Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU) rivista europea TEATRI 70/71/72 Dicembre 2015 - Maggio 2016 € 20,00 Premio Gramsci Le Guarattelle Giuliano Scabia Speciale Australia DOSSIER: NASI ROSSI IN ARMENIA -Teatri delle diversità - trimestrale - anno 21- ISSN 1594-3496 delle diversità 38 7 5 BR COPERTINA: GRAMSCI VISTO DA DIETRO LE SBARRE Trimestrale fondato dall’Università di Urbino da Emilio Pozzi e Vito Minoia nel 1996 Direttore responsabile: Vito Minoia [email protected] Art director: Giulio Dal Pozzo [email protected] Comitato Scientifico: Chiwoon Ahn - teatro, Seul (Corea del Sud) Claudio Bernardi – teatro, Milano (Italia) Andrea Canevaro - pedagogia, Bologna (Italia) Elka Fediuk – arti sceniche, Veracruz (Messico) Alejandro Finzi - letteratura, Neuqén (Argentina) Raimondo Guarino – teatro, Roma (Italia) Gianfranco de Bosio - teatro, Milano (Italia) Piergiorgio Giacché - teatro, Perugia (Italia) Maria S. Horne - teatro, Buffalo-New York (USA) Laura Mariani - teatro, Bologna (Italia) Claudio Mustacchi – educazione, Manno (Svizzera) Peter Kammerer – sociologia, Urbino (Italia) Piero Ricci - linguistica, Siena (Italia) Giuliano Scabia – teatro, Firenze (Italia) John Schranz - teatro, Malta (Malta) Daniele Seragnoli - teatro, Ferrara (Italia) Gianni Tibaldi - psicologia, Padova/OMS (Italia) Ouriel Zohar – drammaturgia, Haifa (Israele) Fino alla loro scomparsa anche: Sisto Dalla Palma - teatro, Milano (Italia) Claudio Meldolesi - teatro, Bologna (Italia) Guido Sala - psicologia, Urbino (Italia) Luigi Squarzina - teatro, Roma (Italia) Procedure di Referaggio Gli articoli della rivista sono sottoposti facoltativamente a referaggio con la procedura del singolo cieco (single blind) Corrispondenti: Eleonora Firenze (Milano), Giulia Innocenti Malini (Milano), Paolo Garofalo (Pordenone), Barbara Sinicco (Trieste), Giuseppe Lipani (Ferrara), Adela Gjata (Firenze), Ivana Conte (Roma-Arezzo), Valentina Venturini (Roma), Fabio Rocco Oliva (Napoli), Salvo Pitruzzella (Palermo), Benno Plassmann (Berlino), Marco Consolini (Parigi), Tania Kitsu (Atene), Monica Santoro (Mosca), Kassim Bayatly (Baghdad), Turel Eczici (Ankara), Walter Valeri (Boston), Djalma Patricio (San Paolo del Brasile), Yosuke Taki (Tokio), Jiang Ruoyu (Pechino), Salvatore Minutolo (Melbourne). Hanno collaborato a questo numero: David Aguzzi, Nicola Arrigoni, Sandro Avanzo, Onelia Bardelli, Italo Bertolasi, Eugenia Casini Ropa, Biancamaria Cereda, Antonio Cioffi, Elisabetta Colla, Elena Co- metti, Ivana Conte, Peppe Coppola, Gloria De Angeli, Nicola Dentamaro, Massimo De Pascalis, Vincenza Di Vita, Mariano Dolci, Margherita Dotta Rosso, Claudio Facchinelli, Sara Ferrari, Eleonora Firenze, Martina Galletta, Arianna Galuzzi, Gaia Germanà, Maria S. Horne, Filippa Ilardo, Jodi Jinks, Saverio Minutolo, Giuseppe Lipani, Alessandro Macis, Romina Mascioli, Gianni Mascìa, Giuliana Mencarini, Massimiliano Messina, Maddalena Nanni, Fabio Rocco Oliva, Veronica Olmi, Valeria Ottolenghi, Giorgia Palombi, Michele Pascarella, Graziella Perego, Loredana Perissinotto, Roberto Rinaldi, Alessandra Rossi Ghiglione, Ginevra Sanguigno, Juan Pablo Santi, Monica Santoro, Marco Sasia, Giuliano Scabia, Maria Antonietta Selvaggio, Alice Lou Tanzanella, Francesca Tricarico, Walter Valeri, Valentina Venturini, Antonio Viganò, Francesca Zanini, Egle Zapparrata, Stefania Zepponi. Editore: “Edizioni Nuove Catarsi” Associazione culturale Aenigma Sede legale: Via Giancarlo de Carlo 5, 61029 Urbino (PU) Redazione e amministrazione: Via Peschiera 30, 61030 Cartoceto (PU) Impaginazione: Giulio Dal Pozzo [email protected] Stampa: Digital-Team, Fano (PU) Confezione: Cooperativa sociale T41b, Pesaro (PU) Immagine di copertina: Opera vincitrice del Premio “Gramsci visto da dietro le sbarre” 2016. Dipinto di Marco Tavoletta. La direzione lascia agi autori dei saggi, degli articoli e delle recensioni la più ampia libertà di opinione, della quale rispondono personalmente Chiuso in redazione il 31 maggio 2016 Reg. Tribunale di Pesaro n° 424 del 18/10/1996 9 E-mail: [email protected] Sito internet: www.teatridellediversita.it CIATU AUSTRALIA IN PRIMO PIANO 4 6 di Claudio Facchinelli di Vito Minoia PANORAMA CREATIVO E POETICO Australia INCLUDERE E CREARE ARTE di Saverio Minutolo di Saverio Minutolo Cuba 45 Teatro e Salute SULLE TRACCE DI IPPOCRATE NELL’ISOLA DI KOS 73 74 di Alessandra Rossi Ghiglione Poesia DANIELLE LEGROS GEORGE: POETA IN CITTA’ di Elena Cometti Eleonora Firenze conversa con Maurizio Lupinelli 47 68 70 71 72 72 IL RUMORE DELLA VITA 6 di Italo Bertolasi SERGEJ PARAJANOV di Italo Bertolasi ARMIN THEOPHIL WEGNER E LO STERMINIO DEGLI ARMENI di Italo Bertolasi RUBRICHE 29 Teatro e Intercultura ILTEATRO FA BENE David Aguzzi conversa con Jacopo Fo Personaggi 32 di Walter Valeri NASI ROSSI IN ARMENIA! 47 UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL TEMPO di Maria S. Horne Armenia 20 23 24 Egle Zapparrata conversa con Monica Felloni 42 Stati Uniti 15 NON LAVORIAMO SULLA MANCANZA MA SULLA PERFEZIONE Teatro e Disabilità 2/Castiglioncello IL FESTIVAL DI L’AVANA di Egle Zapparrata UNA PROVA APERTA DI RAWCUS PANORAMA INTERNAZIONALE 7 10 12 RESPIRI E NON TE NE ACCORGI? PREMIO GRAMSCI, DALLA PITTURA AL TEATRO Teatro e Disabilità 1/Catania 38 39 CON LELLA GANDINI, RIFLESSIONI E SPERANZE SUL RUOLO DELL’EDUCAZIONE di Vito Minoia DANIELLE LEGROS GEORGE 49 75 IN RICORDO DI EMILIO LUSSU 51 56 58 di Alessandro Macis Il teatro di animazione IL TEATRO DELLE GUARATTELLE DI BRUNO LEONE di Mariano Dolci 32 60 di Ginevra Sanguigno 64 66 Pubblicazione prodotta grazie anche al sostegno del Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo - Direzione Generale dello Spettacolo e della Regione Marche. Con le radici nel vento di Gaia Germanà Messaggio di Lemi Ponifasio Teatro e Scuola 66 LELLA GANDINI Danza NAPOLI / BOTTEGA TEATRALE AL RIONE SANITA’ di Peppe Coppola 84 DANZARE PER CAPIRE LA GIORNATA MONDIALE DELLA DANZA di Vito Minoia LEO BASSI, POETA PAZZO E STRAORDINARIO 78 82 di Veronica Olmi ALTA TEATRALITA’ AL FOF IL DOSSIER MEMORIA VIVENTE PER L’UNESCO LE 86 88 91 RECENSIONI 93 95 di Claudio Facchinelli LA DIGNITA’, L’AUTONOMIA E LA PROSTITUZIONE DELL’ARTE Martina Galletta conversa con Luciano Melchionna NCANZA 68 70 71 72 72 di Alice Lou Tanzanella A PALERMO / ARTI VISIVE E CONTEMPORANEITA’ di Vincenza Di Vita KILOWATT FESTIVAL/ TRA VISIONE E VOCAZIONE a cura di Margherita Dotta Rosso, Biancamaria Cereda, Onelia Bardelli di Loredana Perissinotto STRADE MAESTRE AD ALTOPASCIO oncello di Graziella Perego TRAGITTI DI TEATRI DELLA SCUOLA di Sara Ferrari 73 74 Poesia Teatro e Medicina QUANDO IL PALCOSCENICO RENDE PIU’ “DOLCE” IL DIABETE di Massimiliano Messina IN ITALIA E’ A CAGLIARI IL CENTRO DI ECCELLENZA di Roberto Rinaldi di Stefania Zepponi MESSINA/ SABIR IL FESTIVAL DEL METICCIATO di Filippa Ilardo 107 108 109 111 112 113 114 Libri 115 FILO DIRETTO GIULIO E VALERIA: DUE GIOVANI e Salute di Ivana Conte PESARO / LO SGUARDO ALTROVE SU ALCUNE NOVITÀ Convegni e Festival METAMORFOSI DEL TEATRO SOCIALE TRENTO / CORPI IN CONFLITTO LE RASSEGNE RA.RE. di Claudio Facchinelli I? QUESTA IMMENSA NOTTE 97 99 100 102 104 105 BRUNO LEONE Catania LA DIVERSITA’ DI IWONA 96 51 Spettacoli MANIFESTO PER UNA RIVOLUZIONE DELLA SCUOLA di Claudio Facchinelli IL TEATRO NEL PAESAGGIO DI SISTA BRAMINI di Michele Pascarella UN OPERA TROVATA DURANTE UN TRASLOCO di Valeria Ottolenghi L’INFINITOPRIMADINOI di David Aguzzi IFIGENIA.VARIAZIONI SUL MITO 60 ONDE AFFILATE CHE SI INFRANGONO NELLA TERRA di Fabio Rocco Oliva Danza Scuola Teatro e Comunità 78 di Maddalena Nanni 82 LA FORZA ETICA DELLA SCENA 84 La Critica di Nicola Arrigoni Margini & Frontiere IL CARATTERE DETERMINA IL NOSTRO DESTINO di Valeria Ottolenghi 86 88 91 TESTI INEDITI PAG I-IV TEATRO NELLO SPAZIO DEGLI SCONTRI E DELLA GENTILEZZA di Giuliano Scabia Piccolo Pantheon GINO SANTORO E IL SUO GRANDE LABORATORIO DI IDEE di Antonio Viganò NICOLA DENTAMARO, UN ARTISTA “SAGGIAMENTE RIBELLE” di Francesca Zanini DOCUMENTI DI CATARSI 72 IL PALIO DI POMARANCE, UN REGALO INATTESO el vento BIELLA, CARTOCETO E URBANIA, BOLZANO,TORINO Napoli e le sue Drammaturgie 75 ONE DANZA E RINASCIMENTO IL TEATRO DEI LUOGHI L’EFFIMERO E L’ETERNO CONTESTI TEATRALI UNIVERSITARI LEO BASSI mazione di Monica Santoro SEGNALAZIONI EDITORIALI GE di Sandro Avanzo ARRIVEDERCI, NINA! IL SAGGIO MALATO di Nicola Dentamaro ALLEGATO CERCARE. Carcere anagramma di Magazine di Teatro in Carcere n° 2 EDITORIALE TEATRO E RICERCA ALL’UNIVERSITÀ C on il patrocinio dell’Università di Urbino il 26 e 27 novembre 2016 si terrà a Urbania (Pesaro e Urbino) il diciassettesimo Convegno Internazionale della Rivista “Catarsi-Teatri delle diversità”. Per l’occasione sarà presentato il nuovo sito in allestimento www.edizioninuovecatarsi.org al quale si potrà fare riferimento sia per abbonarsi alla versione digitale della nostra pubblicazione, sia per richiedere singoli saggi da numeri arretrati. Urbania diverrà in quei giorni sede della prima edizione del Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere, promosso in collaborazione con l’Associazione Casa Natale Gramsci di Ales e l’Associazione Nazionale Critici di Teatro, continuando a stimolare studi e riflessioni critiche sulla “scena reclusa”, in stretta relazione con il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (si veda il numero 2 del Magazine allegato “CERCARE. Carcere anagramma di”, interamente dedicato all’argomento). Nel prossimo numero (il 73/74 in uscita a novembre 2016), al quale stiamo già lavorando, ospiteremo inoltre un’ampia documentazione dall’ XI Congresso Mondiale della International University Theatre Association organizzato dal 5 al 9 settembre prossimi dal Dipartimento di studi teatrali dell’Università di Caldas (Colombia). “Theatre Research in the University” il tema generale dell’incontro che, nell’ambito della XXXVIII edizione del Festival di Manizales -definita “città del teatro” latinoamericano- vedrà oltre 300 accademici confrontarsi sulle Metodologie della Ricerca, Storia del teatro e Drammaturgia, Pedagogia, Teoria della Scena, Messa in scena e Performance (a pagina 15, a conferma del nostro interesse per la Storia del Teatro Universitario, il contributo di Maria S. Horne della Buffalo University). Il nostro dialogo con gli Stati Uniti prosegue anche in campo educativo inclusivo: dopo l’incontro con Howard Gardner, in questo numero i contributi di Lella Gandini (Liaison for the Dissemination of the Reggio Emilia Approach negli USA), di Jodi Jinks (autrice del programma di ricerca ArtsAloud alla Oklahoma University), di Danielle Legros George (Poeta Laureato della città di Boston). Si apre, inoltre, un nuovo significativo territorio di confronto internazionale nell’ambito del disability theatre, grazie all’appassionata corrispondenza di Saverio Minutolo dall’Australia. Vito Minoia In primo piano URBANIA PANORAMA CREATIVO E POETICO Il XVI Convegno internazionale della Rivista “Catarsi-Teatri delle diversità” ha consentito di continuare a sviluppare una riflessione sul ruolo del teatro nella trasformazione dei conflitti in modo nonviolento di Claudio Facchinelli* Vita, morte e resurrezione di Policinella Cetrulo al Teatro Bramante di Urbania, foto di Umberto Dolcini L a sedicesima edizione dell’ormai tradizionale convegno di studi della rivista Teatri delle diversità, tenutasi, come da qualche anno, nella fascinosa cornice della medievale Urbania, si è svolta nell’arco di ventiquattr’ore, ma non per questo è stata meno ricca di suggestioni, non solo artistiche e culturali, ma anche etiche. Una connotazione che già traspariva dal titolo del primo intervento, “Il teatro nello spazio degli scontri e della gentilezza”, dove Giuliano Scabia evocava, con poetica malizia, una scena con burattinai e burattini: un cammello, Marco Cavallo, Bin Laden e Madonna Gentilezza, i cosiddetti grandi della terra, papa Francesco; un panorama creativo e poetico che abbracciava la storia e le manifestazioni artistiche degli ultimi cinquant’anni, fluttuanti su onde di gentilezza e benevolenza. Da qui è andata poi sviluppandosi la proposta di un teatro che, non solo consenta di leggere, nel villaggio globale, realtà che fino a ieri ci sembravano remote, ma che sappia arrivare fin nei luoghi della distruzione, del dolore dell’emarginazione. 4 Ne hanno discusso un cattedratico, Raimondo Guarino, dell’università di Roma Tre, e un teatrante, Fabio Tolledi, di “Astragali”. Ma è stato il breve, tenerissimo numero di clownerie di Ginevra Sanguigno, naso rosso, cappelluccio, calzoni a scacchi, a comunicarci ancor meglio, con quella sua immagine fragile, che si fa ambasciatrice del sorriso e della gentilezza, l’efficacia lenitiva del teatro nei luoghi della sofferenza: in Cecenia, in Armenia, Ossezia, in Cambogia, in Bosnia. Un discorso che è proseguito con le testimonianze di lavoro di Jörg Grünert e Cam Lecce (Deposito dei Segni, di Pescara), nelle zone più tormentate del Medio Oriente. L’apparente paradosso, quasi una congiunzione di opposti, della danza e del balletto che entrano nell’inferno delle carceri, o che contribuiscono a curare il morbo di Parkinson e di Alzheimer nella terza età, è stato illustrato da Eugenia Casini Ropa, già docente del DAMS di Bologna: spiegando come tali strumenti, in ogni categoria sociale e fascia di età, possano favorire un rapporto più sereno e consapevole col proprio corpo. In primo piano Bruno Leone, foto di Umberto Dolcini In uno spiritoso confronto col maestro burattinaio Mariano Dolci, Bruno Leone, ultimo erede del teatro delle guarattelle, ha raccontato le sue esperienze in Terra Santa: il suo iniziale pudore, in quei luoghi ove quotidianamente si sparge il sangue, nel mostrare lo spregiudicato commercio che Pulcinella ha con la Morte; ma anche di un laboratorio di tre ore, concluso con l’offerta, da parte dei bambini, di un succo di melograno. Il compito di una relazione sulle iniziative in atto nelle Marche è stato assolto da Silvano Sbarbati, Sandro Pascucci e, con un’accorata riflessione sul valore che può avere il teatro fatto dai detenuti, da Francesca Marchetti: “La società relega nelle carceri l’emarginazione sociale: l’unico linguaggio che ci accomuna è quello teatrale”. A conclusione, l’intervento di Simone Guerro, regista di uno dei più riusciti spettacoli sulla disabilità, Voglio la luna, con protagonista Fabio Spadoni, un ragazzo Down: “Non mi sarei mai aspettato questo successo”, ha confessato con semplicità Fabio e, all’incredula richiesta: “Ma tu, sei Down davvero, o fai finta?”, ha risposto con un malizioso, spiazzante sorriso: “A volte sì, a volte no”. Dopo una pausa rigenerante da Doddo (una zuppa di zucca gialla che vale almeno una deviazione), nell’ottocentesco Teatro Bramante, due spettacoli esemplari della varietà nella quale possono articolarsi i teatri delle diversità. Vita, morte e resurrezione di Policinella Cetrulo, è un esempio di guarattelle, con un Pulcinella, inquietante archetipo del diverso, animato da Bruno Leone; Reaction / Variazioni di linea, della compagnia torinese Stalker Teatro, una partitura visuale di notevole rigore e suggestione figurativa. La mattinata successiva un video-messaggio di Jodi Jinks, docente presso la Oklahoma State University, ha illustrato con passione la terribile situazione carceraria, definita di profonda iniquità, del suo paese. A seguire, chi scrive ha fatto da spalla a Remo Rostagno, pedagogista militante, nella presentazione del suo Manifesto per una rivoluzione della scuola: un testo singolare, che alterna rivoluzionarie proposte didattiche ad ammiccanti, poetici ricordi di vita. Da La tana, un racconto incompiuto di Kafka, sono partiti gli allievi della scuola media della “Galilei” di Pesaro, guidati dall’attrice Romina Mascioli, con un laboratorio che esplorava anche i non facili rapporti fra lo scrittore e suo padre, fino a proiettarli sul loro presente. Un percorso drammaturgico che aveva messo i bambini anche in contatto con i detenuti di Villa Fastiggi. Ciò ha introdotto gli interventi della stessa Romina Mascioli, di Antonio Rosa, di Michalis Traitis, di Ivana Conte, che hanno illustrato i successi e le difficoltà del portare il teatro nelle carceri, a Pesaro, Genova, Rebibbia, la Giudecca, Lecce, Empoli. Quasi un’anticipazione, come esposto in chiusura da Vito Minoia, nel suo ruolo di presidene del Coordinamento Nazionale Teatro e Carcere, e da Valentina Venturini, docente presso l’università di Roma Tre, della Rassegna nazionale “Destini Incrociati”, che si sarebbe tenuta di lì a un paio di settimane a Pesaro. * Scrittore e critico teatrale Abstract INCLUDING AND CREATING ART t the end of last November, a shorter, but not less interesting annual meeting, organized by Teatro delle diversità, took place in Urbania. It focused on the ways puppets, dance, clownery and other unconventional sort of drama can relieve people in places affected by sufferance. Especially touching were the testimonies of Ginevra Sanguigno, a clown recently awarded by ANCT, and Bruno Leone, a traditional Neapolitan puppet showman. A special interest was shown in experiences of drama in jails, in Italy and abroad, anticipating the topic of the following meeting, “Destini incrociati”, that would have taken place in Pesaro. A teatridellediversità 5 In primo piano ALES PREMIO GRAMSCI DALLA PITTURA AL TEATRO Il 27 febbraio si è tenuta la cerimonia di premiazione della seconda edizione del Premio “Gramsci visto da dietro le sbarre” dedicato al pittore Peppinetto Boy (1932-1999). Nella stessa occasione è stato ufficialmente presentato il nuovo “Premio internazionale Antonio Gramsci per il teatro in carcere” promosso dalla nostra Rivista in collaborazione con l’Associazione Casa Natale Gramsci di Ales “L ’istituzione dell’ “Anno Gramsciano” nasce dalla volontà della Regione Sardegna di celebrare e conoscere meglio la figura di Antonio Gramsci, come politico, giornalista, pensatore e intellettuale riconosciuto e studiato a livello internazionale, e per diffondere soprattutto tra le giovani generazioni l’universalità, la profondità e l’alto valore morale ed educativo del suo pensiero e delle sue riflessioni. La cultura è un potente strumento di riscatto sociale, e questo concorso di pittura dedicato a Gramsci e alla popolazione carceraria ci suggerisce due riflessioni: il lavoro nelle carceri per favorire il reinserimento dei detenuti nella società, e quanto in questo l’arte sia un veicolo potente”. Sono le parole pronunciate per l’occasione dall’assessore regionale alla Cultura e Pubblica Istruzione Claudia Firino che ha visto premiati i detenuti delle carceri italiane per il concorso di pittura, alla presenza di varie personalità della società sarda e del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il messaggio al centro della riflessione, quindi, “l’attenzione di Gramsci verso una società più giusta, inclusiva e democratica”. Nella sala convegni del Comune di Ales a partire dal 30 gennaio sono state esposte tutte le opere (questa volta sono stati 90 gli elaborati, provenienti da 29 istituti penitenziari differenti). La Giuria, composta dagli artisti Pinuccio Sciola, Alberto Scalas e Massimo Spiga si è espressa con le seguenti parole: “Considerando che i partecipanti sono sottoposti a regime carcerario e non sono artisti professionisti e che non tutti hanno ricevuto un’adeguata informazione e i mezzi necessari a svolgere il lavoro richiesto per concorrere al premio, ci sembrerebbe doveroso valutare tutte le opere in egual misura, sia per lo sforzo tecnico che per fantasia e l’impegno profusi. Ma poiché il bando del concorso prevede di stilare una graduatoria segnaliamo i nominativi meritevoli dei premi: 1° Marco T. C.R. Nuchis Tempio Pausania; 2° Opera Collettiva Casa circondariale di Siena Siena; 3° Blana D. C.C. San Vittore Milano; 4° Giuseppe B. C.C. Santa Bona Treviso; 5° Roberto Di G, C.C. San Vittore Milano; 6° Alessandro C. C.C. Monza; 7° Vincenzo La N. C.C. Lecce”. Il ministro Orlando ha riconosciuto l’iniziativa come occasione “simbolica e di grande rilievo culturale, ma anche un investimento per rafforzare ed estendere le fondamenta della 6 cittadinanza nel nostro Paese”. E ancora: “Il pensiero e l’attività di Gramsci ha ricevuto omaggi ovunque nel mondo, da Berlino a New York, da Nuova Delhi a Buenos Aires. E la fortuna che i suoi scritti incontrano oggi, in Europa e oltre Europa, è testimone di un pensiero che ha trasceso le connotazioni di parte, come anche la vicenda storica in cui è nato”. E’ con lo stesso spirito che la nostra Rivista ha affiancato sin dalla prima edizione la promozione del Premio di pittura, fino ad ideare e presentare in collaborazione con l’Associazione Casa Natale Gramsci il 27 febbraio, il “Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere” che, in collaborazione con l’Associazione dei Critici di Teatro, ricorderà anche il lavoro appassionato e rigoroso di critico teatrale dell’intellettuale sardo sulle colonne dell’ “Avanti” torinese dal 1916 al 1920. Il bando sarà presto pubblicato sul sito www.teatridellediversita. it, con la prima cerimonia di premiazione prevista in occasione della XVII edizione del Convegno internazionale promosso da Catarsi-teatri delle diversità a Urbania il 26 e 27 novembre 2016. Andrea Orlando e Alberto Coni Vito Minoia E’ MORTO PINUCCIO SCIOLA Il 13 maggio all’età di 74 anni è scomparso lo scultore Pinuccio Sciola, noto a livello internazionale come “l’artista delle pietre sonore”. Sciola aveva accettato di presiedere la giuria del Premio di pittura Gramsci visto da dietro le sbarre. “A lui, sempre vicino agli ultimi, quella iniziativa era piaciuta ed era poi rimasto particolarmente stupito dal grande numero delle opere in concorso, arrivate da tutta Italia” ha riferito Alberto Coni, presidente dell’Associazione Casa Natale Gramsci, ricordando come l’artista, persona di grande generosità, aveva confessato l’imbarazzo suo e degli altri giurati a scegliere i lavori da premiare, di fronte ad un impegno, fantasia e sforzo tecnico fuori dal comune. Hun Panorama internazionale AUSTRALIA Hunger, Rawcus, foto di Sarah Walker INCLUDERE E CREARE ARTE Nel settore del disability theatre in Australia, l’introduzione del National Disability Act nel 2006 ha avviato un approccio artistico inclusivo che sta producendo considerevoli risultati di Saverio Minutolo* L ’Australia non è mai stata un paese facile in cui vivere, malgrado le narrazioni popolari abbiano generato e continuino a generare l’idea di un’isola felice ricca di stimoli e di benessere. Ritenere l’Australia solo terra di pionieri ed emigranti è sempre stato sbagliato, e a maggior ragione lo è oggi in un mondo nel quale la tecnologia è in grado di cambiare radicalmente la sostanza e la percezione delle culture. In continua tensione con la propria storia e le proprie origini coloniali, l’Australia negli ultimi decenni ha fatto passi da gigante non solo nell’economia, ma anche nell’arte e nella cultura. Un mul- ticulturalismo radicato e un oculato investimento nella programmazione artistica nazionale hanno prodotto e stanno producendo un’immagine dell’Australia diversa da quella del passato. In realtà, la complessa gestione delle diversità e la mancanza di senso di comunità e di appartenenza culturale rappresentano teatridellediversità 7 Panorama internazionale Small Odisseys, Rawcus, foto di Sarah Walker ancora oggi questioni molto delicate che, malgrado i grandi sforzi messi in campo, continuano a tormentare chi sogna un paese più unito e conscio delle proprie potenzialità umane e artistiche. Il teatro non è esente da tale sogno, ne è anzi lo specchio più fedele nel quale il variegato pubblico australiano, soprattutto negli ultimi anni, ha iniziato seriamente a riflettersi per avere qualche risposta. Ne è nato un dibattito più maturo sulla propria identità che va oltre i tradizionali campi d’indagine dello sport, dell’emigrazione e dello spirito dell’outback. Julian Meyrick, storico del teatro e professore alla Flinders University, scrive che “l’immagine che [l’Australia] dà di se stessa è molto generica… Nessuno menziona la sua storia complessa, il suo singolare sistema politico, i variegati immaginari che la sua popolazione coltiva. Nessun altro paese ha bisogno più dell’Australia di un tea- 8 tro nazionale, perchè nessun altro paese più dell’Australia tende a tenere sepolta così tanto in profondità la propria natura, sotto la superficie della propria vita quotidiana” (Meyrick, 2015). Non è un caso dunque che, malgrado i recenti tagli ai finanziamenti pubblici, il teatro australiano è in una fase di grande esplosione produttiva e creativa, in particolare nell’uso delle nuove tecnologie e nelle sperimentazioni interdisciplinari. Il problema resta tuttavia il suo studio teorico e la mancanza di un’analisi critica più matura e incisiva. Per certi versi la scena contemporanea australiana evoca l’immagine del suo ricco sottosuolo abbondante di materie prime, ma ancora tutte da estrarre e definire. Le specificità storico-geografiche del paese hanno reso possibile infatti la nascita di almeno due generazioni di teatranti con un senso di libertà espressiva unica nel suo genere, malgrado la costante e prevaricante in- fluenza artistica da oltreoceano. Esistono molte ragioni economico-culturali che spiegano la mai interrotta importazione di prodotti artistici soprattutto da Regno Unito e USA, eppure negli ultimi due decenni il teatro australiano ha iniziato a tracciare una propria via alla rappresentazione scenica che non si occupa più soltanto di identità e appartenenza, ma anche di modelli produttivi, artistici e formali, nel tentativo di proporre un teatro non solo “fatto in Australia”, ma autenticamente “australiano”. Esistono almeno quattro altri grossi arcipelaghi teatrali che interagiscono regolarmente tra loro: un teatro mainstream fatto di compagnie stabili e commerciali che propongono teatro musicale, repertori classici e contemporanei; un teatro indipendente a vocazione più o meno politica e sperimentale (teatro off, queer, site-specific, teatro d’avanguardia mul- arti australiane, così come lo è la scenografa e artista disabile Gaelle Mellis che da venticinque anni lavora professionalmente in Australia e all’estero per le maggiori compagnie e festival teatrali, e che ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui la prestigiosa Australia Council Creative Australia Fellowship. “Negli ultimi trent’anni”, scrive ancora la Austin, “c’è stato un significativo cambiamento negli studi sociologici nel riconoscere la disabilità, non più come un “problema medico” inteso in termini di impedimento fisico, ma come un “modello sociale” che separa tale invalidità dal concetto sociale di disabilità” (Austin, 2015). In teatro si è fatto il passo successivo e si è iniziato a considerare il corpo e il lavoro dell’artista disabile come una diversa “strategia estetica e creativa”. A questo proposito, la Austin cita nel suo studio un articolo di Giles Perring nel quale l’autore indica tre distinti approcci metodologici per mettere in atto tale strategia estetica e creativa: Normalizzazione, vale a dire inserire l’artista disabile nelle pratiche produttive e creative convenzionali; Post-terapia, che riguarda un lavoro strutturato su punti fermi terapeutici applicati in situazioni creative che esaltano l’espressività individuale e la socializzazione; Controcultura, sfida ai precetti estetici convenzionali, a come è percepita la disabilità e alle rappresentazioni artistiche tradizionali del corpo disabile come fenomeno da circo o da baraccone. In sostanza, maggiore è la “normalizzazione” e l’esaltazione delle potenzialità sovversive dell’attore disabile, minore sarà la sua percezione come corpo “estraneo” con necessità diverse da quelle degli altri artisti della compagnia. Eppure, malgrado questi significativi passi avanti, anche in Australia la strada per una vera pratica inclusiva del teatro della disabilità nel mainstream professionale è ancora lunga. Esistono organizzazioni statali come Arts Access Victoria e Arts Project Australia che hanno iniziato da alcuni anni a proporre e finanziare progetti professionali accanto ai tradizionali programmi di terapia artistica e inclusione sociale, e a perseguire come primo obbiettivo l’eccellenza nella pratica artistica professionale. Il modello è quello del Regno Unito che resta leader mondiale nell’esaltare le professionalità degli artisti disabili, nel farle emergere e soprattutto nel promuoverle anche a livello internazionale. Dal canto suo l’Australia offre un interessante, quanto unico modello di sviluppo del settore che si innesta con la sua tradiziona- le multiculturalità e con un’effettiva cultura progressista in fatto di diritti individuali a prescindere dalle differenze di genere, classe ed etnia, e dalle appartenenze politiche o religiose. La chiave della via australiana al teatro, e dunque anche al teatro delle disabilità, passa attraverso una politica di collaborazione e “democratizzazione” dei processi creativi e produttivi, e attraverso quelle due paroline che da sempre guidano la costruzione del paese e identificano l’approccio australiano al lavoro e alla società: fair go, una giusta opportunità per tutti. Anche nell’arte, così come nella vita quotidiana. Bruce Gladwin, Artistic Director di Back to Back Theatre, dice a proposito del suo gruppo: “In passato la compagnia era vista come un’organizzazione caritatevole che faceva qualcosa di buono per il benessere delle persone disabili. Con il passar del tempo, è stata riconosciuta come una voce artistica credibile capace di produrre un lavoro interessante… come un gruppo di attori che semplicemente prova a fare della buona arte” (Gladwin, citato in Challenging perceptions: Geelong’s Back to Back Theatre, Arts Victoria, 2014). Panorama internazionale timediale), un teatro indigeno di forte contenuto identitario e ambientale; un teatro comunitario che comprende teatro ragazzi, teatro etnico e teatro del sociale, tra cui spicca il teatro delle disabilità. In quest’ultimo in particolare, si è portato avanti un modello di lavoro davvero innovativo che di recente è stato oggetto di ricerca nel primo studio del suo genere in Australia, Beyond Access: the creative case for inclusive arts practice, a cura di Sarah Austin e pubblicato nel maggio scorso da Arts Access Victoria e University of Melbourne. Lo studio si basa principalmente sul concetto di ‘inclusive arts practice’, cioè di “una gamma di pratiche creative e di strategie estetiche che compongono l’attività artistica delle persone che vivono con una disabilità” (Austin, 2015). La Austin offre un quadro aggiornato di studi internazionali di riferimento, ma soprattutto contestualizza il caso australiano mettendo in evidenza come “in Australia l’introduzione nel 2006 del Victorian Disability Act ha permesso che il termine ‘inclusive’ diventasse d’uso comune nelle arti australiane, avendo la legge come primo obbiettivo quello di dare impulso all’inclusione e alla partecipazione delle persone con disabilità nelle attività comunitarie (Disability Act 2006: 14). Tale concetto ha legittimato il lavoro di alcune compagnie di teatro miste, formate cioè da attori con e senza disabilità, che attraverso un’eccezionale pratica di amalgama e di espressività individuale hanno gradualmente rinnovato, non solo l’offerta del teatro australiano nel suo complesso, ma anche le metodologie di inclusione e partecipazione delle persone disabili nei processi artistici professionali. Gruppi come Back to Back Theatre a Geelong, Rawcus a Melbourne, No Strings Attached, Restless Dance Theatre e Tutti Arts ad Adelaide hanno infatti costantemente puntato sulla professionalità e la qualità dei loro artisti come principio base fondamentale per una vera “inclusione” degli artisti disabili nella comunità delle arti in particolare, e nella società produttiva più in generale. La Austin scrive che in Australia, a differenza del Regno Unito e degli USA, “esiste poco dibattito pubblico sui processi creativi ed estetici degli artisti disabili, a eccezione della nota compagnia Back to Back, probabilmente la più celebre realtà australiana del settore con una significativa storia di premi e tour internazionali per molte delle sue produzioni” (Austin, 2015). Back to Back è di certo un esempio di estetica teatrale non solo per il teatro delle disabilità, ma anche per l’intera comunità delle * Drammaturgo e studioso di arti sceniche Abstract INCLUDING AND CREATING ART n the past decades Australia has improved not just economically, but also in its cultural offering. The policy implemented to represent a very diverse population through the arts, has resulted in a national debate about identity and accessibility within the concept of an “authentic” Australian theatre. In the sector of “disability theatre”, the introduction of the National Disability Act in 2006 has enhanced an inclusive artistic practice approach, that lead to the achievement of remarkable results. Theatre companies such as Back to Back Theatre and Rawcus have been able to develop their creative processes by merging in production environments actors with and without disabilities, all representatives of different esthetics and distinct creative expressions. I teatridellediversità 9 Panorama internazionale UNA PROVA APERTA DI RAWCUS Nel luglio scorso la compagnia teatrale Rawcus, in residenza presso la Melbourne Theatre Company per la prima fase di preparazione di un nuovo spettacolo, ha aperto le porte a osservatori dando loro la possibilità di assistere a una prova aperta. Questo è in breve ciò a cui ho assistito di Saverio Minutolo I l lavoro è in una fase embrionale senza nessuna idea di ciò che sarà lo spettacolo. La compagnia Rawcus è composta da attori con e senza disabilità, che oggi proveranno con un gruppo di cantanti professionisti in uno spazio scenico vuoto. Dopo le presentazioni e gli esercizi di riscaldamento, attori e cantanti iniziano a lavorare nella più assoluta “orizzontalità”. Diverse abilità, disablità ed extraabilità iniziano ad amalgamarsi. L’idea principale è creare, non tanto un gruppo, quanto una comunità di persone diversamente abili che prova a esprimersi organicamente. Per la prima prova gli attori restano fuori e i cantanti occupano lo spazio scenico. Questi iniziano a improvvisare vocalizzi liberi e suoni a cappella brevi o prolungati, componendo in breve un canto che ricrea un ambiente sonoro. Il primo cantante sceglie un suono e “provoca” con esso un altro cantante che a sua volta fa lo stesso con un altro e cosi via, fino ad arrivare all’ultimo della fila che integra tutti i suoni in corso in una sorta di “melodia”. Prende forma una composizione corale molto simile a una jazz session che cresce, tocca un picco e sfuma gradualmente. Conclusa questa prima improvvisazione, gli attori entrano in scena e si uniscono ai cantanti. Ora si tratta di provare un nuovo canto con gesti e azioni fisiche. Vengono assegnate le posizioni a formare un doppio semicerchio, un attore di fronte a un cantante. I cantanti iniziano una seconda composizione musicale usando lo stesso metodo della prima, mentre gli attori reagiscono 10 agli stimoli vocali e si passano a loro volta gesti o movimenti restando fermi sul posto. I passaggi sono lenti e aumentano gradualmente d’intensità, formando una composizione di movimenti in relazione ai suoni. Una volta ricevuto lo stimolo, attori e cantanti continuano a ripetere gli stessi suoni e le stesse azioni creando una composizione fisica e sonora che si sviluppa e acquista una forma unica. Gesti e suoni sono eseguiti in maniera semplice e precisa, a seconda delle abilità e delle possibilità espressive di ognuno. I due gruppi si amalgamano in modo armonico. Sono ripetuti vocalizzi, suoni brevi o prolungati che si sovrappongono al ritmo dei movimenti. E’ come un organismo fisico-sonoro che cresce, decresce e tiene in equilibrio costante ogni singola sua parte. Il ciclo si compie e si esaurisce dopo un arco vitale dalla giusta durata. Terminata la prova, attori e cantanti si siedono in cerchio per parlare di cosa hanno percepito durante l’improvvisazione, quali stimoli, azioni e reazioni sono avvenute nello spazio, e quale possibile filo rosso possa legarli in una struttura seppure embrionale. Terminata l’analisi, il gruppo inizia una seconda prova, questa volta con i cantanti e gli attori disposti uno di fronte all’altro su due file parallele. Se prima la direzione dei suoni e dei movimenti si è sviluppata lungo un doppio semicerchio fisso, ora invece solo i cantanti restano fermi sul posto mentre gli attori, ricevuto lo stimolo sonoro, sono liberi di sviluppare le loro azioni nello spazio scenico. Invece di ripetere gli stessi movimenti, ora cercano di crearne di nuovi e diversi. Una danza prende gradualmente forma. Ognuno esplora una propria possibile “narrazione” attraverso le proprie abilità fisiche e espressive, attraverso una serie di movimenti che appartengono soltanto a loro. Si formano diverse drammaturgie vocali e fisiche che vanno a impostare un’unica composizione “proto-drammaturgica”. L’obbiettivo resta quello di trovare “relazioni”, “associazioni” e “direzioni uniche”, in continua comunicazione tra loro. Gli attori sono fisicamente provati, a volte devono fermarsi, uscire e poi rientrare. Sono liberi di scegliere, e allo stesso tempo fanno parte della loro comunità danzante. Un attore torna a ripetere il proprio nome e chiede di iniziare di nuovo la sua serie di movimenti. Si decide quindi di interrompere la prova e ricominciarla da capo, con attori e cantanti di nuovo allineati uno di fronte all’altro. Un nuovo attore appena arrivato si unisce al gruppo. I cantanti ricominciano a provocare, gli attori ricominciano a reagire nello spazio. La nuova composizione è più veloce della precedente, meno timida, stavolta gli attori eseguono movimenti su suoni caotici e vivaci. La danza genera un’ambiente di grande dinamismo. Si ricrea un organismo “a lavoro”, con l’ultimo arrivato naturalmente integrato nella dinamica dei movimenti pur non avendo fatto parte delle improvvisazioni precedenti. La comunità ha incluso la sua improvvisazione individuale senza affanno, ha assorbito la sua diversità. Per la prova successiva, attori e cantanti ripartono mescolati in due file, libe- Catalogue, Rawcus, foto di Sarah Walker ri di iniziare a improvvisare quando si sentono di farlo. Stavolta è un attore a lanciare la prima provocazione con un movimento, raccolta da un cantante che innesca un altro attore, che provoca un altro cantante. Usciti dalle file, tutti si posizionano in ordine sparso nello spazio. Le ripetizioni si riducono e vengono esplorate nuovi sonorità e nuovi movimenti. Si evita la tentazione di un risultato estetico, ci si attiene a una ricerca di relazioni. Stavolta sono coinvolti anche suoni generati da un tecnico del suono che dall’esterno lancia nell’aria brevi passaggi musicali ed effetti sonori. Il risultato è coinvolgente e straordinario. Come alla fine delle prove precedenti, anche questa improvvisazione viene discussa e analizzata. Alcuni parlano di cosa hanno capito e provato, altri riflettono già su un principio estetico di identità. L’identità del gruppo. Per la prova seguente solo i cantanti tornano in scena a eseguire i loro suoni, alternati stavolta con lunghi silenzi. Gli attori, seduti fuori, aspettano a entrare restando fermi al proprio posto in attesa dell’impulso a muoversi. Ora proveranno a passare dalla ricerca di relazioni a una comunicazione più espressiva. Al tecnico del suono che ha ripreso a partecipare con le sue provocazioni sonore, si aggiunge un tecnico luci che inizia a lanciare anche provocazioni luminose. Mentre i cantanti compongono il loro coro, gli attori iniziano a entrare in scena. Qualcuno ci ripensa ed esce subito, altri provano delle azioni con un principio di narrazione, e poi tornano fuori. Tra continue entrate e uscite, non c’è mai un momento nel quale gli attori si ritrovano tutti insieme nello spazio. E’ come se ora sentissero l’esigenza di stare anche fuori a osservare le diverse azioni e le possibilità espressive degli altri. La loro osservazione riafferma l’inclusione degli altri. Anche i cantanti iniziano a uscire, osservare, rientrare e riimprovvisare. La comunità formatasi nello spazio scenico si ricrea anche al suo esterno, pronta a porre le basi per un possibile spettacolo di teatro. Un’amalgama di abilità, disabilità ed extraabilità è pronta a creare arte (Melbourne, 22 luglio 2015) Rawcus è una compagnia teatrale composta da attori e artisti con e senza disabilità, fondata a Melbourne nel 2001 e diretta dalla regista Kate Sulan. Il gruppo produce spettacoli di teatrodanza e visual art dalla poetica unica e originale, costruiti con rigore artistico e il necessario senso d’anarchia dei suoi componenti. Il teatro di Rawcus è una composizione di immagini in movimento basate su principi teatrali di plasticità, ritmo, danza e imprevedibilità. Nel corso degli anni il gruppo ha ottenuto numerosi riconoscimenti e ha presentato i suoi lavori in vari festival teatrali, incluso il Melbourne International Arts Festival. Collabora con diverse compagnie, tra cui la Melbourne Symphony Orchestra and la Chamber made Opera. Rawcus fa della lentezza dei suoi processi creativi e dell’unità del suo gruppo un tratto distintivo della propria arte, tanto da essere definito lo slow food of the theatre world di Melbourne. I suoi spettacoli prendono forma attraverso un lento e graduale lavoro di anni, svolto in costante contatto di scambio con la comunità e il mondo artistico locale. Non a caso, Rawcus produce anche workshops e progetti comunitari che mirano all’inclusività sociale e alla creazione di collaborazioni tra artisti di varie discipline e diverse abilità creative, come per esempio il primo Inclusive Flashmob (2011) mai svolto in Australia. Tra gli ultimi spettacoli di Rawcus si segnalano Catalogue (2014), rassegna teatrale danzata di diversi corpi e punti di vista sul mondo, Small Odysseys (2011), collage visivo e musicale di storie e immagini sui temi dell’intimità e dell’isolamento nella vita di tutti i giorni, e Another Lament (2010), spettacolo dedicato alla vita e alla musica del compositore inglese Henry Purcell, co-prodotto con Chamber Made Opera di Melbourne. Website www.rawcus.org.au Panorama internazionale RAWCUS Abstract A RAWCUS OPEN REHEARSAL n July 2015, the theatre company Rawcus spent one week in residency at the Melbourne Theatre Company to begin the foundations of a new full-scale work. In that period, Rawcus explored ideas, developed skills and offered a unique insight into their process. They opened their rehearsals to observers as part of the MTC program for theatre makers. Rawcus Artistic Director Kate Sulan, the Associate Artists Emily Barrie, Richard Vabre and Jethro Woodward, the Rawcus Ensemble and Voice and Dialect Coach Leith McPherson, have joined together in this residency to create a space for the unexpected to flourish. This is a brief summary of what I have witnessed as a privileged observ I teatridellediversità 11 Panorama internazionale CUBA PETER BROOK E LA REGIA AL FESTIVAL DI L’AVANA Uno sguardo sulla realtà teatrale cubana tra professionismo e arte nel sociale, tra case della cultura e festival internazionali di Elena Cometti * L’avana, Cuba, foto di Marco Sasia I l festival internazionale di teatro di L’Avana (FTH), nasce negli anni ‘80, ha cadenza biennale e nel 2015 è giunto alla sua sedicesima edizione, svolgendosi come di consueto a fine ottobre, tra il 22 e il 31, per l’esattezza. Dopo l’edizione dedicata a Stanislavskji, nel 2013, quella del 2015 è stata intitolata a Peter Brook allo scopo di dare risalto alla direzione scenica, all’arte della regia, nell’anno del novantesimo compleanno del regista internazionalmente riconosciuto tra i padri fondatori del teatro di ricerca, dell’indagine antropologica a teatro. Negli ultimi quindici anni la scena teatrale cubana, molto vivace dal punto di vista drammaturgico, autoriale, almeno dal 1959 in avanti (un esempio per tutti è rappresentato da María Antonia, di Eugenio Hernández Espinoza, considerato uno dei lavori teatrali più importanti tra quelli prodotti durante la prima decade della Rivoluzione Cubana) (1) incomincia a focalizzarsi maggiormente sulle prassi sceniche e sull’innovazione dei linguaggi. 12 Rafael Pérez Malo, vice presidente del Consiglio Nazionale delle Arti Sceniche, organismo del Ministero della Cultura Cubano che rappresenta gli artisti professionisti di tutta la Nazione e organizza il FTH: “Le proposte dei giovani sono osservate con interesse per il potere innovativo e per il valore espressivo delle loro opere, così come per l’utilizzo della tecnologia, nella presentazione del loro lavoro, per il superamento delle convenzioni -quarta parete, scatola scenica, tipica del teatro all’italiana- tutti elementi di rottura con il passato ormai assodati, che danno la misura di quanto le frontiere dell’arte si stiano ampliando; i giovani lavorano su proposte che privilegiano il processo piuttosto che il solo risultato e che si basano su di un progetto, nei quartieri, con le minoranze... soprattutto questo lavoro sul processo piuttosto che sul risultato è di grande importanza ed è caratterizzante del movimento teatrale odierno”. Nell’ultimo concetto si coglie bene la risonanza tra la sensibilità che ispira l’edizione 2015 del Festival Teatrale di L’Avana e la linea di pensiero che si riflette nella prassi scenica di Peter Brook. Panorama internazionale L’avana, Cuba, foto di Marco Sasia A Cuba, i giovani che portano a termine un percorso di studi nel campo artistico culturale, trovano sbocchi lavorativi nel settore di competenza e benché le remunerazioni siano minime, come per tutte le professioni a qualsiasi livello, si tratta di un lavoro come un altro e che gode di una certa considerazione. Allo stesso tempo le attività culturali e artistiche portate avanti dalle case della cultura di quartiere o municipali, nel caso delle cittadine di provincia, benché di natura amatoriale, nel senso che sono realizzate da appassionati e non da artisti di professione (tranne per quel che concerne gli insegnanti), sono anch’esse tenute in alta considerazione, poiché costituiscono il programma attuativo del sistema di formazione integrale che dopo i percorsi scolastici e universitari, garantisce la trasmissione di valori nella popolazione adulta. A riprova dell’importanza accordata alle case della cultura v’è il dato che, hanno spesso sedi prestigiose, in palazzi pubblici dall’architettura ricercata e personale amministrativo e gestionale che vi lavora a tempo pieno. Arte e cultura vengono infatti avvalorate come possibilità privilegiate per la soddisfazione delle necessità spirituali del singolo e della comunità, sono riconosciute come veicoli di arricchimento personale e sociale. Dall’esame dei programmi e documenti progettuali che esplicitano finalità e obiettivi delle attività artistiche promosse nei centri culturali, tale visione dell’arte è sempre presente. Le Case della Cultura sono strategiche anche per la prevenzione del disagio, la socializzazione e le politiche d’inclusione. I percorsi artistici nel sociale sono appunto condotti da queste realtà diffuse sul territorio e comprendono anche le attività teatrali nei penitenziari, negli istituti che ospitano persone con handicap o disturbi mentali, negli ospedali... La produzione artistica delle realtà di quartiere amatoriali o che operano nel sociale è di buona qualità, anche se spesso risulta penalizzata da supporti tecnici inadeguati o insufficienti, per esempio per quanto riguarda gli strumenti musicali o i costumi e soprattutto i supporti tecnologici. Le attività artistiche: letteratura, arte, danza, teatro e musica in primis, proposte dalle case della cultura, sono praticate e/o frequentate da tutte le fasce d’età con dirette conseguenze sulla preparazione culturale e sul peso che hanno gli interessi artistici nella vita della popolazione cubana. In effetti a Cuba: “Non manca il pubblico, soprattutto in occasione di eventi culturali, come festival e manifestazioni; i grandi eventi attraggono molto, è una tendenza internazionalmente diffusa”, sottolinea il vice presidente del Consiglio Nazionale delle Arti Sceniche. Tornando al festival, R. P. Malo, spiega come il criterio di selezione delle compagnie sia imperniato sulla valutazione della qualità artistica del prodotto presentato: “La selezione è basata sulla qualità del lavoro indipendentemente dal genere: teatro convenzionale, fisico, di parola, di ricerca... non importa, ciò che conta è che il pubblico, ogni pubblico, ha il diritto di fruire del genere che gli interessa, se c’è un pubblico, ogni proposta, indipendentemente dal tipo di proposta, trova spazio perché ogni pubblico ha diritto al suo spettacolo. Il festival non ha una specificità legata a un dato genere teatrale, ma esistendo a Cuba, e soprattutto nella capitale, un pubblico variegato e numeroso, tutti gli stili e i linguaggi trovano cittadinanza in un programma che nelle ultime edizioni del FTH ha proposto più di quaranta spettacoli in meno di dieci giorni, ospitando più di venti nazioni in quasi trenta differenti spazi tra teatri, sale polivalenti, nei quartieri, nei reparti oncologici degli ospedali pediatrici di L’Avana, presso strutture per ragazzi diversamente abili, nelle periferie. La capienza delle sale teatrali disponibili nella capitale non è sufficiente per far fronte a un movimento artistico cittadino che ospita più del cinquanta per cento del panorama professionale dell’intero Paese. La famosa Calle Linea (famosa per i cubani e per il mondo artistico internazionale, non ancora teatridellediversità 13 Panorama internazionale L’avana, Cuba, foto di Marco Sasia altrettanto per i turisti che frequentano l’isola durante tutto l’anno) (2), è la ‘Broadway cubana’: teatri, caffè-concerto, locali notturni dove si balla con la musica dal vivo a ogni isolato. A fronte di tale vivacità di offerta, ma anche di domanda, tutta interna al Paese con grande preminenza della capitale, la scarsità di risorse a disposizione, rappresenta una sproporzione problematica, benché le compagnie finanziate siano numerose. L’arte è sempre offerta come opportunità sia alle persone in difficoltà che a quelle che hanno sbagliato, che sono detenute: soprattutto i laboratori sono efficaci perché la fruizione di uno spettacolo è troppo limitata, mentre con i laboratori si fa un lavoro più continuativo. Nell’ambito del programma di formazione integrale, le arti hanno un ruolo sempre significativo, ma il contatto con la comunità più allargata è ancora circoscritto e va ampliato. Un esempio di tale impegno è rappresentato da “La Colmenita” compagnia di teatro ragazzi ambasciatrice dell’Unesco che lavora molto con le Case della Cultura nei quartieri, ma tali opportunità, che si sviluppano al meglio con i laboratori, vanno accresciute e non delegate all’impegno esclusivo delle compagnie giovanili o delle Case della Cultura, organismi artistico culturali che operano con efficacia nei quartieri ma i cui prodotti artistici non sono di natura professionale. Non a caso, nell’ambito del festival, si organizza un momento pedagogico, di riflessione teorica, con conferenze, lezioni magistrali... perché per noi il ruolo dell’artista è innanzitutto formativo, pedagogico, di educazione del pubblico e della popolazione in generale, ma per fare con cognizione di causa tale lavoro di formazione l’artista deve conoscere il passato, dialogare con i maestri, per arrivare, infine, a creare qualcosa di nuovo!”. 14 Si tratta di un nuovo richiamo ai maestri del teatro, ai padri fondatori del teatro nel Novecento, a cui le ultime edizioni del FTH sono state ispirate, a interpretare l’attuale direzione d’indagine dell’arte teatrale a Cuba.(3) * Regista e studiosa di teatro Note 1 www.drammaturgia.it Recensioni. Diego Passera, “Theatre Research International”, vol. 35, n. 2, luglio 2010. 