Premio Gramsci Le Guarattelle Giuliano Scabia Speciale Australia

Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU)
rivista europea
TEATRI
70/71/72
Dicembre 2015 - Maggio 2016 € 20,00
Premio Gramsci
Le Guarattelle
Giuliano Scabia
Speciale Australia
DOSSIER:
NASI ROSSI IN ARMENIA
-Teatri delle diversità - trimestrale - anno 21- ISSN 1594-3496
delle diversità
38
7
5
BR
COPERTINA: GRAMSCI VISTO DA DIETRO LE SBARRE
Trimestrale fondato dall’Università di Urbino da Emilio Pozzi e Vito Minoia nel 1996
Direttore responsabile:
Vito Minoia
[email protected]
Art director:
Giulio Dal Pozzo
[email protected]
Comitato Scientifico:
Chiwoon Ahn - teatro, Seul (Corea del Sud)
Claudio Bernardi – teatro, Milano (Italia)
Andrea Canevaro - pedagogia, Bologna (Italia)
Elka Fediuk – arti sceniche, Veracruz (Messico)
Alejandro Finzi - letteratura, Neuqén
(Argentina) Raimondo Guarino – teatro,
Roma (Italia) Gianfranco de Bosio - teatro,
Milano (Italia) Piergiorgio Giacché - teatro,
Perugia (Italia) Maria S. Horne - teatro,
Buffalo-New York (USA) Laura Mariani
- teatro, Bologna (Italia) Claudio Mustacchi – educazione, Manno (Svizzera) Peter
Kammerer – sociologia, Urbino (Italia) Piero
Ricci - linguistica, Siena (Italia) Giuliano
Scabia – teatro, Firenze (Italia) John
Schranz - teatro, Malta (Malta) Daniele
Seragnoli - teatro, Ferrara (Italia) Gianni
Tibaldi - psicologia, Padova/OMS (Italia)
Ouriel Zohar – drammaturgia, Haifa (Israele)
Fino alla loro scomparsa anche:
Sisto Dalla Palma - teatro, Milano (Italia)
Claudio Meldolesi - teatro, Bologna (Italia)
Guido Sala - psicologia, Urbino (Italia)
Luigi Squarzina - teatro, Roma (Italia) Procedure di Referaggio
Gli articoli della rivista sono sottoposti
facoltativamente a referaggio con la
procedura del singolo cieco (single blind)
Corrispondenti:
Eleonora Firenze (Milano), Giulia Innocenti Malini (Milano), Paolo Garofalo
(Pordenone), Barbara Sinicco (Trieste),
Giuseppe Lipani (Ferrara), Adela Gjata
(Firenze), Ivana Conte (Roma-Arezzo),
Valentina Venturini (Roma), Fabio Rocco
Oliva (Napoli), Salvo Pitruzzella (Palermo), Benno Plassmann (Berlino), Marco
Consolini (Parigi), Tania Kitsu (Atene),
Monica Santoro (Mosca), Kassim Bayatly
(Baghdad), Turel Eczici (Ankara), Walter
Valeri (Boston), Djalma Patricio (San Paolo
del Brasile), Yosuke Taki (Tokio), Jiang Ruoyu (Pechino), Salvatore Minutolo
(Melbourne).
Hanno collaborato a questo numero:
David Aguzzi, Nicola Arrigoni, Sandro
Avanzo, Onelia Bardelli, Italo Bertolasi,
Eugenia Casini Ropa, Biancamaria Cereda,
Antonio Cioffi, Elisabetta Colla, Elena Co-
metti, Ivana Conte, Peppe Coppola, Gloria
De Angeli, Nicola Dentamaro, Massimo
De Pascalis, Vincenza Di Vita, Mariano
Dolci, Margherita Dotta Rosso, Claudio
Facchinelli, Sara Ferrari, Eleonora Firenze,
Martina Galletta, Arianna Galuzzi, Gaia
Germanà, Maria S. Horne, Filippa Ilardo,
Jodi Jinks, Saverio Minutolo, Giuseppe
Lipani, Alessandro Macis, Romina Mascioli, Gianni Mascìa, Giuliana Mencarini,
Massimiliano Messina, Maddalena Nanni,
Fabio Rocco Oliva, Veronica Olmi, Valeria
Ottolenghi, Giorgia Palombi, Michele
Pascarella, Graziella Perego, Loredana
Perissinotto, Roberto Rinaldi, Alessandra
Rossi Ghiglione, Ginevra Sanguigno,
Juan Pablo Santi, Monica Santoro, Marco
Sasia, Giuliano Scabia, Maria Antonietta
Selvaggio, Alice Lou Tanzanella, Francesca
Tricarico, Walter Valeri, Valentina Venturini,
Antonio Viganò, Francesca Zanini, Egle
Zapparrata, Stefania Zepponi.
Editore:
“Edizioni Nuove Catarsi”
Associazione culturale Aenigma
Sede legale: Via Giancarlo de Carlo 5,
61029 Urbino (PU) Redazione e amministrazione:
Via Peschiera 30, 61030 Cartoceto (PU) Impaginazione:
Giulio Dal Pozzo
[email protected]
Stampa:
Digital-Team, Fano (PU) Confezione:
Cooperativa sociale T41b, Pesaro (PU)
Immagine di copertina:
Opera vincitrice del Premio “Gramsci
visto da dietro le sbarre” 2016. Dipinto
di Marco Tavoletta.
La direzione lascia agi autori dei saggi,
degli articoli e delle recensioni la più
ampia libertà di opinione, della quale
rispondono personalmente Chiuso in redazione il 31 maggio 2016
Reg. Tribunale di Pesaro n° 424 del
18/10/1996 9
E-mail: [email protected]
Sito internet: www.teatridellediversita.it
CIATU
AUSTRALIA
IN PRIMO PIANO
4
6
di Claudio Facchinelli
di Vito Minoia
PANORAMA CREATIVO E POETICO
Australia
INCLUDERE E CREARE ARTE
di Saverio Minutolo
di Saverio Minutolo
Cuba
45
Teatro e Salute
SULLE TRACCE DI IPPOCRATE
NELL’ISOLA DI KOS
73
74
di Alessandra Rossi Ghiglione
Poesia
DANIELLE LEGROS
GEORGE: POETA IN CITTA’
di Elena Cometti
Eleonora Firenze conversa
con Maurizio Lupinelli
47
68
70
71
72
72
IL RUMORE DELLA VITA
6
di Italo Bertolasi
SERGEJ PARAJANOV
di Italo Bertolasi
ARMIN THEOPHIL WEGNER
E LO STERMINIO DEGLI ARMENI
di Italo Bertolasi
RUBRICHE
29
Teatro e Intercultura
ILTEATRO FA BENE
David Aguzzi conversa con Jacopo Fo
Personaggi
32
di Walter Valeri
NASI ROSSI IN ARMENIA!
47
UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL TEMPO
di Maria S. Horne
Armenia
20
23
24
Egle Zapparrata conversa
con Monica Felloni
42
Stati Uniti
15
NON LAVORIAMO SULLA MANCANZA
MA SULLA PERFEZIONE
Teatro e Disabilità 2/Castiglioncello
IL FESTIVAL DI L’AVANA
di Egle Zapparrata
UNA PROVA APERTA DI RAWCUS
PANORAMA
INTERNAZIONALE
7
10
12
RESPIRI E NON TE NE ACCORGI?
PREMIO GRAMSCI, DALLA
PITTURA AL TEATRO
Teatro e Disabilità 1/Catania
38
39
CON LELLA GANDINI,
RIFLESSIONI E SPERANZE
SUL RUOLO DELL’EDUCAZIONE
di Vito Minoia
DANIELLE LEGROS GEORGE
49
75
IN RICORDO DI EMILIO LUSSU
51
56
58
di Alessandro Macis
Il teatro di animazione
IL TEATRO DELLE
GUARATTELLE DI BRUNO LEONE
di Mariano Dolci
32
60
di Ginevra Sanguigno
64
66
Pubblicazione prodotta grazie anche al
sostegno del Ministero dei Beni e Attività
Culturali e del Turismo - Direzione Generale
dello Spettacolo e della Regione Marche.
Con le radici nel vento
di Gaia Germanà
Messaggio di Lemi Ponifasio
Teatro e Scuola
66
LELLA GANDINI
Danza
NAPOLI / BOTTEGA
TEATRALE AL RIONE SANITA’
di Peppe Coppola
84
DANZARE PER CAPIRE
LA GIORNATA MONDIALE
DELLA DANZA
di Vito Minoia
LEO BASSI, POETA PAZZO
E STRAORDINARIO
78
82
di Veronica Olmi
ALTA TEATRALITA’ AL FOF
IL DOSSIER MEMORIA
VIVENTE PER L’UNESCO
LE
86
88
91
RECENSIONI
93
95
di Claudio Facchinelli
LA DIGNITA’, L’AUTONOMIA
E LA PROSTITUZIONE DELL’ARTE
Martina Galletta conversa
con Luciano Melchionna
NCANZA
68
70
71
72
72
di Alice Lou Tanzanella
A PALERMO / ARTI VISIVE
E CONTEMPORANEITA’
di Vincenza Di Vita
KILOWATT FESTIVAL/
TRA VISIONE E VOCAZIONE
a cura di Margherita Dotta Rosso,
Biancamaria Cereda, Onelia Bardelli
di Loredana Perissinotto
STRADE MAESTRE AD ALTOPASCIO
oncello
di Graziella Perego
TRAGITTI DI TEATRI DELLA SCUOLA
di Sara Ferrari
73
74
Poesia
Teatro e Medicina
QUANDO IL PALCOSCENICO
RENDE PIU’ “DOLCE” IL DIABETE
di Massimiliano Messina
IN ITALIA E’ A CAGLIARI IL
CENTRO DI ECCELLENZA
di Roberto Rinaldi
di Stefania Zepponi
MESSINA/ SABIR IL
FESTIVAL DEL METICCIATO
di Filippa Ilardo
107
108
109
111
112
113
114
Libri
115
FILO DIRETTO
GIULIO E VALERIA: DUE GIOVANI
e Salute
di Ivana Conte
PESARO / LO SGUARDO ALTROVE
SU ALCUNE NOVITÀ
Convegni e Festival
METAMORFOSI DEL
TEATRO SOCIALE
TRENTO / CORPI IN CONFLITTO
LE RASSEGNE RA.RE.
di Claudio Facchinelli
I?
QUESTA IMMENSA NOTTE
97
99
100
102
104
105
BRUNO LEONE
Catania
LA DIVERSITA’ DI IWONA
96
51
Spettacoli
MANIFESTO PER UNA
RIVOLUZIONE DELLA SCUOLA
di Claudio Facchinelli
IL TEATRO NEL PAESAGGIO
DI SISTA BRAMINI
di Michele Pascarella
UN OPERA TROVATA
DURANTE UN TRASLOCO
di Valeria Ottolenghi
L’INFINITOPRIMADINOI
di David Aguzzi
IFIGENIA.VARIAZIONI SUL MITO
60
ONDE AFFILATE CHE SI
INFRANGONO NELLA TERRA
di Fabio Rocco Oliva
Danza
Scuola
Teatro e Comunità
78
di Maddalena Nanni
82
LA FORZA ETICA DELLA SCENA
84
La Critica
di Nicola Arrigoni
Margini & Frontiere
IL CARATTERE DETERMINA
IL NOSTRO DESTINO
di Valeria Ottolenghi
86
88
91
TESTI INEDITI
PAG
I-IV
TEATRO NELLO SPAZIO DEGLI
SCONTRI E DELLA GENTILEZZA
di Giuliano Scabia
Piccolo Pantheon
GINO SANTORO E IL SUO
GRANDE LABORATORIO DI IDEE
di Antonio Viganò
NICOLA DENTAMARO, UN
ARTISTA “SAGGIAMENTE RIBELLE”
di Francesca Zanini
DOCUMENTI DI
CATARSI 72
IL PALIO DI POMARANCE,
UN REGALO INATTESO
el vento
BIELLA, CARTOCETO E URBANIA,
BOLZANO,TORINO
Napoli e le sue Drammaturgie
75
ONE
DANZA E RINASCIMENTO
IL TEATRO DEI LUOGHI
L’EFFIMERO E L’ETERNO
CONTESTI TEATRALI UNIVERSITARI
LEO BASSI
mazione
di Monica Santoro
SEGNALAZIONI EDITORIALI
GE
di Sandro Avanzo
ARRIVEDERCI, NINA!
IL SAGGIO MALATO
di Nicola Dentamaro
ALLEGATO
CERCARE.
Carcere anagramma di
Magazine di Teatro in Carcere n° 2
EDITORIALE
TEATRO E RICERCA ALL’UNIVERSITÀ
C
on il patrocinio dell’Università di Urbino il 26 e 27
novembre 2016 si terrà a Urbania (Pesaro e Urbino) il
diciassettesimo Convegno Internazionale della Rivista
“Catarsi-Teatri delle diversità”. Per l’occasione sarà presentato
il nuovo sito in allestimento www.edizioninuovecatarsi.org al
quale si potrà fare riferimento sia per abbonarsi alla versione
digitale della nostra pubblicazione, sia per richiedere singoli
saggi da numeri arretrati.
Urbania diverrà in quei giorni sede della prima edizione del
Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere, promosso
in collaborazione con l’Associazione Casa Natale Gramsci di
Ales e l’Associazione Nazionale Critici di Teatro, continuando
a stimolare studi e riflessioni critiche sulla “scena reclusa”, in
stretta relazione con il Coordinamento Nazionale Teatro in
Carcere (si veda il numero 2 del Magazine allegato “CERCARE.
Carcere anagramma di”, interamente dedicato all’argomento).
Nel prossimo numero (il 73/74 in uscita a novembre 2016),
al quale stiamo già lavorando, ospiteremo inoltre un’ampia
documentazione dall’ XI Congresso Mondiale della International
University Theatre Association organizzato dal 5 al 9 settembre
prossimi dal Dipartimento di studi teatrali dell’Università di
Caldas (Colombia). “Theatre Research in the University” il
tema generale dell’incontro che, nell’ambito della XXXVIII
edizione del Festival di Manizales -definita “città del teatro”
latinoamericano- vedrà oltre 300 accademici confrontarsi sulle
Metodologie della Ricerca, Storia del teatro e Drammaturgia,
Pedagogia, Teoria della Scena, Messa in scena e Performance
(a pagina 15, a conferma del nostro interesse per la Storia del
Teatro Universitario, il contributo di Maria S. Horne della
Buffalo University).
Il nostro dialogo con gli Stati Uniti prosegue anche in campo
educativo inclusivo: dopo l’incontro con Howard Gardner, in
questo numero i contributi di Lella Gandini (Liaison for the
Dissemination of the Reggio Emilia Approach negli USA),
di Jodi Jinks (autrice del programma di ricerca ArtsAloud
alla Oklahoma University), di Danielle Legros George (Poeta
Laureato della città di Boston).
Si apre, inoltre, un nuovo significativo territorio di
confronto internazionale nell’ambito del disability theatre,
grazie all’appassionata corrispondenza di Saverio Minutolo
dall’Australia.
Vito Minoia
In primo piano
URBANIA
PANORAMA CREATIVO
E POETICO
Il XVI Convegno internazionale della Rivista “Catarsi-Teatri delle diversità” ha consentito di continuare a
sviluppare una riflessione sul ruolo del teatro nella trasformazione dei conflitti in modo nonviolento
di Claudio Facchinelli*
Vita, morte e resurrezione di Policinella Cetrulo al Teatro Bramante di Urbania, foto di Umberto Dolcini
L
a sedicesima edizione dell’ormai tradizionale convegno
di studi della rivista Teatri delle diversità, tenutasi, come
da qualche anno, nella fascinosa cornice della medievale
Urbania, si è svolta nell’arco di ventiquattr’ore, ma non per
questo è stata meno ricca di suggestioni, non solo artistiche e
culturali, ma anche etiche.
Una connotazione che già traspariva dal titolo del primo intervento, “Il teatro nello spazio degli scontri e della gentilezza”, dove Giuliano Scabia evocava, con poetica malizia, una
scena con burattinai e burattini: un cammello, Marco Cavallo, Bin Laden e Madonna Gentilezza, i cosiddetti grandi della terra, papa Francesco; un panorama creativo e poetico che
abbracciava la storia e le manifestazioni artistiche degli ultimi
cinquant’anni, fluttuanti su onde di gentilezza e benevolenza.
Da qui è andata poi sviluppandosi la proposta di un teatro
che, non solo consenta di leggere, nel villaggio globale, realtà
che fino a ieri ci sembravano remote, ma che sappia arrivare
fin nei luoghi della distruzione, del dolore dell’emarginazione.
4
Ne hanno discusso un cattedratico, Raimondo Guarino,
dell’università di Roma Tre, e un teatrante, Fabio Tolledi, di
“Astragali”. Ma è stato il breve, tenerissimo numero di clownerie di Ginevra Sanguigno, naso rosso, cappelluccio, calzoni a
scacchi, a comunicarci ancor meglio, con quella sua immagine
fragile, che si fa ambasciatrice del sorriso e della gentilezza,
l’efficacia lenitiva del teatro nei luoghi della sofferenza: in Cecenia, in Armenia, Ossezia, in Cambogia, in Bosnia.
Un discorso che è proseguito con le testimonianze di lavoro
di Jörg Grünert e Cam Lecce (Deposito dei Segni, di Pescara),
nelle zone più tormentate del Medio Oriente.
L’apparente paradosso, quasi una congiunzione di opposti,
della danza e del balletto che entrano nell’inferno delle carceri, o che contribuiscono a curare il morbo di Parkinson e di
Alzheimer nella terza età, è stato illustrato da Eugenia Casini
Ropa, già docente del DAMS di Bologna: spiegando come tali
strumenti, in ogni categoria sociale e fascia di età, possano favorire un rapporto più sereno e consapevole col proprio corpo.
In primo piano
Bruno Leone, foto di Umberto Dolcini
In uno spiritoso confronto col maestro burattinaio Mariano
Dolci, Bruno Leone, ultimo erede del teatro delle guarattelle,
ha raccontato le sue esperienze in Terra Santa: il suo iniziale
pudore, in quei luoghi ove quotidianamente si sparge il sangue, nel mostrare lo spregiudicato commercio che Pulcinella ha con la Morte; ma anche di un laboratorio di tre ore,
concluso con l’offerta, da parte dei bambini, di un succo di
melograno.
Il compito di una relazione sulle iniziative in atto nelle Marche è stato assolto da Silvano Sbarbati, Sandro Pascucci e, con
un’accorata riflessione sul valore che può avere il teatro fatto
dai detenuti, da Francesca Marchetti: “La società relega nelle
carceri l’emarginazione sociale: l’unico linguaggio che ci accomuna è quello teatrale”. A conclusione, l’intervento di Simone
Guerro, regista di uno dei più riusciti spettacoli sulla disabilità, Voglio la luna, con protagonista Fabio Spadoni, un ragazzo
Down: “Non mi sarei mai aspettato questo successo”, ha confessato con semplicità Fabio e, all’incredula richiesta: “Ma tu,
sei Down davvero, o fai finta?”, ha risposto con un malizioso,
spiazzante sorriso: “A volte sì, a volte no”.
Dopo una pausa rigenerante da Doddo (una zuppa di zucca
gialla che vale almeno una deviazione), nell’ottocentesco Teatro Bramante, due spettacoli esemplari della varietà nella quale
possono articolarsi i teatri delle diversità. Vita, morte e resurrezione di Policinella Cetrulo, è un esempio di guarattelle, con
un Pulcinella, inquietante archetipo del diverso, animato da
Bruno Leone; Reaction / Variazioni di linea, della compagnia
torinese Stalker Teatro, una partitura visuale di notevole rigore
e suggestione figurativa.
La mattinata successiva un video-messaggio di Jodi Jinks, docente presso la Oklahoma State University, ha illustrato con
passione la terribile situazione carceraria, definita di profonda
iniquità, del suo paese.
A seguire, chi scrive ha fatto da spalla a Remo Rostagno, pedagogista militante, nella presentazione del suo Manifesto per
una rivoluzione della scuola: un testo singolare, che alterna
rivoluzionarie proposte didattiche ad ammiccanti, poetici ricordi di vita. Da La tana, un racconto incompiuto di Kafka,
sono partiti gli allievi della scuola media della “Galilei” di Pesaro, guidati dall’attrice Romina Mascioli, con un laboratorio
che esplorava anche i non facili rapporti fra lo scrittore e suo
padre, fino a proiettarli sul loro presente. Un percorso drammaturgico che aveva messo i bambini anche in contatto con i
detenuti di Villa Fastiggi. Ciò ha introdotto gli interventi della
stessa Romina Mascioli, di Antonio Rosa, di Michalis Traitis,
di Ivana Conte, che hanno illustrato i successi e le difficoltà del
portare il teatro nelle carceri, a Pesaro, Genova, Rebibbia, la
Giudecca, Lecce, Empoli.
Quasi un’anticipazione, come esposto in chiusura da Vito Minoia, nel suo ruolo di presidene del Coordinamento Nazionale Teatro e Carcere, e da Valentina Venturini, docente presso
l’università di Roma Tre, della Rassegna nazionale “Destini
Incrociati”, che si sarebbe tenuta di lì a un paio di settimane
a Pesaro.
* Scrittore e critico teatrale
Abstract
INCLUDING AND CREATING ART
t the end of last November, a shorter, but not less interesting
annual meeting, organized by Teatro delle diversità, took place
in Urbania. It focused on the ways puppets, dance, clownery and
other unconventional sort of drama can relieve people in places affected by sufferance. Especially touching were the testimonies of
Ginevra Sanguigno, a clown recently awarded by ANCT, and Bruno
Leone, a traditional Neapolitan puppet showman. A special interest
was shown in experiences of drama in jails, in Italy and abroad,
anticipating the topic of the following meeting, “Destini incrociati”,
that would have taken place in Pesaro.
A
teatridellediversità
5
In primo piano
ALES
PREMIO GRAMSCI
DALLA PITTURA AL TEATRO
Il 27 febbraio si è tenuta la cerimonia di premiazione della seconda edizione del Premio “Gramsci visto
da dietro le sbarre” dedicato al pittore Peppinetto Boy (1932-1999). Nella stessa occasione è stato
ufficialmente presentato il nuovo “Premio internazionale Antonio Gramsci per il teatro in carcere”
promosso dalla nostra Rivista in collaborazione con l’Associazione Casa Natale Gramsci di Ales
“L
’istituzione dell’ “Anno
Gramsciano”
nasce
dalla volontà della
Regione Sardegna di celebrare
e conoscere meglio la figura
di Antonio Gramsci, come
politico, giornalista, pensatore
e intellettuale riconosciuto e
studiato a livello internazionale,
e per diffondere soprattutto tra le
giovani generazioni l’universalità,
la profondità e l’alto valore
morale ed educativo del suo
pensiero e delle sue riflessioni. La
cultura è un potente strumento di
riscatto sociale, e questo concorso
di pittura dedicato a Gramsci e
alla popolazione carceraria ci suggerisce due riflessioni: il lavoro
nelle carceri per favorire il reinserimento dei detenuti nella
società, e quanto in questo l’arte sia un veicolo potente”. Sono
le parole pronunciate per l’occasione dall’assessore regionale
alla Cultura e Pubblica Istruzione Claudia Firino che ha visto
premiati i detenuti delle carceri italiane per il concorso di
pittura, alla presenza di varie personalità della società sarda e
del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il messaggio al
centro della riflessione, quindi, “l’attenzione di Gramsci verso
una società più giusta, inclusiva e democratica”.
Nella sala convegni del Comune di Ales a partire dal 30
gennaio sono state esposte tutte le opere (questa volta sono
stati 90 gli elaborati, provenienti da 29 istituti penitenziari
differenti). La Giuria, composta dagli artisti Pinuccio Sciola,
Alberto Scalas e Massimo Spiga si è espressa con le seguenti
parole: “Considerando che i partecipanti sono sottoposti a regime
carcerario e non sono artisti professionisti e che non tutti hanno
ricevuto un’adeguata informazione e i mezzi necessari a svolgere il
lavoro richiesto per concorrere al premio, ci sembrerebbe doveroso
valutare tutte le opere in egual misura, sia per lo sforzo tecnico che
per fantasia e l’impegno profusi. Ma poiché il bando del concorso
prevede di stilare una graduatoria segnaliamo i nominativi
meritevoli dei premi: 1° Marco T. C.R. Nuchis Tempio Pausania;
2° Opera Collettiva Casa circondariale di Siena Siena; 3° Blana
D. C.C. San Vittore Milano; 4° Giuseppe B. C.C. Santa Bona
Treviso; 5° Roberto Di G, C.C. San Vittore Milano; 6° Alessandro
C. C.C. Monza; 7° Vincenzo La N. C.C. Lecce”.
Il ministro Orlando ha riconosciuto l’iniziativa come
occasione “simbolica e di grande rilievo culturale, ma anche un
investimento per rafforzare ed estendere le fondamenta della
6
cittadinanza nel nostro Paese”. E ancora: “Il pensiero e l’attività
di Gramsci ha ricevuto omaggi ovunque nel mondo, da Berlino
a New York, da Nuova Delhi a Buenos Aires. E la fortuna
che i suoi scritti incontrano oggi, in Europa e oltre Europa,
è testimone di un pensiero che ha trasceso le connotazioni di
parte, come anche la vicenda storica in cui è nato”.
E’ con lo stesso spirito che la nostra Rivista ha affiancato sin
dalla prima edizione la promozione del Premio di pittura, fino
ad ideare e presentare in collaborazione con l’Associazione
Casa Natale Gramsci il 27 febbraio, il “Premio Internazionale
Gramsci per il Teatro in Carcere” che, in collaborazione con
l’Associazione dei Critici di Teatro, ricorderà anche il lavoro
appassionato e rigoroso di critico teatrale dell’intellettuale
sardo sulle colonne dell’ “Avanti” torinese dal 1916 al 1920. Il
bando sarà presto pubblicato sul sito www.teatridellediversita.
it, con la prima cerimonia di premiazione prevista in occasione
della XVII edizione del Convegno internazionale promosso
da Catarsi-teatri delle diversità a Urbania il 26 e 27 novembre
2016.
Andrea Orlando
e Alberto Coni
Vito Minoia
E’ MORTO PINUCCIO SCIOLA
Il 13 maggio all’età di 74 anni è scomparso lo
scultore Pinuccio Sciola, noto a livello
internazionale come “l’artista delle pietre sonore”.
Sciola aveva accettato di presiedere la giuria
del Premio di pittura Gramsci visto da dietro le
sbarre. “A lui, sempre vicino agli ultimi, quella iniziativa era piaciuta ed era
poi rimasto particolarmente stupito dal grande numero delle opere in concorso,
arrivate da tutta Italia” ha riferito Alberto Coni, presidente dell’Associazione
Casa Natale Gramsci, ricordando come l’artista, persona di grande generosità,
aveva confessato l’imbarazzo suo e degli altri giurati a scegliere i lavori da
premiare, di fronte ad un impegno, fantasia e sforzo tecnico fuori dal comune.
Hun
Panorama internazionale
AUSTRALIA
Hunger, Rawcus, foto di Sarah Walker
INCLUDERE
E CREARE ARTE
Nel settore del disability theatre in Australia, l’introduzione del National Disability Act nel
2006 ha avviato un approccio artistico inclusivo che sta producendo considerevoli risultati
di Saverio Minutolo*
L
’Australia non è mai stata un paese facile in cui vivere, malgrado le
narrazioni popolari abbiano generato e continuino a generare l’idea di
un’isola felice ricca di stimoli e di benessere. Ritenere l’Australia solo terra
di pionieri ed emigranti è sempre stato
sbagliato, e a maggior ragione lo è oggi
in un mondo nel quale la tecnologia è
in grado di cambiare radicalmente la sostanza e la percezione delle culture. In
continua tensione con la propria storia
e le proprie origini coloniali, l’Australia negli ultimi decenni ha fatto passi
da gigante non solo nell’economia, ma
anche nell’arte e nella cultura. Un mul-
ticulturalismo radicato e un oculato investimento nella programmazione artistica nazionale hanno prodotto e stanno
producendo un’immagine dell’Australia
diversa da quella del passato. In realtà,
la complessa gestione delle diversità e
la mancanza di senso di comunità e di
appartenenza culturale rappresentano
teatridellediversità
7
Panorama internazionale
Small Odisseys, Rawcus, foto di Sarah Walker
ancora oggi questioni molto delicate
che, malgrado i grandi sforzi messi in
campo, continuano a tormentare chi sogna un paese più unito e conscio delle
proprie potenzialità umane e artistiche.
Il teatro non è esente da tale sogno, ne
è anzi lo specchio più fedele nel quale
il variegato pubblico australiano, soprattutto negli ultimi anni, ha iniziato
seriamente a riflettersi per avere qualche risposta. Ne è nato un dibattito
più maturo sulla propria identità che
va oltre i tradizionali campi d’indagine dello sport, dell’emigrazione e dello
spirito dell’outback. Julian Meyrick, storico del teatro e professore alla Flinders
University, scrive che “l’immagine che
[l’Australia] dà di se stessa è molto generica… Nessuno menziona la sua storia
complessa, il suo singolare sistema politico, i variegati immaginari che la sua
popolazione coltiva. Nessun altro paese
ha bisogno più dell’Australia di un tea-
8
tro nazionale, perchè nessun altro paese
più dell’Australia tende a tenere sepolta così tanto in profondità la propria
natura, sotto la superficie della propria
vita quotidiana” (Meyrick, 2015). Non
è un caso dunque che, malgrado i recenti tagli ai finanziamenti pubblici, il
teatro australiano è in una fase di grande
esplosione produttiva e creativa, in particolare nell’uso delle nuove tecnologie
e nelle sperimentazioni interdisciplinari.
Il problema resta tuttavia il suo studio
teorico e la mancanza di un’analisi critica più matura e incisiva. Per certi versi la
scena contemporanea australiana evoca
l’immagine del suo ricco sottosuolo abbondante di materie prime, ma ancora
tutte da estrarre e definire. Le specificità
storico-geografiche del paese hanno reso
possibile infatti la nascita di almeno due
generazioni di teatranti con un senso di
libertà espressiva unica nel suo genere,
malgrado la costante e prevaricante in-
fluenza artistica da oltreoceano. Esistono molte ragioni economico-culturali
che spiegano la mai interrotta importazione di prodotti artistici soprattutto da
Regno Unito e USA, eppure negli ultimi
due decenni il teatro australiano ha iniziato a tracciare una propria via alla rappresentazione scenica che non si occupa
più soltanto di identità e appartenenza,
ma anche di modelli produttivi, artistici
e formali, nel tentativo di proporre un
teatro non solo “fatto in Australia”, ma
autenticamente “australiano”.
Esistono almeno quattro altri grossi arcipelaghi teatrali che interagiscono regolarmente tra loro: un teatro mainstream
fatto di compagnie stabili e commerciali
che propongono teatro musicale, repertori classici e contemporanei; un teatro
indipendente a vocazione più o meno
politica e sperimentale (teatro off, queer,
site-specific, teatro d’avanguardia mul-
arti australiane, così come lo è la scenografa e artista disabile Gaelle Mellis che
da venticinque anni lavora professionalmente in Australia e all’estero per le
maggiori compagnie e festival teatrali, e
che ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui la prestigiosa Australia Council
Creative Australia Fellowship. “Negli ultimi trent’anni”, scrive ancora la Austin,
“c’è stato un significativo cambiamento
negli studi sociologici nel riconoscere la
disabilità, non più come un “problema
medico” inteso in termini di impedimento fisico, ma come un “modello
sociale” che separa tale invalidità dal
concetto sociale di disabilità” (Austin,
2015). In teatro si è fatto il passo successivo e si è iniziato a considerare il corpo
e il lavoro dell’artista disabile come una
diversa “strategia estetica e creativa”. A
questo proposito, la Austin cita nel suo
studio un articolo di Giles Perring nel
quale l’autore indica tre distinti approcci metodologici per mettere in atto tale
strategia estetica e creativa: Normalizzazione, vale a dire inserire l’artista disabile nelle pratiche produttive e creative
convenzionali; Post-terapia, che riguarda
un lavoro strutturato su punti fermi terapeutici applicati in situazioni creative
che esaltano l’espressività individuale e
la socializzazione; Controcultura, sfida ai
precetti estetici convenzionali, a come è
percepita la disabilità e alle rappresentazioni artistiche tradizionali del corpo
disabile come fenomeno da circo o da
baraccone. In sostanza, maggiore è la
“normalizzazione” e l’esaltazione delle
potenzialità sovversive dell’attore disabile, minore sarà la sua percezione come
corpo “estraneo” con necessità diverse
da quelle degli altri artisti della compagnia.
Eppure, malgrado questi significativi
passi avanti, anche in Australia la strada
per una vera pratica inclusiva del teatro
della disabilità nel mainstream professionale è ancora lunga. Esistono organizzazioni statali come Arts Access Victoria e
Arts Project Australia che hanno iniziato da alcuni anni a proporre e finanziare
progetti professionali accanto ai tradizionali programmi di terapia artistica e
inclusione sociale, e a perseguire come
primo obbiettivo l’eccellenza nella pratica artistica professionale. Il modello è
quello del Regno Unito che resta leader
mondiale nell’esaltare le professionalità
degli artisti disabili, nel farle emergere
e soprattutto nel promuoverle anche a
livello internazionale. Dal canto suo
l’Australia offre un interessante, quanto
unico modello di sviluppo del settore
che si innesta con la sua tradiziona-
le multiculturalità e con un’effettiva
cultura progressista in fatto di diritti
individuali a prescindere dalle differenze di genere, classe ed etnia, e dalle
appartenenze politiche o religiose. La
chiave della via australiana al teatro, e
dunque anche al teatro delle disabilità,
passa attraverso una politica di collaborazione e “democratizzazione” dei
processi creativi e produttivi, e attraverso quelle due paroline che da sempre guidano la costruzione del paese e
identificano l’approccio australiano al
lavoro e alla società: fair go, una giusta
opportunità per tutti. Anche nell’arte,
così come nella vita quotidiana. Bruce
Gladwin, Artistic Director di Back to
Back Theatre, dice a proposito del suo
gruppo: “In passato la compagnia era
vista come un’organizzazione caritatevole che faceva qualcosa di buono per
il benessere delle persone disabili. Con
il passar del tempo, è stata riconosciuta come una voce artistica credibile
capace di produrre un lavoro interessante… come un gruppo di attori che
semplicemente prova a fare della buona arte” (Gladwin, citato in Challenging perceptions: Geelong’s Back to Back
Theatre, Arts Victoria, 2014).
Panorama internazionale
timediale), un teatro indigeno di forte
contenuto identitario e ambientale; un
teatro comunitario che comprende teatro ragazzi, teatro etnico e teatro del
sociale, tra cui spicca il teatro delle disabilità. In quest’ultimo in particolare,
si è portato avanti un modello di lavoro
davvero innovativo che di recente è stato
oggetto di ricerca nel primo studio del
suo genere in Australia, Beyond Access:
the creative case for inclusive arts practice, a cura di Sarah Austin e pubblicato
nel maggio scorso da Arts Access Victoria e University of Melbourne. Lo studio si basa principalmente sul concetto
di ‘inclusive arts practice’, cioè di “una
gamma di pratiche creative e di strategie estetiche che compongono l’attività
artistica delle persone che vivono con
una disabilità” (Austin, 2015). La Austin offre un quadro aggiornato di studi
internazionali di riferimento, ma soprattutto contestualizza il caso australiano
mettendo in evidenza come “in Australia l’introduzione nel 2006 del Victorian
Disability Act ha permesso che il termine
‘inclusive’ diventasse d’uso comune nelle arti australiane, avendo la legge come
primo obbiettivo quello di dare impulso
all’inclusione e alla partecipazione delle persone con disabilità nelle attività
comunitarie (Disability Act 2006: 14).
Tale concetto ha legittimato il lavoro di
alcune compagnie di teatro miste, formate cioè da attori con e senza disabilità, che attraverso un’eccezionale pratica
di amalgama e di espressività individuale hanno gradualmente rinnovato, non
solo l’offerta del teatro australiano nel
suo complesso, ma anche le metodologie di inclusione e partecipazione delle
persone disabili nei processi artistici
professionali. Gruppi come Back to Back
Theatre a Geelong, Rawcus a Melbourne,
No Strings Attached, Restless Dance Theatre e Tutti Arts ad Adelaide hanno infatti
costantemente puntato sulla professionalità e la qualità dei loro artisti come
principio base fondamentale per una
vera “inclusione” degli artisti disabili
nella comunità delle arti in particolare,
e nella società produttiva più in generale. La Austin scrive che in Australia,
a differenza del Regno Unito e degli
USA, “esiste poco dibattito pubblico sui
processi creativi ed estetici degli artisti
disabili, a eccezione della nota compagnia Back to Back, probabilmente la più
celebre realtà australiana del settore con
una significativa storia di premi e tour
internazionali per molte delle sue produzioni” (Austin, 2015). Back to Back è
di certo un esempio di estetica teatrale
non solo per il teatro delle disabilità,
ma anche per l’intera comunità delle
* Drammaturgo e studioso di arti sceniche
Abstract
INCLUDING AND CREATING ART
n the past decades Australia has improved
not just economically, but also in its
cultural offering. The policy implemented
to represent a very diverse population
through the arts, has resulted in a national
debate about identity and accessibility
within the concept of an “authentic” Australian theatre. In the sector of “disability theatre”, the introduction of the National Disability Act in 2006 has enhanced an
inclusive artistic practice approach, that
lead to the achievement of remarkable
results. Theatre companies such as Back
to Back Theatre and Rawcus have been
able to develop their creative processes
by merging in production environments
actors with and without disabilities, all
representatives of different esthetics and
distinct creative expressions.
I
teatridellediversità
9
Panorama internazionale
UNA PROVA APERTA
DI RAWCUS
Nel luglio scorso la compagnia teatrale Rawcus, in residenza presso la Melbourne Theatre Company per la
prima fase di preparazione di un nuovo spettacolo, ha aperto le porte a osservatori dando loro la possibilità
di assistere a una prova aperta. Questo è in breve ciò a cui ho assistito
di Saverio Minutolo
I
l lavoro è in una fase embrionale senza
nessuna idea di ciò che sarà lo spettacolo. La compagnia Rawcus è composta da attori con e senza disabilità, che
oggi proveranno con un gruppo di cantanti professionisti in uno spazio scenico
vuoto. Dopo le presentazioni e gli esercizi di riscaldamento, attori e cantanti
iniziano a lavorare nella più assoluta
“orizzontalità”. Diverse abilità, disablità
ed extraabilità iniziano ad amalgamarsi. L’idea principale è creare, non tanto
un gruppo, quanto una comunità di
persone diversamente abili che prova a
esprimersi organicamente. Per la prima
prova gli attori restano fuori e i cantanti
occupano lo spazio scenico.
Questi iniziano a improvvisare vocalizzi liberi e suoni a cappella brevi o prolungati, componendo in breve un canto
che ricrea un ambiente sonoro. Il primo
cantante sceglie un suono e “provoca”
con esso un altro cantante che a sua volta fa lo stesso con un altro e cosi via, fino
ad arrivare all’ultimo della fila che integra tutti i suoni in corso in una sorta di
“melodia”. Prende forma una composizione corale molto simile a una jazz session che cresce, tocca un picco e sfuma
gradualmente. Conclusa questa prima
improvvisazione, gli attori entrano in
scena e si uniscono ai cantanti. Ora si
tratta di provare un nuovo canto con gesti e azioni fisiche. Vengono assegnate le
posizioni a formare un doppio semicerchio, un attore di fronte a un cantante. I
cantanti iniziano una seconda composizione musicale usando lo stesso metodo
della prima, mentre gli attori reagiscono
10
agli stimoli vocali e si passano a loro
volta gesti o movimenti restando fermi
sul posto. I passaggi sono lenti e aumentano gradualmente d’intensità, formando una composizione di movimenti in
relazione ai suoni. Una volta ricevuto
lo stimolo, attori e cantanti continuano a ripetere gli stessi suoni e le stesse
azioni creando una composizione fisica
e sonora che si sviluppa e acquista una
forma unica. Gesti e suoni sono eseguiti
in maniera semplice e precisa, a seconda
delle abilità e delle possibilità espressive
di ognuno. I due gruppi si amalgamano
in modo armonico. Sono ripetuti vocalizzi, suoni brevi o prolungati che si
sovrappongono al ritmo dei movimenti.
E’ come un organismo fisico-sonoro che
cresce, decresce e tiene in equilibrio costante ogni singola sua parte. Il ciclo si
compie e si esaurisce dopo un arco vitale
dalla giusta durata. Terminata la prova,
attori e cantanti si siedono in cerchio per
parlare di cosa hanno percepito durante
l’improvvisazione, quali stimoli, azioni
e reazioni sono avvenute nello spazio, e
quale possibile filo rosso possa legarli in
una struttura seppure embrionale. Terminata l’analisi, il gruppo inizia una seconda prova, questa volta con i cantanti
e gli attori disposti uno di fronte all’altro
su due file parallele. Se prima la direzione dei suoni e dei movimenti si è sviluppata lungo un doppio semicerchio fisso,
ora invece solo i cantanti restano fermi
sul posto mentre gli attori, ricevuto lo
stimolo sonoro, sono liberi di sviluppare le loro azioni nello spazio scenico.
Invece di ripetere gli stessi movimenti,
ora cercano di crearne di nuovi e diversi.
Una danza prende gradualmente forma.
Ognuno esplora una propria possibile
“narrazione” attraverso le proprie abilità
fisiche e espressive, attraverso una serie
di movimenti che appartengono soltanto a loro. Si formano diverse drammaturgie vocali e fisiche che vanno a
impostare un’unica composizione “proto-drammaturgica”. L’obbiettivo resta
quello di trovare “relazioni”, “associazioni” e “direzioni uniche”, in continua
comunicazione tra loro. Gli attori sono
fisicamente provati, a volte devono fermarsi, uscire e poi rientrare. Sono liberi
di scegliere, e allo stesso tempo fanno
parte della loro comunità danzante. Un
attore torna a ripetere il proprio nome
e chiede di iniziare di nuovo la sua serie
di movimenti. Si decide quindi di interrompere la prova e ricominciarla da
capo, con attori e cantanti di nuovo allineati uno di fronte all’altro. Un nuovo
attore appena arrivato si unisce al gruppo. I cantanti ricominciano a provocare,
gli attori ricominciano a reagire nello
spazio. La nuova composizione è più
veloce della precedente, meno timida,
stavolta gli attori eseguono movimenti
su suoni caotici e vivaci. La danza genera un’ambiente di grande dinamismo.
Si ricrea un organismo “a lavoro”, con
l’ultimo arrivato naturalmente integrato
nella dinamica dei movimenti pur non
avendo fatto parte delle improvvisazioni
precedenti. La comunità ha incluso la
sua improvvisazione individuale senza
affanno, ha assorbito la sua diversità.
Per la prova successiva, attori e cantanti ripartono mescolati in due file, libe-
Catalogue, Rawcus, foto di Sarah Walker
ri di iniziare a improvvisare quando si
sentono di farlo. Stavolta è un attore a
lanciare la prima provocazione con un
movimento, raccolta da un cantante che
innesca un altro attore, che provoca un
altro cantante. Usciti dalle file, tutti si
posizionano in ordine sparso nello spazio. Le ripetizioni si riducono e vengono
esplorate nuovi sonorità e nuovi movimenti. Si evita la tentazione di un risultato estetico, ci si attiene a una ricerca di
relazioni. Stavolta sono coinvolti anche
suoni generati da un tecnico del suono
che dall’esterno lancia nell’aria brevi
passaggi musicali ed effetti sonori. Il
risultato è coinvolgente e straordinario.
Come alla fine delle prove precedenti,
anche questa improvvisazione viene discussa e analizzata. Alcuni parlano di
cosa hanno capito e provato, altri riflettono già su un principio estetico di identità. L’identità del gruppo. Per la prova
seguente solo i cantanti tornano in scena
a eseguire i loro suoni, alternati stavolta con lunghi silenzi. Gli attori, seduti
fuori, aspettano a entrare restando fermi
al proprio posto in attesa dell’impulso
a muoversi. Ora proveranno a passare
dalla ricerca di relazioni a una comunicazione più espressiva. Al tecnico del
suono che ha ripreso a partecipare con le
sue provocazioni sonore, si aggiunge un
tecnico luci che inizia a lanciare anche
provocazioni luminose. Mentre i cantanti compongono il loro coro, gli attori
iniziano a entrare in scena.
Qualcuno ci ripensa ed esce subito, altri
provano delle azioni con un principio
di narrazione, e poi tornano fuori. Tra
continue entrate e uscite, non c’è mai un
momento nel quale gli attori si ritrovano tutti insieme nello spazio. E’ come
se ora sentissero l’esigenza di stare anche
fuori a osservare le diverse azioni e le
possibilità espressive degli altri. La loro
osservazione riafferma l’inclusione degli
altri. Anche i cantanti iniziano a uscire,
osservare, rientrare e riimprovvisare.
La comunità formatasi nello spazio scenico si ricrea anche al suo esterno, pronta a porre le basi per un possibile spettacolo di teatro. Un’amalgama di abilità,
disabilità ed extraabilità è pronta a creare arte (Melbourne, 22 luglio 2015)
Rawcus è una compagnia teatrale composta da
attori e artisti con e senza disabilità, fondata a
Melbourne nel 2001 e diretta dalla regista Kate
Sulan. Il gruppo produce spettacoli di teatrodanza e visual art dalla poetica unica e originale,
costruiti con rigore artistico e il necessario senso
d’anarchia dei suoi componenti. Il teatro di
Rawcus è una composizione di immagini in
movimento basate su principi teatrali di plasticità,
ritmo, danza e imprevedibilità. Nel corso degli
anni il gruppo ha ottenuto numerosi riconoscimenti
e ha presentato i suoi lavori in vari festival
teatrali, incluso il Melbourne International Arts
Festival. Collabora con diverse compagnie, tra
cui la Melbourne Symphony Orchestra and la
Chamber made Opera. Rawcus fa della lentezza
dei suoi processi creativi e dell’unità del suo
gruppo un tratto distintivo della propria arte,
tanto da essere definito lo slow food of the
theatre world di Melbourne. I suoi spettacoli
prendono forma attraverso un lento e graduale
lavoro di anni, svolto in costante contatto di
scambio con la comunità e il mondo artistico
locale. Non a caso, Rawcus produce anche
workshops e progetti comunitari che mirano
all’inclusività sociale e alla creazione di
collaborazioni tra artisti di varie discipline e
diverse abilità creative, come per esempio il
primo Inclusive Flashmob (2011) mai svolto in
Australia. Tra gli ultimi spettacoli di Rawcus si
segnalano Catalogue (2014), rassegna teatrale
danzata di diversi corpi e punti di vista sul mondo,
Small Odysseys (2011), collage visivo e musicale
di storie e immagini sui temi dell’intimità e
dell’isolamento nella vita di tutti i giorni, e
Another Lament (2010), spettacolo dedicato
alla vita e alla musica del compositore inglese
Henry Purcell, co-prodotto con Chamber Made
Opera di Melbourne.
Website www.rawcus.org.au
Panorama internazionale
RAWCUS
Abstract
A RAWCUS OPEN REHEARSAL
n July 2015, the theatre company Rawcus
spent one week in residency at the Melbourne Theatre Company to begin the
foundations of a new full-scale work. In
that period, Rawcus explored ideas, developed skills and offered a unique insight
into their process. They opened their
rehearsals to observers as part of the MTC
program for theatre makers. Rawcus Artistic Director Kate Sulan, the Associate
Artists Emily Barrie, Richard Vabre and
Jethro Woodward, the Rawcus Ensemble
and Voice and Dialect Coach Leith McPherson, have joined together in this residency to create a space for the unexpected to
flourish. This is a brief summary of what I
have witnessed as a privileged observ
I
teatridellediversità
11
Panorama internazionale
CUBA
PETER BROOK E LA REGIA
AL FESTIVAL DI L’AVANA
Uno sguardo sulla realtà teatrale cubana tra professionismo e arte nel sociale, tra case della cultura e
festival internazionali
di Elena Cometti *
L’avana, Cuba, foto di Marco Sasia
I
l festival internazionale di teatro di L’Avana (FTH), nasce
negli anni ‘80, ha cadenza biennale e nel 2015 è giunto alla
sua sedicesima edizione, svolgendosi come di consueto a fine
ottobre, tra il 22 e il 31, per l’esattezza.
Dopo l’edizione dedicata a Stanislavskji, nel 2013, quella del
2015 è stata intitolata a Peter Brook allo scopo di dare risalto
alla direzione scenica, all’arte della regia, nell’anno del novantesimo compleanno del regista internazionalmente riconosciuto tra i padri fondatori del teatro di ricerca, dell’indagine
antropologica a teatro.
Negli ultimi quindici anni la scena teatrale cubana, molto vivace dal punto di vista drammaturgico, autoriale, almeno dal
1959 in avanti (un esempio per tutti è rappresentato da María
Antonia, di Eugenio Hernández Espinoza, considerato uno
dei lavori teatrali più importanti tra quelli prodotti durante la
prima decade della Rivoluzione Cubana) (1) incomincia a focalizzarsi maggiormente sulle prassi sceniche e sull’innovazione
dei linguaggi.
12
Rafael Pérez Malo, vice presidente del Consiglio Nazionale
delle Arti Sceniche, organismo del Ministero della Cultura
Cubano che rappresenta gli artisti professionisti di tutta la
Nazione e organizza il FTH: “Le proposte dei giovani sono
osservate con interesse per il potere innovativo e per il valore
espressivo delle loro opere, così come per l’utilizzo della tecnologia, nella presentazione del loro lavoro, per il superamento
delle convenzioni -quarta parete, scatola scenica, tipica del
teatro all’italiana- tutti elementi di rottura con il passato
ormai assodati, che danno la misura di quanto le frontiere
dell’arte si stiano ampliando; i giovani lavorano su proposte
che privilegiano il processo piuttosto che il solo risultato e che
si basano su di un progetto, nei quartieri, con le minoranze...
soprattutto questo lavoro sul processo piuttosto che sul risultato è di grande importanza ed è caratterizzante del movimento teatrale odierno”.
Nell’ultimo concetto si coglie bene la risonanza tra la sensibilità che ispira l’edizione 2015 del Festival Teatrale di L’Avana
e la linea di pensiero che si riflette nella prassi scenica di Peter
Brook.
Panorama internazionale
L’avana, Cuba, foto di Marco Sasia
A Cuba, i giovani che portano a termine un percorso di studi
nel campo artistico culturale, trovano sbocchi lavorativi nel
settore di competenza e benché le remunerazioni siano minime, come per tutte le professioni a qualsiasi livello, si tratta
di un lavoro come un altro e che gode di una certa considerazione.
Allo stesso tempo le attività culturali e artistiche portate avanti
dalle case della cultura di quartiere o municipali, nel caso delle
cittadine di provincia, benché di natura amatoriale, nel senso
che sono realizzate da appassionati e non da artisti di professione (tranne per quel che concerne gli insegnanti), sono
anch’esse tenute in alta considerazione, poiché costituiscono il
programma attuativo del sistema di formazione integrale che
dopo i percorsi scolastici e universitari, garantisce la trasmissione di valori nella popolazione adulta.
A riprova dell’importanza accordata alle case della cultura v’è
il dato che, hanno spesso sedi prestigiose, in palazzi pubblici
dall’architettura ricercata e personale amministrativo e gestionale che vi lavora a tempo pieno.
Arte e cultura vengono infatti avvalorate come possibilità
privilegiate per la soddisfazione delle necessità spirituali del
singolo e della comunità, sono riconosciute come veicoli di
arricchimento personale e sociale.
Dall’esame dei programmi e documenti progettuali che esplicitano finalità e obiettivi delle attività artistiche promosse nei
centri culturali, tale visione dell’arte è sempre presente.
Le Case della Cultura sono strategiche anche per la prevenzione del disagio, la socializzazione e le politiche d’inclusione.
I percorsi artistici nel sociale sono appunto condotti da queste
realtà diffuse sul territorio e comprendono anche le attività
teatrali nei penitenziari, negli istituti che ospitano persone con
handicap o disturbi mentali, negli ospedali...
La produzione artistica delle realtà di quartiere amatoriali o
che operano nel sociale è di buona qualità, anche se spesso
risulta penalizzata da supporti tecnici inadeguati o insufficienti, per esempio per quanto riguarda gli strumenti musicali o i
costumi e soprattutto i supporti tecnologici.
Le attività artistiche: letteratura, arte, danza, teatro e musica
in primis, proposte dalle case della cultura, sono praticate e/o
frequentate da tutte le fasce d’età con dirette conseguenze sulla
preparazione culturale e sul peso che hanno gli interessi artistici nella vita della popolazione cubana.
In effetti a Cuba: “Non manca il pubblico, soprattutto in occasione di eventi culturali, come festival e manifestazioni; i
grandi eventi attraggono molto, è una tendenza internazionalmente diffusa”, sottolinea il vice presidente del Consiglio
Nazionale delle Arti Sceniche.
Tornando al festival, R. P. Malo, spiega come il criterio di selezione delle compagnie sia imperniato sulla valutazione della
qualità artistica del prodotto presentato: “La selezione è basata
sulla qualità del lavoro indipendentemente dal genere: teatro
convenzionale, fisico, di parola, di ricerca... non importa, ciò
che conta è che il pubblico, ogni pubblico, ha il diritto di
fruire del genere che gli interessa, se c’è un pubblico, ogni proposta, indipendentemente dal tipo di proposta, trova spazio
perché ogni pubblico ha diritto al suo spettacolo.
Il festival non ha una specificità legata a un dato genere teatrale, ma esistendo a Cuba, e soprattutto nella capitale, un pubblico variegato e numeroso, tutti gli stili e i linguaggi trovano
cittadinanza in un programma che nelle ultime edizioni del
FTH ha proposto più di quaranta spettacoli in meno di dieci
giorni, ospitando più di venti nazioni in quasi trenta differenti
spazi tra teatri, sale polivalenti, nei quartieri, nei reparti oncologici degli ospedali pediatrici di L’Avana, presso strutture per
ragazzi diversamente abili, nelle periferie.
La capienza delle sale teatrali disponibili nella capitale non è
sufficiente per far fronte a un movimento artistico cittadino
che ospita più del cinquanta per cento del panorama professionale dell’intero Paese. La famosa Calle Linea (famosa per
i cubani e per il mondo artistico internazionale, non ancora
teatridellediversità
13
Panorama internazionale
L’avana, Cuba, foto di Marco Sasia
altrettanto per i turisti che frequentano l’isola durante tutto
l’anno) (2), è la ‘Broadway cubana’: teatri, caffè-concerto, locali
notturni dove si balla con la musica dal vivo a ogni isolato.
A fronte di tale vivacità di offerta, ma anche di domanda, tutta interna al Paese con grande preminenza della capitale, la
scarsità di risorse a disposizione, rappresenta una sproporzione
problematica, benché le compagnie finanziate siano numerose.
L’arte è sempre offerta come opportunità sia alle persone in
difficoltà che a quelle che hanno sbagliato, che sono detenute: soprattutto i laboratori sono efficaci perché la fruizione di
uno spettacolo è troppo limitata, mentre con i laboratori si fa
un lavoro più continuativo. Nell’ambito del programma di
formazione integrale, le arti hanno un ruolo sempre significativo, ma il contatto con la comunità più allargata è ancora
circoscritto e va ampliato.
Un esempio di tale impegno è rappresentato da “La Colmenita” compagnia di teatro ragazzi ambasciatrice dell’Unesco
che lavora molto con le Case della Cultura nei quartieri, ma
tali opportunità, che si sviluppano al meglio con i laboratori,
vanno accresciute e non delegate all’impegno esclusivo delle
compagnie giovanili o delle Case della Cultura, organismi artistico culturali che operano con efficacia nei quartieri ma i cui
prodotti artistici non sono di natura professionale.
Non a caso, nell’ambito del festival, si organizza un momento pedagogico, di riflessione teorica, con conferenze, lezioni
magistrali... perché per noi il ruolo dell’artista è innanzitutto formativo, pedagogico, di educazione del pubblico e della
popolazione in generale, ma per fare con cognizione di causa
tale lavoro di formazione l’artista deve conoscere il passato,
dialogare con i maestri, per arrivare, infine, a creare qualcosa
di nuovo!”.
14
Si tratta di un nuovo richiamo ai maestri del teatro, ai padri
fondatori del teatro nel Novecento, a cui le ultime edizioni
del FTH sono state ispirate, a interpretare l’attuale direzione
d’indagine dell’arte teatrale a Cuba.(3)
* Regista e studiosa di teatro
Note
1 www.drammaturgia.it Recensioni. Diego Passera, “Theatre Research
International”, vol. 35, n. 2, luglio 2010.
2 N.d.r.
3 Un particolare ringraziamento va a Tania Vivian Arguelles Fernand, segretaria di edizione della Televisione Cubana
Per approfondimenti sul FTH: www.cubaescena.cult.cu; Festival de Teatro de
La Habana su facebook
Abstract
PETER BROOK AND THE DIRECTING AT 2015 HAVANA
FESTIVAL
he international festival of theater of Havana was founded in
the ‘80s, it is held every two years and, in 2015, it took place
between 22 and 31 October. After the edition dedicated to Stanislavskji, in 2013, when the interview presented here was made, the
2015 edition is dedicated to Peter Brook in order to emphasize the
art of directing, as well as to celebrate his ninetieth birthday! Main
feature of the festival is to consider all possible theatrical genres,
says RP Malo, vice president of the National Council of Performing
Arts: “The criterion for selection of the festival is based on the quality of work regardless of gender.” Particular attention is given to
youth companies for their contributions in terms of innovation and
cultural regeneration from the bottom, in the neighborhoods, with
minorities...
T
UN VIAGGIO
ATTRAVERSO IL TEMPO
È possibile registrare la presenza del Teatro Universitario negli Stati Uniti fin dalle origini
dell’Unione
Panorama internazionale
STATI UNITI
di Maria S. Horne
L
a storia del Teatro Universitario è
abbastanza recente nel continente
americano, in particolare negli Stati Uniti, in parte a causa della giovane
“età” e essenza di questo paese. Certo,
non ci sono abbastanza dati per formulare teorie generali sul tema, che è tanto
vasto e diversificato quanto il paese stesso. Questo articolo prevede un rapido
viaggio attraverso il tempo, esponendo
dati registrati e storici riguardo alla presenza del teatro universitario negli Stati
Uniti sin dall’inizio.
Il continente americano attrasse l’attenzione del mondo dominante europeo a
partire dal 1492, in un’epoca in cui le
università europee erano attive da secoli. Dal momento dell’arrivo di Colombo
in America, sono comunque trascorsi
più di 100 anni prima che l’Impero britannico stabilisse la sua prima colonia a
Jamestown, in Virginia, nel 1607. Nel
1619, il primo College, il College di
Henricopolis, venne costruito nella città omonima in Virginia, come previsto
da un atto costitutivo regale del 1618
Meno di quattro anni più tardi, il college e la città bruciarono durante il massacro del 1622. Il college non è stato ricostruito, e, successivamente, nel 1624,
la città cessò di esistere(1), ponendo fine
definitivamente al futuro del primo college nelle colonie.
La successiva università venne realizzata quasi una decade dopo, nel 1636, a
Cambridge, Massachusetts, dove l’università di Harvard venne istituita su
votazione del Great and General Court
of the Massachusetts Bay Colony. Harvard è considerata la più antica università degli Stati Uniti. Invece, l’università
europea attiva più antica nel mondo
occidentale è l’Università di Bologna,
che fu fondata nel 1088. L’Università
di Bologna precede quindi Harvard di
548 anni.
I primi segnali di attività teatrale nelle
colonie sono scarsamente documentati,
spesso frugali o poco attendibili. Inoltre,
i dati storici riguardo al teatro negli USA
si focalizzano principalmente sull’evoluzione del teatro di professione. Alcune
storie includono anche compagnie amatoriali, ma le testimonianze in merito al
teatro all’università sono scarse.
Nella colonia del Massachusetts, si suppone che una rappresentazione teatrale
studentesca di un’opera sia stata organizzata ad Harvard nel 1690. Il racconto di questo evento è stato riportato nel
1919 dallo storico di teatro americano
Arthur Hornblow in A History of the
Theatre in America, vol. 1 (Storia del Teatro in America), dove afferma:
“Nel 1690, degli studenti di Harvard
realizzarono una rappresentazione teatrale a Cambridge (Massachusetts) della
tragedia Gustavus Vasa di Benjamin Colman, prima opera teatrale scritta da un
americano e rappresentata in America,
di cui non abbiamo conoscenza”. (2)
Tuttavia, non è certo che l’opera sia stata
veramente scritta e rappresentata, come
riportato da Hornblow. Esistono tracce
di un Benjamin Colman ad Harvard nel
1690, quando Colman, studente, avrebbe avuto 17 anni, ma non esiste nessuna
prova in merito all’opera scritta o alla
rappresentazione. Nel 1921, tre anni
dopo la pubblicazione di Hornblow,
l’esistenza di questa rappresentazione
teatrale del 1690 è stata seriamente contestata da Adolph B. Benson nel suo saggio di ricerca “Was Gustavus Vasa” the
First American Drama?” (“Gustavo Vasa
“ è stato la prima opera teatrale americana?) (3).
Saltando in avanti fino al 1693, la successiva università più antica nelle colonie, il College di William & Mary, venne stabilito a Williamsburg, in Virginia,
e venne seguito dal St. John’s College
di Annapolis, in Maryland, nel 1696, e
dall’università di Yale nel New Haven,
Connecticut, nel 1701. Tra il 1730 e il
1775, vennero istituite un’altra dozzina
di università, soprattutto nei territori
del New England. Queste istituzioni
accademiche del Nord America al tempo delle colonie precedettero la Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e la
nascita degli Stati Uniti come nazione.
Pertanto, pur se queste università si trovano geograficamente nel territorio attuale degli Stati Uniti, da un punto di
vista storico sono state fondate dal governo britannico.
Ci sono testimonianze che dimostrano
che le attività teatrali vennero perseguite
nei college, in forma di odi e dialoghi
recitati pubblicamente durante le commemorazioni o in occasione di eventi
teatridellediversità
15
Panorama internazionale
Saul Elkin 1970s
importanti e in onore del re. Tali performance pubbliche rappresentarono
un’opportunità per i giovani uomini
colti di perfezionare le loro abilità oratorie e di parlare in pubblico. In seguito,
questi dialoghi evolvettero e incominciarono a incorporare degli elementi
teatrali come l’azione, l’ambientazione
e la trama. Questo è quel che accadde
ad una rappresentazione di studenti avvenuta nel 1702 all’università, probabilmente presso il College di William &
Mary, un’istituzione che, nel corso della
storia, si è sempre vantata di tale evento:
Nel 1702, un gruppo di studenti presentò un “colloquio pastorale” in latino
per il Governatore Reale, e questa fu la
prima rappresentazione teatrale in America. (4)
Per quello che concerne il teatro universitario, è importante sottolineare che la
prima struttura adibita a teatro non venne costruita fino al 1761 nelle colonie. E
non deve sorprendere che questo teatro
fu costruito a Williamsburg, in Virginia,
all’interno di una cultura e di una società che si era avvicinata alla recitazione teatrale. Questo primo teatro venne
utilizzato da professionisti e amatoriali
e fu lo stesso teatro impiegato dagli studenti del College William & Mary per
rappresentare, nel 1736, quella che viene ritenuta la prima produzione teatrale
universitaria. Un annuncio della rappresentazione venne pubblicato su The
16
Virginia Gazette:
“10 Settembre, 1736 Questa sera verrà
eseguito al Teatro, dai giovani Signori
del College, The Tragedy of CATO: E,
il Lunedi, Mercoledì e Venerdì prossimo, verranno rappresentate le seguenti
Commedie, dai Signori e le Signore di
questo Paese, vale a dire: Il Busy-corpo, il
Recruiting-Officer, e il Beaux-Stratagem”.
