), nella composizione loosiana
vi è a un certo punto un gesto che tiene insieme il tutto con arte antica.
Come Palladio. Come Schinkel. Sappiamo che per comporre dobbiamo
smontare, ordinare, disporre. Siamo tante cose contemporaneamente. Ciò
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che si oppone converge, e la più bella delle trame si forma dai divergenti, e
tutte le cose sorgono secondo la contesa (Aristotele, Etica Nicomachea).
Ecco che tutto si ri-compone. I contrasti, le giustapposizioni tra i singoli
elementi trovano un motivo superiore per non sciogliersi. Le scale che si
avvolgono a spirale o che si distendono su enfilade virtuali di spazi
sovrapposti o incastrati sono in Loos centrate su un nucleo interno: la
biblioteca, la stanza della signora ecc. Se prendessimo a prestito concetti
familiari agli studiosi di grammatica della musica potremmo qui riconoscere che la scala è il tema, intendendo con ciò quel motivo che è di così netta
riconoscibilità da essere il protagonista o il nucleo generatore di una
composizione. Il semperiano equilibrio tra tecnica e figura incontra nel
Raumplan la necessità di economizzare gli spazi e il loro star dentro la
figura compatta che ci annuncia la casa, in linea di massima un cubo. Vi è
chi ha enfatizzato il valore economico della pianta nello spazio (Kulka,
1931). A Loos sembra però interessare soprattutto come la composizione
riesca a tenere insieme questi mondi dissonanti.
Casa isolata è qui un modo di vedere la città e il mondo. Nel Raumplan
loosiano mai una scala che si ripeta sovrapposta a se stessa, come invece
accade nei quartieri della città borghese (si faranno anche quelli – sì che si
faranno, ma con quello spirito di servizio che obbligherà il Baumeister a
compiere un passo indietro). Lo stesso arredamento è dispositivo per
misurare lo spazio e i riti domestici. Non è giustapposto al muro, ma pensato come muro di legno o di stoffa. Scansione coerente della sequenza di
spazi, sempre consonante e mai in contrasto. Modulo di parapetto, montante di balaustra, riquadro di anta, cielino di pianerottolo sono pensati da
costruttore facitore di spazi e non decoratore. E se a proposito dei movimenti che portano alla pianta potremmo pensare alla figura di una partita
a scacchi, Loos ha voluto farci evocare nel Raumplan la partita a scacchi nel
cubo (La casa isolata, 1989). La sfida è fare il vuoto con il tutto pieno? Vi
è chi ha, a tal proposito, cercato anche di istituire un parallelo dialettico
con le ricerche di Le Corbusier sulla liberazione della pianta dalla schiavitù
del muro perimetrale e dalla figura tradizionale della stanza rettangolare o
quadrata. Lasciando la questione aperta possiamo però dire che a maggior
ragione dopo l’invenzione della pianta nello spazio, non possiamo così
tranquillamente affermare che il dispositivo della pianta, strumento di
controllo orizzontale del progetto, sia lo scenario esaustivo entro il quale
si apre e si chiude l’intera esperienza della composizione. Solo il progetto
saprà di volta in volta mettere alla prova i dubbi o aumentare le incertezze
(Raumplan versus Plan Libre nella antinomia indagata da Stanislaus von
Moos e Max Risselada).
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Grande pianta, composizione. Grande pianta non è una pianta grande.
Grande pianta è composizione al livello più alto. Comporre come arte del
tenere insieme disgiungendo. Abbiamo imparato come in architettura sia più
difficile scollegare e disgiungere che non collegare e riunificare (Tessenow,
1916). Comporre significa anche saper rendere ogni cosa necessaria all'altra, ma al contempo far sì che ciascuna cosa sia pure se stessa. Non è un
caso che Le Corbusier associ al ragionamento sulla pianta il ragionamento
sul piano come programma e disposizione strategica che allude a un organismo complesso (in taluni casi antichi segni in relazione con altre dimensioni conformi, la relazione col cosmo, l’incontro tra l’architettura illuminista e le culture orientali – Chandigarh). Un palazzo, che come nell’analogia
albertiana, oscilla tra l’essere piccola città o grande casa. I palazzi dell’imperatore sulle rive del Mediterraneo, figure sul limite oltre il castrum e
verso la città. Spalato, Ravenna. La città-mondo col teatro della memoria
di Adriano a Tivoli (forse la prima città analoga?). La villa romana come
principio di società e di città, sia che fosse grandiosa residenza suburbana,
sia che costituisse l’avamposto in terre lontane di una aristocrazia agraria.
Per frammenti Palladio costruisce magioni nella campagna veneta, ma nei
suoi libri sono la villa degli Antichi. L’impianto grandioso di Villa Thiene a
Quinto Vicentino, la cosmogonia di Villa Trissino a Meledo. E se il palazzo
di città si sviluppò intorno alla corte, persino nella forzata riduzione di
impianti a elle come la piccola casa dello stesso Palladio a Vicenza, nella
villa prevale l’asse. L’asse è ciò che mette ordine nell’architettura. L’ordine è la
gerarchia degli assi, da cui la gerarchia dei fini, la classificazione delle intenzioni (Le Corbusier, 1923). Dal principio della corte intorno a cui gravita il
palazzo di città nelle sue varianti memore della sequenza atrio/tablino/
peristilio, ai sistemi complessi che lavorano sul convergere/divergere di
una pluralità di assi, fuochi, scene urbane. Talvolta figure tra città e campagna hanno una grande inerzia nella esperienza dell’architettura nel tempo (l’Ospedale Maggiore di Filarete, per esempio). Mostrano la via magari
senza esperirla del tutto. Al variare delle destinazioni resta in molti casi la
permanenza della grande pianta (la strada colonnata romana generatrice
nel tempo del suq di Aleppo). Fischer von Erlach rivisita le figure mitiche
del Mediterraneo, i grandi impianti ideali in cui confondiamo palazzo,
acropoli, città. E come Palladio, Schinkel lavora su Plinio. Ri-letture e messa in opera delle descrizioni, ri-costruzioni, pensieri che filtrati attraverso
Potsdam giungono per rigenerazione fino alla reggia di Orianda.
La domus contrapposta all’insula. Grande pianta come struttura sequenziale e giustapposizione di piccoli e meno piccoli sistemi planetari, non iterazione di un principio astratto. Per questo forse la grande pianta è per noi
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l’altro estremo possibile della città moderna rispetto a quelle magnifiche e
progressive sorti che ancora sul nascere del Novecento fingevano ipotesi
di metropoli a sviluppo illimitato. I progetti di Loos per Vienna hanno la
forza della grande pianta. Nella Vienna dominata dalla Sezession riprendono Semper laddove era stato costretto a fermarsi. Gli edifici pubblici sono
al contempo architettura della città e frammenti di piano incaricati di
lavorare sul tema del risarcimento urbano (cfr. Costruzione, ricostruzione). Gli schizzi per la nuova stazione di Vienna o per un grandioso teatro
sono sequenze di spazi pubblici articolati e complessi, gerarchie di corti e
di piazze non lontane dalle terme dei Romani ridisegnate da Palladio e da
Semper. Gli stessi alberghi di Loos per la Friedrichstrasse a Vienna, l’Hotel
Esplanade ad Agram, il Grand Hotel Babylon di Nizza, la proposta per gli
Champs-Élysées a Parigi sono prosecuzione della città e suo annuncio al
tempo stesso.
E se a supporto delle considerazioni sulla grande pianta già da altri (Gallo,
1993) sono stati richiamati esempi illuminanti quali il progetto dell’E42 di
Marcello Piacentini (Roma, 1938) o la New Cleveland Play House di Philip
Johnson e John Burgee (Ohio, 1980–83), dovremo continuare a riflettere
su alcuni esempi che mostrano come l’operatività di questo concetto
continui a essere feconda e a mostrare la strada. A bilancio provvisorio di
un secolo appena finito vorremmo poter avere sempre presenti quei progetti che hanno lavorato su impianti urbani della città classica. È la memoria della città mediterranea che ritorna in Louis Kahn dopo il suo
viaggio in Italia e in Medio Oriente compiuto sul finire degli anni quaranta:
per esempio i suoi progetti per il Trenton Jewish Community Center
(1955). Classical training e modern ideas si rispecchiano dialetticamente
nella grande pianta del centro dando vita a una sequenza di edifici il cui
tracciato antico rivive con alzati inaspettati e sorprendenti (Solomon,
2000).
Sinfonia. La sinfonia è semplicemente l’adattamento della sonata a un’intera orchestra. Così scrive Ottó Károlyi nella sua Grammatica della musica.
Per le grandi possibilità musicali che racchiude, specialmente per quanto
riguarda i colori orchestrali e la gradazione di volume sonoro, la composizione
sinfonica ha un’importanza predominante nella storia della musica. Essa è un
po’ il romanzo della letteratura musicale; nel suo ambito strumentale, c’è posto
per qualsiasi cosa, dal lirismo più tenero all’eroismo più esasperato. Non ci
dispiace pensare a un parallelo arbitrario con la grande pianta.
55
Raffaello Sanzio
Lettera a Papa Leone X
La pianta si è quella che comparte tutto el spazio piano dal luoco da
edificare, o – voglio dir – el dissegno del fondamento di tutto lo edificio,
quando già è rasente al pian della terra. [...] e chiamasi questo disegno –
come è dicto – pianta; quasi che così questa pianta del piede occupa quel
spazio che è fondamento di tutto il corpo.
sformazioni del processo che conduce alla pianta il tipo rimane sempre
riconoscibile, anche se gli elementi si mescolano e portano così a soluzioni spesso particolarmente singolari, in cui in particolare l’architettura
barocca ha trovato uno stimolo sempre rinnovato. Tipi naturali sono nati
in modo analogo in tutte le categorie di edifici, sia che le architetture si
siano sviluppate nel corso del tempo in figure anche sempre più complicate oppure al contrario se a seguito di una sempre maggiore specializzazione degli incarichi edilizi si siano addensate in soluzioni sempre più
semplici.
Leo Adler
Dizionario Wasmuth dell’architettura, 1929–1932
Voce ‹Pianta›
La pianta è in senso geometrico la proiezione ortogonale di una dimensione spaziale (come la distanza) su un piano usualmente orizzontale –
cioè sul piano della pianta. Nella prassi tecnica la pianta è generalmente la
proiezione orizzontale di un oggetto, in particolare la rappresentazione
grafica di una sezione orizzontale attraverso un edificio.
Nella creazione della pianta – fondamentale per la suddivisione degli
spazi, per l’articolazione interna e per la formazione del corpo edilizio
stesso – si intrecciano le necessità pratiche funzionali con le idee artistico-estetiche, in modo particolarmente stretto. Sono le prime che, nel tipo
di edifici per cui il programma funzionale condizionato dall’uso rimane
essenzialmente lo stesso oppure conosce relativamente poche variazioni
nel corso del tempo, hanno come conseguenza una profonda permanenza
in tutti gli sviluppi della storia dell’architettura, una permanenza che poco
a poco porta a una formazione per così dire naturale di tipi e a una
selezione di forme dello spazio. Si ricordano solo di sfuggita tipologie di
piante per la basilica, le costruzioni a padiglione e quelle a pianta centrale,
che nel loro sviluppo nel tempo vengono modificate principalmente da tre
fattori: 1. necessità liturgiche; 2. materiali e strutture edilizi (costruzioni a
volta!) e 3. la trasformazione delle concezioni estetiche.
Queste serie di tipi vengono coinvolti su due fronti. Da una parte dall’evoluzione dei bisogni e delle necessità: nel caso della storia comparativa
dell’amministrazione della giustizia ci sono esempi particolarmente evidenti negli edifici dei fori e dei tribunali. In secondo luogo mediante
necessità imparentate con consuetudini di per sé completamente diverse,
per cui si può citare come esempio culminante la ripresa della basilica
romana per gli scopi della messa paleocristiana. Nonostante queste tra56
Raffaello Sanzio
Leo Adler
Le Corbusier
Verso un’architettura, 1923
L’architettura non ha niente a che vedere con gli ‹stili›.
Essa sollecita le facoltà più elevate, mediante la sua stessa astrazione.
L’astrazione architettonica ha questo di particolare e magnifico, che, radicandosi nella concretezza dei fatti, li spiritualizza. Tale realtà è passibile di
idea solo attraverso l’ordine che vi si proietta.
Il volume e la superficie sono gli elementi mediante i quali l’architettura si
manifesta; essi sono determinati dalla pianta. È la pianta l’elemento generatore. Tanto peggio per chi non ha immaginazione! [...]
La pianta è la generatrice.
L’occhio dello spettatore si muove in un paesaggio fatto di strade e di
case, ricevendo lo choc dei volumi che si levano intorno. Se questi volumi
sono formali e non degradati da alterazioni intempestive, se la disposizione che li raggruppa esprime un ritmo chiaro e non un insieme incoerente,
se i rapporti dei volumi e dello spazio sono costruiti in proporzioni
giuste, l’occhio trasmette al cervello sensazioni coordinate e lo spirito ne
trae sensazioni di piacere di ordine elevato: questa è architettura.
L’occhio osserva nella sala le superfici multiple dei muri e delle volte; le
cupole determinano spazi; le volte dispiegano superfici; le colonne, i muri
si allineano seguendo un ordine razionale comprensibile. Tutta la struttura
s’innalza dalla base e si sviluppa secondo una regola impressa nella pianta:
belle forme, varietà di forme, unità di principio geometrico. Trasmissione
profonda di armonia; questa è architettura.
La pianta sta alla base. Senza pianta non c’è né grandezza di intenzione e
di espressione, né ritmo, né volume, né coerenza. Senza pianta c’è una
sensazione insopportabile di cosa informe, di povertà, di disordine, di
arbitrio.
Leo Adler
Le Corbusier
57
La pianta richiede la più attiva immaginazione e insieme la più severa
disciplina. La pianta determina tutto: è il momento decisivo. La pianta non
ha il disegno grazioso del viso di una madonna; è un’austera astrazione;
non è che un’algebrizzazione arida. Ma il lavoro del matematico resta in
ogni caso una delle più elevate attività dello spirito umano.
L’ordine è un ritmo afferrabile che agisce su qualsiasi essere umano in
ugual modo.
La pianta porta in se stessa un ritmo primario determinato: l’opera si
sviluppa in estensione e in altezza, secondo le sue prescrizioni, dal semplice al complesso, seguendo la stessa legge. L’unità della legge è la legge
di una pianta corretta: legge semplice infinitamente modulabile.
Il ritmo è uno stato di equilibrio che procede da simmetrie semplici o
complesse o da compensazioni sapienti. Il ritmo è un’equazione: uguaglianza (simmetria, ripetizione) (templi egiziani, indù); compensazione
(movimento di contrari) (Acropoli di Atene); modulazione (sviluppo di
un’invenzione plastica iniziale) (Hagia Sofia). Altrettante reazioni profondamente diverse dell’individuo, malgrado l’unità di scopo: il ritmo, come
stato di equilibrio. Da qui la diversità così sorprendente tra le grandi
epoche, diversità che sta nel principio architettonico e non nei modi
ornamentali. Nella pianta è già compreso il principio della sensazione.
Le Corbusier
Verso un’architettura, 1923
La pianta procede da dentro a fuori; l’esterno è il risultato di un interno.
Gli elementi architettonici sono la luce, l’ombra, il muro e lo spazio.
L’ordine è la gerarchia degli scopi, la classificazione delle intenzioni.
L’uomo vede le cose dell’architettura con i propri occhi che sono a un
metro e settanta dal suolo. Non possiamo prendere in considerazione
altro che scopi concretizzabili in immagini, che intenzioni traducibili in
elementi dell’architettura. Se ci si affida a intenzioni che non sono proprie
del linguaggio dell’architettura, si finisce nell’illusione delle piante, si trasgrediscono le regole della pianta per errore di concezione o per inclinazione alla vanità.