2 N.d.r. 3 Un particolare ringraziamento va a Tania Vivian Arguelles Fernand, segretaria di edizione della Televisione Cubana Per approfondimenti sul FTH: www.cubaescena.cult.cu; Festival de Teatro de La Habana su facebook Abstract PETER BROOK AND THE DIRECTING AT 2015 HAVANA FESTIVAL he international festival of theater of Havana was founded in the ‘80s, it is held every two years and, in 2015, it took place between 22 and 31 October. After the edition dedicated to Stanislavskji, in 2013, when the interview presented here was made, the 2015 edition is dedicated to Peter Brook in order to emphasize the art of directing, as well as to celebrate his ninetieth birthday! Main feature of the festival is to consider all possible theatrical genres, says RP Malo, vice president of the National Council of Performing Arts: “The criterion for selection of the festival is based on the quality of work regardless of gender.” Particular attention is given to youth companies for their contributions in terms of innovation and cultural regeneration from the bottom, in the neighborhoods, with minorities... T UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL TEMPO È possibile registrare la presenza del Teatro Universitario negli Stati Uniti fin dalle origini dell’Unione Panorama internazionale STATI UNITI di Maria S. Horne L a storia del Teatro Universitario è abbastanza recente nel continente americano, in particolare negli Stati Uniti, in parte a causa della giovane “età” e essenza di questo paese. Certo, non ci sono abbastanza dati per formulare teorie generali sul tema, che è tanto vasto e diversificato quanto il paese stesso. Questo articolo prevede un rapido viaggio attraverso il tempo, esponendo dati registrati e storici riguardo alla presenza del teatro universitario negli Stati Uniti sin dall’inizio. Il continente americano attrasse l’attenzione del mondo dominante europeo a partire dal 1492, in un’epoca in cui le università europee erano attive da secoli. Dal momento dell’arrivo di Colombo in America, sono comunque trascorsi più di 100 anni prima che l’Impero britannico stabilisse la sua prima colonia a Jamestown, in Virginia, nel 1607. Nel 1619, il primo College, il College di Henricopolis, venne costruito nella città omonima in Virginia, come previsto da un atto costitutivo regale del 1618 Meno di quattro anni più tardi, il college e la città bruciarono durante il massacro del 1622. Il college non è stato ricostruito, e, successivamente, nel 1624, la città cessò di esistere(1), ponendo fine definitivamente al futuro del primo college nelle colonie. La successiva università venne realizzata quasi una decade dopo, nel 1636, a Cambridge, Massachusetts, dove l’università di Harvard venne istituita su votazione del Great and General Court of the Massachusetts Bay Colony. Harvard è considerata la più antica università degli Stati Uniti. Invece, l’università europea attiva più antica nel mondo occidentale è l’Università di Bologna, che fu fondata nel 1088. L’Università di Bologna precede quindi Harvard di 548 anni. I primi segnali di attività teatrale nelle colonie sono scarsamente documentati, spesso frugali o poco attendibili. Inoltre, i dati storici riguardo al teatro negli USA si focalizzano principalmente sull’evoluzione del teatro di professione. Alcune storie includono anche compagnie amatoriali, ma le testimonianze in merito al teatro all’università sono scarse. Nella colonia del Massachusetts, si suppone che una rappresentazione teatrale studentesca di un’opera sia stata organizzata ad Harvard nel 1690. Il racconto di questo evento è stato riportato nel 1919 dallo storico di teatro americano Arthur Hornblow in A History of the Theatre in America, vol. 1 (Storia del Teatro in America), dove afferma: “Nel 1690, degli studenti di Harvard realizzarono una rappresentazione teatrale a Cambridge (Massachusetts) della tragedia Gustavus Vasa di Benjamin Colman, prima opera teatrale scritta da un americano e rappresentata in America, di cui non abbiamo conoscenza”. (2) Tuttavia, non è certo che l’opera sia stata veramente scritta e rappresentata, come riportato da Hornblow. Esistono tracce di un Benjamin Colman ad Harvard nel 1690, quando Colman, studente, avrebbe avuto 17 anni, ma non esiste nessuna prova in merito all’opera scritta o alla rappresentazione. Nel 1921, tre anni dopo la pubblicazione di Hornblow, l’esistenza di questa rappresentazione teatrale del 1690 è stata seriamente contestata da Adolph B. Benson nel suo saggio di ricerca “Was Gustavus Vasa” the First American Drama?” (“Gustavo Vasa “ è stato la prima opera teatrale americana?) (3). Saltando in avanti fino al 1693, la successiva università più antica nelle colonie, il College di William & Mary, venne stabilito a Williamsburg, in Virginia, e venne seguito dal St. John’s College di Annapolis, in Maryland, nel 1696, e dall’università di Yale nel New Haven, Connecticut, nel 1701. Tra il 1730 e il 1775, vennero istituite un’altra dozzina di università, soprattutto nei territori del New England. Queste istituzioni accademiche del Nord America al tempo delle colonie precedettero la Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e la nascita degli Stati Uniti come nazione. Pertanto, pur se queste università si trovano geograficamente nel territorio attuale degli Stati Uniti, da un punto di vista storico sono state fondate dal governo britannico. Ci sono testimonianze che dimostrano che le attività teatrali vennero perseguite nei college, in forma di odi e dialoghi recitati pubblicamente durante le commemorazioni o in occasione di eventi teatridellediversità 15 Panorama internazionale Saul Elkin 1970s importanti e in onore del re. Tali performance pubbliche rappresentarono un’opportunità per i giovani uomini colti di perfezionare le loro abilità oratorie e di parlare in pubblico. In seguito, questi dialoghi evolvettero e incominciarono a incorporare degli elementi teatrali come l’azione, l’ambientazione e la trama. Questo è quel che accadde ad una rappresentazione di studenti avvenuta nel 1702 all’università, probabilmente presso il College di William & Mary, un’istituzione che, nel corso della storia, si è sempre vantata di tale evento: Nel 1702, un gruppo di studenti presentò un “colloquio pastorale” in latino per il Governatore Reale, e questa fu la prima rappresentazione teatrale in America. (4) Per quello che concerne il teatro universitario, è importante sottolineare che la prima struttura adibita a teatro non venne costruita fino al 1761 nelle colonie. E non deve sorprendere che questo teatro fu costruito a Williamsburg, in Virginia, all’interno di una cultura e di una società che si era avvicinata alla recitazione teatrale. Questo primo teatro venne utilizzato da professionisti e amatoriali e fu lo stesso teatro impiegato dagli studenti del College William & Mary per rappresentare, nel 1736, quella che viene ritenuta la prima produzione teatrale universitaria. Un annuncio della rappresentazione venne pubblicato su The 16 Virginia Gazette: “10 Settembre, 1736 Questa sera verrà eseguito al Teatro, dai giovani Signori del College, The Tragedy of CATO: E, il Lunedi, Mercoledì e Venerdì prossimo, verranno rappresentate le seguenti Commedie, dai Signori e le Signore di questo Paese, vale a dire: Il Busy-corpo, il Recruiting-Officer, e il Beaux-Stratagem”. (Virginia Gazette, William Parks, 10 settembre 1736) (5) Lo spettacolo presentato da questi studenti o, come loro stessi si definivano, Signori del College, era il Catone di Joseph Addison, una tragedia in cinque atti, che è stata una delle opere letterarie predilette a quei tempi, di contenuto politico. Scritta nel 1712, l’opera esplora i temi della libertà, la virtù e la resistenza alla tirannia, utilizzando come sfondo la lotta politica tra Catone e Cesare. L’opera di Addison è stata considerata come musa e ispirazione letteraria per i Padri Fondatori e la Rivoluzione Americana, nonché fonte di citazioni famose come quella di Patrick Henry: “Datemi la libertà o datemi la morte!”, che si crede fosse un riferimento diretto al secondo Atto , Scena 4, quando Catone dice: The Hand of Fate is over us, and Heav’n Exacts Severity from all our Thoughts : It is not now a Time to talk of aught But Chains, or Conquest; Liberty, or Death. (6) (La Mano del Fato è sulle nostre teste e il Paradiso Pretende rigore in ogni nostro Pensiero: Non è Tempo di parlare del nulla Ma di Catene, o Conquista; Libertà, o Morte) Nel 1736, la notizia sul giornale della performance di Catone è forse l’unica documentazione disponibile di una rappresentazione teatrale fatta da studenti universitari in quel periodo. Tuttavia, è probabile che ci fossero state altre performance simili in altre università, come si ipotizza esaminando gli scritti su varie riviste studentesche. Eppure, mentre i college erano in qualche modo favorevoli al dramma classico, le visioni puritane rimasero salde in merito all’intrattenimento teatrale, in particolare nelle colonie del nord. Le compagnie di professionisti dovettero affrontare continuamente una forte opposizione da parte di gruppi religiosi e dovettero assicurarsi il permesso del governo prima di poter recitare pubblicamente. Le ostilità verso la recitazione teatrale culminarono con la messa al bando di rappresentazioni e altre attività in tutto il paese, incominciando con il Massachusetts nel 1750 e proseguendo con altre colonie. Maryland e Virginia furono le uniche due colonie americane che non adottarono leggi per proibire spettacoli teatrali durante il XVIII secolo. Esistono testimonianze di odi e dialoghi fiche interessarono anche l’università e il corpo studentesco, pur se in piccola parte. Dopo la Guerra Civile Americana, l’abolizione della schiavitù nel 1865, con il 13 ° emendamento della Costituzione, ha aperto la strada all’istituzione di college afro-americani. Alla metà del XIX secolo, alcune donne vennero ammesse in università miste e furono anche istituiti dei College femminili. In merito allo sviluppo teatrale, vi sono pochissime testimonianze riguardo al teatro universitario in quel periodo. Ad ogni modo, vi sono informazioni sufficienti che dimostrano l’esistenza di club letterari e teatrali all’università. Nel 1852, L’Associazione Teatrale del College di Georgetown, nota anche come Società Teatrale La Maschera e il Gingillo (The Mask and Bauble Dramatic Society), prese piede alla Georgetown nel quadro dell’educazione gesuita diffusa nelle antiche università Cattoliche e Gesuite degli USA. Con base a Washington D.C e situata nella stessa università, l’associazione studentesca è considerate come la più antica compagnia teatrale universitaria ancora attiva nel paese. L’istituzione di club e società universitari fiorì nei college di tutto il paese nel corso del XIX secolo. Mentre queste organizzazioni studentesche offrirono opportunità di partecipazione per gli studenti, l’amministrazione universitaria considerò tali attività teatrali come extracurricolari che, pertanto, non potevano ricevere crediti accademici. Infatti, come potevano queste attività essere considerate accademiche quando la prospettiva generale tendeva a considerare le rappresentazioni amatoriali scadenti? Certo, il fatto che i gruppi teatrali universitari mancassero di credibilità e dovessero affrontare molte sfide non aiutò, come Kenneth Macgowan - critico teatrale, produttore e capo del dipartimento di arti teatrali presso la UCLA – ha sottolineato: I gruppi di recitazione amatoriali nei college tendono ad essere solo un po’ più trascurabile rispetto ai gruppi di recitazione amatoriali nelle chiese o tra la società eletta. Le organizzazioni studentesche possono vantare pochissimi attori di valore. I partecipanti recitano insieme troppo poco e per un periodo troppo breve per poter dar vita a un gruppo efficace. Peggio ancora, al di fuori delle università miste gli uomini di solito interpretano le parti delle donne. Tutto sommato, il teatro amatoriale in università non merita alcuna attenzione particolare ... (9) Non vi furono nuovi sviluppi fino all’inizio del XX secolo, quando il teatro, come materia di studio, venne introdotto ufficialmente nel curriculum accademico delle università. Il processo che ha elevato il teatro da attività extracurriculare a valida materia di studio dovette affrontare molti ostacoli, come viene riportato nella Valutazione Nazionale del Teatro Americano: Una lotta epica di questo secolo è stato il tentativo di un piccolo gruppo di idealisti realistici di creare un teatro educativo. Non è stato facile portare questo multiforme, sospettoso, e spesso frainteso bastardo dentro le aule dei college americani. Non c’erano precedenti stranieri, né prototipi da usare come modello o per stabilire una sanzione accademica. Facoltà universitarie e presidenti fecero resistenza contro lo studio del teatro fino a quando poterono; nel momento in cui dovettero arrendersi, concessero un minuscolo spazio per la letteratura teatrale nell’offerta accademica. (10) Panorama internazionale composti ed eseguiti in diverse università, ma queste non erano di fatto rappresentazioni di opere, e quindi non coincidevano con l’attività teatrale al college, bensì con attività complementari delle università. Per illustrare le caratteristiche di tali attività nei college durante la seconda metà del XVIII secolo, è utile considerare i titoli e le finalità di queste odi: “Un Esercizio: con un dialogo (di Provost Smith) e un’Ode, consacrata alla memoria della sua Graziosa Maestà Giorgio II”, fu scritto da Francis Hopkinson e presentato durante le cerimonie di inizio anno del College di Filadelfia nel 1762; il College del New Jersey rappresentò “La gloria militare della Gran Bretagna” nel 1763 e, più tardi nel 1771, “La Gloria crescente dell’America”. La corrente dominante delle università americane durante quel periodo non sembrava affatto favorevole alle attività teatrali. Il clima accademico era ancora in accordo con le idee politiche e religiose contrarie alle rappresentazioni pubbliche nella metà del XVIII secolo, una visione destinata a perdurare anche nel secolo successivo. Ad esempio, Timothy Dwight, preside dello Yale College, espresse le proprie opinioni negative in merito alla recitazione in “An Essay on the Stage: In Which the Arguments in Its Behalf, and Those against It Are Considered, and Its Morality, Character, and Effects Illustrated.” (Un Saggio sul Teatro: in cui vengono considerate le argomentazioni a favore e contrarie in merito, e vengono illustrate la sua moralità, la sua natura e i suoi effetti). (7) A Dwight è anche attribuita la citazione: “Permettersi di avvicinarsi al teatro rappresenta niente meno che la perdita del più importante dei tesori, l’anima immortale.” (8) Il XIX secolo ha portato un’ondata di modifica nel paesaggio geografico degli Stati Uniti. Seguendo il percorso di espansione verso ovest, le dimensioni del paese vennero raddoppiate con l’acquisto della Louisiana nel 1803. Il territorio continuò ad espandersi con l’aggiunta della Florida nel 1819, l’annessione del Texas nel 1845, l’acquisizione dell’Oregon nel 1846, l’incorporazione di altri sei stati dopo la guerra con il Messico nel 1848 e altri territori che furono aggiunti nel secolo successivo. Con l’espansione territoriale, nuovi linguaggi, nuove culture, nuove etnie, identità e tradizioni vennero ereditati, anche se non sempre incorporati nel tessuto della nazione. L’espansione ha portato sia il conflitto che il cambiamento. A loro volta, questi conflitti e le modi- Nessun corso di teatro venne organizzato formalmente all’università fino al 1900. Guadagnarsi un posto nell’offerta didattica, anche se all’interno del programma di letteratura, segnò un enorme passo in avanti per il teatro come disciplina, ma vi era ancora un abisso tra le semplici letture e le rappresentazioni sul palcoscenico. Le vaste arti dello spettacolo necessitavano di più di uno spazio accademico nel corso di letteratura. L’insegnamento del teatro come disciplina richiedeva una visione che comprendesse ulteriori punti di vista, quali recitazione, regia, progettazione, drammaturgia, e altro ancora; in breve, un esteso e approfondito corso di studio. A questo proposito, George Pierce Baker divenne pioniere di un nuovo approccio nell’insegnamento durante un corso di teatro al Radcliffe College nel 1903; un corso che ha ulteriormente sviluppato presso l’Università di Harvard, un anno dopo, con il titolo di Inglese 47 e con un’attenzione particolare al processo creativo. Nel 1913, Baker aggiunse anche una componente extracurriculare nel suo corso, creando uno spazio per la produzione di opere teatrali, con il titolo di 47 Laboratorio. Perché questo laboratorio era extracurriculare e non un corso per i crediti scolastici? Perché Baker non fu in grado di convincere la dirigenza ad approvare la creazione di un corso in cui gli studenti potessero dar vita al teatridellediversità 17 Panorama internazionale Georgetown University teatro sul campo; vale a dire muoversi dal concetto alla rappresentazione vera e propria, dalla scrittura di commedie al portarle sul palcoscenico. Nel laboratorio di Baker, gli studenti impararono a conoscere tutti gli aspetti del teatro e della performance, e seppure gli studenti non ricevevano nessun credito accademico, il laboratorio attrasse molti partecipanti che sono diventati famosi drammaturghi, come Eugene O’Neill. A causa di un mancato supporto alla sua visione, Baker abbandonò Harvard e si trasferì a Yale nel 1925, dove diresse un nuovo reparto di Teatro presso la Scuola di Belle Arti. Alla fine del 1920, grazie agli ideali e al lavoro di alcuni pionieri del campo, varie università incominciarono a dar vita a dipartimenti di teatro e recitazione, mentre altri college proseguirono nel rafforzare l’offerta accademica riguardo al teatro all’interno dei dipartimenti di inglese. Si stava sviluppando un movimento ideologico e Baker non era solo; vi furono altri importanti innovatori che contribuirono a rafforzare l’importanza del teatro nelle università del paese. Sono troppi per poterli nominare tutti rapidamente, ma il loro lavoro gettò le basi per ciò che sarebbe avvenuto: una crescita esponenziale delle arti performative all’università. Al giorno d’oggi è raro imbattersi in un college che non presenti il teatro nella propria offerta curriculare, sia che si tratti di un vero dipartimento che di un singolo pro- 18 gramma. Al tempo stesso, la performance teatrale viene presentata all’interno della nota “stagione teatrale” universitaria, che prevede varie opere e si rivela costantemente un orgoglio per studenti, istituti e famiglie. Prendendo ad esame una realtà più vicina a me, presso l’Università di Buffalo, L’Università Statale di New York, dove sono stata un membro della facoltà negli ultimi venti anni, un percorso simile è stato realizzato fino a giungere al nostro Dipartimento di Teatro e Danza. La nostra storia è molto simile a quella di altri dipartimenti di teatro negli Stati Uniti e ho voluto citarla brevemente qui per creare una testimonianza, dal momento che nessun documento scritto esiste ancora, sia nel dipartimento che all’università. Nella città di Buffalo, nella parte occidentale di New York, l’Università di Buffalo è stata fondata con un atto costitutivo promosso da una legislatura dello Stato di New York, l’ 11 maggio 1846, con l’autorizzazione di concedere qualsiasi tipo di laurea. (11) La Facoltà di Medicina è stata stabilita per prima, seguita da Farmacia, e quindi la Legge e Odontoiatria. Seguirono altre discipline. La prima squadra di calcio universitaria si è formata nel 1894. Il primo concerto del Glee Club universitario ha avuto luogo nel 1897, realizzando la prima performance documentata nella storia. Il primo dipartimento di Arti e Scienze è stato fondato nel 1909 ed è poi divenuto un college nel 1915. Nel registro storico dell’ università non vi è tuttavia alcuna menzione di quando il dipartimento di Teatro e Danza è stato fondato. Eppure, possiamo presumere che i corsi di teatro venivano svolti all’interno del College di Arti e Scienze, e sappiamo con certezza, grazie a una fonte diretta, che alla fine degli anni Sessanta un discreto programma teatrale venne inserito nell’allora Dipartimento di Oratoria. Per documentare queste affermazioni, ho chiesto al mio caro amico e collega, il leggendario Saul Elkin, ora professore emerito dell’Università di Buffalo, di raccontare come si è formato il dipartimento, considerando che lui si trovava proprio lì quando è successo. Saul ha affermato: In breve… Sono arrivato all’Università di Buffalo nel 1969 quando il Teatro non aveva ancora dato vita ad un dipartimento, ma veniva trattato all’interno di un “Programma” appena separato dal Dipartimento di Oratoria. Era di piccola entità. Ward Williamson era preside, Esther Kling dirigeva le attività, Julia Pardee insegnava la maggior parte dei corsi di letteratura, e poi c’ero io. Io insegnavo Introduzione e poi “l’intera sequenza Recitativa”. Non so bene come sono riuscito a farlo… e ho anche diretto un’importante produzione ad ogni semestre. Il dipartimento crebbe leggermente due anni dopo, quando Gordon Rogoff divenne preside (insegnava re- Dal 1970, il dipartimento si è ampliato per diventare il Dipartimento di Teatro e Danza. Ora offre ora una serie di diplomi di laurea in diverse discipline, tra cui Teatro, Performance teatrale, Musical, Danza, Design e Tecnologia. In aggiunta alla laurea, il reparto ha recentemente acquisito un Master in Arti e un dottorato di ricerca in teatro e performance che si rivolgono ad un interesse sempre crescente degli studenti nel campo. È attualmente in fase di progettazione un MFA (diploma post universitario) in Coreografia. La stagione di produzione teatrale in programma offre agli studenti l’opportunità di cimentarsi in performance e progettazione, come anche fare tirocini con partner professionali. Il progetto di scambio Internazionale Artistico e Culturale del dipartimento (IACE) offre una vasta gamma di programmi che comprendono visite scolastiche, spettacoli internazionali e conferenze, un laboratorio di ricerca creativa e una programma di studio all’estero, a Londra. Gli studenti hanno anche la possibilità di dirigere, progettare, recitare e produrre i propri spettacoli all’interno del dipartimento e con il tutoraggio della facoltà. Questo è solo un breve elenco delle attività. Allo stesso modo, nelle università degli Stati Uniti, un’orda di programmi teatrali ha subito modifiche analoghe, trasformandosi da attività extracurricolari a facoltà di laurea autonome. La trasformazione da intruso in un’area estranea a degno membro della comunità accademica è stata una sfida tormentata ma anche un cammino ricco di opportunità. Molti dipartimenti ci sono riusciti ma, lungo il cammino, alcuni non ce l’hanno fatta. Recentemente, alcune università hanno chiuso i loro dipartimenti di teatro oppure li hanno accorpati ad altre unità, ma attualmente non sembra essere un rischio diffuso. Questo viaggio attraverso il tempo è stato vantaggioso per le università negli USA. Ad ogni modo, divenire dipartimento all’interno del college non equivale ad ottenere una levatura paritaria. Il progresso non è lineare. Vi sono battute d’arresto, guadagni e perdite. La lotta per eguali diritti non è finita, ci attendono nuove sfide e opportunità. Note 1 Priscilla Williams, “Henricopolis, America’s First College,” Richmond Then and Now. Newspaper Articles. www.richmondthenandnow.com/Newspaper-Articles/Henricopolis.html 2 Arthur Hornblow, A History of the Theatre in America from Its Beginnings to the Present Time. Vol 1. (Philadelphia: J.B. Lippincott Company, 1919), 2140. 3 Adolph B Benson, “Was “Gustavus Vasa” the First American Drama?,” Scandinavian Studies and Notes, Vol. 6, No. 7 (1921), 202-209, URL: http:// www.jstor.org/stable/40915091 4 William & Mary,Arts & Sciences, Teatro, Oratoria e Danza, Programma Teatrale, About, Storia www.wm.edu/ as/tsd/theatre/about/history/index.php 5 Hunter D. Farish, The) Playhouse (First Theatre) (NB) Documentazione Storica, Blocco 29 Edificio 17A. Inizialmente chiamato: “The First Theatre” (Il Primo Teatro) 1940, Colonial Williamsburg Foundation Library Research Report Series – 1583, Colonial Williamsburg Digital Library, Williamsburg, Virginia 1990. http://research. history.org/DigitalLibrary/View/index. cfm?doc=ResearchReports\RR1583. xml 6 Joseph Addison, Cato. A tragedy. As it is acted at the Theatre-Royal in Drury-Lane, by His Majesty’s servants. By Mr. Addison. Dodicesima Edizione. (London, MDCCXXVIII. 1728), 45. Raccolta online del Diciottesimo secolo. Gale. 7 Timothy Dwight, An Essay on the Stage: In Which the Arguments in Its Behalf, and Those against It Are Considered, and Its Morality, Character, and Effects Illustrated.(Middletown, CT: Sharp, Jones, & Co, 1824). 8 Kenneth MacGowan, Footlights across America, Towards a National Theater (Luci alla ribaltà attraverso l’America. Verso il teatro nazionale). (New York: Harcourt, Brace and company, 1929), 107. 9 MacGowan, Footlights across America, 112. 10 Robert Edward Gard, Theater in America; appraisal and challenge for the National Theatre Conference, I ed. (Madison, Wis., Dembar Educational Research Services, 1968), 74. 11 Archivi universitari, Registro degli eventi dell’Università di Buffalo, www.library.buffalo.edu/archives/ubhistory/timeline.php Panorama internazionale citazione avanzata e i vari aspetti della regia), inoltre venne aggiunto un secondo insegnate di Recitazione. Quando Gordon se ne andò, io divenni preside (1975) e rimasi in carica per vent’anni, nonché per brevi periodi o in seguito in attesa di sostituti. Durante i miei vent’anni il dipartimento crebbe. Molti professori si unirono a noi… l’offerta didattica si estese… la facoltà si fece più chiara e definita… Diedi inizio al Shakespeare Festival nel 1976 che uscì dalle porte dell’università nel 1990 per diventare un festival indipendente… Sono rimasto direttore artistico per tutti questi anni e quest’estate festeggiamo il nostro 40° anniversario (accidenti!). Inoltre, non mi ricordo di preciso in che anno accadde, ma fui responsabile dell’introduzione della danza nel dipartimento. MARIA S. HORNE È professoressa di ruolo presso il Dipartimento di Teatro e Danza e Direttore fondatore del programma di Scambio Internazionale Artistico e Culturale all’Università di Buffalo, Università di stato di New York. È un insegnate di grande valore internazionale e ha ricevuto riconoscimenti per il suo lavoro, è regista, attrice, produttrice e giudice delle arti performative. È vicepresidente dell’Associazione Internazionale delTeatro Universitario (AITU-IUTA) e consulente per diverse organizzazioni internazionali. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti l’ha nominata Specialista di Cultura Americana in Costa Rica, Estonia e Paraguay. Ha ricevuto numerosi premi, compreso due SUNY Chancellor’s for Excellence (Detentore di Eccellenza) per l’insegnamento e l’internazionalizzazione. Ha presentato il proprio lavoro accademico e artistico presso le principali università e organizzazioni in 27 paesi. Le sue aree di ricerca sono la metodologia e la pedagogia della recitazione in congiunzione alla cognizione e alla neuroscienza. Abstract A GLIMPSE THROUGH TIME he history of University Theatre is moderately recent in the American continent, specifically in the United States, due in part to the young age and nature of this country. Certainly, there is not enough recorded data to support general assertions on the topic, which is as vast and diverse as the country itself. This article takes a swift tour through time, pointing at chronicled and historical data that supports the presence of university theatre in the United States from its beginning T teatridellediversità 19 Panorama internazionale ARMENIA NASI ROSSI IN ARMENIA! Un viaggio nella memoria del centenario del genocidio armeno 20 Yerevan (Armenia), esterno Mausoleo del Genocidio, foto di Italo Bertolasi di Italo Bertolasi* Panorama internazionale Yerevan (Armenia), interno Mausoleo del Genocidio, foto di Italo Bertolasi I l nostro clown tour in Armenia nel maggio 2015 é stato voluto dal filantropo Ruben Vardanyan, fondatore della banca “Troika Dialog” che ha invitato Patch Adams con altri 20 clowns provenienti da ogni parte del mondo. Tra questi, come italiani, io e Ginevra Sanguigno che da anni collaboriamo a queste avventure con Patch. Ruben ci dice con convinzione: “Credo nell’amore e nella attitudine positiva delle persone. Io stesso sono armeno e la presenza di questa allegra tribù di clown può offrire grandi opportunità di crescita, confronto ed amicizia per la mia gente”. Altro “angelo” sponsor in questo viaggio la bellissima Maria Yeliseyeva, fondatrice dell’associazione umanitaria “Maria’s Children” che a sua volta ha aggiunto a noi altri dieci clown, per lo più ex orfani aiutati nel passato dalla stessa Maria e volontari russi. La nostra presenza coincideva con le celebrazioni per il centenario del genocidio definito dagli armeni “il grande crimine” perpetrato dalle milizie dell’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1916 e che causò circa 1,5 milioni di morti. Nello stesso periodo storico l’Impero Ottomano aveva condotto attacchi simili contro altre etnie - assiri e greci - in un vero e proprio progetto politico di “pulizia etnica”. Patch Adams é stato il primo a portare i clown in guerra e ha accettato con entusiasmo l’invito di ritornare in queste belle e martoriate terre del Caucaso. Dal 2002 porta i suoi amici clown - che si fanno chiamare ambasciatori di pace e del sorriso - nei paesi devastati dai conflitti armati. Con lui avevamo già partecipato alle missioni in Afganistan, Cecenia e Ossezia del Nord, Gaza e Israele, Cambogia, Nepal, visitando anche i campi profughi ai confini della Siria. Patch ci spiega: “Ho voluto portare i clown fuori dal circo e non solo negli ospedali decidendo di andare anche in contesti difficili e rischiosi. Anche in zone di guerra. Senza armi ma invece dotati di buone dosi di coraggio, cordialità e benevolenza. Fu subito evidente che l’essere amabili e cordiali predisponeva ad un caloroso contatto umano. E’ bizzarro riflettere sul perché in questo mondo abbiamo pregevoli università, infinite pubblicazioni sulla libertà e la pace e su altre idee gloriose ma, a tutt’oggi, non sappiamo ancora cosa fare per sconfiggere le guerre. In guerra l’amore può trasformarsi davvero in una “arma” alternativa perché dove c’è amore non ci sono battaglie. Quando pensiamo al ruolo del clown che agisce in situazioni di gravi conflitti e di guerra, almeno per quel che mi riguarda, mi viene alla mente quel pensiero che ricorre ogni volta che riflettiamo che l’uso della violenza è sempre e sempre sbagliato”. In Armenia la nostra prima visita é dedicata al museo dell’olocausto eretto sulla bella altura di Tsitsernakaberd con vista sulla capitale Yerevan e sul monte Ararat. Vestiti in modo sobrio, così ci era stato detto di presentarci, abbiamo offerto garofani bianchi e le nostre lacrime al braciere che ricorda con il suo fuoco eterno le tante vittime del genocidio. Nelle altre giornate abbiamo visitato orfanotrofi, ospedali pediatrici, centri d’accoglienza per chi é fragile e svantaggiato. Il nostro tour ci ha portato anche, attraversando praterie e foreste stupende nelle cittadine di Gyumri, Vanadzor e Dilijan. In quest’ultima località Patch ha regalato la sua “lectio magistralis” agli studenti dell’UWC college. Una scuola d’eccellenza che vuol fare dell’educazione una forza per riunire popoli, nazioni e culture per la pace e per un futuro sostenibile. Il network UWC - United World Colleges -comprende 15 istituti d’eccellenza sparsi nel mondo che hanno come logo un mappamondo con al centro scritto uno strano invito: “Sei abbastanza pazzo e stravagante per studiare all’UWC?”. Le giornate si svolgevano con due visite di due o tre ore: una nella mattinata ed una nel pomeriggio. Vere e proprie “lezioni d’amore” che sono state ancora una volta un invito all’ascolto empatico e rispettoso e al prendersi cura portando la nostra attenzione ai bisogni e ai sentimenti dell’altro. Il “clown del cuore” é un entusiasmatore, che sa ricreare conforto, calore umano ed armonia. Per teatridellediversità 21 Panorama internazionale Yerevan (Armenia), interno Mausoleo del Genocidio, foto di Italo Bertolasi Patch il trucco del clown può attivare intorno a sé energie curative e trasformative. Ma si dovrà essere umanamente autentici, cioé sinceri, compassionevoli, creativi, espressivi, elegantemente disgustosi, imprevedibili, intimi e vicini al cuore degli altri. Ma sempre eticamente rispettosi dei fragili “confini” di chi é stato ferito. In viaggio ci si può sentire di più “cittadini del mondo” che sanno includere ogni diversità. E ancora testimoni di pace, abili in ogni interazione umana e capaci di rimettere sempre al centro la persona nella sua globalità. Perché oggi la vera rivoluzione consiste nello “stare assieme”. Nel fare tribù. Lo stile di Patch é inconfondibile: quando entra in una struttura chiede sempre di essere accompagnato dal paziente più 22 grave. Per poi passare tutto il tempo con lui. Due o tre ore per diventare amici. Approfondendo, in un clima di fiducia ed intimità , una conoscenza reciproca. Allora possono accadere dei veri miracoli. La fiducia apre le porte ad un flusso di energia gioiosa e ad un contatto fisico via via più intenso. Carezze, incontro di nasi - il nasone rosso di Patch é una specie di terza mano che si appoggia dappertutto - ma anche abbracci e sguardi che trasmettono emozioni “fragili” che sono le più significative della vita e che a chi soffre comunicano”con la loro tristezza, timidezza speranza e inquietudine. Con la gioia e il dolore dell’anima”. Gli altri clown che accompagnano Patch interagiscono con repertori più classici: giocoleria, bolle di sapone, acrobatica ed altri “trucchi” comunque creati per generare stupore e vicinanza umana. Maria Yeliseyeva, con i suoi ex orfani e clown crea invece grandi murales. In Armenia ha dipinto le pareti di una scuola di Yerevan e di un orfanatrofio di Gyumri. Ginevra é l’unico clown italiano in questo tour armeno, “danza” da più di vent’anni dovunque emergano fragilità, con maestria e ipersensibilità. Offrendo cura, conforto e sostegno affettivo con una originale clownerié piena di gioia e felicità esaltante. Ogni giornata, dopo l’uscita della mattina e del pomeriggio, e dopo la cena, si concludeva con spettacolini di musica e danza. Si aveva modo così di danzare il “ kociari”, danza tradizionale allegra e giocosa in cui si imitano i salti degli ani- Panorama internazionale mali sulle cime delle rocce. Ai tamburi si accompagna il suono di trombe e del flauto “duduk” il cui suono, ci dicono, ci fa risentire la prima “musica” che il bimbo non ancor nato coglie nella pancia della mamma. Eravamo anche invitati a sgambettare in cerchio antiche danze di guerra. Che ci riportano alle lunghe battaglie condotte nei secoli dal popolo armeno per la propria libertà. Il nostro clown tour in Armenia si conclude in modo originale. Davanti alla tomba del padre del mistico George Ivanovitch Gurdjieff. Uno dei grandi maestri dell’esoterismo contemporaneo. L’insegnamento di Gurdjieff riunisce in una alchemica coerenza spiritualità, filosofia e cosmologie di diverse culture. Per noi artisti e clown il mistico Gurdjieff. ha rappresentato il perfetto mistico sciamano, ma anche con il suo carattere burlesco e trasgressivo un grande clown e attivista sociale pieno di coraggiose idee rivoluzionarie. La tomba del padre che era di origini greche ed era anche un famoso “asowot” - poeta bardo - che é stato trucidato dai turchi. é nascosta nel misterioso cimitero vecchio di Gyumri - l’antica Alexandropol. Gurdjieff non ha mai visitato la tomba paterna ma ha voluto che fosse ritrovata da alcuni suoi “figli spirituali” che hanno scolpito sulla pietra tombale le parole del figlio: IO SONO TE, TU SEI ME, EGLI E’ NOSTRO, TUTTI E DUE SIAMO SUOI. CHE TUTTO SIA PER IL NOSTRO PROSSIMO. In questo cimitero lontano ci siamo sentiti anche noi nuovi “ricercatori di verità”. Vicino alla stele abbiamo deposto una rosa ed un naso rosso mentre la nostra guida con il suo “duduk” intonava un suono di commiato dolce e greve. * Etno-fotografo, scrittore e bodyworker Per saperne di più Sergei Paradjanov Museum Indirizzo: Blds15&16 Dzoragyugh 1st St, Yerevan 375015, Armenia Telefono: +374 10 538473 You Tube - documentario “Paradjanov. A Requiem” di Ron Holloway 1994 60 min. SERGEI PARAJANOV Tra gli anni del suo dissociarsi dai “film spazzatura” - prima del 1964 - e la sua morte per un tumore al polmone nel 1990, Sergei Parajanov, georgiano di origine armena, si é affermato come uno dei più eclettici e visionari protagonisti della cinematografia mondiale. I suoi film, girati a Kiev in lingua ucraina, armena, russa ed anche in un un raro dialetto caucasico: il Gutzul , per l’alto valore artistico entrano nel circuito dei festival internazionali. E avviene il miracolo. La critica li apprezza e il mondo del cinema ne é entusiasta. Jean Luc Godard omaggia questo misterioso regista in poche parole: “Nel tempio del cinema ci sono immagini, luci e realtà. Sergei Parajanov era il maestro di questo tempio” ed anche il grande Andrei Tarkovsky, lo elogia: “Sempre con gratitudine e piacere ricordo i film di Sergei Parajanov che amo tanto. Per il suo modo di pensare trasgressivo, per la sua paradossale e poetica abilità d’amare la bellezza e anche per la sua abilità di essere completamente libero dentro le sue visioni”. Sergei Parajanov rivela subito la sua genialità. Durante la seconda guerra mondiale studia all’Istituto Statale di Cinematografia di Mosca, dimostrando una forte personalità dotata di talento e fantasia. I suoi primi documentari di propaganda, che in seguito ripudierà, li definisce”spazzatura”. Poi c’è la svolta. Proclama che nessuna scuola può insegnare a far del buon cinema. Si stacca dal realismo sovietico e si scaglia contro censura e conformismo. E’ convinto che il genio dell’arte é un “talento genetico” che hai o non hai. E può emergere solo dalla libertà espressiva e scrutando nel “pozzo” della propria creatività Il suo primo film di successo é “Le ombre degli avi dimenticati.” del 1964 che si rivela un’opera originale e innovativa per la cinematografia sovietica: Il film con immagini straordinarie a tinte oniriche e con l’ampio spazio riservato al folclore di una piccola comunità dei Carpazi, i Gutzul, che vivono in un paradiso di natura in fiera indipendenza, è condannato dalla censura come manifesto antisovietico e viene ritirato dalle sale. Nel 1968 Parajanov firma una lettera di protesta per l’arresto di alcuni intellettuali ucraini, avendo così ancora guai con la “giustizia” sovietica. Il suo primo arresto era avvenuto nel lontano 1947, quando a soli 23 anni é accusato di aver avuto rapporti sessuali - nell’Unione Sovietica del tempo era un reato - con un ufficiale del KGB! Nel 1969 riesce finalmente a portare a termine Il colore del melograno, da molti considerato il suo capolavoro. Il film che narra la vita di Sayat-Nova, un famoso “bardo” armeno, offre al regista il pretesto per affrontare il tema del ruolo dell’artista all’interno della società in cui vive. Con sottinteso l’incubo nella società sovietica. Il film é sequestrato dalla censura per “estrema deviazione dal realismo russo”. Sergei Parajanov é diventato un personaggio scomodo e il modo migliore per toglierlo dalla circolazione é di accusarlo di truffe fiscali. Nel 1973 é arrestato per traffico di opere d’arte, frodi commerciali, “incitamento al suicidio” e per generiche “tendenze decadenti e surrealiste” ed é condannato a cinque anni di duro Gulag. In mezzo a criminali comuni Paradjanov sopravvive disegnando e scrivendo trame di film immaginari. Viene alla fine liberato nel 1977 a seguito di una mobilitazione internazionale capeggiata dal surrealista francese Louis Aragon) per essere nuovamente arrestato, qualche anno dopo, per pochi mesi. Ma finalmente nel 1984 si rimette al lavoro e può realizzare i suoi due ultimi film: “La leggenda della fortezza di Suram” e nel 1988 “Asik Kerib - storia di un ashug innamorato”. Suo testamento artistico e fiaba d’amore che racconta ancora una “piccola” storia: quella di un povero musico che suona ai matrimoni e che parte per un lungo viaggio con la speranza di arricchirsi e poter così sposare la ragazza che ama. Sergei Parajanov muore nel 1990 a Yerevan e la sua casa diventa un museo ricco di disegni, affreschi, e costumi tratti dai suoi film. C’é anche la collezione di una serie di collages che questo regista, costretto per lunghi anni a non dirigere film, ha voluto chiamare “opere cinamotografiche condensate”. teatridellediversità 23 Panorama internazionale ARMENIA ARMIN THEOPHIL WEGNER E LO STERMINIO DEGLI ARMENI Un soldato tedesco ricordato nel Giardino dei Giusti, tra gli “eroi” impegnati nel fermare la strage di Italo Bertolasi * I l 2015 per tutti gli armeni é un anno speciale: In questa piccola repubblica caucasica che raccoglie tre milioni di abitanti - ma altri sei milioni fanno parte delle diaspore sparse nel mondo - si commemora il centenario del cosidetto Metz Yeghern (il Grande Male). Di quel genocidio che ha sterminato due milioni di armeni iniziato nel 1915 in terra Ottomana e che é stato orchestrato dal governo dei “Giovani Turchi”. Per ricordarlo quasi ogni giorno folle di “pellegrini” confluiscono nella capitale Yerevan per la processione a Dzidzernagapert (la Collina delle rondini), dove sorge il Mausoleo che ricorda le vittime dello sterminio. Vicino al monumento c’é anche il Muro della Memoria e un Giardino dei Giusti dove si ricorda- 24 no tutti quegli “eroi” che hanno voluto fermare quelle stragi, salvando i perseguitati o testimoniando al mondo la verità del genocidio. A questi “Giusti” in Armenia sono anche dedicate alcune strade e scuole. Nella terra che nutre il giardino dei giusti sono state deposte anche le ceneri di Armin Theophil Wegner. Un eroe per lo più sconosciuto ma famoso qui in Armenia. Armin era un soldato tedesco con vocazioni artistiche ed umanitarie e una gioventù dedicata all’impegno sociale. Nel 1915 Armin ha 29 anni. In quegli anni la Germania è alleata con la Turchia. E allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, durante l’inverno del 1914-1915, questo giovane idealista é sottotenente del Corpo Panorama internazionale Patch Adams interagisce con due poliziotti armeni, foto di Italo Bertolasi Sanitario tedesco, distaccato alla Sesta Armata Ottomana. Nei suoi diari d’allora annota: “Sono diventato un soldato, ho messo in gioco la mia vita per i valori della mia anima”. Ma ben presto l’idealismo patriottico dei primi tempi, nell’animo anarchico e generoso di Armin, si trasforma in vergogna e indignazione Erano tempi di grandi conflitti: i “giovani turchi” che governavano l’impero ottomano appartenevano ad un movimento politico nato con l’idea di modernizzare il paese ma ben presto travolto da accesi nazionalismi e ideali panturchi che avrebbero voluto unificare tutti le popolazioni là residenti. Alleati con scaltra incoerenza alla Germania - grande nazione “infedele” - cercarono con l’aiuto delle armate tedesche di sollevare il mondo musulmano contro la Russia e i suoi alleati. Con il sogno di difendere e ingrandire l’Impero. Ma all’interno a contrastarli c’era il popolo armeno per lo più cristiano, a cui apparteneva una elite ricca sociale ed educata ed “amica” dei russi - dei nemici mortali. Gli Armeni saranno le vittime prescelte. Si decide così di sterminarli con tutta una serie i soliti marchingegni stragisti. Deportazioni e viaggi a piedi senza ritorno verso mete irragiungibili: Deir ez Zor, Rakka e verso il nulla del deserto. Fucilazioni di massa. Decapitazioni e crocefissioni. Stupri. Di fronte a queste atrocità il giovane Armin si indigna:”La mia coscienza mi chiama ad essere testimone. Io sono la voce degli esiliati che grida nel deserto!” Come soldato paramedico dovrà seguire queste deportazioni. Assiste incredulo ad inimmaginabili crudeltà “soldati,nel loro selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori ragazze per i loro piaceri bestiali, picchiavano con bastoni donne incinte o morenti fino a che la terra sotto di loro si trasformava in poltiglia sanguigna...ho visto persone impazzite che mangiavano i propri escrementi, donne che cuocevano i loro bimbi appena nati”. La sua obbedienza si trasforma via via in aperta ribellione al “Grande Male”. E la sua nuova guerra la combatte con un arma segreta. Una “piccola” fotocamera. Nel 1913 Oskar Barnak costruisce il primo prototipo di Leica, una camera innovativa, veloce e leggera che forse l’esercito tedesco aveva in dotazione. Seguendo insieme alle vittime armene “le vie senza ritorno verso il nulla” e disubbidendo ai divieti delle autorità turche ma anche tedesche Armin scatta fotografie, raccoglie lettere di supplica delle vittime, e scrive un diario di viaggio. “Conservo le immagini di terrore e di accusa sotto la mia cintura...ho raccolto anche molte lettere di supplica che tengo nel mio zaino in attesa di consegnarle all’ambasciata americana...perché la posta non le avrebbe inoltrate. So di commettere un atto di alto tradimento, tuttavia la consapevolezza di aver contribuito anche se in piccola parte ad aiutare questi poveretti, mi riempie di gioia più di qualsiasi altra cosa io abbia fatto”. E’ un gesto politico di grande coraggio che farà storia nella memoria del genocidio armeno. Armin commette però un grande errore. Nel 1916 in una lettera spedita incautamente con le poste normali alla madre le racconta le atrocità di cui é testimone. Lo scritto é intercettato teatridellediversità 25 Panorama internazionale Ginevra Sanguigno gioca con un bambino armeno, foto di Italo Bertolasi dalla censura tedesca e gli procura uno scaltro castigo: l’immediato trasferimento nelle baracche degli ammalati di colera a Baghdad. L’ordine é accompagnato da una nota: “Armin Wegner deve essere utilizzato in modo che gli passi la voglia di andare in giro”. Qui si ammala di tifo petecchiale e quasi morto viene rispedito a Costantinopoli e alla fine del 1916 “espulso” in Germania. Ma, il giovane eroe, non é solo: consapevole del loro grande valore ha sempre con sé i suoi preziosi negativi, il suo diario e un pacco di fotografie realizzate segretamente da altri ufficiali. In Germania si cura e ben presto ridiventa l’attivista politico che é sempre stato. Nel gennaio del 1919 pubblica il libro “La via senza Ritorno”. Che é la raccolta delle lettere scritte in Anatolia. Intanto inizia la persecuzione degli ebrei che Armin subito paragona alla tragedia armena. Con speranza e entusiasmo scrive lettere a ministri, generali e capi di stato. Una di queste é indirizzata al presidente americano Wilson per chiedere giustizia per gli armeni. Il suo soggiorno in Germania é sempre più difficile. Con un’altra mossa imprudente nell’aprile del 1933 scrive una lettera direttamente ad Hitler invitandolo a cambiare la politica antiebraica nazista: “Signor cancelliere del Reich...non si tratta solo del destino dei nostri fratelli ebrei. Si tratta del destino della Germania. In nome del popolo per il quale ho il diritto non meno che il dovere di parlare, come tedesco a cui non é stato dato il dono della parola per rendersi complice col silenzio quando il suo cuore freme di sdegno, mi rivolgo a Lei:fermate tutto questo!” La risposta é l’immediata inclusione nella lista nera del Reich 26 e l’ arresto da parte della Gestapo, con tortura e lungo periodo di prigionia. Per la Germania nazista è ormai un traditore della patria e un criminale bolscevico. Dopo un’anno di carcere viene rilasciato e nel 1934 va in esilio prima in Inghilterra, poi con Lola, moglie ebrea, in Palestina e infine in Italia. Anche qui arrivano le leggi razziali e Armin é costretto a cambiare nome. Sarà solo nel 1965, nella commemorazione del 50° anniversario del genocidio armeno, che quasi per caso si riscoprirà il valore storico della testimonianza di Armin Theophil Wegner. Dopo anni di sofferta solitudine e silenzio finalmente “piovono” riconoscenze: la prima gli viene assegnata dalla Germania e dalla sua stessa città natale Wuppertal. Poi nel 1968 viene insignito del titolo di “giusto” dallo Yad Vashem in Israele e dell’ordine di S. Gregorio a Yerevan, capitale dell’Armenia, dove oggi una strada porta il suo nome. Le ultime estati della vita straodinaria di questo eroe sono trascorse a Stromboli dove trova “un pò di serenità tra l’infinito del mare e l’austerità della montagna vulcanica”. Ancora una volta e ancora per stupirci Armin ha voluto “scrivere” sul muro bianco di un vecchio mulino dell’isola, ultimo suo rifugio, e in lingua tedesca, la seguente frase del Talmud:”Ci é stato affidato il compito di lavorare a un’opera, ma non ci é dato di completarla.”. Armin muore a Roma nel 1978 a 92 anni. Il figlio Misha che ne cura le memorie e le ultime volontà, in una intervista recente ci ha ricordato il dolore del padre nel non essere riuscito a “chiudere” l’opera finale che doveva comprendere due romanzi sulle tragedie degli Armeni e degli Ebrei e un saggio sul suo rapporto con la madre patria tedesca. Ma intorno a lui si era creato quel vuoto di memoria. cresciuto anche con il Panorama internazionale Patch Adams con un gruppo di bambini armeni, foto di Italo Bertolasi teatridellediversità 27 Panorama internazionale Patch Adams con una neonata armena, foto di Italo Bertolasi negazionismo turco dell’olocausto. A metà degli anni ‘70 intervistato da un famoso giornalista tedesco Armin si lamentò con questa tragica frase: “Perché siete venuti così tardi?”. Le foto e gli scritti di Armin Theophil Wegner sono di immenso valore storico. Sono la prova schiacciante e l’atto di accusa più convincente di questo sterminio. Che il 12 aprile Papa Francesco in San Pietro ha definito : “ il primo genocidio del 20° secolo”. Oggi più di venti i paesi riconoscono il genocidio armeno. Tra questi la Russia, la Svizzera, la Finlandia, la Svezia, la Slovacchia, la Grecia, la Polonia, la Lituania e il Vaticano. Molti altri per opportunismo politico appoggiano invece la tesi turca del negazionismo. In ogni caso grazie anche alla coraggiosa testimonianza di Armin Theophil Wegner - un uomo Giusto -si conserverà la memoria di questo crimine verso l’umanità che ancor oggi si perpetua purtroppo negli stessi deserti del medio oriente. Sapremo comunque rinascere da questi disastri riaffermando alle nuove generazioni una cultura dell’inclusione, della tolleranza e della pace?. Come ci ha testimoniato questo “eroe”. * Etno-fotografo, scrittore e bodyworker Nota bibliografica Per saperne di più: “La marcia senza ritorno” di Franca Giansoldati - Salerno editrice, pag.127. “Il massacro degli Armeni” di Guenter Lewy - Einaudi Editore, pag 394. “Lettera a Hitler” di Gabriele Nissim - Mondadori Editore, pag. 304. 28 Tomba di Gurjief, foto di Italo Bertolasi Abstract ARMIN THEOPHIL WEGNER AND ARMENIAN EXTERMINATION 015 it a special year for all Armenians: In this small Caucasian republic which collects three million inhabitants - but six million more are part of diasporas around the world - people commemorate the centenary of the so-called Metz Yeghern (the Great Evil). The genocide, that killed two million Armenians, started in 1915 in Ottoman land and was orchestrated by the government of “Young Turks”. With the aim to commemorate it, crowds of “pilgrims” come together in the capital Yerevan almost every day, for the procession to Dzidzernagapert (the Hill of Swallows), where the Mausoleum that commemorates the victims of the extermination stands. Near the monument there are also the Wall of Remembrance and a Garden of the Righteous, where all those “heroes” who wanted to stop the massacres, saving the victims of persecution or witnessing to the world the truth about genocide, are celebrated. Here we can find also the ashes of Armin Theophil Wegner, a German soldier with humanitarian and artistic vocations, who devoted his youth to social commitment and, moved by his shame and outrage, showed to the world the brutality of the killing. 2 IL TEATRO FA BENE Un progetto realizzato da Jacopo Fo e dalla Libera Università di Alcatraz, in accordo con le linee guida del Ministero della Salute del Mozambico di David Aguzzi* Rubriche - Teatro e Intercultura CABO DELGADO Jacopo Fo con alcuni attori partecipanti al progetto “Il teatro fa bene” N el viaggio di avvicinamento alla Libera Università di Alcatraz per intervistare il fondatore Jacopo Fo il pensiero gironzola su tante cose diverse tra loro, ma in particolare ricorre o, rincorre l’idea che non viviamo in “mondi chiusi”, che nulla è uguale a se stesso, che inevitabilmente le nuove cose sono sempre le benvenute e scrivono nuove pagine con o senza mediazione. Vado ad intervistare Jacopo Fo per il suo nuovo impegno, “Il teatro fa bene”. Un progetto che si sta realizzando in Africa, per la precisione in una regione del nord del Mozambico al confine con la Tanzania, distretto di Palma, provincia di Cabo Delgado. Se penso all’Africa, la “fotografia” ricorrente è quella narrata magnificamente e meglio di chiunque altro da Buzzati, con i suoi reportage, grandi spazi, deserti, montagne, grandi fiume e grandi laghi, una natura misteriosa e avvolgente; una foresta primordiale, foresta-madre che rimanda alle origini del mondo. O le meravigliose immagini di uno dei più importanti “poeti” della fotografia contemporanea Sebastiao Salgado, dove nel suo ultimo e imponente lavoro “Genesi”, presenta un atto d’amore per un mondo in cui natura ed esseri viventi vivono ancora in equilibrio con l’ambiente. Jacopo Fo: “Ho sviluppato una passione per la storia africana da molto tempo e sono partito da una domanda banale: come mai non ci sono state delle rivolte di schiavi al colonialismo. Ovviamente partivo dalla considerazione che la storia viene sempre censurata. Per cui il sospetto è, non che non ci fossero state delle rivolte, ma che non venissero raccontate …. Con Laura Malucelli abbiamo curato un libro “Schiave ribelli”, uno dei pochi libri che teatridellediversità 29 Rubriche - Teatro e Intercultura documenta queste storie. C’è stata una grandissima resistenza in Africa contro il colonialismo. Ma c’è stata una grandissima serie di rivolte anche in America. Con migliaia di schiavi e con aree che hanno resistito per un secolo, nel 1600 in Brasile tra la città di Palmares e una decina di villaggi della regione. E queste rivolte di schiavi sono state addirittura vittoriose… Furono sconfitti solo quando è arrivato un esercito con artiglieria molto più moderna e potente; catturato e ucciso Zumbi che era a capo della rivolta, prese il comando la moglie, che ha guidato 27000 schiavi in una marcia incredibile nel cuore dell’Amazzonia in un luogo dove poter vivere e costruire decine di villaggi e organizzare il sostentamento di tutti…. Scopro che il cuore della resistenza è la cultura San del Centro Africa. La popolazione San ha portato l’agricoltura in Egitto, India. Una cultura a tradizione matriarcale”. “Il teatro fa bene” rappresenta un “format”, basato da un lato sulla teatralizzazione di informazioni di carattere sanitario e alimentare, dall’altro lato su attività dimostrative e pratiche sull’uso di semplici tecnologie d’ausilio nella quotidianità. Lo scopo è quello di trasmettere alla popolazione conoscenze su buone pratiche igienico-sanitarie e alimentari in un modo più efficace di quanto consentano le forme di divulgazione tradizionali. Il tema della cura e della medicina “entra” in teatro fin dalle sue origini. Nella sua “Poetica” Aristotele attribuisce alla tragedia una finalità catartica. E se a prima vista teatro e medicina possono apparire due mondi distanti, in verità sono molto più vicini, intrecciati fra loro in quanto ruotano entrambi intorno ad un unico vero protagonista, l’uomo, il personaggio, l’interprete-attore, il medico. Il corpo. Corpo, racconto, sguardo, ascolto, trasformazione, condurre: 30 parole chiave dell’esperienza medica, e che sono alla base di quella teatrale in una loro accezione entusiastica, propria dei processi di creazione artistica e poetica. Jacopo Fo: “La mia idea partendo dall’esperienza dei miei genitori, dal teatro comico, era quella di fare un racconto comico. Sapendo che questa era una cultura San di tradizione matriarcale, legata alla sacralità del ridere, dell’amore, della convivialità e della solidarietà, iniziamo una ricerca preliminare interpellando una serie di accademici su quali fossero le maggiori strutture comiche del teatro locale. E ci dicono che non c’è una tradizione. Ci dicono che il teatro lì è o fiabe tipo Esopo oppure è un teatro didattico, un teatro di volantini letti ad alta voce. Però nella seconda missione in Mozambico riusciamo finalmente a trovare una traccia di un personaggio, che potremmo assimilare ad Arlecchino, un po’ caciarone, un po’ imbroglione, però naif che si salva sempre … Quando sono venuti i ragazzi in Italia la prima settimana l’abbiamo passata a farci raccontare le loro storie, le storie della loro vita, che cosa si ricordavano dei racconti durante le feste e gli spettacoli. E quindi è venuta fuori questa chiave comica che poi è il falso medico, la donna malata che è una storia locale, ma anche una storia che ritroviamo in Boccaccio”. Un progetto di teatro e di comunicazione a tutto tondo volto a portare la narrazione nei villaggi, facendo leva su quei principi di espressione dell’arte comica e giullare della Commedia dell’Arte italiana, come non ricordare il personaggio, maschera di origine bolognese, del Dottor Balanzone. Personaggi rappresentati con comicità ed ironia, occasione di svago tra serio e faceto. Un altro degli elementi che caratterizza il progetto è infatti la performance artistica, dove il corpo ha bisogno di una “scena” Rubriche - Teatro e Intercultura per rivelarsi e aprirsi, per trasformarsi in racconto. Sempre Jacopo Fo: “Nell’area di Cabo Delgado c’è una situazione di acqua sporca e condizioni di vita drammatiche, assenza di strade. Per esempio, c’è una disinformazione di base, mancano disinfettanti e c’è una mortalità nelle donne e nei bambini neonati che è 20 volte quella italiana. Per cui nello spettacolo c’è proprio una parte di informazione tecnica sulle regole igieniche fondamentali, sulla alimentazione e sul fatto di incoraggiare le persone ad andare negli ospedali e negli ambulatori a fare le ecografie e, soprattutto speriamo proprio con questa iniziativa di contribuire a ridurre la mortalità, basterebbe poco per cambiare alcune abitudini sbagliate”. I messaggi sulla salute e l’alimentazione inseriti negli spettacoli sono coerenti con le linee guida adottate dal Ministero della Salute del Mozambico e promossi da Eni Foundation che opera in questo ambito nel Paese anche con la collaborazione di Medici con l’Africa Cuamm. Anche nello spettacolo c’è un ruolo della medicina tradizionale che è importante. Anche il medico, quello vero, viene curato con una cura tradizionale quando si sente male. Il problema è che in alcuni casi la medicina tradizionale non è utile, per esempio per un intervento, o davanti ad un parto veramente difficile bisogna fare il cesareo. Lo spettacolo serve per divertire e coinvolgere, e contribuire a cambiare i punti di vista, e porre degli interrogativi. Poi c’è una parte di informazione vera e propria con dei cartelloni che verranno utilizzati, con le attrici che si metteranno a parlare con le donne. Lo spettacolo, infatti, si intitola “Il falso medico”. “Il teatro è la prima medicina che l’uomo ha inventato per proteggersi dalla malattia dell’angoscia”. Jean-Louis Barrault. E la medicina, la cura non è solo tecnica, scienza e conoscenza, ma è anche arte: dà valore all’intuito e all’esperienza, alla comunicativa e alla capacità di leggere e trasformare i segni; è in grado di attivare un processo di conoscenza di natura poetica, ed il teatro ne è il veicolo di trasformazione e di costante utilizzazione. Lo scopo è quello di trasmettere alla popolazione conoscenze su buone pratiche igienico-sanitarie e alimentari in un modo più efficace di quanto consentano le forme di divulgazione tradizionali. Il progetto “Il teatro fa bene” viene realizzato come esperienza-pilota a partire dal distretto di Palma per sviluppare un metodo e una procedura da poter applicare e replicare sia in Mozambico sia in altre aree del pianeta. * Sociologo, poeta, critico letterario Abstract THEATRE IS GOOD FOR US Theatre is the first drug man has invented to protect himself from anguish” (Jean-Louis Barrault). Theatre is good” is a project realised in Mozambique , based on the dramatization of nutritional and sanitary information. The messages about health care and nutrition included in the performances are coherent with the guide-lines of the Ministry of Health in Mozambique. The project is realized by Eni Foundation in cooperation with “Medici con l’Africa Cuamm (Doctors with Africa Cuamm)” and the Free University of Alcatraz by Jacopo Fo. “Theatre is good” is realized as an experimental project starting in Palma District, to be applied and replied as a method and a procedure either in Mozambique and in other parts of the world. “ “ teatridellediversità 31 Rubriche - Personaggi NORTHAMPTON (MASSACHUSETTS) CON LELLA GANDINI, RIFLESSIONI E SPERANZE SUL RUOLO DELL’EDUCAZIONE In dialogo sulle arti in educazione con la studiosa referente per la diffusione del “Reggio Emilia Approach” negli Stati Uniti e autrice di significative pubblicazioni sulla creatività nella prima infanzia di Vito Minoia * Lella Gandini e Vito Minoia con Coutney Waring, direttrice dei programmi educativi al Museo Eric Carle I n Italia molti ricordano le tue prime pubblicazioni. Quanto la tua passione per il folklore infantile ha stimolato ed orientato i tuoi studi e le ricerche successive? Il mio interesse per il folklore infantile è legato al dopoguerra. Agli inizi degli anni 50 c’erano ragazze e ragazzi di vari paesi più o meno miei coetanei - io sono nata nel 1934 – che viaggiavano col sacco a pelo e sacco da montagna e volevano in libertà collegarsi, conoscere le vicende, la cultura e scambiare idee con altri. Era un periodo di minime possibilità economiche ma di grande di libertà di muoversi e di conoscere. Io non viaggiavo molto ma facevo parte di un gruppo molto 32 aperto di scout di Bergamo che includeva ragazze di tutte le religioni e provenienze. Attraverso quella organizzazione ho partecipato a raduni internazionali e lì ho cominciato a includere nella mia raccolta di filastrocche, già iniziata in italiano da qualche anno