(Virginia Gazette, William Parks, 10 settembre 1736) (5)
Lo spettacolo presentato da questi studenti o, come loro stessi si definivano,
Signori del College, era il Catone di Joseph Addison, una tragedia in cinque
atti, che è stata una delle opere letterarie
predilette a quei tempi, di contenuto politico. Scritta nel 1712, l’opera esplora i
temi della libertà, la virtù e la resistenza
alla tirannia, utilizzando come sfondo la
lotta politica tra Catone e Cesare. L’opera di Addison è stata considerata come
musa e ispirazione letteraria per i Padri
Fondatori e la Rivoluzione Americana,
nonché fonte di citazioni famose come
quella di Patrick Henry: “Datemi la libertà o datemi la morte!”, che si crede
fosse un riferimento diretto al secondo
Atto , Scena 4, quando Catone dice:
The Hand of Fate is over us, and Heav’n
Exacts Severity from all our Thoughts :
It is not now a Time to talk of aught
But Chains, or Conquest; Liberty, or
Death. (6)
(La Mano del Fato è sulle nostre teste e
il Paradiso
Pretende rigore in ogni nostro Pensiero:
Non è Tempo di parlare del nulla
Ma di Catene, o Conquista; Libertà, o
Morte)
Nel 1736, la notizia sul giornale della
performance di Catone è forse l’unica
documentazione disponibile di una rappresentazione teatrale fatta da studenti
universitari in quel periodo. Tuttavia,
è probabile che ci fossero state altre
performance simili in altre università,
come si ipotizza esaminando gli scritti
su varie riviste studentesche. Eppure,
mentre i college erano in qualche modo
favorevoli al dramma classico, le visioni
puritane rimasero salde in merito all’intrattenimento teatrale, in particolare
nelle colonie del nord. Le compagnie di
professionisti dovettero affrontare continuamente una forte opposizione da
parte di gruppi religiosi e dovettero assicurarsi il permesso del governo prima di
poter recitare pubblicamente. Le ostilità
verso la recitazione teatrale culminarono con la messa al bando di rappresentazioni e altre attività in tutto il paese,
incominciando con il Massachusetts nel
1750 e proseguendo con altre colonie.
Maryland e Virginia furono le uniche
due colonie americane che non adottarono leggi per proibire spettacoli teatrali
durante il XVIII secolo.
Esistono testimonianze di odi e dialoghi
fiche interessarono anche l’università e
il corpo studentesco, pur se in piccola
parte. Dopo la Guerra Civile Americana, l’abolizione della schiavitù nel 1865,
con il 13 ° emendamento della Costituzione, ha aperto la strada all’istituzione
di college afro-americani. Alla metà del
XIX secolo, alcune donne vennero ammesse in università miste e furono anche
istituiti dei College femminili.
In merito allo sviluppo teatrale, vi sono
pochissime testimonianze riguardo al
teatro universitario in quel periodo. Ad
ogni modo, vi sono informazioni sufficienti che dimostrano l’esistenza di
club letterari e teatrali all’università. Nel
1852, L’Associazione Teatrale del College di Georgetown, nota anche come
Società Teatrale La Maschera e il Gingillo (The Mask and Bauble Dramatic
Society), prese piede alla Georgetown
nel quadro dell’educazione gesuita diffusa nelle antiche università Cattoliche e Gesuite degli USA. Con base a
Washington D.C e situata nella stessa
università, l’associazione studentesca è
considerate come la più antica compagnia teatrale universitaria ancora attiva
nel paese.
L’istituzione di club e società universitari fiorì nei college di tutto il paese nel
corso del XIX secolo. Mentre queste
organizzazioni studentesche offrirono
opportunità di partecipazione per gli
studenti, l’amministrazione universitaria considerò tali attività teatrali come
extracurricolari che, pertanto, non potevano ricevere crediti accademici. Infatti, come potevano queste attività essere
considerate accademiche quando la prospettiva generale tendeva a considerare
le rappresentazioni amatoriali scadenti?
Certo, il fatto che i gruppi teatrali universitari mancassero di credibilità e dovessero affrontare molte sfide non aiutò,
come Kenneth Macgowan - critico teatrale, produttore e capo del dipartimento di arti teatrali presso la UCLA – ha
sottolineato:
I gruppi di recitazione amatoriali nei
college tendono ad essere solo un po’
più trascurabile rispetto ai gruppi di
recitazione amatoriali nelle chiese o tra
la società eletta. Le organizzazioni studentesche possono vantare pochissimi
attori di valore. I partecipanti recitano
insieme troppo poco e per un periodo
troppo breve per poter dar vita a un
gruppo efficace. Peggio ancora, al di
fuori delle università miste gli uomini di
solito interpretano le parti delle donne.
Tutto sommato, il teatro amatoriale in
università non merita alcuna attenzione
particolare ... (9)
Non vi furono nuovi sviluppi fino all’inizio del XX secolo, quando il teatro,
come materia di studio, venne introdotto ufficialmente nel curriculum accademico delle università. Il processo che ha
elevato il teatro da attività extracurriculare a valida materia di studio dovette
affrontare molti ostacoli, come viene riportato nella Valutazione Nazionale del
Teatro Americano:
Una lotta epica di questo secolo è stato il tentativo di un piccolo gruppo di
idealisti realistici di creare un teatro
educativo. Non è stato facile portare
questo multiforme, sospettoso, e spesso
frainteso bastardo dentro le aule dei college americani. Non c’erano precedenti stranieri, né prototipi da usare come
modello o per stabilire una sanzione
accademica. Facoltà universitarie e presidenti fecero resistenza contro lo studio
del teatro fino a quando poterono; nel
momento in cui dovettero arrendersi,
concessero un minuscolo spazio per la
letteratura teatrale nell’offerta accademica. (10)
Panorama internazionale
composti ed eseguiti in diverse università, ma queste non erano di fatto rappresentazioni di opere, e quindi non
coincidevano con l’attività teatrale al
college, bensì con attività complementari delle università. Per illustrare le caratteristiche di tali attività nei college
durante la seconda metà del XVIII secolo, è utile considerare i titoli e le finalità di queste odi: “Un Esercizio: con
un dialogo (di Provost Smith) e un’Ode,
consacrata alla memoria della sua Graziosa Maestà Giorgio II”, fu scritto da
Francis Hopkinson e presentato durante
le cerimonie di inizio anno del College di Filadelfia nel 1762; il College del
New Jersey rappresentò “La gloria militare della Gran Bretagna” nel 1763 e,
più tardi nel 1771, “La Gloria crescente
dell’America”.
La corrente dominante delle università
americane durante quel periodo non
sembrava affatto favorevole alle attività teatrali. Il clima accademico era ancora in accordo con le idee politiche e
religiose contrarie alle rappresentazioni
pubbliche nella metà del XVIII secolo,
una visione destinata a perdurare anche
nel secolo successivo. Ad esempio, Timothy Dwight, preside dello Yale College,
espresse le proprie opinioni negative
in merito alla recitazione in “An Essay
on the Stage: In Which the Arguments
in Its Behalf, and Those against It Are
Considered, and Its Morality, Character, and Effects Illustrated.” (Un Saggio
sul Teatro: in cui vengono considerate le
argomentazioni a favore e contrarie in
merito, e vengono illustrate la sua moralità, la sua natura e i suoi effetti). (7)
A Dwight è anche attribuita la citazione: “Permettersi di avvicinarsi al teatro
rappresenta niente meno che la perdita
del più importante dei tesori, l’anima
immortale.” (8)
Il XIX secolo ha portato un’ondata di
modifica nel paesaggio geografico degli Stati Uniti. Seguendo il percorso
di espansione verso ovest, le dimensioni del paese vennero raddoppiate con
l’acquisto della Louisiana nel 1803. Il
territorio continuò ad espandersi con
l’aggiunta della Florida nel 1819, l’annessione del Texas nel 1845, l’acquisizione dell’Oregon nel 1846, l’incorporazione di altri sei stati dopo la guerra
con il Messico nel 1848 e altri territori
che furono aggiunti nel secolo successivo. Con l’espansione territoriale, nuovi
linguaggi, nuove culture, nuove etnie,
identità e tradizioni vennero ereditati,
anche se non sempre incorporati nel tessuto della nazione. L’espansione ha portato sia il conflitto che il cambiamento.
A loro volta, questi conflitti e le modi-
Nessun corso di teatro venne organizzato formalmente all’università fino al
1900. Guadagnarsi un posto nell’offerta
didattica, anche se all’interno del programma di letteratura, segnò un enorme
passo in avanti per il teatro come disciplina, ma vi era ancora un abisso tra le
semplici letture e le rappresentazioni sul
palcoscenico. Le vaste arti dello spettacolo necessitavano di più di uno spazio
accademico nel corso di letteratura.
L’insegnamento del teatro come disciplina richiedeva una visione che comprendesse ulteriori punti di vista, quali
recitazione, regia, progettazione, drammaturgia, e altro ancora; in breve, un
esteso e approfondito corso di studio. A
questo proposito, George Pierce Baker
divenne pioniere di un nuovo approccio
nell’insegnamento durante un corso di
teatro al Radcliffe College nel 1903; un
corso che ha ulteriormente sviluppato
presso l’Università di Harvard, un anno
dopo, con il titolo di Inglese 47 e con
un’attenzione particolare al processo
creativo.
Nel 1913, Baker aggiunse anche una
componente extracurriculare nel suo
corso, creando uno spazio per la produzione di opere teatrali, con il titolo di
47 Laboratorio. Perché questo laboratorio era extracurriculare e non un corso
per i crediti scolastici? Perché Baker non
fu in grado di convincere la dirigenza
ad approvare la creazione di un corso
in cui gli studenti potessero dar vita al
teatridellediversità
17
Panorama internazionale
Georgetown University
teatro sul campo; vale a dire muoversi
dal concetto alla rappresentazione vera
e propria, dalla scrittura di commedie
al portarle sul palcoscenico. Nel laboratorio di Baker, gli studenti impararono
a conoscere tutti gli aspetti del teatro
e della performance, e seppure gli studenti non ricevevano nessun credito
accademico, il laboratorio attrasse molti
partecipanti che sono diventati famosi
drammaturghi, come Eugene O’Neill.
A causa di un mancato supporto alla sua
visione, Baker abbandonò Harvard e si
trasferì a Yale nel 1925, dove diresse un
nuovo reparto di Teatro presso la Scuola
di Belle Arti.
Alla fine del 1920, grazie agli ideali e al
lavoro di alcuni pionieri del campo, varie università incominciarono a dar vita
a dipartimenti di teatro e recitazione,
mentre altri college proseguirono nel
rafforzare l’offerta accademica riguardo
al teatro all’interno dei dipartimenti di
inglese. Si stava sviluppando un movimento ideologico e Baker non era solo;
vi furono altri importanti innovatori che
contribuirono a rafforzare l’importanza del teatro nelle università del paese.
Sono troppi per poterli nominare tutti
rapidamente, ma il loro lavoro gettò le
basi per ciò che sarebbe avvenuto: una
crescita esponenziale delle arti performative all’università. Al giorno d’oggi
è raro imbattersi in un college che non
presenti il teatro nella propria offerta
curriculare, sia che si tratti di un vero
dipartimento che di un singolo pro-
18
gramma. Al tempo stesso, la performance teatrale viene presentata all’interno
della nota “stagione teatrale” universitaria, che prevede varie opere e si rivela
costantemente un orgoglio per studenti,
istituti e famiglie.
Prendendo ad esame una realtà più vicina a me, presso l’Università di Buffalo,
L’Università Statale di New York, dove
sono stata un membro della facoltà negli
ultimi venti anni, un percorso simile è
stato realizzato fino a giungere al nostro
Dipartimento di Teatro e Danza. La nostra storia è molto simile a quella di altri
dipartimenti di teatro negli Stati Uniti
e ho voluto citarla brevemente qui per
creare una testimonianza, dal momento che nessun documento scritto esiste
ancora, sia nel dipartimento che all’università.
Nella città di Buffalo, nella parte occidentale di New York, l’Università di
Buffalo è stata fondata con un atto costitutivo promosso da una legislatura
dello Stato di New York, l’ 11 maggio
1846, con l’autorizzazione di concedere qualsiasi tipo di laurea. (11) La Facoltà
di Medicina è stata stabilita per prima,
seguita da Farmacia, e quindi la Legge
e Odontoiatria. Seguirono altre discipline. La prima squadra di calcio universitaria si è formata nel 1894. Il primo
concerto del Glee Club universitario
ha avuto luogo nel 1897, realizzando la
prima performance documentata nella
storia. Il primo dipartimento di Arti e
Scienze è stato fondato nel 1909 ed è
poi divenuto un college nel 1915. Nel
registro storico dell’ università non vi è
tuttavia alcuna menzione di quando il
dipartimento di Teatro e Danza è stato
fondato. Eppure, possiamo presumere che i corsi di teatro venivano svolti
all’interno del College di Arti e Scienze,
e sappiamo con certezza, grazie a una
fonte diretta, che alla fine degli anni
Sessanta un discreto programma teatrale
venne inserito nell’allora Dipartimento
di Oratoria. Per documentare queste affermazioni, ho chiesto al mio caro amico e collega, il leggendario Saul Elkin,
ora professore emerito dell’Università di
Buffalo, di raccontare come si è formato il dipartimento, considerando che lui
si trovava proprio lì quando è successo.
Saul ha affermato:
In breve… Sono arrivato all’Università
di Buffalo nel 1969 quando il Teatro
non aveva ancora dato vita ad un dipartimento, ma veniva trattato all’interno
di un “Programma” appena separato
dal Dipartimento di Oratoria. Era di
piccola entità. Ward Williamson era
preside, Esther Kling dirigeva le attività,
Julia Pardee insegnava la maggior parte
dei corsi di letteratura, e poi c’ero io. Io
insegnavo Introduzione e poi “l’intera
sequenza Recitativa”. Non so bene come
sono riuscito a farlo… e ho anche diretto un’importante produzione ad ogni
semestre. Il dipartimento crebbe leggermente due anni dopo, quando Gordon
Rogoff divenne preside (insegnava re-
Dal 1970, il dipartimento si è ampliato
per diventare il Dipartimento di Teatro e Danza. Ora offre ora una serie di
diplomi di laurea in diverse discipline,
tra cui Teatro, Performance teatrale,
Musical, Danza, Design e Tecnologia.
In aggiunta alla laurea, il reparto ha
recentemente acquisito un Master in
Arti e un dottorato di ricerca in teatro
e performance che si rivolgono ad un
interesse sempre crescente degli studenti
nel campo. È attualmente in fase di progettazione un MFA (diploma post universitario) in Coreografia. La stagione di
produzione teatrale in programma offre
agli studenti l’opportunità di cimentarsi
in performance e progettazione, come
anche fare tirocini con partner professionali. Il progetto di scambio Internazionale Artistico e Culturale del dipartimento (IACE) offre una vasta gamma
di programmi che comprendono visite
scolastiche, spettacoli internazionali
e conferenze, un laboratorio di ricerca creativa e una programma di studio
all’estero, a Londra. Gli studenti hanno
anche la possibilità di dirigere, progettare, recitare e produrre i propri spettacoli all’interno del dipartimento e con
il tutoraggio della facoltà. Questo è solo
un breve elenco delle attività. Allo stesso
modo, nelle università degli Stati Uniti,
un’orda di programmi teatrali ha subito
modifiche analoghe, trasformandosi da
attività extracurricolari a facoltà di laurea autonome.
La trasformazione da intruso in un’area
estranea a degno membro della comunità accademica è stata una sfida tormentata ma anche un cammino ricco di
opportunità. Molti dipartimenti ci sono
riusciti ma, lungo il cammino, alcuni
non ce l’hanno fatta. Recentemente,
alcune università hanno chiuso i loro
dipartimenti di teatro oppure li hanno
accorpati ad altre unità, ma attualmente
non sembra essere un rischio diffuso.
Questo viaggio attraverso il tempo è
stato vantaggioso per le università negli
USA. Ad ogni modo, divenire dipartimento all’interno del college non equivale ad ottenere una levatura paritaria. Il
progresso non è lineare. Vi sono battute
d’arresto, guadagni e perdite. La lotta
per eguali diritti non è finita, ci attendono nuove sfide e opportunità.
Note
1 Priscilla Williams, “Henricopolis,
America’s First College,” Richmond Then
and Now. Newspaper Articles. www.richmondthenandnow.com/Newspaper-Articles/Henricopolis.html
2 Arthur Hornblow, A History of the
Theatre in America from Its Beginnings
to the Present Time. Vol 1. (Philadelphia:
J.B. Lippincott Company, 1919), 2140.
3 Adolph B Benson, “Was “Gustavus
Vasa” the First American Drama?,”
Scandinavian Studies and Notes, Vol. 6,
No. 7 (1921), 202-209, URL: http://
www.jstor.org/stable/40915091
4 William & Mary,Arts & Sciences,
Teatro, Oratoria e Danza, Programma
Teatrale, About, Storia www.wm.edu/
as/tsd/theatre/about/history/index.php
5 Hunter D. Farish, The) Playhouse
(First Theatre) (NB) Documentazione
Storica, Blocco 29 Edificio 17A. Inizialmente chiamato: “The First Theatre”
(Il Primo Teatro) 1940, Colonial Williamsburg Foundation Library Research
Report Series – 1583, Colonial Williamsburg Digital Library, Williamsburg, Virginia 1990. http://research.
history.org/DigitalLibrary/View/index.
cfm?doc=ResearchReports\RR1583.
xml
6 Joseph Addison, Cato. A tragedy. As it is
acted at the Theatre-Royal in Drury-Lane,
by His Majesty’s servants. By Mr. Addison.
Dodicesima Edizione. (London, MDCCXXVIII. 1728), 45. Raccolta online
del Diciottesimo secolo. Gale.
7 Timothy Dwight, An Essay on the
Stage: In Which the Arguments in Its Behalf, and Those against It Are Considered,
and Its Morality, Character, and Effects
Illustrated.(Middletown, CT: Sharp,
Jones, & Co, 1824).
8 Kenneth MacGowan, Footlights across
America, Towards a National Theater
(Luci alla ribaltà attraverso l’America.
Verso il teatro nazionale). (New York:
Harcourt, Brace and company, 1929),
107.
9 MacGowan, Footlights across America,
112.
10 Robert Edward Gard, Theater in
America; appraisal and challenge for the
National Theatre Conference, I ed. (Madison, Wis., Dembar Educational Research Services, 1968), 74.
11 Archivi universitari, Registro degli
eventi dell’Università di Buffalo,
www.library.buffalo.edu/archives/ubhistory/timeline.php
Panorama internazionale
citazione avanzata e i vari aspetti della
regia), inoltre venne aggiunto un secondo insegnate di Recitazione. Quando
Gordon se ne andò, io divenni preside
(1975) e rimasi in carica per vent’anni,
nonché per brevi periodi o in seguito
in attesa di sostituti. Durante i miei
vent’anni il dipartimento crebbe. Molti professori si unirono a noi… l’offerta
didattica si estese… la facoltà si fece più
chiara e definita… Diedi inizio al Shakespeare Festival nel 1976 che uscì dalle
porte dell’università nel 1990 per diventare un festival indipendente… Sono rimasto direttore artistico per tutti questi
anni e quest’estate festeggiamo il nostro
40° anniversario (accidenti!). Inoltre,
non mi ricordo di preciso in che anno
accadde, ma fui responsabile dell’introduzione della danza nel dipartimento.
MARIA S. HORNE
È professoressa di ruolo presso il Dipartimento
di Teatro e Danza e Direttore fondatore del
programma di Scambio Internazionale Artistico
e Culturale all’Università di Buffalo, Università
di stato di New York. È un insegnate di grande
valore internazionale e ha ricevuto riconoscimenti
per il suo lavoro, è regista, attrice, produttrice
e giudice delle arti performative. È vicepresidente dell’Associazione Internazionale
delTeatro Universitario (AITU-IUTA) e consulente
per diverse organizzazioni internazionali. Il
Dipartimento di Stato degli Stati Uniti l’ha
nominata Specialista di Cultura Americana in
Costa Rica, Estonia e Paraguay. Ha ricevuto
numerosi premi, compreso due SUNY
Chancellor’s for Excellence (Detentore di
Eccellenza) per l’insegnamento e
l’internazionalizzazione. Ha presentato il
proprio lavoro accademico e artistico presso
le principali università e organizzazioni in 27
paesi. Le sue aree di ricerca sono la metodologia
e la pedagogia della recitazione in congiunzione
alla cognizione e alla neuroscienza.
Abstract
A GLIMPSE THROUGH TIME
he history of University Theatre is
moderately recent in the American
continent, specifically in the United States,
due in part to the young age and nature
of this country. Certainly, there is not
enough recorded data to support general
assertions on the topic, which is as vast
and diverse as the country itself. This
article takes a swift tour through time,
pointing at chronicled and historical data
that supports the presence of university
theatre in the United States from its beginning
T
teatridellediversità
19
Panorama internazionale
ARMENIA
NASI ROSSI IN ARMENIA!
Un viaggio nella memoria del centenario del genocidio armeno
20
Yerevan (Armenia), esterno Mausoleo del Genocidio, foto di Italo Bertolasi
di Italo Bertolasi*
Panorama internazionale
Yerevan (Armenia), interno Mausoleo del Genocidio, foto di Italo Bertolasi
I
l nostro clown tour in Armenia nel
maggio 2015 é stato voluto dal filantropo Ruben Vardanyan, fondatore
della banca “Troika Dialog” che ha invitato Patch Adams con altri 20 clowns
provenienti da ogni parte del mondo.
Tra questi, come italiani, io e Ginevra
Sanguigno che da anni collaboriamo a
queste avventure con Patch. Ruben ci
dice con convinzione: “Credo nell’amore e nella attitudine positiva delle persone. Io stesso sono armeno e la presenza di questa allegra tribù di clown può
offrire grandi opportunità di crescita,
confronto ed amicizia per la mia gente”.
Altro “angelo” sponsor in questo viaggio
la bellissima Maria Yeliseyeva, fondatrice dell’associazione umanitaria “Maria’s
Children” che a sua volta ha aggiunto a
noi altri dieci clown, per lo più ex orfani
aiutati nel passato dalla stessa Maria e
volontari russi.
La nostra presenza coincideva con le
celebrazioni per il centenario del genocidio definito dagli armeni “il grande crimine” perpetrato dalle milizie
dell’Impero Ottomano tra il 1915 e il
1916 e che causò circa 1,5 milioni di
morti. Nello stesso periodo storico l’Impero Ottomano aveva condotto attacchi
simili contro altre etnie - assiri e greci
- in un vero e proprio progetto politico
di “pulizia etnica”. Patch Adams é stato
il primo a portare i clown in guerra e
ha accettato con entusiasmo l’invito di
ritornare in queste belle e martoriate
terre del Caucaso. Dal 2002 porta i suoi
amici clown - che si fanno chiamare ambasciatori di pace e del sorriso - nei paesi
devastati dai conflitti armati. Con lui
avevamo già partecipato alle missioni in
Afganistan, Cecenia e Ossezia del Nord,
Gaza e Israele, Cambogia, Nepal, visitando anche i campi profughi ai confini
della Siria. Patch ci spiega: “Ho voluto
portare i clown fuori dal circo e non solo
negli ospedali decidendo di andare anche
in contesti difficili e rischiosi. Anche in
zone di guerra. Senza armi ma invece dotati di buone dosi di coraggio, cordialità e
benevolenza. Fu subito evidente che l’essere
amabili e cordiali predisponeva ad un caloroso contatto umano. E’ bizzarro riflettere sul perché in questo mondo abbiamo
pregevoli università, infinite pubblicazioni sulla libertà e la pace e su altre idee gloriose ma, a tutt’oggi, non sappiamo ancora
cosa fare per sconfiggere le guerre. In guerra
l’amore può trasformarsi davvero in una
“arma” alternativa perché dove c’è amore
non ci sono battaglie. Quando pensiamo
al ruolo del clown che agisce in situazioni
di gravi conflitti e di guerra, almeno per
quel che mi riguarda, mi viene alla mente
quel pensiero che ricorre ogni volta che riflettiamo che l’uso della violenza è sempre
e sempre sbagliato”.
In Armenia la nostra prima visita é dedicata al museo dell’olocausto eretto sulla
bella altura di Tsitsernakaberd con vista
sulla capitale Yerevan e sul monte Ararat. Vestiti in modo sobrio, così ci era
stato detto di presentarci, abbiamo offerto garofani bianchi e le nostre lacrime
al braciere che ricorda con il suo fuoco
eterno le tante vittime del genocidio.
Nelle altre giornate abbiamo visitato
orfanotrofi, ospedali pediatrici, centri
d’accoglienza per chi é fragile e svantaggiato. Il nostro tour ci ha portato anche,
attraversando praterie e foreste stupende
nelle cittadine di Gyumri, Vanadzor e
Dilijan. In quest’ultima località Patch
ha regalato la sua “lectio magistralis” agli
studenti dell’UWC college. Una scuola
d’eccellenza che vuol fare dell’educazione una forza per riunire popoli, nazioni e culture per la pace e per un futuro
sostenibile. Il network UWC - United
World Colleges -comprende 15 istituti
d’eccellenza sparsi nel mondo che hanno come logo un mappamondo con al
centro scritto uno strano invito: “Sei abbastanza pazzo e stravagante per studiare
all’UWC?”.
Le giornate si svolgevano con due visite di due o tre ore: una nella mattinata
ed una nel pomeriggio. Vere e proprie
“lezioni d’amore” che sono state ancora
una volta un invito all’ascolto empatico
e rispettoso e al prendersi cura portando la nostra attenzione ai bisogni e ai
sentimenti dell’altro. Il “clown del cuore” é un entusiasmatore, che sa ricreare
conforto, calore umano ed armonia. Per
teatridellediversità
21
Panorama internazionale
Yerevan (Armenia), interno Mausoleo del Genocidio, foto di Italo Bertolasi
Patch il trucco del clown può attivare
intorno a sé energie curative e trasformative. Ma si dovrà essere umanamente
autentici, cioé sinceri, compassionevoli,
creativi, espressivi, elegantemente disgustosi, imprevedibili, intimi e vicini al
cuore degli altri. Ma sempre eticamente rispettosi dei fragili “confini” di chi é
stato ferito. In viaggio ci si può sentire
di più “cittadini del mondo” che sanno
includere ogni diversità. E ancora testimoni di pace, abili in ogni interazione
umana e capaci di rimettere sempre al
centro la persona nella sua globalità.
Perché oggi la vera rivoluzione consiste
nello “stare assieme”. Nel fare tribù.
Lo stile di Patch é inconfondibile: quando entra in una struttura chiede sempre
di essere accompagnato dal paziente più
22
grave. Per poi passare tutto il tempo con
lui. Due o tre ore per diventare amici.
Approfondendo, in un clima di fiducia
ed intimità , una conoscenza reciproca.
Allora possono accadere dei veri miracoli. La fiducia apre le porte ad un flusso
di energia gioiosa e ad un contatto fisico
via via più intenso. Carezze, incontro di
nasi - il nasone rosso di Patch é una specie di terza mano che si appoggia dappertutto - ma anche abbracci e sguardi
che trasmettono emozioni “fragili” che
sono le più significative della vita e che
a chi soffre comunicano”con la loro tristezza, timidezza speranza e inquietudine.
Con la gioia e il dolore dell’anima”. Gli
altri clown che accompagnano Patch
interagiscono con repertori più classici:
giocoleria, bolle di sapone, acrobatica
ed altri “trucchi” comunque creati per
generare stupore e vicinanza umana.
Maria Yeliseyeva, con i suoi ex orfani e
clown crea invece grandi murales. In Armenia ha dipinto le pareti di una scuola
di Yerevan e di un orfanatrofio di Gyumri. Ginevra é l’unico clown italiano in
questo tour armeno, “danza” da più di
vent’anni dovunque emergano fragilità,
con maestria e ipersensibilità. Offrendo
cura, conforto e sostegno affettivo con
una originale clownerié piena di gioia e
felicità esaltante.
Ogni giornata, dopo l’uscita della mattina e del pomeriggio, e dopo la cena,
si concludeva con spettacolini di musica
e danza. Si aveva modo così di danzare
il “ kociari”, danza tradizionale allegra e
giocosa in cui si imitano i salti degli ani-
Panorama internazionale
mali sulle cime delle rocce. Ai tamburi
si accompagna il suono di trombe e del
flauto “duduk” il cui suono, ci dicono, ci
fa risentire la prima “musica” che il bimbo non ancor nato coglie nella pancia
della mamma. Eravamo anche invitati
a sgambettare in cerchio antiche danze
di guerra. Che ci riportano alle lunghe
battaglie condotte nei secoli dal popolo
armeno per la propria libertà.
Il nostro clown tour in Armenia si conclude in modo originale. Davanti alla
tomba del padre del mistico George
Ivanovitch Gurdjieff. Uno dei grandi
maestri dell’esoterismo contemporaneo.
L’insegnamento di Gurdjieff riunisce in
una alchemica coerenza spiritualità, filosofia e cosmologie di diverse culture. Per
noi artisti e clown il mistico Gurdjieff.
ha rappresentato il perfetto mistico sciamano, ma anche con il suo carattere
burlesco e trasgressivo un grande clown
e attivista sociale pieno di coraggiose
idee rivoluzionarie. La tomba del padre
che era di origini greche ed era anche un
famoso “asowot” - poeta bardo - che é
stato trucidato dai turchi. é nascosta nel
misterioso cimitero vecchio di Gyumri
- l’antica Alexandropol. Gurdjieff non
ha mai visitato la tomba paterna ma ha
voluto che fosse ritrovata da alcuni suoi
“figli spirituali” che hanno scolpito sulla
pietra tombale le parole del figlio:
IO SONO TE,
TU SEI ME,
EGLI E’ NOSTRO, TUTTI E DUE
SIAMO SUOI.
CHE TUTTO SIA
PER IL NOSTRO PROSSIMO.
In questo cimitero lontano ci siamo sentiti anche noi nuovi “ricercatori di verità”. Vicino alla stele abbiamo deposto
una rosa ed un naso rosso mentre la nostra guida con il suo “duduk” intonava
un suono di commiato dolce e greve.
* Etno-fotografo, scrittore e bodyworker
Per saperne di più
Sergei Paradjanov Museum
Indirizzo: Blds15&16 Dzoragyugh 1st St,
Yerevan 375015, Armenia
Telefono: +374 10 538473
You Tube - documentario
“Paradjanov. A Requiem” di Ron Holloway 1994 60 min.
SERGEI PARAJANOV
Tra gli anni del suo dissociarsi dai “film spazzatura”
- prima del 1964 - e la sua morte per un tumore
al polmone nel 1990, Sergei Parajanov, georgiano
di origine armena, si é affermato come uno dei
più eclettici e visionari protagonisti della
cinematografia mondiale.
I suoi film, girati a Kiev in lingua ucraina, armena,
russa ed anche in un un raro dialetto caucasico:
il Gutzul , per l’alto valore artistico entrano nel
circuito dei festival internazionali. E avviene il
miracolo. La critica li apprezza e il mondo del
cinema ne é entusiasta. Jean Luc Godard omaggia
questo misterioso regista in poche parole: “Nel
tempio del cinema ci sono immagini, luci e realtà.
Sergei Parajanov era il maestro di questo tempio”
ed anche il grande Andrei Tarkovsky, lo elogia:
“Sempre con gratitudine e piacere ricordo i film
di Sergei Parajanov che amo tanto. Per il suo
modo di pensare trasgressivo, per la sua paradossale
e poetica abilità d’amare la bellezza e anche per
la sua abilità di essere completamente libero
dentro le sue visioni”.
Sergei Parajanov rivela subito la sua genialità.
Durante la seconda guerra mondiale studia
all’Istituto Statale di Cinematografia di Mosca,
dimostrando una forte personalità dotata di
talento e fantasia. I suoi primi documentari di
propaganda, che in seguito ripudierà, li
definisce”spazzatura”. Poi c’è la svolta. Proclama
che nessuna scuola può insegnare a far del buon
cinema. Si stacca dal realismo sovietico e si scaglia
contro censura e conformismo. E’ convinto che il
genio dell’arte é un “talento genetico” che hai o
non hai. E può emergere solo dalla libertà espressiva
e scrutando nel “pozzo” della propria creatività
Il suo primo film di successo é “Le ombre degli avi
dimenticati.” del 1964 che si rivela un’opera
originale e innovativa per la cinematografia
sovietica: Il film con immagini straordinarie a tinte
oniriche e con l’ampio spazio riservato al folclore
di una piccola comunità dei Carpazi, i Gutzul, che
vivono in un paradiso di natura in fiera indipendenza,
è condannato dalla censura come manifesto
antisovietico e viene ritirato dalle sale. Nel 1968
Parajanov firma una lettera di protesta per l’arresto
di alcuni intellettuali ucraini, avendo così ancora
guai con la “giustizia” sovietica. Il suo primo
arresto era avvenuto nel lontano 1947, quando a
soli 23 anni é accusato di aver avuto rapporti
sessuali - nell’Unione Sovietica del tempo era un
reato - con un ufficiale del KGB! Nel 1969 riesce
finalmente a portare a termine Il colore del
melograno, da molti considerato il suo capolavoro.
Il film che narra la vita di Sayat-Nova, un famoso
“bardo” armeno, offre al regista il pretesto per
affrontare il tema del ruolo dell’artista all’interno
della società in cui vive. Con sottinteso l’incubo
nella società sovietica. Il film é sequestrato dalla
censura per “estrema deviazione dal realismo
russo”. Sergei Parajanov é diventato un personaggio
scomodo e il modo migliore per toglierlo dalla
circolazione é di accusarlo di truffe fiscali. Nel
1973 é arrestato per traffico di opere d’arte, frodi
commerciali, “incitamento al suicidio” e per
generiche “tendenze decadenti e surrealiste” ed
é condannato a cinque anni di duro Gulag. In
mezzo a criminali comuni Paradjanov sopravvive
disegnando e scrivendo trame di film immaginari.
Viene alla fine liberato nel 1977 a seguito di una
mobilitazione internazionale capeggiata dal
surrealista francese Louis Aragon) per essere
nuovamente arrestato, qualche anno dopo, per
pochi mesi. Ma finalmente nel 1984 si rimette al
lavoro e può realizzare i suoi due ultimi film: “La
leggenda della fortezza di Suram” e nel 1988 “Asik
Kerib - storia di un ashug innamorato”.
Suo testamento artistico e fiaba d’amore che
racconta ancora una “piccola” storia: quella di un
povero musico che suona ai matrimoni e che parte
per un lungo viaggio con la speranza di arricchirsi
e poter così sposare la ragazza che ama. Sergei
Parajanov muore nel 1990 a Yerevan e la sua casa
diventa un museo ricco di disegni, affreschi, e
costumi tratti dai suoi film. C’é anche la collezione
di una serie di collages che questo regista, costretto
per lunghi anni a non dirigere film, ha voluto
chiamare “opere cinamotografiche condensate”.
teatridellediversità
23
Panorama internazionale
ARMENIA
ARMIN THEOPHIL WEGNER
E LO STERMINIO DEGLI ARMENI
Un soldato tedesco ricordato nel Giardino dei Giusti, tra gli “eroi” impegnati nel fermare
la strage
di Italo Bertolasi *
I
l 2015 per tutti gli armeni é un anno speciale: In questa
piccola repubblica caucasica che raccoglie tre milioni di abitanti - ma altri sei milioni fanno parte delle diaspore sparse
nel mondo - si commemora il centenario del cosidetto Metz
Yeghern (il Grande Male). Di quel genocidio che ha sterminato due milioni di armeni iniziato nel 1915 in terra Ottomana
e che é stato orchestrato dal governo dei “Giovani Turchi”. Per
ricordarlo quasi ogni giorno folle di “pellegrini” confluiscono nella capitale Yerevan per la processione a Dzidzernagapert
(la Collina delle rondini), dove sorge il Mausoleo che ricorda
le vittime dello sterminio. Vicino al monumento c’é anche il
Muro della Memoria e un Giardino dei Giusti dove si ricorda-
24
no tutti quegli “eroi” che hanno voluto fermare quelle stragi,
salvando i perseguitati o testimoniando al mondo la verità del
genocidio. A questi “Giusti” in Armenia sono anche dedicate
alcune strade e scuole.
Nella terra che nutre il giardino dei giusti sono state deposte
anche le ceneri di Armin Theophil Wegner. Un eroe per lo più
sconosciuto ma famoso qui in Armenia. Armin era un soldato
tedesco con vocazioni artistiche ed umanitarie e una gioventù dedicata all’impegno sociale. Nel 1915 Armin ha 29 anni.
In quegli anni la Germania è alleata con la Turchia. E allo
scoppio della Prima Guerra Mondiale, durante l’inverno del
1914-1915, questo giovane idealista é sottotenente del Corpo
Panorama internazionale
Patch Adams interagisce con due poliziotti armeni, foto di Italo Bertolasi
Sanitario tedesco, distaccato alla Sesta Armata Ottomana. Nei
suoi diari d’allora annota: “Sono diventato un soldato, ho messo
in gioco la mia vita per i valori della mia anima”. Ma ben presto
l’idealismo patriottico dei primi tempi, nell’animo anarchico
e generoso di Armin, si trasforma in vergogna e indignazione
Erano tempi di grandi conflitti: i “giovani turchi” che governavano l’impero ottomano appartenevano ad un movimento
politico nato con l’idea di modernizzare il paese ma ben presto
travolto da accesi nazionalismi e ideali panturchi che avrebbero voluto unificare tutti le popolazioni là residenti. Alleati
con scaltra incoerenza alla Germania - grande nazione “infedele” - cercarono con l’aiuto delle armate tedesche di sollevare
il mondo musulmano contro la Russia e i suoi alleati. Con
il sogno di difendere e ingrandire l’Impero. Ma all’interno a
contrastarli c’era il popolo armeno per lo più cristiano, a cui
apparteneva una elite ricca sociale ed educata ed “amica” dei
russi - dei nemici mortali. Gli Armeni saranno le vittime prescelte. Si decide così di sterminarli con tutta una serie i soliti
marchingegni stragisti. Deportazioni e viaggi a piedi senza ritorno verso mete irragiungibili: Deir ez Zor, Rakka e verso il
nulla del deserto. Fucilazioni di massa. Decapitazioni e crocefissioni. Stupri. Di fronte a queste atrocità il giovane Armin
si indigna:”La mia coscienza mi chiama ad essere testimone. Io
sono la voce degli esiliati che grida nel deserto!”
Come soldato paramedico dovrà seguire queste deportazioni.
Assiste incredulo ad inimmaginabili crudeltà “soldati,nel loro
selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori ragazze per i loro
piaceri bestiali, picchiavano con bastoni donne incinte o morenti
fino a che la terra sotto di loro si trasformava in poltiglia sanguigna...ho visto persone impazzite che mangiavano i propri escrementi, donne che cuocevano i loro bimbi appena nati”. La sua
obbedienza si trasforma via via in aperta ribellione al “Grande
Male”. E la sua nuova guerra la combatte con un arma segreta.
Una “piccola” fotocamera. Nel 1913 Oskar Barnak costruisce
il primo prototipo di Leica, una camera innovativa, veloce e
leggera che forse l’esercito tedesco aveva in dotazione. Seguendo insieme alle vittime armene “le vie senza ritorno verso il
nulla” e disubbidendo ai divieti delle autorità turche ma anche
tedesche Armin scatta fotografie, raccoglie lettere di supplica
delle vittime, e scrive un diario di viaggio. “Conservo le immagini di terrore e di accusa sotto la mia cintura...ho raccolto
anche molte lettere di supplica che tengo nel mio zaino in attesa
di consegnarle all’ambasciata americana...perché la posta non le
avrebbe inoltrate. So di commettere un atto di alto tradimento,
tuttavia la consapevolezza di aver contribuito anche se in piccola
parte ad aiutare questi poveretti, mi riempie di gioia più di qualsiasi altra cosa io abbia fatto”. E’ un gesto politico di grande
coraggio che farà storia nella memoria del genocidio armeno.
Armin commette però un grande errore. Nel 1916 in una lettera spedita incautamente con le poste normali alla madre le
racconta le atrocità di cui é testimone. Lo scritto é intercettato
teatridellediversità
25
Panorama internazionale
Ginevra Sanguigno gioca con un bambino armeno, foto di Italo Bertolasi
dalla censura tedesca e gli procura uno scaltro castigo: l’immediato trasferimento nelle baracche degli ammalati di colera a
Baghdad. L’ordine é accompagnato da una nota: “Armin Wegner deve essere utilizzato in modo che gli passi la voglia di andare in giro”. Qui si ammala di tifo petecchiale e quasi morto
viene rispedito a Costantinopoli e alla fine del 1916 “espulso”
in Germania. Ma, il giovane eroe, non é solo: consapevole del
loro grande valore ha sempre con sé i suoi preziosi negativi, il
suo diario e un pacco di fotografie realizzate segretamente da
altri ufficiali.
In Germania si cura e ben presto ridiventa l’attivista politico
che é sempre stato. Nel gennaio del 1919 pubblica il libro
“La via senza Ritorno”. Che é la raccolta delle lettere scritte in
Anatolia. Intanto inizia la persecuzione degli ebrei che Armin
subito paragona alla tragedia armena. Con speranza e entusiasmo scrive lettere a ministri, generali e capi di stato. Una
di queste é indirizzata al presidente americano Wilson per
chiedere giustizia per gli armeni. Il suo soggiorno in Germania
é sempre più difficile. Con un’altra mossa imprudente nell’aprile del 1933 scrive una lettera direttamente ad Hitler invitandolo a cambiare la politica antiebraica nazista: “Signor cancelliere del Reich...non si tratta solo del destino dei nostri fratelli
ebrei. Si tratta del destino della Germania. In nome del popolo
per il quale ho il diritto non meno che il dovere di parlare, come
tedesco a cui non é stato dato il dono della parola per rendersi
complice col silenzio quando il suo cuore freme di sdegno, mi rivolgo a Lei:fermate tutto questo!”
La risposta é l’immediata inclusione nella lista nera del Reich
26
e l’ arresto da parte della Gestapo, con tortura e lungo periodo
di prigionia. Per la Germania nazista è ormai un traditore della patria e un criminale bolscevico. Dopo un’anno di carcere
viene rilasciato e nel 1934 va in esilio prima in Inghilterra, poi
con Lola, moglie ebrea, in Palestina e infine in Italia. Anche
qui arrivano le leggi razziali e Armin é costretto a cambiare
nome. Sarà solo nel 1965, nella commemorazione del 50° anniversario del genocidio armeno, che quasi per caso si riscoprirà il valore storico della testimonianza di Armin Theophil
Wegner. Dopo anni di sofferta solitudine e silenzio finalmente
“piovono” riconoscenze: la prima gli viene assegnata dalla Germania e dalla sua stessa città natale Wuppertal. Poi nel 1968
viene insignito del titolo di “giusto” dallo Yad Vashem in Israele e dell’ordine di S. Gregorio a Yerevan, capitale dell’Armenia,
dove oggi una strada porta il suo nome.
Le ultime estati della vita straodinaria di questo eroe sono trascorse a Stromboli dove trova “un pò di serenità tra l’infinito
del mare e l’austerità della montagna vulcanica”. Ancora una
volta e ancora per stupirci Armin ha voluto “scrivere” sul muro
bianco di un vecchio mulino dell’isola, ultimo suo rifugio, e in
lingua tedesca, la seguente frase del Talmud:”Ci é stato affidato
il compito di lavorare a un’opera, ma non ci é dato di completarla.”. Armin muore a Roma nel 1978 a 92 anni. Il figlio Misha
che ne cura le memorie e le ultime volontà, in una intervista
recente ci ha ricordato il dolore del padre nel non essere riuscito a “chiudere” l’opera finale che doveva comprendere due
romanzi sulle tragedie degli Armeni e degli Ebrei e un saggio
sul suo rapporto con la madre patria tedesca. Ma intorno a
lui si era creato quel vuoto di memoria. cresciuto anche con il
Panorama internazionale
Patch Adams con un gruppo di bambini armeni, foto di Italo Bertolasi
teatridellediversità
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Panorama internazionale
Patch Adams con una neonata armena, foto di Italo Bertolasi
negazionismo turco dell’olocausto. A metà degli anni ‘70 intervistato da un famoso giornalista tedesco Armin si lamentò
con questa tragica frase: “Perché siete venuti così tardi?”.
Le foto e gli scritti di Armin Theophil Wegner sono di immenso valore storico. Sono la prova schiacciante e l’atto di
accusa più convincente di questo sterminio. Che il 12 aprile
Papa Francesco in San Pietro ha definito : “ il primo genocidio
del 20° secolo”. Oggi più di venti i paesi riconoscono il genocidio armeno. Tra questi la Russia, la Svizzera, la Finlandia,
la Svezia, la Slovacchia, la Grecia, la Polonia, la Lituania e il
Vaticano. Molti altri per opportunismo politico appoggiano
invece la tesi turca del negazionismo. In ogni caso grazie anche
alla coraggiosa testimonianza di Armin Theophil Wegner - un
uomo Giusto -si conserverà la memoria di questo crimine verso l’umanità che ancor oggi si perpetua purtroppo negli stessi
deserti del medio oriente. Sapremo comunque rinascere da
questi disastri riaffermando alle nuove generazioni una cultura
dell’inclusione, della tolleranza e della pace?. Come ci ha testimoniato questo “eroe”.
* Etno-fotografo, scrittore e bodyworker
Nota bibliografica
Per saperne di più:
“La marcia senza ritorno” di Franca Giansoldati - Salerno editrice, pag.127.
“Il massacro degli Armeni” di Guenter Lewy - Einaudi Editore, pag 394.
“Lettera a Hitler” di Gabriele Nissim - Mondadori Editore,
pag. 304.
28
Tomba di Gurjief, foto di Italo Bertolasi
Abstract
ARMIN THEOPHIL WEGNER AND ARMENIAN EXTERMINATION
015 it a special year for all Armenians: In this small Caucasian
republic which collects three million inhabitants - but six million
more are part of diasporas around the world - people commemorate the centenary of the so-called Metz Yeghern (the Great Evil). The
genocide, that killed two million Armenians, started in 1915 in Ottoman land and was orchestrated by the government of “Young
Turks”. With the aim to commemorate it, crowds of “pilgrims” come
together in the capital Yerevan almost every day, for the procession
to Dzidzernagapert (the Hill of Swallows), where the Mausoleum
that commemorates the victims of the extermination stands. Near
the monument there are also the Wall of Remembrance and a Garden
of the Righteous, where all those “heroes” who wanted to stop the
massacres, saving the victims of persecution or witnessing to the
world the truth about genocide, are celebrated. Here we can find
also the ashes of Armin Theophil Wegner, a German soldier with
humanitarian and artistic vocations, who devoted his youth to social
commitment and, moved by his shame and outrage, showed to the
world the brutality of the killing.
2
IL TEATRO
FA BENE
Un progetto realizzato da Jacopo Fo e dalla Libera Università di Alcatraz, in accordo con
le linee guida del Ministero della Salute del Mozambico
di David Aguzzi*
Rubriche - Teatro e Intercultura
CABO DELGADO
Jacopo Fo con alcuni attori partecipanti al progetto “Il teatro fa bene”
N
el viaggio di avvicinamento alla Libera Università di Alcatraz per intervistare il fondatore Jacopo Fo il pensiero
gironzola su tante cose diverse tra loro, ma in particolare ricorre o, rincorre l’idea che non viviamo in “mondi chiusi”,
che nulla è uguale a se stesso, che inevitabilmente le nuove
cose sono sempre le benvenute e scrivono nuove pagine con o
senza mediazione.
Vado ad intervistare Jacopo Fo per il suo nuovo impegno, “Il
teatro fa bene”. Un progetto che si sta realizzando in Africa,
per la precisione in una regione del nord del Mozambico al
confine con la Tanzania, distretto di Palma, provincia di Cabo
Delgado.
Se penso all’Africa, la “fotografia” ricorrente è quella narrata
magnificamente e meglio di chiunque altro da Buzzati, con
i suoi reportage, grandi spazi, deserti, montagne, grandi fiume e grandi laghi, una natura misteriosa e avvolgente; una
foresta primordiale, foresta-madre che rimanda alle origini del
mondo. O le meravigliose immagini di uno dei più importanti “poeti” della fotografia contemporanea Sebastiao Salgado,
dove nel suo ultimo e imponente lavoro “Genesi”, presenta
un atto d’amore per un mondo in cui natura ed esseri viventi
vivono ancora in equilibrio con l’ambiente.
Jacopo Fo: “Ho sviluppato una passione per la storia africana
da molto tempo e sono partito da una domanda banale: come
mai non ci sono state delle rivolte di schiavi al colonialismo. Ovviamente partivo dalla considerazione che la storia viene sempre
censurata. Per cui il sospetto è, non che non ci fossero state delle
rivolte, ma che non venissero raccontate …. Con Laura Malucelli
abbiamo curato un libro “Schiave ribelli”, uno dei pochi libri che
teatridellediversità
29
Rubriche - Teatro e Intercultura
documenta queste storie. C’è stata una grandissima resistenza in
Africa contro il colonialismo. Ma c’è stata una grandissima serie
di rivolte anche in America. Con migliaia di schiavi e con aree
che hanno resistito per un secolo, nel 1600 in Brasile tra la città
di Palmares e una decina di villaggi della regione. E queste rivolte
di schiavi sono state addirittura vittoriose… Furono sconfitti solo
quando è arrivato un esercito con artiglieria molto più moderna
e potente; catturato e ucciso Zumbi che era a capo della rivolta,
prese il comando la moglie, che ha guidato 27000 schiavi in una
marcia incredibile nel cuore dell’Amazzonia in un luogo dove
poter vivere e costruire decine di villaggi e organizzare il sostentamento di tutti…. Scopro che il cuore della resistenza è la cultura
San del Centro Africa. La popolazione San ha portato l’agricoltura in Egitto, India. Una cultura a tradizione matriarcale”.
“Il teatro fa bene” rappresenta un “format”, basato da un lato
sulla teatralizzazione di informazioni di carattere sanitario e
alimentare, dall’altro lato su attività dimostrative e pratiche
sull’uso di semplici tecnologie d’ausilio nella quotidianità. Lo
scopo è quello di trasmettere alla popolazione conoscenze su
buone pratiche igienico-sanitarie e alimentari in un modo più
efficace di quanto consentano le forme di divulgazione tradizionali.
Il tema della cura e della medicina “entra” in teatro fin dalle
sue origini. Nella sua “Poetica” Aristotele attribuisce alla tragedia una finalità catartica. E se a prima vista teatro e medicina possono apparire due mondi distanti, in verità sono molto
più vicini, intrecciati fra loro in quanto ruotano entrambi intorno ad un unico vero protagonista, l’uomo, il personaggio,
l’interprete-attore, il medico. Il corpo.
Corpo, racconto, sguardo, ascolto, trasformazione, condurre:
30
parole chiave dell’esperienza medica, e che sono alla base di
quella teatrale in una loro accezione entusiastica, propria dei
processi di creazione artistica e poetica.
Jacopo Fo: “La mia idea partendo dall’esperienza dei miei genitori, dal teatro comico, era quella di fare un racconto comico.
Sapendo che questa era una cultura San di tradizione matriarcale, legata alla sacralità del ridere, dell’amore, della convivialità e
della solidarietà, iniziamo una ricerca preliminare interpellando
una serie di accademici su quali fossero le maggiori strutture comiche del teatro locale. E ci dicono che non c’è una tradizione.
Ci dicono che il teatro lì è o fiabe tipo Esopo oppure è un teatro didattico, un teatro di volantini letti ad alta voce. Però nella
seconda missione in Mozambico riusciamo finalmente a trovare
una traccia di un personaggio, che potremmo assimilare ad Arlecchino, un po’ caciarone, un po’ imbroglione, però naif che si salva
sempre … Quando sono venuti i ragazzi in Italia la prima settimana l’abbiamo passata a farci raccontare le loro storie, le storie
della loro vita, che cosa si ricordavano dei racconti durante le feste
e gli spettacoli. E quindi è venuta fuori questa chiave comica che
poi è il falso medico, la donna malata che è una storia locale, ma
anche una storia che ritroviamo in Boccaccio”.
Un progetto di teatro e di comunicazione a tutto tondo volto
a portare la narrazione nei villaggi, facendo leva su quei principi di espressione dell’arte comica e giullare della Commedia
dell’Arte italiana, come non ricordare il personaggio, maschera di origine bolognese, del Dottor Balanzone. Personaggi rappresentati con comicità ed ironia, occasione di svago tra serio
e faceto.
Un altro degli elementi che caratterizza il progetto è infatti la
performance artistica, dove il corpo ha bisogno di una “scena”
Rubriche - Teatro e Intercultura
per rivelarsi e aprirsi, per trasformarsi in racconto.
Sempre Jacopo Fo: “Nell’area di Cabo Delgado c’è una situazione di acqua sporca e condizioni di vita drammatiche, assenza
di strade. Per esempio, c’è una disinformazione di base, mancano disinfettanti e c’è una mortalità nelle donne e nei bambini
neonati che è 20 volte quella italiana. Per cui nello spettacolo
c’è proprio una parte di informazione tecnica sulle regole igieniche fondamentali, sulla alimentazione e sul fatto di incoraggiare
le persone ad andare negli ospedali e negli ambulatori a fare le
ecografie e, soprattutto speriamo proprio con questa iniziativa di
contribuire a ridurre la mortalità, basterebbe poco per cambiare
alcune abitudini sbagliate”.
I messaggi sulla salute e l’alimentazione inseriti negli spettacoli
sono coerenti con le linee guida adottate dal Ministero della Salute del Mozambico e promossi da Eni Foundation che
opera in questo ambito nel Paese anche con la collaborazione
di Medici con l’Africa Cuamm. Anche nello spettacolo c’è un
ruolo della medicina tradizionale che è importante. Anche il
medico, quello vero, viene curato con una cura tradizionale
quando si sente male. Il problema è che in alcuni casi la medicina tradizionale non è utile, per esempio per un intervento, o
davanti ad un parto veramente difficile bisogna fare il cesareo.
Lo spettacolo serve per divertire e coinvolgere, e contribuire
a cambiare i punti di vista, e porre degli interrogativi. Poi c’è
una parte di informazione vera e propria con dei cartelloni
che verranno utilizzati, con le attrici che si metteranno a parlare con le donne. Lo spettacolo, infatti, si intitola “Il falso
medico”.
“Il teatro è la prima medicina che l’uomo ha inventato per proteggersi dalla malattia dell’angoscia”. Jean-Louis Barrault. E la
medicina, la cura non è solo tecnica, scienza e conoscenza,
ma è anche arte: dà valore all’intuito e all’esperienza, alla comunicativa e alla capacità di leggere e trasformare i segni; è in
grado di attivare un processo di conoscenza di natura poetica,
ed il teatro ne è il veicolo di trasformazione e di costante utilizzazione. Lo scopo è quello di trasmettere alla popolazione
conoscenze su buone pratiche igienico-sanitarie e alimentari
in un modo più efficace di quanto consentano le forme di divulgazione tradizionali. Il progetto “Il teatro fa bene” viene realizzato come esperienza-pilota a partire dal distretto di Palma
per sviluppare un metodo e una procedura da poter applicare
e replicare sia in Mozambico sia in altre aree del pianeta.
* Sociologo, poeta, critico letterario
Abstract
THEATRE IS GOOD FOR US
Theatre is the first drug man has invented to protect himself from
anguish” (Jean-Louis Barrault).
Theatre is good” is a project realised in Mozambique , based on
the dramatization of nutritional and sanitary information. The
messages about health care and nutrition included in the performances are coherent with the guide-lines of the Ministry of Health
in Mozambique. The project is realized by Eni Foundation in cooperation with “Medici con l’Africa Cuamm (Doctors with Africa Cuamm)”
and the Free University of Alcatraz by Jacopo Fo. “Theatre is good”
is realized as an experimental project starting in Palma District, to
be applied and replied as a method and a procedure either in Mozambique and in other parts of the world.
“
“
teatridellediversità
31
Rubriche - Personaggi
NORTHAMPTON (MASSACHUSETTS)
CON LELLA GANDINI,
RIFLESSIONI E SPERANZE
SUL RUOLO DELL’EDUCAZIONE
In dialogo sulle arti in educazione con la studiosa referente per la diffusione del “Reggio
Emilia Approach” negli Stati Uniti e autrice di significative pubblicazioni sulla creatività
nella prima infanzia
di Vito Minoia *
Lella Gandini e Vito Minoia con Coutney Waring, direttrice dei programmi educativi al Museo Eric Carle
I
n Italia molti ricordano le tue prime pubblicazioni.
Quanto la tua passione per il folklore infantile ha stimolato ed orientato i tuoi studi e le ricerche successive?
Il mio interesse per il folklore infantile è legato al dopoguerra.
Agli inizi degli anni 50 c’erano ragazze e ragazzi di vari paesi
più o meno miei coetanei - io sono nata nel 1934 – che viaggiavano col sacco a pelo e sacco da montagna e volevano in
libertà collegarsi, conoscere le vicende, la cultura e scambiare
idee con altri. Era un periodo di minime possibilità economiche ma di grande di libertà di muoversi e di conoscere. Io
non viaggiavo molto ma facevo parte di un gruppo molto
32
aperto di scout di Bergamo che includeva ragazze di tutte le
religioni e provenienze. Attraverso quella organizzazione ho
partecipato a raduni internazionali e lì ho cominciato a includere nella mia raccolta di filastrocche, già iniziata in italiano
da qualche anno a livello locale per un piacere personale, un
numero di racconti sempre più grande. Per curiosità raccoglievo filastrocche di tanti paesi e in tante lingue. Chiedevo
sempre di scriverle per me e di riascoltarle con chi mi raccontava. Ho anche corrisposto per anni con alcune amiche “pen
friends” ampliando i miei contatti internazionali. (Esemplare è stata un’esperienza più breve poiché la corrispondente
Quanto invece è stato formativo il tuo incontro con Arno
Stern e l’aspetto liberatorio del lavoro grafico con la pittura?
L’incontro con il lavoro di Arno Stern è stato a Parigi nel
1970 dove ho assistito a una sua presentazione pubblica e
ho acquistato i suoi libri. Nel 1971 ho aperto un laboratorio ispirato al lavoro di Arno Stern nella mia casa a Napoli,
adattando alcuni degli aspetti e forse incoraggiando di più
il desiderio dei bambini di narrare attraverso la pittura oltre
che a liberarsi dalle paure. Alcuni genitori ne riconoscevano
un aspetto terapeutico altri la bellezza e gioia dell’accostamento dei colori e del piacere che i bambini dimostravano. I
bambini finita l’esperienza con la pittura e dopo aver rimesso
tutto a posto con cura giocavano con i miei figli allora di 9
e 4 anni (che avevano tra l’altro un teatrino fatto in casa e
burattini) e raccogliendo moltissima soddisfazione dal lavoro
con loro. Ho anche creato temporanei atelier alla Arno Stern
in varie prime elementari che amavano offrire questa possibilità il sabato mattina; questo in varie città ma specialmente
a Bergamo dove vive la mia famiglia e abbiamo un piccolo
appartamento che ci da la sicurezza di tornare in Italia.
L’arrivo negli Stati Uniti segna un’altra tappa significativa
del tuo percorso conoscitivo. Ne vuoi parlare?
La scelta di vita di venire negli Stati Uniti nel 1972 sposando
Lester Little, professore di Storia medievale, veniva dopo una
seria decisione. Conoscevo l’inglese poiché avevo trascorso
già due anni dal 1959 al 1961 e dal 1969-70 e “ascoltato”
corsi in varie università in questo paese. Quello che sapevo,
ma non lo avevo sperimentato, era la possibilità di seguire
(per una persona di 40 anni) corsi regolari e quindi ricevendo credito per i due anni di studio all’Istituto Orientale di
Napoli ho seguito corsi regolari allo Smith College dove ho
ricevuto un Bachelor Degree e Master Degree e continuato
all’Università del Massachusetts dove ho conseguito un Dottorato in Pedagogia nel 1988.
In tutto questo tempo ho ovviamente usato quello che conoscevo e ho continuato ad aggiornare nei miei soggiorni annuali in Italia, con l’intento di offrire le esperienze di Reggio
Emilia e di Pistoia poiché era evidente la grande necessità
di comunicarle e renderle visibili, comprensibili e traducibili
nella realtà educativa della prima infanzia in questo grande
paese, cominciando nello Stato del New England dove vivo.
Considerando le ricerche di storia di mio marito, gli anni sabatici, gli incarichi che ha ricevuto per dirigere Istituti culturali americani in Italia, come l’American Academy in Rome.
Abbiamo praticamente vissuto in due paesi e i miei due figli,
ormai professori anche loro, sono rimasti perfettamente bilingui. Quello che è incerto è come coltivare questa possibilità per le nipoti.
Arriviamo all’incontro con Reggio Emilia, l’esperienza di
Loris Malaguzzi e la sua incessante ricerca di bellezza da
promuovere attivando percorsi conoscitivi con i bambini
delle Scuole dell’Infanzia ma anche con i più piccoli dei
Nidi. Come è avvenuto tale incontro e quali gli sviluppi
nel tuo lavoro?
Il mio incontro con le scuole di Reggio Emilia è iniziato in
parallelo con l’incontro con Loris Malaguzzi nel 1976. Avevo visitato a Bologna le scuole dell’infanzia che Bruno Ciari
aveva creato ed organizzato. Quello era stato il mio primo
incontro con le scuole progressiste di quegli anni e seguivo
tutte le pubblicazioni. Ma nel 1976 ho avuto la libertà, adesso invidiabile, di entrare, passare il tempo ad osservare intere
giornate, in particolare alla scuola Diana e alla Villetta, la
possibilità di fare domande e registrare le risposte delle insegnanti. Lo stesso è stato possibile nel nido Arcobaleno. In
quel periodo e per vari anni anche Mariano Dolci era molto
attivo. Per me è stata una scuola e una preparazione che è
continuata ed è parte della mia crescita intellettuale, pedagogica e creativa. Insomma la mia grande Scuola di Perfezionamento
Rubriche - Personaggi
dal Giappone ad un certo punto mi ha chiesto con immensa
gentilezza, usando una delicata carta di riso, di non scrivere più perché la mia calligrafia era impossibile). È da queste
amicizie, che oltre a far crescere la mia raccolta di filastrocche
e ampliare il mio piccolo mondo, mio fratello Nino ha incontrato Kerstin Anderson e ora il loro figlio Eric Gandini vive in
Svezia e si occupa di film che includono anche Videocracy. A
partire dagli anni 70 ho cominciato a pubblicare il materiale
che avevo raccolto in tanti anni con 99 Filastrocche nel 1972,
con Editori Riuniti e il lavoro che avevo condotto in quegli
anni in varie scuole con Fai da Te, con Bompiani. Con gli
anni ho pubblicato con Edizioni Elle di Trieste varie raccolte
e nuovi piccoli libri di filastrocche.
Malaguzzi aveva conosciuto il pensiero educativo di John
Dewey e si era interessato a molte ricerche di psicologia
dell’infanzia elaborate negli Stati Uniti: quali?
Il mio incontro diretto con Loris Malaguzzi e Reggio Emilia
ha avuto luogo nel 1976 con l’inizio della rivista Zerosei. Ferruccio Cremaschi conosceva il mio lavoro sulle filastrocche, il
lavoro creativo con i bambini e i libri per bambini pubblicati
con Le Edizioni Emme in collaborazione con Carlo de Simone, Laura Mancini e il fotografo Fabio Donato; è venuto a
cercarmi a casa e mi ha chiesto di includere delle filastrocche
tradizionali nel primo numero di Zerosei. Io ho contribuito
con piacere senza sapere che a Loris Malaguzzi francamente
non piaceva questo tipo di rime perché gli ricordavano precisamente l’asilo tradizionale per bambini che lui combatteva.
Ma quando ci siamo conosciuti ha visto che non ero pericolosa e potevo dare un contributo alla rivista con interviste fatte negli Stati Uniti. Così abbiamo fatto amicizia; ho
intervistato a sua richiesta vari luminari che avevano anche
preso una posizione contro la guerra in Vietnam: Benjamin
Spock, T. Berry Brazelton, Jerome Bruner (che è poi diventato cittadino onorario di Reggio), David Elkind, Hans Furth
e Howard Gardner che ho accompagnato per la prima visita a
Reggio e poi diventato anche lui un visitatore regolare.
Al contrario, quali aspetti della ricerca di Malaguzzi hanno generato poi un così forte interesse negli Stati Uniti?
Hai già citato i nomi di Jerome Bruner o Howard Gardner
che hanno voluto conoscere da vicino il lavoro espresso a
Reggio Emilia.