Fare una pianta è precisare, fissare delle idee.
Significa avere avuto delle idee.
Significa ordinare queste idee in modo che esse divengano intelligibili,
fattibili e comunicabili. Occorre dunque dimostrare un’intenzione precisa, aver avuto delle idee a partire da un’intenzione. La pianta in qualche
58
Le Corbusier
modo è un concentrato come una tavola analitica delle materie. In una
forma così concentrata da apparire come un cristallo, come un disegno di
geometria, contiene un’enorme quantità di idee e un’intenzione motrice.
[...]
La pianta, fascio di idee e intenzioni integrata in questo fascio di idee, è
diventata un foglietto di carta in cui dei punti neri, che sono i muri, e dei
tratti, che sono gli assi, giocano a fare il mosaico, il pannello decorativo,
fanno dei grafici di stelle scintillanti, provocano l’illusione ottica. La stella
più bella diventa il Grand Prix di Roma. Ora, la pianta è l’elemento generatore, «la pianta è la determinazione di tutto; è un’austera astrazione,
un’arida algebrizzazione». È un piano di battaglia. La battaglia segue ed è
questo il grande momento. La battaglia è fatta dello choc dei volumi nello
spazio e del morale della truppa, è il fascio di idee preesistenti e l’intenzione motrice. Senza una buona pianta non c’è niente, tutto è fragile e
non dura, tutto è povero anche sotto il mucchio dell’opulenza.
Adolf Loos
Architettura, 1909
La nostra cultura si fonda sul riconoscimento della inarrivabile grandezza
dell’antichità classica. Dai Romani abbiamo derivato la tecnica del nostro
pensiero e del nostro modo di sentire. Ai Romani dobbiamo la nostra
coscienza sociale e la disciplina della nostra anima.
Non è un caso che i Romani non fossero in grado di inventare un nuovo
ordine di colonne, un nuovo ornamento. Per fare questo erano già troppo
progrediti. Essi hanno derivato tutto questo dai Greci e lo hanno adattato
ai loro scopi. I Greci erano individualisti. Ogni edificio doveva avere la sua
modanatura, il suo ornamento. I Romani invece pensavano socialmente. I
Greci non riuscivano neppure a governare le loro città, i Romani dominarono la terra intera. I Greci sprecarono la loro forza inventiva negli ordini
delle colonne, i Romani applicarono la loro alla pianta. E chi sa risolvere la
grande pianta non pensa a nuove modanature.
Da quando l’umanità ha compreso la grandezza dell’attività classica, un
solo pensiero unisce fra loro i grandi architetti. Essi pensano: così come
io costruisco avrebbero costruito anche gli antichi Romani. Noi sappiamo
che hanno torto. Tempo, luogo, scopo, clima, ambiente glielo impediscono.
Ma ogni volta che l’architettura si allontana dal suo modello con i minori,
i decorativisti, ricompare il grande architetto che la riconduce all’antichità.
Le Corbusier
Adolf Loos
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Fischer von Erlach nel sud, Schlüter nel nord furono a buon diritto i
grandi maestri del secolo diciottesimo. E sulla soglia del diciannovesimo
secolo c’era Schinkel. Lo abbiamo dimenticato. Possa la luce di questa
straordinaria figura illuminare la nostra futura generazione di architetti!
Adolf Loos
Josef Veillich, 1929
[...] Quando a Stoccarda io cercai di partecipare all’esposizione con una
mia casa, mi fu decisamente negato. Avrei avuto qualcosa da mostrare,
cioè un’abitazione i cui locali fossero distribuiti nello spazio e non sul
piano, come è stato fatto finora sovrapponendo un appartamento all’altro.
Grazie a questa soluzione avrei consentito all’umanità di risparmiare
parecchio tempo e lavoro sulla via del progresso. [...]
Questa rappresenta una grande rivoluzione nel campo dell’architettura: la
soluzione di una pianta nello spazio! Prima di Kant, l’umanità non poteva
ancora pensare nello spazio e gli architetti erano costretti a fare il gabinetto alto quanto il salone. Soltanto dividendo tutto in due potevano
ottenere locali più bassi. E come un giorno l’uomo riuscirà a giocare a
scacchi su un cubo, così anche gli altri architetti risolveranno il problema
della pianta nello spazio.
Heinrich Kulka
Adolf Loos. L’opera dell’architetto, 1931
Con Adolf Loos venne alla luce un pensiero spaziale essenzialmente nuovo,
più alto: il libero pensare nello spazio, la progettazione di spazi che stanno
a livelli diversi e non sono legati a un piano continuo, la composizione di
spazi in relazione tra di loro in un unicum armonioso e inseparabile, a
comporre una figura economico-spaziale. Gli spazi hanno a seconda del
loro scopo e del loro significato non solo dimensioni diverse, ma anche
diverse altezze. Loos riesce così con gli stessi strumenti edilizi a creare più
superficie abitabile, perché in questo modo ospita nello stesso cubo, sulle stesse fondazioni, sotto lo stesso tetto, tra gli stessi muri esterni, più
spazi. Il materiale e il volume edificato vengono da lui utilizzati fino all’ultimo. In altre parole si potrebbe dire: l’architetto, che pensa solo nella dimensione piana (bidimensionale) ha bisogno di uno spazio costruito più
grande per ricreare lo stesso spazio abitabile. In questo modo le distanze
60
Adolf Loos
Heinrich Kulka
all’interno della casa diventano inutilmente lunghe, la gestione non redditizia, l’abitabilità inferiore, e un tale edificio sarà di conseguenza meno
economico richiedendo maggiori costi di manutenzione. [...]
Solo uno riesce a creare le basi per un’economia dello spazio: Adolf Loos.
E come fino a oggi si è parlato di pianta, da Loos in poi si può parlare di
Raumplan.
Esiste un principio fondamentale: solo quando la statica si lega con l’economia dello spazio è possibile parlare di un’architettura moderna (e parsimoniosa).
Luciano Semerani
La villa di Plinio. La narrazione, 1991
Ciò che colpisce nei progetti di Loos è la collocazione strategica delle
scale. Ogni scala sale liberamente come se dovesse descrivere un tema del
tutto indipendente: a una si aggrapperanno il salone e la sala da pranzo,
all’altra lo studio del signore, il suo bagno e la sua stanza da letto, il suo
vestibolo, a un’altra la biblioteca e la sala da musica, con un’altra infine si
può salire, indisturbati, dalla signora.
Sotto il portico esastilo e lo scalone d’arrivo a tenaglia della villa al
Modena Park si dispongono cantine, dispense, cucine, alloggi per la servitù: un’organizzazione signorile dell’abitare; ma dietro il porticato uno,
due, tre, quattro, cinque, sei diversi tipi di scale, una ellittica, una a C, una
scala doppia, una a L, cominciano a sviluppare il potenziale insito nella
loro strategica collocazione e nella loro tipologia. Come i pezzi sulla
scacchiera. Tanto più quanto l’impianto è stereometrico, preferibilmente
quadratico e tendenzialmente cubico, l’apertura della partita è data dal
numero e dalla collocazione delle scale. La loro configurazione sfugge
ragioni di simmetria e le asimmetrie dinamiche degli interni sono stabilite
proprio dalle diversità tematiche che ogni nucleo-scala innesta dentro il
solido geometrico.
Heinrich Kulka
Luciano Semerani
61
Memoria, tradizione, metamorfosi
L’architetto ricorda, ma con una memoria trasfigurata e tendenziosa. La
forma filtrata dalla memoria subisce una metamorfosi che la porta a essere
analoga, ma non identica all’originale di partenza. Nell’architettura contemporanea la memoria parrebbe aver assunto il significato che un tempo
aveva la ricerca filologica storica e stilistica. L’uso della memoria nel progetto non passa più attraverso l’imitazione degli antichi, né costituisce una
restaurazione accademica. La relazione che il progetto stabilisce oggi col
passato non si sviluppa più secondo sapienti citazioni di fonti storicistiche
o ripetendo antichi monumenti, cioè a dire non è più immediata trasposizione di un catalogo di stili ed esempi, quanto invece svolgimento per
modi analogici, secondo un intreccio complesso di articolazioni e un gioco disinibito di segni e significati, tipico dei processi mnemonici (Sabini 1993,
‹Memoria›). Una forma non si ripete mai, ma porta con sé un sottile e,
talvolta, raffinato rimando al suo stampo originario. Ogni volta rinnovata,
ancora reinterpretata e trasmutata, lascia però trasparire, nei casi migliori,
quel cominciamento da cui prese le mosse. Persino le più recenti invenzioni possono portare con sé una memoria trasformata della propria
origine. Ecco dunque quel ricordare selettivo che secondo modi del tutto
particolari sa essere in costante rapporto col processo creativo.
Esiste una memoria invertita dell’artista che gli consente di bruciare il
passato in una metamorfosi e di fonderlo nell’opera. Accettiamo che in
questo gesto egli dimentichi consapevolmente talune cose, esageri la
forma di alcuni elementi, ne stravolga altri, così da ottenere particolari
effetti. L’anonimo scultore medievale altera, trasforma ed enfatizza le
proporzioni del capitello, lo distrae dal suo modello classico, fino a fargli
rappresentare lo sforzo e la deformazione conseguente al carico che lo
schiaccia (e tuttavia il canone originale resta fondamentale per coglierne il
tradimento). Come per il lavoro dell’artigiano, il lavoro di quell’artista
pratico che è l’architetto è sempre un’interpretazione. Nella dialettica tra
adesione a un codice riconosciuto e nella sua trasgressione/tradimento è
del resto inscritta tutta l’esperienza dell’architettura nel tempo. Da un lato
i rigorosi partiti di Raffaello che lavorano su e con gli antichi, cercando di
competere con essi e portandoli avanti, d’altro lato le opere mantovane di
63
Giulio Romano, dove troviamo tutta la consapevolezza della lezione classica ma anche la sua forzatura, la rottura controllata, la trasgressione,
l’ironia. La consapevolezza di un linguaggio esperibile ormai forse solo sul
limite. Entrambi però accomunati in una genealogia che seppe magistralmente leggere la lezione dell’architettura romana e con essa costruire altri
edifici, altre città.
Il progetto è una serie consapevole di falsificazioni. E non accade diversamente al pittore che per meglio rappresentare una montagna o restituirci
una profondità sposta una cengia, trascolora un’ombra, accentua l’ansa di
un fiume. Il progetto dunque non dice necessariamente la verità, ci lascia
invece illudere, inganna talvolta, spiazza, seduce, evoca circostanze inaspettate.
Parlare di memoria significa anche parlare di tradizione e del rapporto tra
questa e l’invenzione. Come già abbiamo argomentato a proposito della
memoria, tradizione non nel senso della nostalgia o della imitazione, bensì
quale energia necessaria alla metamorfosi della forma (Rogers, 1958). Con
Focillon riconosciamo che esistono personalità di artisti che, pur distogliendosi energicamente dal passato, hanno tuttavia in esso ritrovato antenati e ragioni di riferimento (il caso di Mies van der Rohe è in tal senso
esemplare). Tradizione è la conferma di lunghe inerzie al fianco di quella
energia delle mutazioni cui accenna Rogers. La storia del resto, ci ricorda
ancora Focillon, non è il divenire hegeliano. La storia, e in modo del tutto
particolare la storia dell’arte e l’esperienza dell’architettura nel tempo,
non è una nitida sequenza di belle immagini, ma un insieme di molteplicità
che recano in sé scambio continuo, diffferenti gradi di evoluzione, conflitto. Vi è un tranquillo scorrere di forme più sicure al fianco di inquiete
fughe in avanti compiute in nome della sperimentazione. Tempi diversi
presiedono alla vita delle forme. Crescita e distruzione corrono parallele
nell’esperienza tecnica (un processo in evoluzione continua e dialettica,
non una tranquilla pratica di mestiere). Al contrario del procedere per
imitazione, l’attenzione a un certo modo di intendere la tradizione coincide con la laica e non ideologica disponibilità a riconoscere nel mondo
delle forme compresenti diversità, variazioni, ritardi e contaminazioni.
Nel lavoro sul patrimonio consolidato della tradizione riconosciamo
quanti mostrano un avanzamento della ricerca. Coloro cioè che, pur ragionando sul passato non lo considerano repertorio congelato, cercando
di usarlo come materia viva della propria pratica costruttiva. E così facendo mostrano la strada. Tra diversi esempi che vengono in mente, possiamo prendere il caso della chiesa di Notre Dame du Raincy di Auguste
Perret. La pianta è antica/l’alzato-sezione è una sorpresa.
64
Tradizione e Maestri, dunque. Sono le forme del pensiero che accomunano gli
uomini e li fanno riconoscere tra loro nel tempo, stabilendo legami molto più
solidi di qualunque similitudine delle apparenze (Focillon, 1943). I Maestri
che compongono queste famiglie spirituali sono uniti più da un comune
atteggiamento nei confronti della vita e del mondo che non dagli esiti formali di un processo creativo. E se la trasmissione del sapere tradizionale
(ancorché continuamente rielaborato e, talvolta, tradito con giudizio) è ciò
che unisce nel corso del tempo le genealogie cui allude Focillon, la famiglia
di Maestri che a noi preme di ritrovare sembra riconoscersi nel rifiuto delle ispirazioni estemporanee così come delle mode passeggere, cercando
nell’opera d’arte più che altro il risultato di un metodo intellettuale consapevole pazientemente perseguito. Ma chi sono allora i veri allievi? L’attenzione
verso l’opera dei Maestri non è mai univoca, poiché in essa convivono
anime diverse. Vi sono da un lato i manieristi, i continuatori di modi, che
trovano senso e ragione nel lavorare sulla permanenza di contenuti già
sperimentati e nell’applicazione pratica di modelli creati da personalità
emergenti. E vi sono, d’altro lato, i veri allievi, che non saranno gli imitatori, bensì quelli che del Maestro stesso avranno saputo più in profondo
assimilare l’insegnamento, magari distaccandosene sul piano del risultato
finale. I veri discepoli si discostano nella realtà da quanti non hanno saputo
leggere il verbo, oltre la calligrafia del Maestro (Rogers, 1955).
Anticipazioni veloci e gesti antichi. In questa frase dunque troviamo il
senso di molta parte del nostro lavoro. In una forma o in un edificio possono convivere tempi differenti, anticipazioni ed esperimenti che corrono
veloci, ma anche un lento fluire di forme più certe, forse pervenute a una
fissità quasi non ulteriormente perfettibile. Questo il segreto della composizione architettonica: equilibrio dinamico derivante da una tensione sul
punto di sciogliersi. Opposizione parallela di contrasti, fondata sull'unità
dei contrari (la disarmonia è solo apparente, come potremmo apprendere
dagli alchimisti). Essere contemporanei non basta per essere moderni. E se
contemporaneo potrebbe essere solo una questione di stile, moderno non è
uno stile, non un altro nuovo stile, bensì un modo di porsi nei confronti
della realtà. Moderno è una tendenza intellettuale.
65
Henri Focillon
Arte d’occidente, 1938
Se si considera l’ornamento non come un vocabolario stabile, non come
un inerte repertorio di formule, bensì come una dialettica o come uno
sviluppo articolato le cui parti scaturiscono le une dalle altre, la dialettica
della scultura figurativa ripete, nel suo movimento e nella sua molteplicità,
la dialettica ornamentale. Tre motivi principali, il fogliame, l’asso di cuori,
con o senza una palmetta, il motivo costituito da due rametti disposti da
una parte e dall’altra di un asse generano numerose variazioni ornamentali
la cui forma e i rapporti reciproci si ritrovano nelle forme e nei rapporti
di un gran numero di temi figurativi della scultura romanica.