a livello locale per un piacere personale, un numero di racconti sempre più grande. Per curiosità raccoglievo filastrocche di tanti paesi e in tante lingue. Chiedevo sempre di scriverle per me e di riascoltarle con chi mi raccontava. Ho anche corrisposto per anni con alcune amiche “pen friends” ampliando i miei contatti internazionali. (Esemplare è stata un’esperienza più breve poiché la corrispondente Quanto invece è stato formativo il tuo incontro con Arno Stern e l’aspetto liberatorio del lavoro grafico con la pittura? L’incontro con il lavoro di Arno Stern è stato a Parigi nel 1970 dove ho assistito a una sua presentazione pubblica e ho acquistato i suoi libri. Nel 1971 ho aperto un laboratorio ispirato al lavoro di Arno Stern nella mia casa a Napoli, adattando alcuni degli aspetti e forse incoraggiando di più il desiderio dei bambini di narrare attraverso la pittura oltre che a liberarsi dalle paure. Alcuni genitori ne riconoscevano un aspetto terapeutico altri la bellezza e gioia dell’accostamento dei colori e del piacere che i bambini dimostravano. I bambini finita l’esperienza con la pittura e dopo aver rimesso tutto a posto con cura giocavano con i miei figli allora di 9 e 4 anni (che avevano tra l’altro un teatrino fatto in casa e burattini) e raccogliendo moltissima soddisfazione dal lavoro con loro. Ho anche creato temporanei atelier alla Arno Stern in varie prime elementari che amavano offrire questa possibilità il sabato mattina; questo in varie città ma specialmente a Bergamo dove vive la mia famiglia e abbiamo un piccolo appartamento che ci da la sicurezza di tornare in Italia. L’arrivo negli Stati Uniti segna un’altra tappa significativa del tuo percorso conoscitivo. Ne vuoi parlare? La scelta di vita di venire negli Stati Uniti nel 1972 sposando Lester Little, professore di Storia medievale, veniva dopo una seria decisione. Conoscevo l’inglese poiché avevo trascorso già due anni dal 1959 al 1961 e dal 1969-70 e “ascoltato” corsi in varie università in questo paese. Quello che sapevo, ma non lo avevo sperimentato, era la possibilità di seguire (per una persona di 40 anni) corsi regolari e quindi ricevendo credito per i due anni di studio all’Istituto Orientale di Napoli ho seguito corsi regolari allo Smith College dove ho ricevuto un Bachelor Degree e Master Degree e continuato all’Università del Massachusetts dove ho conseguito un Dottorato in Pedagogia nel 1988. In tutto questo tempo ho ovviamente usato quello che conoscevo e ho continuato ad aggiornare nei miei soggiorni annuali in Italia, con l’intento di offrire le esperienze di Reggio Emilia e di Pistoia poiché era evidente la grande necessità di comunicarle e renderle visibili, comprensibili e traducibili nella realtà educativa della prima infanzia in questo grande paese, cominciando nello Stato del New England dove vivo. Considerando le ricerche di storia di mio marito, gli anni sabatici, gli incarichi che ha ricevuto per dirigere Istituti culturali americani in Italia, come l’American Academy in Rome. Abbiamo praticamente vissuto in due paesi e i miei due figli, ormai professori anche loro, sono rimasti perfettamente bilingui. Quello che è incerto è come coltivare questa possibilità per le nipoti. Arriviamo all’incontro con Reggio Emilia, l’esperienza di Loris Malaguzzi e la sua incessante ricerca di bellezza da promuovere attivando percorsi conoscitivi con i bambini delle Scuole dell’Infanzia ma anche con i più piccoli dei Nidi. Come è avvenuto tale incontro e quali gli sviluppi nel tuo lavoro? Il mio incontro con le scuole di Reggio Emilia è iniziato in parallelo con l’incontro con Loris Malaguzzi nel 1976. Avevo visitato a Bologna le scuole dell’infanzia che Bruno Ciari aveva creato ed organizzato. Quello era stato il mio primo incontro con le scuole progressiste di quegli anni e seguivo tutte le pubblicazioni. Ma nel 1976 ho avuto la libertà, adesso invidiabile, di entrare, passare il tempo ad osservare intere giornate, in particolare alla scuola Diana e alla Villetta, la possibilità di fare domande e registrare le risposte delle insegnanti. Lo stesso è stato possibile nel nido Arcobaleno. In quel periodo e per vari anni anche Mariano Dolci era molto attivo. Per me è stata una scuola e una preparazione che è continuata ed è parte della mia crescita intellettuale, pedagogica e creativa. Insomma la mia grande Scuola di Perfezionamento Rubriche - Personaggi dal Giappone ad un certo punto mi ha chiesto con immensa gentilezza, usando una delicata carta di riso, di non scrivere più perché la mia calligrafia era impossibile). È da queste amicizie, che oltre a far crescere la mia raccolta di filastrocche e ampliare il mio piccolo mondo, mio fratello Nino ha incontrato Kerstin Anderson e ora il loro figlio Eric Gandini vive in Svezia e si occupa di film che includono anche Videocracy. A partire dagli anni 70 ho cominciato a pubblicare il materiale che avevo raccolto in tanti anni con 99 Filastrocche nel 1972, con Editori Riuniti e il lavoro che avevo condotto in quegli anni in varie scuole con Fai da Te, con Bompiani. Con gli anni ho pubblicato con Edizioni Elle di Trieste varie raccolte e nuovi piccoli libri di filastrocche. Malaguzzi aveva conosciuto il pensiero educativo di John Dewey e si era interessato a molte ricerche di psicologia dell’infanzia elaborate negli Stati Uniti: quali? Il mio incontro diretto con Loris Malaguzzi e Reggio Emilia ha avuto luogo nel 1976 con l’inizio della rivista Zerosei. Ferruccio Cremaschi conosceva il mio lavoro sulle filastrocche, il lavoro creativo con i bambini e i libri per bambini pubblicati con Le Edizioni Emme in collaborazione con Carlo de Simone, Laura Mancini e il fotografo Fabio Donato; è venuto a cercarmi a casa e mi ha chiesto di includere delle filastrocche tradizionali nel primo numero di Zerosei. Io ho contribuito con piacere senza sapere che a Loris Malaguzzi francamente non piaceva questo tipo di rime perché gli ricordavano precisamente l’asilo tradizionale per bambini che lui combatteva. Ma quando ci siamo conosciuti ha visto che non ero pericolosa e potevo dare un contributo alla rivista con interviste fatte negli Stati Uniti. Così abbiamo fatto amicizia; ho intervistato a sua richiesta vari luminari che avevano anche preso una posizione contro la guerra in Vietnam: Benjamin Spock, T. Berry Brazelton, Jerome Bruner (che è poi diventato cittadino onorario di Reggio), David Elkind, Hans Furth e Howard Gardner che ho accompagnato per la prima visita a Reggio e poi diventato anche lui un visitatore regolare. Al contrario, quali aspetti della ricerca di Malaguzzi hanno generato poi un così forte interesse negli Stati Uniti? Hai già citato i nomi di Jerome Bruner o Howard Gardner che hanno voluto conoscere da vicino il lavoro espresso a Reggio Emilia. L’interesse per la ricerca e l’applicazione o il trasferimento delle idee di Loris Malaguzzi che docenti universitari hanno divulgato nella prescuola e nella prima infanzia (infant-toddler centers) continua ad espandersi negli Stati Uniti e in particolare anche in Canada dove vi sono gruppi avanzati di ricerca nella zona di Toronto, per esempio, che stanno portando delle modifiche strutturali a questi livelli di pre-scuola dopo che uno dei ministri con un gruppo di docenti ha visitato le Scuole di Reggio Emilia). Ci sono molte prescuole negli Stati Uniti che si designano come “Reggio inspired”. Nello stesso tempo l’ala conservatrice negli Stati Uniti nel campo dell’educazione continua a ribadire la necessità e obbligo di tests anche per i piccoli, con enorme fatica per insegnanti e bambini. teatridellediversità 33 Rubriche - Personaggi Eric Carle Museum of Picture Book Art, foto di Vito Minoia H. Gardner ed i suoi collaboratori della Harvard University, in particolare, hanno elaborato l’espressione “rendere visibile l’apprendimento” proprio a partire dalla valorizzazione del lavoro sviluppato nella città emiliana. Ci puoi dire qualcosa in più su questo concetto? Il gruppo di ricerca all’Harvard University che aveva pubblicato con gli educatori di Reggio Emilia “Rendere Visibile l’Apprendimento“ (Making Learning Visible) è tuttora molto attivo. Ne scaturì una riflessione su come la documentazione del lavoro di gruppo dei bambini fosse essenziale per rendere visibile l’apprendere (piuttosto che ricorrere a tests) e come fosse importante passare da un modello di trasmissione della conoscenza ad un orientamento di ricerca e scoperta con i bambini, una ricerca che rende possibile - attraverso la documentazione - di offrire una chiave di apprendimento sia per i bambini che per gli insegnanti. Ad Harvard questo gruppo continua ad offrire corsi di aggiornamento per insegnanti durante i mesi estivi e due del gruppo originale di ricerca a Reggio Emilia Mara Krechevsky, Ben Mardell, con inoltre Melissa Rivard e Daniel Wilson hanno pubblicato nel 2013 un libro intitolato Visible Learners: Promoting Reggio-Inspired Approaches in all Schools (dalla prescuola alla fine della scuola superiore). Ci puoi ricordare brevemente qualche episodio legato alle varie conferenze che ti hanno visto impegnata insieme a Malaguzzi in diverse università e contesti educativi statunitensi? Loris Malaguzzi era stato invitato da Carolyn Edwards al- 34 lora professore all’Università del Massachusetts poiché era riuscita ad avere il sostegno della facoltà e in particolare dal professor George Forman, ricercatore sull’apprendimento cognitivo, per avere la mostra “I Cento Linguaggi dei Bambini” nel dicembre 1988. Io stavo preparando con questi professori il lavoro finale per il mio dottorato in pedagogia ed è stato un privilegio per me essere la traduttrice (come avevo già fatto qualche volta a Reggio per visitatori di lingua inglese) e per me e mio marito Lester Little, professore di storia ad un altro college di questa zona del New England, un grande piacere di ospitare a casa Loris Malaguzzi. In quella occasione fu chiaro che Malaguzzi aveva una grande abilità nel comunicare con il pubblico e specialmente anche un piacere di rendere visibile l’intelligenza dei bambini, sia quando presentò nell’aula magna dell’università a tutta la facoltà sia più tardi quando presentò ad una classe di 30 studentesse per un’ora e mezzo una breve storia che raccontava con immagini la ricerca di un bambino del nido. Un bambino di 10 mesi che bilanciava un tubo di cartone in cui inseriva dei pennarelli. È la famosa ministoria di Francesco e il tubo. Oltre all’esperienza in Massachusetts, Loris Malaguzzi che era arrivato per la prima volta negli Stati uniti nel 1987 per accompagnare la mostra a San Francisco (California) fu invitato negli anni seguenti in due importanti luoghi per la visibilità del suo programma di educazione per bambini, insegnanti e genitori. A Chicago per ricevere il prestigioso Khol Prize e visitare delle scuole ispirate a John Dewey e a Washington DC dove il museo per bambini della capitale aveva aperto una scuola ispirata al “Reggio approach” e dove l’insegnante di Reggio Emilia, Amelia Gambetti portava avanti il programma preparando le insegnanti a questo nuovo modo di Rubriche - Personaggi Lella Gandini al Eric Carle Museum of Picture Book Art, foto di Vito Minoia imparare con i bambini. Io ero anche in questi due luoghi l’interprete e traduttrice di Malaguzzi. Di Chicago vi è un video che ora è parte della mostra “I cento Linguaggi dei bambini” e di Washington un film da parte di un regista di Reggio Emilia. Un episodio particolarmente piacevole ed interessante per me è legato a questi incontri personali con Malaguzzi. Quando era a casa nostra a Northampton Massachusetts aveva scoperto che mio marito ed io eravamo buoni amici di David Hawkins (filosofo ed educatore) e Malaguzzi che ammirava i suoi libri si meravigliò che fosse ancora vivo, noi chiamammo David al telefono e Loris parlò con lui (poichè conosceva l’italiano) e lo invitò immediatamente ad andare a visitare le scuole a Reggio. A questo incontro telefonico seguì un incontro diretto, David Hawkins venne a Washington per incontrare ad ascoltare la presentazione di Malaguzzi e poi incontrarsi con lui. Alla fine della presentazione su una esperienza dei bambini con le ombre alla fine David Hawkins fece commenti molto positivi sull’esperienza ma anche aggiunse a gran voce: “Malaguzzi vedo i bambini ma dove sono le insegnanti?” E Malaguzzi con altrettanta enfasi: “Hawkins le insegnanti sono nell’ombra naturalmente!”. Oggi tu sei “Liaison for the Dissemination of the Reggio Emilia Approach” negli Stati Uniti. Ci puoi illustrare come si attua questo lavoro di diffusione e come riesci a promuovere e stimolare nuovi processi conoscitivi? Io ho cominciato molti anni fa a portare immagini delle scuole di Reggio Emilia e a spiegare come i bambini imparavano per loro desiderio spontaneo e sostenuti dalle insegnanti che propongono materiali interessanti e naturali o inconsueti; spazi accoglienti e considerano i bambini interessati a esplo- rare e scoprire e soprattutto come documentano questo loro modo empatico, osservativo e propositivo di stare con i bambini anche per i genitori e per chi vuole capire meglio come imparare con loro e per loro. Mi hai mostrato anche alcuni numeri della rivista “Innovations in Early Education”, quadrimestrale della North American Reggio Emilia Alliance. Come è organizzata e quali iniziative produce? Quali gli obiettivi principali del periodico e quali quelli dell’Associazione? Ci sono molte prescuole negli Stati Uniti che si designano come “ Reggio inspired”. Ricordo un articolo che analizza questa diffusione, pubblicato un paio di anni fa da “Innovations in Education: The International Reggio Emilia Exchange”. È la rivista edita da anni da Judy Kaminsky e da me come editore associato. Questa pubblicazione nasce dall’accordo di Malaguzzi nel 1990 durante la visita a Washington, con Eli Saltz Docente e Direttore del Merrill Palmer Institute di Wayne State Univerisity, un ricercatore sostenitore delle insegnanti. Il primo numero è uscito nel 1992; più recentemente la rivista viene pubblicata con una veste rinnovata da NAREA North American Reggio Alliance, l’associazione di educatori che sostiene la ricerca e la diffusione del Reggio Emilia. L’influenza che oggi esercita il pensiero pedagogico di Loris Malaguzzi negli Stati Uniti è paragonabile alla portata dell’interesse che si è generato prima ancora per la Pedagogia di Maria Montessori? Decisamente si. L’interesse è molto simile a quello che si è manifestato per le scuole e il metodo Montessori ed è un fenomeno interessante da osservare per evitare di ripeterne la teatridellediversità 35 Rubriche - Personaggi Il bruco, simbolo dell’ Eric Carle Museum of Picture Book Art storia. Poiché c’è stata l’idea di cercare di certificare le scuole che in modo autentico rispettavano il pensiero e il metodo di Maria Montessori e si è creata una competizione piuttosto che una collaborazione tra i diversi gruppi Montessoriani creando molte interpretazioni e a volte divisioni che avrebbero rattristato Maria Montessori a dir poco. A grandi linee e molto sinteticamente, come si differenzia il sistema educativo nei differenti Stati della Confederazione Americana? Oggi negli USA c’è un ampio e aperto dibattito sulla funzione e il valore dei tests di apprendimento ai quali spesso la didattica è piegata attraverso una logica efficientista (un dibattito molto vivo anche in Italia). Quale ruolo alternativo secondo te potrebbero svolgere le arti in educazione ? Il tentativo da parte del governo federale di stabilire degli standard nazionali nelle scuole pubbliche è molto recente e molto contestato. Infatti alcuni Stati hanno richiesto e ricevuto l’esenzione da questi standards. La principale forma di controllo risiede a livello di Stato ma anche a livello individuale negli Stati, non importa quali siano gli standards, la qualità del programma educativo, perlomeno per quello che misura “la preparazione dello studente”, dipende pesantemente dalla rispettiva ricchezza o povertà di ogni città o paese. Nonostante gli Stati contribuiscano alle scuole pubbliche, il sostegno più significativo viene dalle tasse locali su case ed edifici commerciali. Nelle grandi città c’è un grande mix di poveri e ricchi. Mentre nelle tante piccole città con poche prospettive di sviluppo le scuole tendono ad essere deboli; nei sobborghi delle grandi città come Boston e New York, tendono ad esserci famiglie abbienti e di conseguenza le scuole 36 pubbliche sono di alta qualità. Quale ruolo educativo è possibile invece riservare al teatro nella prima infanzia e nella formazione della persona in generale? In generale più che considerare il teatro un incoraggiamento, nelle prescuole, in centri più avanzati viene dato valore all’espressione verbale dei bambini, dei loro pensieri o idee o nel presentare il racconto di una storia inventata. Alle elementari, una storia letta o il ruolo di un personaggio. Nelle scuole medie e superiori si coltiva invece di più l’idea di preparare rappresentazioni teatrali anche accompagnate dalla musica e di sostenere un gruppo di bambini che stanno imparando l’uso di strumenti musicali per suonare insieme. C’è quasi sempre un teatro anche piccolo o in condizioni approssimate in tutte le scuole pubbliche. Probabilmente è una delle espressioni più soddisfacenti per la fine dell’anno scolastico per molti bambini di tutte le condizioni. Mi hai accompagnato a visitare il museo Eric Carle, creato qui ad Amherst nel Massachusetts nel 2002 dal noto scrittore ed illustratore di libri per bambini, il quale si è liberamente ispirato al lavoro di Reggio Emilia, ricontestualizzandolo. Quali sono i principi educativi che orientano il museo e l’Hampshire College adiacente, parte dell’Hampshire College Cultural Village che mi hai riferito ispirarsi ad un’idea progressista di formazione degli insegnanti? Il Museo Eric Carle che è stato costruito su un terreno che faceva parte dell’Hampshire College, una Istituzione Universitaria progressista dove il curriculum di studio degli studenti Rubriche - Personaggi Lella Gandini LE RICERCHE A PISTOIA (che hanno completato La High School) viene strutturato con un piano di lavoro, studio e ricerca praticamente individuale tra un gruppo di professori e lo studente stesso. Molte le pubblicazioni che hai curato anche qui negli Stati Uniti, spesso in collaborazione con affermati studiosi dell’educazione della prima infanzia. A quali sei più affezionata e quali sono i tuoi attuali interessi di studio e le prossime pubblicazioni in cantiere? Il libro che ha avuto tre edizioni e moltissime traduzioni è quello con Carolyn Edwards e George Forman: The Hundred Languages of Children, I Cento Linguaggi dei Bambini. Lo abbiamo pubblicato nel 1993, ha la mia intervista a Loris Malaguzzi, ha tre edizioni in inglese ed è stato molto tradotto perfino in lingua cinese, greca e araba. Ma forse sono altrettanto affezionata ad un libro che abbiamo scritto ed edito con un altro gruppo di autori, (è il modo da me preferito per scrivere), sull’Atelier di Reggio Emilia con la importante partecipazione di Vea Vecchi. Come vedi quello che è stato costruito e continua ad evolversi a Reggio Emilia è una fonte essenziale di riflessioni e speranza sull’educazione dei bambini e dei grandi. * Direttore della Rivista “Catarsi-teatri delle diversità” Lella Gandini ha inoltre sviluppato un significativo lavoro nei programmi per l’infanzia a Pistoia (anche in questo caso ispirati da Loris Malaguzzi). A partire dal 1979, regolarmente, per almeno vent’ anni parallelamente al lavoro a Reggio Emilia. Citando Egle Becchi dal volume “Una Pedagogia del buon gusto” (Franco Angeli, Milano, 2010), Lella Gandina potrebbe essere descritta come “tessitrice del collegamento di confine”, metafora utilizzata da Margaret Mead negli anni 20 per descrivere la funzione della Signora Parkinson quando l’antropologa di trovava nelle isole del Pacifico per una spedizione di ricerca: figura memorabile di informatore , di personaggio di quella “cultura intermedia” o “cultura di contatto” che si forma nell’ibridazione fra culture indigene e culture lontane nello spazio e nel tempo. “Il lavoro di Lella Gandini è stato, insieme, quello dell’antropologa che fa ricerca e della tessitrice che informa: Lella infatti non si è limitata a fare ricerca nell’universo delle scuole dell’infanzia pistoiese, dove ha indagato fenomeni di oggi e brani di culture se vogliamo ibride perché illustrate ed esemplificate dopo generazioni di espressione, di variazioni, di dimenticanza; ma ha anche testimoniato – nei vari mondi che ha attraversato – la cultura dei servizi pistoiesi per l’infanzia e delle loro circostanze. Tessitrice e studiosa quindi, insieme, perché in ogni caso ha fatto indagine e testimoniato…. E siccome la funzione di informatore che ha compiti di connettere ha pur sempre dei tratti di educazione, vale la pena vedere come Lella ha educato – secondo quanto dice Walter Benjamin (nel Programma per un teatro dei bambini) - “gli attenti educatori”. (Egle Becchi) Lella Gandini ha collaborato a portare a Pistoia anche una mostra di Eric Carle, che accolse l’idea di incontrare le insegnanti per dimostrare il modo in cui prepara le carte per i suoi collage. Abstract WITH LELLA GANDINI , REFLECTIONS AND HOPES ABOUT THE ROLE OF EDUCATION A student of children’s folkways, Italian author and teacher Lella Gandini is best known in the United States as the leading advocate for the Reggio Emilia approach to early-childhood education, which emerged after the Second World War in Northern Italy—in the town that gives this approach its name. Gandini’s many publications in English and Italian include volumes on early-childhood education and Italian folklore, and she is coauthor or coeditor of such works as Insights and Inspirations from Reggio Emilia Stories of Teachers and Children from North America; The Hundred Languages of Children: The Reggio Emilia Approach to Early Childhood Education; and Beautiful Stuff!: Learning with Found Materials. teatridellediversità 37 Rubriche – Teatro e Disabilità 1 CATANIA RESPIRI E NON TE NE ACCORGI? Il nuovo spettacolo di Nèon Teatro, “Ciatu”, presentato al Teatro Antico di Taormina, testimonia una originale modalità di fare teatro e di vivere di Egle Zapparrata * pur essendo ancora in grembo. Tutti si esibiscono in abilità e arti che si miscelano. La maggior parte sono disabili, eppure in Ciatu non è la diversità che domina la scena. Gli attori sono attori. I cantanti sono cantanti. I musicisti sono musicisti. E i ballerini sono ballerini. Nel senso dato al respiro però si somigliano. Primo fra tutti, respira Giordano Bruno, che rivive in Ciatu con il suo temerario pensiero, il suo è un vigoroso sguardo, punta alla totalità delle cose, è sul palco e parla, soffre e combatte per farsi ascoltare, per esprimersi libero. Ciatu è multilingue, non ha confini, neanche tra corpo e anima, né tra forza e debolezza. E’ lo spettacolo dell’essere in divenire, dell’essere umani e dell’essere insieme. Rimette in gioco le emozioni, più o meno liete, e le relazioni con cui le persone si intrecciano. Ciatu, Teatro Antico di Taormina, foto di Jessica Hauf C i sono spettacoli teatrali che durano circa un’ora e trenta minuti, ma non finiscono con la chiusura del sipario, vivono e si evolvono nelle coscienze di chi vi partecipa. Come Ciatu, che in dialetto siciliano sta per respiro, fiato, ma non solo. In Sicilia si chiama ciatu anche chi si ama, perché è importante, è vitale. Ciatu è il titolo dello spettacolo che ha già esordito in agosto 2015 in prima nazionale nel cartellone del Festival Taormina Arte al Teatro Antico, poi replicato al Teatro Stabile di Catania a febbraio 2016 e al Festival delle differenti abilità di Polistena (RC). La compagnia che lo propone è Nèon Teatro, nella città di Catania bagnata da un mare tanto dolce quanto tempestoso e sovrastata da un’abbondante e materna Etna. Nèon con i sui 27 attori mette l’anima di fronte al pubblico ed il pubblico, solitamente in questi casi, con l’anima applaude. Gli elementi del gruppo sono diversi tra loro e spaziano dai 106 anni alla non età, quella del cuore che batte e reagisce 38 La regia di Monica Felloni, la direzione artistica di Piero Ristagno, la scrittura di Danilo Ferrari, Stefania Licciardello, Manuela Partanni e Chiara Tinnirello sembrano conoscere ogni singolo spettatore, dicono qualcosa che non avevano ancora ascoltato, quel che rimane troppo dentro, in silenzio e inesplorato. On line sono stati pubblicati alcuni contest ed i post della “Soria del respiro” per anticipare sui social i macrotemi di Ciatu. Il primo dei post stracondivisi è quello dell’ ‘apnea’, si parte da una atmosfera liquida in cui gli attori nuotano e respirano tutti, davvero tutti. Fanno un tuffo e sottacqua il pubblico vede in loro ciò che serve per stare dentro e per stare fuori: il respiro, il sorriso, la sorpresa, l’istinto, gli occhi spalancati. L’apnea suggerisce una rinascita, poi si continua senza evitare di guardare cosa emerge – fiato dopo fiato – nella vita di ciascuno. Nèon ci ricorda che siamo vivi, purché ‘l’anidride carbonica venga scambiata con l’ossigeno’. Per emulazione il pubblico guarda e percepisce che nello spasmo dell’anima bisogna darsi da fare, a qualunque condizione, respirare è come attingere pace nel tormento. E poi c’è quel ‘la, la, la’ della spensieratezza, in scena entra il soffio della libertà di quella bambina che sarò, e che chiunque può ancora essere, anche da grande. Alla danza e al gaio vocìo dell’infanzia segue la consapevolezza, si cercano risposte, è il momento della ‘parola’. Inizia l’affanno Il gruppo di Nèon Teatro evolve ancora, è affermato già da anni sulla scena dei teatri della diversità, sia in Sicilia che in Italia, eppure con Ciatu sbalordisce come fosse uno sconosciuto, le scene sperimentali risultano sempre più potenti, più di prima. Con gli occhi negli occhi, con il fiato nel fiato, l’azione del palco si riverbera sulla platea, senza distanze o interruzioni formando un reticolo di respiri vivi. Vedere per credere. * Giornalista ed esperta in progetti di ricerca nel campo della disabilità Abstract REATH WITHOUT BEING AWARE? èonTeatro chose the prestigious Teatro Antico in Taormina to present its new production, Ciatu. It is a way of making Theatre, a way of living, the good ready to be assimilated, cultivated, in continuous transformation. It is a combination of actions full of singing, poetry, images, music and dancing in a soft passionate sequence. It is art that embraces the future, from which it extracts essential lymph. Ciatu is time, space, variety of human beings. Inside everything is normal and special at the same time. All the twenty-seven actors, the spectators and Theatre are together, a single entity which inspire life, eyes in the eyes, breath in the breath and the action on stage resounds all over the audience without distances or interruptions, giving birth to a reticulum of alive breaths. N Rubriche - Teatro e Disabilità 1 di quelle voci interiori, dei perché, perché, perché. Nascono domande che irrompono sui silenzi. Parole che vibrano, scuotono, sgretolano la sedimentata superficialità umana. Nèon cresce e invita a crescere, è forte. Dal beato rifugio della fanciullezza si alza una ‘voce’ che ha ritmo, è determinata, è disillusa, è più adulta di quanto si possa immaginare. E poi c’è il dolce sospiro della “preghiera” detta guardando alle stelle in quei giorni giusti. E si innalza un ‘canto’ superlativo. Che dono quello delle note acute di Alfina Fresta nel celebrare il Sole, in alto sorge ogni giorno, per tutti, nessuno escluso. E si alza anche il volume della musica, con una danza provocante, tacchi a spillo sensualmente trascinano in scena una sedia a quattro ruote, fianchi che si muovono, come quelli di Emily Reitano e senza accorgertene con lei balli anche tu. In Ciatu è contagioso anche l’anelito di chi sa sorridere come Enzo Malerba, che guardando il pubblico dritto negli occhi, lautamente, riesce a dirgli “io sono stupendo, sono Miss Italia”. CIATU NON LAVORIAMO SULLA MANCANZA MA SULLA PERFEZIONE Intervista all’autrice e regista dello spettacolo di Egle Zapparrata * É fuxia il vivace taccuino su cui la regista Monica Felloni ha delineato la perfetta forma di Ciatu. Incanta sapere che, per caso, il fuxia è diventato il colore leit motiv di ogni layout divulgato per lo spettacolo. Ma lei sa che il caso non è mai un caso. La regista siede comoda mentre parla di lei, del suo pane quotidiano, del teatro. Dentro Monica Felloni ci sono tutte le persone che ha incontrato. Ama e s’arricchisce del confronto puro. La sua espressione è accogliente. La sua voce non è mai uguale, segue la curva delle sue emozioni. Parla e snoda una matassa di relazioni che tesse ogni giorno e che poi porta in scena. L’attrice è nata a Ferrara, è cresciuta a Bologna, ha viaggiato per tutta Europa e vive in Sicilia con Piero Ristagno. Con lui nel 1985 ha dato inizio alla sua ricerca e ha dato vita alla compagnia Neon Teatro. L’opera della sua regia non è mai uguale; è precisa e universale; arriva dritto dritto al cuore del pubblico. Mentre si racconta sembra di vederla salire e scendere da botole segrete, si catapulta in nuovi mondi, simili ma diversi tra loro. Va avanti e torna indietro, esplora ogni angolo, cerca e trova energie che la rendono più forte, non si arrende di fronte agli ostacoli, rischia. Interagisce con nuovi personaggi, nuovi colori, nuove forme, nuovi salti, nuovi muri da abbattere, nuovi obiettivi, nuovi cieli, nuove mosse, nuovi punti di slancio. Monica supera e raggiunge altri livelli. Non sente dolore quando, sopra e sotto il palco, polverizza gli stereotipi, lo fa con gentilezza e sobrietà. Vive la diversità senza incorniciarla, cerca l’unicità in ogni essere, lei ne fa teatro e Piero accanto ne fa poesia. Cosa ha la Sicilia che ti appartiene? «È una terra molto forte, piena, calorosa, qui esiste il mito, ci sono delle radici, c’è accoglienza, ha il mare, c’è libertà. Ho sentito queste cose, sono sale per me, ho detto a Piero: stiamo qua». Nella vita, al tuo fianco c’è Piero. Come nasce questo legame teatridellediversità 39 Rubriche – Teatro e Disabilità 1 Ciatu, Teatro Antico di Taormina, foto di Jessica Hauf tra il teatro e la poesia, tra te e Piero? «Di fronte al rischio di ogni mia idea che proietto sul teatro lui dice sì, sempre sì. Mi ha dato lo spazio, ad ogni sì, segue una grande scoperta! Ci siamo chiesti “Perché teatro? Cos’è?”. Abbiamo cercato un’espressione universale, abbiamo trovato vari linguaggi creativi e ci siamo dedicati alle relazioni tra i parlanti. Crediamo che ciascuno può portare il pubblico da qualche parte. Non c’è un messaggio, non c’è un messaggero, non c’è un solo codice. Facciamo una sintesi. L’azione creata insieme, con Nèon Teatro, rivela un aggregarsi di energie che sprigionano un’emozione forte e simultanea, come avviene con le particelle del mercurio. Sentiamo la necessità, l’istinto, l’urgenza, il desiderio, l’intuizione dell’espressione dell’altro e del bisogno dell’altro. Siamo imbevuti nel dire la parola di chi non può parlare, nell’alzare il braccio di chi non può alzarlo. Non c’è distanza tra noi e gli altri, c’è un collante. È il vincolo d’amore. Traspare, accade e prende forma. E’ come un sapore, viviamo nella curiosità di scoprire come ciascuno lo sente e lo esprime. Anche il pubblico, può accoglierlo e interpretarlo a modo proprio”. Chi entra a far parte di Neon vive una metamorfosi? Dentro Nèon ti senti parte del mondo e dell’umanità, puoi anche stare fermo dietro le quinte per un’ora, ma ti senti sul palco. Chi vuole salire sul palco, lo sappiamo, è vanitoso! La differenza, con Nèon, sta nel come vuoi essere sul palco. Se la richiesta è sempre “io? la mia parte? cosa faccio? posso farlo solo io!”, lì c’è qualcosa che non va. Con Nèon, sia nelle audizioni che in scena, questo non esiste. Ecco cosa c’è di pazzesco. Non c’è un sistema selettivo, non c’è competizione, non c’è neanche compensazione. Non puoi parlare tu, parlo io, ma sono la tua voce. Noi non lavoriamo sulla mancanza, ma sulla perfezione. Ognuno emerge per la sua unicità, non per la sua superiorità, non per la sua inferiorità. Ognuno mette a disposizione una risorsa, ognuno è perfetto, ognuno piace per quello che è». Come hai maturato l’esigenza di esprimerti nel teatro della diversità? «Un giorno a Catania in Piazza San Domenico fui rapita 40 dai gesti, dagli sguardi, dall’interazione di alcune persone. Straordinario. Lo dissi a Piero. Erano sordi. Sentii l’istinto di esplorarne il linguaggio, l’espressione, la relazione. Iniziai a lavorarci e capii che tutto era possibile. Maturai quanto è importante avere nel dialogo un’attenzione reciproca, se mi distraggo c’è qualcosa che mi sto perdendo. Nel dialogo c’è una straordinaria contemporaneità di azioni ed emozioni, ognuna vive senza sovrapposizione, questa realtà andava aperta e vissuta in scena. Prima i sordi. Poi i Down, che ti sembra stiano fuori dall’interazione e invece sono dentro più di quanto immagini. Poi i bambini, con il loro spontaneo proporsi. Poi le donne incinte, il corpo che cambia, le pance, la vita che nasce. Quanto di straordinario ci hanno dato, quante grandi rivelazioni! Vivo il desiderio e il bisogno di aprirmi all’unicità di ciascuno. Per farlo bisogna ascoltare e seguire una disciplina della creatività; è cosi che insieme creiamo nello spettacolo un’incredibile armonia di cui ognuno ha cura». C’è un pubblico che conosce Nèon Teatro. E poi c’è chi sceglie un altro teatro. Potete arrivare a tutti? «Certo. Noi siamo tutti e ci proviamo ad arrivare a tutti. Anche in televisione, quante volte mi hanno detto “aspetta aspetta…”. Ma poi le parole sono queste: “è forte! certo… epperò… fa impressione … aspetta Monica… non siamo pronti… Alfina… Danilo... aspetta… il pubblico non è pronto…”. Chi può decidere chi non è pronto al nostro teatro? Ognuno decide. Non è detto che vedi qualcosa perché sei pronto, anche chi ci vede può non essere pronto. Ognuno rischia. La nostra non è una provocazione, noi non diamo uno schiaffo allo spettatore. Nella previsione di una reazione da parte del pubblico ognuno sceglie un modo e usa un mezzo per dire delle cose, instauriamo un rapporto di fiducia. Ed anche se sul palco, con i nostri attori, potrebbe accadere di tutto, non lasciamo nulla al caso. In Nèon c’è un’intensità, c’è la potenza, c’è gentilezza. Lo spettatore vede, ascolta, vive, vibra, digerisce, reagisce, e se ci segue invita anche altri dicendo “devi venire, non ti posso spiegare, ma devi venire”. Il nostro pubblico - quando si sente a proprio agio - vuole conoscere e far esplorare anche gli altri, vuole scoprire e condi- Rubriche - Teatro e Disabilità 1 Ciatu, Teatro Antico di Taormina, foto di Jessica Hauf videre. Come noi, nel nostro teatro, il pubblico è protagonista». Cosa era ieri e cosa è per te adesso il teatro? «Il teatro era la mia religione, potevo scegliere da attrice di andare avanti nei meandri della notorietà. Ma essere famosi, gli applausi, la danza, non mi bastava, chiuso il sipario cosa rimaneva? Poco, troppo poco per me. Ho sentito la necessità di andare oltre quel teatro, non mi dava abbastanza, era fine a sé stesso. Ho scelto di tornare in Italia dove mi piace il suono della parola. L’impegno? È quello di cercare e condividere qualcosa di più prezioso e vitale, andare alla ricerca dell’essenza: seguo l’indole di condividere la vita nel teatro. Bisogna abbatterne i confini, possiamo sentire le vibrazioni del teatro in ogni sua forma, nella danza, nella poesia, nella musica, perché sceglierne solo una? Il teatro va scasellato, va liberato. Ho iniziato la mia ricerca con Piero. Col tempo ho sentito la necessità di prendere in mano le cose. Quella della regia è stata una scelta faticosa, ho trovato un modo per farlo senza rinunciare al palco. Come quando lasci i figli, quando ho in mano la regia, devo sempre esser certa di aver pensato a tutte le cose prima di avere uno spazio mio come attrice. E anche quando sono fuori scena, sono dentro. Mi sono dovuta inventare la regia. Parto sempre dall’ascolto, del sé e dell’altro. Cerco il cuore, mi sono allenata ed ho imparato a riconoscerlo, ne sono testimone. Con Neon lanciamo al pubblico parole che non sono solo parole, come quando lanci un bambino: qualcuno è sicuro che lo prende, non c’è timore, è grande la fiducia nello spettatore, non cade, ne siamo certi. Il teatro è un terreno fertile, dentro c’è una relazione aperta: tra loro, tra loro e me, tra loro e il pubblico, tra noi e il pubblico. Adesso ogni spettacolo è un arrivo e una partenza, è dare e ricevere. Anche il contenuto prende forma nel tempo, è mutevole e coinvolge. I testi evolvono, li scrive Piero, li scrive Manuela, li scrive Stefania, li scrive Danilo. Ognuno crea in sé, con l’altro, per l’altro, nell’altro e poi si esprime. E nel momento in cui la creatività si esprime bisogna raffinarla: devi mettere e togliere, va approfondita, va pulita, ma è già nello spettacolo! Uno legge l’altro. Nel mio modo attuale di intendere il teatro niente appartiene a uno solo, tutto appartiene a tutti ed è per il pubblico. In scena va l’emozione, valorizziamo la nostra libertà creativa, quando si arriva al sublime che va in scena, tra noi è come dirsi “Guarda che io so di te, sei stato tu, ti ho visto”. Ma devo stare attenta. Arriva un momento in cui, anche loro, entrano in crisi, di fronte al pubblico si chiedono “Non mi guardi più, non ti vado più bene, dove sei, conferma”. Ecco che arriva la mia voce, io ci sono. E non solo io. C’è Piero, Stefania, Manuela, Maria Stella, Giovanni, Ester, Jessica, Sofia, Luca, Chiara, Danilo, Luca, Emanuela, Patrizia, Alfina, Enzo, Carmelo, David, Emily, Gaia, Kevin, Dalila, Roberta, Antonio, Maurizio, Marta, Aldo, Francesco, Segoléne, Gaetano, Zagara. Tra noi non c’è niente di slegato. Noi ci siamo, e siamo un corpo solo». * Giornalista ed esperta in progetti di ricerca nel campo della disabilità Abstract DO NOT FOCUS ON MISSING, BUT ON PERFECTION he actress and director Monica Felloni was born in Ferrara, she has traveled throughout Europe and now she lives in Sicily with Piero Ristagno. In 1985, they started together theri research and gave birth to Neon Teatro. Monica’s direction is precise and universal. She comes straight to the heart of the public. She does not surrender to obstacles, she hazards. Monica looks for and finds energies inside and outside the theater, and she becomes stronger. She does not feel pain when, above and below the stage, stereotypes are pulverized. She does it with kindness and simplicity. She lives the diversity without to frame it, but seeking the uniqueness in every being. So she creates theater, with his accomplice Piero, and together they turn it in poetry. With her styl,e she works on the action on stage until it has the perfect form. She inspires, enchants to communicate her vision, she feeds and combines with all interpreters’ lives. They all become one, they have a single ‘Ciatu’ (breath). T teatridellediversità 41 Rubriche - Teatro e Disabilità 2 MAURIZIO LUPINELLI IL RUMORE DELLA VITA Intervista all’attore e autore, fondatore di Nerval Teatro insieme a Elisa Pol, dopo la lunga esperienza con il Teatro delle Albe di Eleonora Firenze* Attraversamenti, Nerval Teatro, foto di Ilaria Scarpa “H o scoperto nel lavoro con i disabili cose straordinarie: cose nelle quali magari non c’è razionalità, ma c’è un loro modo di comunicare che io chiamo il rumore della vita”. Cit. Massimo Marino Un teatro della fragilità in La Ferita Longo Editore Ravenna. Questo dice Maurizio Lupinelli. Premio UBU nel 2001 come miglior attore italiano nello spettacolo Ella di Achternbusch. Membro del Teatro delle Albe dal 1990 e di Ravenna Teatro, nel 1991 fonda con Marco Martinelli la Non-Scuola, esperienza teatrale negli istituti superiori di Ravenna. Dal 1997 inizia a lavorare con ragazzi portatori di handicap sia fisico sia psichico. Nel 1999 a Lerici (SP) inaugura una collaborazione con il centro disabili Pl.e.ia.di. Nel 2006 Maurizio Lupinelli lascia il Teatro delle Albe e fonda Nerval Teatro con Elisa Pol nel 2007. Debutta ad Armunia Festival Costa degli Etruschi con lo spettacolo Marat, tratto dal Marat-Sade di Peter Weiss con 40 personaggi tra attori diversamente abili della Bassa Val di Cecina e dello spezzino e studenti della Non-Scuola di Ravenna. Nel 2009 inizia dei laboratori con i ragazzi diversamente abili 42 del Consorzio Nuovo Futuro di Rosignano Marittimo (LI) e un gruppo di ragazzi e adulti ospiti dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. Esperienze che sfociano in Amleto!, liberamente tratto da Amleto di William Shakespeare, prodotto da Armunia con Olinda, che debutta alla Festa del teatro di Milano. Nel 2010 firma Appassionatamente, tratto dai testi di Werner Schwab. Nel 2011 dirige Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane che debutta al festival Inequilibrio di Armunia ed è direttore artistico di Teatro Portasud, un progetto di teatro e comunità per i cittadini dei quartieri degradati di Marghera. Nel 2012 è al festival Inequilibrio con Che cosa sono le nuvole, tratto dal cortometraggio di Pier Paolo Pasolini. Vi lavorano 13 attori diversamente abili, utenti della Cooperativa Tre, Consorzio Nuovo Futuro di Rosignano Marittimo. Dal punto di vista teatrale, cosa ti ha spinto verso il coinvolgimento di persone con disabilità nella composizione del cast dei tuoi lavori? Parto dal presupposto che all’inizio, siamo nel 1995, il rapporto con la disabilità era un progetto a sè rispetto al mio percor- Rubriche - Teatro e Disabilità 2 Attraversamenti, Nerval Teatro, foto di Ilaria Scarpa so artistico. A quell’epoca lavoravo con il Teatro delle Albe; quando nel 2006 mi staccai per fondare Nerval Teatro assieme ad Elisa Pol, cominciai a rendermi conto che il lavoro con queste persone straordinarie poteva incrociarsi con il percorso della compagnia appena sorta. Quindi credo che il coinvolgimento di queste persone negli ultimi anni sia stato un fatto del tutto naturale e rientra nel disegno della creazione della compagnia in quanto attori. Se ci sono state delle difficoltà di che natura erano? Quali invece gli aspetti che hanno migliorato l’aspetto rappresentativo? Non ci sono state grosse difficoltà se non quelle del tempo, col gruppo dei ragazzi di Castiglioncello lavoro dal 2005 in un progetto che ci ha permesso di lavorare tanto assieme. Quindi abbiamo avuto la possibilità di conoscerci e di instaurare un rapporto di fiducia, dandoci la possibilità anche di sbagliare, che in teatro è un lusso. Dico sempre: “Inciampare nel teatro è un dono“. Quindi credo che la grande sfida sia quella di aver avuto la presunzione di credere che tutto fosse possibile e il “tempo” è l’unica garanzia… A volte ai ragazzi dico di darsi un tempo e di non aver fretta, di lasciare che tutto possa da un momento all’altro emergere. È il mistero che ci deve assalire. Lo dico perché dopo anni di lavoro con loro, a stretto contatto, mi sembra, o c’è la presunzione di affermare, di essere molto vicino all’antico, agli antenati e quindi di essere attaccato alla vita. Quanto “l’imperfezione” è importante dal tuo punto di vista? Credo che sia una delle cose più importanti del mio lavoro. Penso che l’atto creativo insieme all’agire scenico siano i fondamenti per ricercare i misteri della scena, la sua alterità, il non detto, il buio, l’inciampo, l’attraversare i limiti, il sondare la coesione di corpi così differenti sulla scena, le sue difficoltà, i suoi limiti. C’è un risultato prioritario che intendi raggiungere? Di che natura è? Sociale, politico, artistico? Un insieme dei tre? teatridellediversità 43 Rubriche - Teatro e Disabilità 2 Ho sempre pensato che l’unica strada sia quella di arrivare alla creazione dell’opera con tutte le sue difficoltà, non mi sono mai posto il problema se fosse sociale o politico ecc.. Quello che conta è l’atto creativo, che ci porta dritto alla messa in scena, o meglio alla messa in vita. Il tutto avviene solo se c’è una grande consapevolezza da parte del nucleo artistico a seconda del progetto. Faccio un esempio. Non in tutte le creazioni partecipano tutti i ragazzi con cui lavoriamo. Certe volte vengono scelti solo alcuni in base alle caratteristiche e alla capacità. Questo significa anche una crescita e una grande consapevolezza. Credo che sia un notevole segno di maturazione del gruppo, ma non solo, anche degli operatori e delle famiglie. Quali sono i parametri per la scelta degli autori da rappresentare? C’è un legame con il cast? Non c’è nessun legame per il testo nè tra gli attori normodotati nè quelli diversamente abili. Forse solo nella prima produzione del 2007 Il Marat Sade. Li c’era una forte aderenza tra gli attori e il testo. Un lavoro corale che vedeva in scena cinquanta attori, di cui trenta diversamente abili e mi vedeva in scena in qualità di regista nei panni del divin marchese. In altre occasioni le scelte dei testi erano legati al percorso che intraprendevo rispetto al lavoro dell’attore e del tipo di messa in scena. Autori come Buckner, Pasolini, Schwab, Beckett, Aristofane ci hanno permesso di attraversarli, di renderli molto vicini e anche di capirli, nel senso di rovesciarli, andando all’origine, “universali”. Quando parlo di origine intendo l’antichità dei corpi degli attori con cui lavoro da anni sulla scena. A luglio di quest’anno il debutto nazionale, al Festival Inequilibrio di Castiglioncello, di Attraversamenti, ispirato ai personaggi di Samuel Beckett, dopo tre anni di laboratorio coi ragazzi disabili della Cooperativa sociale Nuovo Futuro. Sono dieci anni in realtà che lavorate con questi ragazzi. Qual è la ricchezza di questa performance teatrale rispetto ad un lavoro tradizionale? Mi ripeto, ma è la grande consapevolezza che solo il tempo dà. È vero, questo spettacolo è il frutto di un lavoro molto lungo, ma avevamo bisogno di soffermarci sul lavoro dell’attore in scena e i testi di Beckett ci hanno dato la possibilità di scoprire e di rafforzare la loro presenza e di mettere ancora di più in risalto la consapevolezza e la libertà dell’agire scenico, a partire dai personaggi stralunati di Beckett, scoprendo una grande vicinanza al mondo delle diversità. Quali gli aspetti scenografici e come arrivi alla loro ideazione? Anche in questo caso per quanto riguarda la scenografia va di pari passo con l’andamento delle prove, a partire dalle suggestioni degli attori , deve essere tutto necessario. Non è facile. A volte mi diventa anche un incaglio, se non abbiamo l’oggetto giusto, la scena non va avanti. È cosi anche per le luci, tutto deve essere necessario, come per le azioni degli attori, gli abiti, insomma tutto deve essere organico e solo il tempo lo rende possibile. Nerval Teatro è supportato economicamente da qualche struttura pubblica? Nerval Teatro è una compagnia toscana, dal 2006 ha una residenza artistica presso Armunia Castiglioncello (Li ) ed è sostenuta dalla Regione Toscana. Qual è l’affluenza di pubblico ai vostri spettacoli? Di solito l’affluenza è quella delle stagioni di teatro contemporaneo, mentre per le prime abbiamo la fortuna di debuttare ad 44 un festival come Inequilibrio, che è uno dei più importanti in Italia, seguito da molti operatori, critici e studiosi, negli anni siamo andati in stagioni importanti in Italia. Per citarne qualcuna, Ravenna, Milano, Roma, La Spezia, Bologna. Anche all’estero, in Francia, in alcune scene nazionali, La roses des Vents Lille, Theatre Duance , theatre 3bsf a Aix en Provence. Recente è la pubblicazione del libro La Ferita. Me ne vuoi parlare? Era da tempo che ci pensavo, ed è stato il professor Gerardo Guccini del Dams di Bologna che ci ha dato l’idea del libro, curato di Marco Menini edito da Longo Editore. Sostanzialmente è un libro che ripercorre per tappe il mio percorso artistico in tutti questi anni, fatto d’incontri e luoghi particolari. La cosa interessante è che a parlarne sono persone che ho incontrato lungo il cammino e che in qualche modo hanno condiviso e aiutato. Figure come Marco Martinelli, regista e drammaturgo, con cui ho condiviso un pezzo di strada a Ravenna col Teatro delle Albe, Massimo Paganelli direttore di Armunia a Castiglionello, ora in pensione. Come Renato Bandoli a La Spezia, con cui iniziai l’esperienza con i ragazzi disabili prima a Ravenna e poi a La Spezia e lo psichiatra Tomas Emmeneggher, responsabile dell’ex manicomio Paolo Pini di Milano, ora Olinda, presso il Teatro La Cucina, inaugurandolo nel 2008 con lo spettacolo Marat Sade. Collaborazione che proseguì per due anni, lavorando ad un progetto dal titolo L’incontro Mancato con alcuni ex pazienti del Paolo Pini. Ma anche figure come Maurizio Iacono, filosofo e docente presso l’università di Pisa , uno scrittore come Antonio Moresco, Gerardo Guccini docente universitario del Dams di Bologna, alcuni giornalisti come Massimo Marino, Andrea Nanni critico e studioso, Marco Menini in qualità di curatore e studioso. Attualmente ci sono delle riprese di tuoi spettacoli. Quali sono i prossimi progetti? Per il momento stiamo portando in giro Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane e Canelupo Nudo, un omaggio a Werner Schwab, un autore che amiamo molto. Presto riprenderemo Attraversamenti tratto liberamente da Beckett con tutto il gruppo degli attori diversamente abili, mentre per la prossima stagione lavoreremo ad una nuova creazione dal titolo Quando un testo di Lucia Calamaro. In scena Elisa Pol, attrice e fondatrice insieme a me di Nerval Teatro. www.nervalteatro.it * Regista, studiosa in Scienze dello spettacolo e comunicazione multimediale Abstract MAURIZIO LUPINELLI AND “NOISE” LIFE ctor since 1986, UBU prize winner in 2001, Lupinelli started Nerval Theatre with Elisa Pol in 2007, after the experience with Albe Theatre. Convinced that ” in “imperfection” lives the real opportunity for theatre to be alive, he started to work with disabled people in 1997, reaching incredible results. The authors choosen - Buckner, Pasolini, Schwab, Beckett, Aristofane - allowed him to upset the texts,to find universal meaning and the origin of things, considering the origin as the body of the actors he works with. The freedom of theatrical acting remains evident for their purpose, discovering a great closeness to diversity world. A SULLE TRACCE DI IPPOCRATE NELL’ISOLA DI KOS In epoca greca il medico inviava i suoi pazienti a curarsi sull’isola di Kos. A fianco alle cure dirette che riguardavano l’equilibrio degli umori del corpo e in stretta connessione con essi, ai pazienti era prescritta la visione di tre tragedie e una commedia. Rubriche - Teatro e Salute TORINO di Alessandra Rossi Ghiglione * Ospedale San Giovanni, Torino, antica sede A questo primo, antico e suggestivo caso di teatro e salute (1) si sommano alcune scoperte contemporanee in ambito scientifico che aprono nuovi e importanti spazi di riflessione per le pratiche teatrali (2). Le persone che partecipano ad attività culturali vivono più a lungo e si ammalano di meno, dice una recente ricerca finlandese (3). Se poi a queste attività partecipano in gruppo si sentono ancora meglio, come sostiene un’altra ricerca italiana (4), e poiché è stata dimostrata una correlazione tra benessere percepito e salute, è molto probabile che stiano effettivamente meglio. Chi ha legami ed educazione (literacy) sta meglio di chi non ne ha - a parità di tutto il resto - perché esiste una correlazione stretta tra capitale sociale, capitale culturale e benessere (5). La cultura e l’arte, sostengono studiosi quali Rodotà e Zagrebesky, sviluppano processi di cittadinanza attiva, di libertà e di democraticità. Le recenti scoperte dei neuroni specchio spiegano alcuni processi fondamentali del teatro, quali l’immedesimazione e la catarsi. L’epigenetica sta studiando come i comportamenti possano avere un effetto sulla realizzazione del nostro DNA, e, dunque, anche la salute che è iscritta nei nostri geni. (6) Penso che questi dati scientifici ci interessino molto come persone di teatro. Riguardano un’antica domanda sul potere del teatro. Domanda che si è posta con la separazione nel Cinquencento tra Medicina e Arte. Nel mondo antico la scena della cura era una scena integrata: medicina, spiritualità, rito costituivano un sapere unitario. L’uomo era considerato un essere intessuto di materia, mente e spirito, partecipe della natura e connesso fortemente con la divinità, che si manifestava in lui e nell’universo. Le pratiche di salute si occupavano dunque della salus, ovvero della salvezza tutta dell’uomo e tutte le arti erano ritenute pertinenti ed efficaci alla ricerca di questa salute. Tra queste anche l’arte teatrale. Oggi questa domanda sul potere del teatro è più che mai importante. Non riguarda questioni di impegno politico dell’arte, che avevano un senso nel Novecento. La sopravvivenza stessa dell’uomo, del pianeta in cui vive, di una civiltà che si possa ancora dire umana ci obbliga – qualunque sia la nostra professione - a chiederci quali sono gli effetti delle nostre azioni e quale sia il nostro potere di cambiamento facendo ciò che sappiamo fare. Sono convinta che un certo teatro, un teatro partecipato e di comunità, fatto da professionisti e persone insieme coinvolti nella creazione artistica possa essere un dispositivo di grande potenza. Alcuni professionisti della sanità cominciano a riconoscere nel teatro uno strumento efficace; le diverse metodologie teatrali - dal teatro dell’oppresso al teatro della spontaneità al teatro epico, dal teatro di parola al teatro sociale e di comunità - si affiancano a processi terapeutici convenzionali. E sembrano anche - e forse sorprendentemente - funzionare bene. E’ una medicina avanzata, quella che non pensa più di possedere la totalità delle tecniche ma è aperta a integrare nel proprio strumentario le molte risorse che si affacciano da altri mondi. Anche per il teatro si prova a darne una collocazione ufficiale nell’ambito teatridellediversità 45 Rubriche -Teatro e Salute Corso di infermieristica degli strumenti utili a fare salute, sottoponendolo ai processi di validazione scientifica. Da questa esigenza nasce, fra gli altri, il progetto Co-health (www.cohealth.it) del Social Community Theatre Centre dell’Università Torino (www.socialcommunitytheatre.com) che si pone l’obiettivo si sperimentare e valutare pratiche teatrali nella formazione dei professionisti della salute. Eppure qualcosa sembra sempre sfuggire. Anche quando il teatro è agito come tecnica, non è mai afferrabile in tutta la sua complessità poiché i fattori messi in gioco dalla creazione teatrale anche nel più semplice degli interventi teatrali sono in realtà sempre moltissimi. Il teatro è un dispositivo multimodale che muove molti livelli esperienziali: attraverso il training muove il corpo come unità integrata psicofisica, sviluppa relazione tra persona e ambiente/spazio e tra persona e persona, suscita l’immaginazione, mette alla prova la dialettica tra ruolo e identità, parla per simboli e riti, e soprattutto allena al pensiero in azione e alla complessità. Forse però la questione è più radicale. E se il teatro non fosse uno strumento, ma un sapere anche quando viene inserito in contesti che lo considerano uno strumento. Se la pratica teatrale rimandasse sempre a un apparato concettuale e di pensiero/visione del mondo irriducibile nella sua natura ultima a quello della scienza medica? E se proprio in questa sua differenza di statuto risiedesse la sua fecondità per l’arte della cura? Parlare di teatro come di strumento è come voler definire la medicina uno strumento. Il gastroscopio è uno strumento, la gastroscopia è una tecnica, la diagnostica invasiva è un metodo; così il costume è uno strumento, l’improvvisazione è una tecnica, e il teatro dell’oppresso un metodo. Ma il teatro che pur si avvale di numerosi strumenti e tecniche, che si organizza storicamente in molti metodi, è in sé qualcosa di molto più complesso di una tecnica o di metodo. Il teatro è arte, e come ogni altra arte è via alla bellezza. Il teatro è anche ‘un’arte’ ovvero un artigianato: un sapere, una visione, una pratica e una tecnica. E’ l’arte del simbolo in azione. Più di ogni altra arte conosce e rivela l’intima dimensione simbolica dell’uomo stesso e della sua vita e il suo essere intimamente drammatica. * Drammaturga e regista, studiosa di teatro sociale e di comunità 46 Note 1 Parlando di salute ci riferiamo alla definizione datane già dal’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 -“la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità”. 2 Le considerazioni qui esposte sono più ampiamente trattate in Rossi Ghiglione A. (2011), Teatro e salute. La scena della cura in Piemonte, Torino, Ananke; Rossi Ghiglione A. (2014), Arte, benessere e partecipazione, in De Biase (a cura di), I pubblici della cultura, Milano, Franco Angeli. 3 Hyppa, M. T., Maki, J., Impivaara, O., Aromaa, A. (2006), “Leisure participation predicts survival: a population-based study in Finland”, Health Promotion International, 21, 5–12. 4 Grossi E., Sacco P., Tavano Blessi G., Cerutti R. (2010), “The Impact of Culture on the Individual Subjective Well-Being of the Italian Population: An Exploratory Study”, Applied Research in Quality of Life, November. 