L’interesse per la ricerca e l’applicazione o il trasferimento
delle idee di Loris Malaguzzi che docenti universitari hanno
divulgato nella prescuola e nella prima infanzia (infant-toddler centers) continua ad espandersi negli Stati Uniti e in
particolare anche in Canada dove vi sono gruppi avanzati di
ricerca nella zona di Toronto, per esempio, che stanno portando delle modifiche strutturali a questi livelli di pre-scuola
dopo che uno dei ministri con un gruppo di docenti ha visitato le Scuole di Reggio Emilia).
Ci sono molte prescuole negli Stati Uniti che si designano
come “Reggio inspired”. Nello stesso tempo l’ala conservatrice negli Stati Uniti nel campo dell’educazione continua a
ribadire la necessità e obbligo di tests anche per i piccoli, con
enorme fatica per insegnanti e bambini.
teatridellediversità
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Rubriche - Personaggi
Eric Carle Museum of Picture Book Art, foto di Vito Minoia
H. Gardner ed i suoi collaboratori della Harvard University, in particolare, hanno elaborato l’espressione “rendere
visibile l’apprendimento” proprio a partire dalla valorizzazione del lavoro sviluppato nella città emiliana. Ci puoi
dire qualcosa in più su questo concetto?
Il gruppo di ricerca all’Harvard University che aveva pubblicato con gli educatori di Reggio Emilia “Rendere Visibile
l’Apprendimento“ (Making Learning Visible) è tuttora molto
attivo.
Ne scaturì una riflessione su come la documentazione del
lavoro di gruppo dei bambini fosse essenziale per rendere
visibile l’apprendere (piuttosto che ricorrere a tests) e come
fosse importante passare da un modello di trasmissione della
conoscenza ad un orientamento di ricerca e scoperta con i
bambini, una ricerca che rende possibile - attraverso la documentazione - di offrire una chiave di apprendimento sia per
i bambini che per gli insegnanti. Ad Harvard questo gruppo continua ad offrire corsi di aggiornamento per insegnanti
durante i mesi estivi e due del gruppo originale di ricerca a
Reggio Emilia Mara Krechevsky, Ben Mardell, con inoltre
Melissa Rivard e Daniel Wilson hanno pubblicato nel 2013
un libro intitolato Visible Learners: Promoting Reggio-Inspired Approaches in all Schools (dalla prescuola alla fine della
scuola superiore).
Ci puoi ricordare brevemente qualche episodio legato alle
varie conferenze che ti hanno visto impegnata insieme a
Malaguzzi in diverse università e contesti educativi statunitensi?
Loris Malaguzzi era stato invitato da Carolyn Edwards al-
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lora professore all’Università del Massachusetts poiché era
riuscita ad avere il sostegno della facoltà e in particolare dal
professor George Forman, ricercatore sull’apprendimento cognitivo, per avere la mostra “I Cento Linguaggi dei Bambini”
nel dicembre 1988. Io stavo preparando con questi professori
il lavoro finale per il mio dottorato in pedagogia ed è stato un
privilegio per me essere la traduttrice (come avevo già fatto
qualche volta a Reggio per visitatori di lingua inglese) e per
me e mio marito Lester Little, professore di storia ad un altro
college di questa zona del New England, un grande piacere di
ospitare a casa Loris Malaguzzi. In quella occasione fu chiaro
che Malaguzzi aveva una grande abilità nel comunicare con
il pubblico e specialmente anche un piacere di rendere visibile l’intelligenza dei bambini, sia quando presentò nell’aula
magna dell’università a tutta la facoltà sia più tardi quando
presentò ad una classe di 30 studentesse per un’ora e mezzo
una breve storia che raccontava con immagini la ricerca di un
bambino del nido. Un bambino di 10 mesi che bilanciava
un tubo di cartone in cui inseriva dei pennarelli. È la famosa
ministoria di Francesco e il tubo.
Oltre all’esperienza in Massachusetts, Loris Malaguzzi che era
arrivato per la prima volta negli Stati uniti nel 1987 per accompagnare la mostra a San Francisco (California) fu invitato
negli anni seguenti in due importanti luoghi per la visibilità
del suo programma di educazione per bambini, insegnanti
e genitori. A Chicago per ricevere il prestigioso Khol Prize
e visitare delle scuole ispirate a John Dewey e a Washington
DC dove il museo per bambini della capitale aveva aperto
una scuola ispirata al “Reggio approach” e dove l’insegnante di Reggio Emilia, Amelia Gambetti portava avanti il programma preparando le insegnanti a questo nuovo modo di
Rubriche - Personaggi
Lella Gandini al Eric Carle Museum of Picture Book Art, foto di Vito Minoia
imparare con i bambini. Io ero anche in questi due luoghi
l’interprete e traduttrice di Malaguzzi.
Di Chicago vi è un video che ora è parte della mostra “I cento
Linguaggi dei bambini” e di Washington un film da parte di
un regista di Reggio Emilia. Un episodio particolarmente piacevole ed interessante per me è legato a questi incontri personali con Malaguzzi. Quando era a casa nostra a Northampton
Massachusetts aveva scoperto che mio marito ed io eravamo
buoni amici di David Hawkins (filosofo ed educatore) e Malaguzzi che ammirava i suoi libri si meravigliò che fosse ancora vivo, noi chiamammo David al telefono e Loris parlò con
lui (poichè conosceva l’italiano) e lo invitò immediatamente
ad andare a visitare le scuole a Reggio. A questo incontro
telefonico seguì un incontro diretto, David Hawkins venne
a Washington per incontrare ad ascoltare la presentazione di
Malaguzzi e poi incontrarsi con lui. Alla fine della presentazione su una esperienza dei bambini con le ombre alla fine
David Hawkins fece commenti molto positivi sull’esperienza
ma anche aggiunse a gran voce: “Malaguzzi vedo i bambini
ma dove sono le insegnanti?” E Malaguzzi con altrettanta enfasi: “Hawkins le insegnanti sono nell’ombra naturalmente!”.
Oggi tu sei “Liaison for the Dissemination of the Reggio Emilia Approach” negli Stati Uniti. Ci puoi illustrare
come si attua questo lavoro di diffusione e come riesci a
promuovere e stimolare nuovi processi conoscitivi?
Io ho cominciato molti anni fa a portare immagini delle
scuole di Reggio Emilia e a spiegare come i bambini imparavano per loro desiderio spontaneo e sostenuti dalle insegnanti
che propongono materiali interessanti e naturali o inconsueti;
spazi accoglienti e considerano i bambini interessati a esplo-
rare e scoprire e soprattutto come documentano questo loro
modo empatico, osservativo e propositivo di stare con i bambini anche per i genitori e per chi vuole capire meglio come
imparare con loro e per loro.
Mi hai mostrato anche alcuni numeri della rivista “Innovations in Early Education”, quadrimestrale della North
American Reggio Emilia Alliance. Come è organizzata e
quali iniziative produce? Quali gli obiettivi principali del
periodico e quali quelli dell’Associazione?
Ci sono molte prescuole negli Stati Uniti che si designano
come “ Reggio inspired”. Ricordo un articolo che analizza
questa diffusione, pubblicato un paio di anni fa da “Innovations in Education: The International Reggio Emilia Exchange”. È la rivista edita da anni da Judy Kaminsky e da me come
editore associato. Questa pubblicazione nasce dall’accordo
di Malaguzzi nel 1990 durante la visita a Washington, con
Eli Saltz Docente e Direttore del Merrill Palmer Institute di
Wayne State Univerisity, un ricercatore sostenitore delle insegnanti. Il primo numero è uscito nel 1992; più recentemente
la rivista viene pubblicata con una veste rinnovata da NAREA
North American Reggio Alliance, l’associazione di educatori
che sostiene la ricerca e la diffusione del Reggio Emilia.
L’influenza che oggi esercita il pensiero pedagogico di Loris Malaguzzi negli Stati Uniti è paragonabile alla portata
dell’interesse che si è generato prima ancora per la Pedagogia di Maria Montessori?
Decisamente si. L’interesse è molto simile a quello che si è
manifestato per le scuole e il metodo Montessori ed è un fenomeno interessante da osservare per evitare di ripeterne la
teatridellediversità
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Rubriche - Personaggi
Il bruco, simbolo dell’ Eric Carle Museum of Picture Book Art
storia. Poiché c’è stata l’idea di cercare di certificare le scuole
che in modo autentico rispettavano il pensiero e il metodo
di Maria Montessori e si è creata una competizione piuttosto
che una collaborazione tra i diversi gruppi Montessoriani creando molte interpretazioni e a volte divisioni che avrebbero
rattristato Maria Montessori a dir poco.
A grandi linee e molto sinteticamente, come si differenzia
il sistema educativo nei differenti Stati della Confederazione Americana? Oggi negli USA c’è un ampio e aperto
dibattito sulla funzione e il valore dei tests di apprendimento ai quali spesso la didattica è piegata attraverso una
logica efficientista (un dibattito molto vivo anche in Italia). Quale ruolo alternativo secondo te potrebbero svolgere le arti in educazione ?
Il tentativo da parte del governo federale di stabilire degli
standard nazionali nelle scuole pubbliche è molto recente e
molto contestato. Infatti alcuni Stati hanno richiesto e ricevuto l’esenzione da questi standards. La principale forma di
controllo risiede a livello di Stato ma anche a livello individuale negli Stati, non importa quali siano gli standards, la
qualità del programma educativo, perlomeno per quello che
misura “la preparazione dello studente”, dipende pesantemente dalla rispettiva ricchezza o povertà di ogni città o paese. Nonostante gli Stati contribuiscano alle scuole pubbliche,
il sostegno più significativo viene dalle tasse locali su case ed
edifici commerciali. Nelle grandi città c’è un grande mix di
poveri e ricchi. Mentre nelle tante piccole città con poche
prospettive di sviluppo le scuole tendono ad essere deboli; nei
sobborghi delle grandi città come Boston e New York, tendono ad esserci famiglie abbienti e di conseguenza le scuole
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pubbliche sono di alta qualità.
Quale ruolo educativo è possibile invece riservare al teatro
nella prima infanzia e nella formazione della persona in
generale?
In generale più che considerare il teatro un incoraggiamento,
nelle prescuole, in centri più avanzati viene dato valore all’espressione verbale dei bambini, dei loro pensieri o idee o nel
presentare il racconto di una storia inventata. Alle elementari,
una storia letta o il ruolo di un personaggio.
Nelle scuole medie e superiori si coltiva invece di più l’idea di
preparare rappresentazioni teatrali anche accompagnate dalla
musica e di sostenere un gruppo di bambini che stanno imparando l’uso di strumenti musicali per suonare insieme. C’è
quasi sempre un teatro anche piccolo o in condizioni approssimate in tutte le scuole pubbliche. Probabilmente è una delle
espressioni più soddisfacenti per la fine dell’anno scolastico
per molti bambini di tutte le condizioni.
Mi hai accompagnato a visitare il museo Eric Carle, creato qui ad Amherst nel Massachusetts nel 2002 dal noto
scrittore ed illustratore di libri per bambini, il quale si è
liberamente ispirato al lavoro di Reggio Emilia, ricontestualizzandolo. Quali sono i principi educativi che orientano il museo e l’Hampshire College adiacente, parte
dell’Hampshire College Cultural Village che mi hai riferito ispirarsi ad un’idea progressista di formazione degli
insegnanti?
Il Museo Eric Carle che è stato costruito su un terreno che
faceva parte dell’Hampshire College, una Istituzione Universitaria progressista dove il curriculum di studio degli studenti
Rubriche - Personaggi
Lella Gandini
LE RICERCHE A PISTOIA
(che hanno completato La High School) viene strutturato
con un piano di lavoro, studio e ricerca praticamente individuale tra un gruppo di professori e lo studente stesso.
Molte le pubblicazioni che hai curato anche qui negli Stati Uniti, spesso in collaborazione con affermati studiosi
dell’educazione della prima infanzia. A quali sei più affezionata e quali sono i tuoi attuali interessi di studio e le
prossime pubblicazioni in cantiere?
Il libro che ha avuto tre edizioni e moltissime traduzioni è
quello con Carolyn Edwards e George Forman: The Hundred
Languages of Children, I Cento Linguaggi dei Bambini. Lo
abbiamo pubblicato nel 1993, ha la mia intervista a Loris
Malaguzzi, ha tre edizioni in inglese ed è stato molto tradotto
perfino in lingua cinese, greca e araba. Ma forse sono altrettanto affezionata ad un libro che abbiamo scritto ed edito
con un altro gruppo di autori, (è il modo da me preferito
per scrivere), sull’Atelier di Reggio Emilia con la importante
partecipazione di Vea Vecchi. Come vedi quello che è stato
costruito e continua ad evolversi a Reggio Emilia è una fonte
essenziale di riflessioni e speranza sull’educazione dei bambini e dei grandi.
* Direttore della Rivista “Catarsi-teatri delle diversità”
Lella Gandini ha inoltre sviluppato un significativo lavoro nei programmi per
l’infanzia a Pistoia (anche in questo caso ispirati da Loris Malaguzzi). A partire
dal 1979, regolarmente, per almeno vent’ anni parallelamente al lavoro a
Reggio Emilia. Citando Egle Becchi dal volume “Una Pedagogia del buon gusto” (Franco
Angeli, Milano, 2010), Lella Gandina potrebbe essere descritta come “tessitrice
del collegamento di confine”, metafora utilizzata da Margaret Mead negli
anni 20 per descrivere la funzione della Signora Parkinson quando l’antropologa
di trovava nelle isole del Pacifico per una spedizione di ricerca: figura memorabile
di informatore , di personaggio di quella “cultura intermedia” o “cultura di
contatto” che si forma nell’ibridazione fra culture indigene e culture lontane
nello spazio e nel tempo.
“Il lavoro di Lella Gandini è stato, insieme, quello dell’antropologa che fa
ricerca e della tessitrice che informa: Lella infatti non si è limitata a fare
ricerca nell’universo delle scuole dell’infanzia pistoiese, dove ha indagato
fenomeni di oggi e brani di culture se vogliamo ibride perché illustrate ed
esemplificate dopo generazioni di espressione, di variazioni, di dimenticanza;
ma ha anche testimoniato – nei vari mondi che ha attraversato – la cultura
dei servizi pistoiesi per l’infanzia e delle loro circostanze. Tessitrice e studiosa
quindi, insieme, perché in ogni caso ha fatto indagine e testimoniato…. E
siccome la funzione di informatore che ha compiti di connettere ha pur sempre
dei tratti di educazione, vale la pena vedere come Lella ha educato – secondo
quanto dice Walter Benjamin (nel Programma per un teatro dei bambini) - “gli
attenti educatori”. (Egle Becchi)
Lella Gandini ha collaborato a portare a Pistoia anche una mostra di Eric
Carle, che accolse l’idea di incontrare le insegnanti per dimostrare il modo in
cui prepara le carte per i suoi collage. Abstract
WITH LELLA GANDINI , REFLECTIONS AND HOPES ABOUT
THE ROLE OF EDUCATION
A student of children’s folkways, Italian author and teacher Lella
Gandini is best known in the United States as the leading advocate for the Reggio Emilia approach to early-childhood education,
which emerged after the Second World War in Northern Italy—in the
town that gives this approach its name. Gandini’s many publications
in English and Italian include volumes on early-childhood education
and Italian folklore, and she is coauthor or coeditor of such works
as Insights and Inspirations from Reggio Emilia Stories of Teachers
and Children from North America; The Hundred Languages of Children:
The Reggio Emilia Approach to Early Childhood Education; and
Beautiful Stuff!: Learning with Found Materials.
teatridellediversità
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Rubriche – Teatro e Disabilità 1
CATANIA
RESPIRI E NON TE
NE ACCORGI?
Il nuovo spettacolo di Nèon Teatro, “Ciatu”, presentato al Teatro Antico di Taormina,
testimonia una originale modalità di fare teatro e di vivere
di Egle Zapparrata *
pur essendo ancora in grembo. Tutti si esibiscono in abilità e
arti che si miscelano. La maggior parte sono disabili, eppure
in Ciatu non è la diversità che domina la scena. Gli attori
sono attori. I cantanti sono cantanti. I musicisti sono musicisti. E i ballerini sono ballerini. Nel senso dato al respiro però
si somigliano.
Primo fra tutti, respira Giordano Bruno, che rivive in Ciatu
con il suo temerario pensiero, il suo è un vigoroso sguardo,
punta alla totalità delle cose, è sul palco e parla, soffre e combatte per farsi ascoltare, per esprimersi libero.
Ciatu è multilingue, non ha confini, neanche tra corpo e anima, né tra forza e debolezza. E’ lo spettacolo dell’essere in
divenire, dell’essere umani e dell’essere insieme.
Rimette in gioco le emozioni, più o meno liete, e le relazioni
con cui le persone si intrecciano.
Ciatu, Teatro Antico di Taormina, foto di Jessica Hauf
C
i sono spettacoli teatrali che durano circa un’ora e trenta minuti, ma non finiscono con la chiusura del sipario,
vivono e si evolvono nelle coscienze di chi vi partecipa.
Come Ciatu, che in dialetto siciliano sta per respiro, fiato, ma
non solo. In Sicilia si chiama ciatu anche chi si ama, perché è
importante, è vitale.
Ciatu è il titolo dello spettacolo che ha già esordito in agosto
2015 in prima nazionale nel cartellone del Festival Taormina
Arte al Teatro Antico, poi replicato al Teatro Stabile di Catania a febbraio 2016 e al Festival delle differenti abilità di
Polistena (RC). La compagnia che lo propone è Nèon Teatro,
nella città di Catania bagnata da un mare tanto dolce quanto
tempestoso e sovrastata da un’abbondante e materna Etna.
Nèon con i sui 27 attori mette l’anima di fronte al pubblico
ed il pubblico, solitamente in questi casi, con l’anima applaude. Gli elementi del gruppo sono diversi tra loro e spaziano
dai 106 anni alla non età, quella del cuore che batte e reagisce
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La regia di Monica Felloni, la direzione artistica di Piero Ristagno, la scrittura di Danilo Ferrari, Stefania Licciardello,
Manuela Partanni e Chiara Tinnirello sembrano conoscere
ogni singolo spettatore, dicono qualcosa che non avevano
ancora ascoltato, quel che rimane troppo dentro, in silenzio
e inesplorato. On line sono stati pubblicati alcuni contest
ed i post della “Soria del respiro” per anticipare sui social i
macrotemi di Ciatu. Il primo dei post stracondivisi è quello
dell’ ‘apnea’, si parte da una atmosfera liquida in cui gli attori
nuotano e respirano tutti, davvero tutti. Fanno un tuffo e
sottacqua il pubblico vede in loro ciò che serve per stare dentro e per stare fuori: il respiro, il sorriso, la sorpresa, l’istinto,
gli occhi spalancati. L’apnea suggerisce una rinascita, poi si
continua senza evitare di guardare cosa emerge – fiato dopo
fiato – nella vita di ciascuno.
Nèon ci ricorda che siamo vivi, purché ‘l’anidride carbonica
venga scambiata con l’ossigeno’. Per emulazione il pubblico
guarda e percepisce che nello spasmo dell’anima bisogna darsi
da fare, a qualunque condizione, respirare è come attingere
pace nel tormento. E poi c’è quel ‘la, la, la’ della spensieratezza, in scena entra il soffio della libertà di quella bambina che
sarò, e che chiunque può ancora essere, anche da grande. Alla
danza e al gaio vocìo dell’infanzia segue la consapevolezza, si
cercano risposte, è il momento della ‘parola’. Inizia l’affanno
Il gruppo di Nèon Teatro evolve ancora, è affermato già da
anni sulla scena dei teatri della diversità, sia in Sicilia che
in Italia, eppure con Ciatu sbalordisce come fosse uno sconosciuto, le scene sperimentali risultano sempre più potenti,
più di prima. Con gli occhi negli occhi, con il fiato nel fiato,
l’azione del palco si riverbera sulla platea, senza distanze o
interruzioni formando un reticolo di respiri vivi. Vedere per
credere.
* Giornalista ed esperta in progetti di ricerca nel campo della
disabilità
Abstract
REATH WITHOUT BEING AWARE?
èonTeatro chose the prestigious Teatro Antico in Taormina to
present its new production, Ciatu. It is a way of making Theatre,
a way of living, the good ready to be assimilated, cultivated, in
continuous transformation. It is a combination of actions full of
singing, poetry, images, music and dancing in a soft passionate
sequence. It is art that embraces the future, from which it extracts
essential lymph. Ciatu is time, space, variety of human beings. Inside everything is normal and special at the same time. All the twenty-seven actors, the spectators and Theatre are together, a single
entity which inspire life, eyes in the eyes, breath in the breath and
the action on stage resounds all over the audience without distances
or interruptions, giving birth to a reticulum of alive breaths.
N
Rubriche - Teatro e Disabilità 1
di quelle voci interiori, dei perché, perché, perché. Nascono
domande che irrompono sui silenzi. Parole che vibrano, scuotono, sgretolano la sedimentata superficialità umana. Nèon
cresce e invita a crescere, è forte. Dal beato rifugio della fanciullezza si alza una ‘voce’ che ha ritmo, è determinata, è disillusa, è più adulta di quanto si possa immaginare. E poi c’è
il dolce sospiro della “preghiera” detta guardando alle stelle
in quei giorni giusti. E si innalza un ‘canto’ superlativo. Che
dono quello delle note acute di Alfina Fresta nel celebrare il
Sole, in alto sorge ogni giorno, per tutti, nessuno escluso. E si
alza anche il volume della musica, con una danza provocante,
tacchi a spillo sensualmente trascinano in scena una sedia a
quattro ruote, fianchi che si muovono, come quelli di Emily
Reitano e senza accorgertene con lei balli anche tu. In Ciatu
è contagioso anche l’anelito di chi sa sorridere come Enzo
Malerba, che guardando il pubblico dritto negli occhi, lautamente, riesce a dirgli “io sono stupendo, sono Miss Italia”.
CIATU
NON LAVORIAMO
SULLA MANCANZA
MA SULLA PERFEZIONE
Intervista all’autrice e regista dello spettacolo
di Egle Zapparrata *
É
fuxia il vivace taccuino su cui la regista Monica Felloni
ha delineato la perfetta forma di Ciatu. Incanta sapere
che, per caso, il fuxia è diventato il colore leit motiv di
ogni layout divulgato per lo spettacolo. Ma lei sa che il caso
non è mai un caso. La regista siede comoda mentre parla di lei,
del suo pane quotidiano, del teatro. Dentro Monica Felloni ci
sono tutte le persone che ha incontrato. Ama e s’arricchisce del
confronto puro. La sua espressione è accogliente. La sua voce
non è mai uguale, segue la curva delle sue emozioni. Parla e
snoda una matassa di relazioni che tesse ogni giorno e che poi
porta in scena.
L’attrice è nata a Ferrara, è cresciuta a Bologna, ha viaggiato per
tutta Europa e vive in Sicilia con Piero Ristagno. Con lui nel
1985 ha dato inizio alla sua ricerca e ha dato vita alla compagnia
Neon Teatro.
L’opera della sua regia non è mai uguale; è precisa e universale;
arriva dritto dritto al cuore del pubblico.
Mentre si racconta sembra di vederla salire e scendere da botole
segrete, si catapulta in nuovi mondi, simili ma diversi tra loro.
Va avanti e torna indietro, esplora ogni angolo, cerca e trova
energie che la rendono più forte, non si arrende di fronte agli
ostacoli, rischia. Interagisce con nuovi personaggi, nuovi colori,
nuove forme, nuovi salti, nuovi muri da abbattere, nuovi obiettivi, nuovi cieli, nuove mosse, nuovi punti di slancio.
Monica supera e raggiunge altri livelli. Non sente dolore quando, sopra e sotto il palco, polverizza gli stereotipi, lo fa con gentilezza e sobrietà. Vive la diversità senza incorniciarla, cerca l’unicità in ogni essere, lei ne fa teatro e Piero accanto ne fa poesia.
Cosa ha la Sicilia che ti appartiene?
«È una terra molto forte, piena, calorosa, qui esiste il mito, ci
sono delle radici, c’è accoglienza, ha il mare, c’è libertà. Ho
sentito queste cose, sono sale per me, ho detto a Piero: stiamo
qua».
Nella vita, al tuo fianco c’è Piero. Come nasce questo legame
teatridellediversità
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Rubriche – Teatro e Disabilità 1
Ciatu, Teatro Antico di Taormina, foto di Jessica Hauf
tra il teatro e la poesia, tra te e Piero?
«Di fronte al rischio di ogni mia idea che proietto sul teatro
lui dice sì, sempre sì. Mi ha dato lo spazio, ad ogni sì, segue
una grande scoperta! Ci siamo chiesti “Perché teatro? Cos’è?”.
Abbiamo cercato un’espressione universale, abbiamo trovato
vari linguaggi creativi e ci siamo dedicati alle relazioni tra i
parlanti. Crediamo che ciascuno può portare il pubblico da
qualche parte. Non c’è un messaggio, non c’è un messaggero,
non c’è un solo codice. Facciamo una sintesi. L’azione creata
insieme, con Nèon Teatro, rivela un aggregarsi di energie che
sprigionano un’emozione forte e simultanea, come avviene
con le particelle del mercurio. Sentiamo la necessità, l’istinto,
l’urgenza, il desiderio, l’intuizione dell’espressione dell’altro e
del bisogno dell’altro. Siamo imbevuti nel dire la parola di chi
non può parlare, nell’alzare il braccio di chi non può alzarlo.
Non c’è distanza tra noi e gli altri, c’è un collante. È il vincolo
d’amore. Traspare, accade e prende forma. E’ come un sapore,
viviamo nella curiosità di scoprire come ciascuno lo sente e lo
esprime. Anche il pubblico, può accoglierlo e interpretarlo a
modo proprio”.
Chi entra a far parte di Neon vive una metamorfosi?
Dentro Nèon ti senti parte del mondo e dell’umanità, puoi
anche stare fermo dietro le quinte per un’ora, ma ti senti sul
palco. Chi vuole salire sul palco, lo sappiamo, è vanitoso! La
differenza, con Nèon, sta nel come vuoi essere sul palco. Se la
richiesta è sempre “io? la mia parte? cosa faccio? posso farlo solo
io!”, lì c’è qualcosa che non va. Con Nèon, sia nelle audizioni
che in scena, questo non esiste. Ecco cosa c’è di pazzesco. Non
c’è un sistema selettivo, non c’è competizione, non c’è neanche
compensazione. Non puoi parlare tu, parlo io, ma sono la tua
voce. Noi non lavoriamo sulla mancanza, ma sulla perfezione.
Ognuno emerge per la sua unicità, non per la sua superiorità,
non per la sua inferiorità. Ognuno mette a disposizione una
risorsa, ognuno è perfetto, ognuno piace per quello che è».
Come hai maturato l’esigenza di esprimerti nel teatro della
diversità?
«Un giorno a Catania in Piazza San Domenico fui rapita
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dai gesti, dagli sguardi, dall’interazione di alcune persone.
Straordinario. Lo dissi a Piero. Erano sordi. Sentii l’istinto
di esplorarne il linguaggio, l’espressione, la relazione. Iniziai
a lavorarci e capii che tutto era possibile. Maturai quanto è
importante avere nel dialogo un’attenzione reciproca, se mi
distraggo c’è qualcosa che mi sto perdendo. Nel dialogo c’è una
straordinaria contemporaneità di azioni ed emozioni, ognuna
vive senza sovrapposizione, questa realtà andava aperta e vissuta
in scena. Prima i sordi. Poi i Down, che ti sembra stiano fuori
dall’interazione e invece sono dentro più di quanto immagini.
Poi i bambini, con il loro spontaneo proporsi. Poi le donne
incinte, il corpo che cambia, le pance, la vita che nasce. Quanto
di straordinario ci hanno dato, quante grandi rivelazioni! Vivo il
desiderio e il bisogno di aprirmi all’unicità di ciascuno. Per farlo
bisogna ascoltare e seguire una disciplina della creatività; è cosi
che insieme creiamo nello spettacolo un’incredibile armonia di
cui ognuno ha cura».
C’è un pubblico che conosce Nèon Teatro. E poi c’è chi sceglie un altro teatro. Potete arrivare a tutti?
«Certo. Noi siamo tutti e ci proviamo ad arrivare a tutti. Anche
in televisione, quante volte mi hanno detto “aspetta aspetta…”.
Ma poi le parole sono queste: “è forte! certo… epperò… fa impressione … aspetta Monica… non siamo pronti… Alfina…
Danilo... aspetta… il pubblico non è pronto…”. Chi può decidere chi non è pronto al nostro teatro? Ognuno decide. Non
è detto che vedi qualcosa perché sei pronto, anche chi ci vede
può non essere pronto. Ognuno rischia. La nostra non è una
provocazione, noi non diamo uno schiaffo allo spettatore. Nella
previsione di una reazione da parte del pubblico ognuno sceglie
un modo e usa un mezzo per dire delle cose, instauriamo un
rapporto di fiducia. Ed anche se sul palco, con i nostri attori,
potrebbe accadere di tutto, non lasciamo nulla al caso. In Nèon
c’è un’intensità, c’è la potenza, c’è gentilezza. Lo spettatore vede,
ascolta, vive, vibra, digerisce, reagisce, e se ci segue invita anche
altri dicendo “devi venire, non ti posso spiegare, ma devi venire”. Il nostro pubblico - quando si sente a proprio agio - vuole
conoscere e far esplorare anche gli altri, vuole scoprire e condi-
Rubriche - Teatro e Disabilità 1
Ciatu, Teatro Antico di Taormina, foto di Jessica Hauf
videre. Come noi, nel nostro teatro, il pubblico è protagonista».
Cosa era ieri e cosa è per te adesso il teatro?
«Il teatro era la mia religione, potevo scegliere da attrice di
andare avanti nei meandri della notorietà. Ma essere famosi,
gli applausi, la danza, non mi bastava, chiuso il sipario cosa
rimaneva? Poco, troppo poco per me. Ho sentito la necessità di
andare oltre quel teatro, non mi dava abbastanza, era fine a sé
stesso. Ho scelto di tornare in Italia dove mi piace il suono della
parola. L’impegno? È quello di cercare e condividere qualcosa
di più prezioso e vitale, andare alla ricerca dell’essenza: seguo
l’indole di condividere la vita nel teatro. Bisogna abbatterne i
confini, possiamo sentire le vibrazioni del teatro in ogni sua
forma, nella danza, nella poesia, nella musica, perché sceglierne
solo una? Il teatro va scasellato, va liberato. Ho iniziato la mia
ricerca con Piero. Col tempo ho sentito la necessità di prendere
in mano le cose. Quella della regia è stata una scelta faticosa,
ho trovato un modo per farlo senza rinunciare al palco. Come
quando lasci i figli, quando ho in mano la regia, devo sempre
esser certa di aver pensato a tutte le cose prima di avere uno
spazio mio come attrice. E anche quando sono fuori scena,
sono dentro. Mi sono dovuta inventare la regia. Parto sempre
dall’ascolto, del sé e dell’altro. Cerco il cuore, mi sono allenata
ed ho imparato a riconoscerlo, ne sono testimone. Con Neon
lanciamo al pubblico parole che non sono solo parole, come
quando lanci un bambino: qualcuno è sicuro che lo prende,
non c’è timore, è grande la fiducia nello spettatore, non cade,
ne siamo certi. Il teatro è un terreno fertile, dentro c’è una relazione aperta: tra loro, tra loro e me, tra loro e il pubblico,
tra noi e il pubblico. Adesso ogni spettacolo è un arrivo e una
partenza, è dare e ricevere. Anche il contenuto prende forma nel
tempo, è mutevole e coinvolge. I testi evolvono, li scrive Piero,
li scrive Manuela, li scrive Stefania, li scrive Danilo. Ognuno
crea in sé, con l’altro, per l’altro, nell’altro e poi si esprime. E nel
momento in cui la creatività si esprime bisogna raffinarla: devi
mettere e togliere, va approfondita, va pulita, ma è già nello
spettacolo! Uno legge l’altro. Nel mio modo attuale di intendere il teatro niente appartiene a uno solo, tutto appartiene a
tutti ed è per il pubblico. In scena va l’emozione, valorizziamo
la nostra libertà creativa, quando si arriva al sublime che va in
scena, tra noi è come dirsi “Guarda che io so di te, sei stato tu,
ti ho visto”. Ma devo stare attenta. Arriva un momento in cui,
anche loro, entrano in crisi, di fronte al pubblico si chiedono
“Non mi guardi più, non ti vado più bene, dove sei, conferma”.
Ecco che arriva la mia voce, io ci sono. E non solo io. C’è Piero,
Stefania, Manuela, Maria Stella, Giovanni, Ester, Jessica, Sofia,
Luca, Chiara, Danilo, Luca, Emanuela, Patrizia, Alfina, Enzo,
Carmelo, David, Emily, Gaia, Kevin, Dalila, Roberta, Antonio,
Maurizio, Marta, Aldo, Francesco, Segoléne, Gaetano, Zagara.
Tra noi non c’è niente di slegato. Noi ci siamo, e siamo un
corpo solo».
* Giornalista ed esperta in progetti di ricerca nel campo della disabilità
Abstract
DO NOT FOCUS ON MISSING, BUT ON PERFECTION
he actress and director Monica Felloni was born in Ferrara, she
has traveled throughout Europe and now she lives in Sicily with
Piero Ristagno. In 1985, they started together theri research and
gave birth to Neon Teatro. Monica’s direction is precise and universal. She comes straight to the heart of the public. She does not
surrender to obstacles, she hazards. Monica looks for and finds
energies inside and outside the theater, and she becomes stronger.
She does not feel pain when, above and below the stage, stereotypes
are pulverized. She does it with kindness and simplicity. She lives
the diversity without to frame it, but seeking the uniqueness in every
being. So she creates theater, with his accomplice Piero, and together
they turn it in poetry. With her styl,e she works on the action on
stage until it has the perfect form. She inspires, enchants to communicate her vision, she feeds and combines with all interpreters’
lives. They all become one, they have a single ‘Ciatu’ (breath).
T
teatridellediversità
41
Rubriche - Teatro e Disabilità 2
MAURIZIO LUPINELLI
IL RUMORE
DELLA VITA
Intervista all’attore e autore, fondatore di Nerval Teatro insieme a Elisa Pol, dopo la
lunga esperienza con il Teatro delle Albe
di Eleonora Firenze*
Attraversamenti, Nerval Teatro, foto di Ilaria Scarpa
“H
o scoperto nel lavoro con i disabili cose straordinarie: cose nelle quali magari non c’è razionalità,
ma c’è un loro modo di comunicare che io chiamo
il rumore della vita”. Cit. Massimo Marino Un teatro della
fragilità in La Ferita Longo Editore Ravenna.
Questo dice Maurizio Lupinelli. Premio UBU nel 2001 come
miglior attore italiano nello spettacolo Ella di Achternbusch.
Membro del Teatro delle Albe dal 1990 e di Ravenna Teatro,
nel 1991 fonda con Marco Martinelli la Non-Scuola, esperienza teatrale negli istituti superiori di Ravenna. Dal 1997
inizia a lavorare con ragazzi portatori di handicap sia fisico sia
psichico. Nel 1999 a Lerici (SP) inaugura una collaborazione
con il centro disabili Pl.e.ia.di.
Nel 2006 Maurizio Lupinelli lascia il Teatro delle Albe e fonda
Nerval Teatro con Elisa Pol nel 2007.
Debutta ad Armunia Festival Costa degli Etruschi con lo spettacolo Marat, tratto dal Marat-Sade di Peter Weiss con 40
personaggi tra attori diversamente abili della Bassa Val di Cecina e dello spezzino e studenti della Non-Scuola di Ravenna.
Nel 2009 inizia dei laboratori con i ragazzi diversamente abili
42
del Consorzio Nuovo Futuro di Rosignano Marittimo (LI) e
un gruppo di ragazzi e adulti ospiti dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. Esperienze che sfociano in Amleto!, liberamente tratto da Amleto di William Shakespeare,
prodotto da Armunia con Olinda, che debutta alla Festa del
teatro di Milano. Nel 2010 firma Appassionatamente, tratto
dai testi di Werner Schwab. Nel 2011 dirige Psicosi delle 4 e
48 di Sarah Kane che debutta al festival Inequilibrio di Armunia ed è direttore artistico di Teatro Portasud, un progetto
di teatro e comunità per i cittadini dei quartieri degradati di
Marghera. Nel 2012 è al festival Inequilibrio con Che cosa sono
le nuvole, tratto dal cortometraggio di Pier Paolo Pasolini. Vi
lavorano 13 attori diversamente abili, utenti della Cooperativa
Tre, Consorzio Nuovo Futuro di Rosignano Marittimo.
Dal punto di vista teatrale, cosa ti ha spinto verso il coinvolgimento di persone con disabilità nella composizione
del cast dei tuoi lavori?
Parto dal presupposto che all’inizio, siamo nel 1995, il rapporto con la disabilità era un progetto a sè rispetto al mio percor-
Rubriche - Teatro e Disabilità 2
Attraversamenti, Nerval Teatro, foto di Ilaria Scarpa
so artistico. A quell’epoca lavoravo con il Teatro delle Albe;
quando nel 2006 mi staccai per fondare Nerval Teatro assieme
ad Elisa Pol, cominciai a rendermi conto che il lavoro con
queste persone straordinarie poteva incrociarsi con il percorso
della compagnia appena sorta. Quindi credo che il coinvolgimento di queste persone negli ultimi anni sia stato un fatto
del tutto naturale e rientra nel disegno della creazione della
compagnia in quanto attori.
Se ci sono state delle difficoltà di che natura erano? Quali
invece gli aspetti che hanno migliorato l’aspetto rappresentativo?
Non ci sono state grosse difficoltà se non quelle del tempo, col
gruppo dei ragazzi di Castiglioncello lavoro dal 2005 in un
progetto che ci ha permesso di lavorare tanto assieme. Quindi
abbiamo avuto la possibilità di conoscerci e di instaurare un
rapporto di fiducia, dandoci la possibilità anche di sbagliare,
che in teatro è un lusso. Dico sempre: “Inciampare nel teatro
è un dono“. Quindi credo che la grande sfida sia quella di
aver avuto la presunzione di credere che tutto fosse possibile
e il “tempo” è l’unica garanzia… A volte ai ragazzi dico di
darsi un tempo e di non aver fretta, di lasciare che tutto
possa da un momento all’altro emergere. È il mistero che
ci deve assalire. Lo dico perché dopo anni di lavoro con
loro, a stretto contatto, mi sembra, o c’è la presunzione di
affermare, di essere molto vicino all’antico, agli antenati e
quindi di essere attaccato alla vita.
Quanto “l’imperfezione” è importante dal tuo punto
di vista?
Credo che sia una delle cose più importanti del mio lavoro. Penso che l’atto creativo insieme all’agire scenico siano
i fondamenti per ricercare i misteri della scena, la sua alterità, il non detto, il buio, l’inciampo, l’attraversare i limiti,
il sondare la coesione di corpi così differenti sulla scena, le
sue difficoltà, i suoi limiti.
C’è un risultato prioritario che intendi raggiungere?
Di che natura è? Sociale, politico, artistico? Un insieme
dei tre?
teatridellediversità
43
Rubriche - Teatro e Disabilità 2
Ho sempre pensato che l’unica strada sia quella di arrivare alla
creazione dell’opera con tutte le sue difficoltà, non mi sono
mai posto il problema se fosse sociale o politico ecc.. Quello
che conta è l’atto creativo, che ci porta dritto alla messa in scena, o meglio alla messa in vita. Il tutto avviene solo se c’è una
grande consapevolezza da parte del nucleo artistico a seconda
del progetto. Faccio un esempio. Non in tutte le creazioni partecipano tutti i ragazzi con cui lavoriamo. Certe volte vengono scelti solo alcuni in base alle caratteristiche e alla capacità.
Questo significa anche una crescita e una grande consapevolezza. Credo che sia un notevole segno di maturazione del
gruppo, ma non solo, anche degli operatori e delle famiglie.
Quali sono i parametri per la scelta degli autori da rappresentare? C’è un legame con il cast?
Non c’è nessun legame per il testo nè tra gli attori normodotati nè quelli diversamente abili. Forse solo nella prima produzione del 2007 Il Marat Sade. Li c’era una forte aderenza
tra gli attori e il testo. Un lavoro corale che vedeva in scena
cinquanta attori, di cui trenta diversamente abili e mi vedeva
in scena in qualità di regista nei panni del divin marchese. In
altre occasioni le scelte dei testi erano legati al percorso che
intraprendevo rispetto al lavoro dell’attore e del tipo di messa in scena. Autori come Buckner, Pasolini, Schwab, Beckett,
Aristofane ci hanno permesso di attraversarli, di renderli molto vicini e anche di capirli, nel senso di rovesciarli, andando
all’origine, “universali”. Quando parlo di origine intendo l’antichità dei corpi degli attori con cui lavoro da anni sulla scena.
A luglio di quest’anno il debutto nazionale, al Festival Inequilibrio di Castiglioncello, di Attraversamenti, ispirato ai
personaggi di Samuel Beckett, dopo tre anni di laboratorio coi ragazzi disabili della Cooperativa sociale Nuovo
Futuro. Sono dieci anni in realtà che lavorate con questi
ragazzi. Qual è la ricchezza di questa performance teatrale
rispetto ad un lavoro tradizionale?
Mi ripeto, ma è la grande consapevolezza che solo il tempo dà.
È vero, questo spettacolo è il frutto di un lavoro molto lungo,
ma avevamo bisogno di soffermarci sul lavoro dell’attore in
scena e i testi di Beckett ci hanno dato la possibilità di scoprire
e di rafforzare la loro presenza e di mettere ancora di più in
risalto la consapevolezza e la libertà dell’agire scenico, a partire
dai personaggi stralunati di Beckett, scoprendo una grande
vicinanza al mondo delle diversità.
Quali gli aspetti scenografici e come arrivi alla loro ideazione?
Anche in questo caso per quanto riguarda la scenografia va di
pari passo con l’andamento delle prove, a partire dalle suggestioni degli attori , deve essere tutto necessario. Non è facile. A
volte mi diventa anche un incaglio, se non abbiamo l’oggetto
giusto, la scena non va avanti. È cosi anche per le luci, tutto
deve essere necessario, come per le azioni degli attori, gli abiti,
insomma tutto deve essere organico e solo il tempo lo rende
possibile.
Nerval Teatro è supportato economicamente da qualche
struttura pubblica?
Nerval Teatro è una compagnia toscana, dal 2006 ha una residenza artistica presso Armunia Castiglioncello (Li ) ed è
sostenuta dalla Regione Toscana.
Qual è l’affluenza di pubblico ai vostri spettacoli?
Di solito l’affluenza è quella delle stagioni di teatro contemporaneo, mentre per le prime abbiamo la fortuna di debuttare ad
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un festival come Inequilibrio, che è uno dei più importanti in
Italia, seguito da molti operatori, critici e studiosi, negli anni
siamo andati in stagioni importanti in Italia. Per citarne qualcuna, Ravenna, Milano, Roma, La Spezia, Bologna. Anche
all’estero, in Francia, in alcune scene nazionali, La roses des
Vents Lille, Theatre Duance , theatre 3bsf a Aix en Provence.
Recente è la pubblicazione del libro La Ferita. Me ne vuoi
parlare?
Era da tempo che ci pensavo, ed è stato il professor Gerardo
Guccini del Dams di Bologna che ci ha dato l’idea del libro,
curato di Marco Menini edito da Longo Editore.
Sostanzialmente è un libro che ripercorre per tappe il mio percorso artistico in tutti questi anni, fatto d’incontri e luoghi
particolari. La cosa interessante è che a parlarne sono persone
che ho incontrato lungo il cammino e che in qualche modo
hanno condiviso e aiutato. Figure come Marco Martinelli, regista e drammaturgo, con cui ho condiviso un pezzo di strada
a Ravenna col Teatro delle Albe, Massimo Paganelli direttore
di Armunia a Castiglionello, ora in pensione. Come Renato
Bandoli a La Spezia, con cui iniziai l’esperienza con i ragazzi disabili prima a Ravenna e poi a La Spezia e lo psichiatra
Tomas Emmeneggher, responsabile dell’ex manicomio Paolo
Pini di Milano, ora Olinda, presso il Teatro La Cucina, inaugurandolo nel 2008 con lo spettacolo Marat Sade. Collaborazione che proseguì per due anni, lavorando ad un progetto
dal titolo L’incontro Mancato con alcuni ex pazienti del Paolo
Pini. Ma anche figure come Maurizio Iacono, filosofo e docente presso l’università di Pisa , uno scrittore come Antonio
Moresco, Gerardo Guccini docente universitario del Dams di
Bologna, alcuni giornalisti come Massimo Marino, Andrea
Nanni critico e studioso, Marco Menini in qualità di curatore
e studioso.
Attualmente ci sono delle riprese di tuoi spettacoli. Quali
sono i prossimi progetti?
Per il momento stiamo portando in giro Psicosi delle 4 e 48 di
Sarah Kane e Canelupo Nudo, un omaggio a Werner Schwab,
un autore che amiamo molto. Presto riprenderemo Attraversamenti tratto liberamente da Beckett con tutto il gruppo degli
attori diversamente abili, mentre per la prossima stagione lavoreremo ad una nuova creazione dal titolo Quando un testo di
Lucia Calamaro. In scena Elisa Pol, attrice e fondatrice insieme a me di Nerval Teatro. www.nervalteatro.it
* Regista, studiosa in Scienze dello spettacolo e comunicazione
multimediale
Abstract
MAURIZIO LUPINELLI AND “NOISE” LIFE
ctor since 1986, UBU prize winner in 2001, Lupinelli started Nerval
Theatre with Elisa Pol in 2007, after the experience with Albe Theatre.
Convinced that ” in “imperfection” lives the real opportunity for theatre
to be alive, he started to work with disabled people in 1997, reaching
incredible results. The authors choosen - Buckner, Pasolini, Schwab,
Beckett, Aristofane - allowed him to upset the texts,to find universal
meaning and the origin of things, considering the origin as the body of
the actors he works with. The freedom of theatrical acting remains
evident for their purpose, discovering a great closeness to diversity
world.
A
SULLE TRACCE DI IPPOCRATE
NELL’ISOLA DI KOS
In epoca greca il medico inviava i suoi pazienti a curarsi sull’isola di Kos. A fianco alle cure
dirette che riguardavano l’equilibrio degli umori del corpo e in stretta connessione con
essi, ai pazienti era prescritta la visione di tre tragedie e una commedia.
Rubriche - Teatro e Salute
TORINO
di Alessandra Rossi Ghiglione *
Ospedale San Giovanni, Torino, antica sede
A
questo primo, antico e suggestivo caso di teatro e salute
(1) si sommano alcune scoperte contemporanee in ambito scientifico che aprono nuovi e importanti spazi di
riflessione per le pratiche teatrali (2). Le persone che partecipano
ad attività culturali vivono più a lungo e si ammalano di meno,
dice una recente ricerca finlandese (3). Se poi a queste attività
partecipano in gruppo si sentono ancora meglio, come sostiene un’altra ricerca italiana (4), e poiché è stata dimostrata una
correlazione tra benessere percepito e salute, è molto probabile
che stiano effettivamente meglio. Chi ha legami ed educazione (literacy) sta meglio di chi non ne ha - a parità di tutto il
resto - perché esiste una correlazione stretta tra capitale sociale,
capitale culturale e benessere (5). La cultura e l’arte, sostengono
studiosi quali Rodotà e Zagrebesky, sviluppano processi di cittadinanza attiva, di libertà e di democraticità. Le recenti scoperte
dei neuroni specchio spiegano alcuni processi fondamentali del
teatro, quali l’immedesimazione e la catarsi. L’epigenetica sta
studiando come i comportamenti possano avere un effetto sulla
realizzazione del nostro DNA, e, dunque, anche la salute che è
iscritta nei nostri geni. (6)
Penso che questi dati scientifici ci interessino molto come persone di teatro. Riguardano un’antica domanda sul potere del
teatro. Domanda che si è posta con la separazione nel Cinquencento tra Medicina e Arte. Nel mondo antico la scena della cura
era una scena integrata: medicina, spiritualità, rito costituivano
un sapere unitario. L’uomo era considerato un essere intessuto
di materia, mente e spirito, partecipe della natura e connesso
fortemente con la divinità, che si manifestava in lui e nell’universo. Le pratiche di salute si occupavano dunque della salus,
ovvero della salvezza tutta dell’uomo e tutte le arti erano ritenute pertinenti ed efficaci alla ricerca di questa salute. Tra queste
anche l’arte teatrale.
Oggi questa domanda sul potere del teatro è più che mai importante. Non riguarda questioni di impegno politico dell’arte,
che avevano un senso nel Novecento. La sopravvivenza stessa
dell’uomo, del pianeta in cui vive, di una civiltà che si possa ancora dire umana ci obbliga – qualunque sia la nostra professione
- a chiederci quali sono gli effetti delle nostre azioni e quale sia
il nostro potere di cambiamento facendo ciò che sappiamo fare.
Sono convinta che un certo teatro, un teatro partecipato e di comunità, fatto da professionisti e persone insieme coinvolti nella
creazione artistica possa essere un dispositivo di grande potenza.
Alcuni professionisti della sanità cominciano a riconoscere nel
teatro uno strumento efficace; le diverse metodologie teatrali
- dal teatro dell’oppresso al teatro della spontaneità al teatro
epico, dal teatro di parola al teatro sociale e di comunità - si
affiancano a processi terapeutici convenzionali. E sembrano anche - e forse sorprendentemente - funzionare bene. E’ una medicina avanzata, quella che non pensa più di possedere la totalità
delle tecniche ma è aperta a integrare nel proprio strumentario
le molte risorse che si affacciano da altri mondi. Anche per il
teatro si prova a darne una collocazione ufficiale nell’ambito
teatridellediversità
45
Rubriche -Teatro e Salute
Corso di infermieristica
degli strumenti utili a fare salute, sottoponendolo ai processi
di validazione scientifica. Da questa esigenza nasce, fra gli altri,
il progetto Co-health (www.cohealth.it) del Social Community
Theatre Centre dell’Università Torino (www.socialcommunitytheatre.com) che si pone l’obiettivo si sperimentare e valutare
pratiche teatrali nella formazione dei professionisti della salute.
Eppure qualcosa sembra sempre sfuggire. Anche quando il teatro è agito come tecnica, non è mai afferrabile in tutta la sua
complessità poiché i fattori messi in gioco dalla creazione teatrale anche nel più semplice degli interventi teatrali sono in realtà
sempre moltissimi. Il teatro è un dispositivo multimodale che
muove molti livelli esperienziali: attraverso il training muove
il corpo come unità integrata psicofisica, sviluppa relazione tra
persona e ambiente/spazio e tra persona e persona, suscita l’immaginazione, mette alla prova la dialettica tra ruolo e identità,
parla per simboli e riti, e soprattutto allena al pensiero in azione
e alla complessità. Forse però la questione è più radicale. E se
il teatro non fosse uno strumento, ma un sapere anche quando
viene inserito in contesti che lo considerano uno strumento. Se
la pratica teatrale rimandasse sempre a un apparato concettuale
e di pensiero/visione del mondo irriducibile nella sua natura
ultima a quello della scienza medica? E se proprio in questa sua
differenza di statuto risiedesse la sua fecondità per l’arte della
cura? Parlare di teatro come di strumento è come voler definire
la medicina uno strumento. Il gastroscopio è uno strumento,
la gastroscopia è una tecnica, la diagnostica invasiva è un metodo; così il costume è uno strumento, l’improvvisazione è una
tecnica, e il teatro dell’oppresso un metodo. Ma il teatro che
pur si avvale di numerosi strumenti e tecniche, che si organizza
storicamente in molti metodi, è in sé qualcosa di molto più
complesso di una tecnica o di metodo. Il teatro è arte, e come
ogni altra arte è via alla bellezza. Il teatro è anche ‘un’arte’ ovvero
un artigianato: un sapere, una visione, una pratica e una tecnica. E’ l’arte del simbolo in azione. Più di ogni altra arte conosce
e rivela l’intima dimensione simbolica dell’uomo stesso e della
sua vita e il suo essere intimamente drammatica.
* Drammaturga e regista, studiosa di teatro sociale e di comunità
46
Note
1 Parlando di salute ci riferiamo alla definizione datane già
dal’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 -“la salute è
uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non
consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità”.
2 Le considerazioni qui esposte sono più ampiamente trattate
in Rossi Ghiglione A. (2011), Teatro e salute. La scena della cura
in Piemonte, Torino, Ananke; Rossi Ghiglione A. (2014), Arte,
benessere e partecipazione, in De Biase (a cura di), I pubblici della
cultura, Milano, Franco Angeli.
3 Hyppa, M. T., Maki, J., Impivaara, O., Aromaa, A. (2006),
“Leisure participation predicts survival: a population-based
study in Finland”, Health Promotion International, 21, 5–12.
4 Grossi E., Sacco P., Tavano Blessi G., Cerutti R. (2010), “The
Impact of Culture on the Individual Subjective Well-Being of
the Italian Population: An Exploratory Study”, Applied Research
in Quality of Life, November.
5 Cooper H., Arber S., Fee L., Ginn J. (1999), The influence of
social support and social capital on health: a review and analysis of
British data, London, Health Education Authority.
6 Bottaccioli F. (2014), Epigenitica e Psiconeuroendocrinoimmunologia, Milano, Edra.
Abstract
DURING THE GREEK PHYSICIAN HIPPOCRATES SENT HIS
PATIENTS TO GET TREATMENT ON THE ISLAND OF KOS.
longside the direct care, patients were prescribed the vision of three
tragedies and a comedy. This first, ancient and fascinating case of
theatre and health, opened the path to today numerous experiences
of theatre in the contexts of care and health promotion; some are
scientifically evaluated. Theatre is a multimode device that moves many
living experiences, creating correlations between cultural capital and
social capital and highly effective in producing changes in individuals
and community
A
Rubriche - Poesia
BOSTON
DANIELLE LEGROS GEORGE:
POETA IN CITTÀ
Secondo Poeta Laureato della città di Boston dopo Sam Cornish, arriva in Italia l’autrice,
di origine haitiana che crede nel valore pedagogico della scrittura che promuove un
cambiamento della società
di Walter Valeri*
Danielle Legros George
I
primi poeti afro-americani cercavano di scrivere come i
bianchi, per lettori molto colti e soprattutto bianchi. Nelle
antologie a margine solo una nota biografica lasciava intendere che l’autore era di colore. Phillis Wheatley faceva il verso
a Pope e Countee Cullen a Keats e Housman. Ci vollero anni
e lo straordinario talento di Langston Huges e Jean Toomer
perché la poesia afro-americana diventasse se stessa. Di seguito
fiorirono a decine le antologie con il meglio della poesia nera,
edite in forme aggressive e rigorosamente separate; riflesso letterario di una società razzista che non poteva negare l’esistenza
di poeti di colore. Poeti che attingevano dalla vita del ghetto,
dalle strade, dal jazz e dal dolore della discriminazione. Quelle
antologie erano e sono il segno dei tempi che cambiano, che
passano dalla discriminazione più bieca ad una società consumistica non meno crudele, apparentemente pluralista; sino
alla terza edizione della Northon Anthology of African America Literature del 2014, che in due ponderosi volumi sembra
pareggiare il conto. A testimoniare che giustizia è fatta, almeno sulla carta. Ora, se il conto è saldato, che ci fa una poeta
afro-americana in giro per la città con fervore militante, in
mezzo agli altri, fuori dalle pagine di un’antologia che non
vedrebbe l’ora di accoglierla e in qualche modo storicizzarla?
“ Credo che il mio ruolo sia quello di demistificare la poesia,
renderla comprensibile e quindi necessaria per la gente. Per
quelli a cui non è chiaro cosa pensare di lei.” Un’impresa che
detta così può far tremare i polsi, ma non quelli di Danielle
Legros George, afro-americana di origine haitiana, secondo
Poeta Laureato della città di Boston dopo Sam Cornish. “Il
poeta non può parlare sempre e solo di sé, almeno non credo
debba essere così”. Difficile contraddirla, perché per un poeta
vero la realtà esiste. Unico privilegio: quello di poterla descri-
vere, trascriverla come fosse la prima volta, con lampi di luce
e squarci di colore non ordinari. “ Stava il ciliegio con le sue
gocce rosse/privilegiatamente dimenticato e dimentico/tra piante
qua e là per sbaglio ferite, tra fosse/di granate e il bruum delle
artiglierie ardenti” ha scritto Zanzotto parlando di Comisso,
concludendo “di Giovanni e del ciliegio il privilegio/lascia ad
ogni vivente, o umanità”.
La poesia, benché sia un privilegio, non è luogo di pura rapina
o vaga ispirazione. Non lo è mai stata. “Il poeta ha un compito ben preciso da svolgere nella città in cui vive” aggiunge
Danielle, “Oggi più che mai, ovunque abiti, rischia la vita o
la morte, la miseria o il benessere come tutti gli altri. Dorme
più o meno malamente come tutti gli altri. Di suo ha un mandato straordinario, chiaro e trasparente”. Qual’ è? “Quello di
far sapere alla gente cosa ci faccia lì, in mezzo a loro. Perché
usa parole non comuni per esprimere idee e sentimenti di
tutti”. Originaria di Haiti Danielle si è trasferita assieme alla
famiglia a Boston quando aveva solo sei anni. Facendo le
prime scoperte in una piccola enclave di immigranti Haitiani,
nel popoloso quartiere di Mattapan. Un quartiere fra i più
colorati e chiassosi di Boston. “Una delle caratteristiche di
quella comunità è sempre stata quella di esporre i propri figli
all’esperienza delle arti. Educarli alla musica, alla poesia, alla
danza, al teatro, alla pittura era ed è per loro altrettanto importante quanto metterli a tavola”. Per dare colore e incanto
elegiaco alla terra perduta, a quella in cui si è approdati e non
sempre accettati per quel che si è. Per evadere la crudele tacca
dell’emigrazione, per dare alla fin fine un significato alla vita:
alla terra del giardino dove fioriscono le azalee, alla scala su cui
si scivola nei giorni di neve, al cesto di limoni che occhieggia
dal supermercato, a un matrimonio o a un funerale. Una maniera umana, diversamente utile per mettere assieme le parole
e i loro suoni, per comprendere oppure occultare la vita e i
suoi misteri, per manifestarla a sé stessi e agli altri. “In quel
quartiere cercavo di dare un senso alle cose. E’ così che è nata
e si è evoluta la mia poesia.”
Ora Danielle oltre a ricoprire l’incarico ufficiale di Poeta Laureato per la città è docente alla Lesley University, dove insegna
un corso pratico di poesia. “E’ un percorso pedagogico particolare, per studenti laureati che vogliono prendere un Master
e promuovere attraverso la scrittura un cambiamento nella società.” Fuori dall’ambiente accademico, come Poeta Laureato
coordina e sovrintende vari programmi, soprattutto incontri
fra i poeti, la loro arte e la città. “Questi programmi sono non
solo eccitanti, ma estremamente utili per i poeti. Legati alla
vita delle persone. Hanno come obiettivo quello di far intendere la vita di tutti i giorni con parole non banali”. Un po’
teatridellediversità
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Rubriche - Poesie
come aggiungere sale alla minestra, diluire i poeti e le loro parole nelle diverse aree della città, nelle diverse comunità. Specie quelle a rischio. “Ognuna con un preciso e distinto profilo,
una connotazione ben determinata”. Per Danielle, che percepisce duemila dollari all’anno per farsi carico di questo progetto monumentale, non sono ore sottratte alla sua scrivania
“ma una splendida opportunità per collegarsi coi giovani dei
quartieri, della Boston Public School, con la loro difficoltà di
essere i figli dell’ultima generazione di immigrati; e incontrare
con programmi di alto valore culturale gli anziani, segregati
nelle Case di Riposo senza più alcun contatto con quel mondo
che hanno pur costruito”. Sul suo sito web all’indomani della
nomina ufficiale ha scritto: “L’America è migliore quando riconosce le sue diversità. Noi americani siamo migliori quando
abbracciamo il nostro essere plurali, quando andiamo verso gli
altri, cerchiamo di capire tutti quelli che sono attorno a noi.
Noi Americani siamo migliori solo quando siamo impegnati
in un dialogo”. Ed è certamente così. Il compito di un poeta
non è quello di finire sepolto in un’antologia. Il compito di un
poeta non è mai finito: tutto il resto è letteratura, come diceva
Paul Valery.
e verde montagna, villa e tugurio
* Docente al Boston Conservatory
più bello, la norma,
l’anomalia,
Natura morta con sfere
l’inusuale, ciò che è più raro
vale a dire,
Tra la cosa
e il suo nome
c’è un mondo
e un altro mondo
dietro quello.
C’è la mia maschera
posata sul tavolo.
C’è il tavolo
di legno e lo spazio
sotto. C’è un’arancia
sul pavimento
che dovrebbe
essere sul tavolo
nel cesto giallo
delle arance
con dentro un gatto
che si lecca la zampa davanti.
Che ne sanno i gatti
delle arance? E dell’acqua
che ne sanno gli uccelli
se non v’immergono
il becco
togliendo il sonno
a qualche povero pesce. Che ne sanno
i pesci degli uccelli
se non lo squarcio del becco,
improvviso lampo
e poi più niente.
Versi per il paese più povero
dell’emisfero occidentale
Oh più povero dei paesi, non è questo il tuo nome.
Dovrebbero chiamarti fiamma e faro,
mandorla e buganvillea, giardino
48
ragazza dal fiocco rosso nei capelli,
libri sottobraccio, affascinata dalla luce
del mattino, carbonaia dalla gonna nera,
circondata di alberi morti.
Tu, paese, sei mercante
E impiegato zelante, nonno
Al cancello, al crocevia
Con la torcia, con la luce
Con la luce.
Unici
La natura nasconde
Il progetto
l’unicità, non siamo
ognuno, anche i gemelli, unici?
Traduzioni
Walter Valeri, Pina Piccolo
IN ITALIA
Danielle Legros George il 21 maggio 2016 è stata a Forlì tra gli ospiti del
Festival Internazionale di Poesia, Musica e Arti Visive “L’Orecchio di Dioniso”
(prima edizione). Il 24 e 25 maggio ha curato due incontri di laboratorio di
scrittura nella Comunità terapeutica del Gruppo Atena a Montecerignone
(PU), dove un gruppo di ospiti della struttura, coordinato dal Teatro Aenigma,
sta allestendo uno spettacolo teatrale dedicato alla poesia e ispirato anche
alle sue opere (debutto previsto a dicembre 2016).
Abstract
DANIELLE LEGROS GEORGE: A POET IN THE CITY
oston Poet Laureate Danielle Legros Georges is a professor in the
Creative Arts and Learning Division at Lesley University. Her areas
of academic interest include arts and education, contemporary American
poetry, African-American poetry, Caribbean literature and studies, and
literary translation. A writer and poet, Legros Georges has been widely
recognized a variety of recognition for her work with and recent literary
awards such as: the 2014 Massachusetts Cultural Council Artist Fellowship
in Poetry; the 2012 Massachusetts Cultural Council Finalist in Poetry;
Lesley University Faculty Development Grants; and a 2013 Black
Metropolis Research Consortium Fellowship/Andrew W. Mellon Grant.
Legros Georges describes her poetry as tackling a wide range of themes
and asking philosophical questions that can lead to conversations about
larger issues in life.
B
IN RICORDO
DI EMILIO LUSSU
Un Premio ed una Scuola di poesia popolare nella periferia del capoluogo sardo
inaugurano un percorso originale a cura della rivista letteraria “Coloris de Limba”
Rubriche - Poesia
A CAGLIARI
di Alesssandro Macis *
I
n una calda serata cagliaritana d’inizio maggio, quasi estate,
con un soffio di vento che diffonde per l’aria il profumo dei
fiori di limone, ed Efisio martire santo compatrono della
città si prepara a far ritorno nella sua chiesetta di Stampace,
dopo la consueta passeggiata annuale, a Is Mirrionis, quartiere
della periferia del mondo, viene tenuta a battesimo, muovendo i suoi primi passi, la neonata Scuola popolare di poesia.