Henri Focillon
La vita delle forme, 1943
Le forme nello spirito
La memoria mette a disposizione d’ognuno di noi un ricco repertorio. E,
come il sogno ad occhi aperti genera le opere dei visionari, così l’educazione della memoria elabora in certi artisti una forma intima che non è né
l’immagine propriamente detta, né il mero ricordo, e che permette loro di
sfuggire al dispotismo dell’oggetto. Ma questo ricordo così formato ha già
proprietà sue particolari: vi ha lavorato una specie di memoria invertita,
fatta di dimenticanze deliberate. Dimenticanze deliberate a quali fini e con
quali misure? Noi entriamo in un dominio diverso da quello della memoria
e dell’immaginazione. Presentiamo che la vita delle forme nello spirito
non è ricalcata sulla vita delle immagini e dei ricordi. [...]
Arte repentina delle immagini, che ha tutta l’inconsistenza della libertà;
arte insidiosa dei ricordi, che disegna con lentezza delle fughe sul tempo.
La forma esige di abbandonare questo dominio: la sua esteriorità, noi
l’abbiam visto, è il suo principio interno, e la sua vita in ispirito è una preparazione della vita nello spazio. Prima ancora di separarsi dal pensiero e
di entrare nell’estensione, nella materia e nella tecnica, essa è estensione,
materia e tecnica. Non è mai indifferente. Come ogni materia ha la sua
vocazione formale, ogni forma ha la sua vocazione materiale, già abbozzata nella vita interiore. Essa vi è ancora impura, cioè a dire instabile, e, fino
a che non è nata, cioè fatta esteriore, non cessa di muoversi, nell’assai
stretto reticolo dei pentimenti tra i quali oscillano le sue esperienze. [...]
Come il musicista non sente dentro di sé il disegno della sua musica, un
66
Henri Focillon
rapporto di numeri, ma sente dei timbri, degli strumenti, un’orchestra,
così il pittore non vede in sé l’astrazione del suo quadro, ma vede dei toni,
un modellato, un tocco. La mano, nel suo spirito, lavora. Nell’astratto essa
crea il concreto e, nell’imponderabile, il peso.
Constatiamo anche una volta la differenza profonda che separa la vita
delle forme e la vita delle idee. L’una e l’altra hanno un punto in comune,
che le distingue ambedue dalla vita delle immagini e dalla vita dei ricordi:
hanno cioè la qualità di organizzarsi per l’azione, di combinare un certo
ordine di rapporti. Ma è chiaro che, se esiste una tecnica delle idee, e se
pure è impossibile separare le idee dalla loro tecnica, questa non si misura che con se stessa ed il suo rapporto col mondo esterno è ancora
un’idea. L’idea dell’artista è forma, e la sua vita affettiva prende la medesima piega. [...]
E se dovremo cercare legami e rapporti tra tutti loro [artisti], vedremo
che essi, nel corso delle stesse vite, non sono tanto determinati dalle
circostanze, quanto da affinità di spirito in relazione alle forme. Dicendo
che a un certo ordine di forme corrisponde un certo ordine di spiriti,
siamo necessariamente condotti alla nozione di famiglie spirituali, o piuttosto di famiglie formali. Non basta dire che esistono gli intellettuali, i
sensibili, gli immaginativi, i melanconici, i violenti; e sarebbe pericoloso
per noi il cercar di configurare queste nature e questi caratteri dal di dentro. Bisogna partire dai fenomeni nello spazio. Non contano dunque essi,
quando si tratta di definire e di raggruppare gli altri uomini? Ma le tracce
dell’azione comune sono presto scancellate, e fin dal principio molto
commiste. Inoltre, ogni atto è gesto, ed ogni gesto scrittura. Questi gesti,
queste scritture hanno per noi un valore primordiale e, se è vero, come
ha mostrato il James, che ogni gesto ha sulla vita dello spirito un’influenza, che non è se non quella d’ogni forma, il mondo creato dall’artista
agisce su di lui, ed agisce sugli altri. La genesi crea il dio. Una concezione
statica e macchinale della tecnica, che escludesse le metamorfosi, ci porterebbe a confondere scuola e famiglia: ma nella stessa scuola, all’insegnamento della stessa disciplina, v’è una differenza di vocazione formale,
forme inedite o rinnovate lavorano faticosamente su se stesse, l’azione
tende a nascere e a svilupparsi. Allora vediamo gli uomini della medesima
tempra riconoscersi e chiamarsi, e l’amicizia umana può intervenire in
queste relazioni e favorirle; ma il gioco delle affinità recettive e delle
affinità elettive nel mondo delle forme si esercita in una regione diversa
da quella della simpatia, che può esserle indifferente, propizia o avversa.
Queste affinità non hanno per cornice e per limite il momento. Si sviluppano con ampiezza nel tempo. Ogni uomo è in primo luogo contemporaHenri Focillon
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neo di se stesso e della sua generazione, ma è anche contemporaneo del
gruppo spirituale di cui fa parte. Più ancora l’artista; perché quegli avi e
quegli amici gli sono, non ricordo, ma presenza. Essi stanno ritti davanti a
lui, più che mai vivi. Così, in particolare, si spiega la funzione dei musei nel
secolo XIX: hanno aiutato le famiglie spirituali a definirsi e a legarsi, oltre
i tempi, oltre i luoghi. Anche nel tempo e nel paese dove le testimonianze
e gli esempi sono dispersi, anche quando lo stato degli stili impone una
fermezza canonica, anche negli ambienti sociali di più rigorose esigenze, la
varietà delle famiglie spirituali si esercita con forza. E l’epoca che si distoglie più violentemente dal passato è costruita da uomini che hanno avuto
antenati. Tempi ed ambienti, che non sono quelli della storia, si insediano
nella storia stessa; e vediamo che vi si propagano razze, che non son quelle dell’antropologia. Esse possono avere o non avere coscienza di sé; ma
esistono. Per essere, non hanno bisogno di conoscersi. Tra maestri che
non hanno mai avuto tra loro il minimo legame e che tutto separa: natura, distanza, secoli, la vita delle forme stabilisce stretti rapporti. Nuova
restrizione della dottrina delle influenze: non soltanto esse non sono mai
passive, ma non c’è bisogno di invocarle ad ogni costo per spiegare delle
parentele ad esse anteriori e indipendenti da ogni contratto. Lo studio di
queste famiglie come tali ci è indispensabile.
Joze Ple∏nik
da una lettera di Plecnik del 3 agosto 1925 all’ing. Anton Suhaldolc sulla chiesa
di San Francesco a Lubiana Siska
Le colonne di mattoni già costruite dai greci, dai romani, nell’epoca romanica, le costruivano persino in pieno rinascimento, le costruiva Palladio e
in seguito durante tutto il barocco. Se è impossibile farle belle si dovrebbe
farle grezze e poi intonacarle: naturalmente rimangono le misure dei
diametri: avverto però che intonacarle costerebbe molto, molto! Penso
sempre che nel costruire si risparmia nel posto sbagliato: io farei semplicemente gli stampi in lamiera, diciamo al minimo tre o meglio cinque o sei
stampi per una colonna, e li collocherei dal pavimento sino alla sommità
come una specie di emballage, che va riempito dopo con i mattoni. L’unico
lavoro del muratore sarebbe: lavorare in orizzontale – verticalmente si
dirigerebbe da solo!
68
Henri Focillon
Joze Ple∏nik
Ernesto Nathan Rogers
Gli elementi del fenomeno architettonico, 1961
Invenzione e memoria
Approfondiamo, da un altro punto di vista, il nesso, sempre reperibile, tra
la creazione di nuovi fenomeni e l’osservazione dei fenomeni esistenti
(invenzione e rilievo): l’interpretazione della storia, fatta dall’artista,
caratterizza la sua interpretazione del periodo in cui egli vive e si manifesta nell’opera d’arte.
Sia che si muovano nel tempo, sia che si muovano nello spazio, gli artisti
si trovano al centro di un sistema di influenze: il tempo passato si colora
secondo la gamma dello spirito dell’artista e il presente non può non sentirne l’effetto. In misura più modesta e più direttamente controllabile, è
sempre visibile l’influenza dei viaggi, sia in chi li compie, sia in chi viene visitato. Non si potrebbe capire Palladio senza i suoi studi sulla romanità né
astraendolo dall’influenza diretta dei luoghi (e delle persone) conosciuti.
L’elemento memoria è dunque inerente alla costituzione dell’attività artistica, nel soggetto e nell’oggetto.
Il maestro dell’uso attivo della memoria è Marcel Proust (Il tempo ritrovato,
Torino 1952, pag. 333). «Ora la ricostruzione della memoria di impressioni
che avrei dovuto in seguito approfondire, illuminare, trasformare in equivalenti intellettuali, non era forse una delle condizioni, quasi l’essenza
stessa dell’opera d’arte, così come l’avevo concepita...?».
L’operazione creativa viene influenzata da due azioni della memoria, o
meglio nel rapporto dialettico di due tensioni opposte: la prima azione si
rivolge al passato, trae alimento cosciente o subcosciente dalle esperienze
già consumate per crearne di nuove. È il senso dei ricordi ancestrali (anche senza considerare gli argomenti della psicanalisi) della conservazione,
del ripensamento; la rielaborazione per cui le cose già fatte continuano in
noi, determinano una tradizione, cioè si portano avanti tramite nostro,
s’inverano nell’oggi, gli danno stabilità con fondamenta più ampie di quel
che avrebbero se nascessero solo da noi. La memoria conferisce alle cose
dello spazio la misura del tempo: di tutto quel tempo che è prima di noi.
Ma è il tempo di coloro che ci hanno preceduti e in gran parte è il tempo
dei morti, riuniti in consorzio per ammonirci di essere vivi, come essi
sono stati nel loro momento.
Ammonire e ricordare (moneo e memini) hanno la stessa radice semantica
e da essa acquista valore la parola monumento ed il concetto simbolico che
essa racchiude. Monumento, nel concetto moderno (e già lo era in parte
per il Palladio), non è soltanto la casa di Dio e del Principe, ma soprattutto
Ernesto Nathan Rogers
69
la casa dell’uomo e ogni altro organismo edificato che sintetizzi nella sua
fattura l’utilità e la bellezza, ai fini di una determinata società.
Qui è l’altra azione della memoria, non quella che si muove da noi verso
le cose, ma dalle cose a noi e oltre noi.
Un artista non è tale se non ha la memoria dell’esperienza altrui e se ad
essa non aggiunge i due significati elaborati nella contemplazione e nell’attività.
L’equilibrio dinamico
[...] La memoria è condizione dell’invenzione che si muove dalle sue
premesse; perciò la memoria è elemento necessario dell’azione artistica
ma non è in sé sufficiente al perpetuarsi del fenomeno artistico nella sua
irriducibile originalità.
L’invenzione fa scaturire i nuovi fenomeni che sono individuati dall’azione
personale: i nuovi fenomeni sono concepiti da un atto d’amore che, come
ogni altro atto d’amore, si fonda sulla responsabilità della persona la quale
lo determina.
S’illude tanto chi crede che la cultura, basata sulla conoscenza dei dati,
basti a garantire la creazione, quanto colui che pensa di poterne fare a
meno: la difficoltà sta proprio nel costituire l’equilibrio dinamico tra queste tendenze antinomiche, così che il risultato (la sintesi) sia sempre
l’affermazione d’un presente aperto verso indicazioni future e non una
critica, per quanto attiva, del passato né, peggio, soltanto la verifica del
passato.
L’opera presente serve da tramite tra il passato e il futuro; non è un
momento di sosta ma il punto obbligato di passaggio della storia dall’ieri
verso il domani. La garanzia della validità di un’opera odierna è proprio
nell’obbligare la storia a passare per le nuove invenzioni, in modo che non
si potrà mai più fare a meno di esse quando si considereranno i fatti degli
uomini per trasformarli nella loro ineluttabile evoluzione. [...]
processo dell’esperienza: invece di affermarne l’influenza, la si nega
violentemente. La novità sta soprattutto nel cambiare il punto di vista dal
quale si considerano i dati e nel porsi là dove si possono scoprire orizzonti inesplorati, in un punto, cioè, che abbraccia visioni proprie alle
originali condizioni storiche in cui si è indotti ad operare. Da questo
punto si dipartiranno tutte le linee della nuova visione, secondo una
coerente prospettiva.
Questa capacità di porsi in un punto d’osservazione imprevisto non è
soltanto caratteristico delle epoche di nuove emergenze, ma anche di
uomini particolarmente dotati che si distaccano dal modo di vedere dei
loro contemporanei. Si può dire che genio è proprio un uomo dotato
della facoltà di svelare, con le sue forze individuali, segreti preclusi all’intendimento degli altri uomini. Non è questione di intelligenza più acuta
ma di più vibratile percezione.
Jacques Le Goff
Enciclopedia Einaudi, 1977–1984, Voce ‹Documento/Monumento›
La memoria collettiva e la sua forma scientifica, la storia, si applicano a due
tipi di materiali: i documenti e i monumenti.
L’intuizione rivoluzionaria
La proporzione tra memoria e invenzione può variare da momento a
momento, da artista a artista, da opera a opera d’un medesimo artista. Vi
sono fenomeni in cui la memoria ha un peso maggiore e altri dove è assai
più in sottordine. I momenti rivoluzionari sembrano privi di memoria
perché tutte le energie sono rivolte (strategicamente) verso il domani: in
verità si tratta solo di una sospensione della memoria, la quale serve essenzialmente per rovesciarne le naturali conseguenze: la novità non è
nell’aver dimenticato il passato, ma nel farne un uso opposto al normale
70
Ernesto Nathan Rogers
Ernesto Nathan Rogers
Jacques Le Goff
71
Costruzione, ricostruzione
Edifici o progetti come il Palazzo Orsini costruito sopra il Teatro di
Marcello, oppure il duomo di Siracusa dove la cattedrale fu costruita nella
cella del precedente tempio dorico, oppure ancora il duomo di Siena, la
cui navata attuale sarebbe dovuta divenire il transetto del progettato
Duomo Nuovo, tutti dimostrano il ricorso a un concetto di costruire non
lontano da quello di ricostruire, tutti invitano a considerare serenamente i
traumi o le vicende che nei secoli hanno modificato gli edifici.
Quale spazio per il progetto nel misurarsi con l'antico, quale rapporto tra
il vecchio e il nuovo, quale continuità, quale distanza? Questi interrogativi
vorrebbero poter andare oltre la secca e pretestuosa divaricazione tra
restauro e progetto, all'interno della quale sembra invischiato e confuso il
dibattito architettonico contemporaneo. Da un lato troviamo i sostenitori
della più totale imbalsamazione attuata mediante il restauro conservativo
puro e semplice, e dall'altro incontriamo i profeti disarmati di quel disordinato e scomposto liberi tutti che paiono ridurre il problema del progetto
all'esercizio delle più svariate e fantasiose forme di intasamento funzionale (l’apoteosi del momento è nel ground zero cui vengono ridotte le aree
dismesse). È ancora possibile pensare a una seconda vita per gli antichi
edifici? Come si usano gli antichi edifici per costruirne di nuovi? Ed è
possibile contrastare col progetto l’attuale tendenza all’imbalsamazione
delle antiche costruzioni fatta passare per loro conservazione? In ogni
progetto c'è un processo obbligato di accumulazione che di volta in volta
il nostro lavoro scompone e ricompone. È come se l'architettura potesse
lavorare sempre e solo sullo stesso materiale (e questo materiale è l'architettura stessa).