5 Cooper H., Arber S., Fee L., Ginn J. (1999), The influence of social support and social capital on health: a review and analysis of British data, London, Health Education Authority. 6 Bottaccioli F. (2014), Epigenitica e Psiconeuroendocrinoimmunologia, Milano, Edra. Abstract DURING THE GREEK PHYSICIAN HIPPOCRATES SENT HIS PATIENTS TO GET TREATMENT ON THE ISLAND OF KOS. longside the direct care, patients were prescribed the vision of three tragedies and a comedy. This first, ancient and fascinating case of theatre and health, opened the path to today numerous experiences of theatre in the contexts of care and health promotion; some are scientifically evaluated. Theatre is a multimode device that moves many living experiences, creating correlations between cultural capital and social capital and highly effective in producing changes in individuals and community A Rubriche - Poesia BOSTON DANIELLE LEGROS GEORGE: POETA IN CITTÀ Secondo Poeta Laureato della città di Boston dopo Sam Cornish, arriva in Italia l’autrice, di origine haitiana che crede nel valore pedagogico della scrittura che promuove un cambiamento della società di Walter Valeri* Danielle Legros George I primi poeti afro-americani cercavano di scrivere come i bianchi, per lettori molto colti e soprattutto bianchi. Nelle antologie a margine solo una nota biografica lasciava intendere che l’autore era di colore. Phillis Wheatley faceva il verso a Pope e Countee Cullen a Keats e Housman. Ci vollero anni e lo straordinario talento di Langston Huges e Jean Toomer perché la poesia afro-americana diventasse se stessa. Di seguito fiorirono a decine le antologie con il meglio della poesia nera, edite in forme aggressive e rigorosamente separate; riflesso letterario di una società razzista che non poteva negare l’esistenza di poeti di colore. Poeti che attingevano dalla vita del ghetto, dalle strade, dal jazz e dal dolore della discriminazione. Quelle antologie erano e sono il segno dei tempi che cambiano, che passano dalla discriminazione più bieca ad una società consumistica non meno crudele, apparentemente pluralista; sino alla terza edizione della Northon Anthology of African America Literature del 2014, che in due ponderosi volumi sembra pareggiare il conto. A testimoniare che giustizia è fatta, almeno sulla carta. Ora, se il conto è saldato, che ci fa una poeta afro-americana in giro per la città con fervore militante, in mezzo agli altri, fuori dalle pagine di un’antologia che non vedrebbe l’ora di accoglierla e in qualche modo storicizzarla? “ Credo che il mio ruolo sia quello di demistificare la poesia, renderla comprensibile e quindi necessaria per la gente. Per quelli a cui non è chiaro cosa pensare di lei.” Un’impresa che detta così può far tremare i polsi, ma non quelli di Danielle Legros George, afro-americana di origine haitiana, secondo Poeta Laureato della città di Boston dopo Sam Cornish. “Il poeta non può parlare sempre e solo di sé, almeno non credo debba essere così”. Difficile contraddirla, perché per un poeta vero la realtà esiste. Unico privilegio: quello di poterla descri- vere, trascriverla come fosse la prima volta, con lampi di luce e squarci di colore non ordinari. “ Stava il ciliegio con le sue gocce rosse/privilegiatamente dimenticato e dimentico/tra piante qua e là per sbaglio ferite, tra fosse/di granate e il bruum delle artiglierie ardenti” ha scritto Zanzotto parlando di Comisso, concludendo “di Giovanni e del ciliegio il privilegio/lascia ad ogni vivente, o umanità”. La poesia, benché sia un privilegio, non è luogo di pura rapina o vaga ispirazione. Non lo è mai stata. “Il poeta ha un compito ben preciso da svolgere nella città in cui vive” aggiunge Danielle, “Oggi più che mai, ovunque abiti, rischia la vita o la morte, la miseria o il benessere come tutti gli altri. Dorme più o meno malamente come tutti gli altri. Di suo ha un mandato straordinario, chiaro e trasparente”. Qual’ è? “Quello di far sapere alla gente cosa ci faccia lì, in mezzo a loro. Perché usa parole non comuni per esprimere idee e sentimenti di tutti”. Originaria di Haiti Danielle si è trasferita assieme alla famiglia a Boston quando aveva solo sei anni. Facendo le prime scoperte in una piccola enclave di immigranti Haitiani, nel popoloso quartiere di Mattapan. Un quartiere fra i più colorati e chiassosi di Boston. “Una delle caratteristiche di quella comunità è sempre stata quella di esporre i propri figli all’esperienza delle arti. Educarli alla musica, alla poesia, alla danza, al teatro, alla pittura era ed è per loro altrettanto importante quanto metterli a tavola”. Per dare colore e incanto elegiaco alla terra perduta, a quella in cui si è approdati e non sempre accettati per quel che si è. Per evadere la crudele tacca dell’emigrazione, per dare alla fin fine un significato alla vita: alla terra del giardino dove fioriscono le azalee, alla scala su cui si scivola nei giorni di neve, al cesto di limoni che occhieggia dal supermercato, a un matrimonio o a un funerale. Una maniera umana, diversamente utile per mettere assieme le parole e i loro suoni, per comprendere oppure occultare la vita e i suoi misteri, per manifestarla a sé stessi e agli altri. “In quel quartiere cercavo di dare un senso alle cose. E’ così che è nata e si è evoluta la mia poesia.” Ora Danielle oltre a ricoprire l’incarico ufficiale di Poeta Laureato per la città è docente alla Lesley University, dove insegna un corso pratico di poesia. “E’ un percorso pedagogico particolare, per studenti laureati che vogliono prendere un Master e promuovere attraverso la scrittura un cambiamento nella società.” Fuori dall’ambiente accademico, come Poeta Laureato coordina e sovrintende vari programmi, soprattutto incontri fra i poeti, la loro arte e la città. “Questi programmi sono non solo eccitanti, ma estremamente utili per i poeti. Legati alla vita delle persone. Hanno come obiettivo quello di far intendere la vita di tutti i giorni con parole non banali”. Un po’ teatridellediversità 47 Rubriche - Poesie come aggiungere sale alla minestra, diluire i poeti e le loro parole nelle diverse aree della città, nelle diverse comunità. Specie quelle a rischio. “Ognuna con un preciso e distinto profilo, una connotazione ben determinata”. Per Danielle, che percepisce duemila dollari all’anno per farsi carico di questo progetto monumentale, non sono ore sottratte alla sua scrivania “ma una splendida opportunità per collegarsi coi giovani dei quartieri, della Boston Public School, con la loro difficoltà di essere i figli dell’ultima generazione di immigrati; e incontrare con programmi di alto valore culturale gli anziani, segregati nelle Case di Riposo senza più alcun contatto con quel mondo che hanno pur costruito”. Sul suo sito web all’indomani della nomina ufficiale ha scritto: “L’America è migliore quando riconosce le sue diversità. Noi americani siamo migliori quando abbracciamo il nostro essere plurali, quando andiamo verso gli altri, cerchiamo di capire tutti quelli che sono attorno a noi. Noi Americani siamo migliori solo quando siamo impegnati in un dialogo”. Ed è certamente così. Il compito di un poeta non è quello di finire sepolto in un’antologia. Il compito di un poeta non è mai finito: tutto il resto è letteratura, come diceva Paul Valery. e verde montagna, villa e tugurio * Docente al Boston Conservatory più bello, la norma, l’anomalia, Natura morta con sfere l’inusuale, ciò che è più raro vale a dire, Tra la cosa e il suo nome c’è un mondo e un altro mondo dietro quello. C’è la mia maschera posata sul tavolo. C’è il tavolo di legno e lo spazio sotto. C’è un’arancia sul pavimento che dovrebbe essere sul tavolo nel cesto giallo delle arance con dentro un gatto che si lecca la zampa davanti. Che ne sanno i gatti delle arance? E dell’acqua che ne sanno gli uccelli se non v’immergono il becco togliendo il sonno a qualche povero pesce. Che ne sanno i pesci degli uccelli se non lo squarcio del becco, improvviso lampo e poi più niente. Versi per il paese più povero dell’emisfero occidentale Oh più povero dei paesi, non è questo il tuo nome. Dovrebbero chiamarti fiamma e faro, mandorla e buganvillea, giardino 48 ragazza dal fiocco rosso nei capelli, libri sottobraccio, affascinata dalla luce del mattino, carbonaia dalla gonna nera, circondata di alberi morti. Tu, paese, sei mercante E impiegato zelante, nonno Al cancello, al crocevia Con la torcia, con la luce Con la luce. Unici La natura nasconde Il progetto l’unicità, non siamo ognuno, anche i gemelli, unici? Traduzioni Walter Valeri, Pina Piccolo IN ITALIA Danielle Legros George il 21 maggio 2016 è stata a Forlì tra gli ospiti del Festival Internazionale di Poesia, Musica e Arti Visive “L’Orecchio di Dioniso” (prima edizione). Il 24 e 25 maggio ha curato due incontri di laboratorio di scrittura nella Comunità terapeutica del Gruppo Atena a Montecerignone (PU), dove un gruppo di ospiti della struttura, coordinato dal Teatro Aenigma, sta allestendo uno spettacolo teatrale dedicato alla poesia e ispirato anche alle sue opere (debutto previsto a dicembre 2016). Abstract DANIELLE LEGROS GEORGE: A POET IN THE CITY oston Poet Laureate Danielle Legros Georges is a professor in the Creative Arts and Learning Division at Lesley University. Her areas of academic interest include arts and education, contemporary American poetry, African-American poetry, Caribbean literature and studies, and literary translation. A writer and poet, Legros Georges has been widely recognized a variety of recognition for her work with and recent literary awards such as: the 2014 Massachusetts Cultural Council Artist Fellowship in Poetry; the 2012 Massachusetts Cultural Council Finalist in Poetry; Lesley University Faculty Development Grants; and a 2013 Black Metropolis Research Consortium Fellowship/Andrew W. Mellon Grant. Legros Georges describes her poetry as tackling a wide range of themes and asking philosophical questions that can lead to conversations about larger issues in life. B IN RICORDO DI EMILIO LUSSU Un Premio ed una Scuola di poesia popolare nella periferia del capoluogo sardo inaugurano un percorso originale a cura della rivista letteraria “Coloris de Limba” Rubriche - Poesia A CAGLIARI di Alesssandro Macis * I n una calda serata cagliaritana d’inizio maggio, quasi estate, con un soffio di vento che diffonde per l’aria il profumo dei fiori di limone, ed Efisio martire santo compatrono della città si prepara a far ritorno nella sua chiesetta di Stampace, dopo la consueta passeggiata annuale, a Is Mirrionis, quartiere della periferia del mondo, viene tenuta a battesimo, muovendo i suoi primi passi, la neonata Scuola popolare di poesia. In una piccola sala, sede del circolo Me-Ti, associazione impegnata nel sociale e partner del progetto, lontana dai rumori del traffico, dai bar e dai negozi alla moda, il poeta e scrittore Gianni Mascia accompagnato dagli operatori culturali dell’associazione L’Alambicco - La macchina Cinema, dall’attore e regista Fausto Siddi e dai rappresentanti dello studio editoriale Typos, tutti compagni d’avventura, ha presentato ad un pubblico attento la sua creatura. Di questi tempi, in cui la gente ama cullarsi nei propri solipsismi, è bello vedere la sala piena, lo svilupparsi della discussione e la partecipazione attiva. La presentazione, in dissolvenza, si trasforma in racconto; il racconto fruga tra i ricordi e retrospettivamente fa riemergere frammenti di un passato remoto. Un flashback, il lungo corridoio di una scuola elementare illuminato da lampade al neon, l’odore di matite temperate, di inchiostro e sillabari. Un’ aula le cui finestre danno su un cortile: la location è sempre Is Mirrionis, una classe con bambini che hanno famiglie e un vissuto problematico. In cattedra un poeta-maestro che cerca di sperimentare un metodo didattico creativo, impegnandosi a instillare in questi bambini cresciuti troppo in fretta, l’amore per la poesia e la scrittura. Le sue tasche sono gonfie di conchiglie che è andato a raccogliere in una spiaggetta del Villaggio di pescatori. Le posa sulla cattedra: hanno forme e colori diversi. Ognuna ha una storia nascosta che aspetta solo di venir fuori ed essere narrata, dice il maestro. I piccoli scolari si impossessano delle conchiglie: c’è chi porta il guscio in prossimità dell’orecchio per ascoltare il rumore del mare che si frange sugli scogli o va ad accarezzare la battigia; chi, con la punta della lingua, ne sfiora la superficie gustando il sapore di sale. Sensazioni che stimolano la fantasia, aiutata dalla lettura delle poesie di Gianni Rodari. Sui fogli dei quaderni incominciano a prendere forma i primi versi: semplici, ingenui. Versi dedicati al sole, all’immensa distesa del mare, all’estate che rimanda al tempo delle vacanze, ai primi turbamenti dell’amore. Tutti partecipano, tranne uno scolaro che, solitario, si rifugia all’ultimo banco. E’ un bambino difficile, con una famiglia sottoproletaria che vive ai margini. Non vuole saperne di partecipare al laboratorio di scrittura. Poi, una mattina, arriva a scuola, apre il quaderno e legge ad un esterrefatto maestro un poesia d’amore dedicata ad una compagna di classe. E’ questo l’humus che a distanza di qualche lustro ha fatto germogliare la Scuola Popolare di Poesia. Ritornando al presente, il laboratorio permanente di scrittura in versi sarà ospitato in due luoghi simbolo: un quartiere popolare, Is Mirrionis, ad alta densità abitativa, e la sede dell’Associazione Sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica, ospitata nell’ex manicomio di Villa Clara. Un intrigante progetto culturale che vuole condividere la cultura poetica, coinvolgendo giovani e meno giovani, di etnie e lingue diverse, sardo compreso. Dove la parola, fantasmagoricamente, si trasfigura in catarsi, liberando energie e creando anticorpi che sprigionano la createatridellediversità 49 Rubriche – Poesie tività molto spesso sopita, facendo da argine alle devianze, alla solitudine, alla sofferenza psichica e alla dispersione scolastica. E’ un progetto ambizioso, nato senza contributi pubblici, che muove i primi passi autonomamente, affiancato dalla rivista letteraria plurilingue Coloris de Limbas, diretta dal suo ispiratore Gianni Mascia. Avrà come compagni di viaggio grandi autori che della poesia hanno fatto un’inseparabile compagna di vita. Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud, Sandro Penna, Giuseppe Ungaretti, Charles Bukowski, Alda Merini e tanti altri, con i loro versi immortali terranno accesa la fiammella della creatività, stimolando alla scrittura poetica i partecipanti ai seminari. Tra i tanti progetti che la Scuola Popolare di Poesia sta mettendo in cantiere, il laboratorio permanente linguistico è senza dubbio il più stimolante e impegnativo. Partendo da “Su gergu de Soparma”, lo slang della mala cagliaritana che si parlava in certi ambienti fino a una quarantina di anni fa, la Scuola si propone di elaborare e codificare un glossario gergale, che attraverso un lavoro di ricerca sul campo raccolga, attraverso le testimonianze di chi ancora utilizza espressioni di quella parlata, l’argot che ancora si conserva. Con queste premesse la Scuola Popolare di Poesia può diventare un luogo in cui s’incontrano generazioni e culture altre che esaltino la ricchezza delle diversità, accompagnate, giusto per rimanere in tema, dai versi di Puskin: “Voglio comprenderti,/studierò il tuo oscuro linguaggio.” Sei mesi dopo, altro scenario, il parco cagliaritano di Monte Claro, in un autunno mite che rimanda al tepore di una estate appena fuggita, nei primi giorni d’ottobre, viene inaugurato il primo Festival della poesia Premio Emilio Lussu. Il Festival nasce da un’idea intrigante, contaminare i linguaggi artistici: la poesia, la letteratura, il cinema, la musica. Partendo dall’intuizione di un grande e visionario regista, Luis Buñuel, che ha utilizzato il linguaggio poetico per comporre le sue immagini e profeticamente ha dichiarato: «Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovversione, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio.» La musica che è ritmo e poesia dei suoni si incontra e intreccia con la cadenza ritmata del verso che è la musica delle parole, e col cinema che attraverso il montaggio e le colonne sonore, costruisce la sua metrica. Una coesistenza dialettica tra diverse forme di espressione artistica, che si incontrano e si contaminano. Forme artistiche che si confrontano con la realtà, con il disagio esistenziale, con le periferie del mondo. Con la parola poetica che esce dalle pagine del libro, dai percorsi esclusivi dell’accademico 50 autocompiacimento, per realizzarsi e insinuarsi nel vivo del tessuto sociale. Festival che si è articolato in tre serate e che ha visto coinvolte la rivista di cultura poetica “Coloris de Limbas”, le associazioni “L’Alambicco”, “La macchina cinema” e “La Città degli Dei”, anche Casa editrice, e la Biblioteca provinciale di Cagliari intitolata a Emilio Lussu, che in sinergia hanno dato vita al progetto. Durante la tre giorni sono stati premiati i vincitori del concorso di poesia che ha visto il primo premio assegnato alla poesia “Testamento” di Maria Grazia Spano. Il Festival ha ospitato i reading poetici, accompagnati da improvvisazioni musicali, dei più rappresentativi poeti sardi contemporanei: Gianni Mascia, Alberto Lecca, Laura Fico, Vincenzo Pisanu, Anna Cristina Serra e dell’improvvisatore Cosimo Lai. La neonata Casa editrice “La Città degli Dei” ha presentato in anteprima al pubblico del Festival oltre al terzo numero della rivista poetica “Coloris de Limbas”, “D’amor si vive-Silvano Agosti e il ritorno alla naturale creatività dell’essere”, saggio-intervista sul regista, curato da Alessandro Macis, e il romanzo di Stefano Piroddi “Gli angoli remoti del presente”. La casa editrice GDS, ha presentato durante il Festival, l’ultimo lavoro poetico di Gianni Mascia, “Tra Leopardi e la luna-Cantus de prexu e de amargura”. Una rivisitazione della poetica leopardiana magistralmente tradotta in lingua sarda da Mascia. * Scrittore e operatore culturale Abstract POETRY POPULAR SCHOOL AND PREMIO LUSSU FESTIVAL n a warm evening of May, in Cagliari, the Poetry Popular School was born. It happened in Is Mirrionis, a district at the periphery of the world. In a little room of the cultural circle Me-Ti , the poet Gianni Mascia with Alessandro Macis, president of the Alambicco Cultural Association, and the actor Fausto Siddi presented there creation to an interested audience. At this time, when people love lull in their solipsism, is really beautiful to see the room full, the discussion develops and the words fly in the air and in the people’s soul. The presentation, fading, becomes a tale: the tail rummages in reminiscences and fragments emerge from a distant time. A flashback, the long aisle of an elementary school well lit with neon lamps, the smell of the sharpened pencils , of ink and spellers. A classroom with windows that look in a courtyard: the location is ever Is Mirrionis, a class with children that have many troubles in life and at home. I IL TEATRO DELLE GUARATTELLE DI BRUNO LEONE Attraverso sua sorella Rosellina, conobbe Nunzio Zampella a Milano, che era stato invitato al “Piccolo” da Roberto Leydi su suggerimento di Roberto De Simone di Mariano Dolci * Le guarattelle di Bruno Leone H o conosciuto Bruno Leone nei primi anni ‘80 nel corso di vivaci riunioni dell’UNIMA-Italia. Io ero già “burattinaio comunale” a Reggio Emilia e lui si avviava a diventarlo, seppure per una strada diversa, ossia per assunzione al comune di Napoli in base alla legge 285 come “architetto dei giardini”. Ad un certo punto della sua vita Bruno aveva sentito richiamo di Pinocchio abbandonando tutto per seguire la sua passione. Quando poi venne a presentare il suo spettacolo a Reggio Emilia nel 1986 mi regalò un burattino e degli appunti pieni di umorismo sulle sue esperienze di burattinaio nel mondo della scuola. Difficile per me, e penso anche per lui, dimenticare quel giorno; una volta terminato lo spettacolo nel Parco della Cittadella, amici e curiosi si attardavano all’imbrunire chiacchierando e cercando di dare una mano allo smontaggio della baracca. Improvvisamente Bruno si rammentò che l’indomani era il giorno fissato per il suo matrimonio e corse alla stazione. Seppi poi con sollievo che Bruno era giunto in tempo alla cerimonia. Gli inizi di Bruno Leone con Nunzio Zampella Bruno non ha ereditato la sua passione per i burattini dal suo ambiente famigliare poiché non è figlio d’arte, nel senso che Rubriche - Il teatro di animazione LA TRADIZIONE NAPOLETANA non ha ascendenti teatranti anche se in verità suo padre è un artista seppure di altro genere. La passione gli venne quando attraverso sua sorella Rosellina, conobbe Nunzio Zampella a Milano, che era stato invitato al “Piccolo” da Roberto Leydi su suggerimento di Roberto De Simone. Poco tempo dopo però Zampella decise di abbandonare la professione, sia per motivi di salute, sia per la progressiva disaffezione del pubblico napoletano. Si presentò dunque amareggiato a Milano, confidando a Roberto Leydi che aveva maturato l’intenzione di mettere in vendita baracca e burattini. Dopo aver proposto invano questo materiale al museo del teatro San Carlo, pensava di venderlo al maggior offerente in quella deplorevole trasmissione televisiva di “Portobello”. Li comprò invece Leydi per conto del “Piccolo”. Come ricorda Bruno: “Quando ho conosciuto Nunzio (1978), lui non aveva più nulla. Ho ricostruito allora, gli strumenti del suo lavoro soprattutto perché lui potesse ricominciare,”(1) Bruno si recò a Milano per fotografare l’attrezzatura di Zampella poi costruendo, scolpendo, dipingendo e cucendo entrò con passione crescente in tutto un mondo che orientò il suo progetto di vita. In questa bella storia di apprendistato alla Wilhelm Meister, Bruno all’inizio non fu certo incoraggiato dal suo maestro. Sulle prime infatti Zampella era scostante, non voleva assumersi la responsabilità di indirizzare un gioteatridellediversità 51 Rubriche – Il teatro di animazione Pulcinella e la morte vane verso un’arte sempre più abbandonata dal pubblico. Bruno si ostinò a proseguire questo tirocinio non facile iniziandosi all’arte delle guarattelle. Quando andava a trovare il suo maestro questi si rifiutava ostinatamente di rivelargli i segreti dell’arte, in particolare quello della pivetta, elemento indispensabile per diventare un autentico Pulcinella. La pivetta è il vero segreto dell’arte dei guarattellari, più importante del movimento e del dialogo. Per servirsene è necessaria una abilità non da poco, se si pensa per esempio che nei dialoghi concitati tra due personaggi il burattinaio deve alternare la caratteristica voce chioccia di Pulcinella con un’altra. Senza incoraggiarlo, Nunzio lasciò Bruno destreggiarsi da solo nella costruzione di diverse pivette ma infine di fronte a tanta passione si commosse e glie ne regalò una propria; fu una vera investitura a guarattellaro. La costruzione della pivetta aveva costituito una prova di iniziazione e come in tutte le iniziazioni non si contemplano vie di mezzo: o si muore o si rinasce con un’altra identità. Zampella cambiò dunque atteggiamento e aiutò Bruno ad acquisire, non solo le tecniche, che sono in fondo semplici ma la particolare forma di “linguaggio” di tutto lo spettacolo con le sue convenzioni, i suoi ritmi, le sue potenzialità e i suoi limiti. Nell’intervista rilasciata da Zampella a Marisa Bello e Stefano De Matteis (2) leggiamo che il padre era guarattellaro ma che non aveva mai lavorato insieme a lui. Certo Nunzio bambino lo aveva seguito da piccolo ma il padre non lo aveva mai incoraggiato. Se diventò guarattellaro fu per “osmosi” famigliare o, come dice lui stesso, per “telepatia”. Zampella Iniziò a dare spettacoli di guarattelle nell’orfanotrofio dove viveva per farsi 52 perdonare dal direttore le sue disubbidienze. Dopo la guerra, da disoccupato, riprese i burattini: “I burattini li ho intrapresi dopo la prigionia dalla Germania, che so, turnato in Italia sfasulatamente disperato, …” (3) Zampella aveva lavorato a lungo in società con i colleghi fratelli Pino, naturalmente sempre senza permessi. ”Noi burattinai abbiamo sempre lavorato senza permessi perché il permesso ci obbligava a stare in posti fissi dove magari non c’era gente”. (4) Poco dopo Zampella accettò di mostrare a Bruno il mestiere dal vivo e infine riprese a lavorare con Bruno in società. Tradizionalmente i guarattellari lavoravano in coppia alternandosi uno alla baracca intento allo spettacolo, mentre l’altro girava fuori con il piattino. Il ricavato nel piattino era destinato non a chi lo aveva fatto girare ma a chi in quel momento effettuava lo spettacolo. Quando finalmente Zampella accettò di mettersi in società con Bruno questi era a disagio poiché il maestro, essendo più apprezzato dal pubblico, prendeva meno di Bruno. Direi che è commovente in questi artisti dalla vita così precaria la consapevolezza della dignità della loro arte. Benché consigliati da varie parti, rifiutavano di andare a chiedere sovvenzioni al Comune poiché così facendo sembrava loro di chiedere la carità. Porgendo il piattino, volevano invece essere valutati e avere dal pubblico un compenso per il loro lavoro di artisti e non ricevere una elemosina. Se è vero che con Nunzio Zampella è scomparso (1986) un antico modo di professare l’arte delle guarattelle, cerchiamo tuttavia di reagire al vezzo, ogni volta che scompare un burattinaio, di esclamare “Muore l’ultimo burattinaio”. L’ho letto Rubriche - Il teatro di animazione Le guarattelle di Bruno Leone troppe volte nei titoli di giornali degli ultimi cinquanta anni mentre nel frattempo i burattinai, e Bruno tra gli altri, continuano a lavorare. In proposito si arrabbiava anche Otello Sarzi, consapevole di quanti giovani si avvicinavano all’arte. Tuttavia, quando morì, anche lui non sfuggì ad essere bollato come: “l’ultimo burattinaio”. Grazie a Zampella e Leone l’arte antica delle guarattelle napoletane torna dunque ad essere presente. Giovani artisti raccolgono il testimone e sembra proprio che la sparizione del genere sia scongiurata anche grazie anche all’impegno continuo di Bruno per trasmetterla. La specificità della figura di Pulcinella Pulcinella è un personaggio diverso da altre maschere, unico nel suo genere e la sua presenza è alla base dello spettacolo di guarattelle È un burattino tra i più elementari con la testa appena squadrata e non ha neppure il buratto. Come sentenzia Zampella: “… perché ‘o pupo chiù bell’è chiù t’è antipatico, mentre si’ ‘o pupo è brutto ti fa ridere e ti appassiona.” (5). I burattini operano in un piccolissimo teatro. Terminato lo spettacolo il burattinaio scansa una parte dei teli, quindi infila un braccio, inclina la baracca, la solleva e la porta sulle spalle insieme alle guarattelle appese al collo (senza dimenticare il bastone). Ha tutto quello che gli serve, l’ideale di un filosofo antico: “omnia mea mecum porto”. Per alcuni (Benedetto Croce) Pulcinella è apparso a Napoli alla fine del ‘600. Altri (George Sand tra i primi), hanno ipotizzato una filiazione diretta dall’antico Maccus, la maschera osca delle Atellane. Secondo la leggenda sarebbe originario di Acerra. Originario di Napoli o delle sue vicinanze, è poi emigrato in tutta Europa e oltre. Dora Eusebietti coglie un aspetto interessante (p. 56): “Per Pulcinella si verifica una stranezza: la maschera napoletana si trova bene a casa sua, nella natia partenopea, meglio di ogni altra, eppure è quella che all’estero, come burattino, fa più parlare di sé ...” (6). Mentre, al seguito di tanti illustri visitatori di Napoli è diventato un topos affermare che: “Pulcinella è il popolo napoletano”, per Benedetto Croce, di fronte alle sue ambiguità dichiara “Pulcinella non si definisce”. Osserva Allardyce Nicoll nel suo bel libro: “Un personaggio teatrale che sia considerato il simbolo d’un popolo intero non può avere una personalità sua; l’identificazione di Pulcinella con tutta una comunità basta da sola a mettere in evidenza la sua natura.” (7). Mentre Pantalone è un veneziano tra altri, Fagiolino un bolognese fra tanti, Brighella un bergamasco emigrato a Venezia, ecc, Pulcinella è molto più complesso. Trasferitosi dalla Commedia dell’Arte alle baracche dei burattini Pulcinella è stato anche usato in altre parti d’Italia ed Europa ma solo a Napoli ha conservato una posizione privilegiata. Come scrive Alfonso Cipolla (74 ) “Va però ricordato che a Napoli la maschera di Pulcinella è fortemente radicata nel teatro indipendentemente dal fatto che sia teatro “di persona” cioè agito direttamente dagli attori, o in teatro con burattini e marionette. (8) teatridellediversità 53 Rubriche – Il teatro di animazione Infatti a Napoli fuori del Teatro, Pulcinella è dovunque, per esempio nelle feste popolari e nel Carnevale. Se per un verso è una maschera che si sdoppia, si triplica, o come è possibile ammirare negli affreschi del Tiepolo si moltiplica circondato da bande di Pulcinellini, per un altro fa parte della sua natura l’includere simbologie maschili e femminili. Un altro indizio della sua ambiguità è il suo pancione che non lo è per troppo mangiare ma perché “incinto” e difatti partorisce un uovo. Su questa sua ambiguità, qualcosa mi aveva accennato il mio maestro Otello Sarzi. Le maschere che lui usava si dividevano tra quelle che davano le bastonate e quelle che le subivano; l’unica che però poteva sia darle che riceverle è proprio Pulcinella. Come Pulcinella stesso a volte dichiara al termine della rappresentazione: “Pulcinella non tiene né servi né padroni ma solo del suo diletto pubblico, fedele servitore”. Pulcinella non diventa mai “l’eroe” nel senso comune di questo termine, perché manifesta tutti i sentimenti che angustiano l’uomo, però in un modo nell’altro riesce sempre ad avere ragione delle difficoltà. Egli è pauroso, delicato e prepotente, vigliacco e coraggioso, furbo e sciocco, ed è per questo che l’uomo della strada si può riconoscere in lui” (9). Tutti gli altri personaggi che incontra sono “spalle” o meglio “alter ego” essendo lui il protagonista assoluto. Il suo alter ego in forma di donna, di cane, di guappo, di morte.” “Molti dialoghi e azioni delle guarattelle sono lo sdoppiarsi e il contrapporsi di uno stesso elemento: da un lato Pulcinella che li include tutti e dall’altro il suo alter ego in forma di donna, di cane, di guappo, di morte” (10). Nello spettacolo di Bruno ispirato alla Repubblica Napoletana tutti personaggi sono Pulcinella: Pulcinella Re, Pulcinella giacobino, ecc “Pulcinella è l’uomo di tutti i giorni che cerca di sopravvivere, ma sopravvivere per lui non è continuare a vivere male, come è per l’uomo comune, ma vivere meglio, al di sopra della propria condizione, sconfiggere il potere, la prepotenza e soprattutto la morte, che nessun uomo ha mai potuto sconfiggere. Pulcinella nel suo rapporto con la donna (con la quale inizia e termina ballando ogni spettacolo) rappresenta la vittoria dell’amore, della vita sulla morte e su tutte quelle cose che angustiano la vita dell’uomo. La paura è rappresentata dal cane, la prepotenza dal guappo, il potere dal carabiniere, dal giudice, dal monaco e dal boia.” (11). Tradizione e innovazione nel lavoro di Bruno Leone La storia di Bruno pone il complesso problema della trasmissione e della salvaguardia dei generi tradizionali. Non è un problema da poco. Il concetto stesso di tradizione è lungi da avere un significato univoco. Lo storico inglese Eric Hobsbawn nel suo bel libro “Invenzione della tradizione”, ne dimostra tutta l’ambiguità. Sicché per lo più si ha tendenza a identificare quello che è più antico (oggetto o stile di spettacolo) a quello che, in un modo o nell’altro, è più “autenticamente tradizionale”. Anche l’aggettivo “popolare” andrebbe usato tra virgolette e, benché “Teatro tradizionale” e “Teatro popolare” siano strettamente legati, essi non sono intercambiabili. Quasi sempre nel teatro di animazione le tradizioni che sono state “salvaguardate” si sono invece ridotte a diventare residui museali. Questo può essere dovuto ad una visione falsata delle tradizioni, viste come statiche mentre in realtà esse si sono sempre evolute e modificate. Per perpetuare la tradizione e non perdere il pubblico, il guarattellaro deve attualizzarla senza perdere la sua natura. 54 Quando opera deve tenere a mente l’antichissima forma di spettacolo che ha ereditato e nel contempo anche l’esperienza quotidiana in cui sono immersi sia lui che gli spettatori. Gli spettacoli di Pulcinella (come anche quelli dei pupi) sono certamente giudicati dagli spettatori sulla base della perizia del guarattellaro riguardo alla manipolazione e alla padronanza delle storie tradizionali. Nel contempo però il pubblico napoletano apprezza particolarmente l’impronta personale del puparo, le sue allusioni all’attualità politica e il suo estro comico. Questo pone il problema di come trovare l’equilibrio tra l’irrinunciabile libertà creativa del burattinaio e il rispetto per le modalità di operare tradizionali. L’equilibrio può essere molto difficile poiché è certo che alcune antiche forme tradizionali sono molto più formalizzate di altre e che obbediscono a delle prescrizioni particolarmente rigide. Come dice Leydi, di Bruno Leone: “ha raccolto” quest’arte rara e grande ma pur fedelissimo discepolo di Nunzio Zampella, una volta iniziato a padroneggiare il mestiere non ha mai rinunciato ad esprimere se stesso come è giusto che sia”. Sappiamo infatti che in tutte le arti i grandi innovatori sono stati coloro che padroneggiavano perfettamente la tradizione. Recuperata l’arte, dunque Bruno ha dovuto però affrontare un irrinunciabile rinnovamento. Dalla autobiografia di Bruno: “La cosa più incredibile di questo genere di spettacoli è che, pur essendo diffuso, come abbiamo visto, in molti paesi, e pur non essendoci stati contatti fra gli artisti, le cose rappresentate sono rimaste molto simili, il che fa pensare che lo spettacolo o ha avuto la stessa evoluzione, cosa abbastanza strana essendosi sviluppato in contesti di vita così diversi, oppure è rimasto immutato nel tempo. Questo è ancora più incredibile se si pensa che non esiste tradizione scritta e che lo spettacolo non solo si è tramandato per via orale ma è stato soggetto a tutte le trasformazioni che comporta l’improvvisazione e il lavoro di strada” (12). Come presentare oggi giorno la maschera di Pulcinella? Oltre a dover rispettare la personalità di Pulcinella, lasciandosi a frequenti improvvisazioni senza dimenticare la sua voce artificiale, non basta recitare ma si deve rispettare un ritmo come in musica. Zampella raccomandava “Non ti scordare mai il ritmo dello spettacolo, puoi improvvisare quello che vuoi, ma qualunque fesseria dici, deve rientrare in questo ritmo...” (13). E ancora come ci racconta Bruno : “Già dall’inizio, già dal 1979 iniziavo a mescolare le carte, ad introdurre cioè elementi di novità nei miei spettacoli. Sempre conservando stretto il rapporto con la tradizione, con quello che ho imparato da Nunzio Zampella proponendolo ancora nel mio repertorio, ho cominciato a contaminare il mio Pulcinella con altri miti e facendolo vivere nella nostra epoca alle prese con incidenti “sincronici”. (14). Queste contaminazioni consistono in tanti temi di impegno civile sempre dalla parte dei deboli o delle minoranze. Pulcinella lavora con i disabili, con i centri sociali, partecipa alle feste di quartiere. Si impegna contro la guerra in Iraq (Pulcinella va alla guerra del 1991). Nel “Il convitato di pezza” del 1995 dopo la vittoria di Berlusconi, Pulcinella denuncia la seduzione del potere e la degenerazione dei valori in politica. Rievoca le delusioni della Repubblica Napoletana del 1779 in “Pulcinella 99, voglia di Utopia”, critica il G8 (Pulcinella contro il Gigiotto). Si citano una quantità di aneddoti sulla sua solidarietà, come quella della sorella, e il suo impegno per le condizioni del Mezzogiorno o dei più indifesi. Bruno scrive testi della tradizione rispettosamente rivista da lui conscio che la loro lettura se non accompagnata dal ritmo e dai movimenti può essere poca cosa. “Iniziai con un gioco: scappare ogni tanto dal teatrino indossan- Rubriche - Il teatro di animazione Gianluca Fusco e Bruno Leone do una maschera e per un istante diventare io il burattino che agiva sulla scena e giocare con il pubblico così come Pulcinella giocava con gli altri burattini. (15) Quando esce dalla baracca vestito da Pulcinella non si sa se chi è il doppio di chi. Da decenni si mette continuamente in discussione sia nelle modalità di espressione sia nella scelta dei temi rimanendo sempre fedele a se stesso. A mia richiesta Bruno mi ha inviato un curriculum così esiguo da non riempire mezza pagina, forse per modestia ma anche per l’impossibilità di riassumere le sue attività nei vari Paesi del mondo (ne ho contati 24), i numerosi premi ricevuti da più parti, tutte le attività svolte nelle scuole e nel sociale, i vari festival che ha creato o ai quali ha partecipato come direttore, le scuole e i corsi che ha gestito Pulcinella grazie a lui e ai suoi allievi diventati professionisti si è diffuso in ogni dove, a volte anche risvegliando antiche tradizioni quasi scomparse. (6) Eusebietti Dora, Piccola storia dei burattini e delle maschere, SEI Torino 1966 (p. 56) (7) Nicoll Allardyce, Il mondo di Arlecchino, Bompiani, Milano 1965 (8) Cipolla Alfonso, Giovanni Moretti, Storia delle marionette e dei burattini in Italia, Edizioni SEB27, Corazzano (PI) 2003 (9) Leone Bruno, op. cit. (p. 39) (10) Idem p. 39 (11) Idem p. 39 (12) Idem p. 38 (13) Idem p. 14 (14) Dal sito di Bruno Leone: www.guarattelle.it (15) “Scena”, n. 3-4, 1977 * Maestro burattinaio, già docente di teatro di animazione all’Università di Urbino BRUNO LEONE’S THEATRE OF GUARATTELLE runo Leone did not inherit his passion for puppets from his family environment since it was not a family tradition, it means that he does not have forefathers in theatre world, although in truth his father is an artist even belonging to another kinder. His passion came through when her sister Rosellina made him meet Nunzio Zampella in Milan, who had been invited to “Piccolo” Theatre by Roberto Leydi, as suggested by Roberto De Simone. Mariano Dolci explains in this article the career, life and research between tradition and innovation in the work of the Neapolitan puppeteer. Note (1) Leone Bruno, La guarattella, CLUEB, Bologna 1986 (p. 12) (2) “Scena”, n. 3-4, 1977 (3) Idem (4) Leone Bruno, op .cit. (p. 7) (5) “Scena”, n. 3-4, 1977 Abstract B teatridellediversità 55 Rubriche – Il teatro di animazione 2 L’IMMENSO PATRIMONIO ITALIANO IL DOSSIER MEMORIA VIVENTE PER L’UNESCO La Rete degli Archivi UNIMA ITALIA del Teatro di Figura Presenta la candidatura al Registro Memory of the World Unesco di Veronica Olmi * Marionette dalla collezione Gruppo Oriani Monti Colla, Archivio UNIMA N el mese di dicembre 2012, con alcuni soci Unima Italia si ragionava su possibili idee e strategie per valorizzare l’immenso patrimonio del Teatro di Figura Italiano. A gennaio 2013, decidiamo di tentare la Candidatura al Registro Memoria del Mondo dell’Unesco. Si è costituita quindi una commissione di lavoro composta da Veronica Olmi, Aldo de Martino, Alfonso Cipolla, Antonietta Sammartano, Mimmo e Elisa Cuticchio che, insieme ai dirigenti degli uffici Unesco Italia, ha definito criteri e modalità adatti alla Candidatura. Si è deciso di procedere su un duplice binario: da un lato gli archivi documentaristici e museali, dall’altro gli archivi viventi, rappresentati dalla compagnie storiche in attività. Abbiamo individuato cinque linguaggi del Teatro di Figura Italiano che rinviano ad altrettante tradizioni originali: i complessi spettacoli Marionettistici dell’Italia settentrionale; i Burattini dell’Italia centro settentrionale; il Teatro di Figura a Napoli; lo spettacolo con Marionette epico popolare dell’Italia centro meridionale; l’Opera dei Pupi in Sicilia. E’ stata creata una rete di nove collezioni/musei distribuiti in otto città italiane che rispondessero ai criteri fondamentali stabiliti dal Registro Memory of the World di rarità, integrità e accessibilità. La Rete è composta da: Ass. Grupporiani-E.Monti Colla–Mi- 56 lano; Collezione Maria Signorelli-Roma; Il Castello dei Burattini/Museo Ferrari–Parma; IPIEMME – Intern. Puppets Musum-Castellammare di Stabia (Na); Ist. per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare - Grugliasco (To); La Casa dei Burattini di Otello Sarzi-Reggio Emilia; Museo all’Opra–Teatro di Mimmo Cuticchio -Palermo; Museo Intern. delle Marionette A.Pasqualino-Palermo; Museo La Casa delle Marionette, Famiglia Monticelli-Ravenna. Associare con un protocollo d’intesa i nove musei/collezioni in un unico Archivio con decine di migliaia di reperti, costituisce un evento storico di rilevante portata nazionale ed internazionale. La Rete degli Archivi Unima/Italia raccoglie le testimonianze del teatro di figura storico italiano, dal sec. XVIII alla metà del sec. XX. Si tratta di un patrimonio enorme. Sono infatti oltre 15.000 le marionette, i burattini e i pupi conservati che, unitamente a svariate migliaia di copioni manoscritti e a un’imponente documentazione archivistica, offrono una testimonianza irripetibile di una forma di teatro dalle peculiarità originali strettamente connessa con la società di cui è espressione e portavoce. Il carattere di unicità, autenticità e integrità di questo patrimonio materiale si somma alla sapienza delle famiglie d’arte ancora in attività, spesso custodi di cimeli tramandati da generazioni, che si configura come una Rubriche - Il teatro di animazione 2 Scenografia repertorio storico, Archivio UNIMA memoria vivente capace di trasformare il passato in presente. La trasmissione dei saperi, oltre all’interesse scientifico di cui il teatro di figura italiano è stato oggetto nell’ultimo decennio, permette di leggere marionette e burattini non come semplici oggetti di scena ma come stratificazione di informazioni relative a linguaggi teatrali autonomi e differenziati che per diffusione e impatto sociale non hanno uguali nel mondo occidentale. Sono circa 2.000 i manoscritti databili dalla fine del Settecento alla prima metà del Novecento. In massima parte si tratta di copioni che possiedono la prerogativa di essere la memoria del principale canale di informazione popolare basato su un tipo di comunicazione che trova la sua forza attraverso il meraviglioso. Tali copioni non si limitano a conservare il testo teatrale da rappresentarsi, ma sono una guida per trasformarlo in spettacolo, dato che contengono le informazioni necessarie per realizzare la messa in scena. Con linguaggio moderno potremmo dire che contengono minuziosissime note di regia. I copioni pertanto, non essendo testi di natura letteraria ma memoria di spettacolo, risulterebbero documenti in parte muti se non venissero messi in rapporto con i materiali con cui sono intrinsecamente collegati (marionette, pupi, burattini, costumi, scenografie) e che sono espressione diretta di peculiari e originali concezioni di teatro. A ciò si deve aggiungere la ricchissima documentazione cartacea d’epoca che permette di inserire i copioni manoscritti nel contesto sociale e culturale di riferimento. Ne deriva un sistema estremamente coeso, dove la memoria vivente delle famiglie d’arte diventa imprescindibile per decodificare segni, note, abbreviazioni d’uso, postille, al pari della preziosa raccolta di registrazioni audio/ video di spettacoli e di testimonianze effettuata negli anni. L’insieme rappresenta un unicum assoluto, non solo per comprendere un fenomeno teatrale fortemente radicato nel contesto sociale che l’ha espresso, ma anche per proporsi come possibile modello per le generazioni future: un modello non necessariamente circoscritto al teatro, dato che indica una possibile via fascinosa e fantastica per interpretare il presente e tramandare memoria del proprio tempo. Il riconoscimento al Registro Mondiale della Memoria UNESCO, rappresenterebbe un ulteriore e fondamentale volano di rilancio del patri- monio in Italia ed all’estero, garantendone la trasmissione alle future generazioni. Il Dossier “Memoria Vivente” è al vaglio della Commissione internazionale Unesco. Esperti come John McCormick (Univ. di Dublino), Valentina Venurini (Univ. Roma Tre, Dams), Luigi Allegri (Univ. di Parma), sono alcuni tra i garanti dei contenuti del Dossier e della Candidatura. Siamo in attesa del responso ufficiale o di indcazioni per eventuali intergazioni. Una cosa possiamo affermarla sin da ora: grazie alla Candidatura, approvata dal Consiglio Nanzionale Unesco Italia e supportata numerose dichiarazioni di Comuni e Ragioni italiane, dal presdiente dell’Anci e dal Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, On. Dario Franceschini, siamo riusciti a suscitare un rinovato interesse sul patrimonio italiano del Teatro di Figura. Il lavoro continua, ogni giorno, ognuno nella sua città e con il suo contributo. * Burattinaia, Segretaria generale UNIMA Italia Maggiori informazioni sono disponibili in www.unimaitalia. net - FB Unima Italia - www.unima.org Abstract UNIMA ARCHIVES’ NETWORK - MEMORIA VIVENTE (LIVING MEMORY) DOSSIER FOR UNESCO he Dossier “Living Memory” by Unima Italia represents an absolute unicum not only to understand a theatrical phenomenon, deeply rooted in the social context that has generated it, but also to serve as a possible model for future generations. We pass the floor to UNESCO. We expect it to give proper value to something so important and to recognize in the network of Unima Italia Archives about Italian Figure Theatre the living memory of the main channel for folk information based on a kind of communication that identifies its strength in the conception of “wonderful”. We expect Unesco to find a place for Italian Figure Theatre in the Memory of the World Register. T teatridellediversità 57 Rubriche – Il teatro di animazione 3 UN NUOVO FESTIVAL A OFFIDA ALTA TEATRALITÀ AL FOF L’international Figura Offida Festival alla sua prima edizione riesce ad animare l’antico borgo marchigiano con migliaia di spettatori di Vito Minoia * Offida, Piazza del Popolo durente il FOF Festival C onvince e coinvolge l’iniziativa ideata e diretta da Remo Di Filippo e Rhoda Lopez grazie alla collaborazione della Pro Loco di Offida. Dalla bellissima Piazza del Popolo e dal Teatro Serpente Aureo, fino a tanti suggestivi angoli della cittadina in provincia di Ascoli Piceno, 17 sono stati gli eventi spettacolari in una due giorni travolgente che ha parlato tante lingue, considerata l’esperienza artistica internazionale dei due giovani marionettisti formatisi a Barcellona e molto impegnati in tournèe all’estero, dall’Australia agli Stati Uniti dove il loro lavoro è molto apprezzato. Le Compagnie e i singoli artisti provenienti da Italia, Spagna, Messico, Argentina, Stati Uniti, Brasile, Grecia si sono esibiti in spettacoli che hanno fatto riferimento ad un teatro di strada incentrato sul teatro di figura (marionette, burattini, pupazzi, teatro d’oggetto) con la partecipazione di interpreti di altre discipline teatrali (magia, clownerie, teatro di strada). Tra i partecipanti gli stessi promotori della Compagnia Di Filippo Marionette insieme ad artisti noti e meno noti. Ne citiamo alcuni: Girovago e Rondella (con uno spettacolo che ha messo in luce la propria specialità del burattino a cinque 58 dita), Trukitrek (Burattini viventi), Cia.Colegone (Marionetta a manipolazione diretta), Zero en Conducta (Mimo contemporaneo e burattini corporali), Dolly Bomba (Trasformismo), Giorgio Bertolotti (Monociclo e giocoleria), Ete Clown (Clownerie). Molto bella la varietà delle proposte presentate, fino ad arrivare ad un vero e proprio spirito di ricerca sul linguaggio nella proposta della Compagnia di Offida 7-8 chili (Video Teatro) che con lo spettacolo “Hand Play” riflette sul rapporto tra corpo umano e immagine proiettata raccontando della relazione tra un uomo e una donna. All’artista Alfredo Tassi, tra i fondatori di 7-8 chili (tragicamente scomparso per un incidente sul lavoro il 5 febbraio 2009 a Digione mentre allestiva le scenografie dello spettacolo “Inferno” della Societas Raffaello Sanzio) è stato dedicato un riconoscimento assegnato alla compagnia che si è distinta artisticamente nel Festival. Il Premio, consistente in una copia di una scultura realizzata da Alfredo Tassi, consentirà all’esperienza vincitrice di ritornare a Offida per la seconda edizione dell’iniziativa restituendo l’opera affinché possa essere vinta da qualcun altro. La giuria, composta per l’occasione da Loredana Antonacci, Allegato al n. 70/71/72 di Teatri delle Diversità documenti 72 maggio 2016 TESTI INEDITI Teatro nello spazio degli scontri e della Gentilezza Documenti di Catarsi di Giuliano Scabia* Giuliano Scabia, Alice Lombardelli, Vito Minoia, foto di Franco Deriu teatridellediversità I TESTI INEDITI 1)I’m sorry I’m sorry. Qualche tempo fa l’ex primo ministro britannico Tony Blair ha detto: mi dispiace: mi dispiace di quando, insieme ai miei compagni di giochi Bush, Cheney, Powell e altri, con prove fabbricate false, e lo sapevamo, abbiamo dato inizio alla guerra contro l’Irak: non mi ero reso conto di aver dato l’avvio alla nascita delle stato islamico… I’m sorry. È veramente gentile mister Blair. Dopo gli scontri è finalmente venuto il tempo della gentilezza. O genti dei teatri e delle diversità: ogni tanto mi vengono in immaginazione (o in sogno) i burattini: ecco, oggi si vede la Documenti di Catarsi BARACCA DEI GRANDI DEL MONDO con dentro il Burattino Cheney, il Burattino Blair, il Burattino Bush e il Burattino Powell. DICE IL BURATTINO CHENEY Ecco, guardate: vedete le prove? Il dittatore Saddam è pari a Hitler. Ha armi di distruzione di massa. Vedete quel Tir? Le armi sono là dentro. DICE IL BURATTINO BLAIR Ma non si vede niente. DICE IL BURATTNO BUSH Niente. DICE IL BURATTINO CHENEY Certo – non si vede niente. Ma è come se si vedesse. Bisogna immaginare. DICE IL BURATTNO BLAIR Sì, immaginare. DICE IL BURATTNO BUSH Immaginare. E allora? DICE IL BURATTINO POWELL Bisogna agire, pre-venire. Sì, le prove che vi mostro sono false. Ma anche la falsità è vera. Che cos’è la verità? DICE IL BURATTNO BLAIR Cos’è? DICE IL BURATTINO BUSH Eh? DICE IL BURATTNO CHENEY Tutto quello che vediamo è falso perché il nostro sguardo lo falsifica. E dunque tanto vale aggiungere falso a falso. Noi non vogliamo la guerra. Noi facciamo una non guerra per il bene del mondo. Il mondo è lo spazio degli scontri – come è stato detto. Gli scontri sono la legge del mondo. DICE IL BURATTINO BLAIR E ci saranno dei morti? DICE IL BURATTINO CHENEY II teatridellediversità Neanche uno – o uno, due – coi nostri occhi elettronici, e bisturi laser, e macchinette faremo solo cose perfette, intelligenti. Saremo gentili – indolori… DICE IL BURATTINO BLAIR Mi dispiace, mi dispiace… Ah come mi dispiace… Quanti cattivi ci sono nel mondo.. Ma faremo presto, e poi… E così avvenne… Ma dopo qualche tempo si vide che le cose non erano andate come immaginato. E strani scoppi cominciarono a diffondersi. DICE UN CAMMELLO DEL DESERTO IRAKENO Are you sorry? DICE IL SIGNOR BLAIR, da Londra Yes, i’m sorry. DICE QUALCUNO, in qualche luogo Al cor gentil ripara sempre amore… DICE IL CAMMELLO Ripara? Qui la London Sinfonietta potrebbe eseguire una composizione (posto che qualcuno l’avesse composta) per petrolio, jet, drone e voce di cammello. Ah, che musica sarebbe! 2)Tournée di burattini Un giorno – qualche tempo dopo che le torri gemelle erano state abbattute – e che con soddisfazione di dio la strage era stata compiuta – ed ero venuto a sapere e che dalle parti dell’Indukush si aggirava quel signore di nome Bin Laden, ideatore dell’abbattimento, ho pensato: e se andassi a fare i burattini là fra le alte montagna dove lui si rintana e gli dicessi: O Bin ti va di fare i burattini con me? E mi sono immaginato di andare. E sentite i personaggi che mi sono messo nella sacca: Burattina Madonna Gentilezza, Burattino Cammello del Deserto, Burattino Marco Cavallo, Burattino Bin Laden e Burattino Giuliano. Cammina cammina con la sacca in spalla, finalmente arrivo all’Indukush. Ci sono tante caverne scure. E davanti a ognuna chiamo: Signor Bin Laden, è presente? Finalmente da una cavernona più grande delle altre esce Bin Laden con le sue guardie – com’è barbuto! Chi si aggira per queste solitudini? – dice. Sono io, - dico. – Vorrei fare i burattini con lei. I burattini? – dice. – Ma siamo in guerra. E lei è un infedele. Guardi che belli i burattini! – dico. E li tiro fuori – tranne il burattino Bin Laden.. Vede? – dico. – Questo è il Cammello del Deserto, e questo Marco Cavallo principe dei Matti, e questa Madonna Gentilezza: poi c’è Giuliano, cioè me. Belli belli belli, - dice Bin Laden. – Ma come avete fatto a oltrepassare le guardie sparse per i monti? Con le parole gentili, - dice il Burattino Madonna Gentilezza. L’avevo indossata e la facevo parlare. Brava! – dice Bin Laden. – Che bella burattina! DICE MADONNA GENTILEZZA O Bin – lei è un giovanotto molto preoccupante. Ma si rende conto? Ha buttato giù non una, ma due torri. E ha fatto una carneficina. Lei è un serial killer e se ne vanta. DICE BIN LADEN E loro no, non sono serial killer? DICE MADONNA GENTILEZZA BURATTINA Ma lei hai superato ogni limite. E in nome di dio. È fuori dalle regole umane. Perciò le danno la caccia. DICE BIN LADEN Che diano. Morto un Bin si fa un nuovo Bin. Infinita è la gioia nello ammazzare in nome di dio. DICE IL BURATTINO MARCO CAVALLO Ma cosa dici, Bin. Sei matto? DICE BIN LADEN No – sono normale. La storia, caro Cavallo, è fatta di carneficine. Di uomini, di bestie… DICE IL BURATTINO CAMMELLO DEL DESERTO Attento, Bin: noi due, Cavallo e Cammello, siamo qui per ragionare: che senso ha macellare a tutto spiano… DICE IL BURATTINO MARCO CAVALLO Per il passato, caro Bin, è andata così: ma non potreste, oggi, diventare un po’ meno feroci? Cos’è tutto questo guerrosantume? Una volta voi umani eravate cannibali – Poi, anche con l’aiuto delle Eumendi, vi siete calmati… DICE IL BURATTINO GIULIANO Signor Bin: visto che noi siamo burattini perché una volta tanto non prova anche lei a diventare burattino come noi? DICE BIN LADEN Io buratttino? Scherziamo? Via, o via… ma…ma…forse…forse…no, no… ma che belli che siete, che belli…o burattini… belli… ma come siete belli…oh, oh, oh… ma sì…ma si…forse sì…oh, oh, oh… forse mi piacerebbe…almeno una volta… tanto per provare… ma non ho il burattino… DICE GIULIANO, estraendo dalla sacca il burattino Bin Laden Eccolo! Guardi come le assomiglia, di cartapesta finissima… DICE BIN LADEN Maremma! Uguale. Tale e quale. Barba, turbante, occhi. Boia d’un Giulian, mi ha fatto lei? DICE GIULIANO Sì – con pazienza. Le ho anche insufflato arrivi in un caffè, e mentre sorseggia gli spari: è tutta roba criminale, no? DICE IL BURATTINO Bin Laden Ci devo pensare: in quanto uomo ho il mandato di dio, ma in quanto burattino, forse…forse… non ho nessun mandato… DICE IL BURATTINO MADONNA GENTILEZZA Dai, pensa, pensa, diventa sempre più burattino e metti da parte il gusto di dare la morte… DICE IL BURATTINO Bin Laden Sì, penso, penso, ma solo da burattino: perché se mi ricordo di essere uomo, ah, che gusto dare la morte, che gusto… DICE MADONNA GENTILEZZA BURATTINA Sarà il caso, caro burattino Bin, che noi burattini cominciamo a far meditare gli uomini: guarda là, dopo tanto svilupparsi sono ancora a fare macelli con droni, bombe, missili, laser, kamikaze, coltelli: non è il caso che gli diamo una mano e curarsi i cervelli? DICE IL BURATTINO MARCO CAVALLO Noi cavalli, soprattutto i cavalli mitici come me, non facciamo carneficine… e neanche bombardiamo… niente…ci divertiamo a correre, volare… brucare… DICE IL BURATTINO Bin Laden Oh, oh, oh, che godimento nuovo: mi sento sempre più burattino: ah! ma che orrore le stragi, ma cosa dicono quelli, che andranno in paradiso uccidendo un infedele, ma sono matti, ma cosa gli è saltato in mente, ma quale dio, ma quale paradiso.. .oh, oh, oh… basta bombe, basta kamikaze, basta bombardamenti… Viva i burattini! viva Madonna Gentilezza! viva… TUTTI I BURATTINI Viva Bin Laden burattino! viva… DICE BIN LADEN BURATTINO O Marco Cavallo, e Cammello del Deserto, e Giuliano, e Madonna Gentilezza siete venuti a piedi fin qui – che avvenimento! – ma che bello fare i burattini… oh, oh, oh…che gusto! Altro che il gusto di ammazzare! Burattini! Burattini! Oh, oh, oh, oh, oh, oh! Sentite burattini – vi faccio una proposta: perché non andiamo in tournée da tutti i capi del mondo e gli facciamo la commedia degli scontri e della gentilezza? E mentre siamo in tournée in quanto burattini chiediamo di sospendere gli attentati, i macelli, i bombardamenti… DICONO TUTTI I BURATTNI Sì, sì, sì… DICE IL BURATTINO GIULIANO E se proponessimo che l’umanità fosse sostituita dai burattini? Eh? Bin Laden e Giuliano si guardano in silenzio, pensosi. Poi, improvvisamente, i burattini sorgono su e ballano e cantano – e mentre le guardie di Bin Laden sparano in aria si preparano ad andare in tournée, prima tappa Urbania… 3) Teatro nello spazio degli scontri C’è stato un periodo, fra il ‘60 e il ‘70 del 900 (e anche oltre), in cui ci era sembrato che gli scontri, le lotte, le battaglie di strada e le guerriglie fossero il sale della vita. La via bianca della non violenza (da Gandhi a Capitini a Danilo Dolci) appariva ai più affascinante ma perdente. La tensione dell’equilibrio armato (la guerra fredda) produceva improvvisi scoppi, rivolte terribili e necessarie (Berlino, Praga, Polonia). Covava desiderio di armi. Insieme al bisogno di palingenesi l’orizzonte rivoluzionario lasciava emergere, spesso inconsciamente, desiderio di morte. Ricompariva, attraverso gli scontri, la voglia di spaccare tutto. Nel ‘66 cominciò in Cina, con echi forti in Europa e in America, la rivoluzione culturale lanciata da Mao. Furono dieci anni spaventosi – la dottrina distrusse ogni gentilezza, lasciò ferite immedicabili. Vedemmo qui da noi poeti, registi, pittori, studiosi, intellettuali, cuori in precedenza apparsi gentili, inforcare il libretto rosso e gli slogan salvifici del catechismo maoista. La ruota psichica dell’eterno ritorno riportava l’inquisizione. Si svegliava l’archetipo dell’attore guerriero, del predicatore salvifico, del santo micidiale, del rivoluzionario annientatore. A molti sembrò affascinante. 