In una piccola sala, sede del circolo Me-Ti, associazione impegnata nel sociale e partner del progetto, lontana dai rumori
del traffico, dai bar e dai negozi alla moda, il poeta e scrittore
Gianni Mascia accompagnato dagli operatori culturali dell’associazione L’Alambicco - La macchina Cinema, dall’attore e
regista Fausto Siddi e dai rappresentanti dello studio editoriale
Typos, tutti compagni d’avventura, ha presentato ad un pubblico attento la sua creatura. Di questi tempi, in cui la gente
ama cullarsi nei propri solipsismi, è bello vedere la sala piena, lo svilupparsi della discussione e la partecipazione attiva.
La presentazione, in dissolvenza, si trasforma in racconto; il
racconto fruga tra i ricordi e retrospettivamente fa riemergere frammenti di un passato remoto. Un flashback, il lungo
corridoio di una scuola elementare illuminato da lampade al
neon, l’odore di matite temperate, di inchiostro e sillabari. Un’
aula le cui finestre danno su un cortile: la location è sempre
Is Mirrionis, una classe con bambini che hanno famiglie e un
vissuto problematico. In cattedra un poeta-maestro che cerca
di sperimentare un metodo didattico creativo, impegnandosi
a instillare in questi bambini cresciuti troppo in fretta, l’amore per la poesia e la scrittura. Le sue tasche sono gonfie
di conchiglie che è andato a raccogliere in una spiaggetta del
Villaggio di pescatori. Le posa sulla cattedra: hanno forme e
colori diversi. Ognuna ha una storia nascosta che aspetta solo
di venir fuori ed essere narrata, dice il maestro. I piccoli scolari si impossessano delle conchiglie: c’è chi porta il guscio
in prossimità dell’orecchio per ascoltare il rumore del mare
che si frange sugli scogli o va ad accarezzare la battigia; chi,
con la punta della lingua, ne sfiora la superficie gustando il
sapore di sale. Sensazioni che stimolano la fantasia, aiutata
dalla lettura delle poesie di Gianni Rodari. Sui fogli dei quaderni incominciano a prendere forma i primi versi: semplici,
ingenui. Versi dedicati al sole, all’immensa distesa del mare,
all’estate che rimanda al tempo delle vacanze, ai primi turbamenti dell’amore. Tutti partecipano, tranne uno scolaro che,
solitario, si rifugia all’ultimo banco. E’ un bambino difficile,
con una famiglia sottoproletaria che vive ai margini. Non vuole saperne di partecipare al laboratorio di scrittura. Poi, una
mattina, arriva a scuola, apre il quaderno e legge ad un esterrefatto maestro un poesia d’amore dedicata ad una compagna
di classe. E’ questo l’humus che a distanza di qualche lustro
ha fatto germogliare la Scuola Popolare di Poesia. Ritornando
al presente, il laboratorio permanente di scrittura in versi sarà
ospitato in due luoghi simbolo: un quartiere popolare, Is Mirrionis, ad alta densità abitativa, e la sede dell’Associazione Sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica, ospitata nell’ex
manicomio di Villa Clara. Un intrigante progetto culturale
che vuole condividere la cultura poetica, coinvolgendo giovani e meno giovani, di etnie e lingue diverse, sardo compreso.
Dove la parola, fantasmagoricamente, si trasfigura in catarsi,
liberando energie e creando anticorpi che sprigionano la createatridellediversità
49
Rubriche – Poesie
tività molto spesso sopita, facendo da argine alle devianze, alla
solitudine, alla sofferenza psichica e alla dispersione scolastica.
E’ un progetto ambizioso, nato senza contributi pubblici, che
muove i primi passi autonomamente, affiancato dalla rivista
letteraria plurilingue Coloris de Limbas, diretta dal suo ispiratore Gianni Mascia. Avrà come compagni di viaggio grandi
autori che della poesia hanno fatto un’inseparabile compagna
di vita. Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud, Sandro Penna,
Giuseppe Ungaretti, Charles Bukowski, Alda Merini e tanti
altri, con i loro versi immortali terranno accesa la fiammella
della creatività, stimolando alla scrittura poetica i partecipanti
ai seminari. Tra i tanti progetti che la Scuola Popolare di Poesia sta mettendo in cantiere, il laboratorio permanente linguistico è senza dubbio il più stimolante e impegnativo. Partendo
da “Su gergu de Soparma”, lo slang della mala cagliaritana che
si parlava in certi ambienti fino a una quarantina di anni fa,
la Scuola si propone di elaborare e codificare un glossario gergale, che attraverso un lavoro di ricerca sul campo raccolga,
attraverso le testimonianze di chi ancora utilizza espressioni
di quella parlata, l’argot che ancora si conserva. Con queste
premesse la Scuola Popolare di Poesia può diventare un luogo
in cui s’incontrano generazioni e culture altre che esaltino la
ricchezza delle diversità, accompagnate, giusto per rimanere
in tema, dai versi di Puskin: “Voglio comprenderti,/studierò il
tuo oscuro linguaggio.”
Sei mesi dopo, altro scenario, il parco cagliaritano di Monte
Claro, in un autunno mite che rimanda al tepore di una estate
appena fuggita, nei primi giorni d’ottobre, viene inaugurato
il primo Festival della poesia Premio Emilio Lussu. Il Festival
nasce da un’idea intrigante, contaminare i linguaggi artistici:
la poesia, la letteratura, il cinema, la musica. Partendo dall’intuizione di un grande e visionario regista, Luis Buñuel, che ha
utilizzato il linguaggio poetico per comporre le sue immagini
e profeticamente ha dichiarato: «Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato
liberatorio, di sovversione, di soglia attraverso cui si accede al
mondo meraviglioso del subconscio.» La musica che è ritmo e
poesia dei suoni si incontra e intreccia con la cadenza ritmata
del verso che è la musica delle parole, e col cinema che attraverso il montaggio e le colonne sonore, costruisce la sua metrica. Una coesistenza dialettica tra diverse forme di espressione
artistica, che si incontrano e si contaminano. Forme artistiche
che si confrontano con la realtà, con il disagio esistenziale,
con le periferie del mondo. Con la parola poetica che esce
dalle pagine del libro, dai percorsi esclusivi dell’accademico
50
autocompiacimento, per realizzarsi e insinuarsi nel vivo del
tessuto sociale. Festival che si è articolato in tre serate e che ha
visto coinvolte la rivista di cultura poetica “Coloris de Limbas”, le associazioni “L’Alambicco”, “La macchina cinema” e
“La Città degli Dei”, anche Casa editrice, e la Biblioteca provinciale di Cagliari intitolata a Emilio Lussu, che in sinergia
hanno dato vita al progetto. Durante la tre giorni sono stati
premiati i vincitori del concorso di poesia che ha visto il primo
premio assegnato alla poesia “Testamento” di Maria Grazia
Spano. Il Festival ha ospitato i reading poetici, accompagnati
da improvvisazioni musicali, dei più rappresentativi poeti sardi contemporanei: Gianni Mascia, Alberto Lecca, Laura Fico,
Vincenzo Pisanu, Anna Cristina Serra e dell’improvvisatore
Cosimo Lai. La neonata Casa editrice “La Città degli Dei” ha
presentato in anteprima al pubblico del Festival oltre al terzo
numero della rivista poetica “Coloris de Limbas”, “D’amor si
vive-Silvano Agosti e il ritorno alla naturale creatività dell’essere”, saggio-intervista sul regista, curato da Alessandro Macis,
e il romanzo di Stefano Piroddi “Gli angoli remoti del presente”. La casa editrice GDS, ha presentato durante il Festival,
l’ultimo lavoro poetico di Gianni Mascia, “Tra Leopardi e la
luna-Cantus de prexu e de amargura”. Una rivisitazione della
poetica leopardiana magistralmente tradotta in lingua sarda
da Mascia.
* Scrittore e operatore culturale
Abstract
POETRY POPULAR SCHOOL AND PREMIO LUSSU FESTIVAL
n a warm evening of May, in Cagliari, the Poetry Popular School was
born. It happened in Is Mirrionis, a district at the periphery of the world.
In a little room of the cultural circle Me-Ti , the poet Gianni Mascia with
Alessandro Macis, president of the Alambicco Cultural Association, and
the actor Fausto Siddi presented there creation to an interested audience.
At this time, when people love lull in their solipsism, is really beautiful
to see the room full, the discussion develops and the words fly in the
air and in the people’s soul. The presentation, fading, becomes a tale:
the tail rummages in reminiscences and fragments emerge from a distant
time. A flashback, the long aisle of an elementary school well lit with
neon lamps, the smell of the sharpened pencils , of ink and spellers. A
classroom with windows that look in a courtyard: the location is ever
Is Mirrionis, a class with children that have many troubles in life and at
home.
I
IL TEATRO DELLE
GUARATTELLE
DI BRUNO LEONE
Attraverso sua sorella Rosellina, conobbe Nunzio Zampella a Milano, che era stato
invitato al “Piccolo” da Roberto Leydi su suggerimento di Roberto De Simone
di Mariano Dolci *
Le guarattelle di Bruno Leone
H
o conosciuto Bruno Leone nei primi anni ‘80 nel corso
di vivaci riunioni dell’UNIMA-Italia. Io ero già “burattinaio comunale” a Reggio Emilia e lui si avviava a diventarlo, seppure per una strada diversa, ossia per assunzione
al comune di Napoli in base alla legge 285 come “architetto
dei giardini”.
Ad un certo punto della sua vita Bruno aveva sentito richiamo
di Pinocchio abbandonando tutto per seguire la sua passione.
Quando poi venne a presentare il suo spettacolo a Reggio
Emilia nel 1986 mi regalò un burattino e degli appunti pieni
di umorismo sulle sue esperienze di burattinaio nel mondo
della scuola. Difficile per me, e penso anche per lui, dimenticare quel giorno; una volta terminato lo spettacolo nel Parco
della Cittadella, amici e curiosi si attardavano all’imbrunire
chiacchierando e cercando di dare una mano allo smontaggio della baracca. Improvvisamente Bruno si rammentò che
l’indomani era il giorno fissato per il suo matrimonio e corse
alla stazione. Seppi poi con sollievo che Bruno era giunto in
tempo alla cerimonia.
Gli inizi di Bruno Leone con Nunzio Zampella
Bruno non ha ereditato la sua passione per i burattini dal suo
ambiente famigliare poiché non è figlio d’arte, nel senso che
Rubriche - Il teatro di animazione
LA TRADIZIONE NAPOLETANA
non ha ascendenti teatranti anche se in verità suo padre è un
artista seppure di altro genere. La passione gli venne quando
attraverso sua sorella Rosellina, conobbe Nunzio Zampella a
Milano, che era stato invitato al “Piccolo” da Roberto Leydi su
suggerimento di Roberto De Simone.
Poco tempo dopo però Zampella decise di abbandonare
la professione, sia per motivi di salute, sia per la progressiva disaffezione del pubblico napoletano. Si presentò dunque
amareggiato a Milano, confidando a Roberto Leydi che aveva
maturato l’intenzione di mettere in vendita baracca e burattini. Dopo aver proposto invano questo materiale al museo del
teatro San Carlo, pensava di venderlo al maggior offerente in
quella deplorevole trasmissione televisiva di “Portobello”. Li
comprò invece Leydi per conto del “Piccolo”.
Come ricorda Bruno: “Quando ho conosciuto Nunzio (1978),
lui non aveva più nulla. Ho ricostruito allora, gli strumenti del
suo lavoro soprattutto perché lui potesse ricominciare,”(1)
Bruno si recò a Milano per fotografare l’attrezzatura di Zampella poi costruendo, scolpendo, dipingendo e cucendo entrò
con passione crescente in tutto un mondo che orientò il suo
progetto di vita. In questa bella storia di apprendistato alla
Wilhelm Meister, Bruno all’inizio non fu certo incoraggiato
dal suo maestro. Sulle prime infatti Zampella era scostante,
non voleva assumersi la responsabilità di indirizzare un gioteatridellediversità
51
Rubriche – Il teatro di animazione
Pulcinella e la morte
vane verso un’arte sempre più abbandonata dal pubblico.
Bruno si ostinò a proseguire questo tirocinio non facile iniziandosi all’arte delle guarattelle. Quando andava a trovare
il suo maestro questi si rifiutava ostinatamente di rivelargli i
segreti dell’arte, in particolare quello della pivetta, elemento
indispensabile per diventare un autentico Pulcinella. La pivetta è il vero segreto dell’arte dei guarattellari, più importante
del movimento e del dialogo. Per servirsene è necessaria una
abilità non da poco, se si pensa per esempio che nei dialoghi
concitati tra due personaggi il burattinaio deve alternare la
caratteristica voce chioccia di Pulcinella con un’altra.
Senza incoraggiarlo, Nunzio lasciò Bruno destreggiarsi da solo
nella costruzione di diverse pivette ma infine di fronte a tanta
passione si commosse e glie ne regalò una propria; fu una vera
investitura a guarattellaro. La costruzione della pivetta aveva
costituito una prova di iniziazione e come in tutte le iniziazioni non si contemplano vie di mezzo: o si muore o si rinasce
con un’altra identità. Zampella cambiò dunque atteggiamento
e aiutò Bruno ad acquisire, non solo le tecniche, che sono
in fondo semplici ma la particolare forma di “linguaggio” di
tutto lo spettacolo con le sue convenzioni, i suoi ritmi, le sue
potenzialità e i suoi limiti.
Nell’intervista rilasciata da Zampella a Marisa Bello e Stefano
De Matteis (2) leggiamo che il padre era guarattellaro ma che
non aveva mai lavorato insieme a lui. Certo Nunzio bambino
lo aveva seguito da piccolo ma il padre non lo aveva mai incoraggiato. Se diventò guarattellaro fu per “osmosi” famigliare
o, come dice lui stesso, per “telepatia”. Zampella Iniziò a dare
spettacoli di guarattelle nell’orfanotrofio dove viveva per farsi
52
perdonare dal direttore le sue disubbidienze. Dopo la guerra,
da disoccupato, riprese i burattini: “I burattini li ho intrapresi
dopo la prigionia dalla Germania, che so, turnato in Italia sfasulatamente disperato, …” (3)
Zampella aveva lavorato a lungo in società con i colleghi fratelli Pino, naturalmente sempre senza permessi. ”Noi burattinai abbiamo sempre lavorato senza permessi perché il permesso ci
obbligava a stare in posti fissi dove magari non c’era gente”. (4)
Poco dopo Zampella accettò di mostrare a Bruno il mestiere
dal vivo e infine riprese a lavorare con Bruno in società.
Tradizionalmente i guarattellari lavoravano in coppia alternandosi uno alla baracca intento allo spettacolo, mentre l’altro
girava fuori con il piattino. Il ricavato nel piattino era destinato non a chi lo aveva fatto girare ma a chi in quel momento
effettuava lo spettacolo. Quando finalmente Zampella accettò
di mettersi in società con Bruno questi era a disagio poiché il
maestro, essendo più apprezzato dal pubblico, prendeva meno
di Bruno.
Direi che è commovente in questi artisti dalla vita così precaria la consapevolezza della dignità della loro arte. Benché
consigliati da varie parti, rifiutavano di andare a chiedere
sovvenzioni al Comune poiché così facendo sembrava loro di
chiedere la carità. Porgendo il piattino, volevano invece essere
valutati e avere dal pubblico un compenso per il loro lavoro di
artisti e non ricevere una elemosina.
Se è vero che con Nunzio Zampella è scomparso (1986) un
antico modo di professare l’arte delle guarattelle, cerchiamo
tuttavia di reagire al vezzo, ogni volta che scompare un burattinaio, di esclamare “Muore l’ultimo burattinaio”. L’ho letto
Rubriche - Il teatro di animazione
Le guarattelle di Bruno Leone
troppe volte nei titoli di giornali degli ultimi cinquanta anni
mentre nel frattempo i burattinai, e Bruno tra gli altri, continuano a lavorare. In proposito si arrabbiava anche Otello
Sarzi, consapevole di quanti giovani si avvicinavano all’arte.
Tuttavia, quando morì, anche lui non sfuggì ad essere bollato
come: “l’ultimo burattinaio”.
Grazie a Zampella e Leone l’arte antica delle guarattelle napoletane torna dunque ad essere presente. Giovani artisti raccolgono il testimone e sembra proprio che la sparizione del genere sia scongiurata anche grazie anche all’impegno continuo di
Bruno per trasmetterla.
La specificità della figura di Pulcinella
Pulcinella è un personaggio diverso da altre maschere, unico
nel suo genere e la sua presenza è alla base dello spettacolo di
guarattelle
È un burattino tra i più elementari con la testa appena
squadrata e non ha neppure il buratto. Come sentenzia
Zampella: “… perché ‘o pupo chiù bell’è chiù t’è antipatico,
mentre si’ ‘o pupo è brutto ti fa ridere e ti appassiona.” (5).
I burattini operano in un piccolissimo teatro. Terminato lo
spettacolo il burattinaio scansa una parte dei teli, quindi infila
un braccio, inclina la baracca, la solleva e la porta sulle spalle
insieme alle guarattelle appese al collo (senza dimenticare il
bastone). Ha tutto quello che gli serve, l’ideale di un filosofo
antico: “omnia mea mecum porto”.
Per alcuni (Benedetto Croce) Pulcinella è apparso a Napoli
alla fine del ‘600. Altri (George Sand tra i primi), hanno ipotizzato una filiazione diretta dall’antico Maccus, la maschera
osca delle Atellane. Secondo la leggenda sarebbe originario di
Acerra. Originario di Napoli o delle sue vicinanze, è poi emigrato in tutta Europa e oltre.
Dora Eusebietti coglie un aspetto interessante (p. 56): “Per
Pulcinella si verifica una stranezza: la maschera napoletana si
trova bene a casa sua, nella natia partenopea, meglio di ogni altra, eppure è quella che all’estero, come burattino, fa più parlare
di sé ...” (6).
Mentre, al seguito di tanti illustri visitatori di Napoli è diventato un topos affermare che: “Pulcinella è il popolo napoletano”,
per Benedetto Croce, di fronte alle sue ambiguità dichiara
“Pulcinella non si definisce”.
Osserva Allardyce Nicoll nel suo bel libro: “Un personaggio
teatrale che sia considerato il simbolo d’un popolo intero non
può avere una personalità sua; l’identificazione di Pulcinella con
tutta una comunità basta da sola a mettere in evidenza la sua
natura.” (7).
Mentre Pantalone è un veneziano tra altri, Fagiolino un bolognese fra tanti, Brighella un bergamasco emigrato a Venezia,
ecc, Pulcinella è molto più complesso.
Trasferitosi dalla Commedia dell’Arte alle baracche dei burattini Pulcinella è stato anche usato in altre parti d’Italia ed
Europa ma solo a Napoli ha conservato una posizione privilegiata. Come scrive Alfonso Cipolla (74 ) “Va però ricordato che
a Napoli la maschera di Pulcinella è fortemente radicata nel teatro
indipendentemente dal fatto che sia teatro “di persona” cioè agito direttamente dagli attori, o in teatro con burattini e marionette. (8)
teatridellediversità
53
Rubriche – Il teatro di animazione
Infatti a Napoli fuori del Teatro, Pulcinella è dovunque, per
esempio nelle feste popolari e nel Carnevale.
Se per un verso è una maschera che si sdoppia, si triplica, o
come è possibile ammirare negli affreschi del Tiepolo si moltiplica circondato da bande di Pulcinellini, per un altro fa parte
della sua natura l’includere simbologie maschili e femminili.
Un altro indizio della sua ambiguità è il suo pancione che non
lo è per troppo mangiare ma perché “incinto” e difatti partorisce un uovo. Su questa sua ambiguità, qualcosa mi aveva
accennato il mio maestro Otello Sarzi. Le maschere che lui
usava si dividevano tra quelle che davano le bastonate e quelle
che le subivano; l’unica che però poteva sia darle che riceverle
è proprio Pulcinella.
Come Pulcinella stesso a volte dichiara al termine della rappresentazione: “Pulcinella non tiene né servi né padroni ma solo
del suo diletto pubblico, fedele servitore”.
Pulcinella non diventa mai “l’eroe” nel senso comune di questo
termine, perché manifesta tutti i sentimenti che angustiano l’uomo, però in un modo nell’altro riesce sempre ad avere ragione
delle difficoltà. Egli è pauroso, delicato e prepotente, vigliacco e
coraggioso, furbo e sciocco, ed è per questo che l’uomo della strada
si può riconoscere in lui” (9).
Tutti gli altri personaggi che incontra sono “spalle” o meglio
“alter ego” essendo lui il protagonista assoluto. Il suo alter ego
in forma di donna, di cane, di guappo, di morte.”
“Molti dialoghi e azioni delle guarattelle sono lo sdoppiarsi e il
contrapporsi di uno stesso elemento: da un lato Pulcinella che li
include tutti e dall’altro il suo alter ego in forma di donna, di
cane, di guappo, di morte” (10).
Nello spettacolo di Bruno ispirato alla Repubblica Napoletana tutti personaggi sono Pulcinella: Pulcinella Re, Pulcinella
giacobino, ecc
“Pulcinella è l’uomo di tutti i giorni che cerca di sopravvivere,
ma sopravvivere per lui non è continuare a vivere male, come è
per l’uomo comune, ma vivere meglio, al di sopra della propria
condizione, sconfiggere il potere, la prepotenza e soprattutto la
morte, che nessun uomo ha mai potuto sconfiggere. Pulcinella nel
suo rapporto con la donna (con la quale inizia e termina ballando ogni spettacolo) rappresenta la vittoria dell’amore, della vita
sulla morte e su tutte quelle cose che angustiano la vita dell’uomo.
La paura è rappresentata dal cane, la prepotenza dal guappo, il
potere dal carabiniere, dal giudice, dal monaco e dal boia.” (11).
Tradizione e innovazione nel lavoro di Bruno Leone
La storia di Bruno pone il complesso problema della trasmissione e della salvaguardia dei generi tradizionali. Non
è un problema da poco. Il concetto stesso di tradizione è
lungi da avere un significato univoco. Lo storico inglese
Eric Hobsbawn nel suo bel libro “Invenzione della tradizione”, ne dimostra tutta l’ambiguità. Sicché per lo più si
ha tendenza a identificare quello che è più antico (oggetto o
stile di spettacolo) a quello che, in un modo o nell’altro, è più
“autenticamente tradizionale”.
Anche l’aggettivo “popolare” andrebbe usato tra virgolette e,
benché “Teatro tradizionale” e “Teatro popolare” siano strettamente legati, essi non sono intercambiabili.
Quasi sempre nel teatro di animazione le tradizioni che sono
state “salvaguardate” si sono invece ridotte a diventare residui
museali. Questo può essere dovuto ad una visione falsata delle
tradizioni, viste come statiche mentre in realtà esse si sono
sempre evolute e modificate.
Per perpetuare la tradizione e non perdere il pubblico, il
guarattellaro deve attualizzarla senza perdere la sua natura.
54
Quando opera deve tenere a mente l’antichissima forma di
spettacolo che ha ereditato e nel contempo anche l’esperienza
quotidiana in cui sono immersi sia lui che gli spettatori.
Gli spettacoli di Pulcinella (come anche quelli dei pupi) sono
certamente giudicati dagli spettatori sulla base della perizia del
guarattellaro riguardo alla manipolazione e alla padronanza
delle storie tradizionali. Nel contempo però il pubblico napoletano apprezza particolarmente l’impronta personale del puparo, le sue allusioni all’attualità politica e il suo estro comico.
Questo pone il problema di come trovare l’equilibrio tra l’irrinunciabile libertà creativa del burattinaio e il rispetto per le
modalità di operare tradizionali. L’equilibrio può essere molto
difficile poiché è certo che alcune antiche forme tradizionali
sono molto più formalizzate di altre e che obbediscono a delle
prescrizioni particolarmente rigide.
Come dice Leydi, di Bruno Leone: “ha raccolto” quest’arte rara
e grande ma pur fedelissimo discepolo di Nunzio Zampella, una
volta iniziato a padroneggiare il mestiere non ha mai rinunciato
ad esprimere se stesso come è giusto che sia”. Sappiamo infatti
che in tutte le arti i grandi innovatori sono stati coloro che
padroneggiavano perfettamente la tradizione. Recuperata l’arte, dunque Bruno ha dovuto però affrontare un irrinunciabile
rinnovamento.
Dalla autobiografia di Bruno: “La cosa più incredibile di questo
genere di spettacoli è che, pur essendo diffuso, come abbiamo visto,
in molti paesi, e pur non essendoci stati contatti fra gli artisti,
le cose rappresentate sono rimaste molto simili, il che fa pensare
che lo spettacolo o ha avuto la stessa evoluzione, cosa abbastanza
strana essendosi sviluppato in contesti di vita così diversi, oppure è
rimasto immutato nel tempo. Questo è ancora più incredibile se si
pensa che non esiste tradizione scritta e che lo spettacolo non solo si
è tramandato per via orale ma è stato soggetto a tutte le trasformazioni che comporta l’improvvisazione e il lavoro di strada” (12).
Come presentare oggi giorno la maschera di Pulcinella? Oltre
a dover rispettare la personalità di Pulcinella, lasciandosi a frequenti improvvisazioni senza dimenticare la sua voce artificiale, non basta recitare ma si deve rispettare un ritmo come in
musica. Zampella raccomandava “Non ti scordare mai il ritmo
dello spettacolo, puoi improvvisare quello che vuoi, ma qualunque fesseria dici, deve rientrare in questo ritmo...” (13).
E ancora come ci racconta Bruno :
“Già dall’inizio, già dal 1979 iniziavo a mescolare le carte, ad
introdurre cioè elementi di novità nei miei spettacoli. Sempre
conservando stretto il rapporto con la tradizione, con quello che
ho imparato da Nunzio Zampella proponendolo ancora nel mio
repertorio, ho cominciato a contaminare il mio Pulcinella con
altri miti e facendolo vivere nella nostra epoca alle prese con incidenti “sincronici”. (14).
Queste contaminazioni consistono in tanti temi di impegno
civile sempre dalla parte dei deboli o delle minoranze. Pulcinella lavora con i disabili, con i centri sociali, partecipa alle
feste di quartiere. Si impegna contro la guerra in Iraq (Pulcinella va alla guerra del 1991). Nel “Il convitato di pezza” del
1995 dopo la vittoria di Berlusconi, Pulcinella denuncia la
seduzione del potere e la degenerazione dei valori in politica.
Rievoca le delusioni della Repubblica Napoletana del 1779
in “Pulcinella 99, voglia di Utopia”, critica il G8 (Pulcinella
contro il Gigiotto). Si citano una quantità di aneddoti sulla sua
solidarietà, come quella della sorella, e il suo impegno per le
condizioni del Mezzogiorno o dei più indifesi.
Bruno scrive testi della tradizione rispettosamente rivista da
lui conscio che la loro lettura se non accompagnata dal ritmo
e dai movimenti può essere poca cosa.
“Iniziai con un gioco: scappare ogni tanto dal teatrino indossan-
Rubriche - Il teatro di animazione
Gianluca Fusco e Bruno Leone
do una maschera e per un istante diventare io il burattino che
agiva sulla scena e giocare con il pubblico così come Pulcinella
giocava con gli altri burattini. (15)
Quando esce dalla baracca vestito da Pulcinella non si sa se chi
è il doppio di chi.
Da decenni si mette continuamente in discussione sia nelle
modalità di espressione sia nella scelta dei temi rimanendo
sempre fedele a se stesso.
A mia richiesta Bruno mi ha inviato un curriculum così esiguo
da non riempire mezza pagina, forse per modestia ma anche
per l’impossibilità di riassumere le sue attività nei vari Paesi
del mondo (ne ho contati 24), i numerosi premi ricevuti da
più parti, tutte le attività svolte nelle scuole e nel sociale, i vari
festival che ha creato o ai quali ha partecipato come direttore,
le scuole e i corsi che ha gestito Pulcinella grazie a lui e ai suoi
allievi diventati professionisti si è diffuso in ogni dove, a volte
anche risvegliando antiche tradizioni quasi scomparse.
(6) Eusebietti Dora, Piccola storia dei burattini e delle maschere,
SEI Torino 1966 (p. 56)
(7) Nicoll Allardyce, Il mondo di Arlecchino, Bompiani, Milano
1965
(8) Cipolla Alfonso, Giovanni Moretti, Storia delle marionette
e dei burattini in Italia, Edizioni SEB27, Corazzano (PI) 2003
(9) Leone Bruno, op. cit. (p. 39)
(10) Idem p. 39
(11) Idem p. 39
(12) Idem p. 38
(13) Idem p. 14
(14) Dal sito di Bruno Leone: www.guarattelle.it
(15) “Scena”, n. 3-4, 1977
* Maestro burattinaio, già docente di teatro di animazione all’Università di Urbino
BRUNO LEONE’S THEATRE OF GUARATTELLE
runo Leone did not inherit his passion for puppets from his family
environment since it was not a family tradition, it means that he
does not have forefathers in theatre world, although in truth his father
is an artist even belonging to another kinder. His passion came through
when her sister Rosellina made him meet Nunzio Zampella in Milan,
who had been invited to “Piccolo” Theatre by Roberto Leydi, as suggested
by Roberto De Simone. Mariano Dolci explains in this article the career,
life and research between tradition and innovation in the work of the
Neapolitan puppeteer.
Note
(1) Leone Bruno, La guarattella, CLUEB, Bologna 1986 (p.
12)
(2) “Scena”, n. 3-4, 1977
(3) Idem
(4) Leone Bruno, op .cit. (p. 7)
(5) “Scena”, n. 3-4, 1977
Abstract
B
teatridellediversità
55
Rubriche – Il teatro di animazione 2
L’IMMENSO PATRIMONIO ITALIANO
IL DOSSIER MEMORIA VIVENTE
PER L’UNESCO
La Rete degli Archivi UNIMA ITALIA del Teatro di Figura Presenta la candidatura
al Registro Memory of the World Unesco
di Veronica Olmi *
Marionette dalla collezione Gruppo Oriani Monti Colla, Archivio UNIMA
N
el mese di dicembre 2012, con alcuni soci Unima Italia si ragionava su possibili idee e strategie per valorizzare l’immenso patrimonio del Teatro di Figura Italiano.
A gennaio 2013, decidiamo di tentare la Candidatura al Registro Memoria del Mondo dell’Unesco. Si è costituita quindi una commissione di lavoro composta da Veronica Olmi,
Aldo de Martino, Alfonso Cipolla, Antonietta Sammartano,
Mimmo e Elisa Cuticchio che, insieme ai dirigenti degli uffici Unesco Italia, ha definito criteri e modalità adatti alla
Candidatura.
Si è deciso di procedere su un duplice binario: da un lato gli
archivi documentaristici e museali, dall’altro gli archivi viventi, rappresentati dalla compagnie storiche in attività. Abbiamo individuato cinque linguaggi del Teatro di Figura Italiano
che rinviano ad altrettante tradizioni originali: i complessi
spettacoli Marionettistici dell’Italia settentrionale; i Burattini
dell’Italia centro settentrionale; il Teatro di Figura a Napoli;
lo spettacolo con Marionette epico popolare dell’Italia centro
meridionale; l’Opera dei Pupi in Sicilia.
E’ stata creata una rete di nove collezioni/musei distribuiti in
otto città italiane che rispondessero ai criteri fondamentali
stabiliti dal Registro Memory of the World di rarità, integrità
e accessibilità.
La Rete è composta da: Ass. Grupporiani-E.Monti Colla–Mi-
56
lano; Collezione Maria Signorelli-Roma; Il Castello dei Burattini/Museo Ferrari–Parma; IPIEMME – Intern. Puppets
Musum-Castellammare di Stabia (Na); Ist. per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare - Grugliasco (To); La Casa dei
Burattini di Otello Sarzi-Reggio Emilia; Museo all’Opra–Teatro di Mimmo Cuticchio -Palermo; Museo Intern. delle Marionette A.Pasqualino-Palermo; Museo La Casa delle Marionette, Famiglia Monticelli-Ravenna.
Associare con un protocollo d’intesa i nove musei/collezioni
in un unico Archivio con decine di migliaia di reperti, costituisce un evento storico di rilevante portata nazionale ed
internazionale.
La Rete degli Archivi Unima/Italia raccoglie le testimonianze
del teatro di figura storico italiano, dal sec. XVIII alla metà
del sec. XX. Si tratta di un patrimonio enorme. Sono infatti oltre 15.000 le marionette, i burattini e i pupi conservati
che, unitamente a svariate migliaia di copioni manoscritti e
a un’imponente documentazione archivistica, offrono una
testimonianza irripetibile di una forma di teatro dalle peculiarità originali strettamente connessa con la società di cui è
espressione e portavoce. Il carattere di unicità, autenticità e
integrità di questo patrimonio materiale si somma alla sapienza delle famiglie d’arte ancora in attività, spesso custodi di cimeli tramandati da generazioni, che si configura come una
Rubriche - Il teatro di animazione 2
Scenografia repertorio storico, Archivio UNIMA
memoria vivente capace di trasformare il passato in presente.
La trasmissione dei saperi, oltre all’interesse scientifico di cui
il teatro di figura italiano è stato oggetto nell’ultimo decennio,
permette di leggere marionette e burattini non come semplici oggetti di scena ma come stratificazione di informazioni
relative a linguaggi teatrali autonomi e differenziati che per
diffusione e impatto sociale non hanno uguali nel mondo occidentale. Sono circa 2.000 i manoscritti databili dalla fine del
Settecento alla prima metà del Novecento. In massima parte si
tratta di copioni che possiedono la prerogativa di essere la memoria del principale canale di informazione popolare basato
su un tipo di comunicazione che trova la sua forza attraverso il
meraviglioso. Tali copioni non si limitano a conservare il testo
teatrale da rappresentarsi, ma sono una guida per trasformarlo
in spettacolo, dato che contengono le informazioni necessarie per realizzare la messa in scena. Con linguaggio moderno
potremmo dire che contengono minuziosissime note di regia. I copioni pertanto, non essendo testi di natura letteraria
ma memoria di spettacolo, risulterebbero documenti in parte
muti se non venissero messi in rapporto con i materiali con
cui sono intrinsecamente collegati (marionette, pupi, burattini, costumi, scenografie) e che sono espressione diretta di peculiari e originali concezioni di teatro. A ciò si deve aggiungere
la ricchissima documentazione cartacea d’epoca che permette
di inserire i copioni manoscritti nel contesto sociale e culturale di riferimento. Ne deriva un sistema estremamente coeso,
dove la memoria vivente delle famiglie d’arte diventa imprescindibile per decodificare segni, note, abbreviazioni d’uso,
postille, al pari della preziosa raccolta di registrazioni audio/
video di spettacoli e di testimonianze effettuata negli anni.
L’insieme rappresenta un unicum assoluto, non solo per comprendere un fenomeno teatrale fortemente radicato nel contesto sociale che l’ha espresso, ma anche per proporsi come
possibile modello per le generazioni future: un modello non
necessariamente circoscritto al teatro, dato che indica una possibile via fascinosa e fantastica per interpretare il presente e
tramandare memoria del proprio tempo. Il riconoscimento al
Registro Mondiale della Memoria UNESCO, rappresenterebbe un ulteriore e fondamentale volano di rilancio del patri-
monio in Italia ed all’estero, garantendone la trasmissione alle
future generazioni. Il Dossier “Memoria Vivente” è al vaglio
della Commissione internazionale Unesco. Esperti come John
McCormick (Univ. di Dublino), Valentina Venurini (Univ.
Roma Tre, Dams), Luigi Allegri (Univ. di Parma), sono alcuni
tra i garanti dei contenuti del Dossier e della Candidatura.
Siamo in attesa del responso ufficiale o di indcazioni per eventuali intergazioni.
Una cosa possiamo affermarla sin da ora: grazie alla Candidatura, approvata dal Consiglio Nanzionale Unesco Italia e supportata numerose dichiarazioni di Comuni e Ragioni italiane,
dal presdiente dell’Anci e dal Ministro per i beni e le attività
culturali e per il turismo, On. Dario Franceschini, siamo riusciti a suscitare un rinovato interesse sul patrimonio italiano
del Teatro di Figura. Il lavoro continua, ogni giorno, ognuno
nella sua città e con il suo contributo.
* Burattinaia, Segretaria generale UNIMA Italia
Maggiori informazioni sono disponibili in www.unimaitalia.
net - FB Unima Italia - www.unima.org
Abstract
UNIMA ARCHIVES’ NETWORK - MEMORIA VIVENTE (LIVING
MEMORY) DOSSIER FOR UNESCO
he Dossier “Living Memory” by Unima Italia represents an absolute
unicum not only to understand a theatrical phenomenon, deeply
rooted in the social context that has generated it, but also to serve as
a possible model for future generations. We pass the floor to UNESCO.
We expect it to give proper value to something so important and to
recognize in the network of Unima Italia Archives about Italian Figure
Theatre the living memory of the main channel for folk information
based on a kind of communication that identifies its strength in the
conception of “wonderful”. We expect Unesco to find a place for Italian
Figure Theatre in the Memory of the World Register.
T
teatridellediversità
57
Rubriche – Il teatro di animazione 3
UN NUOVO FESTIVAL A OFFIDA
ALTA TEATRALITÀ
AL FOF
L’international Figura Offida Festival alla sua prima edizione riesce ad animare l’antico
borgo marchigiano con migliaia di spettatori
di Vito Minoia *
Offida, Piazza del Popolo durente il FOF Festival
C
onvince e coinvolge l’iniziativa ideata e diretta da Remo
Di Filippo e Rhoda Lopez grazie alla collaborazione della Pro Loco di Offida. Dalla bellissima Piazza del Popolo
e dal Teatro Serpente Aureo, fino a tanti suggestivi angoli della
cittadina in provincia di Ascoli Piceno, 17 sono stati gli eventi
spettacolari in una due giorni travolgente che ha parlato tante
lingue, considerata l’esperienza artistica internazionale dei due
giovani marionettisti formatisi a Barcellona e molto impegnati
in tournèe all’estero, dall’Australia agli Stati Uniti dove il loro
lavoro è molto apprezzato.
Le Compagnie e i singoli artisti provenienti da Italia, Spagna,
Messico, Argentina, Stati Uniti, Brasile, Grecia si sono esibiti
in spettacoli che hanno fatto riferimento ad un teatro di strada
incentrato sul teatro di figura (marionette, burattini, pupazzi,
teatro d’oggetto) con la partecipazione di interpreti di altre
discipline teatrali (magia, clownerie, teatro di strada).
Tra i partecipanti gli stessi promotori della Compagnia Di
Filippo Marionette insieme ad artisti noti e meno noti. Ne
citiamo alcuni: Girovago e Rondella (con uno spettacolo che
ha messo in luce la propria specialità del burattino a cinque
58
dita), Trukitrek (Burattini viventi), Cia.Colegone (Marionetta
a manipolazione diretta), Zero en Conducta (Mimo contemporaneo e burattini corporali), Dolly Bomba (Trasformismo),
Giorgio Bertolotti (Monociclo e giocoleria), Ete Clown (Clownerie). Molto bella la varietà delle proposte presentate, fino ad
arrivare ad un vero e proprio spirito di ricerca sul linguaggio
nella proposta della Compagnia di Offida 7-8 chili (Video Teatro) che con lo spettacolo “Hand Play” riflette sul rapporto
tra corpo umano e immagine proiettata raccontando della relazione tra un uomo e una donna. All’artista Alfredo Tassi,
tra i fondatori di 7-8 chili (tragicamente scomparso per un
incidente sul lavoro il 5 febbraio 2009 a Digione mentre allestiva le scenografie dello spettacolo “Inferno” della Societas
Raffaello Sanzio) è stato dedicato un riconoscimento assegnato alla compagnia che si è distinta artisticamente nel Festival.
Il Premio, consistente in una copia di una scultura realizzata
da Alfredo Tassi, consentirà all’esperienza vincitrice di ritornare a Offida per la seconda edizione dell’iniziativa restituendo
l’opera affinché possa essere vinta da qualcun altro.
La giuria, composta per l’occasione da Loredana Antonacci,
Allegato al n. 70/71/72 di Teatri delle Diversità
documenti
72
maggio 2016
TESTI INEDITI
Teatro nello spazio degli scontri
e della Gentilezza
Documenti di Catarsi
di Giuliano Scabia*
Giuliano Scabia, Alice Lombardelli, Vito Minoia, foto di Franco Deriu
teatridellediversità
I
TESTI INEDITI
1)I’m sorry
I’m sorry.
Qualche tempo fa l’ex primo ministro
britannico Tony Blair ha detto:
mi dispiace:
mi dispiace di quando, insieme ai miei
compagni di giochi Bush, Cheney, Powell e
altri, con prove fabbricate false, e lo sapevamo,
abbiamo dato inizio alla guerra contro l’Irak:
non mi ero reso conto di aver dato l’avvio alla
nascita delle stato islamico…
I’m sorry.
È veramente gentile mister Blair.
Dopo gli scontri è finalmente venuto
il tempo della gentilezza.
O genti dei teatri e delle diversità:
ogni tanto mi vengono in immaginazione (o
in sogno) i burattini:
ecco, oggi si vede la
Documenti di Catarsi
BARACCA DEI GRANDI DEL MONDO
con dentro il Burattino Cheney, il Burattino
Blair, il Burattino Bush e
il Burattino Powell.
DICE IL BURATTINO CHENEY
Ecco, guardate: vedete le prove?
Il dittatore Saddam è pari a Hitler.
Ha armi di distruzione di massa.
Vedete quel Tir?
Le armi sono là dentro.
DICE IL BURATTINO BLAIR
Ma non si vede niente.
DICE IL BURATTNO BUSH
Niente.
DICE IL BURATTINO CHENEY
Certo – non si vede niente.
Ma è come se si vedesse.
Bisogna immaginare.
DICE IL BURATTNO BLAIR
Sì, immaginare.
DICE IL BURATTNO BUSH
Immaginare. E allora?
DICE IL BURATTINO POWELL
Bisogna agire,
pre-venire.
Sì, le prove che vi mostro
sono false.
Ma anche la falsità è vera.
Che cos’è la verità?
DICE IL BURATTNO BLAIR
Cos’è?
DICE IL BURATTINO BUSH
Eh?
DICE IL BURATTNO CHENEY
Tutto quello che vediamo è falso
perché il nostro sguardo lo falsifica.
E dunque tanto vale aggiungere falso a falso.
Noi non vogliamo la guerra.
Noi facciamo una non guerra per il bene del
mondo.
Il mondo è lo spazio degli scontri – come è
stato detto.
Gli scontri sono la legge del mondo.
DICE IL BURATTINO BLAIR
E ci saranno dei morti?
DICE IL BURATTINO CHENEY
II
teatridellediversità
Neanche uno – o uno, due –
coi nostri occhi elettronici, e bisturi laser, e
macchinette
faremo solo cose perfette, intelligenti.
Saremo gentili – indolori…
DICE IL BURATTINO BLAIR
Mi dispiace, mi dispiace…
Ah come mi dispiace…
Quanti cattivi ci sono nel mondo..
Ma faremo presto, e poi…
E così avvenne…
Ma dopo qualche tempo si vide che le cose
non erano andate come immaginato.
E strani scoppi cominciarono a diffondersi.
DICE UN CAMMELLO DEL DESERTO IRAKENO
Are you sorry?
DICE IL SIGNOR BLAIR, da Londra
Yes, i’m sorry.
DICE QUALCUNO, in qualche luogo
Al cor gentil ripara sempre amore…
DICE IL CAMMELLO
Ripara?
Qui la London Sinfonietta potrebbe eseguire
una composizione (posto che qualcuno
l’avesse composta) per petrolio, jet, drone e
voce di cammello. Ah, che musica sarebbe!
2)Tournée di burattini
Un giorno – qualche tempo dopo che le torri
gemelle erano state abbattute –
e che con soddisfazione di dio la strage era
stata compiuta –
ed ero venuto a sapere e che dalle parti
dell’Indukush si aggirava
quel signore di nome Bin Laden, ideatore
dell’abbattimento,
ho pensato:
e se andassi a fare i burattini
là fra le alte montagna dove lui si rintana e
gli dicessi:
O Bin
ti va di fare i burattini con me?
E mi sono immaginato di andare.
E sentite i personaggi che mi sono messo
nella sacca:
Burattina Madonna Gentilezza, Burattino
Cammello del Deserto, Burattino Marco
Cavallo, Burattino Bin Laden e Burattino
Giuliano.
Cammina cammina con la sacca in spalla,
finalmente arrivo all’Indukush. Ci sono tante
caverne scure. E davanti a ognuna chiamo:
Signor Bin Laden, è presente? Finalmente da
una cavernona più grande delle altre esce Bin
Laden con le sue guardie – com’è barbuto!
Chi si aggira per queste solitudini? – dice.
Sono io, - dico. – Vorrei fare i burattini con lei.
I burattini? – dice. – Ma siamo in guerra. E lei
è un infedele.
Guardi che belli i burattini! – dico.
E li tiro fuori – tranne il burattino Bin Laden..
Vede? – dico. – Questo è il Cammello del
Deserto, e questo Marco Cavallo principe dei
Matti, e questa Madonna Gentilezza: poi c’è
Giuliano, cioè me.
Belli belli belli, - dice Bin Laden. – Ma come
avete fatto a oltrepassare le guardie sparse
per i monti?
Con le parole gentili, - dice il Burattino
Madonna Gentilezza.
L’avevo indossata e la facevo parlare.
Brava! – dice Bin Laden. – Che bella burattina!
DICE MADONNA GENTILEZZA
O Bin – lei è un giovanotto molto
preoccupante.
Ma si rende conto?
Ha buttato giù non una, ma due torri.
E ha fatto una carneficina.
Lei è un serial killer
e se ne vanta.
DICE BIN LADEN
E loro no, non sono serial killer?
DICE MADONNA GENTILEZZA BURATTINA
Ma lei hai superato ogni limite.
E in nome di dio.
È fuori dalle regole umane.
Perciò le danno la caccia.
DICE BIN LADEN
Che diano.
Morto un Bin si fa un nuovo Bin.
Infinita è la gioia nello ammazzare in nome
di dio.
DICE IL BURATTINO MARCO CAVALLO
Ma cosa dici, Bin. Sei matto?
DICE BIN LADEN
No – sono normale.
La storia, caro Cavallo, è fatta di carneficine.
Di uomini, di bestie…
DICE IL BURATTINO CAMMELLO DEL DESERTO
Attento, Bin: noi due, Cavallo e Cammello,
siamo qui per ragionare:
che senso ha macellare a tutto spiano…
DICE IL BURATTINO MARCO CAVALLO
Per il passato, caro Bin, è andata così:
ma non potreste, oggi, diventare un po’
meno feroci?
Cos’è tutto questo guerrosantume?
Una volta voi umani eravate cannibali –
Poi, anche con l’aiuto delle Eumendi, vi siete
calmati…
DICE IL BURATTINO GIULIANO
Signor Bin: visto che noi siamo burattini
perché una volta tanto non prova anche lei
a diventare burattino come noi?
DICE BIN LADEN
Io buratttino? Scherziamo? Via, o via…
ma…ma…forse…forse…no, no…
ma che belli che siete, che belli…o burattini…
belli…
ma come siete belli…oh, oh, oh…
ma sì…ma si…forse sì…oh, oh, oh…
forse mi piacerebbe…almeno una volta…
tanto per provare…
ma non ho il burattino…
DICE GIULIANO, estraendo dalla sacca il
burattino Bin Laden
Eccolo! Guardi come le assomiglia, di
cartapesta finissima…
DICE BIN LADEN
Maremma! Uguale. Tale e quale. Barba,
turbante, occhi.
Boia d’un Giulian, mi ha fatto lei?
DICE GIULIANO
Sì – con pazienza. Le ho anche insufflato
arrivi in un caffè, e mentre sorseggia gli
spari:
è tutta roba criminale, no?
DICE IL BURATTINO Bin Laden
Ci devo pensare:
in quanto uomo ho il mandato di dio,
ma in quanto burattino, forse…forse…
non ho nessun mandato…
DICE IL BURATTINO MADONNA GENTILEZZA
Dai, pensa, pensa, diventa sempre più
burattino
e metti da parte il gusto di dare la morte…
DICE IL BURATTINO Bin Laden
Sì, penso, penso, ma solo da burattino:
perché se mi ricordo di essere uomo,
ah, che gusto dare la morte, che gusto…
DICE MADONNA GENTILEZZA BURATTINA
Sarà il caso, caro burattino Bin,
che noi burattini cominciamo a far meditare
gli uomini:
guarda là, dopo tanto svilupparsi
sono ancora a fare macelli
con droni, bombe, missili, laser, kamikaze,
coltelli:
non è il caso che gli diamo una mano
e curarsi i cervelli?
DICE IL BURATTINO MARCO CAVALLO
Noi cavalli, soprattutto i cavalli mitici come
me,
non facciamo carneficine…
e neanche bombardiamo…
niente…ci divertiamo a correre, volare…
brucare…
DICE IL BURATTINO Bin Laden
Oh, oh, oh, che godimento nuovo:
mi sento sempre più burattino:
ah! ma che orrore le stragi, ma cosa dicono
quelli,
che andranno in paradiso uccidendo un
infedele,
ma sono matti, ma cosa gli è saltato in
mente,
ma quale dio, ma quale paradiso.. .oh, oh,
oh…
basta bombe, basta kamikaze, basta
bombardamenti…
Viva i burattini! viva Madonna Gentilezza!
viva…
TUTTI I BURATTINI
Viva Bin Laden burattino! viva…
DICE BIN LADEN BURATTINO
O Marco Cavallo, e Cammello del Deserto, e
Giuliano, e Madonna Gentilezza
siete venuti a piedi fin qui – che avvenimento!
– ma che bello fare i burattini…
oh, oh, oh…che gusto!
Altro che il gusto di ammazzare!
Burattini! Burattini!
Oh, oh, oh, oh, oh, oh!
Sentite burattini – vi faccio una proposta:
perché non andiamo in tournée da tutti i
capi del mondo
e gli facciamo la commedia degli scontri e
della gentilezza?
E mentre siamo in tournée in quanto
burattini chiediamo
di sospendere gli attentati, i macelli, i
bombardamenti…
DICONO TUTTI I BURATTNI
Sì, sì, sì…
DICE IL BURATTINO GIULIANO
E se proponessimo che l’umanità fosse
sostituita dai burattini?
Eh?
Bin Laden e Giuliano si guardano in silenzio,
pensosi.
Poi, improvvisamente, i burattini sorgono su e
ballano e cantano –
e mentre le guardie di Bin Laden sparano in
aria si preparano ad andare in tournée, prima
tappa Urbania…
3) Teatro nello spazio degli scontri
C’è stato un periodo, fra il ‘60 e il ‘70 del 900
(e anche oltre), in cui ci era sembrato che
gli scontri, le lotte, le battaglie di strada e le
guerriglie fossero il sale della vita.
La via bianca della non violenza (da Gandhi
a Capitini a Danilo Dolci) appariva ai più
affascinante ma perdente. La tensione
dell’equilibrio armato (la guerra fredda)
produceva improvvisi scoppi, rivolte terribili
e necessarie (Berlino, Praga, Polonia). Covava
desiderio di armi. Insieme al bisogno di
palingenesi
l’orizzonte
rivoluzionario
lasciava emergere, spesso inconsciamente,
desiderio di morte. Ricompariva, attraverso
gli scontri, la voglia di spaccare tutto. Nel ‘66
cominciò in Cina, con echi forti in Europa e
in America, la rivoluzione culturale lanciata
da Mao. Furono dieci anni spaventosi – la
dottrina distrusse ogni gentilezza, lasciò
ferite immedicabili. Vedemmo qui da noi
poeti, registi, pittori, studiosi, intellettuali,
cuori in precedenza apparsi gentili, inforcare
il libretto rosso e gli slogan salvifici del
catechismo maoista. La ruota psichica
dell’eterno ritorno riportava l’inquisizione. Si
svegliava l’archetipo dell’attore guerriero, del
predicatore salvifico, del santo micidiale, del
rivoluzionario annientatore. A molti sembrò
affascinante.
4) Un episodio di spada
Nel 1973 fui invitato a Parigi insieme a Kantor,
Peter Brook, Ariane Mnoushkine, Armand
Gatti, John Arden, Jean Louis Barrault e altri per
parlare del teatro a partecipazione. Stemmo
insieme tre giorni, molto piacevolmente,
scambiandoci idee ed esperienze. E accadde
il fatto che adesso vi racconto. Durante la
sessione pomeridiana del secondo giorno
ed eravamo sul palcoscenico del Marigny
(il teatro di Barrault) stracolmo di giovani,
mentre stava parlando Peter Brook (io ero
poco lontano da lui), dal palco laterale che
dava sul palcoscenico alla nostra sinistra saltò
giù ginnasticissimamente un giovane quasi
nudo con una spada in mano: e nel teatro
fattosi muto cominciò a dire: Voi, seduti là,
e voi qui sul palco, siete tutti morti. Il teatro
è combattimento, lotta, sangue, corpo che
patisce. E altro. Era una scena tragica, e anche
comica: era un Cislak armato: era là per ferire,
uccidere?
Ecco un bel matto, un bel fuori di testa,
pensavo. Che fare?
teatridellediversità
III
Documenti di Catarsi
l’anima.
DICE BIN LADEN
L’anima…oh! che gentilezza…
Sono lusingato.
Mi commuove vedermi raffigurato tale e
quale.
Oh, oh, oh…
Lo sa che… che…che mi piacerebbe…
sì mi piacerebbe imparare a costruire i
burattini.
Dev’essere bello fare teatro…
DICE GIULIANO
Venga, Bin – ora infili la mano…su col
braccio…teso, alto!
Muova le dita – ecco – stupendo!
Ecco, infilo anch’io il mio burattino.
Ciao, burattino Bin Laden –
come va la vita?
DICE IL BURATTINO BIN LADEN
La vita?
Ma cosa deve dire un burattino della vita?
Quello che pensa il burattinaio o quello che
pensa il burattino?
DICE IL BURATTINO GIULIANO
Vedi, Bin?
Ci sono sempre due pensieri, due pensieri…
DICE IL BURATTINO BIN LADEN
E allora?
DICE IL BURATTINO GIULIANO
E allora non ci si potrebbe un po’ pensare su
prima di fare carneficine in nome di dio?
DICE IL BURATTINO Bin Laden
Ma è la legge degli scontri fare carneficine.
E anche di dio, per fare giustizia,
per purificare il mondo dagli infedeli…
DICE IL BURATTINO MADONNA GENTILEZZA
Un giorno, durante le carneficine, nel mezzo
degli scontri,
si è sentita una voce dire:
al cor gentil ripara sempre amore.
Chi aveva parlato?
Io.
Per un momento si è fatto silenzio…
DICE IL BURATTNO Bin Laden
Purtroppo lei, burattina, ha un difetto – è
donna…e…
DICE IL BURATTNO MADONNA GENTILEZZA
O Bin, burattino Bin,
ancora la meni con questo negare la donna?
Non vedi che tutto è donna?
DICE IL BURATTINO Bin Laden
Tutto è donna? È bestemmia!
DICE IL BURATTINO MADONNA GENTILEZZA
Anche la bestemmia è donna.
E la mano che ti muove.
E la mente.
O burattino Bin, mi senti, mi vedi bene?
Sono la regina del mondo…la tua regina.
Non riconosci la tua gentilezza?
DICE IL BURATTNO Bin Laden
La tua voce…com’è persuasiva…
O bellissima donna – ho due pensieri adesso
–
sì, voglio pensare…pensare…
ma da uomo o da burattino?
DICE IL BURATTINO MADONNA GENTILEZZA
Da burattino, per carità:
che da uomo – come tutti gli uomini – tu fai
paura:
tu e i tuoi amici: prendi uno, gli tagli la testa:
TESTI INEDITI
Ecco il frutto dei tuoi laboratori, Peter! – gridò
una voce dalla platea.
Ed ecco che Brook cominciò a parlare col
guerriero:
dolcemente, gentilmente, in francese:
con decisione: stava guidando la mente
dell’attore, dal suo interno:
e gli toglieva la spada di mano:
in una decina di minuti il giovane si
trasformò e lentamente, lentamente,
ma dignitosamente,
uscì dal palcoscenico per le quinte.
Ecco:
fu così bravo Peter che riuscì a farlo uscire
dall’esibizione (dalla trance/dalla recita)
senza svergognarlo:
lasciandogli, appunto, la sua dignità di
persona e di attore:
con gentilezza, appunto.
Documenti di Catarsi
5) Oggi sono pieno di diavoli
Il giorno dipende da come esco di casa.
Se sono in contrasto con me (e quindi col
mondo) in ogni presenza e azione degli altri
sento qualcosa contro di me. E invece di
mettere in moto gentilezza, coi mie modi
metto in moto astio. E talvolta succede che
l’astio mi piaccia.
Se invece sono in pace con me stesso, e i
sogni sono andati bene, e mi sono un po’
concentrato per accordarmi, e ho buttato
fuori i pensieri spinati, e ho in me vera, non
ipocrita gentilezza e bene volenza – allora,
di sicuro, metto in moto onde di gentilezza e
bene volenza, col sorriso, il saluto, il cedere il
passo, il dire parole positive. E mi piace farlo.
Ci vuole una prossemica della gentilezza.
Perché di slogan in slogan, di spranga in
spranga, di scontro in scontro, di strage in
strage è stato facile far vincere la morte. E
quanta fatica per uscire dall’odio.
Un giorno del 1990 in un bar di Bologna
vedo uno dei miei amici più cari, di solito
scherzoso, ora scuro, che dice: Sono pieno di
diavoli.
Che fatica parlargli. Non era lui.
Neanche il caffè siamo riusciti a prendere.
Essere pieni di diavoli. Capita.
Anche ai popoli capita. E a certi gruppi.
Politici, religiosi. Ieri, oggi, domani.
La gentilezza può cacciare i diavoli?
Mica tanto.
Un giorno di qualche anno fa ero a Scampia,
là invitato da Marco Martinelli e Goffredo Fofi
per parlare dei bambini e del teatro. C’era un
mucchio di persone belle – e fra queste una
in particolare che, mentre stavamo a tavola,
sedeva alla mia sinistra. Con un amico che
avevo davanti siamo arrivati in argomento di
Brigate Rosse. E io dicevo: che via sbagliata,
ma come hanno fatto a non rendersene
conto? La persona particolare seduta alla mia
sinistra dice: Io non sono d’accordo. Sono
Renato Bandoli. Sono stato brigatista, sono un
irriducibile, ho fatto 25 anni di carcere e non
ho ucciso nessuno. Ma lo sai, Scabia, che noi
IV
teatridellediversità
in carcere leggevamo Marco cavallo e Teatro
nello spazio degli scontri?
E perché, gli ho detto, i burattini non li avete
fatti prima? Eh!
Bandoli adesso lavorava (e oggi ancora lavora)
coi bambini e con le persone a disagio.
Così siamo stati a parlare – anche se non
nominandola – in presenza di Madonna
Gentilezza, per un bel po’ del giorno.
C’è un fondo oscuro (infernale?) che
ogni tanto ci prende – singolarmente e
collettivamente. Credo che con l’aiuto dei
burattini (passatemi la metafora) a volte se
ne possa uscire. Che ci si possa spurgare dei
diavoli.
Praticare l’inferno (ma attenti, non arrivo
a dire che le Brigate Rosse fossero l’inferno:
per carità) a volte dà gusto, è elisir, droga. Ma
produce sempre dolore alla fine, morte, stragi,
lager. E auto distruzione.
Bisognerebbe tener sempre la mano infilata,
dentro la sacca dell’anima, nel corpo di
Madonna Gentilezza, burattina e no.
Come fare?
6) Un teatro gentile nello spazio degli scontri
In una pagina dell’ultima enciclica Bergoglio/
Francesco parla dell’aria condizionata.
Del colossale affare (business) dell’aria
condizionata. E la indica come una delle
cause pericolose, micidiali, del riscaldamento
terrestre. Mi ha colpito quella pagina.
Camminando d’estate per certe città come
Venezia, Firenze, Milano, Pechino, Shanghai,
New York, Xihan, Berlino eccetera eccetera si
sente un gran calore che viene dalle pietre,
dagli asfalti, dal cemento riscaldato dal sole,
dalle automobili e dalle arie condizionate.
Milioni o e milioni di arie condizionate,
milioni e milioni, miliardi, di automobili.
Quest’estate, camminando per Pechino e per
altre grandi città della Cina, tutte con più di
dieci milioni di abitanti, in certi momenti ho
avuto l’impressione che potremmo soffocare.
Ma anche a Milano non va molto meglio. Non
tanto per l’inquinamento, ma per il calore.
Calore prodotto dal sole e da noi. Fra una
superficie di terra e una di pietra (o asfalto,
o cemento) la differenza, quando colpite dal
sole, è di tre quattro gradi.
Che bel teatro è la terra. Noi, insieme a
tanti altri, piante, animali, insetti, virus,
batteri siamo gli attori della vita – e della
morte. Meravigliosi sono gli scontri. C’è uno
spettacolo più bello della guerra, magari in
diretta? Com’erano belli i bombardieri fra
il 1943 e il 1945, quando passavano sopra le
città e le radevano al suolo. Visti da lontano,
soprattutto di notte, per noi bambini erano
un teatro immenso, di fuoco e scoppi. Poi
ci trovavamo senza casa, in fuga, circondati
di morti e feriti. Eccolo il gran teatro nello
spazio degli scontri. Mesopotamia, Medio
Oriente, Babilonia, Gerusalemme, Tigri,
Eufrate, là c’era il Paradiso Terrestre. Abbiamo
raso la suolo il Paradiso Terrestre. Torri,
altissime torri, grattacieli, vetro, cemento:
architettura spettacolosa e distese immense
dai casamenti in città sempre più estese,
sempre più verticali. Un’urbanistica da matti,
scriteriati. Leggetelo quel libro di Franco La
Cecla intitolato Contro l’urbanistica.
Una mattina di luglio, quest’estate, a Pechino,
mentre aprivo una cassetta per le immondizie
ho visto venir su due formiche nere: mi hanno
guardato e improvvisamente ho pensato: ma
non staremo per fare la fine di quegli stupidi
dell’isola di Pasqua, che a furia di abbattere
alberi per trasportare totem giganteschi
come grattacieli si sono desertificata l’isola?
E così ho cominciato a dialogare con le due
formiche, anche loro perplesse, ma più
tranquille di me riguardo al loro destino
specifico. Com’erano sagge, com’erano
orizzontali! Intorno milioni di automobili
quasi ferme scaldavano il giorno: io ero là
col mio corpo inerme, di fronte all’immenso
complesso umano ormai incatenato nelle
sue protesi, nelle sue centinaia di migliaia
di edifici verticalissimi, di quaranta piani: e
ho pensato al teatro, alla sua nudità di corpo
camminante, paziente e gentile, marginale e
centrale, nello spazio degli scontri, delle auto
e dei grattacieli: riflettevo, insieme alla due
formiche, sulla corsa furiosa dello sviluppo, lo
sviluppo scorsoio che rischia di strangolarci.
O formiche, ho detto, dai, venite a fare i
burattini con noi, eh?
Così.
FORMICA BURATTINA UNO
Ma perché, uomini, correte tanto?
FORMICA BURATTINA DUE
State rincorrendo o state scappando?
IO
Allora cosa consigliate, formiche care?
FORMICA BURATTINA UNO
Se tutto è fatto per profitto, c’è poco da
consigliare.
Non vi fermate più.
FORMICA BURATTTINA DUE
E perdete l’anima.
IO
E allora?
FORMICHE BURATTINE INSIEME
Hai mai sentito parlare di Madonna
Gentilezza Burattina?
Ma qui sopravvenne un vento e un tornado
improvviso con pioggia furente scese sulla
città e le formiche salutando delicatamente si
rintanarono nella cassetta delle immondizie.
E io mi sono messo in cammino sotto la
pioggia, baracca e burattini, per arrivare in
tempo, oggi, fin qua.
Letto a Urbania il 28 novembre 2015 come
introduzione ai lavori del XVI Convegno
internazionale promosso dalla Rivista “CatarsiTeatri delle diversità” dedicato “Il teatro nella
trasformazione dei conflitti in modo nonviolento”.
Nota
(1) Si svolge il giorno del venerdì grasso ed è una rievocazione
delle antiche corride introdotte dagli Spagnoli durante la loro
dominazione. Consiste nel far correre per le vie del paese una
sagoma di bue costituita da un’intelaiatura di legno rivestita
da un telo bianco con strisce rosse. Il bove, animato da due
uomini, corre inseguito da una moltitudine di persone vestite
con il guazzarò o con abiti da torero. Da pomeriggio a sera,
alla fine il bove viene “mattato” e portato via al canto di Addio Ninetta Addio. Durante la mattinata del venerdì grasso, si
svolge una manifestazione per i bambini e ragazzi delle scuole
elementari e medie che simulano la stessa corrida pomeridiana
con un bove più piccolo.