Per secoli i nuovi edifici si sono costruiti sulle rovine e sulle fondazioni di
precedenti opere, di queste utilizzando in vario modo i materiali: ora per
spoliatio, reimpiegando capovolte trabeazioni e lapidi epigrafate a platea di
muri bizantini o romanici (come avviene per lo Sveti Donat di Zara), ora
invece ridando senso a precisi elementi architettonici entro nuovi organismi che ne mutano anche il segno: il grande portale scolpito che intro-
73
duce alla cappella di Sant'Aquilino nel San Lorenzo di Milano raffigura
giochi e corse di cavallo e proviene forse dal vicino circo trasformato in
cava. Non ci attira il romanticismo di queste rovine, ma la loro capacità di
acquistare un ruolo simbolico che viene disinvoltamente ripreso nella città successiva. Fisicamente sono dei muri cui ci si attacca, delle fondazioni
a disposizione sotto le quali il terreno è già compatto e sicuro. Un modo
particolare di volgersi alla città antica, quel modo di leggere l'esperienza
della città romana forse attraverso Piranesi architetto e non Piranesi rovinista.
Questo tipo di attenzione verso l'antico (e, con le debite differenze, comunque verso l'esistente) non può ridursi al solo reperimento nello stato
di fatto di una regola da ripetersi senza modifiche. Pur riconoscendo
l'autorità di vecchie fondazioni e di allineamenti certi, si tratta di un atto
di trasformazione non neutrale, non di semplice prosecuzione già magari
tutta scritta dentro lo stato di fatto. Restauro creativo l’avevamo definito
nella felice stagione che consentì di raccogliere in un Dizionario dei termini
utili quella cosmogonia di piccoli sistemi planetari (associazioni di idee,
opposizioni, omologie, contrasti) costruita su questioni attuali per il
mestiere dell’architetto (Dizionario, 1993). L'atteggiamento nei confronti
di antiche o vecchie costruzioni interessa qui quando riesce a porre le
questioni della loro trasformazione attuale, della restituzione all'uso con
forme e tipi disponibili alla continuazione della vita al loro interno, del
loro nuovo esser presi dentro la realtà e rimessi in circolo. Per alcuni
limitati e straordinari casi si dovrebbe persino valutare la possibilità di una
pura e semplice liberazione dall’uso.
La costruzione-ricostruzione dello scenafronte del teatro romano operata
a Sagunto da Giorgio Grassi è sicuramente un'interpretazione tendenziosa del teatro romano in generale considerato come tipo e di quel teatro in
modo particolare, ma proprio per questo è avanzamento rispetto alla
rovina, versione dei fatti possibile oggi, una nuova figura diversa e inaspettata, non tutta prevista rispetto al destino tecnico dell'edificio. C'è un
progetto di architettura che non c'era nell'aggiustamento rovinistico
effettuato sui resti del teatro nel corso dell'Ottocento. È come se il
progetto compisse il gesto di mettere in cornice cose di cui si è perso il
contorno, ritornando a un ordine che però non può più in alcun modo
essere quello del teatro originario (Grassi 1988, 1996). E se quell’opera,
sul finire del Novecento, ha marcato con un segno netto e preciso il rapporto tra vecchio e nuovo risarcendo tanta sospensione della memoria
operata dal Moderno, almeno tra gli architetti e tra quanti hanno a cuore
74
il patrimonio storico dell’architettura dovrebbe suscitare civile indignazione la violenta polemica portata avanti contro il progetto di Grassi da
zelanti custodi di rovine imbalsamate.
Gli architetti, ricostruendo edifici perduti, scomparsi o anche solo incompleti, si misurano con un aspetto del tutto particolare del rapporto tra
vecchio e nuovo. L'interesse per la composizione oltre il rilievo preciso
delle rovine, distingue le ambizioni archeologiche di Haller von Hallerstein dallo Schinkel attento alla costruzione. Il primo misura con ossessione i resti del tempio greco o le tracce della cavea, il secondo, pur consapevole e ammirato rispetto all'antica regola, ricostruisce a Berlino una
trasfigurazione dell’amatissima Italia (invano, forse, inseguendo il demone
di quella luce meridiana dalle ombre nette che aveva conosciuto in Sicilia).
Fondamentale è qui il rispecchiamento tra un determinato mondo di
forme e il programma culturale che in quel mondo si riconosce. Il continuo scambio che sul piano letterario Ladislao Mittner ha saputo individuare tra l’Ellade germanizzata e la Germania ellenizzata sembra qui traslare verso occidente lungo le rive del Mediterraneo e trovare compimento nei Reisetagebücher e negli schizzi dei due viaggi in Italia di
Schinkel (1803–1805, 1824).
E se da un lato l’antichità rimisurata, rilevata e ricostruita dalle passeggiate
dei teatri romani fino alla Villa di Plinio o alle terme diviene materiale da
costruzione trasmigrato verso nord nei quaderni di viaggio di Friedrich
Weinbrenner, Carl von Fischer, Leo von Klenze, la presenza fisica della
rovina condiziona inevitabilmente il lavoro degli architetti. Nel caso delle
città venete, ma non solo, è nota quella straordinaria capacità dell’antico
di fecondare il mondo delle forme a distanza di secoli. Contaminati, trasformati, ampliati, misurati e ricostruiti ovvero ri-utilizzati in una seconda
vita, i resti classici (meglio con Riegl e Bettini diremmo tardoclassici e deuterobizantini) delle città altoadriatiche di origine romana sono il materiale
su cui la città si costruisce nei secoli successivi. Giovanbattista da Sangallo,
Giovanni Caroto, Giulio Romano, Sebastiano Serlio misurano, quotano,
rilevano, trasfigurano le antichità romane venete e di Verona in particolare, le riversano nei loro progetti, conferiscono loro una seconda vita a
fianco o altrove. Le opere di Michele Sanmicheli e di Andrea Palladio sono
impensabili senza quella lunga continuità e quella misura fisica diretta con
le opere classiche e tardo classiche che caratterizzano l'intera area altoadriatica. La presenza dell’antico produce progetto. I loro lavori sono anche
progetti altri rispetto a quei modelli, sono anche una reinvenzione dell'antichità, una ricostruzione possibile di quel grande programma di trasfor-
75
mazioni territoriali e urbane realizzato nei modi e nella maniera delle
contaminazioni che contraddistinguono le costruzioni di confine (Porta
Leoni e Porta Borsari a Verona, Porta Gemina a Pola).
Dentro questo stesso mondo sono le mura che Plečnik ricostruisce su una
labile traccia di ruderi a Lubiana. Il rapporto tra progetto e antichi edifici
è qui anche occasione per l'innesto e la contaminazione tra un linguaggio
arcaico e il parlar aulico. Ansia di sprovincializzazione rispetto alla cadenza del vernacolo, ma al contempo invenzione delle origini. Il progetto cresce
costantemente sulla base di quella memoria invertita dell'artista (cfr. Memoria, tradizione, metamorfosi) falsificata, ricostruita su un plausibile segno
precedente, ma inesorabilmente più avanti di questo. Non ripetizione, ma
forse metamorfosi per fusione in altro stampo del medesimo materiale. Le
mura della mitica Emona, ma ancor più le pietre del palazzo di Auersperg
incluse nel muro della Biblioteca conferiscono autorevolezza e ritrovano
radici, ma vengono al contempo riversate in un nuovo progetto, diventano qualcosa d'altro rispetto alla loro precedente vita. Nel caso di Lubiana
il rapporto con l’antico è ristabilito mediante una serie di correzioni e aggiustamenti continui, tuttavia rispettosi di quei tempi successivi della città
sedimentati per leggeri scostamenti. La memoria di fatti urbani, o anche
solo di tracce che rischiano di andare perdute, è chiamata a legittimare il
presente con quell'autorevolezza che siamo soliti riconoscere alle cose già
state ed esperimentate. Il progetto è una sorta di alta manutenzione che
non disdegna i segni minimali.
Nel caso di Giuseppe De Finetti a Milano, il tema del rapporto con le
origini e la grande tradizione urbana classica è quello loosiano del risarcimento, attraverso il progetto, della memoria ferita o perduta della città.
Ancora da quel trattato per la costruzione di una città (corpus eccezionale
e per lungo tempo inedito) che è il vero progetto di città e di architettura
alternative proposto dal De Finetti per la ricostruzione di Milano, impariamo per quale via una città possa ambire a ritrovare l’alveo maestro della
sua tradizione senza negarsi alla modernità (De Finetti, 1969). La tragedia
della guerra è qui considerata come straordinaria occasione di riforma
urbana.
Esistono nell’esperienza della città luoghi e figure imprescindibili a cui la
memoria del progetto ritorna tutte le volte che gli architetti sono chiamati
a ridare senso e definizione a siti paesaggi giaciture o topografie che nel
tempo hanno perso il rapporto con la città precedente. Persa per sempre
quell’immagine capace di tutto comprendere che rispecchiava un ordine
razionale e analitico, sciolti quei vincoli e quelle figure che rimandavano a
una compattezza e a una continuità non più transitabile, la nostra capacità
76
di ri-leggere i fenomeni urbani e di ordinarli attraverso il progetto è
costretta a sopravvivere per frammenti. Per frammenti di piani, di architetture, di idee, vive la città contemporanea (Ferlenga, 1990). Per frammenti
possiamo ancora evocare compiti spesso dimenticati per questo mestiere,
il cui destino non può che essere quello di continuare a costruire la città
e il paesaggio, ritrovandone col progetto la memoria, per quanto trasfigurata
possa essere.
77
Aldo Rossi
L’architettura della città, 1966
Gli elementi primari e l’area
E l’analisi del concreto [della] struttura [della città] non può che essere
condotta sui singoli fatti urbani. Sarà utile avanzare qui due esempi relativi
a queste questioni tolti dalla storia dell’urbanistica; o costituenti il tentativo di una comprensione verificabile in sede storica dei fatti urbani.
Le città romane o gallo-romane dell’occidente crescono mediante la
continua tensione di questi elementi. Questa tensione è ancora oggi
riscontrabile nella loro forma. Quando alla fine della pax romana le città
delimitano le mura esse coprono una superficie inferiore a quella della
città romana. In questa definizione delle mura sono abbandonati dei monumenti, delle zone spesso popolose; la città si rinchiude nel suo nucleo.
A Nimes l’anfiteatro è trasformato in fortezza dai Visigoti e racchiude una
piccola città di 2000 abitanti; vi si accede da quattro porte corrispondenti
ai punti cardinali; all’interno si trovano due chiese. In un secondo tempo
intorno a questo monumento comincerà di nuovo a crescere la città. Lo
stesso fenomeno succede per la città di Arles. La vicenda di queste città è
straordinaria; essa ci induce anche ad alcune considerazioni sulla dimensione e dimostra che la qualità di alcuni fatti è più forte della loro dimensione. L’anfiteatro ha una forma precisa e inequivocabile è anche la sua
funzione; esso non è pensato come un contenitore indifferente, al contrario è estremamente precisato nelle sue strutture, nella sua architettura,
nella sua forma. Ma una vicenda esterna, uno dei momenti più drammatici della storia dell’umanità, ne capovolge la funzione, un teatro diventa
una città. Questo teatro-città è altresì una fortezza; racchiude e difende
tutta la città. In altri casi una città si sviluppa tra le mura di un castello che
ne costituiscono il limite preciso e anche il paesaggio; così a Vila Viçosa in
Portogallo. La presenza dell’opera, con il suo significato e con la sua
architettura, che è il modo reale con cui l’opera viene definita, è il segno
delle trasformazioni. Perché solo la presenza di una forma chiusa e stabilita permette la continuità e il prodursi di azioni e di forme successive.
Così la forma, l’architettura dei fatti urbani, emerge nella dinamica della
città. In questo senso ho parlato delle città romane, della forma rimasta
della città romana; prendete l’acquedotto romano di Segovia che attraversa la città come un fatto geografico, i teatri e il ponte di Merida in Estramadura, il Pantheon, il Foro Romano. Questi esempi che qui vediamo dal
punto di vista dei fatti urbani possono condurre a numerose considerazioni nel campo della tipologia. Gli elementi della città romana di trasfor78
Aldo Rossi
mano, cambiano la loro funzione. Un altro esempio eccezionale è costituito dal progetto di Sisto V per la trasformazione del Colosseo in una
filanda di lana; anche qui si tratta di questa straordinaria forma dell’anfiteatro. Al pianterreno erano sistemati i laboratori e nei piani superiori le
abitazioni degli operai; il Colosseo sarebbe diventato un grande quartiere
operaio e una fabbrica razionale.
Aldo Rossi
I caratteri urbani delle città venete, 1970
Dalla romanità delle città (escludendo Brescia che pure appartiene alla X
regione) è fortissima non solo la presenza dei monumenti spesso insigni
come opere d’architettura, ma il disegno planimetrico.
Verona (con Pavia, Aosta, Torino) è un esempio noto dell’azione della
pianta romana ma mentre in una città come Pavia alla presenza straordinaria della pianta e degli isolati romani non si accompagna la presenza del
monumento, Verona possiede in forma eccezionale anche rispetto a Roma
la regolare continuità della pianta e degli isolati unita alle grandi infrastrutture monumentali romani (anfiteatro, teatro, porte) che ci permettono di costruire le leggi genetiche della città d’occidente. La stessa trasformazione e uso della natura diventa caratteristica individuale di Verona
dove, come nel teatro, vi è quasi un ripetersi della condizione dell’architettura presa nel rapporto con il paesaggio, condizione che per l’architettura romana si può cogliere solo in Provenza e che costituirà una nota
tipica della città veneta. [...] In questo carattere di legame con la natura in
senso classico vi è la base, come immagine figurativa preminente,
dell’unione delle architetture veronesi con il paesaggio. Come le torri e i
ponti scaligeri sul Mincio e nella campagne veronesi, i volumi staccati del
medioevo e la compenetrazione dei diversi momenti architettonici con la
sua antica struttura romana. La trasformazione subita a Verona dagli elementi romani sarà una componente fondamentale della morfologia della
città veneta.
Essa investe nel territorio un’importanza di primo ordine, poiché costituisce il sistema della campagna scaligera: sistema che è nella sua formazione di carattere militare – nel senso che costituisce delle strutture
fisiche la cui funzione è originariamente militare – e che diventa elemento
di costruzione e definizione del paesaggio.
Aldo Rossi
79
Giorgio G rassi
Giuseppe De Finetti
Forma liberata, non cercata, 1983
La città, corpo vivente, 1937
Quando guardiamo le architetture del passato, le buone architetture, e le
vediamo così stabilite, necessarie, affermative prima di tutto, allora riconosciamo che il loro segreto sta proprio nell’incondizionata adesione alla
regola dell’architettura e nella loro totale sottomissione. E così, ricorrendo all’autorità degli esempi, riconosciamo che le buone architetture sono
sempre dei gesti di fedeltà e di ammirazione per quanto li ha preceduti e
resi possibili, riconosciamo che le buone architetture sono sempre qualcosa che va ad aggiungersi a un corpus interamente condiviso, il mondo
ordinato e reso accessibile delle forma dell’architettura. E ciò che unisce
esperienze diverse e lontane fra loro nel tempo è proprio questa fedeltà
e questo confronto che sempre si rinnova. Qual è altrimenti il senso dello
studio dell’antichità in architettura, il senso di tante appassionate ispezioni
e dei rilievi? Come spiegare tanta dedizione e tanta volontà costruttiva
unite insieme? Qual è il senso delle tante prove compiute, delle ricostruzioni reali e fantastiche e poi degli ampliamenti, dei completamenti di tanti
antichi edifici? Il senso di quegli esempi in cui il nuovo è inseparabile dal
vecchio, in cui il nuovo è tanto debitore al vecchio da essere impensabile
altrimenti? Come spiegare palazzo Orsini, il tempo Malatestiano il palazzo
ducale di Gubbio o la basilica di Vicenza? Come spiegare altrimenti la
storia di quei grandi complessi cresciuti nel tempo, come appunto la reggia di Mantova? Come spiegare in altro modo la storia stessa delle nostre
antiche città?