4) Un episodio di spada Nel 1973 fui invitato a Parigi insieme a Kantor, Peter Brook, Ariane Mnoushkine, Armand Gatti, John Arden, Jean Louis Barrault e altri per parlare del teatro a partecipazione. Stemmo insieme tre giorni, molto piacevolmente, scambiandoci idee ed esperienze. E accadde il fatto che adesso vi racconto. Durante la sessione pomeridiana del secondo giorno ed eravamo sul palcoscenico del Marigny (il teatro di Barrault) stracolmo di giovani, mentre stava parlando Peter Brook (io ero poco lontano da lui), dal palco laterale che dava sul palcoscenico alla nostra sinistra saltò giù ginnasticissimamente un giovane quasi nudo con una spada in mano: e nel teatro fattosi muto cominciò a dire: Voi, seduti là, e voi qui sul palco, siete tutti morti. Il teatro è combattimento, lotta, sangue, corpo che patisce. E altro. Era una scena tragica, e anche comica: era un Cislak armato: era là per ferire, uccidere? Ecco un bel matto, un bel fuori di testa, pensavo. Che fare? teatridellediversità III Documenti di Catarsi l’anima. DICE BIN LADEN L’anima…oh! che gentilezza… Sono lusingato. Mi commuove vedermi raffigurato tale e quale. Oh, oh, oh… Lo sa che… che…che mi piacerebbe… sì mi piacerebbe imparare a costruire i burattini. Dev’essere bello fare teatro… DICE GIULIANO Venga, Bin – ora infili la mano…su col braccio…teso, alto! Muova le dita – ecco – stupendo! Ecco, infilo anch’io il mio burattino. Ciao, burattino Bin Laden – come va la vita? DICE IL BURATTINO BIN LADEN La vita? Ma cosa deve dire un burattino della vita? Quello che pensa il burattinaio o quello che pensa il burattino? DICE IL BURATTINO GIULIANO Vedi, Bin? Ci sono sempre due pensieri, due pensieri… DICE IL BURATTINO BIN LADEN E allora? DICE IL BURATTINO GIULIANO E allora non ci si potrebbe un po’ pensare su prima di fare carneficine in nome di dio? DICE IL BURATTINO Bin Laden Ma è la legge degli scontri fare carneficine. E anche di dio, per fare giustizia, per purificare il mondo dagli infedeli… DICE IL BURATTINO MADONNA GENTILEZZA Un giorno, durante le carneficine, nel mezzo degli scontri, si è sentita una voce dire: al cor gentil ripara sempre amore. Chi aveva parlato? Io. Per un momento si è fatto silenzio… DICE IL BURATTNO Bin Laden Purtroppo lei, burattina, ha un difetto – è donna…e… DICE IL BURATTNO MADONNA GENTILEZZA O Bin, burattino Bin, ancora la meni con questo negare la donna? Non vedi che tutto è donna? DICE IL BURATTINO Bin Laden Tutto è donna? È bestemmia! DICE IL BURATTINO MADONNA GENTILEZZA Anche la bestemmia è donna. E la mano che ti muove. E la mente. O burattino Bin, mi senti, mi vedi bene? Sono la regina del mondo…la tua regina. Non riconosci la tua gentilezza? DICE IL BURATTNO Bin Laden La tua voce…com’è persuasiva… O bellissima donna – ho due pensieri adesso – sì, voglio pensare…pensare… ma da uomo o da burattino? DICE IL BURATTINO MADONNA GENTILEZZA Da burattino, per carità: che da uomo – come tutti gli uomini – tu fai paura: tu e i tuoi amici: prendi uno, gli tagli la testa: TESTI INEDITI Ecco il frutto dei tuoi laboratori, Peter! – gridò una voce dalla platea. Ed ecco che Brook cominciò a parlare col guerriero: dolcemente, gentilmente, in francese: con decisione: stava guidando la mente dell’attore, dal suo interno: e gli toglieva la spada di mano: in una decina di minuti il giovane si trasformò e lentamente, lentamente, ma dignitosamente, uscì dal palcoscenico per le quinte. Ecco: fu così bravo Peter che riuscì a farlo uscire dall’esibizione (dalla trance/dalla recita) senza svergognarlo: lasciandogli, appunto, la sua dignità di persona e di attore: con gentilezza, appunto. Documenti di Catarsi 5) Oggi sono pieno di diavoli Il giorno dipende da come esco di casa. Se sono in contrasto con me (e quindi col mondo) in ogni presenza e azione degli altri sento qualcosa contro di me. E invece di mettere in moto gentilezza, coi mie modi metto in moto astio. E talvolta succede che l’astio mi piaccia. Se invece sono in pace con me stesso, e i sogni sono andati bene, e mi sono un po’ concentrato per accordarmi, e ho buttato fuori i pensieri spinati, e ho in me vera, non ipocrita gentilezza e bene volenza – allora, di sicuro, metto in moto onde di gentilezza e bene volenza, col sorriso, il saluto, il cedere il passo, il dire parole positive. E mi piace farlo. Ci vuole una prossemica della gentilezza. Perché di slogan in slogan, di spranga in spranga, di scontro in scontro, di strage in strage è stato facile far vincere la morte. E quanta fatica per uscire dall’odio. Un giorno del 1990 in un bar di Bologna vedo uno dei miei amici più cari, di solito scherzoso, ora scuro, che dice: Sono pieno di diavoli. Che fatica parlargli. Non era lui. Neanche il caffè siamo riusciti a prendere. Essere pieni di diavoli. Capita. Anche ai popoli capita. E a certi gruppi. Politici, religiosi. Ieri, oggi, domani. La gentilezza può cacciare i diavoli? Mica tanto. Un giorno di qualche anno fa ero a Scampia, là invitato da Marco Martinelli e Goffredo Fofi per parlare dei bambini e del teatro. C’era un mucchio di persone belle – e fra queste una in particolare che, mentre stavamo a tavola, sedeva alla mia sinistra. Con un amico che avevo davanti siamo arrivati in argomento di Brigate Rosse. E io dicevo: che via sbagliata, ma come hanno fatto a non rendersene conto? La persona particolare seduta alla mia sinistra dice: Io non sono d’accordo. Sono Renato Bandoli. Sono stato brigatista, sono un irriducibile, ho fatto 25 anni di carcere e non ho ucciso nessuno. Ma lo sai, Scabia, che noi IV teatridellediversità in carcere leggevamo Marco cavallo e Teatro nello spazio degli scontri? E perché, gli ho detto, i burattini non li avete fatti prima? Eh! Bandoli adesso lavorava (e oggi ancora lavora) coi bambini e con le persone a disagio. Così siamo stati a parlare – anche se non nominandola – in presenza di Madonna Gentilezza, per un bel po’ del giorno. C’è un fondo oscuro (infernale?) che ogni tanto ci prende – singolarmente e collettivamente. Credo che con l’aiuto dei burattini (passatemi la metafora) a volte se ne possa uscire. Che ci si possa spurgare dei diavoli. Praticare l’inferno (ma attenti, non arrivo a dire che le Brigate Rosse fossero l’inferno: per carità) a volte dà gusto, è elisir, droga. Ma produce sempre dolore alla fine, morte, stragi, lager. E auto distruzione. Bisognerebbe tener sempre la mano infilata, dentro la sacca dell’anima, nel corpo di Madonna Gentilezza, burattina e no. Come fare? 6) Un teatro gentile nello spazio degli scontri In una pagina dell’ultima enciclica Bergoglio/ Francesco parla dell’aria condizionata. Del colossale affare (business) dell’aria condizionata. E la indica come una delle cause pericolose, micidiali, del riscaldamento terrestre. Mi ha colpito quella pagina. Camminando d’estate per certe città come Venezia, Firenze, Milano, Pechino, Shanghai, New York, Xihan, Berlino eccetera eccetera si sente un gran calore che viene dalle pietre, dagli asfalti, dal cemento riscaldato dal sole, dalle automobili e dalle arie condizionate. Milioni o e milioni di arie condizionate, milioni e milioni, miliardi, di automobili. Quest’estate, camminando per Pechino e per altre grandi città della Cina, tutte con più di dieci milioni di abitanti, in certi momenti ho avuto l’impressione che potremmo soffocare. Ma anche a Milano non va molto meglio. Non tanto per l’inquinamento, ma per il calore. Calore prodotto dal sole e da noi. Fra una superficie di terra e una di pietra (o asfalto, o cemento) la differenza, quando colpite dal sole, è di tre quattro gradi. Che bel teatro è la terra. Noi, insieme a tanti altri, piante, animali, insetti, virus, batteri siamo gli attori della vita – e della morte. Meravigliosi sono gli scontri. C’è uno spettacolo più bello della guerra, magari in diretta? Com’erano belli i bombardieri fra il 1943 e il 1945, quando passavano sopra le città e le radevano al suolo. Visti da lontano, soprattutto di notte, per noi bambini erano un teatro immenso, di fuoco e scoppi. Poi ci trovavamo senza casa, in fuga, circondati di morti e feriti. Eccolo il gran teatro nello spazio degli scontri. Mesopotamia, Medio Oriente, Babilonia, Gerusalemme, Tigri, Eufrate, là c’era il Paradiso Terrestre. Abbiamo raso la suolo il Paradiso Terrestre. Torri, altissime torri, grattacieli, vetro, cemento: architettura spettacolosa e distese immense dai casamenti in città sempre più estese, sempre più verticali. Un’urbanistica da matti, scriteriati. Leggetelo quel libro di Franco La Cecla intitolato Contro l’urbanistica. Una mattina di luglio, quest’estate, a Pechino, mentre aprivo una cassetta per le immondizie ho visto venir su due formiche nere: mi hanno guardato e improvvisamente ho pensato: ma non staremo per fare la fine di quegli stupidi dell’isola di Pasqua, che a furia di abbattere alberi per trasportare totem giganteschi come grattacieli si sono desertificata l’isola? E così ho cominciato a dialogare con le due formiche, anche loro perplesse, ma più tranquille di me riguardo al loro destino specifico. Com’erano sagge, com’erano orizzontali! Intorno milioni di automobili quasi ferme scaldavano il giorno: io ero là col mio corpo inerme, di fronte all’immenso complesso umano ormai incatenato nelle sue protesi, nelle sue centinaia di migliaia di edifici verticalissimi, di quaranta piani: e ho pensato al teatro, alla sua nudità di corpo camminante, paziente e gentile, marginale e centrale, nello spazio degli scontri, delle auto e dei grattacieli: riflettevo, insieme alla due formiche, sulla corsa furiosa dello sviluppo, lo sviluppo scorsoio che rischia di strangolarci. O formiche, ho detto, dai, venite a fare i burattini con noi, eh? Così. FORMICA BURATTINA UNO Ma perché, uomini, correte tanto? FORMICA BURATTINA DUE State rincorrendo o state scappando? IO Allora cosa consigliate, formiche care? FORMICA BURATTINA UNO Se tutto è fatto per profitto, c’è poco da consigliare. Non vi fermate più. FORMICA BURATTTINA DUE E perdete l’anima. IO E allora? FORMICHE BURATTINE INSIEME Hai mai sentito parlare di Madonna Gentilezza Burattina? Ma qui sopravvenne un vento e un tornado improvviso con pioggia furente scese sulla città e le formiche salutando delicatamente si rintanarono nella cassetta delle immondizie. E io mi sono messo in cammino sotto la pioggia, baracca e burattini, per arrivare in tempo, oggi, fin qua. Letto a Urbania il 28 novembre 2015 come introduzione ai lavori del XVI Convegno internazionale promosso dalla Rivista “CatarsiTeatri delle diversità” dedicato “Il teatro nella trasformazione dei conflitti in modo nonviolento”. Nota (1) Si svolge il giorno del venerdì grasso ed è una rievocazione delle antiche corride introdotte dagli Spagnoli durante la loro dominazione. Consiste nel far correre per le vie del paese una sagoma di bue costituita da un’intelaiatura di legno rivestita da un telo bianco con strisce rosse. Il bove, animato da due uomini, corre inseguito da una moltitudine di persone vestite con il guazzarò o con abiti da torero. Da pomeriggio a sera, alla fine il bove viene “mattato” e portato via al canto di Addio Ninetta Addio. Durante la mattinata del venerdì grasso, si svolge una manifestazione per i bambini e ragazzi delle scuole elementari e medie che simulano la stessa corrida pomeridiana con un bove più piccolo. * Direttore della Rivista “Catarsi-teatri delle diversità” Rubriche - Il teatro di animazione 3 Isabella Bosano, Lorenzo Carboni, Vito Minoia, Amedeo Tassi, ha assegnato il Premio alla Compagnia Zero en Conducta per lo spettacolo “Allegro ma non troppo”. La motivazione premia un’opera: “Crocevia di linguaggi artistici: dal mimo contemporaneo alle sue multipli relazioni con il teatro di figura (burattini corporali, teatro di oggetti, ombre). La vitalità degli interpreti José Antonio Puchades e Julieta Gascón è riuscita a contagiare gli spettatori e ad evocare, attraverso una fresca ed armoniosa energia, uno scenario onirico di alta teatralità e poesia”. Di Offida è originario anche Remo Di Filippo, laureato in storia del teatro al DAMS/Università di Bologna. Si forma come attore, studiando la commedia dell’arte, la maschera neutra, la maschera larvaria, la pantomima, la voce e il movimento. Si avvicina al mondo del teatro di figura, grazie alla scoperta di un piccolo laboratorio nel centro di Barcellona: “Casa taller de marionetas de Pepe Otal”, dove scopre la nobiltà del legno, e le sue infinite facce, e riconosce i fili che lo legano alla sua infanzia. Cosí nasce Gino, la sua prima marionetta presente anche nello spettacolo “Cuori di legno”, rappresentato a Offida, che prende vita grazie alla sapiente manipolazione della marionettista e cantante australiana Rhoda Lopez, sua compagna d’arte e di vita. L’iniziativa, particolarmente riuscita, si avvia felicemente a celebrare la propria seconda edizione dal 26 al 28 agosto 2016 (una tre giorni che si annuncia altrettanto ricca di eventi e belle sorprese). Attraverso il FOF a Offida rivive anche d’estate lo spirito dell’antica tradizione carnevalesca. In tema di teatro di animazione a partire dalle sue origini popolari e folcloriche non possiamo non ricordare la festa de Lu “Bov Fint” che consiste in una farsesca caccia ad un bue finto, una volta vero (1). Il festival, che si è concluso in ciascuna delle due serate con centinaia di persone sedute sulla lunga gradinata davanti alla Chiesa trecentesca di Santa Maria della Rocca in compagnia delle esilaranti performance di Piero Massimo Macchini, si è distinto anche per le iniziative collaterali a cura della scenografa Brina Babini che ha curato una articolata mostra di burattini creati artigianalmente nel suo Atelier della Luna e dell’artista statunitense Karen Konnerth (Calliope Puppets) che ha tenuto un workshop di costruzioni e animazioni di teatro delle ombre. Allegro ma non troppo, Zero en Conducta, José Antonio Puchades e Julieta Gascon Rhoda Lopez e Remo Di Filipp Abstract HIGH THEATRICALITY AT FOF FESTIVAL he first edition of FOF (Figura Offida Festival) was inaugurated in Offida (Ascoli Piceno). It is a theater festival in international context, focused on puppet theater (marionettes, puppets, dolls, object theater) and the participation of some companies belonging to other theatrical disciplines (magic, clowning, street theater). During the festival, a commemorative award was dedicated to the artist Alfredo Tassi. T teatridellediversità 59 Rubriche Con le radici nel vento MONTE SAN GIUSTO LEO BASSI, POETA PAZZO E STRAORDINARIO Quando il clown può essere un attivista politico che rivela gli aspetti surreali e devastanti del nostro sistema sociale Intervista di Ginevra Sanguigno* I ncontro Leo Bassi al Clown&Clown Festival. L’evento propone ad ogni appuntamento, attraverso spettacoli e incontri, una riflessione sui diversi aspetti della figura del clown. Clown umanitario e sociale, clown artista di strada, clown poeta e attore di teatro. È un’ottima occasione per incontrare bravi artisti che spesso lavorano come gli antichi saltimbanchi medioevali, portando in scena temi sociali. Quest’anno l’intensità dello 60 spettacolo di Leo Bassi mi ha ricordato quanto il clown ancora oggi può essere un attivista politico, un poeta pazzo e straordinario che rivela gli aspetti surreali e devastanti del nostro sistema sociale. Il clown che parla al cuore delle persone. Chi è Leo Bassi ? Io sono la continuazione di un sogno, di una utopia che la mia famiglia, a partire dal 1840-50 ha sempre avuto, e cioè po- ter vivere l’avventura di fare spettacoli popolari, vicini alla gente. Fare spettacoli per avere la libertà di viaggiare; la mia famiglia credeva in un mondo utopico, senza frontiere, internazionalista. Nel tempo abbiamo sempre mantenuto viva questa utopia, ogni generazione si è reinventata per mantenere vivo lo stesso sogno. A cominciare dagli spettacoli circensi di mio nonno, gli spettacoli di varietà internazionale di mio padre, che ha lavorato molto negli Stati Uniti, dove sono nato, seguendo la tradizione europea. Ad ogni generazione è toccato reinventarsi e cambiare, e anche per me è stata la stessa cosa; quello che faccio ha molto poco a che fare con quello che faceva mio padre o mio nonno. Ma lo spirito è lo stesso: il desiderio di potersi esprimere liberamente, di offrire al pubblico qualche cosa di sorprendente, che crei stupore in tutti i sensi; questo si realizza con le idee e la tecnica, solo in questo modo abbiamo potuto realizzare e continuare ad avere una vita libera e senza padroni. Personalmente, nella metamorfosi di questa tradizione, ho dovuto, ad un certo punto del mio percorso, lasciare il circo tradizionale e andare in strada. Questo avveniva alla metà degli anni Settanta, quando cominciava a rinascere una nuova tradizione di teatro di strada, un rinascimento al quale ho contribuito molto. Mi sono esibito per molti anni in strada, cercando di essere più vicino ai miei sogni, entrando in molti aspetti diversi dello spettacolo. Ho avuto una intensa fase televisiva in Spagna e in Germania alla quale ho messo fine perché non mi piaceva. Ho avuto una fase teatrale, che continua ancora oggi, dove io sono sul palco e il pubblico è seduto. Fino ad arrivare ad una fase più recente di vere provocazioni, come per esempio quella di affittare un autobus, dove la gente assiste allo spettacolo, che si svolge sullo stesso bus. Rubriche Con le radici nel vento Leo Bassi, foto di Italo Bertolasi In Spagna e in Sudamerica ho proposto questo tipo di spettacoli per parlare di politica e di giustizia, con l’idea che la liberazione del pubblico avveniva attraverso lo spettacolo stesso; lo spettacolo che attiva un processo liberatorio che può continuare al di fuori dello spettacolo. Una liberazione politica della persona con una coscienza politica. Per trovare dei modi per risvegliare questa coscienza politica nel pubblico, nelle persone. Un anno e mezzo fa ho iniziato un piccolo progetto in Spagna, che sta avendo un bel successo: l’apertura di una chiesa dedicata ai clown, dedicata al dio papero. Nelle bandiere fuori dal nostro locale-luogo di culto, c’è rappresentata una papera di plastica. Questa chiesa l’abbiamo chiamata “La Iglesia patolica” (da pato – “papero” in spagnolo). Utilizziamo tutti i linguaggi, il rituale e la liturgia della Chiesa cattolica, trasformandoli. Quando non sono in giro per spettacoli o altro io celebro le messe, la gente viene a sposarsi; non facciamo battesimo ai bambini, perché siamo contrari al lavaggio del cervello, ma dai 18 anni in poi ci si può convertire al patolicism, tradotto in italiano “paperoicismo”. Questo con l’idea di mantenere questo sogno utopico dall’inizio, che sarebbe quello di vivere liberamente ed essere liberi da ingerenze divine; un mondo dove la filosofia ha un parte importante nella vita della persona. Io penso che il clown dice queste cose anche se non direttamente, il clown rompe tutti gli schemi, rompe le convenzioni, le religioni; penso che il clown sia uno dei più grandi umanisti. E continuo a perseguire il sogno in cui la mia famiglia ha sempre creduto, e cioè la libertà non solo fisica di viaggiare, ma anche intellettuale di credere in qualche cosa; di poter ridere, mettendo il ridere, il sorriso, sopra tutto, come valore fondamentale nella vita, sopra tutti gli altri valori umani. Tu parli di strada come un luogo importante, ci puoi spie- gare ? Per me la strada è anche la piazza, negli anni Novanta ho accettato di lavorare in una nuova piazza: la televisione. Poiché per me è importante ripensarmi continuamente, creare nuove strategie, ho ribattezzato “piazza” il mezzo televisivo, considerandolo luogo di discussione. Come nell’antichità si faceva nell’agorà di Atene, la stessa dinamica si ricreava nei talk show; ho pensato che in un contesto di piazza e di discussione il clown era necessario. In Spagna negli anni Novanta, il programma che tenevo era tra i più popolari, una sorta di Zelig, il popolare programma italiano di intrattenimento comico. Tra Zelig e un talk show. Io facevo cose stravaganti e mi conoscevano in tutta la Spagna; anche adesso, a distanza di tanti anni, la gente si ricorda ancora di me. Ma dopo qualche anno, ho deciso di chiudere con questo capitolo televisivo, vedendo che tutto veniva strumentalizzato, dovevo stare dentro a tetti prestabiliti, che facevano gioco ai network che producevano lo show. Potevo dire e fare alcune cose a altre no, tutto era contrattato prima dello spettacolo; la televisione è totalmente controllata dai grandi poteri , da chi ha in mano l’economia, dai mercanti. E allora per riprendere la mia libertà ne sono uscito e sono tornato alla strada, e ho fatto un passo in più. Ultimamente, una delle grandi rivoluzioni che sta avvenendo in Spagna e anche in altri paesi in Sudamerica è l’idea di una democrazia orizzontale, popolare, non più rappresentata dai partiti o grandi capi di partiti... una specie di movimento simile a quello dei 5 Stelle, ma senza Beppe Grillo. In Spagna esiste e si chiama Podemos (1), ci sono anche altri gruppi che lavorano nella stessa direzione. è un’epoca la nostra, dove l’accesso all’informazione e alla diffusione è quasi totale; non abbiamo più bisogno di protagonisti, le decisioni dovrebbero essere, in un momento come questo, ripartite tra le persone stesse; la strada e lo spettacolo in strada hanno proprio questa qualità. Se tu lavori teatridellediversità 61 Rubriche Con le radici nel vento Leo Bassi, foto di Italo Bertolasi in strada non sei conosciuto, non ci sono mille o diecimila persone che ti vedono , ma solo quelle poche, cento, o forse duecento, o forse meno, e magari a dieci metri di distanza da dove sei le persone non sanno neanche che tu esisti, ma questa è la condizione umana. La realtà è che i sette miliardi di persone del pianeta non sono conosciute, sono anonime, siamo una specie di massa dell’anonimato. Penso sia giusto che l’artista rappresenti questo anonimato. Le persone famose, la “stella”, mi sembra che siano figure passate; l’umiltà che ti obbliga ad avere la strada crea la coscienza di sapere che dopo qualche minuto hai finito il tuo spettacolo e che la vita comunque continua. Penso che questa sia la condizione adatta all’artista di oggi, che in questo momento vuole essere nel flusso, nell’oggi di questo tempo. Questo mondo dei famosi dell’arte, ma anche dello sport, del calcio etc., è un mondo del secolo passato; continua ancora, ma puzza di vecchio, di stantio, è saturato. Vedo questi giovani che lavorano in televisione e vengono riconosciuti quando si esibiscono in piazza; per me sono superati, oggi c’è un nuovo pubblico che vuole essere protagonista, un pubblico che si mette il naso rosso, si dipinge la faccia ed è protagonista. Quando arriva uno famoso, non dà niente al pubblico, tutta l’attenzione è solo su di lui-lei; in strada il pubblico è il protagonista della performance, del rituale che viene celebrato… il desiderio di anonimato è una dimensione filosofica, ed è cultura vera che si manifesta; dall’altra parte abbiamo i falsi profeti della televisione. Lavorare in questa direzione mi piace, è importante, attualizza e rinfresca la mia comunicazione, e mi fa vivere vicino alle persone. Quali sono stati i tuoi maestri ? La verità è che io vengo da una cultura familiare del circo; da una famiglia circense, sono sempre vissuto in mezzo a circensi. Non ho conosciuto mai niente altro che la dimensione del circo, da quando sono nato, fino almeno all’adolescenza. Sapevo tutto della vita del circo: le persone facevano il loro numero, 62 si truccavano, andavano nei camerini. Non c’è stato mai un momento dove non ero dentro al mondo dello spettacolo. Sono cresciuto conoscendo e vivendo a stretto contatto con i protagonisti, guardando gli spettacoli dove lavoravano i miei genitori, ho avuto al fortuna di vedere Groucho Marx (2) sul palco e di vederlo truccarsi, di parlare con lui. Mio padre ha lavorato sei mesi con Louis Armstrong, io avevo sei anni. Ho ballato nel suo camerino, mi ha fatto toccare la sua tromba! Era un uomo molto generoso e simpatico ed io ero uno dei bimbi dello spettacolo. Ho incontrato Charlie Rivel (3), nella storia dei clown è molto conosciuto, ho lavorato nello stesso circo, io avevo diciotto anni lui ne aveva ottanta, lo guardavo ogni sera cercando di apprendere qualcosa. Poi il resto della mia formazione è stata da autodidatta, e credo di avere aperto strade nuove con le mie provocazioni di strada. Mi ricordo molto bene i momenti in cui passavo giorni interi a pensare e non avevo niente in testa, ma io volevo aprire strade nuove, volevo creare cose che nessuno aveva mai fatto prima. Quindi la fase di avere grandi maestri è stata soprattutto nella mia infanzia, grazie ai miei genitori e all’ambiente in cui vivevo, ma dopo, ed è forse un’illusione, la mia sensazione è che sono stato maestro di me stesso, ho seguito una logica che non avevo mai visto in altre persone. Io come maestro, fino a pochi anni fa, ho avuto la sensazione che non ero ancora pronto a rappresentare qualcosa di così importante, qualcosa che poteva lasciare in eredità stili o messaggi, ma andando avanti ho avuto l’intuizione che il fatto di avere aperto strade era importante, ed era un dovere comunicare a nuove generazioni questo percorso. Il tempo è sempre molto poco, non riesco ad insegnare molto, anche se ho molte richieste . Ci sono altre cose più urgenti che desidero portare avanti, sono più interessato a sviluppare il mio recente progetto, quello della chiesetta, vorrei creare un’altra liturgia, scrivere una nuova Genesis, includendo i paperi, come il nuovo inizio dell’universo: i paperi di plastica che galleggiano nel Rubriche Con le radici nel vento Leo Bassi, foto di Italo Bertolasi diluvio universale e nell’arca di Noè entrano perfettamente, dimostrando così di essere veri déi. Sto lavorando su questa idea e sono molto preso da questa mia avventura, ma voglio anche continuare a comunicare il mio pensiero, e fare spettacoli è un modo altrettanto efficace. Questa avventura e il mio modo di fare spettacolo credo possano ispirare le persone, le nuove generazioni, come io sono stato ispirato guardando i miei genitori, e altri artisti, e possa aiutare a creare linguaggi mai scontati e incoraggiare il cambiamento. * Attrice, mimo, clown Note (1) Podemos è stato fondato il 17 gennaio 2014 da alcuni attivisti di sinistra legati al movimento degli Indignados. Si è presentato quindi per la prima volta alle elezioni europee del 2014, ottenendo a sorpresa l’8% dei voti (quarto partito spagnolo) ed eleggendo cinque eurodeputati. Podemos si propone come un partito contro la “casta”, i privilegi della classe politica e la corruzione. Tra le sue proposte ci sono il controllo pubblico delle banche, l’introduzione di una Tobin tax sulle transazioni finanziarie, l’inasprimento delle pene per i reati fiscali, un tetto massimo alle rate dei mutui, un referendum obbligatorio su tutti i temi importanti, e l’introduzione del reddito di cittadinanza. (2) Groucho Marx, nome d’arte di Julius Henry Marx (New York, 2 ottobre 1890 – Los Angeles, 19 agosto 1977), è stato un attore, comico e scrittore statunitense. Terzo dei cinque Fratelli Marx, esordì nel mondo dello spettacolo fin dal primo decennio del Novecento, affrontando una lunga gavetta nel vaudeville che lo portò a recitare con i fratelli nei teatri di varietà di tutti gli Stati Uniti. (3) Charlie Rivel (nome d’arte di Josep Andreu Lasserre, 18961983) è uno dei pochi clown che abbia mai raggiunto la fama di una star internazionale. Come Grock e i Fratellini prima di lui, Rivel fu amato in tutta Europa, osannato allo stesso modo dalla nobiltà e dal pubblico più popolare. Ha ispirato dipinti e romanzi, film e opere teatrali, la sua immagine fu utilizzata come modello per bambolotti e altri souvenir, e ricevette tutti gli onori e i riconoscimenti possibili per un performer. La sua carriera, durata ben ottantadue anni, lo portò dalla povertà alla ricchezza. Mescolando con abilità superbe capacità artistiche, talento per la pantomima e una predisposizione per le relazioni pubbliche, sviluppò un personaggio di clown del tutto originale, che rimane fino ad oggi come una delle più grandi icone del circo del XX secolo. NdR: le notizie contenute in queste note sono tratte, per quanto riguarda il movimento di Podemos e la figura di Groucho Marx da Wikipedia, L’enciclopedia libera, alle rispettive voci. Le informazioni su Charlie Rivel sono prese invece dalla voce relativa su Circopedia, The Free Encyclopedia of the International Circus. La traduzione italiana è redazionale. Abstract LEO BASSI, CRAZY AND SPECIAL POET inevra Sanguigno has met and interviewed Leo Bassi on the occasion of Clown & Clown Festival in Monte San Giusto. The festival aims to a reflection on different aspects of the figure of the clown, during every appointment, through performances and meetings. Humanitarian and social clown, street artist clown, poet and theater actor clown. The intensity of the performance of Leo Bassi shows how the clown still can be a political activist who reveals the devastating and surreal aspects of our social system. The clown who speaks to people’s hearts. G teatridellediversità 63 Rubriche Danza CON VIRGILIO SIENI DANZARE PER CAPIRE Un laboratorio con persone non vedenti alla Biennale di Venezia di Gaia Germanà* foto di Gaia Germanà Da alcuni anni mi occupo di danza, promuovendo l’accesso a questo ambito artistico “per tutti”, ovvero cercando strategie per garantire il diritto alla bellezza a persone di età e abilità differenti e sperimentando pratiche coreutiche inclusive. Bambini, madri e figli, adulti con deficit sensoriale o motorio e anziani sono i gruppi con i quali lavoro prevalentemente, in vari contesti: dalla scuola pubblica alle cornici istituzionali della danza dei teatri. Riporto qui un’esperienza per me molto significativa, vissuta “sulla mia pelle” nell’ambito del 9. Festival Internazionale di Danza Contemporanea la Biennale di Venezia Gesto – luogo – comunità, manifestazione diretta dal coreografo fiorentino Virgilio Sieni che, tra giugno e luglio 2014, ha coinvolto alcuni professionisti italiani e internazionali insieme a un gruppo di non vedenti del Veneto alla loro prima esperienza di danza. Il progetto, dal titolo Danze per capire, è stato voluto da Sieni in una Biennale già “contaminata”, accolta negli spazi delle Corderie dell’Arsenale allestiti per la 14. Mostra Internazionale di Architettura. Alcuni palchi e luoghi deputati al movimento sono stati ritagliati tra le istallazioni architetto- 64 niche per dare uno sguardo ai processi creativi che si attuano attorno ai Fundamentals (tema della mostra) anche nel corpo. Particolarmente calzante, tra le altre, la riflessione per quanto riguarda il lavoro coi non vedenti: alla ricerca di un gesto estetico originario e fondamentale, poetico-espressivo, non solo funzionale. Sieni conduce dallo spettacolo Osso del 2005, dove dialogava col padre in scena, la sua ricerca sul movimento nella direzione di un’autenticità emotiva e “archeologica”, che scava cioè nel corpo umano, nel suo scheletro e nel suo vissuto, per presentarsi qual è al pubblico, senza infingimenti. Di recente ha moltiplicato, a partire da Cango-Cantieri Goldonetta a Firenze, sua sede operativa, le attività dell’Accademia sull’arte del gesto, cornice di lavoro dedicata ai non professionisti, approdando anche in molte città italiane e straniere. Oltre al suo lavoro con la compagnia, conduce infatti, sistematicamente, percorsi che preparano alla scena e presentano al pubblico delle opere che mostrino la fragilità umana, la bellezza di un corpo imperfetto, in ascolto del sé e della comunità con la quale danza, celebrando le relazioni che si originano da uno scambio di esperienze molto diverse. Entrando nel merito del progetto veneziano: per un mese ho facilitato, insieme al danzatore non vedente Giuseppe Comuniello, un gruppo composto da una ventina di persone, tra vendenti e non vedenti, in un percorso di sperimentazione confluito nella performance Insegnamento (con 5 non vedenti e 5 danzatori più un cane guida), quadro corografico del “Vangelo secondo Matteo” presentato dallo stesso Sieni i primi di luglio al Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia. Con Giuseppe Comuniello abbiamo preso parte alle attività dell’Accademia di Firenze fin dal 2007, seguendo la nascita del gruppo di lavoro Damasco Corner, sviluppatosi in seno a Cango per sperimentare le diverse modalità di trasmissione del gesto danzato, senza passare dalla vista. Come si può insegnare/imparare la danza senza vederla? Come si può apprezzare uno spettacolo di danza tradotto da una persona che ce lo racconta muovendoci, toccandoci? Questi solo alcuni quesiti sorti lungo il percorso, che trovano in Giuseppe, oggi Premio Positano 2014 come miglior danzatore contemporaneo e danzatore ufficiale della Compagnia Virgilio Sieni, una risposta vivente. Il laboratorio di Danze per capire ha presentato agli ospiti della Mostra una metodologia flessibile di trasmissione del gesto, un work in progress iniziato negli anni precedenti e legittimato in una cornice internazionale incrocio di diversi linguaggi artistici qual è la Biennale, lasciando sperimentare ai non vedenti un linguaggio personale di movimento, per scoprire le potenzialità di un corpo che comunica, esprime se stesso e conosce, rivelando significati e saperi profondi tra le sue pieghe. Allo stesso tempo ha portato alcuni giovani danzatori a condurre una ricerca sul sentire, sulla trasmissione del gesto e sulla relazione che si può instaurare attraverso la danza: un’educazione alla tattilità molto preziosa nel panorama del contemporaneo, che implica una certa apertura, disponibilità all’inaspettato, come tecnica tra le tecniche di movimento possibili. Dato il deficit sensoriale dei partecipanti, la tattilità è stato il principale strumento utilizzato. La danza non si apprende solo per imitazione, soprattutto la danza di oggi: partendo Rubriche Danza foto di Gaia Germanà da un ascolto interno al corpo, immaginando e toccando le sue architetture, esplorando i suoi meccanismi di funzionamento, si possono trovare delle strade molto personali per esprimersi, rivisitare una gestualità anche quotidiana con una diversa consapevolezza, esercitandosi a un incontro morbido con l’altro, in ascolto del momento, allenandosi alla scelta e svegliando la propria capacità ad esserci (di fronte a se stessi e all’altro) più che al saper fare. La grande scoperta per i non vedenti è stata la possibilità di utilizzare il tocco non solo per un gesto funzionale, ma per esprimere e comunicare in maniera consapevole e sensibile, sintonizzandosi con l’altro per danzare assieme. Oltre alla pelle, a un primo contatto epidermico, il lavoro si è focalizzato su alcuni temi principali: il peso, la manipolazione, l’impulso, la proiezione del corpo nello spazio. Nel tempo lento del non visuale, si è sviluppata una relazione profonda, che ha mosso emozioni e sensazioni nuove per tutti i partecipanti al progetto. Sperimentare le possibilità espressive del proprio corpo, con gli altri, è stata una scoperta meravigliosa per chi non aveva mai provato a danzare. Imparare le diverse sfaccettature di un tocco, il portare e l’essere portati, la sicurezza di un gesto preciso e direzionato, la fiducia implicata nel lasciare il proprio peso o sostenere quello dell’altro, sono rivelazioni importanti per vedenti e non vedenti. In scena per Insegnamento, la relazione, lo scambio, il dialogo tra vissuti, tecniche, esperienze diverse erano riconoscibili, densi e giocosi, con la speciale collaborazione di una cane guida, sintonizzato perfettamente al gruppo di azione. Il percorso artistico ha manifestato in scena il suo valore estetico, senza negare un aspetto terapeutico per i partecipanti, di trasformazione del proprio sentire e sentirsi, con l’altro e nell’ambiente attorno, che sfocia nel sociale e nella vita quotidiana. Con la danza si impara ad aprire lo sguardo, a immaginare e trasformarsi, allargando gli orizzonti di possibilità di ognuno. Per me, in particolare, la ricerca prosegue, non solo con i non vedenti, non solo nell’ambito della danza dei teatri, ma con tutte le classi con le quali lavoro, di bambini e adulti: il percorso che ho vissuto si è depositato nel profondo, sotto la pelle, e affiora continuamente nella pratica, indicandomi a volte soluzioni totalmente inaspettate. * Docente di danza educativa e di comunità Abstract ON MY SKIN: A DANCE EXPERIENCE WITH BLIND PEOPLE n Virgilio Sieni’s Biennale Danza Festival - Venice, June 2014 - I led a workshop with blind people not trained in contemporary dance before. With the help of Giuseppe Comuniello, a professional blind dancer, we worked on the “fundamentals” of dance, according to the context of Architecture Biennale, 14th International Architecture Exhibition. Looking for the main structures of the body and his expressive and creative possibilities, using mostly touch instead of sight, we prepared a group of amateur blind dancers together with few professional dancers for a performance, showed in the frame of the festival. I still keep this experience under my skin. I teatridellediversità 65 Rubriche Danza INIZIATIVA UNESCO LA GIORNATA DELLA DANZA Il 29 aprile di ogni anno, dal 1982 ad oggi, si festeggia in tutto il mondo la danza Il Messaggio di Lemi Ponifasio Q NAPOLI BOTTEGA TEATRALE AL RIONE SANITÀ Il racconto di un’esperienza di teatro educativo in uno dei quartieri più difficili del capoluogo partenopeo uest’anno è stato Lemi Ponifasio, coreografo, regista, designer e artista samoano, fondatore del MAU (letteralmente “dichiarazione di verità”) in Nuova Zelanda per un lavoro concepito come azione di trasformazione con comunità e artisti provenienti da tutto il mondo. KARAKIA (Preghiera) Toccare il cosmo la fonte della nostra divinità che illumina il volto degli antenati per poter vedere i nostri figli Tessere sopra a lato di sotto unire tutti all’interno della nostra carne, delle nostre ossa e della nostra memoria La Terra gira gli esseri umani migrano in massa le tartarughe si riuniscono in silenziosa preparazione il cuore è ferito Danziamo un movimento d’amore un movimento di giustizia la luce della verità Traduzione di Roberta Quarta a cura del Centro Italiano dell’International Theatre Institute Tra le diverse iniziative organizzate in Italia ne segnaliamo una, a cura dell’Associazione Indipendance, con il sostegno del Comune di Fermignano (PU). Il progetto, finalizzato a portare la danza alle persone e le persone alla danza, nasce da una idea di Gloria De Angeli – presidente di Indipendance e laureata in Discipline Teatrali all’Università di Bologna. L’evento si è sviluppato durante l’intera giornata di venerdì 29 aprile 2016 e si è articolato in vari appuntamenti dislocati nei luoghi più significativi del paese. Ha previsto momenti laboratoriali, di performance e incontri. Il programma completo sul sito www.indipendance.org 66 di Peppe Coppola Q uando si pensa al quartiere Sanità, a Napoli, il pensiero subito corre all’identificazione di fenomeni di emarginazione, di criminalità, di un luogo focolaio di decadimento. Impressione di certo mutuata dalle notizie di cronaca e da un certo tipo di letteratura e di sceneggiatura, soprattutto televisiva. Ma per chi opera a diretto contatto con il territorio, e si sforza di percepirne le dinamiche interne, estranee ai circuiti compromessi, si ha la sensazione, a tratti rassicurante, di arrivare come in un paese un po’ fuori dalle tensioni della città metropolitana. Questo è stato un punto di forza fondamentale per il nostro operato: non insegnare a partecipare, ma sviluppare le condizioni e i percorsi che rendono accogliente il fare di chi vuole partecipare. La presenza delle famiglie è di certo un valore aggiunto che va rilevato: alla partecipazione degli abitanti è affidata la possibilità di riannodare, su un terreno concreto e comune, le relazioni con il territorio, tali che si possano riconoscere i luoghi identificativi del quartiere. E allora quella che si respira è la volontà a non rassegnarsi, a voler impegnarsi nel e per il futuro dei propri figli, a costruire una realtà che sia necessaria e condivisa. L’esperienza della bottega teatrAle è partita tre anni fa, quando si diede inizio, con una quinta elementare di una piccola scuola primaria del rione Sanità di Napoli, ad un percorso di teatro educazione, un laboratorio della durata di un intero anno scolastico, svolto in orario extracurriculare. Sin dal principio si sentiva l’esigenza di ampliare gli orizzonti, di non rimanere solo, o almeno non solo nella scuola, ma di estendersi anche al di fuori delle mura scolastiche per poter raggiungere un numero più elevato di bambine e bambini. Era forte la necessità di condividere questa avventura e di non limitarla ad un solo luogo e solo per pochi bambini. Il tutto sembrava avere l’aria di una sfida. Sfida che la Fondazione Pavesi e noi operatori teatrali volevamo cogliere in tutta la sua difficoltà, ed in tutto il suo grande carico: lavorativo ed emotivo. E per certi versi è stato così, l’ampliamento è avvenuto, la condivisione era iniziata. Un anno dopo, Rubriche Teatro e scuola 1 gli alunni della scuola continuavano a seguire il laboratorio; ma insieme a loro ora c’erano anche tanti nuovi partecipanti: coetanei, fratelli, sorelle, curiosi. Le fasce di età coinvolte comprendevano un range dai 4 ai 14 anni, ed un grande impegno. Qualcosa stava per nascere, o meglio era già nato e cercava di crescere. Quello stesso anno la bottega si è ampliata, in collaborazione con la parrocchia e il punto luce di Save the Children. Il rione ha voluto prendere al volo quest’opportunità e giocare. Nel terzo anno di attività, le forze si sono concentrate ancora di più, è aumentato il desiderio di inoltrarsi in questa avventura educativa; all’impegno degli operatori della Fondazione Pavesi si unisce il Nuovo Teatro Sanità. La comunità che gira e gioca intorno al mondo del teatro educativo si sta allargando sempre di più. Quella che era nata come una sfida, sta assumendo i tratti e i colori di una rete/realtà educativa stabile ed innovativa dove tutti si impegnano e, per restare nella metafora del teatro, studiano la loro parte, collaborano all’allestimento, si fanno carico del lavoro e spartiscono gli applausi. Nel corso di questo ultimo laboratorio, molti sono stati i temi trattati e molte sono state le metodologie attuate. Una più di tutte ha travolto la curiosità dei bambini e delle bambine: leggere un albo illustrato e provare a metterlo in scena. La lettura de Il paese dei mostri selvaggi ha da subito attirato la fantasia di tutti. Sono poi bastati pochi materiali: un telo di plastica, delle giocolerie, fogli di carta, tanti cuscini e i corpi dei bambini. Allora la trasformazione è iniziata, dapprima si era bambini e poi foresta e poi mare e barca e giù di lì. Ogni suggestione del testo veniva trattata e studiata in maniera approfondita. Sin dall’inizio la storia del piccolo Max è diventata la storia di tutti, nessuno escluso. Ognuno ha sentito il desiderio di raccontare il proprio viaggio alla ricerca delle cose, lottando contro chi ci pone ostacoli, ma la curiosità di arrivare lì dove tutto è concesso, dove i desideri prendono vita, dove aver paura del diverso non è neanche lontanamente accettabile, lì dove si può essere re o regina ogni singolo giorno a volte non basta ed il desiderio di ritornare nel proprio nido con gli affetti più cari sembra esse- re stato il momento più delicato, sentito fortemente sulla loro pelle e sui loro volti. Alessio ( 6 anni, durante un momento di laboratorio), dice : “si è una cosa e si diventa un’altra, ma casa mia è sempre il posto più sicuro al mondo, dove io sto meglio.” Nel corso delle azioni volte al recupero delle fasce deboli si è cercato di comprendere i bisogni, le aspirazioni, le potenzialità dei minori e individuare strumenti metodologici e modalità operative per accompagnarli nel processo di crescita. Si evidenzia, oggi, a fronte del percorso già fatto e dell’esperienza maturata “sul campo”, la necessità di confrontarsi con realtà esterne ai propri ambienti di vita e ai contesti periferici agiti quotidianamente: si rende necessario un ri-adeguamento dell’esperienza progettuale, rispetto a quelli che sono i nuovi bisogni e la domanda espressa dagli utenti, sempre più numerosi e sempre più consapevoli nelle richieste. A fronte delle dinamiche territoriali, si apre uno spazio di riflessione circa l’opportunità di ampliare gli sforzi di integrazione con azioni che mirano a rompere l’isolamento culturale e sociale dell’utenza di riferimento, mediante un intervento che investe non solo le minoranze sociali oggetto del nostro interesse ma anche il territorio che le circonda e il tessuto urbano che è chiamato ad accoglierle. I bisogni di “salute sociale” più complessi raramente trovano risposte esaustive nella programmazione di un ‘unica area, sia essa di tipo volontario che di tipo istituzionale. L’intento portato avanti dalla Fondazione Pavesi è quello di elaborare un piano di intervento integrato rivolto alla generalità degli individui, dando come sempre la priorità ai soggetti implicati in situazioni problematiche quali povertà, riduzione delle capacità personali, difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva, minori in condizioni di disagio familiare, valutando il bisogno come criterio di accesso al sistema integrato di interventi e attività. teatridellediversità 67 Rubriche Teatro e scuola 2 LAVORARE IN RETE LE RASSEGNE RA.RE. Le Rassegne di teatro scuola, dagli anni Novanta, costituiscono una realtà e un patrimonio tutto italiano, nel panorama internazionale del teatro educazione a cura di Margherita Dotta Rosso, Biancamria Cereda, Onelia Bardelli* Sole e Saturno in casa XI - IIS G.B. Ferrari di Este Le più interessanti rassegne di teatro scuola, più che una vetrina di spettacoli, realizzano un progetto artistico-educativo attraverso cui far emergere il pensiero e la percezione degli studenti di ogni età in merito a valori, linguaggi, problematiche attuali e visioni del futuro. Sono anche il luogo dove è possibile la formazione del pubblico, ovvero la formazione del cittadino, perché è attraverso questa formazione che si esprime il senso profondo e civile del teatro. Negli ultimi tempi, però, il loro numero si è di molto ridotto (erano circa un centinaio, nel censimento effettuato all’inizio del 2000). Agita ha lanciato, allora, l’idea del progetto Ra.Re (Rassegne in rete), a cui hanno aderito 33 rassegne sparse su tutto il territorio nazionale. Qualche dato riferito al 2014: 600 spettacoli, 12.000 studenti, 1.800 docenti e operatori teatrali, 72.000 presenze di pubblico. 68 Se il nuovo Protocollo d’intesa istituzionale sull’educazione teatrale, la Giornata Mondiale del Teatro e gli articoli in tema contenuti nella legge n°107 (13 luglio15), avranno un concreto seguito, la rassegna si riconferma essere lo spazio in situazione più fertile per la ricerca, il confronto, l’ascolto, la formazione (L. P.) Le Rassegne: perché non più così numerose come in passato? Forse no, solo diverse. Alcune si estinguono, altre nascono. L’acronimo RA.RE. ci piace perché le rassegne sono preziose, sono da salvaguardare, accompagnare, far crescere, mettere in relazione. La rete offre un sostegno non economico quanto informativo e formativo ed il suo scopo è anche quello di stimolare collaborazioni ed ottimizzare i risultati. La rete costruisce relazioni e accoglie, incrociandole, le diverse Rubriche Teatro e scuola 2 Angry Birds, Liceo Monti di Chieri esigenze; è luogo di confronto e negoziazione; vuole offrire strumenti e conoscenze attraverso lo scambio di esperienze, è un ambiente alla pari che incrementa fiducia e autostima. La rete è un sistema di interconnessioni fra persone, associazioni, enti che permette di collaborare, cooperare, osservare, con lo sguardo rivolto all’obiettivo comune e condiviso. Un primo strumento per fare rete è stato la firma del Protocollo d’intesa fra Agita e le Rassegne che hanno aderito alla Rete nazionale delle Rassegne di Teatro della Scuola e della Comunità. La rete produce la possibilità di propagare l’informazione in tempi rapidissimi e senza perdita di coesione, così come avviene nel volo degli storni che comunicano tra loro, attraverso impulsi immediati e rapidissimi che ne modificano la forma pur rimanendo sempre nella stessa porzione di cielo. Basta alzare gli occhi al cielo di Roma, al tramonto nei mesi invernali, per scorgerne il caratteristico volo in formazione. Lo scambio rapido di informazioni, quello che produce il volo superfluido degli storni, può fornire anche gli strumenti concettuali e pratici che una società si dà e che ne definiscono la cultura. Se invece gli uccelli, anziché stanziali, sono migratori, come le anatre selvatiche che puntano stagionalmente verso sud, assumono una formazione in volo che assomiglia alla lettera V, perché questa permette loro di aumentare la velocità e l’autonomia di volo rispetto al singolo uccello e si affaticano di meno. Un’anatra guida lo stormo e si pone sul vertice della V, ma si alterna con le altre per spartire la guida e la fatica. Così, le rassegne in rete stanziali, ma diverse a seconda della tipologia - locale, regionale, nazionale, internazionale - possono spiccare il volo verso altri orizzonti ideali, concedendosi il tempo necessario per formulare e consolidare nuove visioni e nuovi saperi: una nuova cultura. Il passo successivo consiste nel disegnare il progetto. Soprattutto capire qual è il progetto ritenuto utile per diffondere sempre di più il teatro nella scuola e nel sociale, perché, per arrivare a buon fine, ogni esperienza deve essere utile e necessaria per chi la vive. Il progetto si costruisce insieme, tassello dopo tassello, idea dopo idea, esperienza dopo esperienza, senza demordere o lasciarsi scoraggiare dalla routine e dai problemi quotidiani. La costituzione di RA.RE. è stata portata a conoscenza dei ministeri interessati (Miur e Mibact) e in tempi di trasformazione, forse di apertura, sia per la formazione dei docenti, sia per l’ampliamento dell’offerta formativa legata alle attività espressive e, ancora, per le funzioni degli uffici scolastici regionali e per le reti di scuole previste dall’autonomia scolastica, sarà forse arrivato il tempo di un organico percorso formativo per i docenti come per gli operatori culturali? Una ri-organizzazione delle Rassegne del Teatro della Scuola in ambito regionale, con la costituzione di reti locali, permetterebbe una presenza più significativa ed un più facile rapporto con le istituzioni scolastiche e gli enti locali? Le anatre selvatiche potranno spiccare il volo? * Operatrici AGITA Abstract RA.RE. EXHIBITIONS thread runs through the “Bel Paese” (beautiful country) since the Nineties: the theater that originates in schools and leaves the closed classrooms through exhibitions. Agita can capture it crating an informative network to enhance the existing. The exhibition is an Italian phenomenon: it is not a festival in the strict sense, nor a parade of tout court performances, but rather a training program in situ for teachers, students, professionals, experts, family members and administrators. The first Memorandum of Understanding on theatre education, with the involvement of the ministries in charge, dates back to 1995: it aims to the formal recognition of artistic activities in schools; it was followed by others, in 1997 and 2006, and by a guideline document in 2007. In 2012, the protocol Ra.Re was elaborated: it is a private commitment of Agita and the representatives of signatory exhibitions, to form a common design, avoiding to disperse the results obtained, to further spread theater in schools and communities. A teatridellediversità 69 Rubriche Teatro e scuola 3 AVANZAMENTI SU ALCUNE NOVITÀ Dal bando promosso dal MIUR a ottobre 2015 alle significative iniziative in Toscana e a Torino di Loredana Perissinotto* L ’ultimo scorcio del 2015 ha segnato alcune novità che potrebbero avere interessanti sviluppi; novità ascrivibili anche ad accordi e collaborazioni tra soggetti pubblici e privati. Mi sembra interessante darne notizia, senza personali conclusioni, partendo dalle istituzioni. La Direzione Generale per lo Studente del Miur ha indetto ad ottobre il bando “Promozione del teatro in classe, anno scolastico 2015-16” in attuazione di quanto contenuto nell’art.12 del DM n. 435 e di quanto, sull’argomento, è presente nella legge 107 (Buona Scuola). Due milioni di euro sono stanziati per i progetti a cura delle istituzioni scolastiche in partenariato con altri enti pubblici e del terzo settore. I termini per partecipare sono stati molto stretti, tuttavia pervengono al Ministero circa 2000 progetti, al successivo vaglio di una commissione interna. Renato Corosu del Miur ci conferma che, nel complesso, hanno partecipato al bando 2800 scuole, con progetti presentati singolarmente o come rete di scuole. Essendo le scuole pubbliche statali circa 8.644, con una popolazione di 7,8 milioni di studenti, risulta in percentuale che più di un terzo degli istituti hanno presentato progetti col coinvolgimento di circa 2,6 milioni di studenti. Bel colpo per il teatro in ambito educativo! Al di là dei numeri, se si potesse anche entrare nel merito dei contenuti e delle forme espressive di questo importante campione, si potrebbe avere un aggiornato profilo della relazione tra scuola e 70 teatro nel nostro paese; ma lo studio delle linee d’indirizzo, con i punti di forza da valorizzare e le eventuali criticità da correggere, esula, al momento, dal bando e dalla prospettiva ministeriale. Andiamo ora a Firenze, dove a metà novembre, viene presentata l’indagine, realizzata nell’anno scolastico 2013-14, “Scuola & Teatro in Toscana. Esperienze, confronti, prospettive” , curata dalla Rete Teatro Educativo (RTE), in collaborazione con alcuni assessorati della Regione Toscana, con l’Ufficio Scolastico Regionale e la Fondazione Toscana Spettacolo. La Rete di soggetti privati, di cui fanno parte la Fondazione Sipario Toscana onlus, Giallo Mare Minimal Teatro, la Residenza del Teatro delle Arti di Lastra a Signa, la Rete Teatrale Aretina, Agita/Casa dello Spettatore, appoggiata nell’indagine da alcune istituzioni pubbliche, costituisce una novità a livello nazionale o, per altri versi, la logica conseguenza della lunga riflessione sul pubblico destinatario, ma pure del principio, finalmente condiviso, che la formazione delle nuove generazioni si basa sia sul fare teatro, sia sul fruirlo. La campagna Tre volte almeno per sensibilizzare i teatri piccoli o grandi della Toscana, nonché gli organismi preposti alla distribuzione, affinché ogni cittadino in età scolare possa andare a teatro almeno tre volte in ogni stagione, ne è un significativo segnale. La RTE ha ovviamente in cantiere altri obiettivi e progetti di formazione, di ricerca, d’incontri e le informazioni, per quanti interessati, sono reperibili nei siti web dei componenti. È interessante qui focalizzare alcuni elementi, messi in rilievo da Ivana Conte nella sua esposizione dell’indagine che, per come è stata impostata, costituisce un “modello” applicabile in altre regioni, se si volesse conoscere la propria realtà del teatro-scuola. Dai 420 questionari pervenuti da scuole di ogni ordine e grado (la scuola primaria è la più presente, di meno la secondaria superiore) tra le finalità del fare teatro emerge che la didattica e le metodologie d’apprendimento superano di gran lunga quelle ludiche, l’impegno sociale e l’integrazione, le relazioni affettive. Anche i criteri di scelta dei docenti nel portare a teatro gli studenti (semel in anno è il dato prevalente), rispondono alla programmazione didattica e, in seconda battuta, ad altre tematiche rilevanti (storiche, sociali, etiche) e all’educazione ai linguaggi. Il partenariato è di poco superiore alla conduzione diretta del laboratorio teatrale da parte degli insegnanti; mentre il sostegno economico viene principalmente da fondi scolastici, seguito da quello degli enti locali e dalle quote famiglia. Per quanto limitato ad una regione, resta un campione significativo del dove sta andando il teatro scuola più in generale e, a saperlo leggere, stimola interessanti riflessioni sul da farsi. Restando in Toscana è da segnalare, sempre a novembre 2015, l’esordio di “Strade Maestre. Tragitti di teatri della scuola”, una nuova rassegna nazionale finanziata dal Comune di Altopascio, che si è avvalso della collaborazione di Agita. Una nuova rassegna è di buon auspicio, pensando alla tendenza negativa degli ultimi anni con la sparizione di moltissime rassegne. L’approfondimento è nell’ articolo di Graziella Perego e Sara Ferrari. A metà ottobre, a Torino è stata invece presentata la Carta di D.N.A (Drammaturgie Non Allineate), atto finale del progetto di Unoteatro, di cui si è già parlato nel n°68-69/2015 della rivista. È possibile visionare la carta all’indirizzo Internet file:///C:/Users/Vito/Downloads/Carta_ DNA.pdf focalizzando l’attenzione sulle pagine 20-21 del documento: le parole per agire, che ci sembrano molto importanti per il loro riferimento alla formazione, animazione teatrale, scuola, famiglia, spettatore. * Presidentessa AGITA STRADE MAESTRE AD ALTOPASCIO Nata sotto una buona stella, la rassegna è partita con otto scuole provenienti da tutta Italia, una scuola estera ed una molteplice presenza di scuole del territorio di Graziella Perego* Rubriche Teatro e scuola 4 NUOVA INIZIATIVA Operatori Agita e studenti in scena ad Altopascio A ltopascio (Lucca), per quattro giorni, è diventata la città del “fare” e “vedere” teatro. Gli spettacoli sono andati in scena al Teatro Puccini: 420 studenti in scena ed un pubblico attento e partecipe ha riempito sempre tutta la sala. Il teatro, moderno e funzionale, fortemente voluto dal comune francigeno, è stato ristrutturato ed inaugurato nel 2011, dopo oltre 25 anni di inattività. I personaggi del Direttore (Salvatore Guadagnuolo) e della Smarrita (Marina Di Virgilio) hanno simpaticamente intrattenuto il pubblico tra uno spettacolo e l’altro, annunciati e accompagnati da un bellissimo jingle: “credo negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani”. La rassegna, oltre alle rappresentazioni teatrali, ha coinvolto gli studenti in varie attività: con Guido Gentilini nel laboratorio teatrale sonoro “Chi siamo?”, con Desy Gialuz nel laboratorio “Il cammino”, con Ina Muhameti nel laboratorio “Il viaggio”, con Sara Ferrari nell’Osservatorio Giovani” e “Fare e vedere”, momenti d’incontro e di formazione. Rossella Russo e Luca Mastrolonardo hanno curato“Convergenze”, il giornale della rassegna. La rassegna ha anche offerto un “dono teatrale” di tutti gli operatori, nel bellissimo Teatro dei Rassicurati di Montecarlo e il convegno “Strade Maestre: progettare il futuro”. Tra i relatori, Patrizia Mazzoni, Ivana Conte, Fabrizio Cassanelli, Patrizia Coletta, Satyamo Hernandez, Loredana Perissinotto, Salvatore Gudagnuolo, Miriam Iacopi e l’amministrazione comunale con Maurizio Marchetti, Nicola Fantozzi, Lucia Flosi Cheli, Luigi Del Tredici. ma è meglio viaggiare insieme per costruire e condividere (dalla lettura del libro di Baricco) Leggerezza, serietà e consapevolezza, fiducia, condivisione. Insegnanti: Giuliana Magazzù e Anna Morelli, operatrice teatrale Mirian Iacopi. Hibakusha, i sopravvissuti / Fiumicello e Aquileia - gruppo interclasse Secondaria di primo grado In ogni guerra, vinti e vincitori devono leccarsi le stesse ferite. Parlano gli hibakusha, i sopravvissuti di Hiroshima. Potenza espressiva, emozioni, coralità, riflessione Insegnanti: Michela Vanni e Ariella Sabbatini, operatrice teatrale Caterina di Fant. Zerbino S.r.L. / Mestre - gruppo interclasse Secondaria di primo grado Non un tappettino per i piedi, ma un avido e dispotico padrone della Fabbrica dei Sogni. Nel confezionare i sogni migliori per i clienti, qualcosa va storto. Determinazione, fantasia, gioiosità , creatività, allegria Insegnanti: Paola Ancillotto, Marinella Borsani e Daniela Contini, operatore teatrale José Manuel Diaz Luzardo Gli Spettacoli in ...pochi tratti Viaggiando con i libri si costruisce una città / Altopascio e Spianate - Primaria I libri hanno il potere di farci sognare, incontrare, viaggiare: è davvero noioso leggere? Giocosità, gaiezza, spensieratezza. Insegnanti: Tina Calò, Edi Lari e Roberta Tongiorgi, operatrice teatrale Miriam Iacopi L’isola /Altopascio - Secondaria di primo grado Nell’immaginario di ogni ragazzo l’isola rappresenta la meta, I pesci rossi sono muti / La Spezia - Secondaria di secondo grado, Laboratorio TeatroLis “...