* Direttore della Rivista “Catarsi-teatri delle diversità”
Rubriche - Il teatro di animazione 3
Isabella Bosano, Lorenzo Carboni, Vito Minoia, Amedeo Tassi, ha assegnato il Premio alla Compagnia Zero en Conducta
per lo spettacolo “Allegro ma non troppo”. La motivazione
premia un’opera: “Crocevia di linguaggi artistici: dal mimo
contemporaneo alle sue multipli relazioni con il teatro di figura (burattini corporali, teatro di oggetti, ombre). La vitalità degli interpreti José Antonio Puchades e Julieta Gascón
è riuscita a contagiare gli spettatori e ad evocare, attraverso
una fresca ed armoniosa energia, uno scenario onirico di alta
teatralità e poesia”.
Di Offida è originario anche Remo Di Filippo, laureato in storia del teatro al DAMS/Università di Bologna. Si forma come
attore, studiando la commedia dell’arte, la maschera neutra, la
maschera larvaria, la pantomima, la voce e il movimento. Si
avvicina al mondo del teatro di figura, grazie alla scoperta di
un piccolo laboratorio nel centro di Barcellona: “Casa taller
de marionetas de Pepe Otal”, dove scopre la nobiltà del legno,
e le sue infinite facce, e riconosce i fili che lo legano alla sua
infanzia. Cosí nasce Gino, la sua prima marionetta presente
anche nello spettacolo “Cuori di legno”, rappresentato a Offida, che prende vita grazie alla sapiente manipolazione della
marionettista e cantante australiana Rhoda Lopez, sua compagna d’arte e di vita.
L’iniziativa, particolarmente riuscita, si avvia felicemente a celebrare la propria seconda edizione dal 26 al 28 agosto 2016
(una tre giorni che si annuncia altrettanto ricca di eventi e belle sorprese). Attraverso il FOF a Offida rivive anche d’estate
lo spirito dell’antica tradizione carnevalesca. In tema di teatro
di animazione a partire dalle sue origini popolari e folcloriche
non possiamo non ricordare la festa de Lu “Bov Fint” che consiste in una farsesca caccia ad un bue finto, una volta vero (1).
Il festival, che si è concluso in ciascuna delle due serate con
centinaia di persone sedute sulla lunga gradinata davanti alla
Chiesa trecentesca di Santa Maria della Rocca in compagnia
delle esilaranti performance di Piero Massimo Macchini, si
è distinto anche per le iniziative collaterali a cura della scenografa Brina Babini che ha curato una articolata mostra di
burattini creati artigianalmente nel suo Atelier della Luna e
dell’artista statunitense Karen Konnerth (Calliope Puppets)
che ha tenuto un workshop di costruzioni e animazioni di
teatro delle ombre.
Allegro ma non troppo, Zero en Conducta, José Antonio
Puchades e Julieta Gascon
Rhoda Lopez e Remo Di Filipp
Abstract
HIGH THEATRICALITY AT FOF FESTIVAL
he first edition of FOF (Figura Offida Festival) was inaugurated in
Offida (Ascoli Piceno). It is a theater festival in international context,
focused on puppet theater (marionettes, puppets, dolls, object theater)
and the participation of some companies belonging to other theatrical
disciplines (magic, clowning, street theater). During the festival, a
commemorative award was dedicated to the artist Alfredo Tassi.
T
teatridellediversità
59
Rubriche Con le radici nel vento
MONTE SAN GIUSTO
LEO BASSI, POETA PAZZO
E STRAORDINARIO
Quando il clown può essere un attivista politico che rivela gli aspetti surreali e devastanti
del nostro sistema sociale
Intervista di Ginevra Sanguigno*
I
ncontro Leo Bassi al Clown&Clown
Festival. L’evento propone ad ogni appuntamento, attraverso spettacoli e incontri, una riflessione sui diversi aspetti
della figura del clown. Clown umanitario
e sociale, clown artista di strada, clown
poeta e attore di teatro. È un’ottima occasione per incontrare bravi artisti che
spesso lavorano come gli antichi saltimbanchi medioevali, portando in scena
temi sociali. Quest’anno l’intensità dello
60
spettacolo di Leo Bassi mi ha ricordato
quanto il clown ancora oggi può essere
un attivista politico, un poeta pazzo e
straordinario che rivela gli aspetti surreali e devastanti del nostro sistema sociale.
Il clown che parla al cuore delle persone.
Chi è Leo Bassi ?
Io sono la continuazione di un sogno, di
una utopia che la mia famiglia, a partire
dal 1840-50 ha sempre avuto, e cioè po-
ter vivere l’avventura di fare spettacoli
popolari, vicini alla gente. Fare spettacoli
per avere la libertà di viaggiare; la mia
famiglia credeva in un mondo utopico, senza frontiere, internazionalista.
Nel tempo abbiamo sempre mantenuto
viva questa utopia, ogni generazione si è
reinventata per mantenere vivo lo stesso sogno. A cominciare dagli spettacoli
circensi di mio nonno, gli spettacoli di
varietà internazionale di mio padre,
che ha lavorato molto negli Stati Uniti,
dove sono nato, seguendo la tradizione
europea. Ad ogni generazione è toccato
reinventarsi e cambiare, e anche per me
è stata la stessa cosa; quello che faccio
ha molto poco a che fare con quello che
faceva mio padre o mio nonno. Ma lo
spirito è lo stesso: il desiderio di potersi esprimere liberamente, di offrire al
pubblico qualche cosa di sorprendente,
che crei stupore in tutti i sensi; questo si
realizza con le idee e la tecnica, solo in
questo modo abbiamo potuto realizzare e continuare ad avere una vita libera
e senza padroni. Personalmente, nella
metamorfosi di questa tradizione, ho dovuto, ad un certo punto del mio percorso, lasciare il circo tradizionale e andare
in strada. Questo avveniva alla metà degli anni Settanta, quando cominciava a
rinascere una nuova tradizione di teatro
di strada, un rinascimento al quale ho
contribuito molto. Mi sono esibito per
molti anni in strada, cercando di essere più vicino ai miei sogni, entrando in
molti aspetti diversi dello spettacolo. Ho
avuto una intensa fase televisiva in Spagna e in Germania alla quale ho messo
fine perché non mi piaceva. Ho avuto
una fase teatrale, che continua ancora
oggi, dove io sono sul palco e il pubblico
è seduto. Fino ad arrivare ad una fase più
recente di vere provocazioni, come per
esempio quella di affittare un autobus,
dove la gente assiste allo spettacolo, che
si svolge sullo stesso bus.
Rubriche Con le radici nel vento
Leo Bassi, foto di Italo Bertolasi
In Spagna e in Sudamerica ho proposto questo tipo di spettacoli per parlare di politica e di giustizia, con l’idea che la liberazione del pubblico avveniva attraverso lo spettacolo stesso;
lo spettacolo che attiva un processo liberatorio che può continuare al di fuori dello spettacolo. Una liberazione politica
della persona con una coscienza politica. Per trovare dei modi
per risvegliare questa coscienza politica nel pubblico, nelle
persone. Un anno e mezzo fa ho iniziato un piccolo progetto
in Spagna, che sta avendo un bel successo: l’apertura di una
chiesa dedicata ai clown, dedicata al dio papero. Nelle bandiere fuori dal nostro locale-luogo di culto, c’è rappresentata
una papera di plastica. Questa chiesa l’abbiamo chiamata “La
Iglesia patolica” (da pato – “papero” in spagnolo). Utilizziamo
tutti i linguaggi, il rituale e la liturgia della Chiesa cattolica,
trasformandoli.
Quando non sono in giro per spettacoli o altro io celebro le
messe, la gente viene a sposarsi; non facciamo battesimo ai
bambini, perché siamo contrari al lavaggio del cervello, ma
dai 18 anni in poi ci si può convertire al patolicism, tradotto in
italiano “paperoicismo”.
Questo con l’idea di mantenere questo sogno utopico dall’inizio, che sarebbe quello di vivere liberamente ed essere liberi
da ingerenze divine; un mondo dove la filosofia ha un parte
importante nella vita della persona. Io penso che il clown dice
queste cose anche se non direttamente, il clown rompe tutti
gli schemi, rompe le convenzioni, le religioni; penso che il
clown sia uno dei più grandi umanisti. E continuo a perseguire il sogno in cui la mia famiglia ha sempre creduto, e cioè
la libertà non solo fisica di viaggiare, ma anche intellettuale di
credere in qualche cosa; di poter ridere, mettendo il ridere,
il sorriso, sopra tutto, come valore fondamentale nella vita,
sopra tutti gli altri valori umani.
Tu parli di strada come un luogo importante, ci puoi spie-
gare ?
Per me la strada è anche la piazza, negli anni Novanta ho accettato di lavorare in una nuova piazza: la televisione. Poiché
per me è importante ripensarmi continuamente, creare nuove
strategie, ho ribattezzato “piazza” il mezzo televisivo, considerandolo luogo di discussione. Come nell’antichità si faceva
nell’agorà di Atene, la stessa dinamica si ricreava nei talk show;
ho pensato che in un contesto di piazza e di discussione il
clown era necessario. In Spagna negli anni Novanta, il programma che tenevo era tra i più popolari, una sorta di Zelig,
il popolare programma italiano di intrattenimento comico.
Tra Zelig e un talk show. Io facevo cose stravaganti e mi conoscevano in tutta la Spagna; anche adesso, a distanza di tanti
anni, la gente si ricorda ancora di me. Ma dopo qualche anno,
ho deciso di chiudere con questo capitolo televisivo, vedendo
che tutto veniva strumentalizzato, dovevo stare dentro a tetti
prestabiliti, che facevano gioco ai network che producevano
lo show. Potevo dire e fare alcune cose a altre no, tutto era
contrattato prima dello spettacolo; la televisione è totalmente
controllata dai grandi poteri , da chi ha in mano l’economia,
dai mercanti. E allora per riprendere la mia libertà ne sono
uscito e sono tornato alla strada, e ho fatto un passo in più.
Ultimamente, una delle grandi rivoluzioni che sta avvenendo
in Spagna e anche in altri paesi in Sudamerica è l’idea di una
democrazia orizzontale, popolare, non più rappresentata dai
partiti o grandi capi di partiti... una specie di movimento
simile a quello dei 5 Stelle, ma senza Beppe Grillo. In Spagna
esiste e si chiama Podemos (1), ci sono anche altri gruppi che
lavorano nella stessa direzione.
è un’epoca la nostra, dove l’accesso all’informazione e alla
diffusione è quasi totale; non abbiamo più bisogno di
protagonisti, le decisioni dovrebbero essere, in un momento
come questo, ripartite tra le persone stesse; la strada e lo
spettacolo in strada hanno proprio questa qualità. Se tu lavori
teatridellediversità
61
Rubriche Con le radici nel vento
Leo Bassi, foto di Italo Bertolasi
in strada non sei conosciuto, non ci sono mille o diecimila
persone che ti vedono , ma solo quelle poche, cento, o forse
duecento, o forse meno, e magari a dieci metri di distanza
da dove sei le persone non sanno neanche che tu esisti, ma
questa è la condizione umana. La realtà è che i sette miliardi
di persone del pianeta non sono conosciute, sono anonime,
siamo una specie di massa dell’anonimato. Penso sia giusto
che l’artista rappresenti questo anonimato. Le persone
famose, la “stella”, mi sembra che siano figure passate; l’umiltà
che ti obbliga ad avere la strada crea la coscienza di sapere che
dopo qualche minuto hai finito il tuo spettacolo e che la vita
comunque continua.
Penso che questa sia la condizione adatta all’artista di oggi, che
in questo momento vuole essere nel flusso, nell’oggi di questo
tempo. Questo mondo dei famosi dell’arte, ma anche dello
sport, del calcio etc., è un mondo del secolo passato; continua
ancora, ma puzza di vecchio, di stantio, è saturato. Vedo questi giovani che lavorano in televisione e vengono riconosciuti
quando si esibiscono in piazza; per me sono superati, oggi c’è
un nuovo pubblico che vuole essere protagonista, un pubblico
che si mette il naso rosso, si dipinge la faccia ed è protagonista.
Quando arriva uno famoso, non dà niente al pubblico, tutta
l’attenzione è solo su di lui-lei; in strada il pubblico è il protagonista della performance, del rituale che viene celebrato…
il desiderio di anonimato è una dimensione filosofica, ed è
cultura vera che si manifesta; dall’altra parte abbiamo i falsi
profeti della televisione. Lavorare in questa direzione mi piace,
è importante, attualizza e rinfresca la mia comunicazione, e
mi fa vivere vicino alle persone.
Quali sono stati i tuoi maestri ?
La verità è che io vengo da una cultura familiare del circo; da
una famiglia circense, sono sempre vissuto in mezzo a circensi.
Non ho conosciuto mai niente altro che la dimensione del circo, da quando sono nato, fino almeno all’adolescenza. Sapevo
tutto della vita del circo: le persone facevano il loro numero,
62
si truccavano, andavano nei camerini. Non c’è stato mai un
momento dove non ero dentro al mondo dello spettacolo.
Sono cresciuto conoscendo e vivendo a stretto contatto con i
protagonisti, guardando gli spettacoli dove lavoravano i miei
genitori, ho avuto al fortuna di vedere Groucho Marx (2) sul
palco e di vederlo truccarsi, di parlare con lui. Mio padre ha
lavorato sei mesi con Louis Armstrong, io avevo sei anni. Ho
ballato nel suo camerino, mi ha fatto toccare la sua tromba!
Era un uomo molto generoso e simpatico ed io ero uno dei
bimbi dello spettacolo.
Ho incontrato Charlie Rivel (3), nella storia dei clown è molto
conosciuto, ho lavorato nello stesso circo, io avevo diciotto
anni lui ne aveva ottanta, lo guardavo ogni sera cercando di
apprendere qualcosa. Poi il resto della mia formazione è stata
da autodidatta, e credo di avere aperto strade nuove con le
mie provocazioni di strada. Mi ricordo molto bene i momenti
in cui passavo giorni interi a pensare e non avevo niente in
testa, ma io volevo aprire strade nuove, volevo creare cose che
nessuno aveva mai fatto prima. Quindi la fase di avere grandi
maestri è stata soprattutto nella mia infanzia, grazie ai miei
genitori e all’ambiente in cui vivevo, ma dopo, ed è forse
un’illusione, la mia sensazione è che sono stato maestro di me
stesso, ho seguito una logica che non avevo mai visto in altre
persone.
Io come maestro, fino a pochi anni fa, ho avuto la sensazione che non ero ancora pronto a rappresentare qualcosa di
così importante, qualcosa che poteva lasciare in eredità stili
o messaggi, ma andando avanti ho avuto l’intuizione che il
fatto di avere aperto strade era importante, ed era un dovere
comunicare a nuove generazioni questo percorso. Il tempo è
sempre molto poco, non riesco ad insegnare molto, anche se
ho molte richieste . Ci sono altre cose più urgenti che desidero
portare avanti, sono più interessato a sviluppare il mio recente
progetto, quello della chiesetta, vorrei creare un’altra liturgia,
scrivere una nuova Genesis, includendo i paperi, come il nuovo inizio dell’universo: i paperi di plastica che galleggiano nel
Rubriche Con le radici nel vento
Leo Bassi, foto di Italo Bertolasi
diluvio universale e nell’arca di Noè entrano perfettamente,
dimostrando così di essere veri déi. Sto lavorando su questa
idea e sono molto preso da questa mia avventura, ma voglio
anche continuare a comunicare il mio pensiero, e fare spettacoli è un modo altrettanto efficace. Questa avventura e il
mio modo di fare spettacolo credo possano ispirare le persone,
le nuove generazioni, come io sono stato ispirato guardando i
miei genitori, e altri artisti, e possa aiutare a creare linguaggi
mai scontati e incoraggiare il cambiamento.
* Attrice, mimo, clown
Note
(1) Podemos è stato fondato il 17 gennaio 2014 da alcuni attivisti di sinistra legati al movimento degli Indignados. Si è
presentato quindi per la prima volta alle elezioni europee del
2014, ottenendo a sorpresa l’8% dei voti (quarto partito spagnolo) ed eleggendo cinque eurodeputati. Podemos si propone
come un partito contro la “casta”, i privilegi della classe politica e la corruzione. Tra le sue proposte ci sono il controllo
pubblico delle banche, l’introduzione di una Tobin tax sulle
transazioni finanziarie, l’inasprimento delle pene per i reati
fiscali, un tetto massimo alle rate dei mutui, un referendum
obbligatorio su tutti i temi importanti, e l’introduzione del
reddito di cittadinanza.
(2) Groucho Marx, nome d’arte di Julius Henry Marx (New
York, 2 ottobre 1890 – Los Angeles, 19 agosto 1977), è stato
un attore, comico e scrittore statunitense. Terzo dei cinque
Fratelli Marx, esordì nel mondo dello spettacolo fin dal primo
decennio del Novecento, affrontando una lunga gavetta nel
vaudeville che lo portò a recitare con i fratelli nei teatri di
varietà di tutti gli Stati Uniti.
(3) Charlie Rivel (nome d’arte di Josep Andreu Lasserre, 18961983) è uno dei pochi clown che abbia mai raggiunto la fama
di una star internazionale. Come Grock e i Fratellini prima di
lui, Rivel fu amato in tutta Europa, osannato allo stesso modo
dalla nobiltà e dal pubblico più popolare. Ha ispirato dipinti
e romanzi, film e opere teatrali, la sua immagine fu utilizzata
come modello per bambolotti e altri souvenir, e ricevette tutti
gli onori e i riconoscimenti possibili per un performer. La sua
carriera, durata ben ottantadue anni, lo portò dalla povertà
alla ricchezza. Mescolando con abilità superbe capacità artistiche, talento per la pantomima e una predisposizione per
le relazioni pubbliche, sviluppò un personaggio di clown del
tutto originale, che rimane fino ad oggi come una delle più
grandi icone del circo del XX secolo.
NdR: le notizie contenute in queste note sono tratte, per quanto
riguarda il movimento di Podemos e la figura di Groucho Marx
da Wikipedia, L’enciclopedia libera, alle rispettive voci. Le informazioni su Charlie Rivel sono prese invece dalla voce relativa su Circopedia, The Free Encyclopedia of the International
Circus. La traduzione italiana è redazionale.
Abstract
LEO BASSI, CRAZY AND SPECIAL POET
inevra Sanguigno has met and interviewed Leo Bassi on the occasion
of Clown & Clown Festival in Monte San Giusto. The festival aims
to a reflection on different aspects of the figure of the clown, during
every appointment, through performances and meetings. Humanitarian
and social clown, street artist clown, poet and theater actor clown. The
intensity of the performance of Leo Bassi shows how the clown still can
be a political activist who reveals the devastating and surreal aspects
of our social system. The clown who speaks to people’s hearts.
G
teatridellediversità
63
Rubriche Danza
CON VIRGILIO SIENI
DANZARE
PER CAPIRE
Un laboratorio con persone non vedenti alla Biennale di Venezia
di Gaia Germanà*
foto di Gaia Germanà
Da alcuni anni mi occupo di danza, promuovendo l’accesso
a questo ambito artistico “per tutti”, ovvero cercando strategie per garantire il diritto alla bellezza a persone di età e
abilità differenti e sperimentando pratiche coreutiche inclusive. Bambini, madri e figli, adulti con deficit sensoriale o
motorio e anziani sono i gruppi con i quali lavoro prevalentemente, in vari contesti: dalla scuola pubblica alle cornici
istituzionali della danza dei teatri. Riporto qui un’esperienza
per me molto significativa, vissuta “sulla mia pelle” nell’ambito del 9. Festival Internazionale di Danza Contemporanea
la Biennale di Venezia Gesto – luogo – comunità, manifestazione diretta dal coreografo fiorentino Virgilio Sieni che, tra
giugno e luglio 2014, ha coinvolto alcuni professionisti italiani e internazionali insieme a un gruppo di non vedenti del
Veneto alla loro prima esperienza di danza.
Il progetto, dal titolo Danze per capire, è stato voluto da
Sieni in una Biennale già “contaminata”, accolta negli spazi
delle Corderie dell’Arsenale allestiti per la 14. Mostra Internazionale di Architettura. Alcuni palchi e luoghi deputati al
movimento sono stati ritagliati tra le istallazioni architetto-
64
niche per dare uno sguardo ai processi creativi che si attuano attorno ai Fundamentals (tema della mostra) anche nel
corpo. Particolarmente calzante, tra le altre, la riflessione per
quanto riguarda il lavoro coi non vedenti: alla ricerca di un
gesto estetico originario e fondamentale, poetico-espressivo,
non solo funzionale. Sieni conduce dallo spettacolo Osso
del 2005, dove dialogava col padre in scena, la sua ricerca sul movimento nella direzione di un’autenticità emotiva
e “archeologica”, che scava cioè nel corpo umano, nel suo
scheletro e nel suo vissuto, per presentarsi qual è al pubblico, senza infingimenti. Di recente ha moltiplicato, a partire
da Cango-Cantieri Goldonetta a Firenze, sua sede operativa, le attività dell’Accademia sull’arte del gesto, cornice di
lavoro dedicata ai non professionisti, approdando anche in
molte città italiane e straniere. Oltre al suo lavoro con la
compagnia, conduce infatti, sistematicamente, percorsi che
preparano alla scena e presentano al pubblico delle opere che
mostrino la fragilità umana, la bellezza di un corpo imperfetto, in ascolto del sé e della comunità con la quale danza,
celebrando le relazioni che si originano da uno scambio di
esperienze molto diverse.
Entrando nel merito del progetto veneziano: per un mese ho
facilitato, insieme al danzatore non vedente Giuseppe Comuniello, un gruppo composto da una ventina di persone,
tra vendenti e non vedenti, in un percorso di sperimentazione confluito nella performance Insegnamento (con 5 non
vedenti e 5 danzatori più un cane guida), quadro corografico
del “Vangelo secondo Matteo” presentato dallo stesso Sieni
i primi di luglio al Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia.
Con Giuseppe Comuniello abbiamo preso parte alle attività
dell’Accademia di Firenze fin dal 2007, seguendo la nascita
del gruppo di lavoro Damasco Corner, sviluppatosi in seno
a Cango per sperimentare le diverse modalità di trasmissione
del gesto danzato, senza passare dalla vista. Come si può insegnare/imparare la danza senza vederla? Come si può apprezzare uno spettacolo di danza tradotto da una persona che ce lo
racconta muovendoci, toccandoci? Questi solo alcuni quesiti
sorti lungo il percorso, che trovano in Giuseppe, oggi Premio Positano 2014 come miglior danzatore contemporaneo
e danzatore ufficiale della Compagnia Virgilio Sieni, una risposta vivente.
Il laboratorio di Danze per capire ha presentato agli ospiti
della Mostra una metodologia flessibile di trasmissione del
gesto, un work in progress iniziato negli anni precedenti e
legittimato in una cornice internazionale incrocio di diversi
linguaggi artistici qual è la Biennale, lasciando sperimentare
ai non vedenti un linguaggio personale di movimento, per
scoprire le potenzialità di un corpo che comunica, esprime
se stesso e conosce, rivelando significati e saperi profondi tra
le sue pieghe. Allo stesso tempo ha portato alcuni giovani
danzatori a condurre una ricerca sul sentire, sulla trasmissione del gesto e sulla relazione che si può instaurare attraverso
la danza: un’educazione alla tattilità molto preziosa nel panorama del contemporaneo, che implica una certa apertura,
disponibilità all’inaspettato, come tecnica tra le tecniche di
movimento possibili.
Dato il deficit sensoriale dei partecipanti, la tattilità è stato
il principale strumento utilizzato. La danza non si apprende
solo per imitazione, soprattutto la danza di oggi: partendo
Rubriche Danza
foto di Gaia Germanà
da un ascolto interno al corpo, immaginando e toccando le
sue architetture, esplorando i suoi meccanismi di funzionamento, si possono trovare delle strade molto personali per
esprimersi, rivisitare una gestualità anche quotidiana con una
diversa consapevolezza, esercitandosi a un incontro morbido
con l’altro, in ascolto del momento, allenandosi alla scelta e
svegliando la propria capacità ad esserci (di fronte a se stessi e
all’altro) più che al saper fare.
La grande scoperta per i non vedenti è stata la possibilità di
utilizzare il tocco non solo per un gesto funzionale, ma per
esprimere e comunicare in maniera consapevole e sensibile,
sintonizzandosi con l’altro per danzare assieme. Oltre alla
pelle, a un primo contatto epidermico, il lavoro si è focalizzato su alcuni temi principali: il peso, la manipolazione,
l’impulso, la proiezione del corpo nello spazio. Nel tempo
lento del non visuale, si è sviluppata una relazione profonda,
che ha mosso emozioni e sensazioni nuove per tutti i partecipanti al progetto. Sperimentare le possibilità espressive del
proprio corpo, con gli altri, è stata una scoperta meravigliosa
per chi non aveva mai provato a danzare. Imparare le diverse
sfaccettature di un tocco, il portare e l’essere portati, la sicurezza di un gesto preciso e direzionato, la fiducia implicata
nel lasciare il proprio peso o sostenere quello dell’altro, sono
rivelazioni importanti per vedenti e non vedenti.
In scena per Insegnamento, la relazione, lo scambio, il dialogo
tra vissuti, tecniche, esperienze diverse erano riconoscibili,
densi e giocosi, con la speciale collaborazione di una cane
guida, sintonizzato perfettamente al gruppo di azione. Il
percorso artistico ha manifestato in scena il suo valore estetico, senza negare un aspetto terapeutico per i partecipanti,
di trasformazione del proprio sentire e sentirsi, con l’altro e
nell’ambiente attorno, che sfocia nel sociale e nella vita quotidiana. Con la danza si impara ad aprire lo sguardo, a immaginare e trasformarsi, allargando gli orizzonti di possibilità
di ognuno. Per me, in particolare, la ricerca prosegue, non
solo con i non vedenti, non solo nell’ambito della danza dei
teatri, ma con tutte le classi con le quali lavoro, di bambini
e adulti: il percorso che ho vissuto si è depositato nel profondo, sotto la pelle, e affiora continuamente nella pratica,
indicandomi a volte soluzioni totalmente inaspettate.
* Docente di danza educativa e di comunità
Abstract
ON MY SKIN: A DANCE EXPERIENCE WITH BLIND PEOPLE
n Virgilio Sieni’s Biennale Danza Festival - Venice, June 2014 - I led a
workshop with blind people not trained in contemporary dance before.
With the help of Giuseppe Comuniello, a professional blind dancer, we
worked on the “fundamentals” of dance, according to the context of
Architecture Biennale, 14th International Architecture Exhibition.
Looking for the main structures of the body and his expressive and
creative possibilities, using mostly touch instead of sight, we prepared
a group of amateur blind dancers together with few professional dancers
for a performance, showed in the frame of the festival. I still keep this
experience under my skin.
I
teatridellediversità
65
Rubriche Danza
INIZIATIVA UNESCO
LA GIORNATA
DELLA DANZA
Il 29 aprile di ogni anno, dal 1982 ad oggi, si
festeggia in tutto il mondo la danza
Il Messaggio di Lemi Ponifasio
Q
NAPOLI
BOTTEGA
TEATRALE
AL RIONE
SANITÀ
Il racconto di un’esperienza di teatro
educativo in uno dei quartieri più difficili del
capoluogo partenopeo
uest’anno è stato Lemi Ponifasio, coreografo, regista,
designer e artista samoano, fondatore del MAU (letteralmente “dichiarazione di verità”) in Nuova Zelanda
per un lavoro concepito come azione di trasformazione con
comunità e artisti provenienti da tutto il mondo.
KARAKIA
(Preghiera)
Toccare il cosmo
la fonte della nostra divinità
che illumina
il volto degli antenati
per poter vedere i nostri figli
Tessere sopra a lato di sotto
unire tutti all’interno
della nostra carne, delle nostre ossa
e della nostra memoria
La Terra gira
gli esseri umani migrano in massa
le tartarughe si riuniscono in silenziosa preparazione
il cuore è ferito
Danziamo
un movimento d’amore
un movimento di giustizia
la luce della verità
Traduzione di Roberta Quarta a cura del Centro Italiano dell’International Theatre Institute
Tra le diverse iniziative organizzate in Italia ne segnaliamo
una, a cura dell’Associazione Indipendance, con il sostegno del
Comune di Fermignano (PU). Il progetto, finalizzato a portare la danza alle persone e le persone alla danza, nasce da una
idea di Gloria De Angeli – presidente di Indipendance e laureata in Discipline Teatrali all’Università di Bologna. L’evento
si è sviluppato durante l’intera giornata di venerdì 29 aprile
2016 e si è articolato in vari appuntamenti dislocati nei luoghi
più significativi del paese. Ha previsto momenti laboratoriali,
di performance e incontri.
Il programma completo sul sito www.indipendance.org
66
di Peppe Coppola
Q
uando si pensa al quartiere Sanità, a Napoli, il pensiero
subito corre all’identificazione di fenomeni di emarginazione, di criminalità, di un luogo focolaio di decadimento. Impressione di certo mutuata dalle notizie di cronaca
e da un certo tipo di letteratura e di sceneggiatura, soprattutto
televisiva.
Ma per chi opera a diretto contatto con il territorio, e si sforza
di percepirne le dinamiche interne, estranee ai circuiti compromessi, si ha la sensazione, a tratti rassicurante, di arrivare come
in un paese un po’ fuori dalle tensioni della città metropolitana.
Questo è stato un punto di forza fondamentale per il nostro
operato: non insegnare a partecipare, ma sviluppare le condizioni e i percorsi che rendono accogliente il fare di chi vuole
partecipare.
La presenza delle famiglie è di certo un valore aggiunto che va
rilevato: alla partecipazione degli abitanti è affidata la possibilità
di riannodare, su un terreno concreto e comune, le relazioni con
il territorio, tali che si possano riconoscere i luoghi identificativi
del quartiere. E allora quella che si respira è la volontà a non
rassegnarsi, a voler impegnarsi nel e per il futuro dei propri figli,
a costruire una realtà che sia necessaria e condivisa.
L’esperienza della bottega teatrAle è partita tre anni fa, quando
si diede inizio, con una quinta elementare di una piccola scuola
primaria del rione Sanità di Napoli, ad un percorso di teatro
educazione, un laboratorio della durata di un intero anno scolastico, svolto in orario extracurriculare. Sin dal principio si sentiva l’esigenza di ampliare gli orizzonti, di non rimanere solo, o
almeno non solo nella scuola, ma di estendersi anche al di fuori
delle mura scolastiche per poter raggiungere un numero più
elevato di bambine e bambini. Era forte la necessità di condividere questa avventura e di non limitarla ad un solo luogo e solo
per pochi bambini. Il tutto sembrava avere l’aria di una sfida.
Sfida che la Fondazione Pavesi e noi operatori teatrali volevamo
cogliere in tutta la sua difficoltà, ed in tutto il suo grande carico:
lavorativo ed emotivo. E per certi versi è stato così, l’ampliamento è avvenuto, la condivisione era iniziata. Un anno dopo,
Rubriche Teatro e scuola 1
gli alunni della scuola continuavano a seguire il laboratorio;
ma insieme a loro ora c’erano anche tanti nuovi partecipanti:
coetanei, fratelli, sorelle, curiosi. Le fasce di età coinvolte comprendevano un range dai 4 ai 14 anni, ed un grande impegno.
Qualcosa stava per nascere, o meglio era già nato e cercava di
crescere. Quello stesso anno la bottega si è ampliata, in collaborazione con la parrocchia e il punto luce di Save the Children.
Il rione ha voluto prendere al volo quest’opportunità e giocare.
Nel terzo anno di attività, le forze si sono concentrate ancora di
più, è aumentato il desiderio di inoltrarsi in questa avventura
educativa; all’impegno degli operatori della Fondazione Pavesi
si unisce il Nuovo Teatro Sanità. La comunità che gira e gioca
intorno al mondo del teatro educativo si sta allargando sempre
di più. Quella che era nata come una sfida, sta assumendo i
tratti e i colori di una rete/realtà educativa stabile ed innovativa
dove tutti si impegnano e, per restare nella metafora del teatro,
studiano la loro parte, collaborano all’allestimento, si fanno carico del lavoro e spartiscono gli applausi.
Nel corso di questo ultimo laboratorio, molti sono stati i temi
trattati e molte sono state le metodologie attuate. Una più di
tutte ha travolto la curiosità dei bambini e delle bambine: leggere un albo illustrato e provare a metterlo in scena. La lettura
de Il paese dei mostri selvaggi ha da subito attirato la fantasia
di tutti. Sono poi bastati pochi materiali: un telo di plastica,
delle giocolerie, fogli di carta, tanti cuscini e i corpi dei bambini. Allora la trasformazione è iniziata, dapprima si era bambini
e poi foresta e poi mare e barca e giù di lì. Ogni suggestione
del testo veniva trattata e studiata in maniera approfondita. Sin
dall’inizio la storia del piccolo Max è diventata la storia di tutti,
nessuno escluso. Ognuno ha sentito il desiderio di raccontare
il proprio viaggio alla ricerca delle cose, lottando contro chi ci
pone ostacoli, ma la curiosità di arrivare lì dove tutto è concesso,
dove i desideri prendono vita, dove aver paura del diverso non
è neanche lontanamente accettabile, lì dove si può essere re o
regina ogni singolo giorno a volte non basta ed il desiderio di
ritornare nel proprio nido con gli affetti più cari sembra esse-
re stato il momento più delicato, sentito fortemente sulla loro
pelle e sui loro volti. Alessio ( 6 anni, durante un momento di
laboratorio), dice : “si è una cosa e si diventa un’altra, ma casa
mia è sempre il posto più sicuro al mondo, dove io sto meglio.”
Nel corso delle azioni volte al recupero delle fasce deboli si è
cercato di comprendere i bisogni, le aspirazioni, le potenzialità dei minori e individuare strumenti metodologici e modalità
operative per accompagnarli nel processo di crescita.
Si evidenzia, oggi, a fronte del percorso già fatto e dell’esperienza maturata “sul campo”, la necessità di confrontarsi con
realtà esterne ai propri ambienti di vita e ai contesti periferici
agiti quotidianamente: si rende necessario un ri-adeguamento
dell’esperienza progettuale, rispetto a quelli che sono i nuovi bisogni e la domanda espressa dagli utenti, sempre più numerosi e
sempre più consapevoli nelle richieste. A fronte delle dinamiche
territoriali, si apre uno spazio di riflessione circa l’opportunità di
ampliare gli sforzi di integrazione con azioni che mirano a rompere l’isolamento culturale e sociale dell’utenza di riferimento,
mediante un intervento che investe non solo le minoranze sociali oggetto del nostro interesse ma anche il territorio che le
circonda e il tessuto urbano che è chiamato ad accoglierle. I
bisogni di “salute sociale” più complessi raramente trovano risposte esaustive nella programmazione di un ‘unica area, sia essa
di tipo volontario che di tipo istituzionale. L’intento portato
avanti dalla Fondazione Pavesi è quello di elaborare un piano di
intervento integrato rivolto alla generalità degli individui, dando come sempre la priorità ai soggetti implicati in situazioni
problematiche quali povertà, riduzione delle capacità personali,
difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva, minori in condizioni di disagio familiare, valutando il bisogno come criterio
di accesso al sistema integrato di interventi e attività.
teatridellediversità
67
Rubriche Teatro e scuola 2
LAVORARE IN RETE
LE RASSEGNE
RA.RE.
Le Rassegne di teatro scuola, dagli anni Novanta, costituiscono una realtà e un
patrimonio tutto italiano, nel panorama internazionale del teatro educazione
a cura di Margherita Dotta Rosso, Biancamria Cereda, Onelia Bardelli*
Sole e Saturno in casa XI - IIS G.B. Ferrari di Este
Le più interessanti rassegne di teatro scuola, più che una vetrina
di spettacoli, realizzano un progetto artistico-educativo attraverso
cui far emergere il pensiero e la percezione degli studenti di ogni
età in merito a valori, linguaggi, problematiche attuali e visioni
del futuro. Sono anche il luogo dove è possibile la formazione del
pubblico, ovvero la formazione del cittadino, perché è attraverso
questa formazione che si esprime il senso profondo e civile del
teatro.
Negli ultimi tempi, però, il loro numero si è di molto ridotto
(erano circa un centinaio, nel censimento effettuato all’inizio del
2000). Agita ha lanciato, allora, l’idea del progetto Ra.Re (Rassegne in rete), a cui hanno aderito 33 rassegne sparse su tutto il
territorio nazionale. Qualche dato riferito al 2014: 600 spettacoli, 12.000 studenti, 1.800 docenti e operatori teatrali, 72.000
presenze di pubblico.
68
Se il nuovo Protocollo d’intesa istituzionale sull’educazione teatrale, la Giornata Mondiale del Teatro e gli articoli in tema
contenuti nella legge n°107 (13 luglio15), avranno un concreto
seguito, la rassegna si riconferma essere lo spazio in situazione più
fertile per la ricerca, il confronto, l’ascolto, la formazione (L. P.)
Le Rassegne: perché non più così numerose come in passato?
Forse no, solo diverse. Alcune si estinguono, altre nascono.
L’acronimo RA.RE. ci piace perché le rassegne sono preziose,
sono da salvaguardare, accompagnare, far crescere, mettere in
relazione. La rete offre un sostegno non economico quanto
informativo e formativo ed il suo scopo è anche quello di stimolare collaborazioni ed ottimizzare i risultati.
La rete costruisce relazioni e accoglie, incrociandole, le diverse
Rubriche Teatro e scuola 2
Angry Birds, Liceo Monti di Chieri
esigenze; è luogo di confronto e negoziazione; vuole offrire
strumenti e conoscenze attraverso lo scambio di esperienze, è
un ambiente alla pari che incrementa fiducia e autostima. La
rete è un sistema di interconnessioni fra persone, associazioni,
enti che permette di collaborare, cooperare, osservare, con lo
sguardo rivolto all’obiettivo comune e condiviso.
Un primo strumento per fare rete è stato la firma del Protocollo d’intesa fra Agita e le Rassegne che hanno aderito alla Rete
nazionale delle Rassegne di Teatro della Scuola e della Comunità. La rete produce la possibilità di propagare l’informazione
in tempi rapidissimi e senza perdita di coesione, così come avviene nel volo degli storni che comunicano tra loro, attraverso
impulsi immediati e rapidissimi che ne modificano la forma
pur rimanendo sempre nella stessa porzione di cielo. Basta alzare gli occhi al cielo di Roma, al tramonto nei mesi invernali,
per scorgerne il caratteristico volo in formazione. Lo scambio
rapido di informazioni, quello che produce il volo superfluido degli storni, può fornire anche gli strumenti concettuali e
pratici che una società si dà e che ne definiscono la cultura.
Se invece gli uccelli, anziché stanziali, sono migratori, come
le anatre selvatiche che puntano stagionalmente verso sud, assumono una formazione in volo che assomiglia alla lettera V,
perché questa permette loro di aumentare la velocità e l’autonomia di volo rispetto al singolo uccello e si affaticano di
meno. Un’anatra guida lo stormo e si pone sul vertice della V,
ma si alterna con le altre per spartire la guida e la fatica.
Così, le rassegne in rete stanziali, ma diverse a seconda della
tipologia - locale, regionale, nazionale, internazionale - possono spiccare il volo verso altri orizzonti ideali, concedendosi il
tempo necessario per formulare e consolidare nuove visioni e
nuovi saperi: una nuova cultura.
Il passo successivo consiste nel disegnare il progetto. Soprattutto capire qual è il progetto ritenuto utile per diffondere sempre
di più il teatro nella scuola e nel sociale, perché, per arrivare a
buon fine, ogni esperienza deve essere utile e necessaria per chi
la vive. Il progetto si costruisce insieme, tassello dopo tassello,
idea dopo idea, esperienza dopo esperienza, senza demordere
o lasciarsi scoraggiare dalla routine e dai problemi quotidiani.
La costituzione di RA.RE. è stata portata a conoscenza dei
ministeri interessati (Miur e Mibact) e in tempi di trasformazione, forse di apertura, sia per la formazione dei docenti,
sia per l’ampliamento dell’offerta formativa legata alle attività
espressive e, ancora, per le funzioni degli uffici scolastici regionali e per le reti di scuole previste dall’autonomia scolastica,
sarà forse arrivato il tempo di un organico percorso formativo
per i docenti come per gli operatori culturali?
Una ri-organizzazione delle Rassegne del Teatro della Scuola
in ambito regionale, con la costituzione di reti locali, permetterebbe una presenza più significativa ed un più facile rapporto con le istituzioni scolastiche e gli enti locali?
Le anatre selvatiche potranno spiccare il volo?
* Operatrici AGITA
Abstract
RA.RE. EXHIBITIONS
thread runs through the “Bel Paese” (beautiful country) since the
Nineties: the theater that originates in schools and leaves the closed
classrooms through exhibitions. Agita can capture it crating an informative
network to enhance the existing. The exhibition is an Italian phenomenon:
it is not a festival in the strict sense, nor a parade of tout court performances,
but rather a training program in situ for teachers, students, professionals,
experts, family members and administrators. The first Memorandum
of Understanding on theatre education, with the involvement of the
ministries in charge, dates back to 1995: it aims to the formal recognition
of artistic activities in schools; it was followed by others, in 1997 and
2006, and by a guideline document in 2007. In 2012, the protocol Ra.Re
was elaborated: it is a private commitment of Agita and the representatives
of signatory exhibitions, to form a common design, avoiding to disperse
the results obtained, to further spread theater in schools and communities.
A
teatridellediversità
69
Rubriche Teatro e scuola 3
AVANZAMENTI
SU ALCUNE NOVITÀ
Dal bando promosso dal MIUR a ottobre 2015 alle significative iniziative in Toscana e a
Torino
di Loredana Perissinotto*
L
’ultimo scorcio del 2015 ha segnato
alcune novità che potrebbero avere
interessanti sviluppi; novità ascrivibili anche ad accordi e collaborazioni tra
soggetti pubblici e privati. Mi sembra interessante darne notizia, senza personali
conclusioni, partendo dalle istituzioni.
La Direzione Generale per lo Studente
del Miur ha indetto ad ottobre il bando
“Promozione del teatro in classe, anno
scolastico 2015-16” in attuazione di
quanto contenuto nell’art.12 del DM n.
435 e di quanto, sull’argomento, è presente nella legge 107 (Buona Scuola).
Due milioni di euro sono stanziati per i
progetti a cura delle istituzioni scolastiche
in partenariato con altri enti pubblici e
del terzo settore. I termini per partecipare
sono stati molto stretti, tuttavia pervengono al Ministero circa 2000 progetti,
al successivo vaglio di una commissione
interna.
Renato Corosu del Miur ci conferma
che, nel complesso, hanno partecipato al
bando 2800 scuole, con progetti presentati singolarmente o come rete di scuole.
Essendo le scuole pubbliche statali circa
8.644, con una popolazione di 7,8 milioni di studenti, risulta in percentuale
che più di un terzo degli istituti hanno
presentato progetti col coinvolgimento
di circa 2,6 milioni di studenti. Bel colpo
per il teatro in ambito educativo!
Al di là dei numeri, se si potesse anche
entrare nel merito dei contenuti e delle
forme espressive di questo importante
campione, si potrebbe avere un aggiornato profilo della relazione tra scuola e
70
teatro nel nostro paese; ma lo studio delle
linee d’indirizzo, con i punti di forza da
valorizzare e le eventuali criticità da correggere, esula, al momento, dal bando e
dalla prospettiva ministeriale.
Andiamo ora a Firenze, dove a metà
novembre, viene presentata l’indagine,
realizzata nell’anno scolastico 2013-14,
“Scuola & Teatro in Toscana. Esperienze,
confronti, prospettive” , curata dalla Rete
Teatro Educativo (RTE), in collaborazione con alcuni assessorati della Regione
Toscana, con l’Ufficio Scolastico Regionale e la Fondazione Toscana Spettacolo.
La Rete di soggetti privati, di cui fanno
parte la Fondazione Sipario Toscana onlus, Giallo Mare Minimal Teatro, la Residenza del Teatro delle Arti di Lastra a Signa, la Rete Teatrale Aretina, Agita/Casa
dello Spettatore, appoggiata nell’indagine
da alcune istituzioni pubbliche, costituisce una novità a livello nazionale o, per
altri versi, la logica conseguenza della
lunga riflessione sul pubblico destinatario, ma pure del principio, finalmente
condiviso, che la formazione delle nuove
generazioni si basa sia sul fare teatro, sia
sul fruirlo.
La campagna Tre volte almeno per sensibilizzare i teatri piccoli o grandi della Toscana, nonché gli organismi preposti alla
distribuzione, affinché ogni cittadino in
età scolare possa andare a teatro almeno
tre volte in ogni stagione, ne è un significativo segnale. La RTE ha ovviamente
in cantiere altri obiettivi e progetti di
formazione, di ricerca, d’incontri e le informazioni, per quanti interessati, sono
reperibili nei siti web dei componenti.
È interessante qui focalizzare alcuni elementi, messi in rilievo da Ivana Conte
nella sua esposizione dell’indagine che,
per come è stata impostata, costituisce un
“modello” applicabile in altre regioni, se
si volesse conoscere la propria realtà del
teatro-scuola. Dai 420 questionari pervenuti da scuole di ogni ordine e grado
(la scuola primaria è la più presente, di
meno la secondaria superiore) tra le finalità del fare teatro emerge che la didattica e le metodologie d’apprendimento
superano di gran lunga quelle ludiche,
l’impegno sociale e l’integrazione, le relazioni affettive. Anche i criteri di scelta dei
docenti nel portare a teatro gli studenti
(semel in anno è il dato prevalente), rispondono alla programmazione didattica
e, in seconda battuta, ad altre tematiche
rilevanti (storiche, sociali, etiche) e all’educazione ai linguaggi.
Il partenariato è di poco superiore alla
conduzione diretta del laboratorio teatrale da parte degli insegnanti; mentre il sostegno economico viene principalmente
da fondi scolastici, seguito da quello degli
enti locali e dalle quote famiglia.
Per quanto limitato ad una regione, resta
un campione significativo del dove sta
andando il teatro scuola più in generale
e, a saperlo leggere, stimola interessanti
riflessioni sul da farsi.
Restando in Toscana è da segnalare, sempre a novembre 2015, l’esordio di “Strade Maestre. Tragitti di teatri della scuola”,
una nuova rassegna nazionale finanziata
dal Comune di Altopascio, che si è avvalso della collaborazione di Agita. Una
nuova rassegna è di buon auspicio, pensando alla tendenza negativa degli ultimi
anni con la sparizione di moltissime rassegne. L’approfondimento è nell’ articolo
di Graziella Perego e Sara Ferrari.
A metà ottobre, a Torino è stata invece
presentata la Carta di D.N.A (Drammaturgie Non Allineate), atto finale del progetto di Unoteatro, di cui si è già parlato
nel n°68-69/2015 della rivista. È possibile
visionare la carta all’indirizzo Internet
file:///C:/Users/Vito/Downloads/Carta_
DNA.pdf focalizzando l’attenzione sulle
pagine 20-21 del documento: le parole
per agire, che ci sembrano molto importanti per il loro riferimento alla formazione, animazione teatrale, scuola, famiglia, spettatore.
* Presidentessa AGITA
STRADE MAESTRE AD ALTOPASCIO
Nata sotto una buona stella, la rassegna è partita con otto scuole provenienti da tutta
Italia, una scuola estera ed una molteplice presenza di scuole del territorio
di Graziella Perego*
Rubriche Teatro e scuola 4
NUOVA INIZIATIVA
Operatori Agita e studenti in scena ad Altopascio
A
ltopascio (Lucca), per quattro giorni, è diventata la città
del “fare” e “vedere” teatro. Gli spettacoli sono andati
in scena al Teatro Puccini: 420 studenti in scena ed un
pubblico attento e partecipe ha riempito sempre tutta la sala.
Il teatro, moderno e funzionale, fortemente voluto dal comune
francigeno, è stato ristrutturato ed inaugurato nel 2011, dopo
oltre 25 anni di inattività.
I personaggi del Direttore (Salvatore Guadagnuolo) e della
Smarrita (Marina Di Virgilio) hanno simpaticamente intrattenuto il pubblico tra uno spettacolo e l’altro, annunciati e accompagnati da un bellissimo jingle: “credo negli esseri umani che
hanno il coraggio di essere umani”.
La rassegna, oltre alle rappresentazioni teatrali, ha coinvolto gli
studenti in varie attività: con Guido Gentilini nel laboratorio
teatrale sonoro “Chi siamo?”, con Desy Gialuz nel laboratorio
“Il cammino”, con Ina Muhameti nel laboratorio “Il viaggio”,
con Sara Ferrari nell’Osservatorio Giovani” e “Fare e vedere”,
momenti d’incontro e di formazione.
Rossella Russo e Luca Mastrolonardo hanno curato“Convergenze”, il giornale della rassegna.
La rassegna ha anche offerto un “dono teatrale” di tutti gli operatori, nel bellissimo Teatro dei Rassicurati di Montecarlo e il
convegno “Strade Maestre: progettare il futuro”. Tra i relatori, Patrizia Mazzoni, Ivana Conte, Fabrizio Cassanelli, Patrizia
Coletta, Satyamo Hernandez, Loredana Perissinotto, Salvatore
Gudagnuolo, Miriam Iacopi e l’amministrazione comunale con
Maurizio Marchetti, Nicola Fantozzi, Lucia Flosi Cheli, Luigi
Del Tredici.
ma è meglio viaggiare insieme per costruire e condividere (dalla
lettura del libro di Baricco)
Leggerezza, serietà e consapevolezza, fiducia, condivisione.
Insegnanti: Giuliana Magazzù e Anna Morelli, operatrice teatrale Mirian Iacopi.
Hibakusha, i sopravvissuti / Fiumicello e Aquileia - gruppo interclasse Secondaria di primo grado
In ogni guerra, vinti e vincitori devono leccarsi le stesse ferite.
Parlano gli hibakusha, i sopravvissuti di Hiroshima.
Potenza espressiva, emozioni, coralità, riflessione
Insegnanti: Michela Vanni e Ariella Sabbatini, operatrice teatrale Caterina di Fant.
Zerbino S.r.L. / Mestre - gruppo interclasse Secondaria di primo
grado
Non un tappettino per i piedi, ma un avido e dispotico padrone
della Fabbrica dei Sogni. Nel confezionare i sogni migliori per i
clienti, qualcosa va storto.
Determinazione, fantasia, gioiosità , creatività, allegria
Insegnanti: Paola Ancillotto, Marinella Borsani e Daniela Contini, operatore teatrale José Manuel Diaz Luzardo
Gli Spettacoli in ...pochi tratti
Viaggiando con i libri si costruisce una città / Altopascio e Spianate - Primaria
I libri hanno il potere di farci sognare, incontrare, viaggiare: è
davvero noioso leggere?
Giocosità, gaiezza, spensieratezza.
Insegnanti: Tina Calò, Edi Lari e Roberta Tongiorgi, operatrice
teatrale Miriam Iacopi
L’isola /Altopascio - Secondaria di primo grado
Nell’immaginario di ogni ragazzo l’isola rappresenta la meta,
I pesci rossi sono muti / La Spezia - Secondaria di secondo grado,
Laboratorio TeatroLis “...è bello averti qui”, Compagnia “Quelteatridellediversità
71
Rubriche Teatro e scuola 4
li che il teatro...”
In fondo al mare, nella casa delle bolle primordiali dove abitano
pesci dai mille colori, nascono altri piccoli curiosi dell’ambiente
e degli altri simili. Un forte boato li disperde...
Immensità , delicatezza, impegno, solidarietà, suggestione.
Insegnanti: Annamaria Girani e Paola Vicari, Tiziana Cecchinelli esperta LIS.
Exercises d’amour / Sorrento - gruppo interclasse Istituto Polispecialistico.
Da testi di Queneau e Apollinaire, lo sguardo fresco di giovani
alla ricerca di senso, identità e amore.
Soffio, infinite potenzialità della parola e della lingua, giocando
con il francese e il napoletano.
Insegnanti: Maristella Alberino e Colomba Staiano, operatore
teatrale Peppe Coppola
Sonetto 116 / Ostuni - gruppo interclasse Liceo Classico
Riscoprire i modi e le parole inventate nel tempo, per raccontare la ricchezza del sentimento amoroso; riscoprire la corporeità
nell’irrompere della cultura dei social network.
Innamoramento , energia, musicalità, gestualità.
Insegnanti: Alessandro Fiorella e Antonella Ayroldi
Voci e suoni da un’avventura leggendaria / Ferrara - Secondarie
di primo grado, Balamos Teatro, Fondazione Teatro Comunale
di Ferrara
L’incontro di Ulisse e Polifemo per pochi spettatori bendati:
un teatro di narrazione musicale e sonoro, che cattura nell’interagire i linguaggi della mente e quelli del corpo. Un percorso
sull’intera sfera sensoriale fatto, in primis, dai giovani interpreti
adolescenti.
Luce, emozionalità, emotività, sensibilità, percettibilità.
Insegnanti: Maria Teresa Scaramuzza e Martina Monti, operatore teatrale Michalis Traitsis
Camminando lentamente si diventa grandi / Altopascio e Badia
Pozzeveri - Primaria
La fretta, il tempo... che significa? Dal libro di Sepulveda (Storia
di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza) alla scoperta che si diventa grandi, lentamente.
Tenerezza, coralità in controtendenza con l’odierna fretta
Insegnanti: Antonietta Grammatica, Luciana Carmignani,
Francesca Di Maio, Elvira Calenza
Non si viaggia senza un cuore / Altopascio Marginone - Primaria
Un gioco dove i corpi s’incontrano, le mani si uniscono in cammino verso gli altri...
Tante manine e piedini, comunicanti ed espressivi nella conclusione di un laboratorio nato senza fini di spettacolarità.
Insegnanti: Camilla Palandri, Ilaria Carmignani, Antonella Affatati e Giovanna Bisegna, operatrice teatrale Miriam Iacopi.
Romeo e Giulietta oltre la storia / Figline Val d’Arno – gruppo
extrascolastico, Laboratorio teatrale “Si fa teatro” , Ass. culturale AD-AR-TE, operatrici teatrali Miriam Bardini e Patrizia
Mazzoni
La storia oltre la storia, in cui i giovani interpreti si pongono
le domande del testo di Shakespeare: anche noi che siamo qui
e vivi, conteniamo i semi della faida come i Montecchi e i Capuleti? Che possiamo fare? L’educazione delle emozioni e dei
sentimenti inizia con l’ascolto dell’altro.
Faida di sangue e morte, con la consapevolezza di cosa sia determinante per assaporare i valori del vivere civile.
72
Desnortados / Santiago de Compostela - Gruppo teatrale “Vai
no dentista”, I.E.S. Arcebispo Xelmirez I
Il tema del viaggio intrapreso non per piacere, la strada che non
porta dove si desidera stare e quella dell’incontro con la propria
realtà a partire dai concetti di “ via, benvenuto e punto d’incontro”.
Potere dell’immaginazione. Parole, danza e musica per Giocare
Col teatro, Giocare Nel teatro e Giocare Al teatro.
* Operatrice Agita
TRAGITTI DI TEATRI DELLA SCUOLA
Le strade maestre sono i tragitti principali, quei percorsi tracciati che
uniscono luoghi, territori, sono le strade più grandi; ed è qui che si sono
incamminati i tanti ragazzi che per quattro giorni sono stati protagonisti
di un festival ma soprattutto di un viaggio. Dentro la valigia i saperi, le
aspettative, le curiosità ma anche le trepidazioni che accompagnano ogni
nuovo incontro.
Il plurale ha indicato il senso di questo cammino; perché ci sono strade, ci
sono teatri, ci sono tante visioni, dunque infinite possibilità. Questo plurale
è stato il centro del lavoro realizzato intorno al “fare e vedere” con i gruppi
di ragazzi coinvolti in un confronto attivo sull’essere attori e spettatori.
Un’esperienza articolata e complessiva che nella scoperta e nella condivisione
ha trovato varchi possibili per segnare nuovi tragitti di conoscenza, attivando
relazioni tra territori vicini e lontani, tra teatri simili e diversi.
[…]Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto:
“Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio
è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di
nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in
estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima
volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha
cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già
fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. […] (da Viaggio
in Portogallo, J. Saramago)
E allora dentro questa esperienza piena ci si accorge che insieme, fianco
a fianco, si sono percorsi sentieri, piccole strade secondarie, si sono trovate
vie alternative, tornando magari sui propri passi. Il teatro, anzi ancora
una volta i teatri, hanno creato il terreno utile ad accogliere e stimolare
queste scoperte, dove tutti insieme, attori e spettatori, sono stati prima
di tutto persone in viaggio.
Sara Ferrari
GIULIO E VALERIA: DUE GIOVANI
Col “coccodrillo”, come in gergo viene chiamato il pezzo per la scomparsa
di una persona, arrivata onorevolmente alla fine della sua vita e pronto
nel cassetto del giornalista. Ho ora una sorta di personale rifiuto (e ribellione).
Sì, perché la morte di un giovane come Giulio Regeni, non trova consolazione
nel detto “caro agli déi...” e la stessa insensatezza, mi richiama il destino
di Valeria Solesin (tanto sole in piazza S. Marco, quel giorno, e parole senza
retorica che hanno toccato nel profondo e fatto riflettere tutti). Voglio,
allora, metterli insieme questi due giovani, nella speranza che la società
civile e artistica del nostro paese, sappia afferrare il loro testimone ...
testamento di una breve, intensa vita.
Non un coccodrillo, dunque, ma un saluto affettuoso e dolente di promessa,
nel ricordo di Michela Vanni che, al suo allievo Giulio, fece incontrare il
teatro e partecipare alla rassegna di Fiumicello nel 2001 e 2002.
L.P.
QUANDO IL PALCOSCENICO
RENDE PIÙ “DOLCE” IL DIABETE
Jean Philippe Assal e l’esperienza terapeutica del Teatro del Vissuto
di Massimiliano Messina*
Rubriche Teatro e Medicina
CAGLIARI
dove addetti ai lavori, malati cronici (diabetici, in questo
caso) e professionisti del mondo del teatro (un regista, due
attori, un tecnico delle luci, un tecnico del suono) possono
incontrarsi e stabilire un rapporto irripetibile. “Un luogo
dove siamo protetti come dei fiori rari, dei gioielli preziosi, delle perle”, dice Jean Philippe Assal. Il teatro. Dove il
paziente impara a diventare il “regista” del proprio vissuto
(la malattia o, forse di più, tutto ciò che ostacola e disturba
la presa in cura di sé), spesso tenuto nascosto, incapsulato,
“seguendo un percorso non di insegnamento ma di accompagnamento, che lo riguarderà per tutta la vita”. “Le malattie
croniche possono essere controllate se il paziente impara a
gestirle. I medici, e il personale non medico, sono dei tecnici, non sono “allenati” ad accompagnare il paziente nel suo
percorso”, sottolinea Assal. Che nella dimensione educativa
ha trovato il “suo” metodo curativo. Nel 1998 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito l’Educazione Terapeutica “uno strumento essenziale per migliorare la qualità
di vita dei malati”.
P
uò il teatro rendere più “dolce”, se possibile, una malattia cronica come il diabete? Può aiutare a convivere
serenamente con la mancanza o la carenza di insulina?
Non sono questioni balzane, se si va alla scoperta della strada maestra tracciata da un appassionato diabetologo e docente universitario svizzero, Jean Philippe Assal. Che circa
quattordici anni fa, nel suo “quartier generale” di Ginevra (è
fondatore della Divisione di Educazione Terapeutica per le
malattie croniche nella Facoltà di Medicina), ha inventato,
coinvolgendo il suo amico regista boliviano Marcos Malavia,
il Teatro del Vissuto. Ecco, “Educazione terapeutica”, questa l’espressione magica, la sua intuizione e filosofia, perché
Assal ha studiato, sperimentato e approfondito fin dal 1970
la dimensione dell’educazione in medicina, codificandola e
sancendone il ruolo fino a trovarne lo sbocco ideale: il Teatro del Vissuto, appunto, la sua “creatura”, il punto più alto
del suo metodo educativo e formativo, che ha rimesso in
discussione e trasformato la relazione fra medico, operatore
sanitario, paziente. E teatranti.
Un luogo deputato, un tempo di tre giorni, un ambiente
Una ventina di centri, dislocati fra Europa, Sud America e
Africa, portano avanti con successo la pratica del Teatro del
Vissuto: a Ginevra, Parigi, Kaunas in Lituania, in Polonia,
in Portogallo, a Lisbona, in Inghilterra, in Madagascar, nel
Congo, in Bolivia. “In Italia sono stati fatti grandi progressi nell’educazione dei pazienti”, spiega lo studioso svizzero.
“A L’Aquila, Brescia, Genova, Marino si è sperimentato il
Teatro del Vissuto. Ma il centro più creativo e fecondo –
specifica Assal – è in Sardegna, a Cagliari, grazie all’impegno
di Luciano Carboni, responsabile del servizio di diabetologia dell’Ospedale Binaghi, e di sua moglie Maria Pia Turco,
anche lei diabetologa. Hanno capito che il potere della creatività, la dimensione teatrale, hanno un effetto dirompente nell’aiutare il malato a parlare di se stesso in un modo
ludico”.
“Far “giocare” i pazienti (non a caso to play in inglese significa anche recitare, ndr) per farli convivere con la loro
malattia”, così dice Jean Philippe Assal: è il risultato eclatante, ormai testato da anni, che il Teatro del Vissuto riesce
a raggiungere. Un modello ben strutturato. Una squadra di
professionisti - regista, attori, tecnici luci e del suono - si
mette a totale disposizione di un gruppo formato solitamente da sei persone. Non solo diabetici fra loro, ma anche perteatridellediversità
73
Rubriche Teatro e Medicina
sonale medico e non, madri di bambini che “combattono”
con questo tipo di patologia. Tre giornate di full immersion,
momenti conviviali compresi, che favoriscono la conoscenza
e lo scambio. Primo approccio: i partecipanti entrano nella
loro sfera emozionale e scrivono di sé, del proprio vissuto, è
la stesura del “soggetto”. I racconti, brevi, vengono poi “sceneggiati”, si passa alla scrittura drammaturgica: il regista, in
questa fase, funge da aiuto e stimolatore. Ciascuno legge il
proprio testo di fronte agli altri: è il primo momento di autoanalisi e introspezione. Il giorno successivo entrano in gioco
i professionisti del teatro, che nulla sanno dei pazienti. Gli
attori leggono i testi. I temi: “la famiglia, i genitori, anche
macigni pesanti che vengono fuori dal vissuto più intimo.
Abbiamo ascoltato testimonianze veramente drammatiche”,
racconta Luciano Carboni, riferendosi all’esperienza cagliaritana. Ma tutto si scioglie quando la sensibilità individuale
dei pazienti incontra l’abilità dei teatranti. Ogni testo viene
quindi drammatizzato e interpretato dagli attori: è il paziente a decidere cosa devono fare per realizzare e mettere in
scena il “suo” spettacolo, egli stesso ne diventa il regista. Si
arriva così alla “Bella”, si chiama così la prima rappresentazione di tutti i “corti” teatrali (ognuno non dura più di
cinque minuti). Il terzo giorno, “La Finale”: si ripropongono
gli spettacoli uno di seguito all’altro. Non è presente pubblico “esterno”, ma per i partecipanti è un momento di grande
condivisione, soprattutto dal punto di vista emotivo, la liberazione dal peso della malattia .
“Con il Teatro del Vissuto il medico e l’infermiere imparano
a sentirsi molto più vicini al paziente, e questo non lo può
insegnare nessuna scuola di medicina”, spiega ancora Assal.