Il volto della città è inciso, aumentato da vicende così complesse e da
forze così continue, che non saprei trovare tra le opere umane cosa più
mutevole e che vien fatto di assomigliarlo al delta dei grandi fiumi, dove le
correnti intaccano, cancellano e riplasmano le sponde secondo una viva
trama, dal disegno vagante ed effimero.
Per talune città la vita procede lenta e uguale per secoli, grazie a un
bilancio che gli uomini riescono a raggiungere opponendo misurati e avari
atti di manutenzione all’inesorabile azione di deperimento e d’usura
compiuta dalla pioggia, dal vento e dall’attrito costante della vita. Per
talune città alla nascita segue immediato uno sviluppo tanto pieno e
possente da far gridare al miracolo; per altre a una vivace formazione
iniziale succede rapida la decadenza; per altre ancora si ha alternanza di
fasi di sviluppo, con lunghe soste e con vivaci riprese.
Milano medievale, distrutta dal fuoco del Barbarossa nel 1162, ricostruisce
il suo corpo là dove già erano state la città gallica e la città romana e
incontra così la sua quarta primavera. Milano spagnola si cinge tra il 1549
e il 1560 di un nuovo più ampio bastione e inizia un periodo di vita durato
per trecent’anni senza mutamenti del suo circuito, nei quali si ebbe solo
una variazione della direttrice dello sviluppo interno, giacché per due
secoli circa predominò il raggio della Porta Romana, con la metà del
Settecento divenne primeggiante il raggio della Porta Venezia.
80
Giorgio G rassi
Giuseppe De Finetti
81
Faccia, facciata
In una disciplina che non intenda essere empirica, ma che cerchi di riflettere sul continuo scambio/rispecchiamento nell’esperienza di una teoria, i
nomi e i ruoli degli attori sono importanti. A seconda dei termini che
usiamo per identificare le parti di un organismo architettonico attribuiamo gerarchie e conferiamo un ordine alle cose, che è del resto il compito
prioritario della composizione. Vi è chi ritiene tutto ciò pedante esercizio
accademico. Al contrario, cercare di leggere ri-leggere più nitidamente le
cose abitua anche a lavorare sul confine di concetti sempre meno netti e
labili. La ricerca dell’appropriatezza in architettura consente di aprire scenari e mondi, non di cristallizzarli. Talvolta consente di alludere a una voluta
ambiguità. Il significato di termini (e concetti) varierà sulla scena urbana a
seconda del registro su cui sapremo collocarli e far loro reggere la parte.
Faremo avanzare o arretrare i personaggi, ne enfatizzeremo alcuni più deboli, cercheremo di tenerne sotto tono altri magari troppo vincenti. Anche i comprimari faranno la loro parte.
Senza grandi distinzioni oggi chiamiamo facciata il lato dominante del
perimetro dell'edificio, oppure il verso su cui è posto l'ingresso principale. I termini prospetto e alzato pongono i diversi lati della costruzione il più
possibile su un piano di equivalenza. Usando simili termini dichiariamo un
interesse per la serie, il dato tecnico, non l'eccezione o l'emergenza di un
personaggio. Parliamo invece di lato verso strada o verso corte quando la
strada o la corte partecipano in modo decisivo e determinante alla composizione dell'edificio in quel punto. Quando usiamo le nozioni di fronte
o di vista sottintendiamo che l’edificio è inserito in un sistema di altri
edifici (una cortina, una sequenza), oppure che in relazione a un intorno
ci interessa definire il suo aspetto (intorno non equivale a contesto).
Oppure vogliamo significare che il suo carattere è fortemente influenzato
dagli elementi ambientali che lo circondano.
Ma quando parliamo di facciata, anche a proposito di un edificio molto
semplice, intendiamo sottolineare un insieme di elementi particolari. La
facciata dovrebbe essere il punto verso cui tendono tutti i movimenti e si
raggruppano tutte le tensioni dell'edificio, il punto in cui dovrebbe pren83
der forma e corpo il carattere della costruzione. La facciata annuncia e
contemporaneamente conclude l'edificio. La facciata riassume il significato
dell'intero edificio, oscillando tra un valore simbolico e uno narrativo,
oscillando, a seconda dei casi e della sensibilità, tra retorica, eloquenza o
descrizione. Oppure ancora dichiarando aperta rinuncia, che è un particolare modo di esplicitare la retorica, mettendosi in mostra con un parallelo tirarsi indietro (anche l’omissione è capace di straordinarie figure).
Facciata come luogo ove carattere dell’edificio e figure hanno la possibilità
di mostrarsi. L'aspetto primo, e per così dire la fronte o faccia di qualsivoglia
fabbrica, o sia tempio, o sia palazzo, o l'altro; ed è quella che in esse fa l'ufizio che fa il viso tra le molte membra del corpo. Facciata, ancora, come messa
in opera del carattere. Parliamo di facciata e approfondiamo i diversi gradi
di autonomia o di dipendenza che si stabiliscono tra l'interno e l'esterno
dell'edificio. Sul limite sorgono figure che mostrano contrasto tra questi
due mondi oppure figure che, al contrario, cercano l'unità tra costruzione
e rappresentazione. Maschera o estrinsecazione programmatica dell’interno, la difficoltà della facciata è nell’essere figura sul limite. Talvolta pura
scena dalla materia quasi tessile, priva di un retrostante organismo architettonico.
Vi è chi ha cercato di ricostruire per la facciata una sorta di punto di inizio. Né il recinto con le sue evoluzioni (il tempio arcaico, spazio di cella
filtrato dalle colonne), né la potenza dei muri romani hanno la necessità
della facciata. Questo concetto è casomai legato a un'idea di percezione
prospettica del reale che consente al contempo di misurare lo spazio, di
valutare l'architettura in base al suo poter essere anche vista, colta da
vicino o da sotto, oppure rivelata da lontano (Fernsichtigkeit) quale seconda natura che opera a fini civili. In una affascinante analisi sull’architettura
dei palazzi romanici e sulle loro origini classiche (Swoboda, 1919) la prima
definizione della facciata propriamente detta è collocata in un momento
particolare dello sviluppo dell'architettura romana. Contaminata dalla ricerca per l’ingentilimento e dall'eleganza ellenistica, toccata da una maniera grafica bidimensionale di origine orientale, l'architettura tardoromana comincia ad alleggerirsi. La sua usuale forza basata sull'accostamento e
sull'incastro di volumi assoluti, il suo tradizionale solido spessore murario, vengono smaterializzati e perforati da trasparenti e più gentili loggiati, facciate aeree e luminose che consentono di cogliere nella profondità il
gioco dei piani sotto la luce. Seguendo l'evoluzione di facciate sempre più
leggere, ritrovate negli affreschi di Pompei, nei mosaici di Ravenna o nei
pochi resti sopravvissuti di alcune ville di provincia, potremmo cogliere la
nascita della facciata come indissolubilmente legata a quelle figure destina84
te a produrre illusione e a suscitare effetti sullo spettatore; quel mondo di
forme e di effetti del quale furono maestri i bizantini nel trasformare
litanie spaziali in ingannevoli prospettive, la cui percezione è a sua volta
raccorciata dai catini dorati delle absidi. Una precisa scelta della città tardoclassica fu del resto quella di creare facciate illusorie o scenografie in
punti significativi della città. Quasi un’ambizione barocca di formare scene urbane mediante septizoni, facciate di biblioteche, castelli d'acqua. La
facciata è in questo caso il luogo dell'illusione.
E se l’uso del termine prospetto fa pensare a un atto meccanico di trasposizione sul piano verticale di un tracciato o di una pianta, la facciata si rapporta all’espressione degli stati d'animo, tipica del viso. Paul Schmitthenner
parla della facciata e del carattere. La casa dal volto serio, la casa con gli
occhi profondi, la casa dalla fredda noblesse, la casa ben coperta e senza
tetto, la casa dal volto cordiale. Non necessariamente la facciata dice il
vero, come una maschera dice e non dice, ovvero dice il falso, oppure
ancora lascia intendere solo una mezza verità.
E in quei casi in cui il Moderno impone all’esterno l’astrazione intellettuale
della tabula rasa, vivono ridotte all’interno della casa le figure della decorazione e i suoi modi, la retorica e l'eloquenza (Loos), la sequenza narrativa (Josef Frank). L’interno resta luogo lecito per il disvelamento di decorazioni, considerate altrimenti indecenti fuori. È il percorso della lingua
salvata attraverso facciate mostrate nel luogo della scena, il luogo della
finzione assoluta. È il gesto di mettere in cornice la memoria delle facciate
in costruzioni particolari, come la tomba o il monumento. Nel primo caso pensiamo per esempio alla sala principale del teatro Carlo Felice di
Genova (Aldo Rossi, Ignazio Gardella). Le facciate colorate alla maniera
ligure circondano la sala e rimandano alle origini del teatro che fu corte
coperta e spettacolo di strada. Altrove, come nel caso del monumento
funebre, Aldo Rossi trasforma i rilievi sempre amati delle antiche facciate
di porte urbiche romane in modelli di legno che sembrano dichiarare
l'impossibilità oggi di parlare un linguaggio codificato se non in alcuni casi
particolari, salvati e sacralizzati. La tomba appunto, oppure la facciata di
una chiesa. Luoghi particolari, sacri e simbolici, perciò messi su un piedistallo e sottratti alla lingua corrente, così come alla banalità della vita
quotidiana.
Facciate senza pianta: se sono impensabili prospetti senza una pianta,
frontespizi senza un retro che dia le ragioni della posizione o della dimensione delle aperture, potremmo fare molti esempi di facciate senza
pianta. Facciata è una linea, una pelle, una tenda dipinta oppure è una
parete più spessa, una scultura profonda come sulla rupe di Petra in Gior85
dania. Se dovessimo definire quella proprietà esclusiva della facciata che ci
consente di distinguerla dal semplice prospetto o dal frontespizio di una
casa, dovremmo parlare della autonomia della facciata, della sua capacità
di parlare un linguaggio che può essere indipendente dal retrostante
corpo di fabbrica. Vi sono epoche in cui, in modo molto semplice e immediato, la facciata rappresenta la struttura interna del corpo edilizio,
mettendo in scena la sezione, variamente elaborandola con diversi gradi di
astrazione o di enfatizzazione del contenuto tettonico. La basilica romanica mostra in facciata l'articolazione e le gerarchie della navate: è il diagramma della sezione disegnato sul paramento frontale che chiude la
navata. In questo modo si cerca di ridurre la capacità illusoria della facciata
soprattutto in momenti in cui l'architettura predica la coincidenza tra
verità/costruzione e rappresentazione, condannando l'arte della finzione
che è uno dei modi principali secondo cui l'arte del costruire si estrinseca
(dell’artista il fin è la meraviglia). La battaglia per la cosiddetta sincerità costruttiva contro il decorativismo e l'uso improprio del catalogo degli stili,
spinse per reazione simmetrica e opposta molti architetti a esasperare la
rappresentazione in facciata della struttura. Il telaio e la sezione, resi astratti e simbolici. In alcuni casi, come avviene per Pietro Lingeri, Giuseppe
Terragni, Cesare Cattaneo la facciata è l'elaborazione della figura della
sezione, quasi una esibizione dell'elemento tecnico-strutturale della costruzione (non lontano dal romanico comacino che tutti loro avevano
negli occhi). L'elemento tecnico viene nobilitato e trasformato in elemento figurativo ed estetico. La trasformazione della pura tecnica in elemento
simbolico e in linguaggio poetico diviene a sua volta una sofisticata messa
in scena.
In altri casi, al contrario, la facciata vuole dimostrare il proprio valore del
tutto autonomo e staccato dal resto della costruzione. Nella storia dell'architettura questo processo avviene per gradi. Pur riprendendo l'andamento obliquo del tetto che copre le navate laterali, la facciata del duomo
di Como è una lastra di marmo che porta incastonati i santi, intelaiati da
lesene che hanno perso ogni funzione strutturale. Qui la facciata è un
monumento autonomo, una occidentale iconostasi. A Orvieto la facciata
del duomo è un organismo architettonico di forte spessore, un tappeto
molto profondo sospeso tra quattro torricelle. Con Leon Battista Alberti
la facciata diviene composizione ab-soluta. Ancora bidimensionale a Santa
Maria Novella eppure già nella nuova lingua del Rinascimento, è a Rimini
nel tempio malatestiano spazio totalmente autonomo, trascrizione nella
profondità dell'ornamento classico, memoria dell'architettura antica e
nuova invenzione al tempo stesso.
86
La facciata può allora essere il luogo in cui l'architettura recupera la sua
memoria, può essere una elaborazione letteraria. In alcuni casi messaggio
simbolico in chiave che solo gli iniziati sono in grado di decifrare (Badia
Fiesolana). Per lungo tempo la facciata fu il luogo dove si disponevano gli
ordini che consentivano di capire il carattere dell'edificio. Ogni volta una
variazione sul tema entro un ambito limitato di soluzioni. In epoche
recenti la facciata diviene, in taluni casi, l'ultimo luogo dove è lecito esprimere una lingua, oppure rappresentare il mito dell'architettura. Oggi, del
resto, con tutt’altro intento e nostro malgrado, la facciata è il luogo
persino degli schermi giganti. La facciata è comunicazione, rappresentazione in movimento, situazione virtuale che cambia a ogni istante e che
può raccontarci in tempo reale che cosa sta accadendo all'interno di un
teatro, di un museo, di un centro culturale, oppure dall'altra parte del
mondo.
La totale separazione della facciata dall'organismo retrostante è arrivata a
un tale punto da far quasi pensare che oggi ci siano solo facciate. Molti
progetti contemporanei fanno sorgere il sospetto di essere un continuo
esercizio sul tema, una continua variazione sulla facciata. All'opposto,
alcuni pensano che la facciata sia un tema impossibile, una strada non più
praticabile, oppure qualcosa di cui si può fare a meno. Viene da pensare
alla Scuola Grande della Misericordia di Francesco Sansovino a Venezia: da
almeno cinque secoli è in attesa di una pelle che ne completi il non finito
apparecchio murario. Come in questo grande edificio veneziano, per alcuni architetti contemporanei la facciata è un tema continuamente rimandato, risolto sempre con un artificio. La facciata dovrebbe essere il punto
in cui la forma si conclude, il punto di arrivo e di quiete (Grassi, 1988).
Tra questi due estremi solo facciata e la facciata omessa, c'è un vasto spazio
oscillante tra retorica, eloquenza e persino didascalicità, nel quale troviamo facciate che cercano ancora di mostrarci il carattere dell'edificio, il suo
stato d'animo, di riportare un qualche ordine e una riconoscibilità tra i
mille frammenti di una teoria non più transitabile.
La facciata moderna, che si illudeva di essersi liberata dalla (presunta)
schiavitù di un ordine accademico è ridivenuta accademica rappresentazione del casuale a tutti i costi. Estetica del finto spontaneo. Toccherà
ancora una volta tornare a Loos, pensando a quelle sue facciate disposte
come attori sulla scena urbana? Michaelerplatz. Le colonne e il più sofisticato dei marmi sono posti al contatto con la città e con la strada, lo zoccolo come in Fischer von Erlach è importante, il partito molto regolare e
intonacato ai piani superiori, a coronamento, al posto giusto cioè, le
cornici e i particolari che comunque ci ricordano che l'architettura è un
87
fatto civile e collettivo (anche la più privata delle case è un fenomeno che
riguarda tutti). Loos crede ancora a una possibile ricomposizione dell'architettura, cerca di salvare un mondo prima che esso vada definitivamente perduto. Ordiniamo gerarchie nel comporre facciate, cercando una
corrispondenza tra il carattere dell'edificio e i suoi volti. Finestre uniche
irripetibili e, al loro fianco, ordini minori di aperture raggruppate in nuclei
che a loro volta individuano centri secondari di simmetria oppure criteri
di rigorosa serialità, come nella villa per Alexander Moissi progettata da
Loos al Lido di Venezia (Tanto migliore la simmetria quanto più riusciamo
a dissimulare il suo asse, Tessenow). A ogni gerarchia ecco corrispondere
un'idea di abitare, un modo di savoir vivre, alle figure eccezionali e grandiose corrispondono gli spazi signorili della casa, agli elementi seriali e più
dimessi corrispondono gli spazi di servizio e i momenti più tranquilli
dell'abitare. Ciò che interessa qui notare è che, per esempio nel caso di
Loos, c'è sempre un dialogo tra gli elementi di queste facciate, una ricerca
di equilibrio che non è mai raggiungimento di uno stato di quiete.