è bello averti qui”, Compagnia “Quelteatridellediversità 71 Rubriche Teatro e scuola 4 li che il teatro...” In fondo al mare, nella casa delle bolle primordiali dove abitano pesci dai mille colori, nascono altri piccoli curiosi dell’ambiente e degli altri simili. Un forte boato li disperde... Immensità , delicatezza, impegno, solidarietà, suggestione. Insegnanti: Annamaria Girani e Paola Vicari, Tiziana Cecchinelli esperta LIS. Exercises d’amour / Sorrento - gruppo interclasse Istituto Polispecialistico. Da testi di Queneau e Apollinaire, lo sguardo fresco di giovani alla ricerca di senso, identità e amore. Soffio, infinite potenzialità della parola e della lingua, giocando con il francese e il napoletano. Insegnanti: Maristella Alberino e Colomba Staiano, operatore teatrale Peppe Coppola Sonetto 116 / Ostuni - gruppo interclasse Liceo Classico Riscoprire i modi e le parole inventate nel tempo, per raccontare la ricchezza del sentimento amoroso; riscoprire la corporeità nell’irrompere della cultura dei social network. Innamoramento , energia, musicalità, gestualità. Insegnanti: Alessandro Fiorella e Antonella Ayroldi Voci e suoni da un’avventura leggendaria / Ferrara - Secondarie di primo grado, Balamos Teatro, Fondazione Teatro Comunale di Ferrara L’incontro di Ulisse e Polifemo per pochi spettatori bendati: un teatro di narrazione musicale e sonoro, che cattura nell’interagire i linguaggi della mente e quelli del corpo. Un percorso sull’intera sfera sensoriale fatto, in primis, dai giovani interpreti adolescenti. Luce, emozionalità, emotività, sensibilità, percettibilità. Insegnanti: Maria Teresa Scaramuzza e Martina Monti, operatore teatrale Michalis Traitsis Camminando lentamente si diventa grandi / Altopascio e Badia Pozzeveri - Primaria La fretta, il tempo... che significa? Dal libro di Sepulveda (Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza) alla scoperta che si diventa grandi, lentamente. Tenerezza, coralità in controtendenza con l’odierna fretta Insegnanti: Antonietta Grammatica, Luciana Carmignani, Francesca Di Maio, Elvira Calenza Non si viaggia senza un cuore / Altopascio Marginone - Primaria Un gioco dove i corpi s’incontrano, le mani si uniscono in cammino verso gli altri... Tante manine e piedini, comunicanti ed espressivi nella conclusione di un laboratorio nato senza fini di spettacolarità. Insegnanti: Camilla Palandri, Ilaria Carmignani, Antonella Affatati e Giovanna Bisegna, operatrice teatrale Miriam Iacopi. Romeo e Giulietta oltre la storia / Figline Val d’Arno – gruppo extrascolastico, Laboratorio teatrale “Si fa teatro” , Ass. culturale AD-AR-TE, operatrici teatrali Miriam Bardini e Patrizia Mazzoni La storia oltre la storia, in cui i giovani interpreti si pongono le domande del testo di Shakespeare: anche noi che siamo qui e vivi, conteniamo i semi della faida come i Montecchi e i Capuleti? Che possiamo fare? L’educazione delle emozioni e dei sentimenti inizia con l’ascolto dell’altro. Faida di sangue e morte, con la consapevolezza di cosa sia determinante per assaporare i valori del vivere civile. 72 Desnortados / Santiago de Compostela - Gruppo teatrale “Vai no dentista”, I.E.S. Arcebispo Xelmirez I Il tema del viaggio intrapreso non per piacere, la strada che non porta dove si desidera stare e quella dell’incontro con la propria realtà a partire dai concetti di “ via, benvenuto e punto d’incontro”. Potere dell’immaginazione. Parole, danza e musica per Giocare Col teatro, Giocare Nel teatro e Giocare Al teatro. * Operatrice Agita TRAGITTI DI TEATRI DELLA SCUOLA Le strade maestre sono i tragitti principali, quei percorsi tracciati che uniscono luoghi, territori, sono le strade più grandi; ed è qui che si sono incamminati i tanti ragazzi che per quattro giorni sono stati protagonisti di un festival ma soprattutto di un viaggio. Dentro la valigia i saperi, le aspettative, le curiosità ma anche le trepidazioni che accompagnano ogni nuovo incontro. Il plurale ha indicato il senso di questo cammino; perché ci sono strade, ci sono teatri, ci sono tante visioni, dunque infinite possibilità. Questo plurale è stato il centro del lavoro realizzato intorno al “fare e vedere” con i gruppi di ragazzi coinvolti in un confronto attivo sull’essere attori e spettatori. Un’esperienza articolata e complessiva che nella scoperta e nella condivisione ha trovato varchi possibili per segnare nuovi tragitti di conoscenza, attivando relazioni tra territori vicini e lontani, tra teatri simili e diversi. […]Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. […] (da Viaggio in Portogallo, J. Saramago) E allora dentro questa esperienza piena ci si accorge che insieme, fianco a fianco, si sono percorsi sentieri, piccole strade secondarie, si sono trovate vie alternative, tornando magari sui propri passi. Il teatro, anzi ancora una volta i teatri, hanno creato il terreno utile ad accogliere e stimolare queste scoperte, dove tutti insieme, attori e spettatori, sono stati prima di tutto persone in viaggio. Sara Ferrari GIULIO E VALERIA: DUE GIOVANI Col “coccodrillo”, come in gergo viene chiamato il pezzo per la scomparsa di una persona, arrivata onorevolmente alla fine della sua vita e pronto nel cassetto del giornalista. Ho ora una sorta di personale rifiuto (e ribellione). Sì, perché la morte di un giovane come Giulio Regeni, non trova consolazione nel detto “caro agli déi...” e la stessa insensatezza, mi richiama il destino di Valeria Solesin (tanto sole in piazza S. Marco, quel giorno, e parole senza retorica che hanno toccato nel profondo e fatto riflettere tutti). Voglio, allora, metterli insieme questi due giovani, nella speranza che la società civile e artistica del nostro paese, sappia afferrare il loro testimone ... testamento di una breve, intensa vita. Non un coccodrillo, dunque, ma un saluto affettuoso e dolente di promessa, nel ricordo di Michela Vanni che, al suo allievo Giulio, fece incontrare il teatro e partecipare alla rassegna di Fiumicello nel 2001 e 2002. L.P. QUANDO IL PALCOSCENICO RENDE PIÙ “DOLCE” IL DIABETE Jean Philippe Assal e l’esperienza terapeutica del Teatro del Vissuto di Massimiliano Messina* Rubriche Teatro e Medicina CAGLIARI dove addetti ai lavori, malati cronici (diabetici, in questo caso) e professionisti del mondo del teatro (un regista, due attori, un tecnico delle luci, un tecnico del suono) possono incontrarsi e stabilire un rapporto irripetibile. “Un luogo dove siamo protetti come dei fiori rari, dei gioielli preziosi, delle perle”, dice Jean Philippe Assal. Il teatro. Dove il paziente impara a diventare il “regista” del proprio vissuto (la malattia o, forse di più, tutto ciò che ostacola e disturba la presa in cura di sé), spesso tenuto nascosto, incapsulato, “seguendo un percorso non di insegnamento ma di accompagnamento, che lo riguarderà per tutta la vita”. “Le malattie croniche possono essere controllate se il paziente impara a gestirle. I medici, e il personale non medico, sono dei tecnici, non sono “allenati” ad accompagnare il paziente nel suo percorso”, sottolinea Assal. Che nella dimensione educativa ha trovato il “suo” metodo curativo. Nel 1998 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito l’Educazione Terapeutica “uno strumento essenziale per migliorare la qualità di vita dei malati”. P uò il teatro rendere più “dolce”, se possibile, una malattia cronica come il diabete? Può aiutare a convivere serenamente con la mancanza o la carenza di insulina? Non sono questioni balzane, se si va alla scoperta della strada maestra tracciata da un appassionato diabetologo e docente universitario svizzero, Jean Philippe Assal. Che circa quattordici anni fa, nel suo “quartier generale” di Ginevra (è fondatore della Divisione di Educazione Terapeutica per le malattie croniche nella Facoltà di Medicina), ha inventato, coinvolgendo il suo amico regista boliviano Marcos Malavia, il Teatro del Vissuto. Ecco, “Educazione terapeutica”, questa l’espressione magica, la sua intuizione e filosofia, perché Assal ha studiato, sperimentato e approfondito fin dal 1970 la dimensione dell’educazione in medicina, codificandola e sancendone il ruolo fino a trovarne lo sbocco ideale: il Teatro del Vissuto, appunto, la sua “creatura”, il punto più alto del suo metodo educativo e formativo, che ha rimesso in discussione e trasformato la relazione fra medico, operatore sanitario, paziente. E teatranti. Un luogo deputato, un tempo di tre giorni, un ambiente Una ventina di centri, dislocati fra Europa, Sud America e Africa, portano avanti con successo la pratica del Teatro del Vissuto: a Ginevra, Parigi, Kaunas in Lituania, in Polonia, in Portogallo, a Lisbona, in Inghilterra, in Madagascar, nel Congo, in Bolivia. “In Italia sono stati fatti grandi progressi nell’educazione dei pazienti”, spiega lo studioso svizzero. “A L’Aquila, Brescia, Genova, Marino si è sperimentato il Teatro del Vissuto. Ma il centro più creativo e fecondo – specifica Assal – è in Sardegna, a Cagliari, grazie all’impegno di Luciano Carboni, responsabile del servizio di diabetologia dell’Ospedale Binaghi, e di sua moglie Maria Pia Turco, anche lei diabetologa. Hanno capito che il potere della creatività, la dimensione teatrale, hanno un effetto dirompente nell’aiutare il malato a parlare di se stesso in un modo ludico”. “Far “giocare” i pazienti (non a caso to play in inglese significa anche recitare, ndr) per farli convivere con la loro malattia”, così dice Jean Philippe Assal: è il risultato eclatante, ormai testato da anni, che il Teatro del Vissuto riesce a raggiungere. Un modello ben strutturato. Una squadra di professionisti - regista, attori, tecnici luci e del suono - si mette a totale disposizione di un gruppo formato solitamente da sei persone. Non solo diabetici fra loro, ma anche perteatridellediversità 73 Rubriche Teatro e Medicina sonale medico e non, madri di bambini che “combattono” con questo tipo di patologia. Tre giornate di full immersion, momenti conviviali compresi, che favoriscono la conoscenza e lo scambio. Primo approccio: i partecipanti entrano nella loro sfera emozionale e scrivono di sé, del proprio vissuto, è la stesura del “soggetto”. I racconti, brevi, vengono poi “sceneggiati”, si passa alla scrittura drammaturgica: il regista, in questa fase, funge da aiuto e stimolatore. Ciascuno legge il proprio testo di fronte agli altri: è il primo momento di autoanalisi e introspezione. Il giorno successivo entrano in gioco i professionisti del teatro, che nulla sanno dei pazienti. Gli attori leggono i testi. I temi: “la famiglia, i genitori, anche macigni pesanti che vengono fuori dal vissuto più intimo. Abbiamo ascoltato testimonianze veramente drammatiche”, racconta Luciano Carboni, riferendosi all’esperienza cagliaritana. Ma tutto si scioglie quando la sensibilità individuale dei pazienti incontra l’abilità dei teatranti. Ogni testo viene quindi drammatizzato e interpretato dagli attori: è il paziente a decidere cosa devono fare per realizzare e mettere in scena il “suo” spettacolo, egli stesso ne diventa il regista. Si arriva così alla “Bella”, si chiama così la prima rappresentazione di tutti i “corti” teatrali (ognuno non dura più di cinque minuti). Il terzo giorno, “La Finale”: si ripropongono gli spettacoli uno di seguito all’altro. Non è presente pubblico “esterno”, ma per i partecipanti è un momento di grande condivisione, soprattutto dal punto di vista emotivo, la liberazione dal peso della malattia . “Con il Teatro del Vissuto il medico e l’infermiere imparano a sentirsi molto più vicini al paziente, e questo non lo può insegnare nessuna scuola di medicina”, spiega ancora Assal. “E’ un lavoro che va molto in profondità, non è come curare un’influenza con l’aspirina, che agisce solo sul sintomo”, continua. “Si entra in un’altra dimensione, il rapporto fra medico e paziente si trasforma. Questo è il beneficio più importante”. Il diabetologo svizzero ha creato un sistema aperto, applicabile anche ad altre branche della medicina e al trattamento in altri campi: “In Italia, per esempio, lo abbiamo sperimentato con successo con coloro che avevano vissuto il dramma del terremoto a L’Aquila”. Assal come esempio virtuoso racconta l’esperienza in Madagascar: “Siamo andati lì con un regista e due attori, abbiamo formato dei professionisti del teatro, i risultati sono stati eccezionali. Da Ginevra facciamo una volta al mese una videotrasmissione in collegamento diretto, i medici fanno la fila per partecipare al Teatro del Vissuto, hanno scoperto con questa esperienza il senso della loro “missione”: essere in empatia con il paziente”. Può sembrare strano ma Jean Philippe Assal non era un patito del teatro: “Onestamente, ho sviluppato questa passione, che all’inizio non avevo. Ma mi ha impressionato come i malati di diabete sul palcoscenico riescano a esternare l’espressione del loro vissuto come atto liberatorio. Il teatro – conclude - è la forza creativa e artistica di un momento che non si può comprimere. Le acciughe si possono mettere in scatola, non il teatro e quello che permette di far esplodere”. * Giornalista 74 IN ITALIA È A CAGLIARI IL CENTRO DI ECCELLENZA In Italia il centro di eccellenza del Teatro del Vissuto si trova a Cagliari. Un’equipe affiatata di professionisti che, con la benedizione di Jean Philippe Assal, opera dal 2010: Luciano Carboni, responsabile del servizio di diabetologia dell’Ospedale Binaghi, coordinatore organizzativo e medico - teatrale, Maria Pia Turco e Luisa Mereu, diabetologhe e addette, rispettivamente, alle riprese video e ai report narrativi, Fabio Casti, regista, Rita Atzeri e Fausto Siddi attori, Roberto Atzori, tecnico luci, Monica Marcias, addetta a musiche e suoni, Giorgio Deidda, videomaker. Carboni ha sposato da tempo l’idea educativo-terapeutica di Assal: “Ho cominciato a seguire i suoi corsi e ho capito che i pazienti devono imparare a sostituirsi al medico nella cura di se stessi”. Sul palcoscenico prende corpo un esercizio liberatorio, quasi catartico: “Il teatro è anche liberatorio, ma è soprattutto evolutivo”, precisa Carboni, “porta all’acquisizione di una nuova consapevolezza”. I numeri sono significativi: 20 le edizioni nel palmares del team cagliaritano del Teatro del Vissuto, ospitate nella sala teatrale della Scuola Media “Leopardi” di Pirri (frazione di Cagliari); 110 i partecipanti, 5 o 6 per edizione, chiamati a condividere pane, teatro e vita per 3 giorni, dalle 8.30 alle 19; 87 persone con diabete, 6 mamme di bambini diabetici, 11 diabetologi coinvolti, 2 medici di medicina generale, 1 infermiera, 3 “laici”, personale non sanitario. Nel 2016 sono già in programma altre quattro edizioni. Fausto Siddi, volto noto del teatro e cinema made in Sardinia, è, insieme a Rita Atzeri, uno degli attori che si mette a disposizione totale dei pazienti. “Serve un piacere a farsi usare. Inizialmente non siamo coinvolti emotivamente, leggiamo in modo quasi distaccato le loro storie”, spiega. Ambientazione, movimenti scenici, luci, costumi, musiche, un vero e proprio spettacolo: sono i pazienti a suggerire tutto, sono autori, registi e pubblico. “E sono molto esigenti, attenti ai dettagli”, sottolinea Siddi. “Attraverso la creatività, più che finzione teatrale, si arriva alla creazione”, chiosa Carboni. “E nel Teatro del Vissuto il confine tra finzione e realtà è ancora più labile”. M.M. Abstract WHEN THE STAGE ATTENUATES DIABETES an theatre ease a chronic illness like diabetes? Can it help cope with a lack or deficiency of insulin? These apparently awkward questions acquire new meaning when we discover the path traced by passionate diabetologist and Swiss university professor Jean Phillippe Assal. Fourteen years ago, in his Geneva “headquarters”, after founding the department of Therapeutic education for chronic illnesses at the Faculty of Medicine, he invented the Teatro del Vissuto. Therapeutic education, the magic expression, his intuition and philosophy, the result of Assal’s study, experimentation and research since 1970 into the role of education in medicine, decoding it and sanctioning its role until defining its ideal expression: the Teatro del Vissuto, his “creature”, the summit of his formative and educational method, which has transformed and redefined the relationship between doctor, health worker and patient. As well as thespians. C ONDE AFFILATE CHE SI INFRANGONO NELLA TERRA Nella sua lingua teatrale c’è tutto ciò che lo ha preceduto, ma scompare e muta in forma nuova di Fabio Rocco Oliva* I ncontrai Mimmo Borrelli per la prima volta alcuni anni fa quando stava preparando il suo spettacolo La Madre. Eravamo nel centro storico di Napoli, a piazza San Domenico, una mattina qualunque, e ci sedemmo ad un tavolino per la parlare meglio tra la gente, nella confusione, tra le parole e gli sguardi. Non doveva esserci il silenzio, né la protezione di un soggiorno, doveva esserci il continuo mormorio della vita, il continuo ribollire dei fuochi flegrei. Mimmo Borrelli non è di Napoli, è di Bacoli, la zona flegrea che pulsa ancora di lava, di vita. Mentre eravamo lì a parlare, le persone ai tavolini intorno guardavano Mimmo, allungavano il collo per sentire le sue parole: ‘nzomma. Il volto di Borrelli è antico, è contadino e greco, la stazza imponente e la barba folta, i capelli lunghi e il continuo oscillare sulla sedia accompagna le sue parole. Raccontava come nasceva la sua lingua teatrale. Lui, seduto sulle rive del mare, osserva le onde, si spingono, si frustrano, Rubriche Napoli e le sue drammaturgie LA SCRITTURA DI MIMMO BORRELLI si bestemmiano per arrivare sulla spiaggia, per consegnarsi a lui. In quel movimento venivano fuori parole. La prima che il drammaturgo, attore e regista ha sentito era ‘nzomma, ‘nzomma: la lingua del mare che parla, che racconta, che intesse le storie. In un passo della Teogonia, Esiodo, il poeta greco della visione, diceva che Afrodite, la bellezza, fosse nata proprio lì, in quella schiuma delle onde che si infrangono sulla terra. Così la scrittura di Mimmo: sono onde affilate che si infrangono nella terra. Sono parole forti, dure, musicali come mai prima si erano “viste” nel teatro napoletano, come mai prima si erano “fatte” sulla scena. Sì, Borrelli segna una rottura decisiva con la drammaturgia a lui precedente e contemporanea. È presente nel suo teatro tutto ciò che lo ha preceduto ma, come in ogni grande personalità, tutto ciò che è passato scompare e muta in forma nuova. Mentre la folla intorno a noi parlava della vita quotidiana, mentre motorini sfrecciavano, camerieri servivano caffè, in un teatridellediversità 75 Rubriche Napoli e le sue drammaturgie Mimmo Borrelli angolo della piazza un barbone a torso nudo si batteva il petto, dimenticato, i turisti si avviano alla cappella di San Severo a contemplare il Cristo velato, Borrelli parlava del suo teatro, del punto di partenza e dei pilastri: l’Onestà e il Pericolo. Per ridurre quel pauroso baratro che allontana lo spettatore dalla scena, c’è bisogno che il poeta sia onesto, si faccia carico del male degli uomini, avverta il dolore e il pericolo di sentirsi nella melma e la faccia poi straripare sulla scena, nella cassa armonica dell’infezione nostra che è l’attore. Come accadeva nell’antico teatro greco. Negli anni i premi si sono succeduti a ritmi vertiginosi, i riconoscimenti si sprecano come gli elogi e gli applausi. Perché? Cosa c’è nella drammaturgia di Mimmo Borrelli che riesce a giungere negli uomini? Cos’è che catalizza? Quando i personaggi delle opere di Mimmo Borrelli sono in scena, declamano versi in bacolese, una lingua inascoltata, emarginata, sepolta, a cui nessuno è abituato. I personaggi cantano i versi seguendo una ritmica che è solo del poeta, fatta di battute, di piedi, di tamburi che battono un tempo preciso, un tempo che prima di tutto è parola, comunicazione, emozione oltre il logos, radicato nel corpo del poeta, negli organi interni del suo creatore che ha vissuto e vive non nell’acciottolato lindo e rassicurante di una città felice e cieca ma galleggia nella melma, nei canali di scolo che vomitano il marcio d’oggi. 76 Vive in quella zona negata della coscienza, dove la differenza, la sottrazione, l’invisibile si fa materia di teatro. ‘Nzularchia, ‘a sciaveca, La madre, Opera pezzentella, sono i lavori di Borrelli, quelli che lo hanno consacrato a poeta e drammaturgo della nostra terra ma non solo, della nostra nazione e della nostra epoca. Perché? Ancora. In che modo è stato possibile ciò? I personaggi e le storie di Borrelli sono prima di tutto universalità, brandelli d’anime e corpo che appartengono a tutti noi. Se prima di lui il teatro napoletano si rispecchiava nella parola di De Filippo come intelligenza che muove e risolve il labirinto pur mantenendo il suo dolore irrisolto, se prima di lui Ruccello ha evocato i fantasmi e l’orrore in un’epoca in cui si voleva ridere e si voleva credere nel progresso, se prima di lui Moscato ha inquietato con la delicatezza della poesia, ora con Borrelli si è fatto un passo avanti nella drammaturgia, si è invertito il senso di marcia e si è scovato un percorso altro. Il suono e il corpo sono una straordinaria forza comunicatrice. In tempi in cui la parola ha perso la sua credibilità, si è venduta al vento che ha cambiato spesso la sua corsa, ha mostrato tutto il peggio che poteva esprimere, la bella parola ricercata, la sintassi pulita e ciceroniana che vende fumo e determina la ragion d’essere della disonestà, Mimmo Borrelli, poeta baco- * Drammaturgo e critico teatrale Nota Io sono tutto quello che non sono, io sono la verità fatta di bugie. (1) Abstract SHARP WAVES BREAKING ON THE GROUND immo Borrelli (1979) is one of the most important and contemporary playwrights, Neapolitan and not only, as Franco Quadri wrote. His award-winning works (‘A scaveva, Nzularchia, La Madre) have collected unanimous critical and public acclaim. Borrelli marks a break with the previous and contemporary Neapolitan dramaturgy. His language is the turbulent dialect of Bacoli (small town near Naples). His verses are recited in the scene as violent drums that talk about the new millennium man: an infected man who lives in the gutters and blasphemes God in his great loneliness. This is the epic of the chained man, the slime that stains the blue sea. M MIMMO BORRELLI L’esordio sulla scena di Mimmo Borrelli avviene nel 2005 con lo spettacolo ‘Nzularchia (itterizia) per la regia di Carlo Cerciello che gli vale il premio Riccione per la drammaturgia. È la storia di un padre, un criminale, scoperto dal figlio mentre violenta la moglie e ne ammazza l’amante. Nel 2007 è la volta di ‘A sciaveca per la regia di Davide Iodice e che gli vale subito il premio Tondelli per la drammaturgia. Sciaveca è la rete da strascico usata nella pesca sotto-costa, sporca di alghe melmose e di fanghiglia. Una complessa opera in dieci canti e tremila endecasillabi sciolti, vera e propria rete di racconti tra il mito e l’oggi. È la storia di un uomo disperso in mare che torna dopo un anno sulla terraferma. E proprio il mare ne racconta le dissolutezze. Nel 2008 riceve per ‘Nzularchia il premio Gassman come “Miglior giovane autore” e il Premio E.T.I. Gli Olimpici del Teatro come “Miglior spettacolo d’innovazione”. Nel 2009 è la volta di SEPSA - Spettatori all’esequie di passeggeri senz’anima, allestito sui vagoni e sui binari della ferrovia della cumana, legato a due fatti di cronaca nera: la morte, il 26 maggio a Montesanto, nel cuore della città di Napoli, di Petru Birladeandu, 33enne musicista romeno ucciso dal fuoco incrociato dei clan della camorra e quella, il 19 luglio 2008, di Violetta e Cristina Ebrehmovich, due ragazzine Rom di 12 e 11 anni, annegate a Torregaveta sulla piccola spiaggia adiacente i binari della stessa ferrovia. Nello stesso anno riceve per ‘Asciaveca i premi Premio Nike come “Miglior autore” e il Premio Girulà per la drammaturgia. Il 2010 è l’anno de La Madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma. Sul tema della maternità e della fertilità. Una Medea nella terra dei fuochi per raccontare la camorra e la sua terra violentata attraverso gli occhi e le grida viscerali di una madre, Maria Sibilla Ascione, moglie, vittima e carnefice di Francesco Schiavone, capo dei casalesi (Sandokan). Reclusa per 20 anni in un bunker rivive una storia fatta di distruzione e morte. Di avvelenamenti. La vicenda è ambientate in un antro-utero, che inghiotte i personaggi come un melmoso sacco amniotico. Nel 2011 da La Madre prenderà corpo Malacrescita che ne ripercorre le vicende ma in un modo diverso, un monologo più sofferto e atroce, dove emerge la solitudine e la mancanza di salvezza. Riceve il Premio Nike e il Premio Landieri per La Madre: ‘i figlie so’ piezze ‘i sfaccimma. Nel 2012, per l’inaugurazione della Stagione Sinfonica 2012/2013 del San Carlo, viene allestita l’opera inedita “Napucalisse” con musiche di Giorgio Battistelli, un flusso vulcanico su Napoli. Riceve il Premio Landieri come “Miglior rassegna campana” per il Mirabilis Festival e il Premio della Critica Teatrale come regista, autore e attore. Nel 2013 riceve il premio Testori per La Madre. Nel 2014 mette in scena Opera Pezzentella nella chiesa del Purgatorio ai Tribunali nelle viscere di Napoli. Le anime pezzentelle sono i devoti che adottavano un teschio senza nome (capuzzelle) e se ne prendevano cura per tutta la vita, lo pulivano, ci parlavano e chiedevano protezione. Nel 2015 riceve il Premio Hystrio e il Premio Concetta Barra per la drammaturgia. Attualmente è al lavoro su Sanghenapule con Roberto Saviano sulla figura di San Gennaro. teatridellediversità Rubriche Napoli e le sue drammaturgie lese, flegreo, ha frantumato questa illusione e ha reso la parola un baratro compiendo una magia: lo spettatore spesso non comprende le parole misteriose di un terra sconosciuta, non comprende sempre lo snodarsi del verso eppure riesce perfettamente a cogliere il senso profondo di quello che ribolle sotto la superficie della parola, proprio come il magma della zona flegrea che pulsa sotto la terra e determina ciò che fuori ci unisce. Ecco una lingua nuova sulla scena che ci comunica la nostra condizione: la malattia che ci condanna alla solitudine, la melma che sporca l’azzurro del mare, la macchia che ci imbruttisce. Quali sono le cause? Perché? Non importa. Nell’epos omerico possiamo rintracciare la causa di alcune condanne ma non sono mai cause conosciute fino in fondo, qualcosa ci sfugge sempre, un perché resta sempre lì oltre l’ultima illusione di comprensione. Resta solo Enea che deve cercare una nuova patria, resta solo Ulisse battuto dai venti, resta solo Tantalo che cerca di afferrare la mela. Resta nella nostra mente l’urlo dell’uomo. E quel grido che Borrelli porta in scena ci parla di noi, oggi. L’uomo di questo neonato millennio, non ha più la capacità di reggere il mondo, di spiegarselo e spiegarlo attraverso il lavoro del Logos, non ha più nemmeno il mito dell’autodistruzione (concetto borghese che serpeggia in alcune regioni della società), non ha più la speranza della condivisione, della comunicazione, ma strisciano solo anime che elemosinano la loro perduta essenza di uomini. In questo momento, in cui non siamo più chi eravamo un tempo e non siamo ancora ciò che saremo, il teatro di Mimmo Borrelli ci offre la visione del pericolo, la bestemmia che ci avvicina a dio, quel dio che resta simulacro di un tempo che fu, con tutto ciò che ne consegue. I personaggi delle drammaturgie borrelliane sono la stanza intima del nostro malessere d’oggi, quell’oscuro tumulto che si vuole tacere. Sono il pianto storto di un amore ormai perduto per sempre. Non è definibile, non può essere spiegato né razionalizzato, è, esiste nel suo farsi sulla scena. La parola allora diventa corpo d’attore, organi e muscoli che patiscono uno spazio e un tempo, che hanno perduto e hanno rifiutato la parola come negli ultimi venti, trenta anni, si è mostrata: bella, rassicurante ma assassina, viscida affabulazione montata per accumulare la “roba”. «Je songhe tutto chello ca nun songhe, je songhe ‘a verità fatt “i buscie » (1), dice in alcuni suoi versi. Come il testamento di un poeta eternamente errante. 77 Rubriche Teatro e Comunità VAL DI CECINA IL PALIO DI POMARANCE, UN REGALO INATTESO Arte, competizione, rappresentazione, cooperazione Foto di Alessandro Rossi 78 di Maddalena Nanni* Rubriche Teatro e Comunità Foto di Alessandro Rossi Q uando si sente pronunciare la parola “Palio” viene subito in mente una corsa di cavalli. Pochi conoscono quello di Pomarance, paese della Val di Cecina nel cuore della Toscana, il cui meccanismo è un po’ più complesso. Unico nel suo genere, si basa su una gara tra rappresentazioni teatrali all’aperto. Tutti gli anni a Settembre va in scena uno spettacolo unico: quattro rioni, che rappresentano i quattro quartieri del paese, si sfidano a colpi di recitazione contendendosi il “cencio”, un dipinto di un artista locale. Partiamo dall’inizio: il palio nasce nel 1958 dall’Unione Sportiva Pomarance come un torneo calcistico fra squadre locali; le partite sono precedute da una piccola sfilata che vede presenti la banda, lo stendardo del Comune con le autorità e infine le con- trade rappresentate da un alfiere e da pochi paggi. Tutti si ritrovano nel campo sportivo detto il “Piazzone” per tifare gli amici. Qualche anno dopo il meccanismo cambia e viene data più importanza alla sfilata rispetto alla partita: ogni rione decide di raccontare per le vie del paese un evento storico, un racconto leggendario o semplicemente una storia locale con costumi appropriati e dando ai personaggi un’interpretazione propria. Iniziano le prime riunioni e ci si ingegna con varie iniziative, compreso l’andare di casa in casa a racimolare soldi per poter acquistare o prendere a noleggio i costumi migliori. Diventa così un concorso popolare: ognuno fa quel che può e ci si prepara per il giorno tanto atteso. Nel 1965 la direzione dell’organizzazione viene data alla Pro Loco e la componente calcistica sparisce. La sfilata con costumi teatridellediversità 79 Rubriche Teatro e Comunità 80 d’epoca diventa così il cuore della manifestazione ed ogni rione porta in piazza decine di figuranti pronti a dare il meglio di sé. Le contrade, che inizialmente erano tre, finiscono per diventare quattro: il Marzocco, colori giallo e blu e come emblema il leone fiorentino, il Centro, colori giallo e rosso, con la bandiera raffigurante la rosa dei vènti, il Paese novo, colori bianco e verde e come stemma un’aquila e infine il Gelso, l’ultimo arrivato, colori arancio e nero e come simbolo un albero di gelso. Nel 1986, dopo un periodo di interruzione, il Palio riprende con lo stesso entusiasmo iniziale, ma le carte in tavola cambiano. Adesso, oltre alla sfilata, i rioni recitano sul proprio palcoscenico dando vita ad una storia, con sottofondi musicali, narratori e attori che recitano dal vivo. Il Palio diventa così un combattimento tra compagnie teatrali paesane. Arriviamo ai giorni nostri. Per avere un’idea di ciò che accade durante tutto l’anno dobbiamo partire da quel magico giorno che è la seconda domenica di Settembre. La mattina il paese sembra trattenere il respiro e si ha la sensazione che ci siano da qualche parte dei laboratori segreti dove tutto viene architettato nei minimi dettagli. Nella propria sede ogni rione si prepara tra parrucchieri, truccatori, sarte, figuranti, attori e capitani. Tutto è già allestito e tutti sono pronti a mettere in scena la propria arte. Nel primo pomeriggio i rioni si ritrovano nella piazza principale del paese, quella del Comune, davanti a centinaia di spettatori. I primi ad arrivare sono i tamburi seguiti dal corteggio storico, in ricordo dei vecchi palii, composto da figuranti in costume rinascimentale tra dame, cavalieri, priori, alfieri e paggetti. Dietro a questi sfilano personaggi con costumi diversi, maschere strane o carnevalesche. La seconda parte della sfilata, quella più numerosa, è costituita infatti dai personaggi della rappresentazione teatrale che molto spesso risultano chiari solo una volta cominciato lo spettacolo. Seguendo la sfilata delle quattro contrade si arriva infine al Piazzone dove sono stati costruiti i palchi. A turno, le comparse danno vita alle quattro rappresentazioni teatrali della durata massima di 30 minuti ciascuna. Il vecchio campo sportivo si trasforma così in un teatro all’aperto che ha come sfondo le colline toscane. Una giuria, selezionata dalla Pro loco, esprime un giudizio con una votazione per decretare la contrada trionfatrice. Dopo cena il sindaco davanti a tutti i contradaioli, riuniti attorno ai propri palchi, proclama il rione vincitore che esplode in salti, grida, abbracci e porta le bandiere accompagnate dal suono dei tamburi in giro per il paese. Durante le settimane successive vengono organizzate svariate feste sia dei vincitori che dei perdenti. Le polemiche accompagnano per un po’ la vittoria ma a partire da Gennaio tutto ricomincia e all’interno di ogni rione riprendono le riunioni per decidere il tema da rappresentare all’edizione successiva. Bisogna scrivere una sceneggiatura provvisoria, disegnare i costumi, costruire i modellini della scenografia, stampare le foto dei trucchi, ascoltare le musiche ecc.. Adulti e bambini lavorano fianco a fianco per mesi, ognuno contribuisce alla riuscita della rappresentazione con la propria esperienza e mettendosi a disposizione per i lavori più disparati. Nel mese di Agosto e per i primi giorni di Settembre i preparativi crescono, le cene si fanno più frequenti, le prove vengono effettuate di nascosto, dentro un mercato coperto, in una palestra o in un oratorio. Anche la scenografia rimane incompleta fino al giorno stesso del Palio ed i lavoratori completano l’opera solo la mattina stessa della manifestazione. Un alone di mistero avvolge tutte le contrade fino al fatidico giorno e l’attesa cresce, come un bel regalo sotto all’albero che viene aperto solo la mattina di Natale. Nell’ultima edizione i rioni hanno portato in scena diversi ar- Foto di Giacomo Saviozzi gomenti: il Gelso ha presentato “S’ha da fare”, particolare interpretazione de “I Promessi Sposi” dove troviamo Don Abbondio, l’Azzeccagarbugli, Don Rodrigo, l’Innominato e al centro di tutto due persone alla ricerca del riconoscimento del proprio amore. Con “La fattoria di Jeorge” il Marzocco ha preso spunto da “La fattoria degli animali” di Orwell per rappresentare un’allegoria della rivoluzione, senza tralasciare i particolari amari che essa comporta. Il Centro attraverso “Angeli con un’ala soltanto” hanno narrato la vicenda di due ragazzi innamorati, tra grandi passioni e comprensibili timori con una famiglia che gli fa da cornice, specchio di pregiudizi e contraddizioni. “Senza lasciare Traccia” è stato il titolo del rione Paese Novo, spettacolo ispirato al libro “La generazione” di S. Lenzi, storia di una coppia che si ritrova a fare i conti con un tema all’apparenza naturale che si trasforma ben presto in qualcos’altro: l’avere un figlio. Non è un caso che attorno al Palio siano nate altre organizzazioni: compagnie teatrali vere e proprie, il gruppo Musici e Rubriche Teatro e Comunità Sbandieratori di Pomarance, il concorso di fotografia “Scatta il Palio” e il Centro Commerciale Naturale organizza la sera stessa la “cena del Palio”, degustazione itinerante di prodotti tipici accompagnata da musica. Da contradaiola posso dire che vedere così tante persone trasformarsi da operai a scenografi, da casalinghe a sarte, da commessi ad attori mi fa emozionare e partecipare alle riunioni mi fa capire quanto sacrificio e tempo ogni persona di ogni rione metta in questo spettacolo. Perché è questo che vogliamo portare, uno spettacolo per tutti noi. Siamo gli spettatori del nostro stesso palio, i bambini che scartano il pacco regalo, ci mettiamo seduti sulle tribune e guardiamo per la prima volta tutti insieme il lavoro finito. Ed ogni volta ci emozioniamo, applaudiamo, piangiamo, critichiamo e sorridiamo nel sapere i retroscena. Non è solo una festa di paese ma un amore che nasce da radici profonde, molto spesso tramandato dai genitori e alimentato anche dai più giovani. Qualcosa di unico e speciale forgiato dal nostro piccolo (ma grande) paese. * Biologa, cittadina di Pomaramce Abstract PALIO OF POMERANCE, AN UNEXPECTED GIFT he Palio of Pomarance, - a little Tuscany town - is a competition between outdoor theatrical representations. Every year, the second Sunday of September, four Rioni (districts), that represent the quarters of the town, compete on the stage with a performance. During the year each group creates the costumes, writes the plots, builds the stages and composes the soundtracks. For the event of the day, the teams join the central square and parade in the streets with flags and drums. Once arrived at the old soccer field, named Piazzone, they perform on the stage their plays in front of hundreds of people. T teatridellediversità 81 Rubriche La Critica I PREMI ANCT LA FORZA ETICA DELLA SCENA La Cerimonia al Teatro Gioia di Piacenza nell’ambito del Festival “L’altra scena” di Nicola Arrigoni* Claudio Facchinelli premia Antonio Viganò, foto di Mauro Del Papa L uogo migliore non poteva essere scelto per la consegna dei Premi Anct 2015: il Teatro Gioia di Piacenza, nuovo spazio fortemente voluto dalla città e dal Teatro GiocoVita di Diego Maj. Il Teatro Gioia è uno spazio bellissimo, ricavato in una chiesa che fu dei Gesuiti, uno spazio che sa essere sacrale e festoso al tempo stesso. La cerimonia di premiazione si è svolta in concomitanza con l’inaugurazione del Festival L’altra scena di Piacenza. Jacopo Maj direttore artistico del Festival L’altra Scena, di Tiziana Albasi assessore alla Cultura del Comune di Piacenza, e con la presenza di Alberto Dosi membro della Commissione Cultura Fondazione di Piacenza e Vigevano, hanno portato i saluti istituzionali. A fare gli onori di casa è stato Enrico Marcotti, vicepresidente dell’Anct, affiancato dai membri del direttivo: Claudia Provvedini e Vito Minoia. La navata riccamente affrescata dell’ex chiesa dei Gesuiti – paradossalmente – ha reso meno sacrale la cerimonia e più intima, festosa, sentita, solidale e partecipe, grazie anche ad un gruppo di artisti che hanno mostrato di avere un comune denominatore: un grande senso etico del fare teatro. Nel suo saluto di apertura il presidente Giulio Baffi, impossibilitato a intervenire, ha voluto ricordare due maestri della scena come Luca Ronconi e Judith Malina e si è augurato che gli artisti premiati dai critici italiani possano continuare a lungo a nutri- 82 re il teatro con la loro fantasia e passione. Il Premio Anct 2015 è stato realizzato dallo scultore Giorgio Milani che sapientemente ha intrecciato in un sol segno le iniziali delle tre parole Premio, Critica e Teatro. L’Associazione nazionale critici teatrali ha premiato Antonio Viganò e la sua Accademia Arte della diversità, il regista Antonio Latella per le regie di Natale in casa Cupiello, Ti regalo la mia morte, Veronika. L’attore e regista Mario Perrotta per il Progetto Ligabue. Roberto Latini, regista e protagonista di I giganti della montagna. Il coreografo e pedagogo Alessio Maria Romano. Monica Piseddu, attrice, interprete di Ti regalo la mia morte, Veronika, Alcesti, Zoo di vetro, Natale in casa Cupiello. L’attrice Milvia Marigliano attrice in Chi ha paura di Virginia Woolf? e Zoo di vetro. Lina Prosa, drammaturga per “Trilogia del naufragio”. Lo spettacolo Scannasùrece, regia di Carlo Cerciello. Il premio Rivista Hystrio (diretta da Claudia Cannella) a Lino Musella. Il Premio rivista Catarsi – Teatri della Diversità (diretta da Vito Minoia) al mimo e clown Ginevra Sanguigno e Italo Bertolasi (scrittore e documentarista). Fondatori di Clown One Italia e membri del Gesundheit! Institute di Patch Adams. Il Premio Paolo Emilio Poesio 2015 alla Carriera alla regista e direttrice artistica del Teatro Franco Parenti André Ruth Shammah. Si crede che l’elenco dei premiati non renda in realtà giustizia Recensioni La Critica Foto Mauro Del Papa alla serata di premiazione in cui ad emergere è stato l’amore per il teatro, condiviso e solidale fra cronisti del teatro e artisti, accomunati in un medesimo viaggio al cuore della bellezza e dell’umanità. E allora ha commosso il saluto da clown di Ginevra Sanguigno che con un gesto, un inchino ha reso e distillato la magia del teatro e del saltimbanco che sa sollecitare sorrisi e allegria anche in contesti drammatici e di dolore: artista giustamente premiata insieme a Italo Bertolasi da Vito Minoia e dalla Rivista Catarsi-teatri della diversità. A conferma di come i Premi Anct siano un intreccio di passione per la scena condivisa con altri partner come Hystrio, è il premio assegnato dai critici del trimestrale, diretto da Claudia Cannella, e andato a Lino Musella, giovane attore dalle confermate e acclarate doti interpretative. Nelle belle e ben scritte motivazioni che hanno accompagnato la cerimonia si è avvertito forte un senso solidale fra critica e teatranti, un condividere la medesima fame di sogni e di bellezza. Intensa è la definizione di Monica Piseddu – assente perché in scena a Parigi – contenuta nella motivazione: «sa essere il femminile potente proprio per la sua apparente fragilità, è corpo esile che incarna la parola, la fa propria, la fa essere vera, reale poesia agita». Non meno forte e incisiva la descrizione delle doti attoriali di Milvia Marigliano: «Grazie alle sue straordinarie doti comunicative, messe al servizio di una creatività interpretativa di grande estro e rigore, si conferma, così, definitivamente, quale una delle migliori attrici teatrali». Tradizione e innovazione, la grande scuola dell’attore e la forza del performer si coniugano in Roberto Latini, premiato per la sua lettura de I Giganti della Montagna di Pirandello, quale «figura di capocomico di elevata e raffinata poetica ne I Giganti della Montagna, di Pirandello restituisce universalità alle inquietudini esistenziali che permeano il lavoro del Foto Mauro Del Papa drammaturgo siciliano, incarnando nella sua unica figura di attore la sconfitta dell’arte, il cupo dissolvimento degli ideali, la paura, il travaglio umano». Nell’individuare non solo lo specifico artistico, ma anche il riflesso sociale, comunitario etico del teatro l’edizione dei Premi Anct 2015 ha trovato una sua apprezzabile compattezza confermata nell’attenzione al lavoro di Antonio Latella di cui «le regie premiate sono riferimenti ineludibili per l’entroterra culturale dell’artista che portano a risultati di eccellenza gli esperimenti di scomposizione formale/e o psicologica fin qui seguiti», ma anche le azioni teatrali e sociali portate avanti da artisti come Antonio Viganò con la sua Compagnia Teatro La Ribalta: «portatrice di una poetica originale, essenziale, e raffinata sin dai suoi esordi. Fondatore dell’Accademia Arte della Diversità», dove «esplora l’arte che racconta la diversità che si fa arte. Un esempio di eccellenza ed anomalia al tempo stesso nel panorama del teatro italiano», oppure Mario Perrotta che col Progetto Antonio Ligabue «si rivela (forse anche a sé stesso) non solo il teatrante a tutto tondo già noto, organizzatore di complessi eventi di massa e perfino valente artista visivo in grado di fondere gesto, parola e segno grafico». In questa direzione di un teatro esteso alla vita va letto anche il Premio Paolo Emilio Poesio alla carriera consegnato ad Andrée Ruth Shammah regista, imprenditrice che ha attraversato la storia della seconda metà del Novecento con straordinaria dedizione estetica e organizzativa al ‘suo’ teatro Pierlombardo prima e oggi Franco Parenti in un’osmosi continua fra scena teatrale e palcoscenico della vita culturale cittadina e milanese. Ed è dunque questa compattezza di lettura che ha reso i Premi Anct 2015 un reale e sentito omaggio all’arte etica del teatro. * Critico teatrale Abstract ANCT PRIZES AND SETTING’S ETHICAL POWER he 1st of October 2015 the National Prize of theater criticism was hosted at the Teatro Gioia of Piacenza, which is housed in a church of the Jesuits, a space that knows how to be sacred and festive at the same time. The award ceremony was held in conjunction with the inauguration of the Festival L’altra scena (The other scene) by Teatro Gioco Vita. In his opening speech, the president Giulio Baffi, unable to participate, recalled two masters of the scene as Luca Ronconi and Judith Malina, hoping that artists awarded by Italian critics can continue to feed the theater with their imagination and passion. One issue that has been a real and heartfelt tribute to the ethical art of theater. T Ginevra Sanguigno in azione, foto Mauro Del Papa teatridellediversità 83 Rubriche - Margini & Frontiere SUL ROMANZO DI IRVIN D.YALOM IL CARATTERE DETERMINA IL NOSTRO DESTINO “Il problema Spinoza” è suddiviso in trentatré capitoli dove si alternano rigorosamente alcune tappe della vita di Spinoza e dell’ideologo nazista Rosenberg di Valeria Ottolenghi* medico psicanalista, che dialoga in diversi passaggi con Alfred Rosenberg l’ideologo nazista condannato a morte nel processo di Norimberga, impiccato nell’ottobre del 1946 - tenterà, in uno degli ultimi capitoli, Berlino, 1936, di spiegare ancora, per gli aspetti filosofici, ma anche terapeutici - Rosenberg depresso, ricoverato - le affinità tra Goethe e Spinoza, sperimentando entrambi “uno stato di estrema gioia nell’afferrare la concatenazione di ogni cosa in natura”. I l carattere determina il nostro destino? Si apre così - e senza punto di domanda - uno dei capitoli, Monaco, 1918/19, del romanzo “Il problema Spinoza” di Irvin D. Yalom, edito da Neri Pozza: il ricorrente quesito, comunque sempre affascinante, tra caso e necessità, per la reale misura del libero arbitrio, dell’atto di volontà, trova la stessa risposta nella visione spinoziana del mondo e nella psicanalisi, l’imprevisto, l’avvenimento fortuito - così nella realtà fattuale come nei meccanismi dell’interiorità risultano tali solo perché manca la limpida conoscenza di tutti gli elementi che hanno preceduto quell’evento, avvertito proprio per questo come accidentale. Il personaggio fittizio Friedrich Pfister, 84 Era stato lo stesso Rosenberg a implorare quasi quella via, ricordando come fosse stato costretto dal preside della scuola, a rischio di non potersi diplomare a causa di alcuni discorsi antisemiti - così nella prima parte del romanzo (ben tre i capitoli intitolati Estonia 1910) - a imparare a memoria diversi passi dell’autobiografia di Goethe, lì dove l’autore raccontava come leggere Spinoza avesse calmato la sua profonda inquietudine, una sorta di sedativo alle sue passioni, fondamentale l’approccio matematico per riconquistare il proprio equilibrio, più sereno nelle personali conclusioni, maggiormente libero dall’influenza altrui: “Be’, è questo che voglio da te. - esplicita la richiesta al medico - Voglio quello che Goethe ha avuto da Spinoza...Voglio un sedativo dalle mie passioni”. Perché Rosenberg si sentiva oppresso dalla sensazione di non essere stimato da Hitler, dal cui giudizio si sentiva così dolorosamente dipendente. Il problema Spinoza del titolo acquista dunque una diversa prospettiva: non solo per il dilemma centrale, come fosse possibile che il genio tedesco per eccellenza ammirasse tanto un ebreo, ma anche in quale modo riprenderne gli aspetti curativi, per Rosenberg - che si riconosce schiavo del desiderio dell’approvazione di Hitler - nello stesso modo che per Goethe. Così debole da chiedere aiuto alle idee di un ebreo, per quanto scomunicato, cacciato dalla sua stessa comunità? Friedrich Pfister delinea il pensiero di Spinoza: “Razionalista supremo. Vede un flusso infinito di causalità nel mondo... Nulla avviene per caso...E’ stata questa idea di universo ordinato da leggi prevedibili....che ha offerto a Goethe un senso di calma”. Ma non ci sono esercizi di percorso, nessuna tecnica. Importante è riuscire a liberarsi dalle idee inadeguate. Poteva esserci la speranza di alleviare la dipendenza di Rosenberg da Hitler? Scatta il meccanismo difensivo: antitedesca la negazione della forza di volontà, e “la passione è il cuore e l’anima del Volk”. Il dialogo si fa quindi più teso, vano l’appello alla ragione da parte di Friedrich, straripante il fanatismo razzista: “La Germania diventa più forte e più pura ogni volta che un ebreo o un amante degli ebrei lascia il paese”. E come conoscesse Hitler la via della “guarigione tedesca” per Rosenberg, eccolo arrivare con la proposta di un Premio nazionale per le arti e le scienze, da assegnare proprio a lui alla prima edizione! Completamente ristabilito! Ritrovate le forze! no, non era stato quel medico, da cui Rosenberg prende quindi, con irritato disprezzo, le distanze: “ci ho pro- “Il problema Spinoza” è suddiviso in trentatré capitoli dove si alternano rigorosamente alcune tappe della vita di Spinoza e di Rosenberg, iniziando con Amsterdam, aprile 1656, e Reval, Estonia, 3 maggio 1910, e terminando con Berlino e Paesi Bassi, 1939/45, e Voorburg, dicembre 1666. Un romanzo storico dunque? Certamente anche, con passaggi d’invenzione e coinvolgenti dibattiti filosofici, politici, religiosi. Rimanendo, a posteriori, forse l’impressione di una costruzione narrativa un po‘ “alla Eco”, dove si possono riconoscere gli studi, le ricerche - e l’invenzione dei legami, degli intrecci oltre il tempo, la struttura d’insieme. Un romanzo “intellettuale” che si legge in forma avvincente anche per questo aspetto, tanti i vivaci pungoli al pensiero. Nel prologo l’autore ricorda la sua visita al museo Spinoza di Rijnsburg - e l’intuizione che avrebbe dato il via all’opera, alla scrittura del romanzo. Nell’epilogo vengono ricordate la morte di Spinoza - e il dibattito, all’interno dello stato d’Israele, sulla sua scomunica - e la morte di Rosenberg, “che non ripudiò mai Hitler e la sua ideologia razzista”. Solo poche pagine infine per “Realtà o finzione? Per mettere le cose in chiaro”, sottolineando che quanto narrato “sarebbe potuto accadere”, ricorrendo, spiega ancora l’autore, alla sua formazione di psichiatra per immaginare i mondi interiori dei protagonisti. A fianco di Rosenberg e Spinoza, figure consegnate alla Storia, due personaggi immaginari fungono in qualche modo da porte d’accesso alla loro psiche, Friedrich Pfister e Franco Benitez: se per il primo si può immaginare una tragica fine, così abbandonato, denunciato, proprio da colui che aveva chiesto in precedenza il suo aiuto, il secondo andrà conquistando una sua complessa, ricca autonomia. Discepolo di Spinoza, suo fedele seguace, assai vasta l’ammirazione e l’amicizia, Franco Benitez, deciso anche lui, come il maestro, a seguire la ragione nelle forme più limpide, senza pregiudizi, ma vivendo nella realtà, confrontandosi con la vita di tanti all’interno della comunità, riuscirà in qualche modo a vedere anche più lontano. Perché Spinoza, a causa della scomunica che vietava a ogni ebreo di avvicinarlo, compresi gli stessi membri della famiglia - e per scelta, per il desiderio di liberare la mente da impurità, emozioni che rischiavano di portare disordine alla sobria, corretta integrità del pensiero, per lui imprescindibile, era andato isolandosi nel suo laboratorio di lenti, cercando di scrivere i suoi libri in forme sempre più essenziali, di un rigore astratto vicino alla matematica. E torna l’avverbio “necessariamente”: Franco lo usa anche con ironia - ridono volentieri tra loro i due amici dall’intelligenza brillante, uniti da grande stima, un legame profondo rafforzato nel tempo malgrado l’impossibilità di vedersi, di incontrarsi liberamente - evidenziando così Franco, divenuto rabbino, come abbia assorbito profondamente il pensiero dell’amico filosofo, Bento/ Baruch Spinoza, ogni accadimento frutto inevitabilmente, logicamente, della catena di circostanze che l’hanno preceduto. Ma Franco - che può infine andare a trovare Bento perché anche lui ormai prossimo alla scomunica, un dialogo fitto di questioni teoriche ma anche carico di molto affetto - porta, con una diversa visione del percorso da compiere per avvicinarsi all’universalismo radicale spinoziano, utopia verso cui comunque tendere, anche preziosi dubbi, proprio perché la vita reale può sì contaminare, compromettere, rallentare, la ricerca autentica del pensiero, ma può insieme svelare verità che la sola intelligenza, comunque immersa nella storia, nel proprio tempo, da sola non riesce ad afferrare. E Franco - che sottolinea l’urgenza di dare avvio a decisive riforme ma dall’interno della comunità, lui in partenza presto con un gruppo di correligionari per il Nuovo Mondo - avrebbe voluto discutere con Spinoza, in quell’ultimo incontro, certo un addio, anche del ruolo della donna. Franco porta le ragioni della moglie Sarah che pensa che le donne possano perfino diventare rabbine! Bento si dimostra incredulo, non riesce a condividere una tale ipotesi, e, al momento dei saluti, alle insistenze dell’amico, Spinoza si dichiara restio ad affrontare il tema. Ma: in futuro? “Forse, non ne sono certo”. Numerose le problematiche