“E’ un lavoro che va molto in profondità, non è come curare un’influenza con l’aspirina, che agisce solo sul sintomo”,
continua. “Si entra in un’altra dimensione, il rapporto fra
medico e paziente si trasforma. Questo è il beneficio più importante”. Il diabetologo svizzero ha creato un sistema aperto, applicabile anche ad altre branche della medicina e al
trattamento in altri campi: “In Italia, per esempio, lo abbiamo sperimentato con successo con coloro che avevano vissuto il dramma del terremoto a L’Aquila”. Assal come esempio
virtuoso racconta l’esperienza in Madagascar: “Siamo andati
lì con un regista e due attori, abbiamo formato dei professionisti del teatro, i risultati sono stati eccezionali. Da Ginevra
facciamo una volta al mese una videotrasmissione in collegamento diretto, i medici fanno la fila per partecipare al Teatro
del Vissuto, hanno scoperto con questa esperienza il senso
della loro “missione”: essere in empatia con il paziente”.
Può sembrare strano ma Jean Philippe Assal non era un patito del teatro: “Onestamente, ho sviluppato questa passione,
che all’inizio non avevo. Ma mi ha impressionato come i
malati di diabete sul palcoscenico riescano a esternare l’espressione del loro vissuto come atto liberatorio. Il teatro –
conclude - è la forza creativa e artistica di un momento che
non si può comprimere. Le acciughe si possono mettere in
scatola, non il teatro e quello che permette di far esplodere”.
* Giornalista
74
IN ITALIA È A CAGLIARI IL CENTRO DI ECCELLENZA
In Italia il centro di eccellenza del Teatro del Vissuto si trova a Cagliari.
Un’equipe affiatata di professionisti che, con la benedizione di Jean Philippe
Assal, opera dal 2010: Luciano Carboni, responsabile del servizio di
diabetologia dell’Ospedale Binaghi, coordinatore organizzativo e medico
- teatrale, Maria Pia Turco e Luisa Mereu, diabetologhe e addette,
rispettivamente, alle riprese video e ai report narrativi, Fabio Casti, regista,
Rita Atzeri e Fausto Siddi attori, Roberto Atzori, tecnico luci, Monica
Marcias, addetta a musiche e suoni, Giorgio Deidda, videomaker.
Carboni ha sposato da tempo l’idea educativo-terapeutica di Assal: “Ho
cominciato a seguire i suoi corsi e ho capito che i pazienti devono imparare
a sostituirsi al medico nella cura di se stessi”. Sul palcoscenico prende
corpo un esercizio liberatorio, quasi catartico: “Il teatro è anche liberatorio,
ma è soprattutto evolutivo”, precisa Carboni, “porta all’acquisizione di
una nuova consapevolezza”.
I numeri sono significativi: 20 le edizioni nel palmares del team cagliaritano
del Teatro del Vissuto, ospitate nella sala teatrale della Scuola Media
“Leopardi” di Pirri (frazione di Cagliari); 110 i partecipanti, 5 o 6 per edizione,
chiamati a condividere pane, teatro e vita per 3 giorni, dalle 8.30 alle 19;
87 persone con diabete, 6 mamme di bambini diabetici, 11 diabetologi
coinvolti, 2 medici di medicina generale, 1 infermiera, 3 “laici”, personale
non sanitario. Nel 2016 sono già in programma altre quattro edizioni.
Fausto Siddi, volto noto del teatro e cinema made in Sardinia, è, insieme
a Rita Atzeri, uno degli attori che si mette a disposizione totale dei pazienti.
“Serve un piacere a farsi usare. Inizialmente non siamo coinvolti emotivamente,
leggiamo in modo quasi distaccato le loro storie”, spiega. Ambientazione,
movimenti scenici, luci, costumi, musiche, un vero e proprio spettacolo:
sono i pazienti a suggerire tutto, sono autori, registi e pubblico. “E sono
molto esigenti, attenti ai dettagli”, sottolinea Siddi. “Attraverso la creatività,
più che finzione teatrale, si arriva alla creazione”, chiosa Carboni. “E nel
Teatro del Vissuto il confine tra finzione e realtà è ancora più labile”.
M.M.
Abstract
WHEN THE STAGE ATTENUATES DIABETES
an theatre ease a chronic illness like diabetes? Can it help cope with
a lack or deficiency of insulin? These apparently awkward questions
acquire new meaning when we discover the path traced by passionate
diabetologist and Swiss university professor Jean Phillippe Assal. Fourteen
years ago, in his Geneva “headquarters”, after founding the department
of Therapeutic education for chronic illnesses at the Faculty of Medicine,
he invented the Teatro del Vissuto. Therapeutic education, the magic
expression, his intuition and philosophy, the result of Assal’s study,
experimentation and research since 1970 into the role of education in
medicine, decoding it and sanctioning its role until defining its ideal
expression: the Teatro del Vissuto, his “creature”, the summit of his
formative and educational method, which has transformed and redefined
the relationship between doctor, health worker and patient. As well as
thespians.
C
ONDE AFFILATE
CHE SI INFRANGONO
NELLA TERRA
Nella sua lingua teatrale c’è tutto ciò che lo ha preceduto, ma scompare e muta in forma
nuova
di Fabio Rocco Oliva*
I
ncontrai Mimmo Borrelli per la prima volta alcuni anni fa
quando stava preparando il suo spettacolo La Madre. Eravamo nel centro storico di Napoli, a piazza San Domenico,
una mattina qualunque, e ci sedemmo ad un tavolino per la
parlare meglio tra la gente, nella confusione, tra le parole e gli
sguardi. Non doveva esserci il silenzio, né la protezione di un
soggiorno, doveva esserci il continuo mormorio della vita, il
continuo ribollire dei fuochi flegrei. Mimmo Borrelli non è
di Napoli, è di Bacoli, la zona flegrea che pulsa ancora di lava,
di vita.
Mentre eravamo lì a parlare, le persone ai tavolini intorno
guardavano Mimmo, allungavano il collo per sentire le sue
parole: ‘nzomma. Il volto di Borrelli è antico, è contadino e
greco, la stazza imponente e la barba folta, i capelli lunghi
e il continuo oscillare sulla sedia accompagna le sue parole.
Raccontava come nasceva la sua lingua teatrale. Lui, seduto
sulle rive del mare, osserva le onde, si spingono, si frustrano,
Rubriche Napoli e le sue drammaturgie
LA SCRITTURA DI MIMMO BORRELLI
si bestemmiano per arrivare sulla spiaggia, per consegnarsi a
lui. In quel movimento venivano fuori parole. La prima che il
drammaturgo, attore e regista ha sentito era ‘nzomma, ‘nzomma: la lingua del mare che parla, che racconta, che intesse le
storie. In un passo della Teogonia, Esiodo, il poeta greco della visione, diceva che Afrodite, la bellezza, fosse nata proprio
lì, in quella schiuma delle onde che si infrangono sulla terra.
Così la scrittura di Mimmo: sono onde affilate che si infrangono nella terra. Sono parole forti, dure, musicali come mai
prima si erano “viste” nel teatro napoletano, come mai prima
si erano “fatte” sulla scena. Sì, Borrelli segna una rottura decisiva con la drammaturgia a lui precedente e contemporanea. È
presente nel suo teatro tutto ciò che lo ha preceduto ma, come
in ogni grande personalità, tutto ciò che è passato scompare e
muta in forma nuova.
Mentre la folla intorno a noi parlava della vita quotidiana,
mentre motorini sfrecciavano, camerieri servivano caffè, in un
teatridellediversità
75
Rubriche Napoli e le sue drammaturgie
Mimmo Borrelli
angolo della piazza un barbone a torso nudo si batteva il petto,
dimenticato, i turisti si avviano alla cappella di San Severo a
contemplare il Cristo velato, Borrelli parlava del suo teatro,
del punto di partenza e dei pilastri: l’Onestà e il Pericolo. Per
ridurre quel pauroso baratro che allontana lo spettatore dalla
scena, c’è bisogno che il poeta sia onesto, si faccia carico del
male degli uomini, avverta il dolore e il pericolo di sentirsi
nella melma e la faccia poi straripare sulla scena, nella cassa
armonica dell’infezione nostra che è l’attore. Come accadeva
nell’antico teatro greco.
Negli anni i premi si sono succeduti a ritmi vertiginosi, i riconoscimenti si sprecano come gli elogi e gli applausi. Perché?
Cosa c’è nella drammaturgia di Mimmo Borrelli che riesce a
giungere negli uomini? Cos’è che catalizza?
Quando i personaggi delle opere di Mimmo Borrelli sono in
scena, declamano versi in bacolese, una lingua inascoltata,
emarginata, sepolta, a cui nessuno è abituato. I personaggi
cantano i versi seguendo una ritmica che è solo del poeta, fatta
di battute, di piedi, di tamburi che battono un tempo preciso,
un tempo che prima di tutto è parola, comunicazione, emozione oltre il logos, radicato nel corpo del poeta, negli organi
interni del suo creatore che ha vissuto e vive non nell’acciottolato lindo e rassicurante di una città felice e cieca ma galleggia
nella melma, nei canali di scolo che vomitano il marcio d’oggi.
76
Vive in quella zona negata della coscienza, dove la differenza,
la sottrazione, l’invisibile si fa materia di teatro.
‘Nzularchia, ‘a sciaveca, La madre, Opera pezzentella, sono i
lavori di Borrelli, quelli che lo hanno consacrato a poeta e
drammaturgo della nostra terra ma non solo, della nostra nazione e della nostra epoca. Perché? Ancora. In che modo è
stato possibile ciò?
I personaggi e le storie di Borrelli sono prima di tutto universalità, brandelli d’anime e corpo che appartengono a tutti
noi. Se prima di lui il teatro napoletano si rispecchiava nella
parola di De Filippo come intelligenza che muove e risolve il
labirinto pur mantenendo il suo dolore irrisolto, se prima di
lui Ruccello ha evocato i fantasmi e l’orrore in un’epoca in cui
si voleva ridere e si voleva credere nel progresso, se prima di
lui Moscato ha inquietato con la delicatezza della poesia, ora
con Borrelli si è fatto un passo avanti nella drammaturgia, si
è invertito il senso di marcia e si è scovato un percorso altro.
Il suono e il corpo sono una straordinaria forza comunicatrice.
In tempi in cui la parola ha perso la sua credibilità, si è venduta al vento che ha cambiato spesso la sua corsa, ha mostrato
tutto il peggio che poteva esprimere, la bella parola ricercata,
la sintassi pulita e ciceroniana che vende fumo e determina la
ragion d’essere della disonestà, Mimmo Borrelli, poeta baco-
* Drammaturgo e critico teatrale
Nota
Io sono tutto quello che non sono, io sono la verità fatta
di bugie.
(1)
Abstract
SHARP WAVES BREAKING ON THE GROUND
immo Borrelli (1979) is one of the most important and contemporary
playwrights, Neapolitan and not only, as Franco Quadri wrote. His
award-winning works (‘A scaveva, Nzularchia, La Madre) have collected
unanimous critical and public acclaim. Borrelli marks a break with the
previous and contemporary Neapolitan dramaturgy. His language is
the turbulent dialect of Bacoli (small town near Naples). His verses are
recited in the scene as violent drums that talk about the new millennium
man: an infected man who lives in the gutters and blasphemes God in
his great loneliness. This is the epic of the chained man, the slime that
stains the blue sea.
M
MIMMO BORRELLI
L’esordio sulla scena di Mimmo Borrelli avviene nel 2005 con lo spettacolo
‘Nzularchia (itterizia) per la regia di Carlo Cerciello che gli vale il premio
Riccione per la drammaturgia. È la storia di un padre, un criminale, scoperto
dal figlio mentre violenta la moglie e ne ammazza l’amante.
Nel 2007 è la volta di ‘A sciaveca per la regia di Davide Iodice e che gli vale
subito il premio Tondelli per la drammaturgia. Sciaveca è la rete da strascico
usata nella pesca sotto-costa, sporca di alghe melmose e di fanghiglia.
Una complessa opera in dieci canti e tremila endecasillabi sciolti, vera e
propria rete di racconti tra il mito e l’oggi. È la storia di un uomo disperso
in mare che torna dopo un anno sulla terraferma. E proprio il mare ne
racconta le dissolutezze.
Nel 2008 riceve per ‘Nzularchia il premio Gassman come “Miglior giovane
autore” e il Premio E.T.I. Gli Olimpici del Teatro come “Miglior spettacolo
d’innovazione”.
Nel 2009 è la volta di SEPSA - Spettatori all’esequie di passeggeri
senz’anima, allestito sui vagoni e sui binari della ferrovia della cumana,
legato a due fatti di cronaca nera: la morte, il 26 maggio a Montesanto,
nel cuore della città di Napoli, di Petru Birladeandu, 33enne musicista
romeno ucciso dal fuoco incrociato dei clan della camorra e quella, il 19
luglio 2008, di Violetta e Cristina Ebrehmovich, due ragazzine Rom di 12
e 11 anni, annegate a Torregaveta sulla piccola spiaggia adiacente i binari
della stessa ferrovia. Nello stesso anno riceve per ‘Asciaveca i premi Premio
Nike come “Miglior autore” e il Premio Girulà per la drammaturgia.
Il 2010 è l’anno de La Madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma. Sul tema della
maternità e della fertilità. Una Medea nella terra dei fuochi per raccontare
la camorra e la sua terra violentata attraverso gli occhi e le grida viscerali
di una madre, Maria Sibilla Ascione, moglie, vittima e carnefice di Francesco
Schiavone, capo dei casalesi (Sandokan). Reclusa per 20 anni in un bunker
rivive una storia fatta di distruzione e morte. Di avvelenamenti. La vicenda
è ambientate in un antro-utero, che inghiotte i personaggi come un melmoso
sacco amniotico.
Nel 2011 da La Madre prenderà corpo Malacrescita che ne ripercorre le
vicende ma in un modo diverso, un monologo più sofferto e atroce, dove
emerge la solitudine e la mancanza di salvezza. Riceve il Premio Nike e il
Premio Landieri per La Madre: ‘i figlie so’ piezze ‘i sfaccimma.
Nel 2012, per l’inaugurazione della Stagione Sinfonica 2012/2013 del San
Carlo, viene allestita l’opera inedita “Napucalisse” con musiche di Giorgio
Battistelli, un flusso vulcanico su Napoli. Riceve il Premio Landieri come
“Miglior rassegna campana” per il Mirabilis Festival e il Premio della Critica
Teatrale come regista, autore e attore.
Nel 2013 riceve il premio Testori per La Madre.
Nel 2014 mette in scena Opera Pezzentella nella chiesa del Purgatorio ai
Tribunali nelle viscere di Napoli. Le anime pezzentelle sono i devoti che
adottavano un teschio senza nome (capuzzelle) e se ne prendevano cura
per tutta la vita, lo pulivano, ci parlavano e chiedevano protezione.
Nel 2015 riceve il Premio Hystrio e il Premio Concetta Barra per la
drammaturgia.
Attualmente è al lavoro su Sanghenapule con Roberto Saviano sulla figura
di San Gennaro.
teatridellediversità
Rubriche Napoli e le sue drammaturgie
lese, flegreo, ha frantumato questa illusione e ha reso la parola
un baratro compiendo una magia: lo spettatore spesso non
comprende le parole misteriose di un terra sconosciuta, non
comprende sempre lo snodarsi del verso eppure riesce perfettamente a cogliere il senso profondo di quello che ribolle sotto
la superficie della parola, proprio come il magma della zona
flegrea che pulsa sotto la terra e determina ciò che fuori ci
unisce. Ecco una lingua nuova sulla scena che ci comunica la
nostra condizione: la malattia che ci condanna alla solitudine, la melma che sporca l’azzurro del mare, la macchia che ci
imbruttisce.
Quali sono le cause? Perché? Non importa. Nell’epos omerico possiamo rintracciare la causa di alcune condanne ma non
sono mai cause conosciute fino in fondo, qualcosa ci sfugge
sempre, un perché resta sempre lì oltre l’ultima illusione di
comprensione. Resta solo Enea che deve cercare una nuova
patria, resta solo Ulisse battuto dai venti, resta solo Tantalo
che cerca di afferrare la mela. Resta nella nostra mente l’urlo
dell’uomo. E quel grido che Borrelli porta in scena ci parla di
noi, oggi.
L’uomo di questo neonato millennio, non ha più la capacità di reggere il mondo, di spiegarselo e spiegarlo attraverso il
lavoro del Logos, non ha più nemmeno il mito dell’autodistruzione (concetto borghese che serpeggia in alcune regioni
della società), non ha più la speranza della condivisione, della
comunicazione, ma strisciano solo anime che elemosinano la
loro perduta essenza di uomini. In questo momento, in cui
non siamo più chi eravamo un tempo e non siamo ancora ciò
che saremo, il teatro di Mimmo Borrelli ci offre la visione del
pericolo, la bestemmia che ci avvicina a dio, quel dio che resta
simulacro di un tempo che fu, con tutto ciò che ne consegue.
I personaggi delle drammaturgie borrelliane sono la stanza
intima del nostro malessere d’oggi, quell’oscuro tumulto che
si vuole tacere. Sono il pianto storto di un amore ormai perduto per sempre. Non è definibile, non può essere spiegato
né razionalizzato, è, esiste nel suo farsi sulla scena. La parola
allora diventa corpo d’attore, organi e muscoli che patiscono
uno spazio e un tempo, che hanno perduto e hanno rifiutato
la parola come negli ultimi venti, trenta anni, si è mostrata:
bella, rassicurante ma assassina, viscida affabulazione montata
per accumulare la “roba”.
«Je songhe tutto chello ca nun songhe, je songhe ‘a verità fatt
“i buscie » (1), dice in alcuni suoi versi.
Come il testamento di un poeta eternamente errante.
77
Rubriche Teatro e Comunità
VAL DI CECINA
IL PALIO DI POMARANCE,
UN REGALO INATTESO
Arte, competizione, rappresentazione, cooperazione
Foto di Alessandro Rossi
78
di Maddalena Nanni*
Rubriche Teatro e Comunità
Foto di Alessandro Rossi
Q
uando si sente pronunciare la parola “Palio” viene subito in mente una corsa di cavalli. Pochi conoscono quello di Pomarance, paese della Val di Cecina nel cuore
della Toscana, il cui meccanismo è un po’ più complesso. Unico
nel suo genere, si basa su una gara tra rappresentazioni teatrali
all’aperto.
Tutti gli anni a Settembre va in scena uno spettacolo unico:
quattro rioni, che rappresentano i quattro quartieri del paese,
si sfidano a colpi di recitazione contendendosi il “cencio”, un
dipinto di un artista locale.
Partiamo dall’inizio: il palio nasce nel 1958 dall’Unione Sportiva Pomarance come un torneo calcistico fra squadre locali; le
partite sono precedute da una piccola sfilata che vede presenti la
banda, lo stendardo del Comune con le autorità e infine le con-
trade rappresentate da un alfiere e da pochi paggi. Tutti si ritrovano nel campo sportivo detto il “Piazzone” per tifare gli amici.
Qualche anno dopo il meccanismo cambia e viene data più importanza alla sfilata rispetto alla partita: ogni rione decide di
raccontare per le vie del paese un evento storico, un racconto
leggendario o semplicemente una storia locale con costumi appropriati e dando ai personaggi un’interpretazione propria.
Iniziano le prime riunioni e ci si ingegna con varie iniziative,
compreso l’andare di casa in casa a racimolare soldi per poter acquistare o prendere a noleggio i costumi migliori. Diventa così
un concorso popolare: ognuno fa quel che può e ci si prepara
per il giorno tanto atteso.
Nel 1965 la direzione dell’organizzazione viene data alla Pro
Loco e la componente calcistica sparisce. La sfilata con costumi
teatridellediversità
79
Rubriche Teatro e Comunità
80
d’epoca diventa così il cuore della manifestazione ed ogni rione
porta in piazza decine di figuranti pronti a dare il meglio di sé.
Le contrade, che inizialmente erano tre, finiscono per diventare
quattro: il Marzocco, colori giallo e blu e come emblema il leone fiorentino, il Centro, colori giallo e rosso, con la bandiera
raffigurante la rosa dei vènti, il Paese novo, colori bianco e verde
e come stemma un’aquila e infine il Gelso, l’ultimo arrivato,
colori arancio e nero e come simbolo un albero di gelso.
Nel 1986, dopo un periodo di interruzione, il Palio riprende
con lo stesso entusiasmo iniziale, ma le carte in tavola cambiano. Adesso, oltre alla sfilata, i rioni recitano sul proprio palcoscenico dando vita ad una storia, con sottofondi musicali,
narratori e attori che recitano dal vivo. Il Palio diventa così un
combattimento tra compagnie teatrali paesane.
Arriviamo ai giorni nostri. Per avere un’idea di ciò che accade
durante tutto l’anno dobbiamo partire da quel magico giorno
che è la seconda domenica di Settembre. La mattina il paese
sembra trattenere il respiro e si ha la sensazione che ci siano da
qualche parte dei laboratori segreti dove tutto viene architettato
nei minimi dettagli. Nella propria sede ogni rione si prepara tra
parrucchieri, truccatori, sarte, figuranti, attori e capitani. Tutto
è già allestito e tutti sono pronti a mettere in scena la propria
arte.
Nel primo pomeriggio i rioni si ritrovano nella piazza principale
del paese, quella del Comune, davanti a centinaia di spettatori.
I primi ad arrivare sono i tamburi seguiti dal corteggio storico,
in ricordo dei vecchi palii, composto da figuranti in costume
rinascimentale tra dame, cavalieri, priori, alfieri e paggetti. Dietro a questi sfilano personaggi con costumi diversi, maschere
strane o carnevalesche. La seconda parte della sfilata, quella più
numerosa, è costituita infatti dai personaggi della rappresentazione teatrale che molto spesso risultano chiari solo una volta
cominciato lo spettacolo.
Seguendo la sfilata delle quattro contrade si arriva infine al Piazzone dove sono stati costruiti i palchi. A turno, le comparse
danno vita alle quattro rappresentazioni teatrali della durata
massima di 30 minuti ciascuna. Il vecchio campo sportivo si
trasforma così in un teatro all’aperto che ha come sfondo le
colline toscane. Una giuria, selezionata dalla Pro loco, esprime
un giudizio con una votazione per decretare la contrada trionfatrice. Dopo cena il sindaco davanti a tutti i contradaioli, riuniti
attorno ai propri palchi, proclama il rione vincitore che esplode
in salti, grida, abbracci e porta le bandiere accompagnate dal
suono dei tamburi in giro per il paese.
Durante le settimane successive vengono organizzate svariate
feste sia dei vincitori che dei perdenti. Le polemiche accompagnano per un po’ la vittoria ma a partire da Gennaio tutto
ricomincia e all’interno di ogni rione riprendono le riunioni per
decidere il tema da rappresentare all’edizione successiva. Bisogna scrivere una sceneggiatura provvisoria, disegnare i costumi,
costruire i modellini della scenografia, stampare le foto dei trucchi, ascoltare le musiche ecc..
Adulti e bambini lavorano fianco a fianco per mesi, ognuno
contribuisce alla riuscita della rappresentazione con la propria
esperienza e mettendosi a disposizione per i lavori più disparati.
Nel mese di Agosto e per i primi giorni di Settembre i preparativi crescono, le cene si fanno più frequenti, le prove vengono
effettuate di nascosto, dentro un mercato coperto, in una palestra o in un oratorio. Anche la scenografia rimane incompleta
fino al giorno stesso del Palio ed i lavoratori completano l’opera
solo la mattina stessa della manifestazione. Un alone di mistero
avvolge tutte le contrade fino al fatidico giorno e l’attesa cresce,
come un bel regalo sotto all’albero che viene aperto solo la mattina di Natale.
Nell’ultima edizione i rioni hanno portato in scena diversi ar-
Foto di Giacomo Saviozzi
gomenti: il Gelso ha presentato “S’ha da fare”, particolare interpretazione de “I Promessi Sposi” dove troviamo Don Abbondio, l’Azzeccagarbugli, Don Rodrigo, l’Innominato e al centro
di tutto due persone alla ricerca del riconoscimento del proprio
amore. Con “La fattoria di Jeorge” il Marzocco ha preso spunto
da “La fattoria degli animali” di Orwell per rappresentare un’allegoria della rivoluzione, senza tralasciare i particolari amari che
essa comporta. Il Centro attraverso “Angeli con un’ala soltanto”
hanno narrato la vicenda di due ragazzi innamorati, tra grandi
passioni e comprensibili timori con una famiglia che gli fa da
cornice, specchio di pregiudizi e contraddizioni. “Senza lasciare
Traccia” è stato il titolo del rione Paese Novo, spettacolo ispirato
al libro “La generazione” di S. Lenzi, storia di una coppia che si
ritrova a fare i conti con un tema all’apparenza naturale che si
trasforma ben presto in qualcos’altro: l’avere un figlio.
Non è un caso che attorno al Palio siano nate altre organizzazioni: compagnie teatrali vere e proprie, il gruppo Musici e
Rubriche Teatro e Comunità
Sbandieratori di Pomarance, il concorso di fotografia “Scatta il
Palio” e il Centro Commerciale Naturale organizza la sera stessa
la “cena del Palio”, degustazione itinerante di prodotti tipici accompagnata da musica.
Da contradaiola posso dire che vedere così tante persone trasformarsi da operai a scenografi, da casalinghe a sarte, da commessi ad attori mi fa emozionare e partecipare alle riunioni mi
fa capire quanto sacrificio e tempo ogni persona di ogni rione
metta in questo spettacolo. Perché è questo che vogliamo portare, uno spettacolo per tutti noi. Siamo gli spettatori del nostro
stesso palio, i bambini che scartano il pacco regalo, ci mettiamo
seduti sulle tribune e guardiamo per la prima volta tutti insieme
il lavoro finito. Ed ogni volta ci emozioniamo, applaudiamo,
piangiamo, critichiamo e sorridiamo nel sapere i retroscena.
Non è solo una festa di paese ma un amore che nasce da radici
profonde, molto spesso tramandato dai genitori e alimentato
anche dai più giovani. Qualcosa di unico e speciale forgiato dal
nostro piccolo (ma grande) paese.
* Biologa, cittadina di Pomaramce
Abstract
PALIO OF POMERANCE, AN UNEXPECTED GIFT
he Palio of Pomarance, - a little Tuscany town - is a competition
between outdoor theatrical representations. Every year, the second
Sunday of September, four Rioni (districts), that represent the quarters
of the town, compete on the stage with a performance. During the year
each group creates the costumes, writes the plots, builds the stages
and composes the soundtracks. For the event of the day, the teams join
the central square and parade in the streets with flags and drums. Once
arrived at the old soccer field, named Piazzone, they perform on the
stage their plays in front of hundreds of people.
T
teatridellediversità
81
Rubriche La Critica
I PREMI ANCT
LA FORZA ETICA
DELLA SCENA
La Cerimonia al Teatro Gioia di Piacenza nell’ambito del Festival “L’altra scena”
di Nicola Arrigoni*
Claudio Facchinelli premia Antonio Viganò, foto di Mauro Del Papa
L
uogo migliore non poteva essere scelto per la consegna
dei Premi Anct 2015: il Teatro Gioia di Piacenza, nuovo
spazio fortemente voluto dalla città e dal Teatro GiocoVita di Diego Maj. Il Teatro Gioia è uno spazio bellissimo,
ricavato in una chiesa che fu dei Gesuiti, uno spazio che sa
essere sacrale e festoso al tempo stesso. La cerimonia di premiazione si è svolta in concomitanza con l’inaugurazione del
Festival L’altra scena di Piacenza. Jacopo Maj direttore artistico
del Festival L’altra Scena, di Tiziana Albasi assessore alla Cultura del Comune di Piacenza, e con la presenza di Alberto Dosi
membro della Commissione Cultura Fondazione di Piacenza
e Vigevano, hanno portato i saluti istituzionali. A fare gli onori di casa è stato Enrico Marcotti, vicepresidente dell’Anct,
affiancato dai membri del direttivo: Claudia Provvedini e Vito
Minoia.
La navata riccamente affrescata dell’ex chiesa dei Gesuiti –
paradossalmente – ha reso meno sacrale la cerimonia e più
intima, festosa, sentita, solidale e partecipe, grazie anche ad
un gruppo di artisti che hanno mostrato di avere un comune
denominatore: un grande senso etico del fare teatro. Nel suo
saluto di apertura il presidente Giulio Baffi, impossibilitato a
intervenire, ha voluto ricordare due maestri della scena come
Luca Ronconi e Judith Malina e si è augurato che gli artisti
premiati dai critici italiani possano continuare a lungo a nutri-
82
re il teatro con la loro fantasia e passione. Il Premio Anct 2015
è stato realizzato dallo scultore Giorgio Milani che sapientemente ha intrecciato in un sol segno le iniziali delle tre parole
Premio, Critica e Teatro.
L’Associazione nazionale critici teatrali ha premiato Antonio
Viganò e la sua Accademia Arte della diversità, il regista Antonio Latella per le regie di Natale in casa Cupiello, Ti regalo
la mia morte, Veronika. L’attore e regista Mario Perrotta per il
Progetto Ligabue. Roberto Latini, regista e protagonista di I
giganti della montagna. Il coreografo e pedagogo Alessio Maria
Romano. Monica Piseddu, attrice, interprete di Ti regalo la
mia morte, Veronika, Alcesti, Zoo di vetro, Natale in casa Cupiello. L’attrice Milvia Marigliano attrice in Chi ha paura di
Virginia Woolf? e Zoo di vetro. Lina Prosa, drammaturga per
“Trilogia del naufragio”. Lo spettacolo Scannasùrece, regia di
Carlo Cerciello. Il premio Rivista Hystrio (diretta da Claudia
Cannella) a Lino Musella. Il Premio rivista Catarsi – Teatri
della Diversità (diretta da Vito Minoia) al mimo e clown Ginevra Sanguigno e Italo Bertolasi (scrittore e documentarista).
Fondatori di Clown One Italia e membri del Gesundheit! Institute di Patch Adams. Il Premio Paolo Emilio Poesio 2015
alla Carriera alla regista e direttrice artistica del Teatro Franco
Parenti André Ruth Shammah.
Si crede che l’elenco dei premiati non renda in realtà giustizia
Recensioni La Critica
Foto Mauro Del Papa
alla serata di premiazione in cui ad emergere è stato l’amore
per il teatro, condiviso e solidale fra cronisti del teatro e artisti,
accomunati in un medesimo viaggio al cuore della bellezza
e dell’umanità. E allora ha commosso il saluto da clown di
Ginevra Sanguigno che con un gesto, un inchino ha reso e distillato la magia del teatro e del saltimbanco che sa sollecitare
sorrisi e allegria anche in contesti drammatici e di dolore: artista giustamente premiata insieme a Italo Bertolasi da Vito Minoia e dalla Rivista Catarsi-teatri della diversità. A conferma di
come i Premi Anct siano un intreccio di passione per la scena
condivisa con altri partner come Hystrio, è il premio assegnato
dai critici del trimestrale, diretto da Claudia Cannella, e andato a Lino Musella, giovane attore dalle confermate e acclarate
doti interpretative. Nelle belle e ben scritte motivazioni che
hanno accompagnato la cerimonia si è avvertito forte un senso solidale fra critica e teatranti, un condividere la medesima
fame di sogni e di bellezza.
Intensa è la definizione di Monica Piseddu – assente perché
in scena a Parigi – contenuta nella motivazione: «sa essere
il femminile potente proprio per la sua apparente fragilità,
è corpo esile che incarna la parola, la fa propria, la fa essere
vera, reale poesia agita». Non meno forte e incisiva la descrizione delle doti attoriali di Milvia Marigliano: «Grazie alle
sue straordinarie doti comunicative, messe al servizio di una
creatività interpretativa di grande estro e rigore, si conferma,
così, definitivamente, quale una delle migliori attrici teatrali». Tradizione e innovazione, la grande scuola dell’attore e la
forza del performer si coniugano in Roberto Latini, premiato
per la sua lettura de I Giganti della Montagna di Pirandello,
quale «figura di capocomico di elevata e raffinata poetica ne
I Giganti della Montagna, di Pirandello restituisce universalità alle inquietudini esistenziali che permeano il lavoro del
Foto Mauro Del Papa
drammaturgo siciliano, incarnando nella sua unica figura di
attore la sconfitta dell’arte, il cupo dissolvimento degli ideali,
la paura, il travaglio umano». Nell’individuare non solo lo specifico artistico, ma anche il riflesso sociale, comunitario etico
del teatro l’edizione dei Premi Anct 2015 ha trovato una sua
apprezzabile compattezza confermata nell’attenzione al lavoro
di Antonio Latella di cui «le regie premiate sono riferimenti
ineludibili per l’entroterra culturale dell’artista che portano a
risultati di eccellenza gli esperimenti di scomposizione formale/e o psicologica fin qui seguiti», ma anche le azioni teatrali
e sociali portate avanti da artisti come Antonio Viganò con la
sua Compagnia Teatro La Ribalta: «portatrice di una poetica
originale, essenziale, e raffinata sin dai suoi esordi. Fondatore
dell’Accademia Arte della Diversità», dove «esplora l’arte che
racconta la diversità che si fa arte. Un esempio di eccellenza
ed anomalia al tempo stesso nel panorama del teatro italiano»,
oppure Mario Perrotta che col Progetto Antonio Ligabue «si
rivela (forse anche a sé stesso) non solo il teatrante a tutto
tondo già noto, organizzatore di complessi eventi di massa e
perfino valente artista visivo in grado di fondere gesto, parola
e segno grafico».
In questa direzione di un teatro esteso alla vita va letto anche
il Premio Paolo Emilio Poesio alla carriera consegnato ad Andrée Ruth Shammah regista, imprenditrice che ha attraversato
la storia della seconda metà del Novecento con straordinaria
dedizione estetica e organizzativa al ‘suo’ teatro Pierlombardo
prima e oggi Franco Parenti in un’osmosi continua fra scena
teatrale e palcoscenico della vita culturale cittadina e milanese.
Ed è dunque questa compattezza di lettura che ha reso i Premi
Anct 2015 un reale e sentito omaggio all’arte etica del teatro.
* Critico teatrale
Abstract
ANCT PRIZES AND SETTING’S ETHICAL POWER
he 1st of October 2015 the National Prize of theater criticism was
hosted at the Teatro Gioia of Piacenza, which is housed in a church
of the Jesuits, a space that knows how to be sacred and festive at the
same time. The award ceremony was held in conjunction with the
inauguration of the Festival L’altra scena (The other scene) by Teatro
Gioco Vita. In his opening speech, the president Giulio Baffi, unable to
participate, recalled two masters of the scene as Luca Ronconi and
Judith Malina, hoping that artists awarded by Italian critics can continue
to feed the theater with their imagination and passion. One issue that
has been a real and heartfelt tribute to the ethical art of theater.
T
Ginevra Sanguigno in azione, foto Mauro Del Papa
teatridellediversità
83
Rubriche - Margini & Frontiere
SUL ROMANZO DI IRVIN D.YALOM
IL CARATTERE DETERMINA
IL NOSTRO DESTINO
“Il problema Spinoza” è suddiviso in trentatré capitoli dove si alternano rigorosamente
alcune tappe della vita di Spinoza e dell’ideologo nazista Rosenberg
di Valeria Ottolenghi*
medico psicanalista, che dialoga in diversi passaggi con Alfred Rosenberg l’ideologo nazista condannato a morte
nel processo di Norimberga, impiccato
nell’ottobre del 1946 - tenterà, in uno
degli ultimi capitoli, Berlino, 1936, di
spiegare ancora, per gli aspetti filosofici,
ma anche terapeutici - Rosenberg depresso, ricoverato - le affinità tra Goethe e Spinoza, sperimentando entrambi
“uno stato di estrema gioia nell’afferrare
la concatenazione di ogni cosa in natura”.
I
l carattere determina il nostro destino? Si apre così - e senza punto di
domanda - uno dei capitoli, Monaco,
1918/19, del romanzo “Il problema Spinoza” di Irvin D. Yalom, edito da Neri
Pozza: il ricorrente quesito, comunque
sempre affascinante, tra caso e necessità, per la reale misura del libero arbitrio,
dell’atto di volontà, trova la stessa risposta nella visione spinoziana del mondo
e nella psicanalisi, l’imprevisto, l’avvenimento fortuito - così nella realtà fattuale
come nei meccanismi dell’interiorità risultano tali solo perché manca la limpida conoscenza di tutti gli elementi che
hanno preceduto quell’evento, avvertito
proprio per questo come accidentale.
Il personaggio fittizio Friedrich Pfister,
84
Era stato lo stesso Rosenberg a implorare
quasi quella via, ricordando come fosse
stato costretto dal preside della scuola, a
rischio di non potersi diplomare a causa
di alcuni discorsi antisemiti - così nella
prima parte del romanzo (ben tre i capitoli intitolati Estonia 1910) - a imparare
a memoria diversi passi dell’autobiografia di Goethe, lì dove l’autore raccontava
come leggere Spinoza avesse calmato la
sua profonda inquietudine, una sorta di
sedativo alle sue passioni, fondamentale
l’approccio matematico per riconquistare il proprio equilibrio, più sereno nelle
personali conclusioni, maggiormente libero dall’influenza altrui: “Be’, è questo
che voglio da te. - esplicita la richiesta al
medico - Voglio quello che Goethe ha
avuto da Spinoza...Voglio un sedativo
dalle mie passioni”. Perché Rosenberg si
sentiva oppresso dalla sensazione di non
essere stimato da Hitler, dal cui giudizio
si sentiva così dolorosamente dipendente. Il problema Spinoza del titolo acquista dunque una diversa prospettiva:
non solo per il dilemma centrale, come
fosse possibile che il genio tedesco per
eccellenza ammirasse tanto un ebreo,
ma anche in quale modo riprenderne gli
aspetti curativi, per Rosenberg - che si
riconosce schiavo del desiderio dell’approvazione di Hitler - nello stesso modo
che per Goethe.
Così debole da chiedere aiuto alle idee
di un ebreo, per quanto scomunicato,
cacciato dalla sua stessa comunità? Friedrich Pfister delinea il pensiero di Spinoza: “Razionalista supremo. Vede un
flusso infinito di causalità nel mondo...
Nulla avviene per caso...E’ stata questa
idea di universo ordinato da leggi prevedibili....che ha offerto a Goethe un senso di calma”. Ma non ci sono esercizi di
percorso, nessuna tecnica. Importante è
riuscire a liberarsi dalle idee inadeguate. Poteva esserci la speranza di alleviare
la dipendenza di Rosenberg da Hitler?
Scatta il meccanismo difensivo: antitedesca la negazione della forza di volontà, e “la passione è il cuore e l’anima del
Volk”. Il dialogo si fa quindi più teso,
vano l’appello alla ragione da parte di
Friedrich, straripante il fanatismo razzista: “La Germania diventa più forte e
più pura ogni volta che un ebreo o un
amante degli ebrei lascia il paese”. E
come conoscesse Hitler la via della “guarigione tedesca” per Rosenberg, eccolo
arrivare con la proposta di un Premio
nazionale per le arti e le scienze, da assegnare proprio a lui alla prima edizione!
Completamente ristabilito! Ritrovate le
forze! no, non era stato quel medico, da
cui Rosenberg prende quindi, con irritato disprezzo, le distanze: “ci ho pro-
“Il problema Spinoza” è suddiviso in
trentatré capitoli dove si alternano rigorosamente alcune tappe della vita di Spinoza e di Rosenberg, iniziando con Amsterdam, aprile 1656, e Reval, Estonia, 3
maggio 1910, e terminando con Berlino
e Paesi Bassi, 1939/45, e Voorburg, dicembre 1666. Un romanzo storico dunque? Certamente anche, con passaggi
d’invenzione e coinvolgenti dibattiti
filosofici, politici, religiosi. Rimanendo,
a posteriori, forse l’impressione di una
costruzione narrativa un po‘ “alla Eco”,
dove si possono riconoscere gli studi,
le ricerche - e l’invenzione dei legami,
degli intrecci oltre il tempo, la struttura
d’insieme. Un romanzo “intellettuale”
che si legge in forma avvincente anche
per questo aspetto, tanti i vivaci pungoli
al pensiero. Nel prologo l’autore ricorda
la sua visita al museo Spinoza di Rijnsburg - e l’intuizione che avrebbe dato il
via all’opera, alla scrittura del romanzo.
Nell’epilogo vengono ricordate la morte di Spinoza - e il dibattito, all’interno
dello stato d’Israele, sulla sua scomunica - e la morte di Rosenberg, “che non
ripudiò mai Hitler e la sua ideologia
razzista”. Solo poche pagine infine per
“Realtà o finzione? Per mettere le cose in
chiaro”, sottolineando che quanto narrato “sarebbe potuto accadere”, ricorrendo, spiega ancora l’autore, alla sua formazione di psichiatra per immaginare i
mondi interiori dei protagonisti.
A fianco di Rosenberg e Spinoza, figure
consegnate alla Storia, due personaggi
immaginari fungono in qualche modo
da porte d’accesso alla loro psiche, Friedrich Pfister e Franco Benitez: se per
il primo si può immaginare una tragica fine, così abbandonato, denunciato,
proprio da colui che aveva chiesto in
precedenza il suo aiuto, il secondo andrà
conquistando una sua complessa, ricca
autonomia. Discepolo di Spinoza, suo
fedele seguace, assai vasta l’ammirazione e l’amicizia, Franco Benitez, deciso
anche lui, come il maestro, a seguire la
ragione nelle forme più limpide, senza
pregiudizi, ma vivendo nella realtà, confrontandosi con la vita di tanti all’interno della comunità, riuscirà in qualche
modo a vedere anche più lontano. Perché Spinoza, a causa della scomunica che vietava a ogni ebreo di avvicinarlo,
compresi gli stessi membri della famiglia
- e per scelta, per il desiderio di liberare la mente da impurità, emozioni che
rischiavano di portare disordine alla sobria, corretta integrità del pensiero, per
lui imprescindibile, era andato isolandosi nel suo laboratorio di lenti, cercando
di scrivere i suoi libri in forme sempre
più essenziali, di un rigore astratto vicino alla matematica.
E torna l’avverbio “necessariamente”:
Franco lo usa anche con ironia - ridono
volentieri tra loro i due amici dall’intelligenza brillante, uniti da grande stima,
un legame profondo rafforzato nel tempo malgrado l’impossibilità di vedersi,
di incontrarsi liberamente - evidenziando così Franco, divenuto rabbino, come
abbia assorbito profondamente il pensiero dell’amico filosofo, Bento/ Baruch
Spinoza, ogni accadimento frutto inevitabilmente, logicamente, della catena di
circostanze che l’hanno preceduto. Ma
Franco - che può infine andare a trovare
Bento perché anche lui ormai prossimo
alla scomunica, un dialogo fitto di questioni teoriche ma anche carico di molto
affetto - porta, con una diversa visione
del percorso da compiere per avvicinarsi all’universalismo radicale spinoziano,
utopia verso cui comunque tendere,
anche preziosi dubbi, proprio perché la
vita reale può sì contaminare, compromettere, rallentare, la ricerca autentica
del pensiero, ma può insieme svelare verità che la sola intelligenza, comunque
immersa nella storia, nel proprio tempo,
da sola non riesce ad afferrare. E Franco
- che sottolinea l’urgenza di dare avvio
a decisive riforme ma dall’interno della
comunità, lui in partenza presto con un
gruppo di correligionari per il Nuovo
Mondo - avrebbe voluto discutere con
Spinoza, in quell’ultimo incontro, certo
un addio, anche del ruolo della donna.
Franco porta le ragioni della moglie Sarah che pensa che le donne possano perfino diventare rabbine! Bento si dimostra incredulo, non riesce a condividere
una tale ipotesi, e, al momento dei saluti, alle insistenze dell’amico, Spinoza si
dichiara restio ad affrontare il tema. Ma:
in futuro? “Forse, non ne sono certo”.
Numerose le problematiche storiche,
politiche, religiose, mostrate sotto diverse angolazioni lungo tutto il romanzo,
consegnate per spunti, frammenti, motivi guida, con il respiro del loro tempo
ma insieme teoriche, ricorrenti in forme
diverse nei secoli, in particolare legate
al mondo ebraico, per i marrani - qui
più portoghesi che spagnoli, costretti
a convertirsi al cristianesimo, ma sempre controllati con diffidenza, l’Olanda
terra accogliente, molte le famiglie che
arrivavano lì in fuga - il rischio dell’ere-
sia ovunque (“caute!”, ripete il maestro/
amico di Spinoza, Van den Enden, il
seicento secolo di fondamentali scoperte
scientifiche e insieme furiosamente dogmatico), le tante lingue messe in gioco,
il valore della comunità, la rappresentazione di Dio e il suo potere nelle vicende
degli umani, le interpretazioni delle sacre scritture, gli ebrei come popolo eletto, la Bibbia libro scritto da uomini, il
confronto con il pensiero degli antichi,
Epicuro in particolare, superstizione e
religione/ comunità, il destino oltre la
morte, l’attesa del messia, i motivi di
sopravvivenza del popolo ebraico malgrado le continue persecuzioni, il valore
dei rituali, e così via, mentre rimbalza
tra terre diverse e secoli lontani, e al di là
dell’aspetto religioso, l’antica questione
sull’essenza di chi deve essere considerato ebreo, come ci fosse un quid misterioso che lo possa definire tale per sempre.
Rubriche - Margini & Frontiere
vato, ma non credo di poter sradicare
l’ebreo che è in lui. Dovremmo tenerlo
d’occhio. Potrebbe aver bisogno di una
qualche forma di riabilitazione”.
E ancora altre le dispute, le controversie,
le contese che attraversano “Il problema
Spinoza”, che resta comunque - e forse
anche per questa densità tematica, la colta documentazione sciolta, amalgamata,
offerta con preziosa leggerezza, di un
dinamismo vivace, capace di accendere
scintille di curiosità - un vero romanzo,
fatto di Storia e di storie (che Franco era
convinto Bento amasse pur non confessandolo), all’interno di una struttura
complessa di ritorni e rispecchiamenti,
che va ben oltre l’alternanza dei capitoli
tra Rosenberg e Spinoza.
* Critico teatrale e letterario
Abstract
CHARACTER DEFINES OUR DESTINY
he chapters of the book “The Spinoza
Problem” alternate, telling the life of
the great Dutch philosopher (1632/1677) and
the life of Alfred Rosenberg (1893/1946), the
Nazi sentenced to death at the Nuremberg
trials. Real people then. But the author, the
psychiatrist IrvinYalom, also creates fictional
characters who, in dialogue with the two
protagonists, point out different aspects of
their nature. According to Spinoza, God and
Nature coincide. Everything happens always
necessarily. The philosopher struggles to
make his thoughts purer and purer to increase
his knowledge. Rosenberg tries to understand
how Goethe, the German genius par
excellence, could admire Spinoza so much:
a jew! This is the issue of the title.
T
teatridellediversità
85
Rubriche - Piccolo Pantheon
LECCE
GINO SANTORO E IL SUO
GRANDE LABORATORIO DI IDEE
di Antonio Viganò*
G
ino, la prima volta che l’ho visto,
avrebbe voluto chiamare i carabinieri. Eravamo a Lotz, in Polonia. Anni90. Io ero li al festival con gli
Oiseau Mouche per fare Personnages e
lui, quel piccolo uomo del sud, fremeva
di rabbia dopo aver visto uno spettacolo
dove i disabili erano stati messi in ridicolo, banalizzati, messi in scena senza
la protezione adeguata e mi disse che se
fossimo stati in Italia avrebbe fatto una
denuncia ai carabinieri. Ecco, li avevo
già capito chi fosse Gino Santoro. Determinato e senza mezze misure.
Dopo qualche tempo mi chiamò al telefono. Ho la possibilità - mi disse – di
fondare, qui a Lecce, una facoltà per lo
spettacolo e mi piacerebbe che tu, Antonio, fossi uno dei docenti. Accettando
quell’offerta, felice e onorato, mi venne
subito in mente la mia mamma. Suo figlio sarebbe diventato un docente universitario. Ridevo al pensiero della sua
faccia stupita. Teatro sociale della comunità, si chiamava il mio corso. Gino
86
aveva le idee chiare, e quando sono sceso
in Puglia, mi sono trovato in una vecchia scuola disabitata ad Arnesano, ma
“abitata” di progetti, di idee, di gente
che, come lui, che aveva fatto nascere
li al sud il movimento del terzo teatro,
condivideva una storia teatrale. Gino era
parte integrante di quella storia che, con
Cruciani, Savarese e Meldolesi, aveva
fatto nascere un nuovo concetto di teatro, una nuova drammaturgia, un nuovo spazio scenico dove “sperimentare”
e cercare sempre strade nuove e anche
pubblici nuovi.
Lo STAMS di Lecce era più di una
Facoltà ; era un luogo di incontro tra
Docenti diversi che, sposando la scommessa di Gino, si confrontavano, si
scontravano, anche animatamente, sul
senso del proprio lavoro, sul futuro di
quell’arte del palcoscenico. Solo così,
in questa cornice è stato possibile fare a
Galatina un festival, promosso proprio
dallo STAMS di Lecce, che vedeva come
protagonisti più di cento studenti, con i
docenti che per quell’ occasione si sono
inventati attori, registi, comparse televisive. Ed il paradosso è stato che quell’esperienza è “morta” per il gran numero
di studenti che si erano iscritti alla Facoltà: centinaia di ragazzi e ragazze che
hanno fatto gola a Facoltà più protette
e potenti. Ma questo è un altro capitolo! Una ferita che ha lasciato un segno a
Gino come a tanti docenti che, su quel
luogo, avevano fatto una scommessa o
solo trovato una casa alla propria voglia
di sperimentare Teatro. Questa ferita ci
aveva allontanati; ci sentivamo colpevoli
di non essere riusciti a difendere, proteggere e dare un futuro a quella Facoltà.
Sempre grazie a Gino che, a Lecce, nasceva ITACA. Il primo luogo fisico, nato
dalla nostra collaborazione, fatto di laboratori in cui pensiero ed azione si fondevano per dare vita ad esperienze di teatro sociale e della comunità. Ricordo il
bellissimo spettacolo Jeux d’ enfants che
coinvolse tanti attori “diversi”, dal bidello ai genitori. La prima esperienza di un
luogo per fare e pensare al teatro nei luoghi del disagio che ha lasciato un segno
profondo nelle anime di chi ha avuto la
fortuna di parteciparvi. Scoprivo, qui, il
legame di Gino con il suo territorio che
voleva arricchire con la sua esperienza e
le sue idee. Non era mai mediocre: non
stava mai nel mezzo, comodamente.
Non si fermava mai, abilissimo nei pensieri ti faceva volare alto, ed io facevo un
po’ fatica a seguirlo, talvolta, in quel suo
continuo lavoro intellettuale che continuava sempre e sempre, dalla macchina
mentre si andava a San Foca, in facoltà
come raccogliendo la cicoria o andando
a scegliere il pesce. La sua forza lo precedeva, la sua curiosità lo rendeva inquieto e pronto al nuovo, il suo cuore e la
sua ospitalità mi facevano sentire a casa.
Ecco, sì, quando andavo a Lecce, in quel
periodo , mi sentivo parte di quel grande laboratorio di idee che fluiva forte e
* Regista, già docente di Teatro sociale della comunità all’Università di Lecce
Abstract
GINO SANTORO AND HIS IDEAS’ GREAT LABORATORY
ino Santoro died the last June. He was a theatre teacher at Salento
University and he played an important role, as Cruciani, Savarese
and Meldolesi, to create in Italy a new conception of theatre. He was
never mediocre, he never stayed in-between, easily. The director Antonio
Viganò remembers him in our Magazine, which he collaborated with
on many occasions. Viganò was invited by the same Santoro to teach
Social and Community Theatre at the STAMMS in Lecce.
G
IN CORSO D’OPERA 4
L’ESPERIENZA DI LUIGI A. SANTORO TRA PROPOSTE E PROVOCAZIONI
Tre giornate dedicate alla figura e all’opera di Luigi A. Santoro, ad un anno
dalla sua scomparsa, tra teatro, università e attività sul territorio.
Prima giornata: Università del Salento, presentazione del laboratorio
“Integrazione senza barriere” svolto secondo il modello del teatro sociale
sviluppato da Luigi A. Santoro.
Seconda giornata: Università del Salento, Convegno di studi sul lavoro svolto
dal prof. Santoro per l’Università del Salento.
Terza giornata: Istituto Teatrale di Varsavia, Conferenza sul tarantismo e altri
rituali trance dedicata al prof. Luigi A. Santoro
Il progetto “In corso d’opera 4” è organizzato dal Centro per l’Integrazione
dell’Università del Salento, dal Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo
dell’Università del Salento in collaborazione con l’Istituto Teatrale di Varsavia,
l’Accademia di Belle Arti di Bari e l’Associazione Culturale Oistros di Lecce.
Programma delle tre giornate
9 giugno 2016 Il teatro come strumento per l’inclusione sociale
Chiostro Monastero Olivetani
ore 18.30
Saluti: Eliana Francot - Delegata per gli studenti disabili e con DSA Università
del Salento; Famiglia Santoro - intervento di Beatrice Chiantera;
Maurizio Antico - Presidente dell’Istituto per Ciechi Anna Antonacci di Lecce
Presentazione del progetto di servizio civile “Integrazione senza barriere”, a
cura di Paola Martino (Operatrice Locale di Progetto e funzionaria Centro per
l’Integrazione).
Presentazione del Laboratorio “Supereroi”, a cura di Erika Grillo e Annarita
Manigrasso
ore 19.00
Atto finale del Laboratorio di teatro sociale integrato “Supereroi”, realizzato
con studenti universitari nell’ambito del Progetto di Servizio Civile “Integrazione
senza barriere”, a cura di Erika Grillo e Annarita Manigrasso.
(vedi scheda allegata)
10 giugno 2016
Convegno di studi
Teatro e integrazione in Luigi A. Santoro: un approccio innovativo
Aula De Maria - Università del Salento
Rubriche - Piccolo Pantheon
denso come il suo mare. L’ultima immagine che ho di lui è
dell’anno scorso, tra il pubblico di un mio spettacolo a Lecce,
“Nessuno sa di noi”, già debole e malato, ma ancora con la
forza di invitarci a cena nella sua casa, lucido e ospitale come
sempre. Saluto, qui, Gino Santoro, quel piccolo grande uomo
del sud, compagno di viaggio, che farà per sempre parte della
mia storia teatrale e umana.
Ore 9.30
Saluti di benvenuto
Vincenzo Zara – Rettore Università del Salento
Fabio Pollice – Direttore del Dipartimento di Storia , Società e Studi sull’Uomo
Famiglia Santoro – intervento di Francesca Santoro
Ore 10.00 - 11.00
Luigi A. Santoro uomo di cultura e storico del teatro
Franco Ungaro - direttore artistico Accademia Mediterranea dell’Attore di
Lecce e del Teatro San Domenico di Crema (CR)
Massimo Melillo – giornalista, vicepresidente Assostampa Puglia
Ore 11.00 - 11.15
Big Data: Dall’aldiquà all’aldilà
Antonio Rollo – docente di Computer Arts, Accademia di Belle Arti Bari
Ore 11.15 -12.15
Luigi A. Santoro le politiche e la sua idea di disabilità
Domenico Laforgia - ex Rettore dell’Università del Salento
Silvia Cazzato e Paola Martino - Centro per l’Integrazione
Tony Donno - laureato Università del Salento e vicepresidente Istituto per
Ciechi Anna Antonacci
La voce delle operatrici del Centro per l’Integrazione
Ore 12.15 – 13.00 Dibattito e interventi: aspettative, prospettive e futuro...
11 giugno 2016
Istituto Teatrale di Zbigniew Raszewskiego a Varsavia
Ore 14:00-18:00
CONFERENZA DEL CERCHIO RITUALE
La conferenza è dedicata al prof. Luigi A. Santoro (1944-2015) dall’Università
del Salento a Lecce, storico del teatro e grande studioso del tarantismo
Direzione: prof. Dariusz Kosiński
Traduzione dall’italiano: Monika Kocańda
Partecipano: prof. Dariusz Kosiński (UJ), Alessandro Santoro (Associazione
Oistros Lecce I), dr Katarzyna Woźniak (UP), Marcin Kozłowski (UAM), dr
Dorota Sosnowska (IKP UW), prof. Dariusz Czaja (UJ), Katarzyna WiniarskaŚcisłowicz (UJ), Maristella Martella (Salento).
Info: [email protected]
Coordina e presiede i lavori Vitantonio Gioia – Storia del pensiero economico
teatridellediversità
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Rubriche - Piccolo Pantheon
CASTELLANA GROTTE
UN ARTISTA
“SAGGIAMENTE RIBELLE”
Ad agosto scorso, a causa di un male incurabile ci ha lasciato prematuramente Nicola
Dentamaro, artista al quale “Catarsi-Teatri delle diversità” ha dedicato un’attenzione particolare in riferimento ad un lavoro drammaturgico sul “rito primario” e sulla
cultura orientale attraverso le lenti di Antonin Artaud e di Jerzy Grotowski, suoi autori prediletti. Pubblichiamo un saluto particolare che ha voluto rivolgergli Francesca
Zanini, sua compagna d’arte e di vita in forma di racconto della festosa cerimonia
funebre in occasione della dispersione delle sue ceneri nell’amata campagna pugliese. Nicola e Francesca negli ultimi anni hanno collaborato approfonditamente con la
Rivista seguendo per noi l’evoluzione del pensiero dell’economista e filosofo francese
Serge Latouche sulla “decrescita felice” e la sua influenza in campo artistico (ricordo
in particolare la video intervista a Serge da loro realizzata in occasione della presentazione della Rete “Teatri di Resilienza” al Convegno internazionale di Urbania nel gennaio del 2011). Abbiamo voluto, inoltre, completare il nostro omaggio a Nicola, riportando nelle pagine successive un testo inedito, in forma di fabula breve per
bambini, che ci ha fatto pervenire pochi mesi prima della sua scomparsa. Un’opera che risuona come un piccolo testamento
rivolto ai ragazzi, ai quali ha dedicato –come regista- alcuni dei suoi spettacoli più sorprendenti. (Vito Minoia)
N
icola se n’è andato, dolce dolce, in punta di piedi, ma
“in piedi!” come ci teneva a dire che avrebbe voluto
morire; perché non aveva paura di morire ma voleva
“morire in piedi”.
La sua voglia di vivere con energia inesauribile da artista
“saggiamente ribelle” l’ha sorretto fino alla fine.
Pochi giorni prima del 17 agosto 2015, sera della scomparsa,
si era immerso per l’ultima volta nel mare, incantando sguardi curiosi e solidali ed aveva cucinato un ottimo pranzo a base
di molluschi e pesce per gli ospiti della Masseria Monte Cipolla, dove viveva da quando era tornato a sud dopo 20 anni
trascorsi a Verona.
Ritorno agognato, desiderato, descritto nelle poesie della raccolta “Sospiri nel vento” chiamata “Primitiva”.
Non rimpianti né rancori, dei quali “non era capace” e nemmeno “facce da funerali” chiedeva, ma feste durante e dopo
aver lasciato il corpo…e così è stato.
Mantra gioiosamente cantati, accompagnati dall’armoniun
di Daniela Santostasi e Danze Sacre in Cerchio guidate da
Fulvia Campanella , sostenute per l’occasione dalla chitarra di
Gabriele Natilla il 18 agosto alla presenza del suo corpo nel
magico ex frantoio.
Omaggi di artisti venuti da “ lontano nel tempo e nello spazio” prima del semplice rito, sempre da lui indicato, di disperdere le sue ceneri sotto l’ulivo prescelto denominato Fluens il
13 settembre, luna nuova.
In contemporanea, la cantante Grazia De Marchi in Sardegna
e l’attrice Giovanna Scardoni in Piemonte compivano piccoli
rituali e inviavano “pensieri di luce”.
Il momento organizzato dalla musicista jazz Cristina Mazza
sulla riva del fiume Adige, in provincia di Verona, invece
(causa il maltempo) fu rimandato e si è poi provvidenzial-
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mente svolto il giorno 20 “equinozio d’autunno”.
In quella occasione, presenti quindi sia gli artisti Antonio
Costa, Elisa Zacco, Gloriana Ferlini, Graziella Menichelli sia
Nicoletta Zabini , Moreno Danzi e Marco Paci che avendo
partecipato alla dispersione delle ceneri in Puglia, hanno poi
potuto riportare un piccolo sacco di juta e piante officinali,
psicosimbolo di rinascita, col quale è stata creata un’altra significativa azione rituale nel fiume.
Da lontano, questa volta nel tempo anziché nello spazio, sono
giunti invece il 13 settembre alla Masseria a Castellana Grotte
(Bari) come nel Pellegrinaggio in Oriente, mitico trampolino per molti spettacoli itineranti degli anni ‘80: Daniela Pizzi,
Gianluca Iodice, Alba Filomeno, Tommaso De Benedictis,
Lucia Raho, che collaborarono al primo Teatro Origine fondato a Bari nel 1985.
Altri artisti partecipanti all’azione: Tito Dipippo, Ida Mastromarino.
La giornata ha avuto inizio con la preparazione collettiva del
pranzo, momento di condivisione tradizionalmente importante nella terra di Puglia in un clima piacevole e solare.
La semplice azione itinerante per la dispersione delle ceneri
ha preso avvio subito dopo nell’ex frantoio, manufatto storico
ben conservato, dove sono stati letti da Nicoletta Zabini alcuni testi poetici intrecciati alle canzoni “Tsunami” e “Poesia
dai petali dorati” delle quali è autore sempre Nicola Dentamaro con musiche composte dall’attrice russo/cubana Renata
Mezenov Sa che le ha interpretate.
Omaggi spontanei sono arrivati dal poeta di strada “siculo/
veronese” Luigi Pedilarco, da amiche ed amici che lo hanno
ricordato; in particolare è spiccato il tono del ringraziamento
di Porzia Petrone, sorella-Antigone del giovane Benedetto
(assassinato a Bari nel 1977 da un gruppo di giovani fasci-
Nicola ha scelto di curarsi con sostanze naturali, coerente con
tutta la sua vita, cosciente dei limiti e pericoli di trattamenti
invasivi e delle difficoltà terapeutiche insite nella sua patologia rara, ma senza furore ideologico, ancora una volta perché
non aveva paura di morire e voleva vivere al meglio fino alla
fine .
Si definiva “ricercatore spirituale”, non amava nessuna religione, ma era aperto verso la verticalità e se qualcuno gli diceva “
rivolgiti a Dio” rispondeva: “e alla Dea?”.
Al femminile infatti dedicò molta parte della sua attività teatrale fino agli ultimi importanti lavori: Aqua Mater e Cantico
Ancestrale sulla discesa nel mondo sotterraneo della dea Inanna al tempo dei Sumeri e sua risalita!
Si, quasi ogni suo lavoro teatrale finiva bene, come indicato
per il dramma indiano negli antichi Veda e così si può dire in
un certo senso della sua vita. Ha superato con dignità e ammirazione da parte di chi l’ha frequentato, la prova forse più
difficile: la scoperta della malattia nel luglio del 2014.
E in quel frangente ha deciso di descriverne gli esordi con
semplicità e sincerità in “Succede. Diario breve di un malato
de-terminale”.
Citava così il suo libro sul comodino da sempre “ La morte e
il sentiero”di Ghesce Nauan Darghye:
“per vivere con pienezza non dimentichiamoci ogni giorno di
meditare sulla morte.”
E senza rimpianti negli ultimi tempi ripeteva “confesso che ho
vissuto!” e cantava “Gracias a la vida”.
Francesca Zanini
Rubriche - Piccolo Pantheon
sti), alla quale Nicola ha dedicato una poesia da lei definita
rispecchiante perfettamente sia la sua essenza che il suo stato
d’animo e i suoi sentimenti per la morte del fratello.
Seconda tappa del percorso si è svolta ai piedi dell’antica
quercia locale o fragno ed è stata la lettura della fabula per
bambini “Il saggio malato”.
Al termine della fabula sono apparsi una quarantina di strumenti percussivi offerti da Augusta Dall’Arche e a quel punto,
come nell’amato episodio del film Dreams di Kuroshawa, si è
improvvisamente formato un corteo festoso e musicante condotto dalla chitarra di Gianluca Iodice, vestito di bianco.
Il musicista e attore del Teatro Origine di Bari, seguito da tutti i partecipanti, suonando un ritmo intenso e catartico, ha
attraversato orti e campi di ulivi secolari per raggiungere
una radura circolare dove Marco Paci ha svolto la sua azione
con bandiera solare al suono delle parole “la vita è un viaggio
senza tempo siamo pellegrini di un presente nel quale il prima
e il dopo si fondono senza soluzione di continuità” lanciate in
canone da una parte all’altra del cerchio dalle attuanti sempre
vestite di bianco.