La stessa tecnica del fuoridentro, del bassorilievo e del chiaroscuro, l'attenzione al complesso gioco tra le parti avanzate o arretrate rispetto al filo
della facciata enfatizza l'analogia con il volto e autorizza il pensiero che le
case di Loos risultino essere proprio come dei personaggi. Come un vestito su misura rispetto ai loro illuminati committenti. C'è anche chi ha
parlato a proposito di queste facciate di una precisa volontà fisiognomica.
E prima di Loos, i padiglioni ottomani del sultano di Top-Kapi, Theodor
Fischer ecc. È forse vero che l'elemento fisiognomico non è un'intenzione
creativa consapevole, ma penetra nell'architettura indirettamente. Andrebbe approfondito per esempio se la sola somiglianza di molti edifici col
volto umano conferisca loro automaticamente valore fisiognomico. Oppure se
non siano piuttosto i mezzi impiegati, come ad esempio la simmetria, a produrre questo effetto (Spalt, 1991). Loos e Frank sono in questo forse i
protagonisti di un altro Moderno, meno ideologico delle avanguardie, più
attento a un particolare pensiero dell'architettura che ha sempre cercato
di esprimere anche il carattere delle costruzioni. Viene da pensare a
Boullée oppure a Claude Nicolas Ledoux o, per certi aspetti, agli enigmi
ancora irrisolti di Lequeu. La ricerca di Frank è nella direzione di dare un
aspetto sensibile della casa. La facciata severa verso strada a difendere
dagli estranei, al contrario, verso il giardino, il volto sorridente e aperto
delle portefinestre che accolgono il visitatore (Frank, Haus Scholl, 1913–
14). La facciata gioca un ruolo determinante in questa operazione, anche
se essa non agisce da sola ma in stretto collegamento con la disposizione
narrativa dei diversi elementi che compongono lo spazio: l’interno come
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strada e piazza, la scala, i punti di passaggio tra uno spazio e l'altro, i luoghi per la quiete intorno al camino oppure quelli destinati al movimento
ecc. Le simmetrie disturbate di Frank, le sue figure ordinate in sequenze
successive di spazi, sono apparentemente casuali e spontanee, ma in realtà controllatissime sul piano della composizione e degli effetti che si vogliono raggiungere.
Sul finire del Novecento la facciata di casa Miggiano a Otranto, di Umberto Riva, sembra riuscire a comprendere tutte le questioni: la facciata
classica e il suo disturbo, la regola e l'eccezione, la simmetria e il suo
tradimento, lo zoccolo a corsi orizzontali che ricorda la pietra con l'intonaco, la disposizione modernista delle finestre poste dove servono e al
contempo una proporzione distante dalla fenêtre en longueur, un’instabilità di fondo che tuttavia, in questo caso, sembra ancora tenuta insieme da
fili sottili.
Già abbiamo visto a proposito dell’ornamento e della decorazione come
esista un sistema visibile dell’architettura cui è sempre più demandata
l’estrinsecazione del carattere, imponendolo al sistema della costruzione.
La facciata è sicuramente uno dei luoghi in cui è possibile mostrare questo rapporto inquieto e, nei casi migliori, temporaneamente risolto con
equilibri dinamici. Ciò che alla fine conta per l’architettura è il risultato. La
logica e la razionalità del percorso progettuale non sono di per sé garanzia
di bellezza e armonia della costruzione. La non più transitabilità del percorso di certezza, che in passato per l’architettura è stato garantito da
regole, ordini, numeri d’oro e algoritmi tesi alla perfezione, ha spostato
l’attenzione sulla molteplicità del reale, su uno stato delle cose e su
responsabilità individuali che mettono in primo piano la funzione rappresentativa e comunicativa dell’edificio. Le stesse questioni di più di un secolo
fa, complicate se possibile dalla inafferrabilità di immagini virtuali, non
fissabili, veloci (troppo) da consumarsi.
89
Josef Frank
Facciata e interieur, 1928
Tutto ciò che è uniforme ha patos; la nostra architettura moderna, che in
grande misura tende nuovamente a una unitarietà, per dare finalmente una
meritata conclusione alla sterile confusione di forme edilizie individualiste, per questo motivo è necessariamente patetica. Come forma di propaganda ha un grande valore, ma non appartiene in alcun modo alle intenzioni originali; purtroppo causa ed effetto vengono spesso confusi,
cosicché viene perseguito il patos fine a se stesso. A questa categoria
appartengono anche i numerosi tentativi di pura arte formale, di impiegare
una massima tipizzazione oppure addirittura la sua imitazione anche in
casi in cui questa non è necessaria e nemmeno utile.
Il patos nella vita quotidiana è insopportabile e per questo bisogna fare
tutto quanto possibile per neutralizzare questo effetto una volta ottenuto. A questo scopo non è necessario fare sforzi violenti per creare variazioni con raggruppamenti, colori, tetti e ornamenti, ma questo deve succedere in maniera completamente organica mediante gli accessori casualmente aggiunti come affissioni, manifesti, illuminazioni e altro. Questi
rendono anche la più semplice strada commerciale così variegata, che in
tutto questo le pareti della nostra casa non possono offrire altro che un
placido sfondo per la vita. La facciata della casa urbana ha perso per noi
qualsiasi altro significato. Oppure questa attenuazione viene realizzata
mediante i giardini antistanti che con la loro rapida variazione eliminano
ogni monotonia. I vincoli che determinano la facciata e l’interieur sono
completamente differenti e non hanno nulla a che spartire gli uni con gli
altri. All’interno della casa cade ogni necessità di uniformità con il vicino.
Anche la crescente tipizzazione non potrà fare nulla contro di ciò, poiché
ci saranno sempre un numero sufficiente di tipi con cui è possibile formulare le più diverse combinazioni. L’esterno e l’interno della casa come tutt’uno inscindibile è un’immagine che appartiene al passato. Oggi siamo
arrivati al punto che non vogliamo costringerci, sulla base di nebulose
teorie estetiche e morali, a limitarci nel nostro stile di vita attuale e futuro,
e le nostre opinioni cambiano come si sa molto in fretta. – Per questo non
credo sia assolutamente una contraddizione se la casa è arredata quasi
completamente con mobili vecchi. Non si tratta nemmeno di un arredamento vecchio stile, che sarebbe altrettanto poco moderno quanto il
moderno, ma una giustapposizione casuale di pezzi singoli, con i quali gli
abitanti hanno creato nel corso degli anni una relazione intima, e che
quindi sono per loro preziosi. L’obiettivo, il primato ambito da un arreda90
Josef Frank
mento non consiste nell’essere il più possibile ricco o il più possibile
semplice, ma il più possibile piacevole; uno scopo che sta al centro e che
per questo è difficile da comprendere per chi non ha naturalità nel sentire.
L’aspirazione agli estremi denota insicurezza, poiché in questo caso il
sentire deve essere sostituito da un principio, e attaccarsi a questo principio è un segno di debolezza. – La macchina domestica è sempre stata
tipizzata in tutti i tempi. Il XIX secolo ha fatto solo l’errore di utilizzare
questi tipi nel modo sbagliato, e di utilizzare per la vita quotidiana quanto
era previsto per i casi eccezionali. La nostra battaglia quindi non è contro
le forme, ma contro un modo di pensare, o meglio contro la sua assenza,
poiché gli uomini riconoscono più facilmente gli accessori che non
l’essenziale. – Gli arredi più piacevoli sono da sempre quelli che l’abitante
stesso nel corso degli anni ha messo insieme e che non lasciano trasparire
alcuna intenzionalità. Niente è più sgradevole di un arredamento che
subito elogia come un manifesto le buone qualità dell’abitante. Per questo
la cosa più importante è l’educazione del pubblico a un modo garbato di
guardare le cose, però questo deve accadere contemporaneamente in tutti
i campi per giungere al risultato desiderato.
Adolf Loos
Architettura, 1909
L’architettura suscita nell’uomo degli stati d’animo. Il compito dell’architetto è dunque di precisare lo stato d’animo. La stanza deve apparire
accogliente, la casa abitabile. Il Palazzo di Giustizia deve apparire al vizio
segreto come un gesto di minaccia. La sede della banca deve dire: qui il
tuo denaro è custodito saldamente e con oculatezza da gente onesta.
All’architetto questo riesce soltanto se si collega a quegli edifici che finora
hanno suscitato nell’uomo questo stato d’animo. Presso i Cinesi il colore
del lutto è il bianco, per noi è il nero. I nostri architetti non riuscirebbero
quindi a suscitare con il nero uno stato d’animo gioioso.
Josef Frank
Adolf Loos
91
Giorgio Grassi
Camillo Sitte
Architettura, lingua morta, 1988
L’arte di costruire le città, 1909
Una tipica questione sempre rimandata, cioè mai risolta. La facciata di un
edificio è una faccenda importante. È per definizione il punto in cui convergono tutti i movimenti, tutte le tensioni ecc. della forma finita, il punto
conclusivo, il punto d’arrivo e il punto di quiete, il punto in cui a volte è
demandato anche il compito di riassumere il carattere della costruzione:
la facciata principale si dice. Ed è proprio per tutte queste ragioni che io
non sono mai in condizione di affrontarla come tale. Nei miei progetti
avviene infatti esattamente il contrario. Il progetto fa vedere l’esigenza di
un punto conclusivo, il bisogno della facciata, ne produce anche l’aspettativa, proprio anche tecnicamente: il progetto sembra quasi rimandare ogni
volta oltre l’angolo, letteralmente, il problema; ma non lo affronta mai
come tale. E poiché un edificio comunque presenta un suo lato gerarchicamente più importante, questo lato viene sempre risolto con un artificio
(i miei lavori ne offrono un’ampia gamma). Un artificio che comunque
mostra sempre con evidenza l’imbarazzo, il disagio di fronte al principale
problema. Tanto che nei miei progetti il fronte quasi sempre viene affrontato espressivamente con quello che è considerato il suo esatto contrario,
cioè con il frontespizio. E così la facciata viene risolta con la parte più
secondaria, la parte più casuale del perimetro, la parte meno architettonica, cioè con il fronte cieco dell’edificio. Gli esempi non mancano: basta
pensare al progetto di Trieste dove il fronte principale è costituito da una
sequenza di frontespizi, o a quello di Chieti, dove praticamente non esiste
un fronte esterno. In tutti i progetti avviene più o meno lo stesso: nel
quartiere di Pianistrella a Teora, come nel grande edificio unico di Lützowplatz a Berlino. Mentre ad esempio nella chiesa di Teora spetta alla torre
del campanile, alle sue misure diverse, al suo volume chiuso che, senza
farne parte, sta in mezzo al fronte principale, di dare una risposta a questo
ineludibile problema del progetto. Ma, a ben guardare, è sempre la stessa
storia: così facendo il progetto non fa che ripetere ogni volta il medesimo
gesto, quello di rinviare il suo problema oltre i propri confini fisici, quello
cioè di rimandarlo, per così dire alla sua virtuale estensione.
Chi a sera, dopo il serio lavoro quotidiano, spinge i suoi passi attraverso
gli scavi del Foro [di Pompei], si sente irresistibilmente attirato sulla scalinata del tempio di Giove, per poter guardare ancora una volta dall’alto
dello stilobate la bellezza dell’impianto che ci investe con pienezza di
armonia, come suoni pieni e puri della musica più bella. Da tale posizione
possiamo capire anche le parole di Aristotele, che riassume tutti i principi
della costruzione della città quando afferma che una città dovrebbe essere
costruita per rendere gli uomini sicuri e allo stesso tempo felici. A tal fine
la costruzione della città non deve essere ridotta a una semplice questione
tecnica ma dovrebbe a pieno titolo appartenere alla sfera dell’arte nel
senso più proprio e più nobile del termine. [...]
Per questo non verrà qui proposto né l’atteggiamento da storico né quello
da critico, ma verranno invece analizzate città antiche e nuove esclusivamente dal punto di vista della tecnica artistica, per mettere a nudo i
motivi della composizione che producevano là armonia e fascino, qui
distrazione e noia; e tutto ciò con lo scopo di trovare se possibile una
alternativa che ci liberi dal sistema moderno di edifici simili a scatole, che
salvi possibilmente le vecchie città dalla distruzione che sempre più tocca
loro, e che infine permetta la realizzazione di opere simili a quelle degli
antichi Maestri.
92
Giorgio Grassi
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Il tetto
Il posto destinato a custodire il focolare è per Semper il primo e più
importante elemento morale dell’arte di costruire. Il tetto, insieme al recinto e al terrapieno, costituisce i tre elementi di difesa che lo proteggono
(Semper, 1851). Di fronte a un assunto così fondamentale sembra poca
cosa la disputa che pochi decenni più tardi avrebbe coinvolto il meglio
della cultura architettonica schierata col Movimento Moderno. Nell’autunno del 1927 esce il numero 7 della rivista Das Neue Frankfurt dedicato
al tetto. Tetto piatto o a falde? Gli storici hanno ricostruito con precisione
le posizioni dei sostenitori (e dei detrattori) dell’uno e dell’altro. A noi
non interessa, a partire dalla forma del tetto, distinguere il bene dal male,
riconoscere il progresso e, dall’altra parte, la conservazione, distinguere
l’architettura delle regioni da quella dell’international style. Allora saremmo forse stati costretti a schierarci per una tendenza, oppure per una
tendenza nella tendenza, come fece per esempio la rivista Quadrante.
Avremmo probabilmente scelto il Moderno e quelle consapevoli esagerazioni che impediscono di essere moderati nei momenti rivoluzionari.
Oppure avremmo forse scelto quell’altro Moderno, memore di un mito
antico dell’architettura, capace di evocare per questa disciplina compiti
ormai superati oppure ritenuti dal luogo comune accademici. Oggi che
non siamo più costretti a compiere scelte di campo categoriche, possiamo
serenamente sostenere le ragioni di un laico eclettismo nella tendenza.
Riconosciamo al Moderno la capacità rifondativa della disciplina. Siamo
tuttavia consapevoli delle rigidità dogmatiche che impedirono al Neues
Bauen di essere duraturo, legato al luogo, capace di ricordare e trasformare la memoria in pietra. Del pari però ci attira la caparbietà di quelle
retroguardie che seppero non lasciarsi affascinare dal nuovo a tutti i costi,
tenendo aperto un dialogo con la tradizione, con tempi più lenti legati alla
normalità di una vita quotidiana fatta di gesti certi e ripetuti. Già è stato
notato come sia significativo che Ernst May chiami Heinrich Tessenow a
concludere il quaderno monografico dedicato al tetto. Le posizioni sagge
e moderate paiono oggi più durature di quelle delle avanguardie categoriche, più convincenti di quelle dei reazionari arrabbiati.