storiche, politiche, religiose, mostrate sotto diverse angolazioni lungo tutto il romanzo, consegnate per spunti, frammenti, motivi guida, con il respiro del loro tempo ma insieme teoriche, ricorrenti in forme diverse nei secoli, in particolare legate al mondo ebraico, per i marrani - qui più portoghesi che spagnoli, costretti a convertirsi al cristianesimo, ma sempre controllati con diffidenza, l’Olanda terra accogliente, molte le famiglie che arrivavano lì in fuga - il rischio dell’ere- sia ovunque (“caute!”, ripete il maestro/ amico di Spinoza, Van den Enden, il seicento secolo di fondamentali scoperte scientifiche e insieme furiosamente dogmatico), le tante lingue messe in gioco, il valore della comunità, la rappresentazione di Dio e il suo potere nelle vicende degli umani, le interpretazioni delle sacre scritture, gli ebrei come popolo eletto, la Bibbia libro scritto da uomini, il confronto con il pensiero degli antichi, Epicuro in particolare, superstizione e religione/ comunità, il destino oltre la morte, l’attesa del messia, i motivi di sopravvivenza del popolo ebraico malgrado le continue persecuzioni, il valore dei rituali, e così via, mentre rimbalza tra terre diverse e secoli lontani, e al di là dell’aspetto religioso, l’antica questione sull’essenza di chi deve essere considerato ebreo, come ci fosse un quid misterioso che lo possa definire tale per sempre. Rubriche - Margini & Frontiere vato, ma non credo di poter sradicare l’ebreo che è in lui. Dovremmo tenerlo d’occhio. Potrebbe aver bisogno di una qualche forma di riabilitazione”. E ancora altre le dispute, le controversie, le contese che attraversano “Il problema Spinoza”, che resta comunque - e forse anche per questa densità tematica, la colta documentazione sciolta, amalgamata, offerta con preziosa leggerezza, di un dinamismo vivace, capace di accendere scintille di curiosità - un vero romanzo, fatto di Storia e di storie (che Franco era convinto Bento amasse pur non confessandolo), all’interno di una struttura complessa di ritorni e rispecchiamenti, che va ben oltre l’alternanza dei capitoli tra Rosenberg e Spinoza. * Critico teatrale e letterario Abstract CHARACTER DEFINES OUR DESTINY he chapters of the book “The Spinoza Problem” alternate, telling the life of the great Dutch philosopher (1632/1677) and the life of Alfred Rosenberg (1893/1946), the Nazi sentenced to death at the Nuremberg trials. Real people then. But the author, the psychiatrist IrvinYalom, also creates fictional characters who, in dialogue with the two protagonists, point out different aspects of their nature. According to Spinoza, God and Nature coincide. Everything happens always necessarily. The philosopher struggles to make his thoughts purer and purer to increase his knowledge. Rosenberg tries to understand how Goethe, the German genius par excellence, could admire Spinoza so much: a jew! This is the issue of the title. T teatridellediversità 85 Rubriche - Piccolo Pantheon LECCE GINO SANTORO E IL SUO GRANDE LABORATORIO DI IDEE di Antonio Viganò* G ino, la prima volta che l’ho visto, avrebbe voluto chiamare i carabinieri. Eravamo a Lotz, in Polonia. Anni90. Io ero li al festival con gli Oiseau Mouche per fare Personnages e lui, quel piccolo uomo del sud, fremeva di rabbia dopo aver visto uno spettacolo dove i disabili erano stati messi in ridicolo, banalizzati, messi in scena senza la protezione adeguata e mi disse che se fossimo stati in Italia avrebbe fatto una denuncia ai carabinieri. Ecco, li avevo già capito chi fosse Gino Santoro. Determinato e senza mezze misure. Dopo qualche tempo mi chiamò al telefono. Ho la possibilità - mi disse – di fondare, qui a Lecce, una facoltà per lo spettacolo e mi piacerebbe che tu, Antonio, fossi uno dei docenti. Accettando quell’offerta, felice e onorato, mi venne subito in mente la mia mamma. Suo figlio sarebbe diventato un docente universitario. Ridevo al pensiero della sua faccia stupita. Teatro sociale della comunità, si chiamava il mio corso. Gino 86 aveva le idee chiare, e quando sono sceso in Puglia, mi sono trovato in una vecchia scuola disabitata ad Arnesano, ma “abitata” di progetti, di idee, di gente che, come lui, che aveva fatto nascere li al sud il movimento del terzo teatro, condivideva una storia teatrale. Gino era parte integrante di quella storia che, con Cruciani, Savarese e Meldolesi, aveva fatto nascere un nuovo concetto di teatro, una nuova drammaturgia, un nuovo spazio scenico dove “sperimentare” e cercare sempre strade nuove e anche pubblici nuovi. Lo STAMS di Lecce era più di una Facoltà ; era un luogo di incontro tra Docenti diversi che, sposando la scommessa di Gino, si confrontavano, si scontravano, anche animatamente, sul senso del proprio lavoro, sul futuro di quell’arte del palcoscenico. Solo così, in questa cornice è stato possibile fare a Galatina un festival, promosso proprio dallo STAMS di Lecce, che vedeva come protagonisti più di cento studenti, con i docenti che per quell’ occasione si sono inventati attori, registi, comparse televisive. Ed il paradosso è stato che quell’esperienza è “morta” per il gran numero di studenti che si erano iscritti alla Facoltà: centinaia di ragazzi e ragazze che hanno fatto gola a Facoltà più protette e potenti. Ma questo è un altro capitolo! Una ferita che ha lasciato un segno a Gino come a tanti docenti che, su quel luogo, avevano fatto una scommessa o solo trovato una casa alla propria voglia di sperimentare Teatro. Questa ferita ci aveva allontanati; ci sentivamo colpevoli di non essere riusciti a difendere, proteggere e dare un futuro a quella Facoltà. Sempre grazie a Gino che, a Lecce, nasceva ITACA. Il primo luogo fisico, nato dalla nostra collaborazione, fatto di laboratori in cui pensiero ed azione si fondevano per dare vita ad esperienze di teatro sociale e della comunità. Ricordo il bellissimo spettacolo Jeux d’ enfants che coinvolse tanti attori “diversi”, dal bidello ai genitori. La prima esperienza di un luogo per fare e pensare al teatro nei luoghi del disagio che ha lasciato un segno profondo nelle anime di chi ha avuto la fortuna di parteciparvi. Scoprivo, qui, il legame di Gino con il suo territorio che voleva arricchire con la sua esperienza e le sue idee. Non era mai mediocre: non stava mai nel mezzo, comodamente. Non si fermava mai, abilissimo nei pensieri ti faceva volare alto, ed io facevo un po’ fatica a seguirlo, talvolta, in quel suo continuo lavoro intellettuale che continuava sempre e sempre, dalla macchina mentre si andava a San Foca, in facoltà come raccogliendo la cicoria o andando a scegliere il pesce. La sua forza lo precedeva, la sua curiosità lo rendeva inquieto e pronto al nuovo, il suo cuore e la sua ospitalità mi facevano sentire a casa. Ecco, sì, quando andavo a Lecce, in quel periodo , mi sentivo parte di quel grande laboratorio di idee che fluiva forte e * Regista, già docente di Teatro sociale della comunità all’Università di Lecce Abstract GINO SANTORO AND HIS IDEAS’ GREAT LABORATORY ino Santoro died the last June. He was a theatre teacher at Salento University and he played an important role, as Cruciani, Savarese and Meldolesi, to create in Italy a new conception of theatre. He was never mediocre, he never stayed in-between, easily. The director Antonio Viganò remembers him in our Magazine, which he collaborated with on many occasions. Viganò was invited by the same Santoro to teach Social and Community Theatre at the STAMMS in Lecce. G IN CORSO D’OPERA 4 L’ESPERIENZA DI LUIGI A. SANTORO TRA PROPOSTE E PROVOCAZIONI Tre giornate dedicate alla figura e all’opera di Luigi A. Santoro, ad un anno dalla sua scomparsa, tra teatro, università e attività sul territorio. Prima giornata: Università del Salento, presentazione del laboratorio “Integrazione senza barriere” svolto secondo il modello del teatro sociale sviluppato da Luigi A. Santoro. Seconda giornata: Università del Salento, Convegno di studi sul lavoro svolto dal prof. Santoro per l’Università del Salento. Terza giornata: Istituto Teatrale di Varsavia, Conferenza sul tarantismo e altri rituali trance dedicata al prof. Luigi A. Santoro Il progetto “In corso d’opera 4” è organizzato dal Centro per l’Integrazione dell’Università del Salento, dal Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo dell’Università del Salento in collaborazione con l’Istituto Teatrale di Varsavia, l’Accademia di Belle Arti di Bari e l’Associazione Culturale Oistros di Lecce. Programma delle tre giornate 9 giugno 2016 Il teatro come strumento per l’inclusione sociale Chiostro Monastero Olivetani ore 18.30 Saluti: Eliana Francot - Delegata per gli studenti disabili e con DSA Università del Salento; Famiglia Santoro - intervento di Beatrice Chiantera; Maurizio Antico - Presidente dell’Istituto per Ciechi Anna Antonacci di Lecce Presentazione del progetto di servizio civile “Integrazione senza barriere”, a cura di Paola Martino (Operatrice Locale di Progetto e funzionaria Centro per l’Integrazione). Presentazione del Laboratorio “Supereroi”, a cura di Erika Grillo e Annarita Manigrasso ore 19.00 Atto finale del Laboratorio di teatro sociale integrato “Supereroi”, realizzato con studenti universitari nell’ambito del Progetto di Servizio Civile “Integrazione senza barriere”, a cura di Erika Grillo e Annarita Manigrasso. (vedi scheda allegata) 10 giugno 2016 Convegno di studi Teatro e integrazione in Luigi A. Santoro: un approccio innovativo Aula De Maria - Università del Salento Rubriche - Piccolo Pantheon denso come il suo mare. L’ultima immagine che ho di lui è dell’anno scorso, tra il pubblico di un mio spettacolo a Lecce, “Nessuno sa di noi”, già debole e malato, ma ancora con la forza di invitarci a cena nella sua casa, lucido e ospitale come sempre. Saluto, qui, Gino Santoro, quel piccolo grande uomo del sud, compagno di viaggio, che farà per sempre parte della mia storia teatrale e umana. Ore 9.30 Saluti di benvenuto Vincenzo Zara – Rettore Università del Salento Fabio Pollice – Direttore del Dipartimento di Storia , Società e Studi sull’Uomo Famiglia Santoro – intervento di Francesca Santoro Ore 10.00 - 11.00 Luigi A. Santoro uomo di cultura e storico del teatro Franco Ungaro - direttore artistico Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce e del Teatro San Domenico di Crema (CR) Massimo Melillo – giornalista, vicepresidente Assostampa Puglia Ore 11.00 - 11.15 Big Data: Dall’aldiquà all’aldilà Antonio Rollo – docente di Computer Arts, Accademia di Belle Arti Bari Ore 11.15 -12.15 Luigi A. Santoro le politiche e la sua idea di disabilità Domenico Laforgia - ex Rettore dell’Università del Salento Silvia Cazzato e Paola Martino - Centro per l’Integrazione Tony Donno - laureato Università del Salento e vicepresidente Istituto per Ciechi Anna Antonacci La voce delle operatrici del Centro per l’Integrazione Ore 12.15 – 13.00 Dibattito e interventi: aspettative, prospettive e futuro... 11 giugno 2016 Istituto Teatrale di Zbigniew Raszewskiego a Varsavia Ore 14:00-18:00 CONFERENZA DEL CERCHIO RITUALE La conferenza è dedicata al prof. Luigi A. Santoro (1944-2015) dall’Università del Salento a Lecce, storico del teatro e grande studioso del tarantismo Direzione: prof. Dariusz Kosiński Traduzione dall’italiano: Monika Kocańda Partecipano: prof. Dariusz Kosiński (UJ), Alessandro Santoro (Associazione Oistros Lecce I), dr Katarzyna Woźniak (UP), Marcin Kozłowski (UAM), dr Dorota Sosnowska (IKP UW), prof. Dariusz Czaja (UJ), Katarzyna WiniarskaŚcisłowicz (UJ), Maristella Martella (Salento). Info: [email protected] Coordina e presiede i lavori Vitantonio Gioia – Storia del pensiero economico teatridellediversità 87 Rubriche - Piccolo Pantheon CASTELLANA GROTTE UN ARTISTA “SAGGIAMENTE RIBELLE” Ad agosto scorso, a causa di un male incurabile ci ha lasciato prematuramente Nicola Dentamaro, artista al quale “Catarsi-Teatri delle diversità” ha dedicato un’attenzione particolare in riferimento ad un lavoro drammaturgico sul “rito primario” e sulla cultura orientale attraverso le lenti di Antonin Artaud e di Jerzy Grotowski, suoi autori prediletti. Pubblichiamo un saluto particolare che ha voluto rivolgergli Francesca Zanini, sua compagna d’arte e di vita in forma di racconto della festosa cerimonia funebre in occasione della dispersione delle sue ceneri nell’amata campagna pugliese. Nicola e Francesca negli ultimi anni hanno collaborato approfonditamente con la Rivista seguendo per noi l’evoluzione del pensiero dell’economista e filosofo francese Serge Latouche sulla “decrescita felice” e la sua influenza in campo artistico (ricordo in particolare la video intervista a Serge da loro realizzata in occasione della presentazione della Rete “Teatri di Resilienza” al Convegno internazionale di Urbania nel gennaio del 2011). Abbiamo voluto, inoltre, completare il nostro omaggio a Nicola, riportando nelle pagine successive un testo inedito, in forma di fabula breve per bambini, che ci ha fatto pervenire pochi mesi prima della sua scomparsa. Un’opera che risuona come un piccolo testamento rivolto ai ragazzi, ai quali ha dedicato –come regista- alcuni dei suoi spettacoli più sorprendenti. (Vito Minoia) N icola se n’è andato, dolce dolce, in punta di piedi, ma “in piedi!” come ci teneva a dire che avrebbe voluto morire; perché non aveva paura di morire ma voleva “morire in piedi”. La sua voglia di vivere con energia inesauribile da artista “saggiamente ribelle” l’ha sorretto fino alla fine. Pochi giorni prima del 17 agosto 2015, sera della scomparsa, si era immerso per l’ultima volta nel mare, incantando sguardi curiosi e solidali ed aveva cucinato un ottimo pranzo a base di molluschi e pesce per gli ospiti della Masseria Monte Cipolla, dove viveva da quando era tornato a sud dopo 20 anni trascorsi a Verona. Ritorno agognato, desiderato, descritto nelle poesie della raccolta “Sospiri nel vento” chiamata “Primitiva”. Non rimpianti né rancori, dei quali “non era capace” e nemmeno “facce da funerali” chiedeva, ma feste durante e dopo aver lasciato il corpo…e così è stato. Mantra gioiosamente cantati, accompagnati dall’armoniun di Daniela Santostasi e Danze Sacre in Cerchio guidate da Fulvia Campanella , sostenute per l’occasione dalla chitarra di Gabriele Natilla il 18 agosto alla presenza del suo corpo nel magico ex frantoio. Omaggi di artisti venuti da “ lontano nel tempo e nello spazio” prima del semplice rito, sempre da lui indicato, di disperdere le sue ceneri sotto l’ulivo prescelto denominato Fluens il 13 settembre, luna nuova. In contemporanea, la cantante Grazia De Marchi in Sardegna e l’attrice Giovanna Scardoni in Piemonte compivano piccoli rituali e inviavano “pensieri di luce”. Il momento organizzato dalla musicista jazz Cristina Mazza sulla riva del fiume Adige, in provincia di Verona, invece (causa il maltempo) fu rimandato e si è poi provvidenzial- 88 mente svolto il giorno 20 “equinozio d’autunno”. In quella occasione, presenti quindi sia gli artisti Antonio Costa, Elisa Zacco, Gloriana Ferlini, Graziella Menichelli sia Nicoletta Zabini , Moreno Danzi e Marco Paci che avendo partecipato alla dispersione delle ceneri in Puglia, hanno poi potuto riportare un piccolo sacco di juta e piante officinali, psicosimbolo di rinascita, col quale è stata creata un’altra significativa azione rituale nel fiume. Da lontano, questa volta nel tempo anziché nello spazio, sono giunti invece il 13 settembre alla Masseria a Castellana Grotte (Bari) come nel Pellegrinaggio in Oriente, mitico trampolino per molti spettacoli itineranti degli anni ‘80: Daniela Pizzi, Gianluca Iodice, Alba Filomeno, Tommaso De Benedictis, Lucia Raho, che collaborarono al primo Teatro Origine fondato a Bari nel 1985. Altri artisti partecipanti all’azione: Tito Dipippo, Ida Mastromarino. La giornata ha avuto inizio con la preparazione collettiva del pranzo, momento di condivisione tradizionalmente importante nella terra di Puglia in un clima piacevole e solare. La semplice azione itinerante per la dispersione delle ceneri ha preso avvio subito dopo nell’ex frantoio, manufatto storico ben conservato, dove sono stati letti da Nicoletta Zabini alcuni testi poetici intrecciati alle canzoni “Tsunami” e “Poesia dai petali dorati” delle quali è autore sempre Nicola Dentamaro con musiche composte dall’attrice russo/cubana Renata Mezenov Sa che le ha interpretate. Omaggi spontanei sono arrivati dal poeta di strada “siculo/ veronese” Luigi Pedilarco, da amiche ed amici che lo hanno ricordato; in particolare è spiccato il tono del ringraziamento di Porzia Petrone, sorella-Antigone del giovane Benedetto (assassinato a Bari nel 1977 da un gruppo di giovani fasci- Nicola ha scelto di curarsi con sostanze naturali, coerente con tutta la sua vita, cosciente dei limiti e pericoli di trattamenti invasivi e delle difficoltà terapeutiche insite nella sua patologia rara, ma senza furore ideologico, ancora una volta perché non aveva paura di morire e voleva vivere al meglio fino alla fine . Si definiva “ricercatore spirituale”, non amava nessuna religione, ma era aperto verso la verticalità e se qualcuno gli diceva “ rivolgiti a Dio” rispondeva: “e alla Dea?”. Al femminile infatti dedicò molta parte della sua attività teatrale fino agli ultimi importanti lavori: Aqua Mater e Cantico Ancestrale sulla discesa nel mondo sotterraneo della dea Inanna al tempo dei Sumeri e sua risalita! Si, quasi ogni suo lavoro teatrale finiva bene, come indicato per il dramma indiano negli antichi Veda e così si può dire in un certo senso della sua vita. Ha superato con dignità e ammirazione da parte di chi l’ha frequentato, la prova forse più difficile: la scoperta della malattia nel luglio del 2014. E in quel frangente ha deciso di descriverne gli esordi con semplicità e sincerità in “Succede. Diario breve di un malato de-terminale”. Citava così il suo libro sul comodino da sempre “ La morte e il sentiero”di Ghesce Nauan Darghye: “per vivere con pienezza non dimentichiamoci ogni giorno di meditare sulla morte.” E senza rimpianti negli ultimi tempi ripeteva “confesso che ho vissuto!” e cantava “Gracias a la vida”. Francesca Zanini Rubriche - Piccolo Pantheon sti), alla quale Nicola ha dedicato una poesia da lei definita rispecchiante perfettamente sia la sua essenza che il suo stato d’animo e i suoi sentimenti per la morte del fratello. Seconda tappa del percorso si è svolta ai piedi dell’antica quercia locale o fragno ed è stata la lettura della fabula per bambini “Il saggio malato”. Al termine della fabula sono apparsi una quarantina di strumenti percussivi offerti da Augusta Dall’Arche e a quel punto, come nell’amato episodio del film Dreams di Kuroshawa, si è improvvisamente formato un corteo festoso e musicante condotto dalla chitarra di Gianluca Iodice, vestito di bianco. Il musicista e attore del Teatro Origine di Bari, seguito da tutti i partecipanti, suonando un ritmo intenso e catartico, ha attraversato orti e campi di ulivi secolari per raggiungere una radura circolare dove Marco Paci ha svolto la sua azione con bandiera solare al suono delle parole “la vita è un viaggio senza tempo siamo pellegrini di un presente nel quale il prima e il dopo si fondono senza soluzione di continuità” lanciate in canone da una parte all’altra del cerchio dalle attuanti sempre vestite di bianco. Il rito primario, il teatro integrale che Nicola Dentamaro aveva teorizzato e praticato lungo il fiume Adige, nelle cascate di Molina o nelle piazze d’Italia ancora una volta accompagna e serve alla vita, oltre la vita, negli istanti che precedono il vero distacco. Ripartito il corteo questa volta condotto da me (Francesca Zanini, sua compagna) con le ceneri avvolte nel sacco di juta tra le braccia o portate come un’anfora sopra la mia testa , si è arrivati all’ulivo centenario denominato Fluens . Allora si è formata una spirale fiorita , una bianca scia serpentina è stata versata e la sciarpa di un celeste brillante proveniente dalla Mongolia è stata tre volte annodata ad un ramo. Il silenzio commosso e partecipe (alla presenza del padre Mauro ultranovantenne, di Mimmo il più piccolo dei tre fratelli, delle due sorelle Rita ed Anna, degli amori di un tempo e delle numerose amiche ed amici) è stato rotto dal forte suono del gong mongolo di Marilena Gulletta. Le belle voci di Renata Mezenov Sa e Nicoletta Zabini si sono infine levate intonando la canzone “Gracias a la Vida “ di Violeta Parra. Il semplice saluto è stato un piccolo dono per lui e il suo teatro. Perché il suo teatro è nato negli spazi aperti, come all’origine, o nelle piazze, nei paesi e nei luoghi naturali dove fosse possibile connettersi col genius loci e dove le itineranze sono sempre state con musica dal vivo, azioni e poche parole di saggezza. Si, la sua ricerca gli ha fatto sperimentare ed approcciare linguaggi diversi: la poesia, la scrittura drammaturgica, la regia, l’arte dell’attore, la composizione plastica, la pittura…l’arte è una! Alla pittura sua prima forma di espressione d’artista incontrata fin da bambino con talento periodicamente tornava, fino all’ultimo sognava di creare un grande quadro all’interno dell’ex frantoio che sarebbe diventato studio d’artista I suoi progetti non erano mai condizionati dal produrre denaro. Per questo Nicola, Performer integro e carismatico, generoso, utopico, vitale e scomodo, descritto dall’attrice Elisa Zacco “autentico nell’entusiasmo e negli scontri. Di occhi, sorriso e ingegno affilati” si era appassionato alla filosofia della decrescita trasmessa da Serge Latouche . Lo aveva invitato sia a Verona che a Bari nei contesti più diversi comprendendo l’urgenza di cogliere quello stimolo per salvare la vita dell’umanità sulla terra e le culture non ancora omologate al pensiero unico. Danzatrice sacra, disegno di Nicola Dentamaro Abstract A WISELY REBEL ARTIST icola Dentamaro died on August 17 2015. He was a man of theater who loved acting theatrically in open spaces, such as at the origin, or in streets, in villages and in the natural places where it was possible to connect with the genius loci and create a mix with live music , actions and a few words of wisdom. A multilingual approach, made of poetry, dramatic writing, directing, art of the actor, plastic composition, painting. N teatridellediversità 89 90 Rubriche - Piccolo Pantheon In un villaggio dell’antico Eden viveva un grande saggio, erede di una misteriosa tradizione, amato e stimato da tutta la popolazione. Un brutto giorno, e per la prima volta, si ammalò. La cosa stupì tutti che non riuscivano a farsene una ragione. «Il saggio è malato? Non è possibile!?» diceva uno, e un altra di rimando: «Ma come, proprio lui che ci ha sempre dato i più giusti consigli e ci ha curato con le erbe e la magia… Non posso crederci!». «E invece è proprio così: sono giorni che non esce di casa e la sua donna non fa avvicinare nessuno alla porta d’ingresso che prima era sempre aperta affinché chiunque volesse poteva entrare.» E infatti l’anziana compagna del saggio, da quando questi si era ammalato, stava per ore e ore seduta davanti all’uscio di casa ed a chiunque si avvicinava rivolgeva uno sguardo triste e scuoteva la testa come per dire: “Non c’è niente da fare! Nessuno può entrare a fargli visita”. Tutta la popolazione, come si può bene immaginare, cominciò ad essere presa da grande tristezza. Molti smisero di fare la vita di sempre e passavano le giornate nell’inattività più totale. Le bambine e i bambini non giocavano più per strada. La vita del villaggio rallentò e quasi si sospese. Solo nelle case c’era ancora un poco di animazione, poiché tutti continuavano a farsi mille domande. E in particolare… «Deve essere accaduto qualcosa che noi non riusciamo a capire…» disse ad un certo momento il raccoglitore di radici. «Sì ma cosa?» gli fece eco sua moglie. «Qualcosa che… riguarda un atto che non è stato compiuto. Perché noi sappiamo bene quanto per lui siano importanti quelle azioni rituali che, come dice sempre: “Vanno fatte per mantenere in equilibrio il nostro centro vitale con le forze sottili dell’infinito cielo”. Deve essere successo qualcosa che lo ha turbato profondamente proprio su questo piano.» «E’ proprio così! – confermò il suo vecchio genitore - Anche secondo me e secondo molti anziani del villaggio il saggio si è ammalato perché qualcuno non ha fatto un atto specifico che lui aveva richiesto… Non possiamo perdere altro tempo: presto, bisogna far suonare il grande tamburo e chiamare tutto il popolo a raccolta!» E così si fece. I colpi di tamburo echeggiarono nella valle. Da ogni dove arrivarono vecchi, giovani e bambini per partecipare col cuore palpitante a quell’incontro collettivo da tutti sentito come tanto importante. «Voglio comunicare a tutti voi – con queste parole aprì l’incontro il raccoglitore di radici – quello che mio padre ed io abbiamo pensato. E cioè che il saggio si è ammalato perché abbiamo mancato a qualche sua richiesta specifica. A noi risulta che siano state svolte tutte le azioni collettive da lui richieste, che ormai fanno parte della nostra stessa esistenza di villaggio vivente in armonia con la bellezza e la natura. Dunque, si tratta di una mancanza specifica, individuale. Vi chiediamo, quindi, di pensare se c’è stato qualche atto mancato, qualche errore o ritardo commesso da uno o più di voi. È importante! Rifletteteci subito col massimo di attenzione. E poi comunicatecelo con urgenza e precisione, per favore.» Il raccoglitore di radici tacque. Iniziò quindi un intenso vociare che coinvolse l’intero grande cerchio umano formato da tutti gli abitanti del villaggio. Ad un tratto, come una cascata che lentamente, a pause e sussulti si ferma provocando alla fine un assordante silenzio, la consultazione collettiva cessò. La giovane coppia di barattieri con in braccio la loro bambina evidentemente addormentata, si era portata al centro del grande cerchio e lì si era fermata, in attesa che l’attenzione di tutti fosse diretta verso di loro. Finalmente il barattiere parlò, con voce incerta: «Noi… noi abbiamo riflettuto… – si schiarì quindi la voce per emettere suoni più decisi – Abbiamo riflettuto e riteniamo di essere noi i probabili responsabili del malessere che ha colpito il nostro adorato saggio. Come sapete, la nostra attività di baratto con i villaggi vicini diventa ogni giorno più impegnativa…» «E’ vero! – proseguì la sua compagna - Ci sono giorni in cui a malapena riusciamo a dormire poche ore!» «Questo però ci giustifica solo in parte. – proseguì l’uomo – Infatti, quando nacque la nostra piccola Gae, il saggio la vide, le diede il nome e la segnò con la luce e l’acqua, raccomandandosi affinché allo scadere del terzo anno di vita fosse portata da lui per il rito del “petalo dorato”.» E la moglie, riprendendo il filo del ragionamento: «Sì, noi abbiamo mancato di rispetto sia al saggio che alla nostra piccola: anche lei si è ammalata dal giorno in cui ha finito il terzo anno, lo stesso giorno in cui il saggio si è chiuso in casa. Ha la febbre alta, non mangia e dorme sempre di giorno mentre la notte non fa che lamentarsi.» «Cosa possiamo e dobbiamo fare, adesso?» disse il barattiere, reclinando in basso il capo in segno di modestia e sottomissione al volere collettivo, imitato immediatamente dalla sua compagna. In molti, soprattutto le giovani coppie, si dichiararono immediatamente disponibili a svolgere insieme ai due barattieri l’attività di scambio con i vicini, per alleggerire i loro sforzi. Il vecchio padre del raccoglitore di radici, a quel punto disse con voce stentorea: «Ora non c’è che una cosa da fare: portare la piccola Gae dal saggio. Tocca a voi, anche se i vostri occhi saranno gonfi di pianto e il cuore contratto dall’angoscia e dal dolore. Noi resteremo tutti qui, in unitario e organico contatto col nostro centro vitale. Andate, sono sicuro che l’amato saggio non aspetta altro. Portatele la piccola Gae!» Tre potenti colpi di tamburo e un lungo sordo tamburellare accompagnarono la partenza della coppia e della bambina, mentre tutte e tutti, anche i più piccoli, si immobilizzarono in una postura simile tra loro, socchiudendo gli occhi e respirando il più lievemente possibile. Rubriche - Piccolo Pantheon IL SAGGIO MALATO fabula breve per bambini Giunti nei pressi della casa del saggio, i due barattieri notarono che la porta era spalancata e la variopinta tenda di fine canapa era sollevata, segno di evidente invito ad entrare. I due genitori di Gae si guardano negli occhi intensamente. I loro cuori battevano forte in petto. Respirarono profondamente e trattenendo le lacrime diedero un amorevole sguardo alla loro bimba malata e dormiente, prima di varcare la soglia della casa col segreto desiderio di incontrare subito lo sguardo benevolo del saggio. Non fu così. Una calda luce avvolgeva la grande e unica stanza di cui si componeva la casa. L’aria profumava di essenze bruciate. La donna che condivideva da un tempo indefinibile la sua vita con quella del saggio, col suo bel sorriso dispiegato si fece loro incontro. Con un’azione calcolata, ella si spostò leggermente di lato mostrando il grande letto sul quale giaceva immobile il Reggitore. I due ospiti notarono subito che indossava il bianco vestito delle cerimonie, quello ricamato con eccezionale maestria di fili d’oro e d’argento e che loro conoscevano bene. «Finalmente!» esordì sottovoce la donna custode. Dunque invitò con un gesto la giovane coppia ad accostarsi al letto dell’amato saggio. «Ora ponete la vostra piccola sul suo petto. Petto a petto, cuore a cuore. È l’unica possibilità che abbiamo teatridellediversità 91 Rubriche - Piccolo Pantheon per risvegliarli entrambi da questo strano torpore che li ha catturati e fatti ammalare…» Così fecero. Furono poi invitati dalla signora della casa a sedere su un grande e soffice tappeto e a bere a turno da una tazza di ceramica decorata con motivi magici una fumante bevanda, dolce e ricca di sapori a loro sconosciuti. Dopo alcuni minuti, i due genitori di Gae cominciarono a provare sensazioni mai provate. La loro mente produsse come uno squarcio di luce: ebbero la sensazione di comprendere la Realtà in tutti i suoi aspetti. Il loro viso si illuminò di un sorriso colmo di meraviglia che fu in seguito e improvvisamente solcato da grandi lacrime che bagnarono copiosamente persino i loro vestiti. Alla fine si addormentarono come cuccioli, stanchi per l’intensa emozione vissuta. Dormirono tanto o poco, non si sa. Di fatto vennero risvegliati dalle sonore risa della piccola Gae che sgambettava e saltellava lesta tra i loro corpi distesi. Li abbracciò ambedue e li baciò con grande tenerezza, così come solo una bimbetta sa fare con i propri genitori. Quindi divenendo seria e, sicuramente seguendo un compito impartitole in precedenza, andò a sedersi su un grazioso sgabello posto dinanzi alle due basse poltrone dai braccioli in legno intarsiato sulle quali erano accomodati il saggio e la sua compagna che con un largo sorriso li accolsero. Come destandosi da un intenso sognare, i due gabellieri si posero per rispetto in piedi, subito seguiti dal saggio. «Potete stare seduti lì, sul morbido tappeto. Ora assisterete all’azione promessa tre anni fa.» Quindi si riaccomodò sulla sua poltrona, mentre la sua compagna cominciò a sistemare sul capo della docile Gae un cordino a cui era appeso un sottile monile d’oro, con la forma di un minuscolo petalo di rosa che venne fatto ricadere giusto al centro della fronte della bambina. «Gae, bambina perfetta, – disse dolcemente il saggio – girati verso di me.» Poi, spalancando gli occhi, recitò con voce ispirata una sorta di filastrocca magica che ripeté tre volte affinché l’inizianda fosse in grado di ripeterla a sua volta. Sempre rivolto alla bambina, le comunicò: «Non dimenticare mai questa formula magica. Essa sarà la tua fedele compagna per tutta la vita che io prevedo lunga e avvincente. Ora ripetila con me…» Detto questo e ripetendo la filastrocca, il potente vecchio pose l’indice della sua mano destra sul petalo dorato, premendo leggermente. «Adesso rivolgiti nuovamente verso i tuoi genitori… » La piccola Gae eseguì. Un fumo verde-azzurrino si sollevava dal punto della fronte in cui era stato posto il petalo d’oro. Lentamente ma progressivamente, l’iride e la pupilla della bambina si irrorarono dello stesso colore. A quel punto, Gae emise un suono fatto di mille variazioni vocali, talmente acuto da risvegliare tutti gli uccelli della foresta circostante alla valle che le risposero col loro canto più bello e prolungato. Con semplicità e misurata solennità, il saggio sollevò il monile dalla testa della bambina e lo pose nelle mani della sua compagna. Gae pian piano tornò al suo aspetto di sempre, anche se… Il centro della sua fronte era evidentemente segnato da un piccolo tatuaggio a forma di rosso petalo di rosa, dai contorni dorati e lucenti!? Allora il saggio, con molta dolcezza, parlò ai genitori della 92 bambina: «Quel che doveva essere fatto si è compiuto! Avevo visto giusto tre anni fa. Gae è un essere speciale, raro. Di quelli che appaiono nella nostra dimensione per svolgere una importante e benefica funzione. Noi la seguiremo nella sua crescita fisica e mentale. Quando sarà necessario, la istruiremo alle arti mediche ed alla magia, cioè alla conoscenza delle leggi del reale profondo. Così sarà. È questo il mio desiderio. È questo il mio volere. Non dimenticatelo, per favore.» Il saggio a quel punto invitò la bambina ad andare incontro ai propri genitori che la abbracciarono e la strinsero forte, fortissimo tra di loro. «Si è fatto buio – disse ad un certo punto il Maestro – e fuori c’è un popolo che vuole sapere, vuole vederci per capire. Usciremo per primi Gae ed io. Poi voi due, abili gabellieri, accompagnati dall’amabile custode di questa casa.» Così fecero. Furono subito accolti da una luce accecante emanata dalle tante torce accese, tenute in mano da una moltitudine di persone assiepate poco distanti dalla casa. Nonché da fragorose grida di gioia che progressivamente divennero un canto articolato e sempre più melodioso, accompagnato da una danza ritmica collettiva, anch’essa di ineguagliabile armonia e bellezza. All’improvviso, imprevedibilmente il canto e la danza si arrestarono. E il saggio poté così parlare al suo popolo, divenuto silenzioso e attento. «Oggi sono un vecchio tornato felice perché Gae, “signora della foresta”, è venuta tra noi! Accoglietela ad amatela come fosse vostra madre, figlia e sorella. Ella ricambierà con molti doni le vostre attenzioni. Negli anni che verranno e alla sua maturità di persona, mi sostituirà in alcune funzioni. Sarà anche vostra maestra, se e quando servirà. Adesso accompagnatela a casa poiché è stanca, come i suoi due sia pure forti e generosi genitori. Anch’io insieme alla mia compagna rientrerò subito nella mia dimora. Non sono più malato ma ho bisogno di recuperare le forze dopo tanti giorni passati in un forzato non-fare e nel digiuno. Dopo, potrò tornare a sognare le vostre vite. E finalmente riprenderò la mia ricerca sull’origine del nostro viaggio su questo meraviglioso e per noi ancora poco conosciuto pianeta. Andate dunque e siate sereni.» Il grande e illuminante corteo partì, seguendo Gae circondata da tutte le bambine e tutti i bambini del villaggio che le facevano festa, la rincorrevano e la accarezzavano con indicibile bellezza. Nicola Dentamaro (ottobre 2014) LA DIVERSITÀ DI IWONA, PRINCIPESSA DI BORGOGNA Una messa in scena russa del testo di Witold Gombrowicz presso il Dramatičeskij Licejskij Teatr di Omsk Recensioni Spettacoli IN SIBERIA OCCIDENTALE di Claudio Facchinelli* Marija Tokareva in Iwona Principessa di Borgogna A Omsk (a un migliaio di chilometri a Est degli Urali), ho assistito a una messinscena di Iwona, principessa di Borgogna. Del testo, pochissimo frequentato in Italia, si ricorda, una quindicina di anni fa, al Teatro Studio di Milano, una strepitosa edizione ungherese diretta da Gabor Zsambeki. Scritto nel ’35, ha visto la luce in Polonia solo nell’86. In Italia lo ha pubblicato Lerici, negli anni Sessanta. Non è agevole recensire uno spettacolo recitato in una lingua che si conosce poco, ma ciò offre l’occasione di verificare, una volta di più, la rilevanza del non verbale nella comunicazione teatrale; e ciò risulta tanto più evidente in un testo dove l’eteatridellediversità 93 Recensioni - Spettacoli 94 roina eponima, nel corso dell’intero spettacolo, pronuncia in tutto forse una dozzina di parole. Iwona è una diversa, forse demente, ma si può ascrivere a quella vasta categoria cui appartengono le donne emarginate e conculcate di ogni tempo, quali sono state le streghe e molte sante. Ricorda un po’ la Gelsomina de La strada, di Fellini; ma forse è addirittura imparentata ad un’altra figura tipica della tradizione slava: il Puro folle, lo Jurodivyj di Puškin (e Musorgskij). Certo, questa ragazza bruttina, afasica, malaticcia non ha l’afflato profetico dell’inquietante personaggio-coro del Boris Godunov; ma anch’essa trasgredisce e turba le regole, le convenzioni sociali del mondo che la circonda, qui rappresentato dai regnanti e dai dignitari di una corte da operetta (ricordiamo la predilezione di Gombrowicz per questo genere spettacolare, cui intitolerà uno dei sui testi teatrali, appunto Operetta). La vicenda è apparentemente lineare. Filippo, il principe ereditario, un po’ per burla, un po’ perché, a modo suo, è disgustato dall’ambiente di corte, decide di fidanzarsi con una ragazza insignificante, addirittura scostante, elevandola al rango di principessa di Borgogna. Tuttavia, dentro questa cornice apparentemente leggera e disimpegnata, il testo è una feroce satira contro l’universale ipocrisia, la vacua convenzionalità che governa i rapporti umani nella società cosiddetta normale. È la semplice presenza di Iwona, inserita suo malgrado in un mondo non suo, a spiazzare, a mettere a disagio l’intera corte, a catalizzare in ognuno l’odiosa consapevolezza della propria meschinità, o addirittura abiezione. Ma ciò, invece di produrre un processo di catarsi, innesca un odio sordo e dilagante, che si ritorcerà contro di lei, innocente capro espiatorio, fino a determinarne la morte. Tutto il testo è intessuto di una sconcertante, a volte funambolica dialettica fra normalità e anormalità; fra volgarità e bon ton; fra lievità dell’apparire e violenza dell’essere, e può leggersi come parabola sul ruolo devastante che può avere la diversità. Tutti i personaggi, a partire dal principe Filippo, sono ondivaghi, incapaci di dare corpo, se non dopo mille contraddizioni, alla decisione di eliminare quello scomodo testimone della loro cattiva coscienza; mentre l’unico personaggio coerente con la propria semplice ma genuina identità è proprio Iwona. Le attrici e gli attori, per lo più giovani, prestanti e professionalmente attrezzati, sanno dare vita con efficacia a quel mondo sconcertante, popolato di mostri, ma in superficie affatto normale. La giovane, bravissima Marija Tokareva riesce a restituire a tutto tondo il suo difficile, atipico personaggio, utilizzando al meglio l’espressività del volto, del gesto, della postura. Alle dimensioni ridotte del palcoscenico sopperisce una scenografia semplice ma funzionale: una serie di pilastri triangolari, spostati a vista, ne articolano e moltiplicano lo spazio angusto. Sullo sfondo, dietro l’ingombro dei pilastri e dei giochi di luce, si intravede il disegno dell’uomo leonardesco e delle sue macchine. Sergej Timofeev, direttore artistico del Dramatičeskij Licejskij Teatr, e drammaturgo e regista dello spettacolo, ipotizza che il principe pratichi la pittura, e ciò offre il destro, in una scena ambientata nel suo studio, di esporre, appesi alle colonne, una serie di quadri di impronta cubista, quasi a suggerire la molteplicità di punti di vista su una realtà, di per sé mutevole e sfuggente. La lettura registica sembra voler esaltare la valenza morale del lavoro, attribuendo a Iwona quasi una consapevolezza sacrale, peraltro giustificata dal testo, ove si cita una sua “vocazione al martirio”. E uno dei momenti di maggior intensità teatrale e poetica dello spettacolo è il gesto col quale la ragazza esprime un suo incongruo, inaspettato amore per il principe, alzando le braccia in alto, come in un’offerta sacrificale. Il Dramatičeskij Licejskij Teatr (letteralmente “teatro di prosa liceale”), nasce nel ’94 dal corso di teatro di un liceo di Omsk, e diventa, su sollecitazione dell’Artista Laureato Vadim Rešetnikov, il primo teatro municipale della città. Oltre a realizzare una stagione di prosa, svolge un’intensa attività didattica nel solco del metodo Stanislavskij, con un obiettivo non necessariamente di formazione professionale ma, come dichiarato dallo stesso Rešetnikov, di crescita personale, di comprensione di se stessi e degli altri. Ha partecipato più volte agli “Incontri internazionali di teatro giovanile” di Grenoble e, nella primavera del 2010, ha portato a Milano la riduzione teatrale di un romanzo di successo in Russia, Al’pijskaja Ballada (Ballata alpina) di Vasil’ Bykov: la storia di uno strano incontro, sulle nostre Alpi, fra un soldato russo sbandato e una partigiana italiana. Nel ruolo di Giulia, la partigiana, la medesima Marija Tokareva, allora ventenne, affiancata da Evgenij Točilov (anch’egli in scena con Iwona, nella parte del Ciambellano). La piccola sala teatrale, ricavata dal salone di un asilo infantile, ma completamente ristrutturata, anche con una balconata, era piuttosto affollata, per lo più di giovani. Ma l’accoglienza mi è parsa freddina; in Russia, alla fine dello spettacolo, di regola il pubblico si alza in piedi, ma questa volta la standing ovation di rito mi è sembrata un adempimento più doveroso che convinto, e gli applausi, scanditi ritmicamente, si sono spenti presto. Ho chiesto a un’amica di Omsk, seduta accanto con me in platea, se lo spettacolo le era piaciuto. “Non del tutto”, mi ha risposto, “mi è sembrato pesante e poco chiaro”. Sentendo che invece io, pur nella difficoltà linguistica, l’avevo apprezzato, ha aggiunto: “Sai, per la Siberia forse è troppo moderno”. * Scittore e critico teatrale Abstract DIVERSITY OF IWONA, PRINCESS OF BURGUNDY n Omsk (Western Siberia) the Dramatičeskij Licejskij Teatr has put on the stage Iwona, Princess of Burgundy, by Witold Gombrowicz. He wrote the play during the Thirties, but it was published in Poland only fifty years after. A brave and gifted group of young actors has performed this complicated text, a kind of a parable about the upsetting effects that diversity may cause in people pretending to be normal. The protagonist, a girl with mental disabilities, expresses herself almost without words, showing the importance – not only in theatre, but also in our day-to-day relationships – of non-verbal communication. Beside professional performances, the theatre hosted also a well realized drama school, where Stanislavskij method is still followed, not only in order to train actors, but as a mean to understand ourselves and other people. I LA DIGNITÀ, L’AUTONOMIA E LA PROSTITUZIONE DELL’ARTE Intervista all’autore e regista Luciano Melchionna Recensioni Spettacoli UNO “SPETTACOLO-CULTO” di Martina Galletta* vuol dire ‘catarsi, purificazione... io amo il pubblico, e così i miei artisti e i miei collaboratori, e vorrei che ogni incontro servisse ad alleviare un po’ di quel dolore che contattiamo spesso invece da soli, abbandonati a noi stessi. In DAdP i ‘clienti’ si consigliano, fanno amicizia tra loro e con gli artisti e questo per me è gioia pura: DAdP è la Festa della Vita. G li spettatori sono clienti, gli attori prostitute che si vendono, contrattando come delle vere professioniste. Il teatro diventa bordello dell’arte e le prestazioni/monologhi animano camerini, bagni, sottopalco. Otto anni fa nasceva dal multiforme ingegno del regista Luciano Melchionna lo spettacolo-culto Dignità Autonome di Prostituzione. Qual è la chiave del successo di DAdP? DAdP è la dimostrazione che il pubblico ha bisogno del talento, della meritocrazia, dell’onestà intellettuale, dell’urgenza come motore di ogni ‘gesto’. In DAdP ho trovato finalmente la possibilità di esprimere il mio mondo etico-estetico-poetico. È un luogo magico dove l’intrattenimento è sempre pungolato da spunti per la riflessione. Dove posso lavorare con artisti strepitosi: siamo pieni in Italia e - detto tra noi - credo tu ne sappia qualcosa. Molti dei monologhi sono scritti oltre che diretti da te. Le storie che racconti sono spesso graffianti, dolorose. Ho bisogno di raccontare quello che gli occhi della gente che mi vive intorno o che incontro per strada mi comunicano. Ci sono occhi che mi spezzano il cuore con la loro storia, che mi fanno sorridere per la simpatia, che mi illuminano con la loro luce. Io trascrivo queste emozioni fortissime in storie dure, dolorose appunto o tormentate, senza aver paura di affondare la lama nel cuore degli spettatori: lì per lì soffriranno ma uscendo capiranno cosa Ho avuto il privilegio di lavorare insieme a te su uno dei tuoi monologhi, Diopuntointerrogativo. Cosa cerchi dai tuoi artisti ? Sarebbe troppo facile dire ‘la verità’ - e io non amo le cose facili, anche questo lo sai bene - ma alla fin fine è questo quello che cerco: l’essere ‘a fuoco’, far aderire ogni gesto, parola ed espressione del volto con ‘il dentro’: ai miei attori chiedo di collegare il cervello con il cuore e con le viscere e di sentire ‘fluire’ il personaggio cui prestano il proprio corpo e la propria anima. Chiedo di seguire le ‘linee’ che io vedo quando li aiuto a dire le battute, gli chiedo lo sforzo di seguire le traiettorie che disegnano nell’aria le parole e che io ho sempre visto, ma solo da poco ne ho piena consapevolezza. Chiedo di lanciare le parole, dopo averle introiettate fino in fondo, di lucidarle e masticarle con cura, senza mai accontentarsi, seguendo un pentagramma che non cerchi mai effetti o suoni sterili. Chiedo di godere con me, senza interrompere mai il mio e loro coito e quello del pubblico, di regalarsi completamente senza risparmio alcuno. Le ultime tappe di DAdP? Abbiamo finito di recente a Cinecittà, negli Studios... potete immaginare l’emozione: anzi tu l’hai vissuta in pieno. DAdP da otto anni colleziona traguardi incredibili perché meritati - non amo fare il finto modesto - nel senso di conquistati per davvero, ma anche inaspettati, perché nulla di quello che faccio ha una valenza strategica: il vero successo si sviluppa da ciò che fai se ciò che fai ha quel seme in sé e tu sai innaffiarlo costantemente, anche quando non sembra più possibile andare avanti... Appena nato per esempio, il mio bimbo DAdP fu bloccato perché, non esistendo una formula simile, io all’inizio facevo pagare gli attori con il denaro vero. Allora ho deciso di mettere tutti cappelli davanti alle stanze: una vera e propria questua. Gli attori si esibivano chiedendo provocatoriamente l’elemosina. Dopo una settimana, disperati, alcuni angeli della Siae mi hanno trovato una soluzione, i dollarini, quella che ancora oggi ci permette di andare in scena. E’ così grave la situazione teatrale italiana? Devo ammetterlo, se fossi cosciente fino in fondo forse avrei smesso da tempo: il mio fuoco sacro mi impedisce di soffrire le difficoltà che da quando ho iniziato vivo nel teatro. Sì, la cultura è in crisi... ma non ricordo un giorno in cui ho smesso di lottare per potermi esprimere così. Oggi le mie battaglie hanno alzato il tiro e questo dimostra che seminando seriamente, incessantemente, innamoratamente... mi concedi questa licenza? - anche il teatro ripaga. Siamo in tanti, non molliamo. * Attrice Abstract DIGNITY, ATONOMY AND PROSTITUTION OF ART heatre becomes a brothel, actors like prostitutes performing in the dressingrooms, in the restrooms, under the stage. Authonomos Dignities of Prostitution, created 8 years ago by the manifold genius of Luciano Melchionna, is a magic place, in which entertainment is mixed to food for thought. “To write my monologues I take inspiration from the eyes of the people: they spread me joy, pain, loneliness. I turn these emotions into biting stories. In DAdP both actors and audience live a catharsis together. It’s a celebration of Life. I ask my actors to let the character they play to flow into their bodies and minds. Cultural crisis? With passion and hard work our art can survive. We are many, don’t give up!” T teatridellediversità 95 Recensioni - Spettacoli L’OPERA DEL TEATRO CARGO QUESTA IMMENSA NOTTE Dal testo inglese “This Wide Night” di Chloë Moss di Claudio Facchinelli* T eatro Cargo: un nome che evoca i colori e gli odori del mare, del porto, del viaggio, di Genova; ma anche il lavoro e la fatica. Laura Sicignano, che ne è il direttore artistico, lo ha fondato vent’anni fa. Alla mia richiesta di definirne la poetica, lei rifiuta qualsiasi categoria preconfezionata: “Teatro di ricerca? Teatro classico? Teatro di narrazione? Teatro di impegno civile? Appena sento il rischio di veder applicata un’etichetta al Cargo, ci spostiamo un po’ più in là”. Con Questa immensa notte, Teatro Cargo si avvicina per la prima volta al tema del carcere ma, se si ripercorrono le tappe del suo itinerario artistico, questo approdo appare naturale. “Dopo aver lavorato sulla storia e la memoria, sui grandi viaggi, su storie vere di donne in guerra, su un progetto con i giovani rifugiati,” mi dice ancora Laura, “questo testo, che mi è capitato nella mani quasi per caso nell’originale inglese, mi ha immediatamente conquistato e, assieme a Eliana Amadio, ci siamo subito messe a tradurlo”. This Wide Night, di Chloë Moss (classe ’76), ha debuttato a Londra nel 2008 al Soho Theatre, aggiudicandosi l’anno successivo il prestigioso Susan Smith 96 Blackburn Playwriting Prize. Parla di carcere, ma in modo indiretto, obliquo: le due protagoniste sono due donne uscite di prigione che tentano, con fatica, di ricostruire una loro identità umiliata, mutilata. L’autrice non ci parla delle loro storie, anche se possiamo immaginarle, ma percepiamo le ferite non rimarginate, le cicatrici profonde che l’esperienza ha lasciato su ambedue. “Queste donne,” spiega Laura, “il carcere ce l’hanno nella testa. Dentro, in prigione, gli è scivolata via la femminilità: sono diventate fantocci. Ma quando escono il mondo le respinge: non lo sanno affrontare, perché per loro è un incomprensibile meccanismo che le stritola”. La partecipazione simpatetica verso la dolorosa realtà che i due personaggi incarnano ha indotto Laura a lavorare con una modalità particolare: le prove si sono svolte all’interno del carcere di Ponte Decimo di Genova, “in compagnia delle detenute”, mi confida, “per rispetto, per non tradirle, per coinvolgerle”. “Il rapporto che si stabilisce fra le due donne”, mi spiega ancora, “è un archetipo universale: non solo di donne che hanno condiviso una cella, ma anche di madre e figlia, di relazione amicale o amorosa, tra due persone fragili e sole. È una storia che parla di tutti noi, del nostro lato perdente e buio, dell’infanzia perduta e violata in tutti noi”. Lo spettacolo, vincitore del Premio Sonia Bonacina è andato in scena lo scorso febbraio al Teatro Filodrammatici di Milano. La scena è volutamente povera, a metà strada fra la suggestione simbolica e un iperrealismo impietoso, che esprime anch’esso precarietà, e dipinge un faticoso disordine reale e mentale. Muovendosi in quello spazio, Orietta Notari e Raffaella Tagliabue restituiscono con toni di verità i velleitari tentativi di ricostruzione della loro identità per- duta, ma anche il groviglio di sentimenti complessi e contraddittori che le legano. Si cercano e si respingono; ora sono tenere, ora violente; e riaffiorano le dinamiche della loro non facile convivenza nell’ambiente carcerario. Ma anche le parole più rabbiose che si scambiano sono, di fatto, invettive urlate contro una società che continua a respingerle, ad emarginarle. Tuttavia, da questo oscuro, frustrante vicolo cieco in cui sembrano dibattersi, la solidarietà femminile fra queste due creature perdenti e indifese potrà forse sortire la speranza di una via d’uscita. Un pregio non secondario dello spettacolo consiste nell’aver messo a fuoco un aspetto poco frequentato dell’istituzione penitenziale, il dopo; e nel far riflettere la società civile sulla necessità di un supporto al cammino di reinserimento, spesso faticoso, anche umiliante; in mancanza di ciò, la sanzione detentiva di fatto si prolunga, produce recidiva, rischia di trasformarsi in un “fine pena – mai”. * Scrittore e critico teatrale Abstract TEATRO CARGO ‘S THIS WIDE NIGHT or twenty years, in the artistic and cultural policy of Teatro Cargo - founded by Laura Sicignano -true stories of women andlosers have always had a major place. This time Laura has chosen the subject of the jail, but from an original point of view: not the life within the prison, but the hard, frustrating attempts of people to restore their life and lost identity when they get out. This Wide Night, by English playwright Chloë Moss, translated and directed by Laura Sicignano, shows the difficult and intricate relationships between two women of different age, who have shared the same cell. Beside its artistic value, the play points out one of the main social problems concerning imprisonment. F METAMORFOSI DEL TEATRO SOCIALE Un evento organizzato per iniziativa di laLut-Centro di Ricerca e produzione teatrale e Stranensemble, con il contributo del Comune di Siena e in collaborazione con Università degli Studi di Siena, USL 7 Siena, Corte dei Miracoli Centro culture contemporanee, Il Lavoro Culturale, Associazione Down D.A.D.I. (Padova) di Alice Lou Tanzanella* Fabio Mugnaini L’iniziativa ha riunito registi, performer, docenti universitari e, come ha definito puntualmente la docente Laura Caretti, soprattutto una parte di quei professionisti che lavorano attivamente e in prima persona in ambienti di “disagio fisico-mentale” e di “marginalità sociale”, per riflettere sul processo metamorfico che avviene nel corpo e nella mente di chi il teatro lo insegna, di coloro che vi partecipano come allievi, e di quelli che rivestono il ruolo di spettatori (pubblico e terapeuti). Nella prima giornata si è svolta una tavola rotonda sul “Teatro in Carcere”. Qui si è potuto ascoltare una serie di interventi a testimonianza di esperienze concrete di teatro e formazione in contesti di detenzione. Mentre durante la seconda giornata, dedicata a “Teatro e Salute Mentale”, si è discusso di tematiche legate a esperienze performative con soggetti portatori di disabilità fisiche e mentali. A conclusione dell’evento sono stati mostrati due spettacoli, Vissi d’arte, esito del laboratorio di teatro sociale condotto fra il 2014 e il 2015 da laLut a Siena, e Gli indistinti confini a cura di Stranensemble. In apertura del convegno l’assessore alla “Sanità, Politiche Sociali, Casa” del Comune di Siena, Anna Ferretti, raccontando la sua esperienza personale a contatto con il teatro fatto con i bambini e negli ambienti cosiddetti del “disagio”, ha sottolineato l’importanza dell’arte teatrale come mezzo per esprimer- Recensioni Convegni e festival SIENA si, che coinvolge l’intera persona nelle sue molteplici modalità linguistiche (corpo, voce, parola…). Nella due giorni hanno arricchito la discussione Vito Minoia, Gianfranco Pedullà, Fabio Mugnaini, Francesca Tricarico, Michele Campanini, Altero Borghi, Valentina Palmucci, Maria Josè Massafra, Laura Caretti, Andrea Fagiolini, Paolo de Vita, Ivana Conte, Annalisa Bianco, Irene Stracciati, Marco Caboni e Marta Mantovani. Molte le testimonianze e gli spunti di riflessione interessanti. Vito Minoia ha introdotto sia il lavoro svolto dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere - nato nel 2011 con l’intento di riunire e promuovere esperienze pluriennali diversificate di teatro sociale realizzate in contesti carcerari, esperienze che cercano di coniugare l’utilità con la creazione di un teatro che abbia una valenza artistica - sia l’attività della rivista internazionale Catarsi - Teatri della Diversità con il supplemento “Cercare” (anagramma di “carcere”). Minoia ha parlato della prigione come “un pezzo di teatro”, il primo palcoscenico in cui la persona che riveste il ruolo di detenuto è messo in scena e vive la diminuzione assoluta della sua privatezza; ha parlato di carcere e senso della democrazia, di carcere come il luogo in cui si realizza l’incontro, attraverso il teatro, fra componenti diverse dello stesso mondo sociale, e del senso della pena e della sua importanza riabilitativa anche attraverso esperienze performative e formative. Inoltre ha raccontato il progetto sperimentale “l’Arte Sprigionata”, una manifestazione arrivata alla sua XII edizione che vuole essere un luogo d’incontro fra il carcere e la città di Pesaro. Il regista Gianfranco Pedullà vanta una lunga esperienza all’interno delle carceri toscane di Arezzo, Prato, Pistoia. Nel corso di venticinque anni di laboratori ha potuto sperimentarsi in quel linguaggio che emerge dall’incontro “extraquotidiano” fra detenuti-attori e registi-operatori del teatro. Pedullà ha affermato che il carcere è uno di quei contesti che getta le basi per una ridefinizione e rifondazione dell’arte teatrale, e per l’invenzione di un nuovo teatro che mira alla cura del Sé e dell’Altro. Un altro aspetto sottolineato dal regista è l’intrinseca teatralità non solo delle storie di vita personali che i detenuti portano sul palcoscenico, e che