Il rito primario, il teatro integrale che Nicola Dentamaro aveva teorizzato e praticato lungo il fiume Adige, nelle cascate di
Molina o nelle piazze d’Italia ancora una volta accompagna e
serve alla vita, oltre la vita, negli istanti che precedono il vero
distacco.
Ripartito il corteo questa volta condotto da me (Francesca
Zanini, sua compagna) con le ceneri avvolte nel sacco di juta
tra le braccia o portate come un’anfora sopra la mia testa , si è
arrivati all’ulivo centenario denominato Fluens .
Allora si è formata una spirale fiorita , una bianca scia serpentina è stata versata e la sciarpa di un celeste brillante proveniente dalla Mongolia è stata tre volte annodata ad un ramo.
Il silenzio commosso e partecipe (alla presenza del padre
Mauro ultranovantenne, di Mimmo il più piccolo dei tre fratelli, delle due sorelle Rita ed Anna, degli amori di un tempo
e delle numerose amiche ed amici) è stato rotto dal forte
suono del gong mongolo di Marilena Gulletta.
Le belle voci di Renata Mezenov Sa e Nicoletta Zabini si
sono infine levate intonando la canzone “Gracias a la Vida “
di Violeta Parra.
Il semplice saluto è stato un piccolo dono per lui e il suo
teatro.
Perché il suo teatro è nato negli spazi aperti, come all’origine, o nelle piazze, nei paesi e nei luoghi naturali dove fosse
possibile connettersi col genius loci e dove le itineranze sono
sempre state con musica dal vivo, azioni e poche parole di
saggezza.
Si, la sua ricerca gli ha fatto sperimentare ed approcciare linguaggi diversi: la poesia, la scrittura drammaturgica, la regia,
l’arte dell’attore, la composizione plastica, la pittura…l’arte è
una!
Alla pittura sua prima forma di espressione d’artista incontrata fin da bambino con talento periodicamente tornava,
fino all’ultimo sognava di creare un grande quadro all’interno
dell’ex frantoio che sarebbe diventato studio d’artista
I suoi progetti non erano mai condizionati dal produrre
denaro.
Per questo Nicola, Performer integro e carismatico, generoso,
utopico, vitale e scomodo, descritto dall’attrice Elisa Zacco
“autentico nell’entusiasmo e negli scontri. Di occhi, sorriso
e ingegno affilati” si era appassionato alla filosofia della decrescita trasmessa da Serge Latouche . Lo aveva invitato sia a
Verona che a Bari nei contesti più diversi comprendendo l’urgenza di cogliere quello stimolo per salvare la vita dell’umanità
sulla terra e le culture non ancora omologate al pensiero unico.
Danzatrice sacra, disegno di Nicola Dentamaro
Abstract
A WISELY REBEL ARTIST
icola Dentamaro died on August 17 2015. He was a man of theater
who loved acting theatrically in open spaces, such as at the origin,
or in streets, in villages and in the natural places where it was possible
to connect with the genius loci and create a mix with live music , actions
and a few words of wisdom. A multilingual approach, made of poetry,
dramatic writing, directing, art of the actor, plastic composition, painting.
N
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Rubriche - Piccolo Pantheon
In un villaggio dell’antico Eden viveva un grande saggio, erede
di una misteriosa tradizione, amato e stimato da tutta la popolazione. Un brutto giorno, e per la prima volta, si ammalò.
La cosa stupì tutti che non riuscivano a farsene una ragione.
«Il saggio è malato? Non è possibile!?» diceva uno, e un
altra di rimando: «Ma come, proprio lui che ci ha sempre dato
i più giusti consigli e ci ha curato con le erbe e la magia… Non
posso crederci!». «E invece è proprio così: sono giorni che non
esce di casa e la sua donna non fa avvicinare nessuno alla porta
d’ingresso che prima era sempre aperta affinché chiunque volesse poteva entrare.»
E infatti l’anziana compagna del saggio, da quando questi
si era ammalato, stava per ore e ore seduta davanti all’uscio di
casa ed a chiunque si avvicinava rivolgeva uno sguardo triste e
scuoteva la testa come per dire: “Non c’è niente da fare! Nessuno può entrare a fargli visita”.
Tutta la popolazione, come si può bene immaginare, cominciò ad essere presa da grande tristezza. Molti smisero di
fare la vita di sempre e passavano le giornate nell’inattività più
totale. Le bambine e i bambini non giocavano più per strada.
La vita del villaggio rallentò e quasi si sospese. Solo nelle case
c’era ancora un poco di animazione, poiché tutti continuavano a farsi mille domande. E in particolare…
«Deve essere accaduto qualcosa che noi non riusciamo a
capire…» disse ad un certo momento il raccoglitore di radici.
«Sì ma cosa?» gli fece eco sua moglie. «Qualcosa che… riguarda un atto che non è stato compiuto. Perché noi sappiamo
bene quanto per lui siano importanti quelle azioni rituali che,
come dice sempre: “Vanno fatte per mantenere in equilibrio
il nostro centro vitale con le forze sottili dell’infinito cielo”.
Deve essere successo qualcosa che lo ha turbato profondamente proprio su questo piano.»
«E’ proprio così! – confermò il suo vecchio genitore - Anche secondo me e secondo molti anziani del villaggio il saggio
si è ammalato perché qualcuno non ha fatto un atto specifico
che lui aveva richiesto…
Non possiamo perdere altro tempo: presto, bisogna far suonare il grande tamburo e chiamare tutto il popolo a raccolta!»
E così si fece. I colpi di tamburo echeggiarono nella valle.
Da ogni dove arrivarono vecchi, giovani e bambini per partecipare col cuore palpitante a quell’incontro collettivo da tutti
sentito come tanto importante.
«Voglio comunicare a tutti voi – con queste parole aprì
l’incontro il raccoglitore di radici – quello che mio padre ed io
abbiamo pensato. E cioè che il saggio si è ammalato perché abbiamo mancato a qualche sua richiesta specifica. A noi risulta
che siano state svolte tutte le azioni collettive da lui richieste,
che ormai fanno parte della nostra stessa esistenza di villaggio vivente in armonia con la bellezza e la natura. Dunque, si
tratta di una mancanza specifica, individuale. Vi chiediamo,
quindi, di pensare se c’è stato qualche atto mancato, qualche
errore o ritardo commesso da uno o più di voi. È importante!
Rifletteteci subito col massimo di attenzione. E poi comunicatecelo con urgenza e precisione, per favore.»
Il raccoglitore di radici tacque. Iniziò quindi un intenso
vociare che coinvolse l’intero grande cerchio umano formato
da tutti gli abitanti del villaggio.
Ad un tratto, come una cascata che lentamente, a pause e
sussulti si ferma provocando alla fine un assordante silenzio, la
consultazione collettiva cessò.
La giovane coppia di barattieri con in braccio la loro bambina
evidentemente addormentata, si era portata al centro del grande cerchio e lì si era fermata, in attesa che l’attenzione di tutti
fosse diretta verso di loro.
Finalmente il barattiere parlò, con voce incerta: «Noi…
noi abbiamo riflettuto… – si schiarì quindi la voce per emettere suoni più decisi – Abbiamo riflettuto e riteniamo di essere
noi i probabili responsabili del malessere che ha colpito il nostro adorato saggio. Come sapete, la nostra attività di baratto
con i villaggi vicini diventa ogni giorno più impegnativa…»
«E’ vero! – proseguì la sua compagna - Ci sono giorni in cui
a malapena riusciamo a dormire poche ore!» «Questo però ci
giustifica solo in parte. – proseguì l’uomo – Infatti, quando
nacque la nostra piccola Gae, il saggio la vide, le diede il nome
e la segnò con la luce e l’acqua, raccomandandosi affinché allo
scadere del terzo anno di vita fosse portata da lui per il rito del
“petalo dorato”.» E la moglie, riprendendo il filo del ragionamento: «Sì, noi abbiamo mancato di rispetto sia al saggio
che alla nostra piccola: anche lei si è ammalata dal giorno in
cui ha finito il terzo anno, lo stesso giorno in cui il saggio si è
chiuso in casa. Ha la febbre alta, non mangia e dorme sempre
di giorno mentre la notte non fa che lamentarsi.»
«Cosa possiamo e dobbiamo fare, adesso?» disse il barattiere,
reclinando in basso il capo in segno di modestia e sottomissione al volere collettivo, imitato immediatamente dalla sua
compagna.
In molti, soprattutto le giovani coppie, si dichiararono immediatamente disponibili a svolgere insieme ai due barattieri
l’attività di scambio con i vicini, per alleggerire i loro sforzi.
Il vecchio padre del raccoglitore di radici, a quel punto
disse con voce stentorea: «Ora non c’è che una cosa da fare:
portare la piccola Gae dal saggio. Tocca a voi, anche se i vostri
occhi saranno gonfi di pianto e il cuore contratto dall’angoscia
e dal dolore. Noi resteremo tutti qui, in unitario e organico
contatto col nostro centro vitale. Andate, sono sicuro che l’amato saggio non aspetta altro. Portatele la piccola Gae!»
Tre potenti colpi di tamburo e un lungo sordo tamburellare accompagnarono la partenza della coppia e della bambina,
mentre tutte e tutti, anche i più piccoli, si immobilizzarono in
una postura simile tra loro, socchiudendo gli occhi e respirando il più lievemente possibile.
Rubriche - Piccolo Pantheon
IL SAGGIO MALATO
fabula breve per bambini
Giunti nei pressi della casa del saggio, i due barattieri notarono che la porta era spalancata e la variopinta tenda di fine
canapa era sollevata, segno di evidente invito ad entrare.
I due genitori di Gae si guardano negli occhi intensamente. I
loro cuori battevano forte in petto.
Respirarono profondamente e trattenendo le lacrime diedero
un amorevole sguardo alla loro bimba malata e dormiente,
prima di varcare la soglia della casa col segreto desiderio di
incontrare subito lo sguardo benevolo del saggio.
Non fu così. Una calda luce avvolgeva la grande e unica
stanza di cui si componeva la casa. L’aria profumava di essenze
bruciate. La donna che condivideva da un tempo indefinibile
la sua vita con quella del saggio, col suo bel sorriso dispiegato
si fece loro incontro. Con un’azione calcolata, ella si spostò
leggermente di lato mostrando il grande letto sul quale giaceva immobile il Reggitore. I due ospiti notarono subito che
indossava il bianco vestito delle cerimonie, quello ricamato
con eccezionale maestria di fili d’oro e d’argento e che loro
conoscevano bene. «Finalmente!» esordì sottovoce la donna custode. Dunque
invitò con un gesto la giovane coppia ad accostarsi al letto
dell’amato saggio. «Ora ponete la vostra piccola sul suo petto.
Petto a petto, cuore a cuore. È l’unica possibilità che abbiamo
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Rubriche - Piccolo Pantheon
per risvegliarli entrambi da questo strano torpore che li ha
catturati e fatti ammalare…»
Così fecero. Furono poi invitati dalla signora della casa a
sedere su un grande e soffice tappeto e a bere a turno da una
tazza di ceramica decorata con motivi magici una fumante bevanda, dolce e ricca di sapori a loro sconosciuti.
Dopo alcuni minuti, i due genitori di Gae cominciarono a
provare sensazioni mai provate.
La loro mente produsse come uno squarcio di luce: ebbero
la sensazione di comprendere la Realtà in tutti i suoi aspetti. Il
loro viso si illuminò di un sorriso colmo di meraviglia che fu
in seguito e improvvisamente solcato da grandi lacrime che
bagnarono copiosamente persino i loro vestiti. Alla fine si addormentarono come cuccioli, stanchi per l’intensa emozione
vissuta.
Dormirono tanto o poco, non si sa. Di fatto vennero risvegliati dalle sonore risa della piccola Gae che sgambettava e
saltellava lesta tra i loro corpi distesi. Li abbracciò ambedue e
li baciò con grande tenerezza, così come solo una bimbetta sa
fare con i propri genitori. Quindi divenendo seria e, sicuramente seguendo un compito impartitole in precedenza, andò
a sedersi su un grazioso sgabello posto dinanzi alle due basse
poltrone dai braccioli in legno intarsiato sulle quali erano accomodati il saggio e la sua compagna che con un largo sorriso
li accolsero.
Come destandosi da un intenso sognare, i due gabellieri si
posero per rispetto in piedi, subito seguiti dal saggio.
«Potete stare seduti lì, sul morbido tappeto. Ora assisterete
all’azione promessa tre anni fa.» Quindi si riaccomodò sulla
sua poltrona, mentre la sua compagna cominciò a sistemare
sul capo della docile Gae un cordino a cui era appeso un sottile
monile d’oro, con la forma di un minuscolo petalo di rosa che
venne fatto ricadere giusto al centro della fronte della bambina.
«Gae, bambina perfetta, – disse dolcemente il saggio – girati verso di me.» Poi, spalancando gli occhi, recitò con voce
ispirata una sorta di filastrocca
magica che ripeté tre volte affinché l’inizianda fosse in grado
di ripeterla a sua volta.
Sempre rivolto alla bambina, le comunicò: «Non dimenticare mai questa formula magica. Essa sarà la tua fedele compagna per tutta la vita che io prevedo lunga e avvincente. Ora
ripetila con me…»
Detto questo e ripetendo la filastrocca, il potente vecchio pose
l’indice della sua mano destra sul petalo dorato, premendo
leggermente.
«Adesso rivolgiti nuovamente verso i tuoi genitori… » La
piccola Gae eseguì.
Un fumo verde-azzurrino si sollevava dal punto della fronte in cui era stato posto il petalo d’oro.
Lentamente ma progressivamente, l’iride e la pupilla della
bambina si irrorarono dello stesso colore. A quel punto, Gae
emise un suono fatto di mille variazioni vocali, talmente acuto
da risvegliare tutti gli uccelli della foresta circostante alla valle
che le risposero col loro canto più bello e prolungato.
Con semplicità e misurata solennità, il saggio sollevò il
monile dalla testa della bambina e lo pose nelle mani della sua
compagna.
Gae pian piano tornò al suo aspetto di sempre, anche se…
Il centro della sua fronte era evidentemente segnato da un piccolo tatuaggio a forma di rosso petalo di rosa, dai contorni
dorati e lucenti!?
Allora il saggio, con molta dolcezza, parlò ai genitori della
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bambina: «Quel che doveva essere fatto si è compiuto! Avevo
visto giusto tre anni fa. Gae è un essere speciale, raro. Di quelli
che appaiono nella nostra dimensione per svolgere una importante e benefica funzione. Noi la seguiremo nella sua crescita
fisica e mentale. Quando sarà necessario, la istruiremo alle arti
mediche ed alla magia, cioè alla conoscenza delle leggi del reale
profondo. Così sarà. È questo il mio desiderio. È questo il mio
volere. Non dimenticatelo, per favore.»
Il saggio a quel punto invitò la bambina ad andare incontro ai propri genitori che la abbracciarono e la strinsero forte,
fortissimo tra di loro.
«Si è fatto buio – disse ad un certo punto il Maestro – e
fuori c’è un popolo che vuole sapere, vuole vederci per capire.
Usciremo per primi Gae ed io. Poi voi due, abili gabellieri,
accompagnati dall’amabile custode di questa casa.»
Così fecero. Furono subito accolti da una luce accecante
emanata dalle tante torce accese, tenute in mano da una moltitudine di persone assiepate poco distanti dalla casa. Nonché
da fragorose grida di gioia che progressivamente divennero un
canto articolato e sempre più melodioso, accompagnato da
una danza ritmica collettiva, anch’essa di ineguagliabile armonia e bellezza.
All’improvviso, imprevedibilmente il canto e la danza si arrestarono. E il saggio poté così parlare al suo popolo, divenuto
silenzioso e attento.
«Oggi sono un vecchio tornato felice perché Gae, “signora
della foresta”, è venuta tra noi! Accoglietela ad amatela come
fosse vostra madre, figlia e sorella. Ella ricambierà con molti
doni le vostre attenzioni.
Negli anni che verranno e alla sua maturità di persona, mi
sostituirà in alcune funzioni. Sarà anche vostra maestra, se e
quando servirà.
Adesso accompagnatela a casa poiché è stanca, come i suoi
due sia pure forti e generosi genitori. Anch’io insieme alla mia
compagna rientrerò subito nella mia dimora. Non sono più
malato ma ho bisogno di recuperare le forze dopo tanti giorni passati in un forzato non-fare e nel digiuno. Dopo, potrò
tornare a sognare le vostre vite. E finalmente riprenderò la mia
ricerca sull’origine del nostro viaggio su questo meraviglioso
e per noi ancora poco conosciuto pianeta. Andate dunque e
siate sereni.»
Il grande e illuminante corteo partì, seguendo Gae circondata da tutte le bambine e tutti i bambini del villaggio che le
facevano festa, la rincorrevano e la accarezzavano con indicibile bellezza.
Nicola Dentamaro (ottobre 2014)
LA DIVERSITÀ DI IWONA,
PRINCIPESSA DI BORGOGNA
Una messa in scena russa del testo di Witold Gombrowicz presso il Dramatičeskij Licejskij
Teatr di Omsk
Recensioni Spettacoli
IN SIBERIA OCCIDENTALE
di Claudio Facchinelli*
Marija Tokareva in Iwona Principessa di Borgogna
A
Omsk (a un migliaio di chilometri a Est degli Urali),
ho assistito a una messinscena di Iwona, principessa di
Borgogna.
Del testo, pochissimo frequentato in Italia, si ricorda, una
quindicina di anni fa, al Teatro Studio di Milano, una strepitosa edizione ungherese diretta da Gabor Zsambeki. Scritto
nel ’35, ha visto la luce in Polonia solo nell’86. In Italia lo ha
pubblicato Lerici, negli anni Sessanta.
Non è agevole recensire uno spettacolo recitato in una lingua
che si conosce poco, ma ciò offre l’occasione di verificare, una
volta di più, la rilevanza del non verbale nella comunicazione
teatrale; e ciò risulta tanto più evidente in un testo dove l’eteatridellediversità
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Recensioni - Spettacoli
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roina eponima, nel corso dell’intero spettacolo, pronuncia in
tutto forse una dozzina di parole.
Iwona è una diversa, forse demente, ma si può ascrivere a
quella vasta categoria cui appartengono le donne emarginate e
conculcate di ogni tempo, quali sono state le streghe e molte
sante. Ricorda un po’ la Gelsomina de La strada, di Fellini;
ma forse è addirittura imparentata ad un’altra figura tipica
della tradizione slava: il Puro folle, lo Jurodivyj di Puškin (e
Musorgskij).
Certo, questa ragazza bruttina, afasica, malaticcia non ha l’afflato profetico dell’inquietante personaggio-coro del Boris Godunov; ma anch’essa trasgredisce e turba le regole, le convenzioni sociali del mondo che la circonda, qui rappresentato dai
regnanti e dai dignitari di una corte da operetta (ricordiamo
la predilezione di Gombrowicz per questo genere spettacolare,
cui intitolerà uno dei sui testi teatrali, appunto Operetta).
La vicenda è apparentemente lineare. Filippo, il principe ereditario, un po’ per burla, un po’ perché, a modo suo, è disgustato dall’ambiente di corte, decide di fidanzarsi con una ragazza insignificante, addirittura scostante, elevandola al rango
di principessa di Borgogna. Tuttavia, dentro questa cornice
apparentemente leggera e disimpegnata, il testo è una feroce
satira contro l’universale ipocrisia, la vacua convenzionalità
che governa i rapporti umani nella società cosiddetta normale.
È la semplice presenza di Iwona, inserita suo malgrado in un
mondo non suo, a spiazzare, a mettere a disagio l’intera corte,
a catalizzare in ognuno l’odiosa consapevolezza della propria
meschinità, o addirittura abiezione. Ma ciò, invece di produrre un processo di catarsi, innesca un odio sordo e dilagante,
che si ritorcerà contro di lei, innocente capro espiatorio, fino
a determinarne la morte.
Tutto il testo è intessuto di una sconcertante, a volte funambolica dialettica fra normalità e anormalità; fra volgarità e bon
ton; fra lievità dell’apparire e violenza dell’essere, e può leggersi
come parabola sul ruolo devastante che può avere la diversità.
Tutti i personaggi, a partire dal principe Filippo, sono ondivaghi, incapaci di dare corpo, se non dopo mille contraddizioni,
alla decisione di eliminare quello scomodo testimone della
loro cattiva coscienza; mentre l’unico personaggio coerente
con la propria semplice ma genuina identità è proprio Iwona.
Le attrici e gli attori, per lo più giovani, prestanti e professionalmente attrezzati, sanno dare vita con efficacia a quel
mondo sconcertante, popolato di mostri, ma in superficie affatto normale. La giovane, bravissima Marija Tokareva riesce
a restituire a tutto tondo il suo difficile, atipico personaggio,
utilizzando al meglio l’espressività del volto, del gesto, della
postura.
Alle dimensioni ridotte del palcoscenico sopperisce una scenografia semplice ma funzionale: una serie di pilastri triangolari, spostati a vista, ne articolano e moltiplicano lo spazio angusto. Sullo sfondo, dietro l’ingombro dei pilastri e dei giochi
di luce, si intravede il disegno dell’uomo leonardesco e delle
sue macchine.
Sergej Timofeev, direttore artistico del Dramatičeskij Licejskij
Teatr, e drammaturgo e regista dello spettacolo, ipotizza che
il principe pratichi la pittura, e ciò offre il destro, in una scena ambientata nel suo studio, di esporre, appesi alle colonne,
una serie di quadri di impronta cubista, quasi a suggerire la
molteplicità di punti di vista su una realtà, di per sé mutevole
e sfuggente.
La lettura registica sembra voler esaltare la valenza morale del
lavoro, attribuendo a Iwona quasi una consapevolezza sacrale,
peraltro giustificata dal testo, ove si cita una sua “vocazione al
martirio”. E uno dei momenti di maggior intensità teatrale e
poetica dello spettacolo è il gesto col quale la ragazza esprime
un suo incongruo, inaspettato amore per il principe, alzando
le braccia in alto, come in un’offerta sacrificale.
Il Dramatičeskij Licejskij Teatr (letteralmente “teatro di prosa liceale”), nasce nel ’94 dal corso di teatro di un liceo di
Omsk, e diventa, su sollecitazione dell’Artista Laureato Vadim Rešetnikov, il primo teatro municipale della città. Oltre
a realizzare una stagione di prosa, svolge un’intensa attività
didattica nel solco del metodo Stanislavskij, con un obiettivo
non necessariamente di formazione professionale ma, come
dichiarato dallo stesso Rešetnikov, di crescita personale, di
comprensione di se stessi e degli altri. Ha partecipato più volte
agli “Incontri internazionali di teatro giovanile” di Grenoble
e, nella primavera del 2010, ha portato a Milano la riduzione
teatrale di un romanzo di successo in Russia, Al’pijskaja Ballada (Ballata alpina) di Vasil’ Bykov: la storia di uno strano
incontro, sulle nostre Alpi, fra un soldato russo sbandato e
una partigiana italiana. Nel ruolo di Giulia, la partigiana, la
medesima Marija Tokareva, allora ventenne, affiancata da Evgenij Točilov (anch’egli in scena con Iwona, nella parte del
Ciambellano).
La piccola sala teatrale, ricavata dal salone di un asilo infantile,
ma completamente ristrutturata, anche con una balconata, era
piuttosto affollata, per lo più di giovani. Ma l’accoglienza mi è
parsa freddina; in Russia, alla fine dello spettacolo, di regola il
pubblico si alza in piedi, ma questa volta la standing ovation di
rito mi è sembrata un adempimento più doveroso che convinto, e gli applausi, scanditi ritmicamente, si sono spenti presto.
Ho chiesto a un’amica di Omsk, seduta accanto con me in
platea, se lo spettacolo le era piaciuto. “Non del tutto”, mi ha
risposto, “mi è sembrato pesante e poco chiaro”. Sentendo che
invece io, pur nella difficoltà linguistica, l’avevo apprezzato, ha
aggiunto: “Sai, per la Siberia forse è troppo moderno”.
* Scittore e critico teatrale
Abstract
DIVERSITY OF IWONA, PRINCESS OF BURGUNDY
n Omsk (Western Siberia) the Dramatičeskij Licejskij Teatr has put on
the stage Iwona, Princess of Burgundy, by Witold Gombrowicz. He
wrote the play during the Thirties, but it was published in Poland only
fifty years after. A brave and gifted group of young actors has performed
this complicated text, a kind of a parable about the upsetting effects
that diversity may cause in people pretending to be normal. The
protagonist, a girl with mental disabilities, expresses herself almost
without words, showing the importance – not only in theatre, but also
in our day-to-day relationships – of non-verbal communication. Beside
professional performances, the theatre hosted also a well realized drama
school, where Stanislavskij method is still followed, not only in order
to train actors, but as a mean to understand ourselves and other people.
I
LA DIGNITÀ, L’AUTONOMIA
E LA PROSTITUZIONE DELL’ARTE
Intervista all’autore e regista Luciano Melchionna
Recensioni Spettacoli
UNO “SPETTACOLO-CULTO”
di Martina Galletta*
vuol dire ‘catarsi, purificazione... io amo
il pubblico, e così i miei artisti e i miei
collaboratori, e vorrei che ogni incontro
servisse ad alleviare un po’ di quel dolore
che contattiamo spesso invece da soli, abbandonati a noi stessi. In DAdP i ‘clienti’
si consigliano, fanno amicizia tra loro e
con gli artisti e questo per me è gioia pura:
DAdP è la Festa della Vita.
G
li spettatori sono clienti, gli attori prostitute che si vendono,
contrattando come delle vere
professioniste. Il teatro diventa bordello
dell’arte e le prestazioni/monologhi animano camerini, bagni, sottopalco. Otto
anni fa nasceva dal multiforme ingegno
del regista Luciano Melchionna lo spettacolo-culto Dignità Autonome di Prostituzione. Qual è la chiave del successo di DAdP?
DAdP è la dimostrazione che il pubblico
ha bisogno del talento, della meritocrazia,
dell’onestà intellettuale, dell’urgenza come
motore di ogni ‘gesto’. In DAdP ho trovato finalmente la possibilità di esprimere
il mio mondo etico-estetico-poetico. È
un luogo magico dove l’intrattenimento
è sempre pungolato da spunti per la riflessione. Dove posso lavorare con artisti
strepitosi: siamo pieni in Italia e - detto tra
noi - credo tu ne sappia qualcosa.
Molti dei monologhi sono scritti oltre
che diretti da te. Le storie che racconti
sono spesso graffianti, dolorose.
Ho bisogno di raccontare quello che gli
occhi della gente che mi vive intorno o
che incontro per strada mi comunicano.
Ci sono occhi che mi spezzano il cuore
con la loro storia, che mi fanno sorridere
per la simpatia, che mi illuminano con la
loro luce. Io trascrivo queste emozioni fortissime in storie dure, dolorose appunto o
tormentate, senza aver paura di affondare
la lama nel cuore degli spettatori: lì per lì
soffriranno ma uscendo capiranno cosa
Ho avuto il privilegio di lavorare insieme a te su uno dei tuoi monologhi,
Diopuntointerrogativo. Cosa cerchi dai
tuoi artisti ?
Sarebbe troppo facile dire ‘la verità’ - e io
non amo le cose facili, anche questo lo sai
bene - ma alla fin fine è questo quello che
cerco: l’essere ‘a fuoco’, far aderire ogni gesto, parola ed espressione del volto con ‘il
dentro’: ai miei attori chiedo di collegare
il cervello con il cuore e con le viscere e di
sentire ‘fluire’ il personaggio cui prestano il
proprio corpo e la propria anima. Chiedo
di seguire le ‘linee’ che io vedo quando li
aiuto a dire le battute, gli chiedo lo sforzo di seguire le traiettorie che disegnano
nell’aria le parole e che io ho sempre visto, ma solo da poco ne ho piena consapevolezza. Chiedo di lanciare le parole,
dopo averle introiettate fino in fondo, di
lucidarle e masticarle con cura, senza mai
accontentarsi, seguendo un pentagramma
che non cerchi mai effetti o suoni sterili.
Chiedo di godere con me, senza interrompere mai il mio e loro coito e quello del
pubblico, di regalarsi completamente senza risparmio alcuno. Le ultime tappe di DAdP?
Abbiamo finito di recente a Cinecittà, negli Studios... potete immaginare l’emozione: anzi tu l’hai vissuta in pieno. DAdP da
otto anni colleziona traguardi incredibili
perché meritati - non amo fare il finto modesto - nel senso di conquistati per davvero, ma anche inaspettati, perché nulla di
quello che faccio ha una valenza strategica:
il vero successo si sviluppa da ciò che fai
se ciò che fai ha quel seme in sé e tu sai
innaffiarlo costantemente, anche quando
non sembra più possibile andare avanti...
Appena nato per esempio, il mio bimbo
DAdP fu bloccato perché, non esistendo
una formula simile, io all’inizio facevo
pagare gli attori con il denaro vero. Allora
ho deciso di mettere tutti cappelli davanti
alle stanze: una vera e propria questua. Gli
attori si esibivano chiedendo provocatoriamente l’elemosina. Dopo una settimana,
disperati, alcuni angeli della Siae mi hanno trovato una soluzione, i dollarini, quella che ancora oggi ci permette di andare
in scena.
E’ così grave la situazione teatrale italiana? Devo ammetterlo, se fossi cosciente fino
in fondo forse avrei smesso da tempo: il
mio fuoco sacro mi impedisce di soffrire le
difficoltà che da quando ho iniziato vivo
nel teatro. Sì, la cultura è in crisi... ma
non ricordo un giorno in cui ho smesso
di lottare per potermi esprimere così. Oggi
le mie battaglie hanno alzato il tiro e questo dimostra che seminando seriamente,
incessantemente, innamoratamente... mi
concedi questa licenza? - anche il teatro
ripaga. Siamo in tanti, non molliamo.
* Attrice
Abstract
DIGNITY, ATONOMY AND
PROSTITUTION OF ART
heatre becomes a brothel, actors like
prostitutes performing in the dressingrooms, in the restrooms, under the stage.
Authonomos Dignities of Prostitution,
created 8 years ago by the manifold genius
of Luciano Melchionna, is a magic place, in
which entertainment is mixed to food for
thought. “To write my monologues I take
inspiration from the eyes of the people: they
spread me joy, pain, loneliness. I turn these
emotions into biting stories. In DAdP both
actors and audience live a catharsis together.
It’s a celebration of Life. I ask my actors to
let the character they play to flow into their
bodies and minds. Cultural crisis? With
passion and hard work our art can survive.
We are many, don’t give up!”
T
teatridellediversità
95
Recensioni - Spettacoli
L’OPERA DEL TEATRO CARGO
QUESTA IMMENSA
NOTTE
Dal testo inglese “This Wide Night” di Chloë Moss
di Claudio Facchinelli*
T
eatro Cargo: un nome che evoca
i colori e gli odori del mare, del
porto, del viaggio, di Genova; ma
anche il lavoro e la fatica. Laura Sicignano, che ne è il direttore artistico, lo ha
fondato vent’anni fa. Alla mia richiesta
di definirne la poetica, lei rifiuta qualsiasi categoria preconfezionata: “Teatro di
ricerca? Teatro classico? Teatro di narrazione? Teatro di impegno civile? Appena
sento il rischio di veder applicata un’etichetta al Cargo, ci spostiamo un po’ più
in là”.
Con Questa immensa notte, Teatro Cargo si avvicina per la prima volta al tema
del carcere ma, se si ripercorrono le tappe del suo itinerario artistico, questo
approdo appare naturale. “Dopo aver
lavorato sulla storia e la memoria, sui
grandi viaggi, su storie vere di donne in
guerra, su un progetto con i giovani rifugiati,” mi dice ancora Laura, “questo
testo, che mi è capitato nella mani quasi
per caso nell’originale inglese, mi ha immediatamente conquistato e, assieme a
Eliana Amadio, ci siamo subito messe a
tradurlo”.
This Wide Night, di Chloë Moss (classe
’76), ha debuttato a Londra nel 2008
al Soho Theatre, aggiudicandosi l’anno
successivo il prestigioso Susan Smith
96
Blackburn Playwriting Prize.
Parla di carcere, ma in modo indiretto,
obliquo: le due protagoniste sono due
donne uscite di prigione che tentano,
con fatica, di ricostruire una loro identità umiliata, mutilata. L’autrice non ci
parla delle loro storie, anche se possiamo
immaginarle, ma percepiamo le ferite
non rimarginate, le cicatrici profonde
che l’esperienza ha lasciato su ambedue.
“Queste donne,” spiega Laura, “il carcere ce l’hanno nella testa. Dentro, in
prigione, gli è scivolata via la femminilità: sono diventate fantocci. Ma quando escono il mondo le respinge: non lo
sanno affrontare, perché per loro è un
incomprensibile meccanismo che le stritola”.
La partecipazione simpatetica verso la
dolorosa realtà che i due personaggi
incarnano ha indotto Laura a lavorare
con una modalità particolare: le prove
si sono svolte all’interno del carcere di
Ponte Decimo di Genova, “in compagnia delle detenute”, mi confida, “per
rispetto, per non tradirle, per coinvolgerle”.
“Il rapporto che si stabilisce fra le due
donne”, mi spiega ancora, “è un archetipo universale: non solo di donne che
hanno condiviso una cella, ma anche
di madre e figlia, di relazione amicale o
amorosa, tra due persone fragili e sole.
È una storia che parla di tutti noi, del
nostro lato perdente e buio, dell’infanzia
perduta e violata in tutti noi”.
Lo spettacolo, vincitore del Premio Sonia Bonacina è andato in scena lo scorso febbraio al Teatro Filodrammatici di
Milano.
La scena è volutamente povera, a metà
strada fra la suggestione simbolica e un
iperrealismo impietoso, che esprime anch’esso precarietà, e dipinge un faticoso
disordine reale e mentale.
Muovendosi in quello spazio, Orietta
Notari e Raffaella Tagliabue restituiscono con toni di verità i velleitari tentativi
di ricostruzione della loro identità per-
duta, ma anche il groviglio di sentimenti
complessi e contraddittori che le legano.
Si cercano e si respingono; ora sono tenere, ora violente; e riaffiorano le dinamiche della loro non facile convivenza
nell’ambiente carcerario. Ma anche le
parole più rabbiose che si scambiano
sono, di fatto, invettive urlate contro
una società che continua a respingerle, ad emarginarle. Tuttavia, da questo
oscuro, frustrante vicolo cieco in cui
sembrano dibattersi, la solidarietà femminile fra queste due creature perdenti e
indifese potrà forse sortire la speranza di
una via d’uscita.
Un pregio non secondario dello spettacolo consiste nell’aver messo a fuoco un
aspetto poco frequentato dell’istituzione
penitenziale, il dopo; e nel far riflettere la società civile sulla necessità di un
supporto al cammino di reinserimento, spesso faticoso, anche umiliante; in
mancanza di ciò, la sanzione detentiva
di fatto si prolunga, produce recidiva,
rischia di trasformarsi in un “fine pena
– mai”.
* Scrittore e critico teatrale
Abstract
TEATRO CARGO ‘S THIS WIDE NIGHT
or twenty years, in the artistic and cultural
policy of Teatro Cargo - founded by Laura
Sicignano -true stories of women andlosers
have always had a major place. This time
Laura has chosen the subject of the jail, but
from an original point of view: not the life
within the prison, but the hard, frustrating
attempts of people to restore their life and
lost identity when they get out. This Wide
Night, by English playwright Chloë Moss,
translated and directed by Laura Sicignano,
shows the difficult and intricate relationships
between two women of different age, who
have shared the same cell. Beside its artistic
value, the play points out one of the main
social problems concerning imprisonment.
F
METAMORFOSI
DEL TEATRO SOCIALE
Un evento organizzato per iniziativa di laLut-Centro di Ricerca e produzione teatrale e
Stranensemble, con il contributo del Comune di Siena e in collaborazione con Università degli
Studi di Siena, USL 7 Siena, Corte dei Miracoli Centro culture contemporanee, Il Lavoro
Culturale, Associazione Down D.A.D.I. (Padova)
di Alice Lou Tanzanella*
Fabio Mugnaini
L’iniziativa ha riunito registi, performer, docenti universitari
e, come ha definito puntualmente la docente Laura Caretti, soprattutto una parte di quei professionisti che lavorano
attivamente e in prima persona in ambienti di “disagio fisico-mentale” e di “marginalità sociale”, per riflettere sul processo metamorfico che avviene nel corpo e nella mente di chi
il teatro lo insegna, di coloro che vi partecipano come allievi,
e di quelli che rivestono il ruolo di spettatori (pubblico e terapeuti).
Nella prima giornata si è svolta una tavola rotonda sul “Teatro
in Carcere”. Qui si è potuto ascoltare una serie di interventi
a testimonianza di esperienze concrete di teatro e formazione
in contesti di detenzione. Mentre durante la seconda giornata,
dedicata a “Teatro e Salute Mentale”, si è discusso di tematiche legate a esperienze performative con soggetti portatori di
disabilità fisiche e mentali. A conclusione dell’evento sono stati mostrati due spettacoli, Vissi d’arte, esito del laboratorio di
teatro sociale condotto fra il 2014 e il 2015 da laLut a Siena,
e Gli indistinti confini a cura di Stranensemble.
In apertura del convegno l’assessore alla “Sanità, Politiche Sociali, Casa” del Comune di Siena, Anna Ferretti, raccontando
la sua esperienza personale a contatto con il teatro fatto con i
bambini e negli ambienti cosiddetti del “disagio”, ha sottolineato l’importanza dell’arte teatrale come mezzo per esprimer-
Recensioni Convegni e festival
SIENA
si, che coinvolge l’intera persona nelle sue molteplici modalità
linguistiche (corpo, voce, parola…).
Nella due giorni hanno arricchito la discussione Vito Minoia,
Gianfranco Pedullà, Fabio Mugnaini, Francesca Tricarico, Michele Campanini, Altero Borghi, Valentina Palmucci, Maria
Josè Massafra, Laura Caretti, Andrea Fagiolini, Paolo de Vita,
Ivana Conte, Annalisa Bianco, Irene Stracciati, Marco Caboni
e Marta Mantovani.
Molte le testimonianze e gli spunti di riflessione interessanti.
Vito Minoia ha introdotto sia il lavoro svolto dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere - nato nel 2011 con
l’intento di riunire e promuovere esperienze pluriennali diversificate di teatro sociale realizzate in contesti carcerari, esperienze che cercano di coniugare l’utilità con la creazione di un
teatro che abbia una valenza artistica - sia l’attività della rivista
internazionale Catarsi - Teatri della Diversità con il supplemento “Cercare” (anagramma di “carcere”). Minoia ha parlato
della prigione come “un pezzo di teatro”, il primo palcoscenico in cui la persona che riveste il ruolo di detenuto è messo
in scena e vive la diminuzione assoluta della sua privatezza; ha
parlato di carcere e senso della democrazia, di carcere come
il luogo in cui si realizza l’incontro, attraverso il teatro, fra
componenti diverse dello stesso mondo sociale, e del senso
della pena e della sua importanza riabilitativa anche attraverso esperienze performative e formative. Inoltre ha raccontato
il progetto sperimentale “l’Arte Sprigionata”, una manifestazione arrivata alla sua XII edizione che vuole essere un luogo
d’incontro fra il carcere e la città di Pesaro.
Il regista Gianfranco Pedullà vanta una lunga esperienza all’interno delle carceri toscane di Arezzo, Prato, Pistoia. Nel corso
di venticinque anni di laboratori ha potuto sperimentarsi in
quel linguaggio che emerge dall’incontro “extraquotidiano”
fra detenuti-attori e registi-operatori del teatro. Pedullà ha affermato che il carcere è uno di quei contesti che getta le basi
per una ridefinizione e rifondazione dell’arte teatrale, e per
l’invenzione di un nuovo teatro che mira alla cura del Sé e
dell’Altro. Un altro aspetto sottolineato dal regista è l’intrinseca teatralità non solo delle storie di vita personali che i detenuti portano sul palcoscenico, e che contribuiscono talvolta alla
scrittura del testo drammatico, ma anche di “facciate personali” per citare Erving Goffman, in cui il corpo e la voce sono
un materiale su cui lavorare in maniera sperimentale, lontani
da condizionamenti e da quell’educazione all’arte drammatica
propria degli attori professionisti.
teatridellediversità
97
Francesca Tricarico è regista della compagnia “Le Donne del
Muro Alto”, progetto di teatro con le detenute del carcere di
Rebibbia (sezione Alta Sicurezza). La sua testimonianza al
convegno è stata significativa poiché ha gettato una nuova
luce sulle esperienze di teatro in carcere vissute al femminile. Francesca ha raccontato, con sguardo soggettivo, le “trasformazioni” vissute da lei e dalle detenute, e si è emozionata
quando ha ricordato come le sue allieve avessero avuto, attraverso il teatro, la possibilità di riflettersi e avvicinarsi a temi
complessi come il concetto di “bene comune”.
Michele Campanini è insegnante di lettere per il CPIA 1 Siena
nelle Case Circondariali di S.Spirito e S.Gimignano. Nel suo
intervento ha parlato della necessità di restituire una dimensione “normale” del rapporto umano ai soggetti costretti in regime di detenzione, e ha raccontato la voglia percepita dai suoi
allievi detenuti di narrarsi e dar voce ai monologhi personali.
Campanini è anche coinvolto nel Creative Europe Programme con il progetto Playing Identities, Performing Heritage.
Annalisa Bianco si è soffermata sulla speciale natura dell’attore
del teatro sociale, fondata sulla non professionalità canonica
e su una nuova forma di artisticità. L’imprevedibilità e il frequente sovvertimento delle regole di un teatro di tradizione,
portano il nuovo attore a trasformare la scena, restituendo al
teatro sociale la natura di teatro di ricerca, di sostegno alla
persona, di invenzione di nuovi linguaggi, a volte anche sovversivi.
Paolo De Vita ha raccontato la sua esperienza con i malati di
Parkinson, iniziata 13 anni fa a Roma. Si sono ottenute nuove
forme di benessere, attraverso il processo dinamico che piccole azioni sceniche, fondate su emozioni forti, provocano nei
malati di Parkinson, portandoli a compiere movimenti che
altrimenti sarebbero loro impediti. Ha poi proposto un video
di grande impatto per le dichiarazione dei pazienti, che in diverse forme, esprimono la profonda trasformazione prodotta
in loro dall’esperienza teatrale, che li motiva a dare senso alla
propria esistenza.
biamento del concetto di tempo nell’azione scenica proposta
dalle persone disabili e nelle ricezione da parte dello spettatore. Ha poi riferito come il teatro socio-educativo più evoluto
attinga spesso ad un repertorio, ripensato e trasformato, ma
radicato nella storia del teatro.
Marta Mantovani ha tirato le fila di interventi precedenti e
narrato la pluriennale esperienza condotta a Siena con attori
professionisti e attori con disagio psicofisico. Ha sottolineato
la decisiva integrazione delle competenze tra le diverse figure
professionali e ha poi mostrato un video dello spettacolo “C’è
del marcio in Danimarca”, prezioso lavoro di scavo sui personaggi e su un ripensamento del linguaggio teatrale, che mette
al centro la funzione del teatro come mediatore rispetto alle
biografie personali.
Alessandra Giannini ha proposto la visione di quella parte
dell’area psicopedagogica, che sostiene la valenza del teatro
come fattore educativo e di sostegno a chi ha difficoltà psichiche, senza che si debba sostituire ad altre azioni medico-scientifiche, nel rispetto delle competenze e dei ruoli.
* Studiosa di antropologia e linguaggi visivi all’Università di Siena
Andrea Fagiolini ha delineato il proprio percorso professionale con grande essenzialità e in modo molto sentito, intrecciandolo anche alla propria formazione ed esperienza di vita. Ha
messo in luce gli aspetti terapeutici differenti, che convivono
attualmente nelle terapie rivolte ai pazienti con disagio psichico, riconoscendo al teatro una valenza anche terapeutica
e comunque si sostegno alla persona di straordinario valore.
Irene Stracciati ha narrato in modo appassionato l’esperienza
di danza con i giovani con sindrome di Down, che hanno acquisito progressivamente competenze sempre maggiori, fino a
superare per intensità e resa scenica i professionisti.
Ha parlato anche dei limiti e delle difficoltà che ha dovuto
superare, per arrivare ad un equilibrata considerazione del lavoro e dei destinatari, persone speciali ma da trattare con pari
dignità, senza buonismi.
Ivana Conte ha sottolineato come il teatro sociale provochi
profonde trasformazioni non solo nell’attore ma anche nello
spettatore consapevole e preparato alla visione. Ha fatto riferimento ad esperienze di formazione del pubblico realizzate da
un gruppo nazionale di ricerca di cui fa parte da molti anni,
prima afferente al Centro Teatro Educazione dell’ETI e oggi
all’Agita/Casa dello Spettatore, mettendo in luce l’importanza
del lavoro di equipe e gli aspetti innovativi relativi al cam-
98
Abstract
SOCIAL THEATRE’ A METAMORPHOSIS
n the 2nd and 3rd of October «Metamorfosi” took place in Siena:
an initiative that brought together teachers, performers, film
directors etc. to reflect on the transformation that happens in the body
and in the mind of theater teachers, of those who participate as students
and those who play the role of spectators. The first day, a round table
was held about “Theatre in Prison” , with the opportunity to listen to
a series of speeches on concrete experiences of theater and education
in detention contexts. During the second day, dedicated to “Theater
and Mental Health”, themes related to performative experiences were
discussed together with people with physical and mental disabilities.
O
ARTI VISIVE
E CONTEMPORANEITÀ
Contemporaneamente Sicilia. Le arti performative del contemporaneo. Progetto a cura di
Luca Mazzone e della Rete siciliana di drammaturgia contemporanea
di Vincenza di Vita*
L
’iniziativa si è svolta al Teatro Libero Incontroazione di Palermo. Il
teatro stabile d’innovazione è stato
fondato nel 1968 ed è divenuto da subito un punto d’incontro e “Laboratorio
di Teatro” internazionale. A ideare con
Luca Mazzone questo incontro di riflessione è stata Latitudini, di cui fa parte
anche il Libero di Palermo. Latitudini è “la rete siciliana di drammaturgia
contemporanea. Raggruppa associazioni, teatri e festival siciliani, creando un
circuito teatrale rivolto specificamente
al teatro contemporaneo e d’innovazione. Attraverso l’organizzazione di rassegne, festival o singole rappresentazioni
di spettacoli dal vivo, la produzione di
spettacoli teatrali, di danza e musica, la
creazione di eventi, la valorizzazione dei
beni culturali e ambientali (fonte www.
latitudini.info).”
In una soleggiata ed estiva giornata d’inizio autunno si è dato appuntamento
un gruppo di operatori italiani con alcuni rappresentanti dell’eccellenza delle
residenze del Teatro Pubblico Pugliese:
il già citato Luca Mazzone, condirettore
del Libero di Palermo; Francesca D’Ippolito, organizzatrice e rappresentante
di Cresco-Coordinamento delle Scene
della Realtà Contemporanea, per la
Puglia; Gigi Spedale, presidente di Latitudini; Ippolito Chiarello, operatore,
attore pugliese e ideatore del progetto
internazionale “Barbonaggio teatrale”;
Turi Zinna, artista e responsabile di Cresco Sicilia.
La mattina dei lavori è stata interamente
dedicata al confronto e all’arricchimento
attraverso un dialogo volto alla reciproca conoscenza nella comune ricerca mediante il teatro, di produzione e crescita
sul territorio italiano. Tanti gli operatori
culturali intervenuti tra cui Marcello
Giacone, dirigente regionale, a capo
della segreteria tecnica dell’Assessorato
regionale al Turismo, attualmente sta
seguendo il progetto per l’elaborazione
di un piano sulle residenze, avvalendosi
della consulenza degli operatori culturali di cui è composta la rete Latitudini.
Nel pomeriggio si è svolta la parte performativa dell’evento attraverso la proiezione video di alcuni interventi teatrali.
Teatro, video-arte, musica, poesia e danza si sono succeduti sul palcoscenico del
teatro di Piazza Marina. A inaugurare gli
interventi è stato il feroce Nel fuoco, di
Giuseppe Massa, dedicato a Nourreddine Adnane, giovane ambulante marocchino che si è dato fuoco a Palermo
per una multa nel 2011. La memoria e
il senso civile siciliano sono stati evocati
anche da Sicilia segreta di Biagio Guerrera, con immagini legate alla strage di Capaci. Ore d’aria, a cura di Babel Crew, è
stato un surreale viaggio in una Palermo
inedita e felliniana. Il pluripremiato e
toccante Importante, molto importante
di Alessandra Pescetta e Savì Manna ha
ceduto lo spazio al Tifeo di Turi Zinna.
Gli unici ad avere impegnato dei corpi,
Recensioni Convegni e festival
PALERMO
in presenza con una performance dal
vivo, sono stati gli allievi di ActorGym,
scuola messinese diretta da Vincenzo
Tripodo, attraverso uno studio ispirato
all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo,
che ha replicato nella sezione “fuoriLuogo a teatro” curata da Latitudini per
SabirFest Messina, lo scorso 10 ottobre.
Anche altri artisti e compagnie, presenti
a Palermo, sono stati impegnati la settimana successiva nella manifestazione
messinese sulla cultura e cittadinanza
mediterranea. “Questo testimonia come
Latitudini – dichiara il presidente Gigi
Spedale – stia sempre più consolidando
la sua presenza sul territorio siciliano in
eventi internazionali, volti alla valorizzazione della nostra bellezza paesaggistica
e artistica.” La chiusura dei lavori è stata
affidata a un video di Franco Maresco
dedicato a Franco Scaldati, perché il
“Teatro è Poesia”.
* Studiosa di arti sceniche, Università di
Messina
Abstract
VISUAL ARTS AND CONTEMPORARY
STATE
rt director Luca Mazzone and Sicilian
contemporary drama’s network Latitudini
have devised “Contemporaneamente Sicilia”,
a conference of one day on dialogues and
discussions about contemporary performing
arts. This day was divided into two parts.
On October 3, at Teatro Libero in Palermo,
a meeting took place in the morning on
development of theatrical policies, such as
theater residences or participation in calls
for funding projects of cultural activities on
Italian territory. Instead, in the afternoon
there were some performance videos of
short plays and a tribute to Franco Scaldati
by the director Franco Maresco
A
teatridellediversità
99
Recensioni Convegni e festival
SAN SEPOLCRO
TRA VISIONE
E VOCAZIONE
Frammenti ragionati da Kilowatt Festival 2015
di Ivana Conte*
Foto Luca Del Pia
P
iero della Francesca è l’anima, il genius loci che conduce
a Sansepolcro e ad Arezzo, ancora oggi, la gran parte dei
viaggiatori di tutto il mondo.
Dedicare a lui uno spettacolo non è una facile impresa e Luca
Ricci, che ama le sfide e a Sansepolcro si spende da anni in una
miriade di iniziative che vanno dal Festival Kilowatt a progetti
europei sullo spettatore attivo, decide di tentarla.
La drammaturgia dello spettacolo Piero della Francesca il punto e la luce è, a nostro avviso l’elemento più riuscito dell’operazione ed è firmata da Lucia Franchi e Luca Ricci.
L’ambientazione è suggestiva, l’uso dei materiali video è
drammaturgicamente motivato, gli attori sono ancora un po’
fragili, accademici, senza tormento (è la cifra generazionale,
l’assenza di tormento e, di conseguenza, di estasi), la tematica
è forte: astrazione, geometria, scienza, arte, costrutto in antitesi all’assenza di progetto. E, soprattutto, la vocazione come
unica risposta alla volgarità dei tempi, quelli di Piero della
Francesca, e i nostri.
Di Piero della Francesca si narra, si mormora, si sorride, ci si
100
occupa e preoccupa attraverso la conversazione teatrale tra il
suo giovane aiutante Paolo e la cognata di Piero, Giovanna;
sono loro i suoi custodi, garanti di mostrarci come l’omologazione del gusto sia vecchia storia.
Il Sassetta imperversa con le sue madonne sorridenti e celestiali, Piero rompe regole, convenzioni ed equilibri e scopre il
teatro, ce lo mostra per la prima volta in pittura, con lo straordinario Polittico della Misericordia che lo spettacolo prende
ad ispirazione.
E, naturalmente, i più non comprendono.
Davvero contemporaneo resta dunque chi non è del tutto nel
proprio tempo, come Agamben sottolinea in molte occasioni (1).
A vedere questa piccola gemma teatrale siamo preparati, nel
pomeriggio, attraverso una visita al Museo Civico di Sansepolcro, dove il Polittico è custodito, insieme all’opera somma di
Piero – la Resurrezione – oggi in restauro grazie ad un primo
finanziamento privato.
Nel Festival Kilowatt del resto, lo spettatore è chiamato ad
essere attivo come non mai e fa parte del suo itinerario l’essere
Note
1 «Coloro che coincidono troppo pienamente con la loro epoca,
combaciando perfettamente con essa in ogni punto, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla»
(Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, I
sassi, Roma 2008)
2 Ogni anno Kilowatt lancia un bando destinato alle giovani
compagnie e ai nuovi artisti del teatro e della danza contemporanei. Chiediamo loro di mandarci un dvd di massimo 20
minuti con lo scopo di selezionare 9 spettacoli da invitare in
una sezione del festival Kilowatt chiamata “Selezione Visionari”. La scelta dei 9 lavori da ospitare non la fa il direttore
artistico, ma un gruppo di persone che risiedono in Valtiberina Toscana, che hanno la caratteristica di essere semplici
spettatori di teatro e di non essere ad alcun titolo operatori
teatrali. Tra loro ci sono due commesse del supermercato, un
professore dell´istituto tecnico, una barista, un operaio, una
studentessa di lingue straniere, due elettricisti, tre pensionati.
Il gruppo è composto da circa 20 persone. Questo gruppo di
spettatori-selezionatori si è dato il nome de “I Visionari”.(dal
sito www.kilowattfestival.it)
Recensioni Convegni e festival
di fronte all’originale per apprezzare meglio lo studio teatrale
che ne deriva.
Il comune di Sansepolcro e Kilowatt Festival sono i capofila
del progetto Be SpectACTive!, approvato dalla Commissione
Europea nell’ambito del programma Creative Europe 20142020.
Partecipano al progetto 12 istituzioni di 9 Paesi europei:
The London International Festival of Theatre e York Theatre Royal (Gran Bretagna), Tanec Praha Festival (Repubblica
Ceca), Bakelit Multi Art Center Budapest (Ungheria), Sibiu
International Theatre Festival (Romania), Perforacije Festival
Zagabria, Rijeka e Dubrovnik(Croazia), Ex-Ponto Festival
Lubiana (Slovenia), Perypezye Urbane Milano, Fondazione Fitzcarraldo Torino e due dipartimenti che si occupano di
marketing della cultura, delle Università di Barcellona (Spagna)
e di Montpellier (Francia).
Il convegno internazionale sulla active spectatorship, programmato a Sansepolcro il 21 e 22 luglio 2015, ha fatto emergere
alcune affinità e molte differenze tra modelli di cittadinanza
attiva attraverso la sensibilizzazione del pubblico teatrale e
della danza.
Oltre a porre l’accento sulla trasferibilità in Europa del modello già sperimentato a Sansepolcro da alcuni anni - I Visionari
(2) – sulla quale il progetto Be SpectACTive! si fonda, ogni
soggetto europeo coinvolto ha relazionato sullo stato attuale
della rapporto tra palcoscenico e platea e tra teatri e comunità
nei territori di appartenenza, illustrando le modalità più efficaci per trasformare gli spettatori in moltiplicatori di partecipazione alla vita sociale.
L’aspetto più interessante riguarda proprio la variabile nazionale, regionale e territoriale: dai modelli anglosassoni consolidati, tra i quali molto innovativo ci è parso quello di York,
dove durante il festival di teatro giovani operatori affiancano
esperti per un tirocinio attivo e a specchio (ogni figura professionale consolidata è tutor di un giovane che farà lo stesso
lavoro in futuro), alle appassionanti prime sperimentazioni di
Zagabria, nelle quali la relazione tra cittadini, territorio e arte
è da costruire, o meglio ri-costruire, stante una speciale situazione geopolitica.
Il convegno ha permesso di confrontare dati storiografici, modalità operative, concezioni filosoficamente connotate e visioni più ingenue ma forse più dinamiche, dati di rilievo sulle
normative europee a sostegno dei progetti di formazione del
pubblico.
Alcune esperienze sono apparse fortemente sbilanciate a favore dell’artista e del suo ritorno di immagine, piuttosto che
rivolte alla formazione dello spettatore al teatro e alla nuova
cittadinanza.
Notevole e in controtendenza ci è sembrato l’intervento dell’esponente dell’Università di Barcellona, Lluis Bonet, molto vicino ad alcune delle posizioni rappresentate in Italia dal Centro Teatro Educazione dell’ETI (oggi Casa dello Spettatore),
per il quale l’educazione del cittadino attraverso il teatro è
centrale e viene prima delle urgenze degli artisti, pur comprensibili.
Il progetto ha la durata di 4 anni, nei quali verranno costituiti 34 gruppi di spettatori attivi in 8 città europee, saranno
prodotti 21 nuovi spettacoli di teatro e danza e sostenute di
54 residenze creative. Andranno in scena 153 spettacoli (108
dei quali scelti direttamente dai gruppi di spettatori attivi),
saranno programmate 4 conferenze internazionali sulla “active
spectatorship”, insieme all’elaborazione una ricerca scientifica
sull’efficacia qualitativa e quantitativa dei progetti e alla realizzazione di un documentario video e di un libro.
* Studiosa di teatro sociale
San Sepolcro, convegno al Kilowatt Festival
Abstract
BETWEEN VISION AND VOCATION
he Kilowatt Festival was held once again at Sansepolcro (Arezzo),
from 18th to 25th July 2015. It highlights an interesting piece of
theatrical work - Piero della Francesca, the point and the light - by Lucia
Franchi and Luca Ricci, who is also the Director of the Festival. The play
is well written, a theatrical conversation between a young apprentice
and Piero’s sister-in-law, which shows how the artist broke the conventions
of his time. Being present is alsoa synthesis of the International Congress
Be SpectACTive!, which is part of the Creative Europe 2014-2020
programme. The Municipality of Sansepolcro and Kilowatt Festival are
the leaders of the project in partnership with 12 groups gathered from
9 European countries. The congress compares new models of citizenship
through active participation by spectators in the theatre.
T
teatridellediversità
101
Recensioni Convegni e festival
TRENTO
CORPI
IN CONFLITTO
La bellezza della diversità, titolo dell’ultima edizione del Festival Oriente Occidente, una
delle manifestazioni di danza più prestigiose, non solo in Italia
di Roberto Rinaldi*
Foto John Hogg
I
l Festival di Rovereto ha compiuto il suo trentacinquesimo
compleanno, festeggiato da un successo meritato per la sua
capacità di presentare le ultime tendenze della danza, viste sui
palcoscenici del Teatro Zandonai, e Auditorium Melotti di Rovereto e Teatro Sociale di Trento. Un programma che offriva
numerose prime nazionali e prime assolute, messe in scena da
compagnie di danza tra le più importanti del mondo. Dal 2015
Oriente Occidente è stato incluso nella piattaforma Effe, promossa dalla Commissione e dal Parlamento europeo, riconoscendo al Festival la sua qualità artistica. Anche questa edizione
è stata dedicata all’indagine sul corpo in conflitto, iniziata lo
scorso anno, scegliendo da parte dei direttori artistici Lanfranco Cis e Paolo Manfrini, quelle proposte coreografiche dedicate
al risvolto positivo del ‘corpo a corpo’, ovvero la bellezza della diversità e della biodiversità. A Rovereto sono arrivate ben
quattordici compagnie con l’obiettivo di raccontare “la vita e la
biodiversità minacciata nel remoto Oceano Indiano, i drammi
del Medioriente e le conquiste delle primavere arabe, la forza
dirompente dei giovani neri sudafricani, il battito della società
occidentale che vive in massa al limite dell’abisso – si legge nella
presentazione del programna – che comprendeva artisti di le-
102
vatura internazionale quali Arkadi Zaides, Andrea Gallo, Irene
Russolillo, la compagnia francese Lanabel, Maguy Marin, Aicha
M’Barek e Hafiz Dhaou.
Tra gli spettacoli più riusciti che l’edizione 2015 di Oriente Occidente ha proposto, la pièce “Sacré Printemps!” , realizzata dai
coreografi tunisini Aicha M’Barek e Hafiz Dhaou evocando lo
stesso spirito rivoluzionario della Sagra della Primavera di Stravinskij, portatori di un messaggio centrato sulle speranze suscitate dalla primavera araba intenta a realizzare la nascita di una
Tunisia democratica. La danza come strumento di trasmissione
di valori e ideali democratici e di pacifica convivenza. La forza
del movimento espressivo sulla scena, la potenza dei corpi di
sette danzatori accompagnati dalla voce della cantante tunisina
Sonia M’Barek e le musiche del gruppo post-rock lionese Zëro.
Corpi in movimento e corpi statici realizzati su sagome di persone a grandezza reale per mano di Dominique Simon e ispirate
a quelle realizzate dall’artista Bilal Berreni (alias Zoo Project) assassinato nel 2013, che lui stesso posizionava nelle strade di Tunisi durante le rivolte popolari. Danza come impegno sociale e
morale per non far cadere l’attenzione sul dramma di un popolo
desideroso di vivere in pace e nell’eguaglianza. Sacré Printemps!
raccontava attraverso la danza corale come “ciascuno di noi esiste perché esiste anche l’altro”, sostenendo come la “diversità è
richezza e lo stare insieme è forza”. Possente ed energica.
Di altrettanta forza e impatto sociale oltreché visivo sulla scena,
“Beauty remained for just a moment then returned gently to
her starting position”, titolo lunghissimo dell’opera creata da
Robyn Orlin, coreografa sudafricana e residente a Berlino. Una
delle artiste più in voga del panorama internazionale, a cui sono
stati asegnati molti premi internazionali. Famosa per il suo impegno rivolto alle dinamiche politiche e sociali del Sudafrica,
ancora sottoposto a regime di apartheid, tanto da essere definita
“l’enfant terrible” della danza del suo paese originario. Il ritorno in patria e più precisamente a Johannesburg nel 2012, la
vede impegnata con la giovane compagnia di danzatori Moving
Into Dance Mophatong, la principale scuola di danza contemporanea della città e realizza con loro la coreografia presentata
al Teatro Zandonai di Rovereto, dal titolo tradotto in italiano:
“La bellezza rimane solo un attimo poi ritorna gentilmente alla
sua posizione di partenza”. Un’opera dedicata alla sua città natale, un canto d’amore rivolto al suo continente che Robyn Orlin spiega come venga “sempre ritratto come arena di scontri,
commerci illegali di armi, avorio e droga, luogo di miseria. Ma
corruzione, fame, e morte sono ovunque, mentre in Africa c’è
tanta bellezza, ed è ovunque”. La danza di questa coreografa è
un inno alla bellezza, alla gioia di vivere, alla celebrazione della
vita che va sempre difesa. La scena si riempe di colori, di corpi
animati che si lasciano andare a danze frenetiche, sussultorie,
energiche. I danzatori bravissimi per tecnica e interpretazione
sono delle macchie di colori variopinti, grazie ai fantasmagorici
costumi realizzati da Marianne Fassler e realizzati con oggetti
di recupero e scarti della vita quotidiana. Un riciclaggio di materiali a cui vengono attribuiti dei significati particolari, come
la plastica e le bottigliette d’acqua minerale distribuite a tutto
il pubblico. Una danza travolgente, esuberante che racconta la
società sudafricana nelle sue contraddizioni che non permette
una partecipazione da semplici spettatori. Le dinamiche che si
vengono a creare stimolano un’adesione completa grazie alla
bravura dei danzatori, talmente coinvolgenti da suscitare una
partecipazione corale tra tutti. Immagini di polli che beccano
a terra, il sole cocente del Sud Africa, l’acqua elemento vitale e
indispensabile. I rifiuti come prodotto di scarto del benessere
attuale. La bellezza che si può ricavare anche da materiali che
ogni giorno scartiamo. Il concetto è chiarissimo ed esplode ad
ogni passo di danza: la bellezza può salvare il mondo, basta saperla riconoscere anche in un singolo oggetto a cui non diamo
importanza. Il ritmo incalza ad ogni disegno coreografico che
Recensioni Convegni e festival
Foto John Hogg
irrompe sulla scena e scende in platea, la fisicità dei corpi apre
ad uno scenario di movimenti sinuosi, cadenzati, vissuti come
una fonte di gioia da condividere con tutti. Il pubblico è parte
integrante e si sente immerso nella vita difficile dei sobborghi di
Johannesburg, alle credenze popolari del serpente che divora i
più piccoli. L’allegria è contagiosa per il ritmo della danza africana popolare che si fonde a stili più contemporanei. Sequenze
che si avvicendano per narrare storie dal sapore antropologico.