95
Ma che cos’è un tetto adeguato? Dando per scontato che esso tecnologicamente assolva alla funzione di proteggere i muri e allontanare l’acqua, parliamo di un tetto che copre bene? È un tetto che completa la casa? Un
tetto che pur dando l’idea di coprire bene o di completare la casa adeguatamente, si mostra il meno possibile? Oppure fa bella mostra di sé
esagerando la propria figura a dichiarare di essere proprio un tetto? Per
Semper, come abbiamo visto, è una delle figure originarie e generatrici
della casa. Forma e figura necessaria. Per Loos il contadino/costruttore
non si chiede certo quali aggettivi accompagnino il tetto. Egli fa il tetto.
Quale tetto? Il tetto. Un’antichissima idea di spazio imparenta la tenda al
tetto. Due mondi diversi e distanti separano i nomadi fabbricatori di tende
dai popoli stanziali costruttori di terrapieni in terra, terrazzi di pietra e
piramidi, ma tutte queste genti lavorano sulla stessa figura originaria
(Semper, 1851). Il tetto dunque ha a che fare con il mito della costruzione
e con primordiali e ancestrali atti protettivi (tranquillizzanti e perciò
necessari). Nella straordinaria rappresentazione di Piero della Francesca il
manto della Madre è casa, tenda, tetto. Una e cosmo, figura che protegge.
Anche quando apparentemente non se ne coglie la presenza, il tetto esiste
(tra le sue variazioni sul tema della forma costruita Paul Schmitthenner
propone la casa ben coperta, eppure senza tetto). Con il tetto la casa è
finita. Si festeggia in alcuni paesi l’occasione con la cima di un albero.
Rileggendo l’esperienza dell’architettura nel tempo ci si accorge che la
querelle sui diversi modi di realizzare il tetto, se osservata a una maggiore
distanza, riguarda in realtà un problema fondamentale della costruzione.
Come risolvere in modo adeguato quel punto particolarmente delicato
del partito di facciata in prossimità della trabeazione? Come cioè, nei
diversi casi, l’ordine viene definito e coerentemente concluso oppure
come, in tempi recenti, sul lenzuolo teso del prospetto viene annunciata
e marcata la presenza della copertura? Anche nel caso più dimesso e semplice, come per esempio nell’unità di abitazione orizzontale di Adalberto
Libera al Tuscolano (Roma, 1950–1954), uno sporto minimo diviene al
contempo definizione dell’alzato e promessa di protezione. Ciò che resta
del tetto è un’ala leggera. Linea sensibile, appena spezzata, pronta a volar
via. Un segno discreto di grande effetto. Quella linea sottile resa importante dalla sua ombra è ancora tutta dentro la cultura classica della
costruzione. Per secoli del resto il timpano fu ciò che restava in facciata
della memoria del tetto. La messa in scena della sezione quale modo di
risolvere la facciata parrebbe non essere invenzione dei soli moderni. I
discreti timpani dei progetti di Tessenow per una casa signorile di campagna conferiscono con quasi timido gesto un valore aulico al fronte. Un
96
rimando al tetto necessario può rimanere nel paramento di mattoni perforato in figura di timpano di alcuni monumenti padani (Paolo Zermani,
Teatro di Felegara 1984).
Altrove il tetto si carica di significati tali da non poter essere discreto, in
alcuni casi diviene uno dei luoghi della decorazione. Nei templi arcaici di
Sicilia costruiti in terracotta poi dipinta di colori vivaci, piccole epitome
leonine marcano il canale di gronda convogliandone l’acqua alla maniera di
fantastici doccioni. Il tetto porta figure e simboli, ammonisce, incute paura
a chi minaccia il tempio. Spostandoci verso nord e passando per il medioevo fantastico delle cattedrali di Francia si arriva a mondi meno solari,
e perciò meno sereni, come quello delle chiese in legno norvegesi. Teste
di drago, corazze di animali e trasfigurazioni spaventose rivivono nelle
figure di squame ottenute da scandole di larice sottili. Pelle spessa e guscio
centinato sembrano imparentare l’arte del costruire alla maestria dei
carpentieri di scafi. Lo scambio tra navi e costruzione di tetti sembra poi
certo a Genova e a Venezia (Codussi). Nell’Arsenale dei Veneziani il tetto
diviene macchina, ambito degli argani e delle pulegge. Nei teatri neoclassici (Friedrich Weinbrenner, Carl von Fischer) la copertura è machinerie
scenica molto complessa destinata alla creazione di effetti e illusioni.
In altri mondi dove la città borghese ottocentesca ha programmato e
definito tutti gli spazi disponibili, lo spessore del tetto si disintegra e
diviene spazio riconquistato all’abitare (Wohnraum per Siegfried Giedion),
il luogo dei giardini pensili cinti da muri che escludono alla vista il tumulto
della metropoli. Le Corbusier parla del suo progetto per casa Beistegui
sugli Champs-Elysées (1930–1931) come di un ambito sottratto agli avidi
venditori di tegole e di lastre di ardesia. I traguardi sulla città sono isolati,
alla maniera dei surrealisti. I monumenti incorniciati divengono a loro volta sculture tra le altre che popolano la scena di questo giardino di pietra.
Il tetto ci dice poi del luogo e cioè del rapporto tra la costruzione e il sole.
Ma quelle che all’origine furono motivazioni tecniche riflesso diretto del
clima si sono col tempo trasformate anche in ragioni figurative e simboliche. Il tetto rendeva riconoscibile un luogo da un altro, oppure accomunava situazioni (i tetti di rame di Parigi che i B.B.P.R. richiamano per la
Torre Velasca a Milano, un’idea di città europea). Le contaminazioni che da
sempre arricchiscono l’architettura hanno rimescolato mondi, ma anche
rafforzato identità (a latere di tutto ciò meriterebbe, altrove, interrogarsi
sulla imperante antinomia globalizzazione o identità, sostenendo invece i
motivi che dovrebbero spingerci a pensare globalizzazione e identità). Il
tetto degli edifici è tra le impressioni che ricordiamo di alcune città o
regioni. Nelle città toscane il tetto sottile retto da mensole e con sbalzo
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esagerato. E i progetti che lavorano su questa identità precisa, come lo
sporto della Borsa Merci di Pistoia di Giovanni Michelucci. Il tetto non si
vede. È un’ombra marcata, una linea continua che frena il volume rispetto
al cielo. Per Mario Ridolfi il tetto è un capodopera artigianale di antica
origine, una parte della casa ancora sottratta alla modernità, una forma
tradizionale che viene ogni volta complicata e subordinata alle esigenze
planimetriche (queste invece sì di vulgata moderna) della costruzione. Il
tetto non è qui uno strato sottile, ma un corpo complesso, figura con uno
spessore marcato, piano inclinato incaricato di trasformarsi in comignolo,
cuspide, terminale elaborati alla maniera di una tradizione colta. C’è qualcosa di Borromini in tutto questo, come se la sua maestria si fosse radicata
contaminandosi con parlate meno auliche nei luoghi dell’architettura
minore.
Elemento terminale della facciata, la linea di gronda che annuncia il tetto
unifica le addizioni urbane conferendo loro il carattere del tessuto storico. È il modo di controllare l’architettura della città. Un filo unico che
accetta, sotto di sé, partiti differenti. A Lisbona con Pombal, nella berlinese südliche Friedrichsstadt, a Monaco con la Ludwigstrasse di Leo von
Klenze, nelle belle città cisalpine governate dalle Commissioni d’Ornato.
È ancora il grande tetto a unificare edifici disparati. A Trnovo Plečnik
raduna sotto uno stesso tetto una schiera di case disomogenee trasformandole in una architettura civile (1944). La grande aula voltata, il palazzo
della ragione, il broletto sono il luogo dove si riconosce lo spirito collettivo di una città. Figura sospesa tra città e campagna, spazio centrale solo
porticato nel tutto pieno della città gotica, ma anche luogo memore della
grande scala che misura in distanza le cascine. Ecco la tradizione lombarda
del coperto. Spazio collettivo in terra di pianura, sorretto da pilastri e
voltato da un grande tetto. Un grande tetto sotto il quale la gente forse
amerà chiacchierare, vendere, comprare, discutere, prender parte alla vita
della comunità. Grandi tetti e grandi ombre, sequenze di pilastri, toni
caldi, una certa durezza funzionale, non leziosa, ottenuta badando alla
materia, all’effetto complessivo dei corpi più che al loro dettaglio.
Tetto anche come carattere, identità: nei progetti di trasformazione dei
castelli e residenze di campagna Karl Friedrich Schinkel modifica sempre
la forma del tetto. È una questione di stile, ma questo gesto corrisponde
anche alla transizione dal carattere contadino di un’aristocrazia conservatrice a un’ambizione più colta e sprovincializzata.
E poi in sequenza tetti appena appoggiati, tetti che potrebbero non esserci, tetti del tutto indipendenti. Oppure al contrario coronamenti inseparabili, parti indispensabili al funzionamento della costruzione. Il tetto è
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uno strumento di lavoro, un grande vano per asciugare il fieno, raccogliere il grano e i cereali. In alcune zone delle Alpi è a partire dal tetto che si
distinguono due grandi tradizioni, quella romana/latina che porta solide e
profonde murature in pietra e quella più nordica/sassone legata all’uso
sapiente del legno, più deperibile, ma anche versatile, leggero, intrecciabile. Ancora il tetto scende dal culmine della casa per sorreggere i balconi in
legno che corrono davanti alla muratura intonacata. Il tetto si trasmuta in
parete verticale, perforata, tessile, un grigliato trasparente che filtra la
luce. In zone di montagna dal clima ingrato il tetto diventa sensibile. Un
corpo che reagisce al vento dominante e alla pioggia (Casa Lois Welzenbacher, Valgardena) oppure il tetto si apre verso il sole della valle, lo
sguardo diretto verso le cime più alte delle montagne (Gio Ponti, Hotel
Valmartello; Plečnik, casa fra i monti).
E tutto questo per cercare di non avere un atteggiamento ideologico nei
confronti del tetto. Prendiamo il lavoro di Ignazio Gardella, per esempio.
Nel corso della sua vita è stato protagonista delle battaglie impegnate che
la cultura architettonica italiana del secolo appena passato ha saputo
combattere per il rinnovamento. Ma è stato al contempo colui che, con
altri compagni di strada come Rogers e Samonà, si è impegnato affinché il
linguaggio del Moderno non divenisse un nuovo stile. Ecco i tetti piatti di
Gardella negli Anni Trenta, quando si trattava di affermare una posizione
dimostrativa (la rogersiana rivoluzionaria sospensione della memoria). E poi
nel dopoguerra la successione di tetti a falde con forti sporti per una
chiesa nei dintorni di Milano, i tetti leggeri appena appoggiati alle travi
delle case operaie di Alessandria, la variazione sul tema tradizionale della
copertura per una casa tra i vigneti.
Conclusione provvisoria, con poche certezze e quelle poche consapevolmente provvisorie. Nel Moderno vivono e si sviluppano altre posizioni
ricche di immagini e feconde di figure che continuano a costruire il tetto
senza pregiudizi di sorta. Ci siamo accorti della scarsa utilità nella costruzione (come nell’insegnamento dell’architettura) di posizioni categoriche
o intransigenti. Anche per il tetto, come per la facciata e per la decorazione, ciò cui dovremmo tendere è l’appropriatezza della soluzione (per anni
l’avevamo definita Zweckmäßigkeit).
Sbilanciatesi le avanguardie, dignitosamente avendo resistito la retroguardia, siamo oggi consapevoli che le ragioni del Moderno possano vivere solo
se contaminate con altre ragioni. Cioè quelle di sempre. Il luogo, il paesaggio e la memoria: da qui ricominciare a ragionare per intero su tutta
l’esperienza dell’architettura nel tempo. E, per questa via, imparare ancora.
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Adolf Loos
Ernst May
Architettura, 1909
Das Neue Frankfurt, 1927
Il contadino ha delimitato sull’erba verde il terreno su cui deve sorgere la
nuova casa e ha scavato la terra per i muri maestri. Ora compare il muratore. Se c’è nelle vicinanze un terreno argilloso, c’è anche una fornace per
i mattoni. Se non c’è, basta la pietra delle rive. E mentre il muratore
dispone mattone su mattone, pietra su pietra, il carpentiere ha preso
posto accanto a lui. Allegri risuonano i colpi d’ascia. Egli costruisce il tetto.
Che specie di tetto? Un tetto bello o brutto? Non lo sa. Il tetto.
La copertura piana
[...] Tra i numerosi problemi costruttivi specifici che vengono sollevati
oggi dalla tecnica edilizia, nessuno ha tanto agitato gli animi quanto il problema: tetto piano o tetto a falde. Nonostante il fatto che entrambi i tipi
di copertura siano stati applicati per millenni in tutte le parti del mondo e
che la soluzione della copertura piana adottata anche nei paesi nordeuropei sia nell’epoca classica che in quella successiva, senza che questo avesse
mai sollevato pubblici dibattiti, la controversia riempie oggi le pagine della
stampa quotidiana e di quella specializzata. La durezza della battaglia che
si conduce intorno alla copertura piana si può far risalire a due importanti
fattori.
Le difficoltà economiche del dopoguerra resero le industrie estremamente sensibili a ogni misura che sembrasse comportare una diminuzione
della richiesta. Non è quindi un caso che tutto il lavoro connesso alla
costruzione delle coperture si sentisse letteralmente minacciato, sul piano
della sopravvivenza, dalla diffusione del tetto piatto e che in particolare la
categoria dei mastri carpentieri, più direttamente danneggiata dall’applicazione delle coperture piane realizzate in cemento, intraprendesse una
battaglia per opporsi a un simile pericolo per il loro lavoro.
Se nel caso della copertura piana si fosse trattato soltanto di una qualsiasi
moda architettonica, le obiezioni della categoria sarebbero state giustificate. Un giudice imparziale dovrà però ammettere che una moda non
possiederà mai la forza morale e la tenacia di farsi strada, passo per passo,
contro l’ostilità più accesa se non fosse sostenuta da quella forza etica che
è sempre stata la premessa per l’affermazione di una forza espressiva
nuova e negatrice del caos stilistico che l’aveva preceduta.
L’altro motivo importante di questa ostilità sarebbe da attribuire in particolare agli intellettuali e al loro atteggiamento verso la storia. La bellezza
e l’armonia del tetto a falde nell’immagine delle città che sorsero in condizioni di vita completamente differenti dalle nostre, ha indotto costoro a
scegliere il passato come modello per il futuro. Costoro non avvertono
l’incalzare dei tempi nuovi, ignorano i cambiamenti intervenuti nelle
nostre abitudini di vita. Si battono per lo stenditoio ricavato nel tetto a
falde, che tuttavia con il tetto a terrazza si può parimenti realizzare, se
necessario, in condizioni anche migliori; mentre nei quartieri di abitazione
più grandi la lavanderia viene sempre più spesso centralizzata e si rendono
perciò sempre meno necessari il lavatoio e lo stenditoio. Essi ignorano
Le Corbusier
I cinque punti per una nuova architettura, 1926
Il tetto-giardino. Da secoli un sottotetto tradizionale ha il compito di
resistere all’inverno con il suo manto di neve, e la casa è riscaldata con
delle stufe.
Da quando c’è il riscaldamento centrale, il tetto tradizionale non è più
appropriato.
Il tetto non deve più essere in rilievo, ma incavato. Deve riversare le
acque all’interno e non più all’esterno.
Verità inconfutabile: i climi freddi impongono la soppressione del sottotetto inclinato e richiedono la costruzione di tetti-terrazza incavati, con
scolo delle acque all’interno della casa.
Il cemento armato è il nuovo mezzo che permette la realizzazione di
coperture omogenee. Il cemento armato si dilata fortemente. La dilatazione fessura la struttura nei momenti di forte ritiro. Invece di cercare di
far defluire rapidamente l’acqua piovana, bisogna cercare di mantenere
una umidità costante sul cemento della terrazza e attraverso questa una
temperatura regolare sul cemento armato. Misura particolare di protezione: sabbia ricoperta di lastre spesse di cemento, a giunti sfalsati; questi
giunti sono seminati di erba. Sabbia e radici lasciano filtrare l’acqua lentamente. I giardini-terrazza diventano opulenti: fiori, arbusti e alberi, prato.
Ragioni tecniche, ragioni di economia, ragioni di comfort e ragioni di
sensibilità ci portano ad adottare il tetto-terrazza.
100
Adolf Loos
Le Corbusier
Ernst May
101
che il lavoro logorante a cui sono oggi sottoposte le persone necessita
sempre di più di una compensazione attraverso una sistematica cura del
corpo, tanto che non si può più rinunciare a sfruttare l’aria pura e il silenzio offerto dai tetti a terrazza delle case d’affitto urbane, costringendo
invece la gente a trascorrere il proprio tempo libero nella polvere e nel
rumore delle strade. Essi si appellano alla tutela delle bellezze artistiche e
al ristabilimento dell’armonia nell’immagine della città, mentre dimenticano che nessuna forma di copertura può meglio di quella piana contrapporsi al caos dei tetti a mansarda, dei tetti a due falde, dei tetti a una falda,
dei tetti curvi, ecc. che perdippiù sono generalmente realizzati nei più
svariati colori e secondo le tecniche più disparate e hanno contribuito in
misura rilevante a peggiorare l’aspetto delle nostre città e dei nostri paesi;
essi non si rendono conto del fatto che nessuna forma più del tetto a
terrazza può diventare promotrice di una nuova unità stilistica. Dimenticano inoltre che è superato il tempo in cui la facciata prevaleva sulla
pianta, essi non percepiscono ancora l’aspirazione delle masse, che si
afferma vittoriosa nella moderna architettura di tutti i paesi, verso una
forma architettonica che non maschera più nulla, non crea forme illusorie,
ma concepisce la forma architettonica come la realizzazione della specifica
funzione edilizia.
tutta la linea significherebbe sottovalutare assurdamente il tetto a falde,
che senza dubbio da noi – particolarmente per l’edilizia a basso costo –
avrà una diffusione sempre maggiore, non foss’altro che per il fatto che
per il nostro clima è la forma basilare incontestabilmente migliore. Poiché
la nostra architettura d’avanguardia mostra di preferire il tetto piatto essa
ha anche naturalmente accaniti avversari: avviene sempre che vi siano
degli avversari quando si tentano nuove strade; e quindi ora, nel caso che
quanto detto fin qui non fosse sufficientemente chiaro, voglio ancora una
volta porre l’accento sul fatto che io non mi trovo dalla parte di questi
avversari. Amo il tetto piatto e l’ho spesso adottato nei miei progetti; ma
in questo caso come in ogni altro, invito a diffidare degli slogan, e nel caso
della nostra architettura d’avanguardia il tetto piatto è diventato incontestabilmente uno slogan.
Heinrich Tessenow
Das Neue Frankfurt, 1927
[...] Possediamo una tradizione sperimentata e antica di secoli nella
costruzione delle coperture che non solo ci consente di riconoscerne la
validità, ma anche – mi riferisco in particolare alle diverse esperienze delle
cupole e delle torri – ci spinge a misurarci con il tetto come elemento
dell’architettura, tanto che sarebbe assolutamente ingiustificabile che noi
– più o meno improvvisamente – rinunciassimo del tutto, o anche soltanto
in gran parte, al tetto in vista o al tetto a falde.
Il principio del tetto a falde (con il nostro clima temperato) è altrettanto
solido e giustificato quanto il principio delle scale che usiamo normalmente, queste ultime non hanno meno valore per il fatto che oggi esistono anche delle scale mobili, degli ascensori o dei nastri trasportatori.
Il fatto che noi ci battiamo in favore del tetto piatto, che cerchiamo di
migliorarlo e in determinati casi lo scegliamo – per così dire – per il suo
carattere di negazione, dovrebbe apparire naturale a qualsiasi architetto;
ma pensare che la copertura piana dovrà vincere entro breve tempo su
102
Ernst May
Heinrich Tessenow
Heinrich Tessenow
103
Fonte delle illustrazioni
Pagina 12
Gottfried Semper: Capanna caraibica, 1863
Da: Gottfried Semper: Der Stil. Bd. 2: Keramik, Tektonik, Stereotomie,
Metallotechnik. München: Bruckmann 1863
Pagina 24
Karl Friedrich Schinkel: Bauakademie a Berlino, 1831-1836
Da: Karl Friedrich Schinkel: Sammlung architektonischer Entwürfe.
Berlin: 1858, Tav. 119 (dettaglio)
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Alexandre Cozens: Principles of Beauty relative to the Human Head.
London: 1777-1778
Stiftung Bibliothek Werner Oechslin, Einsiedeln
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Schizzo, 1985. Da: phalaris, 6 (1990)
Pagina 82
Francesco Collotti: Disegni di raffronto tra facciate
Josef Frank: Haus Scholl, Wien, 1913-1914 (in alto)
Adolf Loos: Villa a Haifa, 1931 (in basso)
Pagina 94
Francesco Collotti e Franca Ravara: Coperto
Peschiera Borromeo, 1995-2001
Pagina 48
Adolf Loos: Hotel Esplanade, Agram (Zagabria), primi schizzi, 1921
Da: Adolf Loos: Kat. Graphische Sammlung Albertina. Wien 1989
Adolf Loos-Archiv, Inv.-Nr. 0399. © Pro Litteris
Pagina 62
La palmetta, variazioni. Palmette (in alto), Lescure (in centro a sinistra), La
Charité sur Loire (in centro a destra), Milano, Sant’Ambrogio (in basso a
sinistra), Lichères (in basso a destra)
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Paris: Librairie Armand Colin 1938 (secondo Baltrusaitis)
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Elisabeth Schmitthenner (a cura di). Milano: Electa 1988
Semerani, Luciano: Passaggio a nord-est. Milano: Electa 1991
Semper, Gottfried: Die vier Elemente der Baukunst.
Braunschweig: Vieweg 185
In: Semper, Gottfried: I quattro elementi dell’architettura.
Milano: Jaca Book 1989
Semper, Gottfried: Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten,
oder Praktische Ästhetik: ein Handbuch für Techniker, Künstler und
Kunstfreunde. Bd. 1: Frankfurt a. M.: Verlag für Kunst und Wissenschaft
1860. Bd. 2: München: Bruckmann 1863
In: Nicola Squicciarino: Arte e ornamento in Gottfried Semper.
Venezia: Il Cardo editore 1994
109
Solomon, Susan G.: Louis I. Kahn’s Trenton Jewish Community Center.
New York: Princeton Architectural Press 2000
Sitte, Camillo: Der Städtebau nach seinen künstlerischen Grundsätzen.
Wien: Verlag von Karl Graeser & Kie 1909
Sitte, Camillo: L’arte di costruire le città. Milano: Jaca Book 1980
Spalt, Johannes: La fisiognomica in architettura. In: phalaris, 15 (1991)
Swoboda, Karl Maria: Römische und romanische Paläste. Eine
architekturgeschichtliche Untersuchung. Wien: Schroll 1919
I terreni della tipologia. In: Casabella, 509/510 (1985)
Tessenow, Heinrich: Hausbau und dergleichen. Berlin: Cassirer 1916.
In: Osservazioni elementari sul costruire. Giorgio Grassi (a cura di).
Traduzione di Sonia Gessner. Milano: Franco Angeli 1981
Wasmuths Lexikon der Baukunst. Berlin: 1929-1932
Wittkower, Rudolf: Architectural Principles in the Age of Humanism.
London: Academy Editions 1962.
In: Wittkower, Rudolf: Principi architettonici nell'età dell'Umanesimo.
Torino: Einaudi 1964
Zermani, Paolo: Identità dell’architettura. Roma: Officina Edizioni 1995
110
111
Francesco Collotti
Biografia
1960
1984
1985
1986-1995
1986-1994
1989-1994
1989
1990
1991
1995-2000
1993
1994
1994-1996
1995-2002
1996-1999
1998-2000
1997
1997-2002
112
nato a Milano
laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano
(Prof. Giorgio Grassi)
studio di architettura a Milano
collaboratore redazione Domus
progetto per il recupero del complesso teresiano di Maso
Spilzi in Costa di Folgaria (Tn) con destinazione a museo
etnografico
collaboratore della Fondazione Masieri in Venezia e redattore
Phalaris
progetto e realizzazione di scuola materna in Peschiera
Borromeo (Mi)
ampliamento scuola elementare e corte monumentale in
Peschiera Borromeo (Mi)
dottore di ricerca in Composizione Architettonica, Istituto
Universitario Architettura Venezia
docente Terzo Seminario Internazionale di progettazione,
Napoli Castel S. Elmo promosso da Dipartimento
Progettazione Urbana Università degli Studi di Napoli,
DOMUS, D.A.M. Frankfurt a. M.
progetto e realizzazione di piazza e coperto a Peschiera
Borromeo (Mi)
progetto di quartiere a grandi corti nel verde a Peschiera
Borromeo (Mi)
progetto di concorso per la ricostruzione dei suq di Beirut
Gastdozent presso ETH Zürich per la cattedra di teoria
dell’architettura – Institut GTA
riqualificazione ambientale e paesaggistica delle rive del lago
di Varese e realizzazione del piazzale a lago
progetto e realizzazione di due palazzine e parco urbano ex
lege 167 a Origgio (Va)
docente incaricato di Teorie della Ricerca Architettonica
Contemporanea, Dipartimento di Progettazione
dell’Architettura, Università degli Studi Firenze
comitato scientifico Rivista tecnica (CH)
progetto e realizzazione di museo della Grande Guerra nel
forte austroungarico di Belvedere (Lavarone – Tn)
comitato scientifico Archi (CH)
concorso di progettazione nuova sede I.U.A.V. a Venezia
nell’area dei magazzini frigoriferi a San Basilio
1999
progetti e realizzazioni per il recupero museale e
paesaggistico di sistema di fortezze austroungariche
in Trentino
progetto di casa sperimentale per edilizia economica e
popolare a Settimo Milanese (Mi)
2000
progetto di case a corte a Zibido San Giacomo (Mi)
studi per un albergo di montagna
2000-2001 Gastprofessur per la cattedra di Entwerfen und Städtebau,
Facoltà di Architettura, Universität Dortmund
piano esecutivo e progetto per la realizzazione della cittadella
extradoganale e artigianale di Livigno (Sondrio)
studi per la riqualificazione progettuale dei luoghi della
memoria e dei beni culturali e monumentali della Grande
Guerra, in area triveneta
progetto di concorso per Isaac Rabin Peace Forum, Tel Aviv
studi per una piccola casa mediterranea con grande
pergolato sulle colline di Lamezia
2001
Professore Associato di Composizione architettonica,
Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, Università
degli Studi di Firenze
1998
Bibliografia breve
1993
La prova di Salzburg – Clup CittàStudi, Milano
voci ‹ Ornamento› e ‹ Restauro creativo› nel Dizionario dei
termini utili all’architetto moderno – celi, Faenza
1994
DOMUS Dossier Musei – Anticipazioni veloci e gesti antichi?
– Editoriale Domus, Milano
1998
Pietro Lingeri – Flach-, Mittel-, oder Hochbau in Mailand? saggio in Milano – Architetture, Mailand – die Bauten - eth
Zürich
2001
Architekturtheoretische Notizen – Quart Verlag, Luzern
Case normali?– Hild&K, München
2002
Le colonne di San Lorenzo – Universität Dortmund,
Lehrstuhl Entwerfen und Städtebau Prof. Christoph Mäckler,
Dortmund
113
Quart Edizioni Lucerna
Parlare di architettura significa parlare di qualcosa che in fondo parla già da sé. Tuttavia, l’uomo sente il desiderio di riflettere sul suo fare, di avvicinarsi tramite pensiero
e parola al mistero delle cose.
La casa editrice Quart intende pubblicare parole, frasi e pensieri che descrivono,
analizzano e pongono delle domande. Inoltre, rappresenta con piacere edifici, architettura del paesaggio e arte con fotografie, piante e schizzi. In questo modo la casa
editrice Quart si mette al servizio di una «scienza dell'architettura e arte».
Bibliotheca – La collana «Bibliotheca» riunisce scritti sull’architettura e sull'arte.
Francesco Collotti, Milano: Appunti per una teoria dell’architettura (italiano e
tedesco)
Markus Breitschmid, Charlotte (USA): Der Baugedanke bei Friedrich Nietzsche
(tedesco)
Miroslav Šik, Zurigo: Altneue Gedanken. Texte und Gespräche 1987–2001 (tedesco)
Manfred Sack, Amburgo: Vorträge, Aufsätze, Essays 1981–2001 (tedesco)
In preparazione: Vittorio M. Lampugnani, Milano: Neuere Texte
De aedibus – La collana «De aedibus» presenta architetti contemporanei e le loro
opere.
Corpi cavi – Valentin Bearth & Andrea Deplazes, Coira (italiano, tedesco e inglese)
Vecchio-nuovo – Miroslav Šik, Zurigo (italiano, tedesco e inglese)
Abdruck Ausdruck – Max Bosshard & Christoph Luchsinger, Lucerna (tedesco)
Beat Consoni, Rorschach (tedesco)
Dieter Jüngling e Andreas Hagmann, Coira (tedesco e inglese)
Quintus Miller & Paola Maranta, Basilea (tedesco)
In preparazione: Andrea Bassi, Ginevra; Meinrad Morger & Heinrich Degelo, Basilea;
Axel Fickert e Katharina Knapkiewicz, Zurigo
Arcadia – Arcadia è la collana sull’architettura del paesaggio. I volumi trattano
questioni di crescente importanza riguardanti il paesaggio, la città, il giardino, il
parco e la natura.
Eaux, strates, horizons – Agence Ter, Parigi (tedesco e francese)
Zulauf Seippel Schweingruber, Baden (tedesco)
In preparazione: Christophe Girot, Versailles/Zurigo
Panta rhei – Questa collana di carattere teorico presenta testi impegnativi di
architetti che trattano della teoria dell’architettura, della città contemporanea e di
opere costruite.
Nicola Di Battista, Roma: Verso una architettura d'oggi (italiano, tedesco e inglese)
José Luis Mateo, Barcellona: Bauen und Denken (tedesco)
In preparazione: Hans Kollhoff, Berlino: Texte zur Architektur
Notatio – Testi più brevi sull’architettura e sull'arte.
Ignasi de Solà-Morales, Barcellona: Mediationen. Vermittlungen von Architektur und
urbaner Landschaft (tedesco e inglese)
Bart Verschaffel, Gent (B): Architektur als Geste (tedesco e inglese)
Kornel Ringli, Zurich: Über Gleiches und Ungleiches im Denken von Adolf Loos
und Friedrich Nietzsche (tedesco)
Stadtlicht. Ein Farb-Licht-Projekt für Basel (tedesco)
Edizioni individuali
14 Progetti di studenti con Valerio Olgiati 1998–2000 (in 3 lingue: tedesco, inglese,
italiano)
Anna Maria Kupper, Lucerna: Tafelbilder und Zeichnungen 1999–2001 (tedesco)
Giorgio Grassi: Ausgewählte Schriften 1970–1999 (tedesco)
Silvia Buol – Raum Zeit Tanz (tedesco)
Valentin Bearth & Andrea Deplazes, Coira: Gesamtmonografie (tedesco/inglese)
Architekturführer Luzern (tedesco/inglese)
Quart Edizioni s.r.l., Heinz Wirz
Casa editrice per architettura e arte
Rosenberghöhe 4, CH-6004 Lucerna
Telefono +41 41 420 20 82, Telefax +41 41 420 20 92
E-mail [email protected], www.quart.ch