La coreografa entra dentro l’anima di ciascuno di noi e ci porta
a conoscenza di chi vive in società del benessere e dell’agio, di
un mondo di povertà, di emarginazione, di sofferenze a cui si
può dare sollievo attraverso un messaggio di speranza e di inclusione sociale tra i popoli. Non da soluzioni o risposte certe
Robyn Orlin ma ci chiede di seguirla attraverso il suo percorso
drammaturgico a cui non è facile resistere. Linguaggi diversi
che si incrociano sono il fulcro stesso di Oriente Occidente,
grazie alla commistione e la molteplicità di forme presentate dal
programma scelto che ha visto una partecipazione assidua di
pubblico, segno che la danza contemporanea sa cogliere e portare sulla scena, riferimenti e idee di attualità. Al centro dell’attenzione il corpo che sa donarsi alle molteplici forme espressive
dell’arte, tramite stesso per rivendicare idee e principi regolatori
a cui tutti ci ispiriamo. Il corpo a difesa della vita stessa.
Beauty remained for just a moment then returned gently to
her starting position
Coreografia: Robyn Orlin con la collaborazione di Moving
Into Dance Mophatong
Assistente regia Nhlanhla Mahlangu Luci Denis Hutchinson,
Robyn Orlin
Musiche Yogin Rajoo Sullaphen
Video Philippe Lainé
Costumi Marianne Fassler
Danzatori Julia Burnham, Oscar Buthelezi, Teboho Letele,
Theresa Mojela, Sunnyboy Motau, Sonia Radebe, Macaleni
Shili
Prodotto da City Theater & Dance Group e MIDM - Moving
Into Dance Mophatong, Damien Vallette Prod
Coprodotto da Biennale de la Danse de Lyon, MAC: Maison
des arts de Créteil, Tilder, Maison de la musique - Ville de
Nanterre, City Theater & Dance Group
Commissionato da Gervanne e Matthias Léridon
Visto al Teatro Zandonai di Rovereto il 30 agosto 2015.
*Critico teatrale, direttore della Rivista Rumor(s)cena
Abstract
CONFLICTING BODIES 2
obyn Orlin is a South African choreographer and one of the most
popular in the contemporary dance panorama. Called the enfant
terrible of dance in South Africa, her research has led her to investigate
the political and social dynamics of her country about the theme of
apartheid. “Beauty remained for just a moment then returned gently
to her starting position” is the work presented at the Festival Oriente
Occidente (Orient Occident) of Rovereto. On the stage of Theatre
Zandonai, the dancers of Moving Into Dance Mophatong - one of the
most qualified dance schools in Johannesburg - performed. Her
choreographic creation is a celebration of joy and life that must be
defended. On stage, the colours of the costumes created by Marianne
Fassler were designed to enhance the message that dance conveys.
R
teatridellediversità
103
Recensioni Convegni e festival
PESARO
LO SGUARDO
ALTROVE
Hangartfest, festival della scena indipendente, ha assunto una dimensione
internazionale. Seminari, performance, incontri con artisti e filosofi hanno caratterizzato
l’ultima edizione
di Stefania Zepponi*
ventennale ricerca sul movimento. Ricerca che ha dato vita a un rivoluzionario
sistema di approccio al movimento e alla
danza, l’Axis Syllabus,
Hangartfest ha proposto anche due vetrine: “Aliens” progetto a cura di Masako
Matsushita, e “Essere creativo”, bando
promosso su scala europea rivolto a coreografi emergenti. I cinque lavori selezionati hanno evidenziato indubbie capacità
tecniche e presenza scenica ma anche una
debolezza drammaturgica che non permetteva loro di decollare, lasciandoli in
qualche misura appiattiti sulla bravura e
sulla trovata.
I
l titolo è pienamente giustificato dal legame che il festival ha stabilito con l’Associazione Marchigiana Attività Teatrali, con alcuni partner europei - Highs &
Low festival di Amsterdam, Sånafest della
Norvegia e Caresser le Potager di Marsiglia - e con una realtà un po’ sui generis
come quella di No Man’s Island di Macerata, rassegna permanente di drammaturgia e critica. Ma l’altrove suggerito dal
titolo è anche negli spazi informali che
ospitano le iniziative, quest’anno raccolte nell’ex Chiesa della Maddalena, luogo
suggestivo di visione e ascolto.
C’è anche un altrove culturale. Due conversazioni con artisti filosofi e operatori
hanno messo in rapporto la danza con le
sfide sociali e culturali che la società attuale pone. Il Meeting Point con i partner europei e italiani del festival ha permesso di ascoltare approcci ed esperienze
diverse,
Non sono mancati i seminari, affidati in
questa edizione a Frey Faust, danzatore e
pedagogo, da anni impegnato a condividere in tutto il mondo la sua più che
104
Stessa sensazione si è avuta nei confronti
dell’altra vetrina “Aliens”, che ha visto in
scena Tommaso Monza e Andrea Baldassarri, Heidi Jessen e Sigrid Marie Kittelsaa Vesaas, la stessa Masako Matsushita
e Elda Gallo. Brani più sperimentali rispetto a quelli visti per “Essere creativo”:
scelte sceniche più articolate, materie di
movimento meno legate ai canoni più
identificabili di correnti o tipologie di
danza; anche questi brani però sono stati
penalizzati da una sorta di fragilità nella
messa in scena e nell’uso degli strumenti
che la riflessione sull’osservazione di un
qualunque oggetto scenico suggerisce.
Sicuramente più maturo ”Coup de Foudre” di Lisa de Boit e Rudi Galindo, un
duo dal sapore clownesco. L’indubbio
“mestiere” forse un po’ estraneo alle altre
proposte più sperimentali che lo spazio
sacramentale della Chiesa della Maddalena ha ospitato. Spazio in cui si è invece perfettamente integrata “Loto - dal
fango nascerai pura e illuminerai il mondo”, performance di butho realizzata da
Soyoko Onishi con interpreti formatisi
nel corso di seminari tenuti dalla stessa
danzatrice. Interessante il tappeto sonoro
creato live da Daniele Javarone e Simona
de Sanctis, la cui voce cerca gli anfratti e
le risonanze della chiesa per farsi anch’essa
interprete e non mera accompagnatrice,
finché la voce stessa diventa corpo contorto in cerca di rinascita. Il confronto
rende però ancor più didascalica la scelta
operata da Sayoko Onishi per il suo solo
di utilizzare “Un bel dì vedremo”, la famosissima aria della Madama Butterflay,
un già detto per noi occidentali dal sapore molto scontato.
Un pubblico attento e numeroso ha seguito gli eventi, segno di una comunità
non scontata interessata alle varie declinazioni che la danza contemporanea offre.
* Danzatrice e coreografa, redattrice per il
settore danza della webzine KLP Krapp’s
Last Post
Nota bibliografica
L’autrice ha pubblicato sull’argomento un
articolo più approfondito in Krapp’s Last
Post visionabile al seguente link www.
klpteatro.it/hangartfest-15-lo-sguardo-altrove-della-scena-indipendente
Abstract
LOOKING THE OTHER WAY
The XII edition of Hangartfest, festival of
the independent scene, took place in
September in Pesaro and, thanks to its
relationship with other European festivals,
Hangartfest has gained an international
dimension. Seminars, performances, meetings
with artists and philosophers have
characterized this edition that, on top of
the theatre, has also chose as privileged
venue the deconsecrated Church of the
Maddalena.
SABIR, IL FESTIVAL
DEL METICCIATO
Raccontare il mediterraneo e reinventarlo alla ricerca di un minimo comune denominatore
che declini l’identità e l’alterità di popoli diversi
di Filippa Ilardo*
Recensioni Convegni e festival
MESSINA
Yasmina Khadra
I
l Mediterraneo è un “pluriverso” di civiltà, identità, culture,
lingue; un insieme di universi espressivi e simbolici che
creano interconnessioni di differenze e uguaglianze;
è molteplicità in antitesi alla deriva banalizzante della
globalizzazione; è luogo fisico e metaforico, geografico e
virtuale di congiunzione, ibridazioni, incroci. Da queste
premesse muove “Sabirfest - Cultura e cittadinanza mediterranea”: “sabir” è una sorta di esperanto internazionale, un meticciato linguistico fatto di italiano, spagnolo, arabo, greco,
siciliano con cui comunicavano commercianti e marinai dal
Medioevo fino a tutto l’Ottocento). Giunto alla sua seconda edizione, l’evento, dall’8 all’11 ottobre, ha trasformato il
centro storico di Messina in uno spazio vivo e vitale, aperto
alla riflessione, al dialogo e a diverse forme creative ed espressive: presentazioni di libri, mostre, spettacoli in piazze, portici,
palazzi, un fittissimo programma, tra incontri con scrittori e
attivisti dell’area Mediterranea.
Il Festival, promosso da Sabir, con numerose collaborazioni,
tra cui ricordiamo Latitudini, Rete Siciliana per il Teatro Contemporaneo e l’Università di Messina, si è snodato in diverse
sezioni.
SabirLibri, è stato uno spazio espositivo che ha saputo reinventare un’identità ad un luogo dalle notevoli qualità architettoniche, la Galleria Vittorio Emanuele, che è tornata a rivivere
trovando la sua vocazione di centro culturale. Così come il
monumento Monte di Pietà, dove la scenografica scalinata del
Basile diventa sfondo di numerosi spettacoli. Qui è avvenuto anche l’incontro con lo scrittore algerino Yasmina Khadra,
pseudonimo femminile di Mohamed Moulessehoul, che presenta il suo ultimo libro “L’ultima notte del rais” (Sellerio).
Lo scrittore, che per firmare le sue opere prende il nome della
moglie in un paese dove le donne sono maltrattare i cui diteatridellediversità
105
Recensioni Convegni e festival
Fortebraccio Teatro in Metamorfosi, foto di Futura Tittaferrante
ritti spesso vengono violati, pone l’accento sulla ridefinizione
dell’idea di frontiera, limite mentale che solo la cultura può
abbattere. Oggi è necessario ridefinire il concetto di frontiera
e di confine, non più linea-limite di divisione, ma di contatto,
attraverso cui i diversi si toccano, le culture comunicano. La
frontiera deve essere più uno spazio, zona dell’incontro e della
contaminazione.
FuoriLuogo a Teatro, organizzata dalla rete di drammaturgia siciliana Latitudini, in collaborazione col Teatro di Messina, ha
visto la scelta di numerosi spettacoli.
“Nel fuoco”, di Giuseppe Massa, è uno spettacolo dedicato a
Noureddine Adnane, ambulante palermitano di origine marocchina, che si è tolto la vita dandosi fuoco. Un racconto lirico
per immagini in cui a parlare è solo il corpo, un corpo libero
che brucia e brucia anche le parole e racconta senza narrazione.
L’attore Maziar Firouzi, dà verità alla perfomance, con il suo
corpo che si offre e brucia, con il suo sguardo che si punta sul
pubblico come ad accusarlo, investendolo di responsabilità.
“La madre dei ragazzi” di Lucia Sardo, è centrato sulla figura di
Felicia Impastato, personaggio che l’attrice ha anche recitato al
cinema nella pellicola “I cento passi” di Marco Tullio Giordana. Uno spettacolo-narrazione, con immagini di repertorio, che
ripercorre la vita della madre di Peppino Impastato che tutta
la vita ha lottato con le sue armi di donna semplice contro la
mafia.
Roberto Latini/Fortebraccio Teatro con il suo “Metamorfosi (di
forme mutate in corpi nuovi)” tratto da Ovidio, è sicuramente
l’ospite più rinomato sul panorama teatrale.
L’opera presentata è un episodio di un progetto più complesso
ancora in fase di elaborazione, di cui si apprezza la libertà creativa dell’autore, ma meno la chiarezza compositiva che rende
il senso estremamente sfuggente e labile. Caratteristica dello
106
spettacolo è la capacità di sfruttare sapientemente la maestosa
scenografia naturale offerta dalle scalinate del Monte di Pietà.
Un’odissea allucinata di clown o troppo tristi o troppo allegri,
o troppo chiassosi o troppo silenziosi, che, con nasi rossi e scarpe sproporzionate, parrucche variopinte e microfoni infiorati,
vagano sulla scena come ombre, con i corpi contratti, deformi, senza parole, senza grazia. Raminghi alla deriva del mondo,
cercano un qualche modo di essere su e giù per quella scala
che sembra il labirinto di Minosse. Animali che ciondolano e
abbaiano, in disequilibrio tra un’inesatta follia e materialità metafisiche, rappresentano il tema del perdersi e della ricerca di sé
stessi, di quei fili, reali ed immaginari, che ci legano a quello che
davvero siamo: l’identità non conta nulla, conta solo il fatto di
potersi trasformare.
Pecca dello spettacolo è investire lo spettatore di un’eccessiva
responsabilità di decodifica, in una drammaturgia mobile ed
evanescente fino all’eccesso, fino alla perdita di senso.
Ma forse è proprio in questo rifiuto per le forme fisse, compiute, confezionate, in questa iper-ricercata indefinizione, nello
scarto dell’idea totemica dell’identità (perchè l’identità non è
statica, ma fluisce, si modifica sommando persone a persone, forme
a forme) forse è proprio qui, dicevamo, che si racchiude il significato
dell’uomo come essere in divenire e un’idea del teatro che è sempre
fatto di senso anche quando lo travalica.
A chiudere l’intera manifestazione, lo spettacolo musicale “Anime Migranti” del cantautore siciliano Mario Incudine (uno dei
musicisti più rappresentativi della world music) e Moni Ovadia,
che, dopo il successo al teatro Greco di Siracusa con Le supplici per l’Inda, affrontano nuovamente insieme il dramma della
migrazione.
I canti della Sicilia “che ha visto partire e ora vede arrivare”, quelli
popolari del mediterraneo, e della tradizione sefardita, brani di
Erri De Luca e Buttitta , le storie di tante madri cui dà fiato ed
energia l’attrice Annalisa Canfora, i cunti di Mario Incudine,
come quello della strage di Marcinelle, di tutto questo è fatto questo viaggio in musica e parole che avvicina, in un rovesciamento di prospettiva, le storie dei migranti siciliani verso il
Nord Europa o l’America a quelle degli sbarchi di tanti uomini
che cercano nell’Europa il loro futuro e il loro destino.
Sabirfest ha rappresentato quindi un luogo aperto, dove lingue
diverse creano un alfabeto comune, luoghi fisici e luoghi metafisici si incrociano per raccontare e realizzare un possibile modello di convivenza. Su quel “Mare Mediterraneo”, letteralmente
mare che media le terre, su cui ben tre continenti si affacciano,
su quel mare europeo, africano, mediorientale, su quel mare
che non è un mare, ma un susseguirsi di mari, sul Mediterraneo può nascere un modello di civiltà disseminate le une sulle
altre. La Sicilia può diventare così uno straordinario laboratorio
dell’integrazione delle differenze in cui si verifichi il miracolo
dialettico grazie al quale una differenza non fa più la differenza,
ma il segno dell’unità.
* Critico teatrale e studiosa di teatro
Abstract
SABIR, MIXED RACE FESTIVAL
orders are not boundary lines, but a space in which opposites touch
and contaminate. In Messina, at the festival “Sabirfest - Mediterranean
culture and citizenship”, the Mediterranean identity is revealed and
reinvented, starting from a geographical space that turns into a metaphysical
meeting place. Through theatrical performances, concerts, book
presentations, meetings and debates, Sicily, the heart of the Mediterranean
sea - European, African and Middle Eastern sea - has the chance to become
an extraordinary workshop for the integration of differences.
B
Recensioni Libri
EDIZIONI ANORDEST
UN MANIFESTO
PER UNA RIVOLUZIONE
DELLA SCUOLA
L’ultimo libro e l’insegnamento di Remo Rostagno
di Claudio Facchinelli*
S
pesso, osservare la figura, l’espressione del volto di un autore aiuta
a comprendere meglio la sua opera.
Credo che ciò valga per Dante, l’Alfieri,
il Foscolo; anche per entrare nel criptico,
sconcertante universo di Beckett.
Si parva licet componere magnis, quel che
di malizioso, quasi infantile, che l’ultra
settantenne Remo Rostagno ha conservato nello sguardo, è una porta che ti fa
esplorare con ancor maggiore gusto le
pagine della sua ultima pubblicazione:
Manifesto per una rivoluzione della scuola. (Edizioni Anordest, 2014). La scelta
di un linguaggio colloquiale, spigliato, a
tratti quasi goliardico, con cui restituisce
al lettore schegge di saggezza pedagogica,
ben si accorda con la sua figura minuta,
vivace, incline all’understatement o, per
usare un’espressione più consona alla sua
identità piemontese, al principio, caro a
Norberto Bobbio: “Esageruma nen!” (non
esageriamo).
Saggezza pedagogica, ho detto: perché lui
ha tutte le carte in regola per essere un
pedagogista, ma pur avendo insegnato in
scuole di ogni ordine e grado, fino all’università, Remo è ciò che di più lontano
si possa identificare con un cattedratico,
perché il suo lavoro si è svolto – per così
dire – in trincea. Semmai, se lo vogliamo chiamare pedagogista, è opportuno
aggiungere a quella qualifica il vecchio,
glorioso aggettivo “militante”.
Dopo una carriera che lo ha visto protagonista in diversi ambiti teatrali, dall’animazione degli anni settanta, all’attività di
drammaturgo (basta pensare a Kohlhaas
che, con Marco Baliani, ha superato il
traguardo di mille repliche), Remo Rostagno, ormai nonno, osserva ed annota
cosa combinano a scuola i suoi nipotini.
Da questi appunti prende forma un libro
del quale non è facile definire il genere:
non saggio, non autobiografia, ma forse
ambedue le cose.
Il testo, come premesso dall’autore, si
compone di tre parti: un’ecografia della
scuola italiana; un manifesto per cambiarla radicalmente; un epilogo. Ma alla
fine di ogni capitoletto troviamo, in corsivo, delle brevi notazioni che, a prima vista, sembrerebbero del tutto estranee alla
trattazione. Rostagno le chiama “respiri
di memoria”. Sono, almeno inizialmente, dei flash su una stagione che sembra
remota, ma nella quale non si stenta a
riconoscere gli ultimi anni della guerra e
quelli immediatamente successivi; anche
il paesaggio è identificabile: è il primo
tratto della valle del Chisone, subito oltre
Pinerolo.
Sembrano frammenti di una fiaba, soffusi di poesia, ma sono materiati di terricola realtà, quella che Remo ha vissuto
nella sua infanzia. Ma, a mano a mano
che si procede nella lettura, quelle memorie si avvicinano all’oggi, si popolano
di personaggi noti, senza perdere il loro
colore fiabesco, come nell’incontro con
Marco Baliani nel ruolo di contastorie,
o la lettura, in una notte trascorsa in un
treno, della Lettera a una professoressa, di
Don Milani.
Lo stesso priore di Barbiana, come Danilo Dolci, sono i referenti pedagogici ed
etici dichiarati di Remo Rostagno ma,
ancorché non citata, ci metterei vicino
anche Emma Catelnuovo, la grande didatta della “matematica con le mani sporche”.
La struttura composita del libro ricorda
Lo Zen e l’arte della manutenzione della
motocicletta, di Robert Pirsig (un testo
che sarebbe da adottare in tutte le scuole
superiori) dove, in modo analogo, all’elemento autobiografico si sovrappongono
considerazioni teoriche e filosofiche.
A infilare tutte le perle pedagogiche – e
non soltanto – che costellano il Manifesto, si costruirebbe una collana lunga
chilometri: tanto vale leggersi il libro. Mi
limiterei a sottolineare un filo rosso che
percorre ogni singolo capitolo: il gioco,
come modalità di apprendimento, di crescita, di esplorazione ed appropriazione
della realtà; assieme a questo, un altro
concetto che troppo spesso abbiamo pudore di nominare: la felicità.
Visioni utopiche? Può darsi. Ma è con la
fede nelle utopie che il mondo cammina
e, qualche volta, progredisce.
* Scrittore e critico teatrale
La pubblicazione della recensione è condivisa con il
sito www.agitateatro.it
Abstract
MANIFESTO FOR SCHOOL’S
REVOLUTION
he mischievous, nearly childish look of
seventy years old Remo Rostagno helps
the reader for a better grasp of his last work:
Manifesto per una rivoluzione della scuola
(Manifesto for School’s revolution). In an easy,
informal language, he offers pearls of
pedagogical wisdom, collected during a life
spent teaching in any school’s levels, at the
university and also as a playwright and director.
Retired, observing and noting down what his
grandsons do in school, he has written a book
that is neither an essay nor an autobiography
(or maybe both), daring also to talk about a
modern taboo: happiness
T
teatridellediversità
107
Recensioni Libri
TEATRONATURA
IL TEATRO NEL PAESAGGIO
DI SISTA BRAMINI
Il denso volume racconta e rilancia la ricerca di O Thiasos TeatroNatura a partire dal
recente spettacolo tratto da La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio nell’ambito del
Progetto “Mila di Codra”
di Michele Pascarella*
Q
ualsiasi benché minima considerazione sul lavoro di O Thiasos
TeatroNatura deve partire, credo,
dal pieno riconoscimento del «bisogno
che talvolta gli uomini sentono di stabilire
un nuovo e intimo rapporto con i propri
simili», per dirla con Peter Brook (1): è da
questa ineludibile necessità che si origina la
minuziosa attenzione allo spazio teatrale-naturale posta in essere dal gruppo fondato e
guidato da Sista Bramini più di venticinque
anni fa. Essa si inserisce in un filone pienamente novecentesco volto a considerare lo
spazio teatrale non come contenitore neutro ma come «entità drammaturgicamente
attiva» (2) , con l’obiettivo di «trasformare
lo spazio da un dato a priori immutabile in
un problema drammaturgico da affrontare
e risolvere diversamente di volta in volta,
all’interno del processo creativo e compositivo della messa in scena» (3) (è ciò che
intende Fabrizio Cruciani quando definisce
lo spazio teatrale «un problema e non un
dato» (4), se non sbaglio). Questo fecondo
ribaltamento di prospettiva è uno dei topoi
dell’appassionata e rigorosa ricerca teatrale,
letteraria, filosofica, estetica e antropologica
che Sista Bramini porta avanti assieme ai
suoi compagni (o forse sarebbe più corretto
dire “le sue compagne”, giacché l’ensemble è da sempre costituito in prevalenza da
donne). O Thiasos ibrida pervicacemente
prospettive (e dunque mondi) affatto diver-
108
si: una modalità che il testo curato da Maia
Giacobbe Borelli [Spoleto (Pg), Editoria &
Spettacolo, 2015, pagg. 294, euro 20] intelligentemente rispecchia.
Il libro racconta la vicenda del gruppo a partire da Mila di Codra, spettacolo itinerante
in luoghi naturali con drammaturgia originale di Dacia Maraini ispirata a La figlia di
Iorio di Gabriele D’Annunzio, debuttato a
Gioia dei Marsi nel 2013 (centocinquantenario della nascita del Vate).
Aperto da una breve e partecipe prefazione
di Maraini, il testo è diviso in quattro sezioni. La prima, Le riflessioni, raccoglie densi
interventi storico-teorici della curatrice
Maia Giacobbe Borelli, di Roberta Gandolfi, di Luciano Mariti e di Fabrizio Magnani.
Particolarmente fertile pare il proponimento
di Gandolfi di ricostruire una genealogia di
O Thiasos TeatroNatura: partendo da Lady
Archibald Campbell e Edward William Godwin (che «crearono i Pastoral Players, con i
quali ambientarono suggestivi spettacoli nei
boschi di Coombe, vicino a Londra») arriva fino a Pina Bausch, passando da Isadora
Duncan, Rudolf Laban, Virginia Woolf e
tanti altri.
La seconda sezione, Le immagini, spazia
dai Pastoral Players a Mila di Codra, quasi
a costituire una traccia visiva della suddetta genealogia in fieri. La terza parte dà voce
agli artisti che materialmente portano avanti la ricerca: Sista Bramini innanzi tutto, e
poi Camilla Dell’Agnola (con il luminoso
racconto della propria esperienza artistica a
partire dai piedi: «Vera fuga con i piedi veri,
vero caldo, vero affanno, veri inseguitori da
tutte le parti e vera entrata in un luogo-casa
in cui sta accadendo qualcosa d’importante,
di sacro che implacabilmente viene interrotto da me-Mila»), Sonia Montanaro, e poi
Jacopo Franceschet, Valentina Turrini, Veronica Pavani, Luca Paglia, Carla Taglietti,
Azzurra Lochi e Gabriele Di Camillo. Questa sezione si chiude con una sorprendente
conversazione tra Piera Degli Esposti (già
interprete de La figlia di Iorio nel 1973),
Camilla Dell’Agnola, Sista Bramini e Maia
Giacobbe Borelli. Il libro termina con una
appendice contenente un breve testo sui
canti utilizzati in Mila di Codra, un carteggio tra Bramini e Maraini, la teatrografia di
O Thiasos e alcuni doverosi ringraziamenti.
La varietà di sguardi non è certamente segno
di comodo sincretismo: a leggere questo libro viene piuttosto in mente Luigi Ghirri
quando in Niente di antico sotto il sole, suo
testo-chiave del 1988, descrivendo il significato del fotografare parla di «rinnovare lo
stupore di fronte al mondo»: arte come allenamento (e al contempo invito) alla meraviglia. Aprire gli occhi. E dire grazie, almeno.
* Studioso di arti performative
Note
(1) Peter Brook, Il punto in movimento 1946-
1987, Milano, Ubulibri, 1988, p. 133.
(2) Marco De Marinis, In cerca dell’attore –
Un bilancio del Novecento teatrale, Roma,
Bulzoni, 2000, p. 31.
(3) Marco De Marinis, In cerca dell’attore,
cit., p. 44.
(4) Fabrizio Cruciani, Lo spazio del teatro,
Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 9.
Abstract
“TEATRONATURA”. THEATRE IN THE
LANDSCAPE OF SISTA BRAMINI
he book presents the work of OThiasos
TeatroNatura, starting from the recent
show Mila di Codra, the latest result of a
passionate and rigorous theatrical,
philosophical, and anthropological research
that Sista Bramini has been pursuing for over
twenty five years. The book is divided into
four sections: the first one collects historical
and theoretical inventions, the second is a
collection of various images, the third part
gives voice to the artists who actually carry
out the research, featuring a conversation
between Piera Degli Esposti, Camilla
Dell’Agnola, Sista Bramini and Maia Giacobbe
Borelli.The fourth and final part is an appendix
containing a short text about the songs used
in Mila di Codra, among other materials.
T
Recensioni Libri
GLI EBREI DI FERRARA
UN’OPERA RITROVATA
DURANTE UN TRASLOCO
Una ricostruzione storica dalle origini fino al 1943
di Valeria Ottolenghi*
Cimitero ebraico di Ferrara
“E
venne il 25 luglio col colpo
di Stato Badoglio e il popolo
credette senz’altro all’abrogazione di tutte le leggi razziali: ma
così non era”: è questo l’inizio dell’ultimo breve frammento storico-narrativo,
il 421, della coinvolgente, colta e d’immediata lettura, “Storia degli ebrei di
Ferrara dalle origini al 1943” di Silvio
Magrini, edito da Salmone Belforte &
C, Livorno, 2015. Un’opera ritrovata,
come spiega, nella veloce prefazione,
Andrea Pesaro - nipote dell’autore, curatore del volume - durante un trasloco,
“in tre cartelle di cartone, con fogli dattiloscritti su carta sottile tenuti insieme
da fermagli metallici, fittamente annotati e corretti con una scrittura minutissima a penna e matita”: ai dati di una
vita intensa - docente di elettromagnetismo all’Università di Bologna, attivo
nel condurre l’azienda agricola, Presidente della Comunità Ebraica di Ferrara proprio nel periodo più tormentato
e angosciante, gli ebrei emarginati, resi
dei paria, perseguitati per razza - si aggiungono, con estrema discrezione, i
ricordi personali, di famiglia, il nonno
teatridellediversità
109
Recensioni Libri
110
Silvio Magrini, nato a Ferrara nel 1881,
riservato, schivo, amante dello studio,
generoso. Morto ad Auschwitz.
E tutta la storia - quella di un popolo
desideroso di radicarsi e sempre pronto all’esilio nella città di Ferrara che
va intrecciandosi alla Storia maggiore,
con gruppi che giungono da terre perseguitate, mentre muta il favore (più
frequente: il grado di disprezzo, derisione e odio) dei potenti, signori e papi
- svela una sua tragica ironia: perché il
Magrini sembra convinto, raccontando
degli eventi più lontani, che ci sarebbe stato un tempo migliore. Anzi: lui
sapeva! L’illuminismo, la rivoluzione
francese, Napoleone infine, la caduta
dei muri che circondavano i ghetti, una
diffusa tolleranza, un comune sentimento di cittadinanza che era - se non
ancora di tutti - certo di molti. Eccellente dunque l’idea di porre in apertura
alcune righe del testamento di Silvio
Magrini scritto in occasione della sua
partenza come volontario nella guerra
15/18: chiede scusa alla famiglia per
la sua scelta “ma come Ebreo, figlio di
quella generazione che subì le umiliazioni del Ghetto, ho il sacro dovere di
partecipare alla lotta per quegli ideali
che già diedero la libertà agli Ebrei Italiani”. La voglia di riscatto mescolato a
un sentimento di riconoscenza per una
nazione, una patria comune. In guerra
per l’Italia, lui, Silvio Magrini, che sarebbe morto ad Auschwitz.
Intelligente, funzionale la struttura del
testo suddiviso in paragrafi numerati di
diversa lunghezza e contenuto: si passa da una breve sintesi di un momento
storico a una considerazione problematica, da una citazione - in corsivo tratta dalla ricerca di altro autore (funzionale la bibliografia al termine) alla
presentazione di un particolare personaggio, da un resoconto cronachistico
all’illustrazione della situazione urbanistica della città, un insieme denso di
dati, informazioni, analisi, tra editti e
leggi, motivi religiosi e politici, e così
via, uno scorrere fluente di brani che,
senza troppe spiegazioni, fanno nascere, con estrema naturalezza, collegamenti, parallelismi, creando sfondi di
guerre e persecuzioni, di paure e nuove
aspirazioni, tra battesimi forzati e assimilazioni per scelta. Una sorta di speciale viaggio nel tempo - Magrini cita
Wells - le parole come guida: “gli Ebrei
sono a Ferrara antichi come la cattedrale e forse più che il castello”. Interessanti le ipotesi sui nomi delle vie, la Prima
Parte dedicata “dalle origini al 1598”.
Il legame con il denaro, “ebreo come
sinonimo di banchiere...né nobiltà, né
plebe”. Del resto difficile dedicarsi ad
altre professioni: “persino come strazzaroli non li volevano”. Ma non c’è mai
vittimismo. Limpido lo sguardo dello
storico, una speciale ricerca di oggettività nell’esposizione. Sempre. Anche
con le leggi razziali vissute in prima
persona, quando il male antico sembrava tornare. Senza sapere ancora dell’orrore più grande, a cui Silvio Magrini
non sarebbe sopravvissuto: Auschwitz.
Non avrebbe creduto il Magrini che si
sarebbe potuto tornare non solo indietro nel tempo - dopo aver conosciuto
costumi civili, stessa patria e valori d’apertura democratica - ma essere risucchiati nella peggiore delle visioni, dolore assoluto, nel cuore dell’Europa più
colta. Nella storia narrata molti i soprusi, il segno giallo di riconoscimento,
i soldi sborsati in forma ricattatoria, le
angherie d’ogni sorta (specie con Ferrara sotto il papato), i battesimi imposti a
bambini allontanati quindi dalla famiglia d’origine - ma ci sono anche lauree, riconoscimenti, eruditi confronti
dialettici. E la Ferrara degli Estensi era
diventata città accogliente per gli ebrei
e i marrani in fuga da Spagna e Portogallo, mentre intorno - anche a Padova
e Venezia - bastava poco per incendiare
gli animi contro gli ebrei, uccisi quindi
senza veri processi (la colpa? gli infanticidi rituali!). Il Concilio di Trento: i
dogmi come guida. Il lungo terremoto: di chi la colpa se non degli ebrei?
Così risponde il Duca Alfonso d’Este al
Papa: i danni maggiori a chiese e conventi, nessuna sinagoga è crollata. Ed è
quell’Alfonso che, senza figli, chiede di
poter nominare il suo successore. Invano. Ferrara sarebbe rientrata tra le terre
della Chiesa, doloroso destino per gli
ebrei che abitavano la città.
Con la seconda parte - dal 1598 al 1782
- si vede la nascita del ghetto con nuove limitazioni e imposizioni, in verità
spesso non molto diverse da quelle che
avrebbe conosciuto lo stesso Magrini
secoli più tardi proprio a Ferrara, gli
ebrei “gente stigmatizzata, uomini degradati”, ma questa parte, come l’ultima - dal 1782 al 1943 - pagine sempre
di notevole interesse, non svela molte
differenze, se non per la concretezza degli aneddoti, dei nomi, delle situazioni
specifiche, dalle condizioni degli ebrei
in Europa, specie sotto lo stato pontificio. Storia particolare e universale ad
un tempo. La vita culturale del ghetto
(ma limitata spesso anche la consultazione dei testi sacri), depredati i marmi
del cimitero ebraico, l’obbligo di assistere alla predica in cattedrale. Sì: esperienza diffusa. Come la speranza della
convivenza. Poter essere cittadini con
gli stessi diritti. Ma con il fascismo Silvio Magrini dovrà documentare come
anche i giornali scrivessero di quella
maledetta stirpe israelitica. A Ferrara
è dell’ottobre del ’41 la distruzione del
tempio di rito tedesco. La catastrofe incalza. “E venne il 25 luglio col colpo
di Stato Badoglio...”. Non c’è grido di
dolore ma solo analisi oggettiva. Ma è
tempo della fine. Bravo Andrea Pesaro
a pubblicare queste pagine, un libro di
storia, una consapevole, tersa testimonianza. Fino al silenzio del viaggio verso Auschwitz.
* Critico teatrale e letterario
Abstract
AN OPERA FINDED DURING A MOVE
ecently, during a move, Andrea Pesaro
(grandson of the author and editor of
the work), found this “History of the Jews
in Ferrara since its beginnings to 1943” by
Silvio Magrini. Wisely, Pesaro decided to
publish it. The book is divided into sections
of different sizes, testimonials, anecdotes,
documents. It ends with Badoglio, with the
illusion of an abrogation of the racial laws.
Magrini probably had the feeling that, at
certain point, the ancient persecutions were
finished, with the Jews finally considered as
equal citizens. But everything comes back.
The greatest horror in the heart of most
cultured Europe. Silvio Magrini died in
Auschwitz.
R
L’INFINITO PRIMA DI NOI
Sulle tracce di Archimede tra pagine nascoste e fantasmi in Malatestiana
di David Aguzzi*
L
a Biblioteca di Novello Malatesta – La
prima biblioteca civica italiana, donata
alla città di Cesena da Novello Malatesta nel 1465.
La Malatestiana di Cesena, primo bene italiano a essere stato inserito nel registro delle
Memorie del Mondo dell’Unesco (2005),
è considerata uno degli esempi più significativi di biblioteca quattrocentesca italiana.
Unisce allo straordinario retaggio storico
del complesso monumentale-documentario
un deciso impegno alla soddisfazione delle
esigenze attuali di lettura e di informazione
della città.
La Malatestiana ha preservato nei secoli la
sua immagine immutata: la struttura, l’intonaco, la pavimentazione, gli arredamenti
e i codici si presentano a noi, oggi, come ai
visitatori di cinque secoli fa.
In questo speciale e unico “palcoscenico” per
la regia di Gabriele Marchesini, nel 2013,
anno del 2300-esimo compleanno di Archimede è stato rappresentato dalla Compagnia Teatro Perché di Bologna lo spettacolo “L’infinito prima di noi. Sulle tracce di
Archimede tra pagine nascoste e fantasmi in
Malatestiana”.
Per l’occasione è stato realizzato un libro con
allegato un DVD edito da Carrocci Editore,
con la registrazione di questa rappresentazione, realizzata, per l’appunto, nella splendida
ambientazione della Biblioteca Malatestiana
il 13 dicembre 2013.
L’ambientazione nelle solenni e maestose
sale della Biblioteca ci conduce in un percorso storico che ci viene presentato dal
Custode Narratore e da personaggi dell’epoca: Federico Commandino, Violante da
Montefeltro Malatesta, Leonardo da Vinci, Cesare Borgia “Il Valentino”, Lucrezia
Borgia, Ramiro dell’Orco, Caterina Sforza,
Archimede, Soldato romano. Accompagna la narrazione solo una figura dei giorni
nostri, affidata ad una Studentessa/Ricercatrice, Azzurra. Le misteriose evocazioni di
questo viaggio teatrale sono introdotte con
un omaggio al poeta che più di altri ha cantato l’essenza di ogni biblioteca, facendone
la cattedrale dell’uomo. “I tartari vennero
dal Nord su piccoli criniti puledri;/annientarono gli eserciti/che il Figlio del Cielo
aveva inviati per punire la loro empietà,/
eressero piramidi di fuoco e tagliarono gole,/ uccisero il malvagio con il giusto,/uccisero
lo schiavo incatenato che vigila la porta,/
conobbero le donne, le scordarono/e andarono oltre, al Sud,/innocenti come animali
da preda,/ crudeli come coltelli./Nell’alba
dubitosa/il padre di mio padre salvò i libri./
Sono qui nella torre dove giaccio/e ricordano
i giorni stati d’altri,/gli stranieri, gli antichi./
Mancano i giorni ai miei occhi. I palchetti
son alti, non ci arrivano i miei anni./Leghe
di polvere e sonno cingono la torre./A che
ingannarmi?/La verità è che non seppi mai
leggere,/ma mi consolo pensando/che immaginato e passato sono tutt’uno/per un
uomo che è stato/e contempla quel che fu la
città/e toma ora ad essere deserto”. Tratto da
Il Guardiano dei libri di J. L. Borges.
Un tentativo di rappresentazione fuori dagli
schemi e canoni teatrali dove soprattutto la
vera protagonista dello spettacolo è l’antica
Biblioteca. Un viaggio nella scienza, nella
cultura, nella storia e inevitabilmente nelle vicende umane. Archimede è uno degli
scienziati più importanti dell’antichità: per
aver contribuito alla soluzione di molte questioni di geometria e di misura, per aver studiato i solidi, per il suo metodo, per il concetto di infinito in atto (un’anticipazione del
calcolo infinitesimale in forma geometrica,
ripreso anche nello spettacolo dal personaggio “Custode”). Un atmosfera teatrale insolita ma suggestiva, una perfomance dove qua
e là si ha l’impressione di riascoltare la voce
dei personaggi vissuti oltre cinque secoli pri-
Recensioni Libri
CESENA
ma, alternandosi con parole eterne, a volte
crude e violente, a volte delicate e poetiche..
Una guida che aiuta anche noi contemporanei ed i giovani in particolare ad assaporare
tempi, luoghi e spazi lontani, storie di vita.
Uno spettacolo che riporta in vita il secolo
delle meraviglie italiane, il Rinascimento,
anche in chiave emotiva ed intima.
“Pagine nascoste e fantasmi in Malatestiana
come a dire che straordinari personaggi storici –artisti, scienziati e umanisti – si sarebbero
avvicendati in una fascinosa sequenza di brillanti resoconti ciascuno del proprio ruolo di
ospite ideale di un celeberrimo ambiente di
tale grandiosità così sobriamente maestosa”
(Carlo Pedretti).
Perché le vicende dei protagonisti che hanno
segnato la storia del ‘500 si scoprono umani nella rappresentazione teatrale con tratti
tipici rinascimentali, l’amore, le passioni,
i tradimenti, le vite violente e sanguinarie.
In assenza di una vera “scenografia” allestita, ma avvolti nelle sale della Biblioteca, è la
voce e la narrazione degli interpreti la vera
protagonista che ricostruisce un mondo
lontano, ma vicino a noi. L’infinito prima di
noi. Sulle tracce di Archimede tra pagine nascoste e fantasmi in Malatestiana di Gabriele
Marchesini. Progetto di Franco Pollini, da
un’idea di Vincenzo Fano in collaborazione
con Franco Pollini e Gino Tarozzi.
* Sociologo e critico letterario
Abstract
THE INFINITE BEFORE US
Malatesta Library in Cesena is the first Italian
public library, donated to the city by Novello
Malatesta in 1465. This special and unique
“stage” for director Gabriele Marchesini , in 2013
, the year of 2300-th birthday of Archimedes
was represented by theTeatro PerchèCompany
of Bologna the show “Infinity before us . On the
trail of Archimedes, including hidden pages and
ghosts in Malatesta “. A theatrical atmosphere
unusual but charming, a performance where
here and there you get the impression of a
recording of the voice of the people who lived
five centuries before, alternating with eternal
words, sometimes crude and violent, sometimes
delicate and poetic.
teatridellediversità
111
Recensioni Libri
PADOVA
IFIGENIA.
VARIAZIONI SUL MITO
Euripide, Racine, Goethe e Ritsos nel loro confrontarsi con il mito. Da qui le varianti
registrate da Caterina Barone attraverso il tempo e le diverse forme artistiche
di Sandro Avanzo*
T
utto ciò che avreste voluto sapere
sulla figlia minore di Agamennone
e non avete mai avuto occasione o
modo di approfondire. Ecco che ora il
ricchissimo libro curato da Caterina Barone arriva a informare e ad analizzare il
mito e le sue varianti attraverso il tempo
e le molteplici espressioni artistiche. Il
volume si compone di tre sezioni distinte, tutte di assoluto rilievo: una focale introduzione di 44 pagine redatta
dalla curatrice, il confronto tra cinque
fondamentali testi teatrali (i due imprescindibili di Euripide seguiti da Racine,
Goethe e Ritsos) a dimostrazione di
come l’umanità e la storia si siano confrontati con i temi e i simboli di Ifigenia
nel corso dei 20 secoli dalla Grecia classica alla nostra contemporaneità e infine
un’appendice dedicata agli autori e alle
bibliografie delle loro tragedie (il valore di questa sola sezione per ricchezza e
112
puntualità delle informazioni prodotte
supera di anni luce il modesto costo di
€10 del libro). Nel suo saggio introduttivo (perché, anche se breve, di un vero
saggio si tratta) Caterina Barone prende
in esame gli accadimenti della mitologia,
dal sacrificio della vergine in Aulide per
permettere la partenza delle navi verso
Troia all’incontro in Tauride col fratello
Oreste, a partire dal contrasto temporale
presente nei due differenti momenti della vita di Ifigenia e dal fatto che Euripide
compose per primo il secondo dei due
episodi e che l’antefatto arrivò ad anni
di distanza dall’altro. Da lì con un linguaggio estremamente fluido, quasi da
indagine gialla, estremamente colto e
insieme altrettanto accessibile, la ricerca
si sviluppa in senso cronologico e va a
toccare gli autori che hanno ripensato e
raccontato la storia di Ifigenia in funzione della fruizione letteraria e soprattutto
della rappresentazione in palcoscenico. Incontriamo così decine e decine
di varianti e di autori da Ovidio a Ilse
Langner e Vico Faggi, passando per le
drammaturgie di Jean Rotrou e Ippolito
Pindemonte, e di ciascuna vengono fornite le coordinate e le contestualizzazioni storiche e culturali. In parallelo sono
prese in esame le versioni di Ifigenia
relative al palcoscenico musicale e della
lirica con una particolare attenzione al
‘700 di Scarlatti, Gluck e Jommelli ma
anche alla danza del ‘900 di Pina Bausch
(e a tal proposito è interessante sottolineare come la Barone non si limiti a dar
nota delle sole caratteristiche e specifiche della drammaturgia dei libretti, ma
riferisca le sue notazioni con un occhio
costantemente rivolto alla messa in scena concreta degli spettacoli). Nell’excursus complessivo non tralascia neppure
le arti figurative di cui vien dato conto
in relazione alle principali raffigurazioni
pittoriche della figura della vergine sacrificata tanto sulla ceramica greca a.C.
come negli affreschi del Tiepolo, per
non dire della riappropriazione del mito
da parte della cinematografia del ‘900
in film come quello di Cacoyannis. La
parte più corposa della (come s’è visto)
ricchissima introduzione viene infine riservata all’analisi singola dei cinque testi
drammatici proposti. Di questi viene
data una lettura non solo delle diverse
variazioni più o meno fondamentali
nelle vicende, ma vi si affrontano le motivazioni delle differenti psicologie della
protagonista nel mentre che si fornisce
un ricco inquadramento storico, politico e filosofico. Sempre con l’occhio che
tiene presente la messa in scena effettuale dello spettacolo, l’occhio di chi il teatro lo frequenta e lo ama e non si limita
solo al suo studio accademico. In sintesi:
non un libro destinato solo agli studenti
universitari, ma a tutti gli appassionati
frequentatori dei teatro.
* Critico teatrale
Abstract
IPHIGENIA. MYTH’S VARIATIONS.
andro Avanzo reviews the book of Caterina
Barone (Edizioni Marsilio, 2014). Iphigenia
is the first victim of a war not yet begun, the
epic Trojan war. In the book, different
interpretations of the myth - by Euripides,
Racine, Goethe and Ritsos – are reported.
S
ARRIVEDERCI, NINA!
Alcune riflessioni dopo la lettura (in russo e a Mosca!) del libro “Досвиданья, Нина/
Dosvidan’ja, Nina! di Claudio Facchinelli
di Monica Santoro*
Recensioni Libri
MOSCA
Q
uando incontro un italiano così inspiegabilmente innamorato (come me) della Russia, mi stupiscono sempre
due cose: il fatto che l’amore per la Russia sia inspiegabile e la sensazione comune di uno spazio vastissimo dell’anima di questo popolo. Anche se io e Claudio non ci siamo
ancora incontrati di persona, abbiamo parlato di questo Paese
e della suo animo grande. Il suo libro, è un omaggio a quest’anima: nasce da un’attenta osservazione di un particolare che
nasconde una storia e che porta lontano nello spazio, nel tempo, persino al dialogo con un Maestro di letteratura e di vita,
Anton Pavlovič Čechov.
Allora: questa storia nasce da un addio scritto sulla pietra. Da
un nome - Nina - e da poche lettere di saluto scritte in latino
e in cirillico su una lapide. Si tratta di una giovane donna,
scomparsa a fine Ottocento. E quel saluto inconsueto lasciatole
per l’eternità. Sarà forse per il desiderio di non far sparire la
memoria di chi ha lasciato questa terra nel flusso del tempo,
sarà quello strano saluto, fatto sta che Claudio, narratore in
prima persona di questa storia-inchiesta, decide di scoprirne di
più. Nina, che in realtà si chiama Anna, è contemporanea di
Čechov e si chiama come la protagonista de “Il gabbiano”. Forse anche questo è un nesso importante e forse lo stesso Čechov
passeggiando a San Michele ha visto la lapide e forse... Forse... Claudio decide di andare ancora più a fondo e comincia
una ricerca che lo porta da Venezia in Russia. È una ricerca
appassionante, che l’autore compie tra archivi, testimonianze,
incontri. Lì dove non bastano le notizie, Claudio fantastica. La
fantasia lo porta a collegare episodi e personaggi. All’inizio si
tratta dello stesso Anton Pavlovič poi, man mano che i tasselli
del mosaico si aggiungono, appaiono altre figure, come i genitori di Nina, il Generale Sluckij, e la madre Ljudmila, poi due
misteriosi italiani...
Il mistero si infittisce, non manca un colpo di scena finale e una conclusione che non conclude, anzi lascia aperto un quesito:
ma perché cercare così a ritroso dentro questa storia? Forse è il desiderio di non lasciare un’altra storia nell’oblio... o forse è un
atto d’amore. È bellissimo concludere parlando di questo sentimento. Alla fine del testo Claudio ci svela – fantasticando – chi,
probabilmente, Nina abbia amato nella sua breve vita. Poi fa quasi lui stesso una dichiarazione d’amore verso la storia che ha
appena raccontato. Penso che anche il dialogo di Claudio con la letteratura russa e con i suoi personaggi sia un atto d’amore.
Quello inspiegabile, di cui ho parlato prima.
Bellissimo viaggiare con la fantasia e conservare la memoria di storie anche lontane o inverosimili. E scavare in esse per sentirsi
ancora di più innamorati di terre lontane e meravigliose, spesso visitate anche solo con il cuore.
* Attrice presso il Teatro Masterskaja di Mosca
RICONOSCIMENTI IN RUSSIA E BIELORUSSIA
Il libro qui recensito, per una situazione paradossale – ma neppure tanto – non ha ancora trovato un editore italiano ma, nella traduzione russa di Michail
Talalaj, è stato pubblicato a Mosca, per i tipi della casa editrice Staraja Basmannaja.
In questa veste è stato presentato a Sankt-Peterburg nell’ottobre 2014 presso la casa museo Dostoevskij e la biblioteca civica Majakovskij; nel febbraio 2015
a Minsk, presso lo stand dell’ambasciata d’Italia della locale fiera internazionale del libro; nel gennaio 2015, in occasione della festa di Santa Tat’jana, presso
la Camera di Commercio Italo-Russa di Milano; nel settembre 2015, all’Istituto italiano di cultura di Mosca e, a Omsk, nella Siberia occidentale, al museo
Dostoevskij. Il 1° maggio 2016, sul canale Kultura della radio di stato bielorussa, l’attore Viktor Šuleško ne ha iniziato la lettura integrale, per la trasmissione
“Biblioteca senza confini”, a cura di Marija Dubrovskaja.
teatridellediversità
113
Segnalazioni editoriali
DANZA E RINASCIMENTO L’EFFIMERO E L’ETERNO
Cultura coreica e “buone maniere” nella società di corte
del XV secolo
Alessandro Pontremoli (Ephemeria editrice)
N
el corso del Quattrocento,
la corte, complice la cultura
umanistica, elabora una nuova
forma del vivere e un gusto raffinato in
tutte le arti. Accanto allo studio della
retorica e della grammatica latina,
l’aristocrazia pratica la musica e la
danza. I nobili imparano la civiltà e le
buone maniere per divenire uomini di
potere e colti mecenati. All’interno dei
vari momenti della festa rinascimentale
e della vita di palazzo, la danza costituisce uno dei modi di
espressione della cultura della corte, grazie alle funzioni di
intrattenimento sociale e di forma spettacolare. L’affermarsi
della figura di un maestro, nel contempo un teorico e un pratico
del ballo, e l’introduzione del trattato di danza fanno sì che
il ballare assurga al rango di vera e propria arte, diventando
così una componente indispensabile della formazione dei
prìncipi e degli aristocratici e un requisito fondamentale del
cortigiano. Questo studio si propone di indagare processi di
memorizzazione di corpi in azione, analizzare e studiare testi,
manufatti e monumenti come traccia di una rete di condizioni, ricostruire le relazioni che qualificano la percezione e la
presenza di azioni simboliche in un contesto.
Macerata, 2011, pag 176 ISBN 978-8-887852-12-7 Premio Pirandello 2015
IL TEATRO DEI LUOGHI
Lo spettacolo generato dalla realtà
Fabrizio Crisafulli (Edizioni Art Digiland)
F
abrizio Crisafulli analizza in questo
libro i caratteri e le modalità operative
di quel particolare tipo di ricerca che ha
chiamato “teatro dei luoghi”, a oltre vent’anni
dalla sua prima formulazione. Un lavoro nel
quale il “luogo” e l’insieme delle relazioni che
lo costituiscono vengono assunti dall’autore
come matrici della propria creazione teatrale,
in tutti i suoi aspetti: la drammaturgia, il corpo, la parola,
lo spazio, la luce, il suono, la tecnica. La necessità di questa
ricerca, il suo riportare l’attenzione sui luoghi, le realtà locali, la
prossimità, si è riaffermata nel corso degli anni per l’accrescersi
delle questioni legate allo sviluppo mediatico, alla perdita di
contatto della vita quotidiana con i luoghi, e per le criticità
che le forme di comunicazione a distanza e i social network
creano, accanto a nuove opportunità, sul piano delle relazioni umane e dei modi di sentire lo spazio. Anche l’uso delle
nuove tecnologie, nel lavoro di Crisafulli, deriva da un ascolto
profondo dei siti. Il volume fa definitivamente luce sul fatto
che il “teatro dei luoghi” – nell’uso comune a volte inteso (e
frainteso) semplicemente come teatro che si svolge fuori dagli
edifici teatrali – non è definito dallo spazio dove si realizza lo
spettacolo, ma dall’idea stessa di “luogo” e dal modo specifico
in cui il lavoro si relaziona al sito, in qualsiasi posto si svolga.
E descrive, attraverso riflessioni ed esempi concreti, un modo
radicalmente nuovo di concepire e fare il teatro.
Dublino, 2015, Pag 216 ISBN 978-1-909088-06-1
114
L’esperienza teatrale di Gibellina
Valentina Garavaglia (Bulzoni Editore)
T
rattare di Gibellina significa considerare il
senso del tempo, della memoria e della loro
azione sia sul presente che sul futuro, e porlo
in relazione con la reazione dell’uomo difronte al
tema delle rovine o più precisamente a quello delle
macerie, conseguenza del terremoto avvenuto tra il
14 e il 15 gennaio del 1968 che cancellò paesi interi
che da secoli sorgevano nella valle del Belice. Da allora, Gibellina, per
risollevarsi dalla tragedia, ha attivato un intenso programma di ricostruzione, che ha visto come protagonisti l’arte e il teatro: qui ci sono
i ruderi del terremoto che, coperti dal Cretto di Alberto Burri, sono
divenuti fra le più imponenti opere europee di Land Art; qui si erge
Gibellina Nuova con le sue sculture antiscultoree e le sue architetture
urbane; qui sorge il Baglio Di Stefano, sede di prestigiose raccolte di
opere d’arte contemporanea; qui, da più di trent’anni, si svolgono le
Orestiadi, manifestazione teatrale che ha visto coinvolti centinaia di artisti
di fama internazionale. L’esperienza teatrale di Gibellina, unica nel suo
genere, rappresenta il modello di un teatro totalizzante, proiezione di un
dramma dell’immaginario dove lo spettatore è protagonista partecipe
e attivo, poiché la misura della rappresentazione non è più, o non solo,
l’attore, ma l’essere umano coinvolto da un evento naturale, che fa da
prologo e da epilogo a ogni rappresentazione. Visionaria quanto basta,
perché nata all’insegna dei miti e del sogno, Gibellina è una realtà e
come tale va studiata, ricostruendone i contorni e cercando ragione negli
antefatti. In questa sede si è tentata una lettura ‘globale’ del luogo dal
punto di vista teatrale. Il patrimonio plurigenere e pluricodice presente
sul territorio è stato, quindi, analizzato in funzione della sua teatralità
o, ancor meglio, in funzione del suo rapporto con il teatro.
Roma, 2012, pag 404 ISBN 978-88-7870-651-4 Premio Pirandello 2015
CONTESTI TEATRALI
UNIVERSITARI
Il progetto di residenza artistica RI_nascite ad Officina Giovani
Teresa Megale (Edizioni Firenze University Press)
I
l volume è il rendiconto dell’attività teatrale
della Compagnia universitaria e in specie del
progetto di residenza artistica Ri_Nascite
che, finanziato dal Dipartimento della Gioventù_Presidenza del Consiglio dei Ministri e
dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani,
realizzato in collaborazione con il Comune
di Prato, ha esplorato nuove dinamiche e
rinsaldato il rapporto tra l’istituzione universitaria e la città di Prato
per il tramite della compagnia universitaria ‘Binario di Scambio’, che
proprio agli ex-Macelli debuttò nel 2007. Il libro a più voci raccoglie
contributi originali di autori, attori e registi e riflette sull’esperienza
collettiva che ha portato ad Officina, spazio nodale per la creatività
giovanile, un programma articolato in diverse attività, per ragionare
sulla pluralità dei punti di vista, sulle aree di intervento e sugli obiettivi
intorno ai quali si sviluppano le possibilità del linguaggio teatrale oggi.
La residenza artistica della compagnia teatrale ‘Binario di Scambio’,
estesa tra ottobre 2012 e marzo 2013, ha prodotto quattro nuove
produzioni della giovane formazione universitaria, un cartellone di
incontri, e tre laboratori di carattere più strettamente formativo, dai
quali sono scaturite occasioni sicure di crescita e di consapevolezza
collettiva. Premio nazionale ‘Cultura di gestione’ di Federculture.
Firenze, 2014, Pag 224 ISBN 978-88-6655-602-2
A conclusione del primo anno di attività del programma
della Residenza Multidisciplinare Arte Transitiva a cura di
Stalker Teatro, dal 3 al 7 febbraio 2016 presso Palazzo Ferrero
a Biella, si è svolta l’iniziativa “Per un teatro contemporanei:
interazione sociale e performing art a confronto” con un
fitto programma di spettacoli, confronti teorici, seminari di
approfondimento e dibattiti fra artisti, esperti e pubblico
coinvolto. Dopo l’accoglienza di mercoledì 3 febbraio, si è
tenuto lo spettacolo “Adesso che hai scelto”, scritto, diretto ed
interpretato da Mimmo Sorrentino: esperienza irripetibile in
quanto scelta e indirizzata dallo stesso pubblico, che ne decide
conseguentemente anche il finale. Nei giorni successivi si è
entrati nel vivo del “Laboratorio d’idee” con seminari teorici
e dibattiti e interventi di una serie di docenti e critici invitati
a partecipare al programma: Alessandro Pontremoli, docente
di discipline dello spettacolo presso il DAMS dell’Università
di Torino; Vito Minoia, esperto di teatro educativo inclusivo
presso il Dipartimento di Scienze dell’Uomo dell’Università
degli Studi di Urbino “Carlo Bo”; Giulia Innnocenti Malini,
esperta in teatro sociale in collaborazione con le Università di
Milano e di Torino; Claudio Bernardi, professore associato
in discipline teatrali presso la facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università Cattolica di Milano e Brescia; Gerardo Guccini,
docente di drammaturgia, teorie e tecniche della composizione
drammatica all’Università di Bologna; Irene Salza dottoranda
in Studi Teatrali presso l’Universidad Autonoma di
Barcellona; Roberta Gandolfi, ricercatrice e docente presso
l’Università degli Studi di Parma; Armando Petrini, professore
associato in Discipline dello Spettacolo, presso l’Università
degli studi di Torino; Raimondo Guarino professore ordinario
di discipline dello spettacolo all’Università Roma Tre. La
Rivista “Catarsi-teatri delle diversità” documenterà lo sviluppo
del lavoro prodotto dalla Residenza “Arte Transitiva”. (www.
stalkerteatro.net)
Cartoceto e Urbania (Pesaro e Urbino)
A Cartoceto proseguiranno dal 24 al 29 luglio 2016 le attività
della Scuola Sperimentale di Teatro di Animazione Sociale a
cura del Teatro Universitario Aenigma.
Due i corsi di formazione intensivi in programma. Il primo dal
titolo “Il teatro delle ombre” condotto dal Maestro burattinaio
Mariano Dolci, rivolto a studenti universitari, educatori,
operatori sociali, artisti interessati a formarsi nell’utilizzo di
tecniche derivanti dalla tradizione del Teatro di Animazione
(burattini, marionette, ombre) in campo educativo e nel sociale.
Il secondo dal titolo “Dove le immagini si muovono in silenzio”
sarà condotto dal regista Francesco Gigliotti, ideatore del
metodo di ricerca basato su “Il teatro d’arte plastica e dinamica”
(maggiori informazioni e indicazioni sulle modalità di iscrizione
sono pubblicate sul sito www.teatroaenigma.it - informazioni
possono essere richieste scrivendo a: [email protected]).
A Urbania, inoltre, il 26 e 27 novembre 2016, si terrà la XVII
edizione del Convegno Internazionale della Rivista “CatarsiTeatri delle diversità”. (informazioni saranno aggiornate sul sito
www.teatridellediversita.it)
(Associazione Nazionale Critici di Teatro) e la Rivista “CatarsiTeatri delle diversità”. Considerando che è giunto il tempo
per approfondire ricerche, osservazioni, confronti che vadano
in profondità con il contributo plurale di critici e studiosi,
responsabili di compagnie, tutti coloro che vivono per scelta
dentro le innumerevoli, variegatissime, multiformi “diversità”.
L’incontro promosso in collaborazione con la Regione Trentino
Alto Adige ed altri enti – ha costituito una prima occasione
(a cui ne seguiranno altre, ancora a Bolzano e in altre sedi, a
partire dal XVII Convegno di Urbania del 26 e 27 novembre
prossimi) per affrontare in modo problematico le differenti
questioni intorno al tema del rapporto tra Teatro e Disabilità
(o Diversa abilità) e le questioni etiche ed estetiche aperte da
questa interazione. La tavola rotonda, ha previsto, oltre ad una
più approfondita conoscenza del lavoro sviluppato da Viganò
a Bolzano con la visione dello spettacolo “Personaggi”, un
dibattito che ha coinvolto altri protagonisti del settore come
Alessandro Garzella (Animali Celesti Teatro d’arte civile), Fulvio
De Nigris (Associazione “Gli amici di Luca”), Piero Ristagno
(Néon Teatro), Mimmo Sorrentino (Teatro Incontro).
Giulio Baffi (confermato presidente dell’ANCT in un’assemblea
che si è tenuta proprio a Bolzano) ha stimolato i diversi colleghi
presenti a riflettere su alcuni temi chiave proposti: la cultura
come promotrice di progetti di inclusione sociale; il teatro
dei diversi o la diversità del teatro?; teatro sociale e “sistema
teatro”. La Rivista “Catarsi-Teatri delle diversità” potrà essere
riferimento principale per la pubblicazione di documenti,
proposte, progetti, interviste, dialoghi. (www.teatrolaribalta.it)
Filo diretto
Biella
Torino
Dal 26 maggio al primo giugno 2016 si è tenuto Caravan
Next Torino, un progetto artistico e culturale che fa parte
dell’omonimo progetto europeo basato sulla collaborazione tra
artisti professionisti e comunità locali e che dà vita a un network
di cittadini, teatri e organizzazioni culturali.
Il progetto interessa 16 Paesi Europei tra cui l’Italia e nello
specifico Torino, scelta come “base” nazionale. Caravan Next ha
preso il via a settembre 2015 e proseguirà fino a giugno 2016.
Il tema artistico scelto per Torino dall’équipe di SCT Centre,
promotore insieme all’Odin Teatret del progetto europeo,
è Saving The Beauty, traendo spunto dalla celebre frase di
Dostoevsky “La bellezza salverà il mondo”.
ll progetto è realizzato in due luoghi della città: Distretto Sociale
Barolo e Barriera di Milano/progetto S-Nodi (Via Baltea). I due
luoghi, collocati rispettivamente nelle circoscrizioni 7 e 6, pur
nella diversità di storia e di protagonisti, hanno in comune una
attenzione al sociale attraverso processi innovativi di formazione
della persona.
SCT Centre, con un team di 25 artisti, attori, scenografi,
musicisti e danzatori e secondo la metodologia europea di
Teatro Sociale e di Comunità ideata dall’SCT Centre proprio
a Torino, ha attivato in entrambi i luoghi percorsi creativi che
coinvolgono i diversi protagonisti: un modo per dare valore alle
loro storie e alle loro azioni, aiutandoli a costruire relazioni e
occasioni di partecipazione. Nello stesso tempo rappresenta
un’opportunità importante per raccontare alla città la vita e la
quotidianità di quei luoghi. (www.caravanext.eu)
Bolzano
Il 22 maggio, con una tavola rotonda al T.RAUM, sede
dell’Accademia Arte della Diversità (Teatro La Ribalta diretto
da Antonio Viganò) si è aperta una riflessione dal titolo “Il
teatro e la norma della diversità” in collaborazione con l’ANCT
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pubblicate. Tra gli argomenti trattati finora,
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