contribuiscono talvolta alla scrittura del testo drammatico, ma anche di “facciate personali” per citare Erving Goffman, in cui il corpo e la voce sono un materiale su cui lavorare in maniera sperimentale, lontani da condizionamenti e da quell’educazione all’arte drammatica propria degli attori professionisti. teatridellediversità 97 Francesca Tricarico è regista della compagnia “Le Donne del Muro Alto”, progetto di teatro con le detenute del carcere di Rebibbia (sezione Alta Sicurezza). La sua testimonianza al convegno è stata significativa poiché ha gettato una nuova luce sulle esperienze di teatro in carcere vissute al femminile. Francesca ha raccontato, con sguardo soggettivo, le “trasformazioni” vissute da lei e dalle detenute, e si è emozionata quando ha ricordato come le sue allieve avessero avuto, attraverso il teatro, la possibilità di riflettersi e avvicinarsi a temi complessi come il concetto di “bene comune”. Michele Campanini è insegnante di lettere per il CPIA 1 Siena nelle Case Circondariali di S.Spirito e S.Gimignano. Nel suo intervento ha parlato della necessità di restituire una dimensione “normale” del rapporto umano ai soggetti costretti in regime di detenzione, e ha raccontato la voglia percepita dai suoi allievi detenuti di narrarsi e dar voce ai monologhi personali. Campanini è anche coinvolto nel Creative Europe Programme con il progetto Playing Identities, Performing Heritage. Annalisa Bianco si è soffermata sulla speciale natura dell’attore del teatro sociale, fondata sulla non professionalità canonica e su una nuova forma di artisticità. L’imprevedibilità e il frequente sovvertimento delle regole di un teatro di tradizione, portano il nuovo attore a trasformare la scena, restituendo al teatro sociale la natura di teatro di ricerca, di sostegno alla persona, di invenzione di nuovi linguaggi, a volte anche sovversivi. Paolo De Vita ha raccontato la sua esperienza con i malati di Parkinson, iniziata 13 anni fa a Roma. Si sono ottenute nuove forme di benessere, attraverso il processo dinamico che piccole azioni sceniche, fondate su emozioni forti, provocano nei malati di Parkinson, portandoli a compiere movimenti che altrimenti sarebbero loro impediti. Ha poi proposto un video di grande impatto per le dichiarazione dei pazienti, che in diverse forme, esprimono la profonda trasformazione prodotta in loro dall’esperienza teatrale, che li motiva a dare senso alla propria esistenza. biamento del concetto di tempo nell’azione scenica proposta dalle persone disabili e nelle ricezione da parte dello spettatore. Ha poi riferito come il teatro socio-educativo più evoluto attinga spesso ad un repertorio, ripensato e trasformato, ma radicato nella storia del teatro. Marta Mantovani ha tirato le fila di interventi precedenti e narrato la pluriennale esperienza condotta a Siena con attori professionisti e attori con disagio psicofisico. Ha sottolineato la decisiva integrazione delle competenze tra le diverse figure professionali e ha poi mostrato un video dello spettacolo “C’è del marcio in Danimarca”, prezioso lavoro di scavo sui personaggi e su un ripensamento del linguaggio teatrale, che mette al centro la funzione del teatro come mediatore rispetto alle biografie personali. Alessandra Giannini ha proposto la visione di quella parte dell’area psicopedagogica, che sostiene la valenza del teatro come fattore educativo e di sostegno a chi ha difficoltà psichiche, senza che si debba sostituire ad altre azioni medico-scientifiche, nel rispetto delle competenze e dei ruoli. * Studiosa di antropologia e linguaggi visivi all’Università di Siena Andrea Fagiolini ha delineato il proprio percorso professionale con grande essenzialità e in modo molto sentito, intrecciandolo anche alla propria formazione ed esperienza di vita. Ha messo in luce gli aspetti terapeutici differenti, che convivono attualmente nelle terapie rivolte ai pazienti con disagio psichico, riconoscendo al teatro una valenza anche terapeutica e comunque si sostegno alla persona di straordinario valore. Irene Stracciati ha narrato in modo appassionato l’esperienza di danza con i giovani con sindrome di Down, che hanno acquisito progressivamente competenze sempre maggiori, fino a superare per intensità e resa scenica i professionisti. Ha parlato anche dei limiti e delle difficoltà che ha dovuto superare, per arrivare ad un equilibrata considerazione del lavoro e dei destinatari, persone speciali ma da trattare con pari dignità, senza buonismi. Ivana Conte ha sottolineato come il teatro sociale provochi profonde trasformazioni non solo nell’attore ma anche nello spettatore consapevole e preparato alla visione. Ha fatto riferimento ad esperienze di formazione del pubblico realizzate da un gruppo nazionale di ricerca di cui fa parte da molti anni, prima afferente al Centro Teatro Educazione dell’ETI e oggi all’Agita/Casa dello Spettatore, mettendo in luce l’importanza del lavoro di equipe e gli aspetti innovativi relativi al cam- 98 Abstract SOCIAL THEATRE’ A METAMORPHOSIS n the 2nd and 3rd of October «Metamorfosi” took place in Siena: an initiative that brought together teachers, performers, film directors etc. to reflect on the transformation that happens in the body and in the mind of theater teachers, of those who participate as students and those who play the role of spectators. The first day, a round table was held about “Theatre in Prison” , with the opportunity to listen to a series of speeches on concrete experiences of theater and education in detention contexts. During the second day, dedicated to “Theater and Mental Health”, themes related to performative experiences were discussed together with people with physical and mental disabilities. O ARTI VISIVE E CONTEMPORANEITÀ Contemporaneamente Sicilia. Le arti performative del contemporaneo. Progetto a cura di Luca Mazzone e della Rete siciliana di drammaturgia contemporanea di Vincenza di Vita* L ’iniziativa si è svolta al Teatro Libero Incontroazione di Palermo. Il teatro stabile d’innovazione è stato fondato nel 1968 ed è divenuto da subito un punto d’incontro e “Laboratorio di Teatro” internazionale. A ideare con Luca Mazzone questo incontro di riflessione è stata Latitudini, di cui fa parte anche il Libero di Palermo. Latitudini è “la rete siciliana di drammaturgia contemporanea. Raggruppa associazioni, teatri e festival siciliani, creando un circuito teatrale rivolto specificamente al teatro contemporaneo e d’innovazione. Attraverso l’organizzazione di rassegne, festival o singole rappresentazioni di spettacoli dal vivo, la produzione di spettacoli teatrali, di danza e musica, la creazione di eventi, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali (fonte www. latitudini.info).” In una soleggiata ed estiva giornata d’inizio autunno si è dato appuntamento un gruppo di operatori italiani con alcuni rappresentanti dell’eccellenza delle residenze del Teatro Pubblico Pugliese: il già citato Luca Mazzone, condirettore del Libero di Palermo; Francesca D’Ippolito, organizzatrice e rappresentante di Cresco-Coordinamento delle Scene della Realtà Contemporanea, per la Puglia; Gigi Spedale, presidente di Latitudini; Ippolito Chiarello, operatore, attore pugliese e ideatore del progetto internazionale “Barbonaggio teatrale”; Turi Zinna, artista e responsabile di Cresco Sicilia. La mattina dei lavori è stata interamente dedicata al confronto e all’arricchimento attraverso un dialogo volto alla reciproca conoscenza nella comune ricerca mediante il teatro, di produzione e crescita sul territorio italiano. Tanti gli operatori culturali intervenuti tra cui Marcello Giacone, dirigente regionale, a capo della segreteria tecnica dell’Assessorato regionale al Turismo, attualmente sta seguendo il progetto per l’elaborazione di un piano sulle residenze, avvalendosi della consulenza degli operatori culturali di cui è composta la rete Latitudini. Nel pomeriggio si è svolta la parte performativa dell’evento attraverso la proiezione video di alcuni interventi teatrali. Teatro, video-arte, musica, poesia e danza si sono succeduti sul palcoscenico del teatro di Piazza Marina. A inaugurare gli interventi è stato il feroce Nel fuoco, di Giuseppe Massa, dedicato a Nourreddine Adnane, giovane ambulante marocchino che si è dato fuoco a Palermo per una multa nel 2011. La memoria e il senso civile siciliano sono stati evocati anche da Sicilia segreta di Biagio Guerrera, con immagini legate alla strage di Capaci. Ore d’aria, a cura di Babel Crew, è stato un surreale viaggio in una Palermo inedita e felliniana. Il pluripremiato e toccante Importante, molto importante di Alessandra Pescetta e Savì Manna ha ceduto lo spazio al Tifeo di Turi Zinna. Gli unici ad avere impegnato dei corpi, Recensioni Convegni e festival PALERMO in presenza con una performance dal vivo, sono stati gli allievi di ActorGym, scuola messinese diretta da Vincenzo Tripodo, attraverso uno studio ispirato all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, che ha replicato nella sezione “fuoriLuogo a teatro” curata da Latitudini per SabirFest Messina, lo scorso 10 ottobre. Anche altri artisti e compagnie, presenti a Palermo, sono stati impegnati la settimana successiva nella manifestazione messinese sulla cultura e cittadinanza mediterranea. “Questo testimonia come Latitudini – dichiara il presidente Gigi Spedale – stia sempre più consolidando la sua presenza sul territorio siciliano in eventi internazionali, volti alla valorizzazione della nostra bellezza paesaggistica e artistica.” La chiusura dei lavori è stata affidata a un video di Franco Maresco dedicato a Franco Scaldati, perché il “Teatro è Poesia”. * Studiosa di arti sceniche, Università di Messina Abstract VISUAL ARTS AND CONTEMPORARY STATE rt director Luca Mazzone and Sicilian contemporary drama’s network Latitudini have devised “Contemporaneamente Sicilia”, a conference of one day on dialogues and discussions about contemporary performing arts. This day was divided into two parts. On October 3, at Teatro Libero in Palermo, a meeting took place in the morning on development of theatrical policies, such as theater residences or participation in calls for funding projects of cultural activities on Italian territory. Instead, in the afternoon there were some performance videos of short plays and a tribute to Franco Scaldati by the director Franco Maresco A teatridellediversità 99 Recensioni Convegni e festival SAN SEPOLCRO TRA VISIONE E VOCAZIONE Frammenti ragionati da Kilowatt Festival 2015 di Ivana Conte* Foto Luca Del Pia P iero della Francesca è l’anima, il genius loci che conduce a Sansepolcro e ad Arezzo, ancora oggi, la gran parte dei viaggiatori di tutto il mondo. Dedicare a lui uno spettacolo non è una facile impresa e Luca Ricci, che ama le sfide e a Sansepolcro si spende da anni in una miriade di iniziative che vanno dal Festival Kilowatt a progetti europei sullo spettatore attivo, decide di tentarla. La drammaturgia dello spettacolo Piero della Francesca il punto e la luce è, a nostro avviso l’elemento più riuscito dell’operazione ed è firmata da Lucia Franchi e Luca Ricci. L’ambientazione è suggestiva, l’uso dei materiali video è drammaturgicamente motivato, gli attori sono ancora un po’ fragili, accademici, senza tormento (è la cifra generazionale, l’assenza di tormento e, di conseguenza, di estasi), la tematica è forte: astrazione, geometria, scienza, arte, costrutto in antitesi all’assenza di progetto. E, soprattutto, la vocazione come unica risposta alla volgarità dei tempi, quelli di Piero della Francesca, e i nostri. Di Piero della Francesca si narra, si mormora, si sorride, ci si 100 occupa e preoccupa attraverso la conversazione teatrale tra il suo giovane aiutante Paolo e la cognata di Piero, Giovanna; sono loro i suoi custodi, garanti di mostrarci come l’omologazione del gusto sia vecchia storia. Il Sassetta imperversa con le sue madonne sorridenti e celestiali, Piero rompe regole, convenzioni ed equilibri e scopre il teatro, ce lo mostra per la prima volta in pittura, con lo straordinario Polittico della Misericordia che lo spettacolo prende ad ispirazione. E, naturalmente, i più non comprendono. Davvero contemporaneo resta dunque chi non è del tutto nel proprio tempo, come Agamben sottolinea in molte occasioni (1). A vedere questa piccola gemma teatrale siamo preparati, nel pomeriggio, attraverso una visita al Museo Civico di Sansepolcro, dove il Polittico è custodito, insieme all’opera somma di Piero – la Resurrezione – oggi in restauro grazie ad un primo finanziamento privato. Nel Festival Kilowatt del resto, lo spettatore è chiamato ad essere attivo come non mai e fa parte del suo itinerario l’essere Note 1 «Coloro che coincidono troppo pienamente con la loro epoca, combaciando perfettamente con essa in ogni punto, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla» (Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, I sassi, Roma 2008) 2 Ogni anno Kilowatt lancia un bando destinato alle giovani compagnie e ai nuovi artisti del teatro e della danza contemporanei. Chiediamo loro di mandarci un dvd di massimo 20 minuti con lo scopo di selezionare 9 spettacoli da invitare in una sezione del festival Kilowatt chiamata “Selezione Visionari”. La scelta dei 9 lavori da ospitare non la fa il direttore artistico, ma un gruppo di persone che risiedono in Valtiberina Toscana, che hanno la caratteristica di essere semplici spettatori di teatro e di non essere ad alcun titolo operatori teatrali. Tra loro ci sono due commesse del supermercato, un professore dell´istituto tecnico, una barista, un operaio, una studentessa di lingue straniere, due elettricisti, tre pensionati. Il gruppo è composto da circa 20 persone. Questo gruppo di spettatori-selezionatori si è dato il nome de “I Visionari”.(dal sito www.kilowattfestival.it) Recensioni Convegni e festival di fronte all’originale per apprezzare meglio lo studio teatrale che ne deriva. Il comune di Sansepolcro e Kilowatt Festival sono i capofila del progetto Be SpectACTive!, approvato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma Creative Europe 20142020. Partecipano al progetto 12 istituzioni di 9 Paesi europei: The London International Festival of Theatre e York Theatre Royal (Gran Bretagna), Tanec Praha Festival (Repubblica Ceca), Bakelit Multi Art Center Budapest (Ungheria), Sibiu International Theatre Festival (Romania), Perforacije Festival Zagabria, Rijeka e Dubrovnik(Croazia), Ex-Ponto Festival Lubiana (Slovenia), Perypezye Urbane Milano, Fondazione Fitzcarraldo Torino e due dipartimenti che si occupano di marketing della cultura, delle Università di Barcellona (Spagna) e di Montpellier (Francia). Il convegno internazionale sulla active spectatorship, programmato a Sansepolcro il 21 e 22 luglio 2015, ha fatto emergere alcune affinità e molte differenze tra modelli di cittadinanza attiva attraverso la sensibilizzazione del pubblico teatrale e della danza. Oltre a porre l’accento sulla trasferibilità in Europa del modello già sperimentato a Sansepolcro da alcuni anni - I Visionari (2) – sulla quale il progetto Be SpectACTive! si fonda, ogni soggetto europeo coinvolto ha relazionato sullo stato attuale della rapporto tra palcoscenico e platea e tra teatri e comunità nei territori di appartenenza, illustrando le modalità più efficaci per trasformare gli spettatori in moltiplicatori di partecipazione alla vita sociale. L’aspetto più interessante riguarda proprio la variabile nazionale, regionale e territoriale: dai modelli anglosassoni consolidati, tra i quali molto innovativo ci è parso quello di York, dove durante il festival di teatro giovani operatori affiancano esperti per un tirocinio attivo e a specchio (ogni figura professionale consolidata è tutor di un giovane che farà lo stesso lavoro in futuro), alle appassionanti prime sperimentazioni di Zagabria, nelle quali la relazione tra cittadini, territorio e arte è da costruire, o meglio ri-costruire, stante una speciale situazione geopolitica. Il convegno ha permesso di confrontare dati storiografici, modalità operative, concezioni filosoficamente connotate e visioni più ingenue ma forse più dinamiche, dati di rilievo sulle normative europee a sostegno dei progetti di formazione del pubblico. Alcune esperienze sono apparse fortemente sbilanciate a favore dell’artista e del suo ritorno di immagine, piuttosto che rivolte alla formazione dello spettatore al teatro e alla nuova cittadinanza. Notevole e in controtendenza ci è sembrato l’intervento dell’esponente dell’Università di Barcellona, Lluis Bonet, molto vicino ad alcune delle posizioni rappresentate in Italia dal Centro Teatro Educazione dell’ETI (oggi Casa dello Spettatore), per il quale l’educazione del cittadino attraverso il teatro è centrale e viene prima delle urgenze degli artisti, pur comprensibili. Il progetto ha la durata di 4 anni, nei quali verranno costituiti 34 gruppi di spettatori attivi in 8 città europee, saranno prodotti 21 nuovi spettacoli di teatro e danza e sostenute di 54 residenze creative. Andranno in scena 153 spettacoli (108 dei quali scelti direttamente dai gruppi di spettatori attivi), saranno programmate 4 conferenze internazionali sulla “active spectatorship”, insieme all’elaborazione una ricerca scientifica sull’efficacia qualitativa e quantitativa dei progetti e alla realizzazione di un documentario video e di un libro. * Studiosa di teatro sociale San Sepolcro, convegno al Kilowatt Festival Abstract BETWEEN VISION AND VOCATION he Kilowatt Festival was held once again at Sansepolcro (Arezzo), from 18th to 25th July 2015. It highlights an interesting piece of theatrical work - Piero della Francesca, the point and the light - by Lucia Franchi and Luca Ricci, who is also the Director of the Festival. The play is well written, a theatrical conversation between a young apprentice and Piero’s sister-in-law, which shows how the artist broke the conventions of his time. Being present is alsoa synthesis of the International Congress Be SpectACTive!, which is part of the Creative Europe 2014-2020 programme. The Municipality of Sansepolcro and Kilowatt Festival are the leaders of the project in partnership with 12 groups gathered from 9 European countries. The congress compares new models of citizenship through active participation by spectators in the theatre. T teatridellediversità 101 Recensioni Convegni e festival TRENTO CORPI IN CONFLITTO La bellezza della diversità, titolo dell’ultima edizione del Festival Oriente Occidente, una delle manifestazioni di danza più prestigiose, non solo in Italia di Roberto Rinaldi* Foto John Hogg I l Festival di Rovereto ha compiuto il suo trentacinquesimo compleanno, festeggiato da un successo meritato per la sua capacità di presentare le ultime tendenze della danza, viste sui palcoscenici del Teatro Zandonai, e Auditorium Melotti di Rovereto e Teatro Sociale di Trento. Un programma che offriva numerose prime nazionali e prime assolute, messe in scena da compagnie di danza tra le più importanti del mondo. Dal 2015 Oriente Occidente è stato incluso nella piattaforma Effe, promossa dalla Commissione e dal Parlamento europeo, riconoscendo al Festival la sua qualità artistica. Anche questa edizione è stata dedicata all’indagine sul corpo in conflitto, iniziata lo scorso anno, scegliendo da parte dei direttori artistici Lanfranco Cis e Paolo Manfrini, quelle proposte coreografiche dedicate al risvolto positivo del ‘corpo a corpo’, ovvero la bellezza della diversità e della biodiversità. A Rovereto sono arrivate ben quattordici compagnie con l’obiettivo di raccontare “la vita e la biodiversità minacciata nel remoto Oceano Indiano, i drammi del Medioriente e le conquiste delle primavere arabe, la forza dirompente dei giovani neri sudafricani, il battito della società occidentale che vive in massa al limite dell’abisso – si legge nella presentazione del programna – che comprendeva artisti di le- 102 vatura internazionale quali Arkadi Zaides, Andrea Gallo, Irene Russolillo, la compagnia francese Lanabel, Maguy Marin, Aicha M’Barek e Hafiz Dhaou. Tra gli spettacoli più riusciti che l’edizione 2015 di Oriente Occidente ha proposto, la pièce “Sacré Printemps!” , realizzata dai coreografi tunisini Aicha M’Barek e Hafiz Dhaou evocando lo stesso spirito rivoluzionario della Sagra della Primavera di Stravinskij, portatori di un messaggio centrato sulle speranze suscitate dalla primavera araba intenta a realizzare la nascita di una Tunisia democratica. La danza come strumento di trasmissione di valori e ideali democratici e di pacifica convivenza. La forza del movimento espressivo sulla scena, la potenza dei corpi di sette danzatori accompagnati dalla voce della cantante tunisina Sonia M’Barek e le musiche del gruppo post-rock lionese Zëro. Corpi in movimento e corpi statici realizzati su sagome di persone a grandezza reale per mano di Dominique Simon e ispirate a quelle realizzate dall’artista Bilal Berreni (alias Zoo Project) assassinato nel 2013, che lui stesso posizionava nelle strade di Tunisi durante le rivolte popolari. Danza come impegno sociale e morale per non far cadere l’attenzione sul dramma di un popolo desideroso di vivere in pace e nell’eguaglianza. Sacré Printemps! raccontava attraverso la danza corale come “ciascuno di noi esiste perché esiste anche l’altro”, sostenendo come la “diversità è richezza e lo stare insieme è forza”. Possente ed energica. Di altrettanta forza e impatto sociale oltreché visivo sulla scena, “Beauty remained for just a moment then returned gently to her starting position”, titolo lunghissimo dell’opera creata da Robyn Orlin, coreografa sudafricana e residente a Berlino. Una delle artiste più in voga del panorama internazionale, a cui sono stati asegnati molti premi internazionali. Famosa per il suo impegno rivolto alle dinamiche politiche e sociali del Sudafrica, ancora sottoposto a regime di apartheid, tanto da essere definita “l’enfant terrible” della danza del suo paese originario. Il ritorno in patria e più precisamente a Johannesburg nel 2012, la vede impegnata con la giovane compagnia di danzatori Moving Into Dance Mophatong, la principale scuola di danza contemporanea della città e realizza con loro la coreografia presentata al Teatro Zandonai di Rovereto, dal titolo tradotto in italiano: “La bellezza rimane solo un attimo poi ritorna gentilmente alla sua posizione di partenza”. Un’opera dedicata alla sua città natale, un canto d’amore rivolto al suo continente che Robyn Orlin spiega come venga “sempre ritratto come arena di scontri, commerci illegali di armi, avorio e droga, luogo di miseria. Ma corruzione, fame, e morte sono ovunque, mentre in Africa c’è tanta bellezza, ed è ovunque”. La danza di questa coreografa è un inno alla bellezza, alla gioia di vivere, alla celebrazione della vita che va sempre difesa. La scena si riempe di colori, di corpi animati che si lasciano andare a danze frenetiche, sussultorie, energiche. I danzatori bravissimi per tecnica e interpretazione sono delle macchie di colori variopinti, grazie ai fantasmagorici costumi realizzati da Marianne Fassler e realizzati con oggetti di recupero e scarti della vita quotidiana. Un riciclaggio di materiali a cui vengono attribuiti dei significati particolari, come la plastica e le bottigliette d’acqua minerale distribuite a tutto il pubblico. Una danza travolgente, esuberante che racconta la società sudafricana nelle sue contraddizioni che non permette una partecipazione da semplici spettatori. Le dinamiche che si vengono a creare stimolano un’adesione completa grazie alla bravura dei danzatori, talmente coinvolgenti da suscitare una partecipazione corale tra tutti. Immagini di polli che beccano a terra, il sole cocente del Sud Africa, l’acqua elemento vitale e indispensabile. I rifiuti come prodotto di scarto del benessere attuale. La bellezza che si può ricavare anche da materiali che ogni giorno scartiamo. Il concetto è chiarissimo ed esplode ad ogni passo di danza: la bellezza può salvare il mondo, basta saperla riconoscere anche in un singolo oggetto a cui non diamo importanza. Il ritmo incalza ad ogni disegno coreografico che Recensioni Convegni e festival Foto John Hogg irrompe sulla scena e scende in platea, la fisicità dei corpi apre ad uno scenario di movimenti sinuosi, cadenzati, vissuti come una fonte di gioia da condividere con tutti. Il pubblico è parte integrante e si sente immerso nella vita difficile dei sobborghi di Johannesburg, alle credenze popolari del serpente che divora i più piccoli. L’allegria è contagiosa per il ritmo della danza africana popolare che si fonde a stili più contemporanei. Sequenze che si avvicendano per narrare storie dal sapore antropologico. La coreografa entra dentro l’anima di ciascuno di noi e ci porta a conoscenza di chi vive in società del benessere e dell’agio, di un mondo di povertà, di emarginazione, di sofferenze a cui si può dare sollievo attraverso un messaggio di speranza e di inclusione sociale tra i popoli. Non da soluzioni o risposte certe Robyn Orlin ma ci chiede di seguirla attraverso il suo percorso drammaturgico a cui non è facile resistere. Linguaggi diversi che si incrociano sono il fulcro stesso di Oriente Occidente, grazie alla commistione e la molteplicità di forme presentate dal programma scelto che ha visto una partecipazione assidua di pubblico, segno che la danza contemporanea sa cogliere e portare sulla scena, riferimenti e idee di attualità. Al centro dell’attenzione il corpo che sa donarsi alle molteplici forme espressive dell’arte, tramite stesso per rivendicare idee e principi regolatori a cui tutti ci ispiriamo. Il corpo a difesa della vita stessa. Beauty remained for just a moment then returned gently to her starting position Coreografia: Robyn Orlin con la collaborazione di Moving Into Dance Mophatong Assistente regia Nhlanhla Mahlangu Luci Denis Hutchinson, Robyn Orlin Musiche Yogin Rajoo Sullaphen Video Philippe Lainé Costumi Marianne Fassler Danzatori Julia Burnham, Oscar Buthelezi, Teboho Letele, Theresa Mojela, Sunnyboy Motau, Sonia Radebe, Macaleni Shili Prodotto da City Theater & Dance Group e MIDM - Moving Into Dance Mophatong, Damien Vallette Prod Coprodotto da Biennale de la Danse de Lyon, MAC: Maison des arts de Créteil, Tilder, Maison de la musique - Ville de Nanterre, City Theater & Dance Group Commissionato da Gervanne e Matthias Léridon Visto al Teatro Zandonai di Rovereto il 30 agosto 2015. *Critico teatrale, direttore della Rivista Rumor(s)cena Abstract CONFLICTING BODIES 2 obyn Orlin is a South African choreographer and one of the most popular in the contemporary dance panorama. Called the enfant terrible of dance in South Africa, her research has led her to investigate the political and social dynamics of her country about the theme of apartheid. “Beauty remained for just a moment then returned gently to her starting position” is the work presented at the Festival Oriente Occidente (Orient Occident) of Rovereto. On the stage of Theatre Zandonai, the dancers of Moving Into Dance Mophatong - one of the most qualified dance schools in Johannesburg - performed. Her choreographic creation is a celebration of joy and life that must be defended. On stage, the colours of the costumes created by Marianne Fassler were designed to enhance the message that dance conveys. R teatridellediversità 103 Recensioni Convegni e festival PESARO LO SGUARDO ALTROVE Hangartfest, festival della scena indipendente, ha assunto una dimensione internazionale. Seminari, performance, incontri con artisti e filosofi hanno caratterizzato l’ultima edizione di Stefania Zepponi* ventennale ricerca sul movimento. Ricerca che ha dato vita a un rivoluzionario sistema di approccio al movimento e alla danza, l’Axis Syllabus, Hangartfest ha proposto anche due vetrine: “Aliens” progetto a cura di Masako Matsushita, e “Essere creativo”, bando promosso su scala europea rivolto a coreografi emergenti. I cinque lavori selezionati hanno evidenziato indubbie capacità tecniche e presenza scenica ma anche una debolezza drammaturgica che non permetteva loro di decollare, lasciandoli in qualche misura appiattiti sulla bravura e sulla trovata. I l titolo è pienamente giustificato dal legame che il festival ha stabilito con l’Associazione Marchigiana Attività Teatrali, con alcuni partner europei - Highs & Low festival di Amsterdam, Sånafest della Norvegia e Caresser le Potager di Marsiglia - e con una realtà un po’ sui generis come quella di No Man’s Island di Macerata, rassegna permanente di drammaturgia e critica. Ma l’altrove suggerito dal titolo è anche negli spazi informali che ospitano le iniziative, quest’anno raccolte nell’ex Chiesa della Maddalena, luogo suggestivo di visione e ascolto. C’è anche un altrove culturale. Due conversazioni con artisti filosofi e operatori hanno messo in rapporto la danza con le sfide sociali e culturali che la società attuale pone. Il Meeting Point con i partner europei e italiani del festival ha permesso di ascoltare approcci ed esperienze diverse, Non sono mancati i seminari, affidati in questa edizione a Frey Faust, danzatore e pedagogo, da anni impegnato a condividere in tutto il mondo la sua più che 104 Stessa sensazione si è avuta nei confronti dell’altra vetrina “Aliens”, che ha visto in scena Tommaso Monza e Andrea Baldassarri, Heidi Jessen e Sigrid Marie Kittelsaa Vesaas, la stessa Masako Matsushita e Elda Gallo. Brani più sperimentali rispetto a quelli visti per “Essere creativo”: scelte sceniche più articolate, materie di movimento meno legate ai canoni più identificabili di correnti o tipologie di danza; anche questi brani però sono stati penalizzati da una sorta di fragilità nella messa in scena e nell’uso degli strumenti che la riflessione sull’osservazione di un qualunque oggetto scenico suggerisce. Sicuramente più maturo ”Coup de Foudre” di Lisa de Boit e Rudi Galindo, un duo dal sapore clownesco. L’indubbio “mestiere” forse un po’ estraneo alle altre proposte più sperimentali che lo spazio sacramentale della Chiesa della Maddalena ha ospitato. Spazio in cui si è invece perfettamente integrata “Loto - dal fango nascerai pura e illuminerai il mondo”, performance di butho realizzata da Soyoko Onishi con interpreti formatisi nel corso di seminari tenuti dalla stessa danzatrice. Interessante il tappeto sonoro creato live da Daniele Javarone e Simona de Sanctis, la cui voce cerca gli anfratti e le risonanze della chiesa per farsi anch’essa interprete e non mera accompagnatrice, finché la voce stessa diventa corpo contorto in cerca di rinascita. Il confronto rende però ancor più didascalica la scelta operata da Sayoko Onishi per il suo solo di utilizzare “Un bel dì vedremo”, la famosissima aria della Madama Butterflay, un già detto per noi occidentali dal sapore molto scontato. Un pubblico attento e numeroso ha seguito gli eventi, segno di una comunità non scontata interessata alle varie declinazioni che la danza contemporanea offre. * Danzatrice e coreografa, redattrice per il settore danza della webzine KLP Krapp’s Last Post Nota bibliografica L’autrice ha pubblicato sull’argomento un articolo più approfondito in Krapp’s Last Post visionabile al seguente link www. klpteatro.it/hangartfest-15-lo-sguardo-altrove-della-scena-indipendente Abstract LOOKING THE OTHER WAY The XII edition of Hangartfest, festival of the independent scene, took place in September in Pesaro and, thanks to its relationship with other European festivals, Hangartfest has gained an international dimension. Seminars, performances, meetings with artists and philosophers have characterized this edition that, on top of the theatre, has also chose as privileged venue the deconsecrated Church of the Maddalena. SABIR, IL FESTIVAL DEL METICCIATO Raccontare il mediterraneo e reinventarlo alla ricerca di un minimo comune denominatore che declini l’identità e l’alterità di popoli diversi di Filippa Ilardo* Recensioni Convegni e festival MESSINA Yasmina Khadra I l Mediterraneo è un “pluriverso” di civiltà, identità, culture, lingue; un insieme di universi espressivi e simbolici che creano interconnessioni di differenze e uguaglianze; è molteplicità in antitesi alla deriva banalizzante della globalizzazione; è luogo fisico e metaforico, geografico e virtuale di congiunzione, ibridazioni, incroci. Da queste premesse muove “Sabirfest - Cultura e cittadinanza mediterranea”: “sabir” è una sorta di esperanto internazionale, un meticciato linguistico fatto di italiano, spagnolo, arabo, greco, siciliano con cui comunicavano commercianti e marinai dal Medioevo fino a tutto l’Ottocento). Giunto alla sua seconda edizione, l’evento, dall’8 all’11 ottobre, ha trasformato il centro storico di Messina in uno spazio vivo e vitale, aperto alla riflessione, al dialogo e a diverse forme creative ed espressive: presentazioni di libri, mostre, spettacoli in piazze, portici, palazzi, un fittissimo programma, tra incontri con scrittori e attivisti dell’area Mediterranea. Il Festival, promosso da Sabir, con numerose collaborazioni, tra cui ricordiamo Latitudini, Rete Siciliana per il Teatro Contemporaneo e l’Università di Messina, si è snodato in diverse sezioni. SabirLibri, è stato uno spazio espositivo che ha saputo reinventare un’identità ad un luogo dalle notevoli qualità architettoniche, la Galleria Vittorio Emanuele, che è tornata a rivivere trovando la sua vocazione di centro culturale. Così come il monumento Monte di Pietà, dove la scenografica scalinata del Basile diventa sfondo di numerosi spettacoli. Qui è avvenuto anche l’incontro con lo scrittore algerino Yasmina Khadra, pseudonimo femminile di Mohamed Moulessehoul, che presenta il suo ultimo libro “L’ultima notte del rais” (Sellerio). Lo scrittore, che per firmare le sue opere prende il nome della moglie in un paese dove le donne sono maltrattare i cui diteatridellediversità 105 Recensioni Convegni e festival Fortebraccio Teatro in Metamorfosi, foto di Futura Tittaferrante ritti spesso vengono violati, pone l’accento sulla ridefinizione dell’idea di frontiera, limite mentale che solo la cultura può abbattere. Oggi è necessario ridefinire il concetto di frontiera e di confine, non più linea-limite di divisione, ma di contatto, attraverso cui i diversi si toccano, le culture comunicano. La frontiera deve essere più uno spazio, zona dell’incontro e della contaminazione. FuoriLuogo a Teatro, organizzata dalla rete di drammaturgia siciliana Latitudini, in collaborazione col Teatro di Messina, ha visto la scelta di numerosi spettacoli. “Nel fuoco”, di Giuseppe Massa, è uno spettacolo dedicato a Noureddine Adnane, ambulante palermitano di origine marocchina, che si è tolto la vita dandosi fuoco. Un racconto lirico per immagini in cui a parlare è solo il corpo, un corpo libero che brucia e brucia anche le parole e racconta senza narrazione. L’attore Maziar Firouzi, dà verità alla perfomance, con il suo corpo che si offre e brucia, con il suo sguardo che si punta sul pubblico come ad accusarlo, investendolo di responsabilità. “La madre dei ragazzi” di Lucia Sardo, è centrato sulla figura di Felicia Impastato, personaggio che l’attrice ha anche recitato al cinema nella pellicola “I cento passi” di Marco Tullio Giordana. Uno spettacolo-narrazione, con immagini di repertorio, che ripercorre la vita della madre di Peppino Impastato che tutta la vita ha lottato con le sue armi di donna semplice contro la mafia. Roberto Latini/Fortebraccio Teatro con il suo “Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi)” tratto da Ovidio, è sicuramente l’ospite più rinomato sul panorama teatrale. L’opera presentata è un episodio di un progetto più complesso ancora in fase di elaborazione, di cui si apprezza la libertà creativa dell’autore, ma meno la chiarezza compositiva che rende il senso estremamente sfuggente e labile. Caratteristica dello 106 spettacolo è la capacità di sfruttare sapientemente la maestosa scenografia naturale offerta dalle scalinate del Monte di Pietà. Un’odissea allucinata di clown o troppo tristi o troppo allegri, o troppo chiassosi o troppo silenziosi, che, con nasi rossi e scarpe sproporzionate, parrucche variopinte e microfoni infiorati, vagano sulla scena come ombre, con i corpi contratti, deformi, senza parole, senza grazia. Raminghi alla deriva del mondo, cercano un qualche modo di essere su e giù per quella scala che sembra il labirinto di Minosse. Animali che ciondolano e abbaiano, in disequilibrio tra un’inesatta follia e materialità metafisiche, rappresentano il tema del perdersi e della ricerca di sé stessi, di quei fili, reali ed immaginari, che ci legano a quello che davvero siamo: l’identità non conta nulla, conta solo il fatto di potersi trasformare. Pecca dello spettacolo è investire lo spettatore di un’eccessiva responsabilità di decodifica, in una drammaturgia mobile ed evanescente fino all’eccesso, fino alla perdita di senso. Ma forse è proprio in questo rifiuto per le forme fisse, compiute, confezionate, in questa iper-ricercata indefinizione, nello scarto dell’idea totemica dell’identità (perchè l’identità non è statica, ma fluisce, si modifica sommando persone a persone, forme a forme) forse è proprio qui, dicevamo, che si racchiude il significato dell’uomo come essere in divenire e un’idea del teatro che è sempre fatto di senso anche quando lo travalica. A chiudere l’intera manifestazione, lo spettacolo musicale “Anime Migranti” del cantautore siciliano Mario Incudine (uno dei musicisti più rappresentativi della world music) e Moni Ovadia, che, dopo il successo al teatro Greco di Siracusa con Le supplici per l’Inda, affrontano nuovamente insieme il dramma della migrazione. I canti della Sicilia “che ha visto partire e ora vede arrivare”, quelli popolari del mediterraneo, e della tradizione sefardita, brani di Erri De Luca e Buttitta , le storie di tante madri cui dà fiato ed energia l’attrice Annalisa Canfora, i cunti di Mario Incudine, come quello della strage di Marcinelle, di tutto questo è fatto questo viaggio in musica e parole che avvicina, in un rovesciamento di prospettiva, le storie dei migranti siciliani verso il Nord Europa o l’America a quelle degli sbarchi di tanti uomini che cercano nell’Europa il loro futuro e il loro destino. Sabirfest ha rappresentato quindi un luogo aperto, dove lingue diverse creano un alfabeto comune, luoghi fisici e luoghi metafisici si incrociano per raccontare e realizzare un possibile modello di convivenza. Su quel “Mare Mediterraneo”, letteralmente mare che media le terre, su cui ben tre continenti si affacciano, su quel mare europeo, africano, mediorientale, su quel mare che non è un mare, ma un susseguirsi di mari, sul Mediterraneo può nascere un modello di civiltà disseminate le une sulle altre. La Sicilia può diventare così uno straordinario laboratorio dell’integrazione delle differenze in cui si verifichi il miracolo dialettico grazie al quale una differenza non fa più la differenza, ma il segno dell’unità. * Critico teatrale e studiosa di teatro Abstract SABIR, MIXED RACE FESTIVAL orders are not boundary lines, but a space in which opposites touch and contaminate. In Messina, at the festival “Sabirfest - Mediterranean culture and citizenship”, the Mediterranean identity is revealed and reinvented, starting from a geographical space that turns into a metaphysical meeting place. Through theatrical performances, concerts, book presentations, meetings and debates, Sicily, the heart of the Mediterranean sea - European, African and Middle Eastern sea - has the chance to become an extraordinary workshop for the integration of differences. B Recensioni Libri EDIZIONI ANORDEST UN MANIFESTO PER UNA RIVOLUZIONE DELLA SCUOLA L’ultimo libro e l’insegnamento di Remo Rostagno di Claudio Facchinelli* S pesso, osservare la figura, l’espressione del volto di un autore aiuta a comprendere meglio la sua opera. Credo che ciò valga per Dante, l’Alfieri, il Foscolo; anche per entrare nel criptico, sconcertante universo di Beckett. Si parva licet componere magnis, quel che di malizioso, quasi infantile, che l’ultra settantenne Remo Rostagno ha conservato nello sguardo, è una porta che ti fa esplorare con ancor maggiore gusto le pagine della sua ultima pubblicazione: Manifesto per una rivoluzione della scuola. (Edizioni Anordest, 2014). La scelta di un linguaggio colloquiale, spigliato, a tratti quasi goliardico, con cui restituisce al lettore schegge di saggezza pedagogica, ben si accorda con la sua figura minuta, vivace, incline all’understatement o, per usare un’espressione più consona alla sua identità piemontese, al principio, caro a Norberto Bobbio: “Esageruma nen!” (non esageriamo). Saggezza pedagogica, ho detto: perché lui ha tutte le carte in regola per essere un pedagogista, ma pur avendo insegnato in scuole di ogni ordine e grado, fino all’università, Remo è ciò che di più lontano si possa identificare con un cattedratico, perché il suo lavoro si è svolto – per così dire – in trincea. Semmai, se lo vogliamo chiamare pedagogista, è opportuno aggiungere a quella qualifica il vecchio, glorioso aggettivo “militante”. Dopo una carriera che lo ha visto protagonista in diversi ambiti teatrali, dall’animazione degli anni settanta, all’attività di drammaturgo (basta pensare a Kohlhaas che, con Marco Baliani, ha superato il traguardo di mille repliche), Remo Rostagno, ormai nonno, osserva ed annota cosa combinano a scuola i suoi nipotini. Da questi appunti prende forma un libro del quale non è facile definire il genere: non saggio, non autobiografia, ma forse ambedue le cose. Il testo, come premesso dall’autore, si compone di tre parti: un’ecografia della scuola italiana; un manifesto per cambiarla radicalmente; un epilogo. Ma alla fine di ogni capitoletto troviamo, in corsivo, delle brevi notazioni che, a prima vista, sembrerebbero del tutto estranee alla trattazione. Rostagno le chiama “respiri di memoria”. Sono, almeno inizialmente, dei flash su una stagione che sembra remota, ma nella quale non si stenta a riconoscere gli ultimi anni della guerra e quelli immediatamente successivi; anche il paesaggio è identificabile: è il primo tratto della valle del Chisone, subito oltre Pinerolo. Sembrano frammenti di una fiaba, soffusi di poesia, ma sono materiati di terricola realtà, quella che Remo ha vissuto nella sua infanzia. Ma, a mano a mano che si procede nella lettura, quelle memorie si avvicinano all’oggi, si popolano di personaggi noti, senza perdere il loro colore fiabesco, come nell’incontro con Marco Baliani nel ruolo di contastorie, o la lettura, in una notte trascorsa in un treno, della Lettera a una professoressa, di Don Milani. Lo stesso priore di Barbiana, come Danilo Dolci, sono i referenti pedagogici ed etici dichiarati di Remo Rostagno ma, ancorché non citata, ci metterei vicino anche Emma Catelnuovo, la grande didatta della “matematica con le mani sporche”. La struttura composita del libro ricorda Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, di Robert Pirsig (un testo che sarebbe da adottare in tutte le scuole superiori) dove, in modo analogo, all’elemento autobiografico si sovrappongono considerazioni teoriche e filosofiche. A infilare tutte le perle pedagogiche – e non soltanto – che costellano il Manifesto, si costruirebbe una collana lunga chilometri: tanto vale leggersi il libro. Mi limiterei a sottolineare un filo rosso che percorre ogni singolo capitolo: il gioco, come modalità di apprendimento, di crescita, di esplorazione ed appropriazione della realtà; assieme a questo, un altro concetto che troppo spesso abbiamo pudore di nominare: la felicità. Visioni utopiche? Può darsi. Ma è con la fede nelle utopie che il mondo cammina e, qualche volta, progredisce. * Scrittore e critico teatrale La pubblicazione della recensione è condivisa con il sito www.agitateatro.it Abstract MANIFESTO FOR SCHOOL’S REVOLUTION he mischievous, nearly childish look of seventy years old Remo Rostagno helps the reader for a better grasp of his last work: Manifesto per una rivoluzione della scuola (Manifesto for School’s revolution). In an easy, informal language, he offers pearls of pedagogical wisdom, collected during a life spent teaching in any school’s levels, at the university and also as a playwright and director. Retired, observing and noting down what his grandsons do in school, he has written a book that is neither an essay nor an autobiography (or maybe both), daring also to talk about a modern taboo: happiness T teatridellediversità 107 Recensioni Libri TEATRONATURA IL TEATRO NEL PAESAGGIO DI SISTA BRAMINI Il denso volume racconta e rilancia la ricerca di O Thiasos TeatroNatura a partire dal recente spettacolo tratto da La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio nell’ambito del Progetto “Mila di Codra” di Michele Pascarella* Q ualsiasi benché minima considerazione sul lavoro di O Thiasos TeatroNatura deve partire, credo, dal pieno riconoscimento del «bisogno che talvolta gli uomini sentono di stabilire un nuovo e intimo rapporto con i propri simili», per dirla con Peter Brook (1): è da questa ineludibile necessità che si origina la minuziosa attenzione allo spazio teatrale-naturale posta in essere dal gruppo fondato e guidato da Sista Bramini più di venticinque anni fa. Essa si inserisce in un filone pienamente novecentesco volto a considerare lo spazio teatrale non come contenitore neutro ma come «entità drammaturgicamente attiva» (2) , con l’obiettivo di «trasformare lo spazio da un dato a priori immutabile in un problema drammaturgico da affrontare e risolvere diversamente di volta in volta, all’interno del processo creativo e compositivo della messa in scena» (3) (è ciò che intende Fabrizio Cruciani quando definisce lo spazio teatrale «un problema e non un dato» (4), se non sbaglio). Questo fecondo ribaltamento di prospettiva è uno dei topoi dell’appassionata e rigorosa ricerca teatrale, letteraria, filosofica, estetica e antropologica che Sista Bramini porta avanti assieme ai suoi compagni (o forse sarebbe più corretto dire “le sue compagne”, giacché l’ensemble è da sempre costituito in prevalenza da donne). O Thiasos ibrida pervicacemente prospettive (e dunque mondi) affatto diver- 108 si: una modalità che il testo curato da Maia Giacobbe Borelli [Spoleto (Pg), Editoria & Spettacolo, 2015, pagg. 294, euro 20] intelligentemente rispecchia. Il libro racconta la vicenda del gruppo a partire da Mila di Codra, spettacolo itinerante in luoghi naturali con drammaturgia originale di Dacia Maraini ispirata a La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio, debuttato a Gioia dei Marsi nel 2013 (centocinquantenario della nascita del Vate). Aperto da una breve e partecipe prefazione di Maraini, il testo è diviso in quattro sezioni. La prima, Le riflessioni, raccoglie densi interventi storico-teorici della curatrice Maia Giacobbe Borelli, di Roberta Gandolfi, di Luciano Mariti e di Fabrizio Magnani. Particolarmente fertile pare il proponimento di Gandolfi di ricostruire una genealogia di O Thiasos TeatroNatura: partendo da Lady Archibald Campbell e Edward William Godwin (che «crearono i Pastoral Players, con i quali ambientarono suggestivi spettacoli nei boschi di Coombe, vicino a Londra») arriva fino a Pina Bausch, passando da Isadora Duncan, Rudolf Laban, Virginia Woolf e tanti altri. La seconda sezione, Le immagini, spazia dai Pastoral Players a Mila di Codra, quasi a costituire una traccia visiva della suddetta genealogia in fieri. La terza parte dà voce agli artisti che materialmente portano avanti la ricerca: Sista Bramini innanzi tutto, e poi Camilla Dell’Agnola (con il luminoso racconto della propria esperienza artistica a partire dai piedi: «Vera fuga con i piedi veri, vero caldo, vero affanno, veri inseguitori da tutte le parti e vera entrata in un luogo-casa in cui sta accadendo qualcosa d’importante, di sacro che implacabilmente viene interrotto da me-Mila»), Sonia Montanaro, e poi Jacopo Franceschet, Valentina Turrini, Veronica Pavani, Luca Paglia, Carla Taglietti, Azzurra Lochi e Gabriele Di Camillo. Questa sezione si chiude con una sorprendente conversazione tra Piera Degli Esposti (già interprete de La figlia di Iorio nel 1973), Camilla Dell’Agnola, Sista Bramini e Maia Giacobbe Borelli. Il libro termina con una appendice contenente un breve testo sui canti utilizzati in Mila di Codra, un carteggio tra Bramini e Maraini, la teatrografia di O Thiasos e alcuni doverosi ringraziamenti. La varietà di sguardi non è certamente segno di comodo sincretismo: a leggere questo libro viene piuttosto in mente Luigi Ghirri quando in Niente di antico sotto il sole, suo testo-chiave del 1988, descrivendo il significato del fotografare parla di «rinnovare lo stupore di fronte al mondo»: arte come allenamento (e al contempo invito) alla meraviglia. Aprire gli occhi. E dire grazie, almeno. * Studioso di arti performative Note (1) Peter Brook, Il punto in movimento 1946- 1987, Milano, Ubulibri, 1988, p. 133. (2) Marco De Marinis, In cerca dell’attore – Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni, 2000, p. 31. (3) Marco De Marinis, In cerca dell’attore, cit., p. 44. (4) Fabrizio Cruciani, Lo spazio del teatro, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 9. Abstract “TEATRONATURA”. THEATRE IN THE LANDSCAPE OF SISTA BRAMINI he book presents the work of OThiasos TeatroNatura, starting from the recent show Mila di Codra, the latest result of a passionate and rigorous theatrical, philosophical, and anthropological research that Sista Bramini has been pursuing for over twenty five years. The book is divided into four sections: the first one collects historical and theoretical inventions, the second is a collection of various images, the third part gives voice to the artists who actually carry out the research, featuring a conversation between Piera Degli Esposti, Camilla Dell’Agnola, Sista Bramini and Maia Giacobbe Borelli.The fourth and final part is an appendix containing a short text about the songs used in Mila di Codra, among other materials. T Recensioni Libri GLI EBREI DI FERRARA UN’OPERA RITROVATA DURANTE UN TRASLOCO Una ricostruzione storica dalle origini fino al 1943 di Valeria Ottolenghi* Cimitero ebraico di Ferrara “E venne il 25 luglio col colpo di Stato Badoglio e il popolo credette senz’altro all’abrogazione di tutte le leggi razziali: ma così non era”: è questo l’inizio dell’ultimo breve frammento storico-narrativo, il 421, della coinvolgente, colta e d’immediata lettura, “Storia degli ebrei di Ferrara dalle origini al 1943” di Silvio Magrini, edito da Salmone Belforte & C, Livorno, 2015. Un’opera ritrovata, come spiega, nella veloce prefazione, Andrea Pesaro - nipote dell’autore, curatore del volume - durante un trasloco, “in tre cartelle di cartone, con fogli dattiloscritti su carta sottile tenuti insieme da fermagli metallici, fittamente annotati e corretti con una scrittura minutissima a penna e matita”: ai dati di una vita intensa - docente di elettromagnetismo all’Università di Bologna, attivo nel condurre l’azienda agricola, Presidente della Comunità Ebraica di Ferrara proprio nel periodo più tormentato e angosciante, gli ebrei emarginati, resi dei paria, perseguitati per razza - si aggiungono, con estrema discrezione, i ricordi personali, di famiglia, il nonno teatridellediversità 109 Recensioni Libri 110 Silvio Magrini, nato a Ferrara nel 1881, riservato, schivo, amante dello studio, generoso. Morto ad Auschwitz. E tutta la storia - quella di un popolo desideroso di radicarsi e sempre pronto all’esilio nella città di Ferrara che va intrecciandosi alla Storia maggiore, con gruppi che giungono da terre perseguitate, mentre muta il favore (più frequente: il grado di disprezzo, derisione e odio) dei potenti, signori e papi - svela una sua tragica ironia: perché il Magrini sembra convinto, raccontando degli eventi più lontani, che ci sarebbe stato un tempo migliore. Anzi: lui sapeva! L’illuminismo, la rivoluzione francese, Napoleone infine, la caduta dei muri che circondavano i ghetti, una diffusa tolleranza, un comune sentimento di cittadinanza che era - se non ancora di tutti - certo di molti. Eccellente dunque l’idea di porre in apertura alcune righe del testamento di Silvio Magrini scritto in occasione della sua partenza come volontario nella guerra 15/18: chiede scusa alla famiglia per la sua scelta “ma come Ebreo, figlio di quella generazione che subì le umiliazioni del Ghetto, ho il sacro dovere di partecipare alla lotta per quegli ideali che già diedero la libertà agli Ebrei Italiani”. La voglia di riscatto mescolato a un sentimento di riconoscenza per una nazione, una patria comune. In guerra per l’Italia, lui, Silvio Magrini, che sarebbe morto ad Auschwitz. Intelligente, funzionale la struttura del testo suddiviso in paragrafi numerati di diversa lunghezza e contenuto: si passa da una breve sintesi di un momento storico a una considerazione problematica, da una citazione - in corsivo tratta dalla ricerca di altro autore (funzionale la bibliografia al termine) alla presentazione di un particolare personaggio, da un resoconto cronachistico all’illustrazione della situazione urbanistica della città, un insieme denso di dati, informazioni, analisi, tra editti e leggi, motivi religiosi e politici, e così via, uno scorrere fluente di brani che, senza troppe spiegazioni, fanno nascere, con estrema naturalezza, collegamenti, parallelismi, creando sfondi di guerre e persecuzioni, di paure e nuove aspirazioni, tra battesimi forzati e assimilazioni per scelta. Una sorta di speciale viaggio nel tempo - Magrini cita Wells - le parole come guida: “gli Ebrei sono a Ferrara antichi come la cattedrale e forse più che il castello”. Interessanti le ipotesi sui nomi delle vie, la Prima Parte dedicata “dalle origini al 1598”. Il legame con il denaro, “ebreo come sinonimo di banchiere...né nobiltà, né plebe”. Del resto difficile dedicarsi ad altre professioni: “persino come strazzaroli non li volevano”. Ma non c’è mai vittimismo. Limpido lo sguardo dello storico, una speciale ricerca di oggettività nell’esposizione. Sempre. Anche con le leggi razziali vissute in prima persona, quando il male antico sembrava tornare. Senza sapere ancora dell’orrore più grande, a cui Silvio Magrini non sarebbe sopravvissuto: Auschwitz. Non avrebbe creduto il Magrini che si sarebbe potuto tornare non solo indietro nel tempo - dopo aver conosciuto costumi civili, stessa patria e valori d’apertura democratica - ma essere risucchiati nella peggiore delle visioni, dolore assoluto, nel cuore dell’Europa più colta. Nella storia narrata molti i soprusi, il segno giallo di riconoscimento, i soldi sborsati in forma ricattatoria, le angherie d’ogni sorta (specie con Ferrara sotto il papato), i battesimi imposti a bambini allontanati quindi dalla famiglia d’origine - ma ci sono anche lauree, riconoscimenti, eruditi confronti dialettici. E la Ferrara degli Estensi era diventata città accogliente per gli ebrei e i marrani in fuga da Spagna e Portogallo, mentre intorno - anche a Padova e Venezia - bastava poco per incendiare gli animi contro gli ebrei, uccisi quindi senza veri processi (la colpa? gli infanticidi rituali!). Il Concilio di Trento: i dogmi come guida. Il lungo terremoto: di chi la colpa se non degli ebrei? Così risponde il Duca Alfonso d’Este al Papa: i danni maggiori a chiese e conventi, nessuna sinagoga è crollata. Ed è quell’Alfonso che, senza figli, chiede di poter nominare il suo successore. Invano. Ferrara sarebbe rientrata tra le terre della Chiesa, doloroso destino per gli ebrei che abitavano la città. Con la seconda parte - dal 1598 al 1782 - si vede la nascita del ghetto con nuove limitazioni e imposizioni, in verità spesso non molto diverse da quelle che avrebbe conosciuto lo stesso Magrini secoli più tardi proprio a Ferrara, gli ebrei “gente stigmatizzata, uomini degradati”, ma questa parte, come l’ultima - dal 1782 al 1943 - pagine sempre di notevole interesse, non svela molte differenze, se non per la concretezza degli aneddoti, dei nomi, delle situazioni specifiche, dalle condizioni degli ebrei in Europa, specie sotto lo stato pontificio. Storia particolare e universale ad un tempo. La vita culturale del ghetto (ma limitata spesso anche la consultazione dei testi sacri), depredati i marmi del cimitero ebraico, l’obbligo di assistere alla predica in cattedrale. Sì: esperienza diffusa. Come la speranza della convivenza. Poter essere cittadini con gli stessi diritti. Ma con il fascismo Silvio Magrini dovrà documentare come anche i giornali scrivessero di quella maledetta stirpe israelitica. A Ferrara è dell’ottobre del ’41 la distruzione del tempio di rito tedesco. La catastrofe incalza. “E venne il 25 luglio col colpo di Stato Badoglio...”. Non c’è grido di dolore ma solo analisi oggettiva. Ma è tempo della fine. Bravo Andrea Pesaro a pubblicare queste pagine, un libro di storia, una consapevole, tersa testimonianza. Fino al silenzio del viaggio verso Auschwitz. * Critico teatrale e letterario Abstract AN OPERA FINDED DURING A MOVE ecently, during a move, Andrea Pesaro (grandson of the author and editor of the work), found this “History of the Jews in Ferrara since its beginnings to 1943” by Silvio Magrini. Wisely, Pesaro decided to publish it. The book is divided into sections of different sizes, testimonials, anecdotes, documents. It ends with Badoglio, with the illusion of an abrogation of the racial laws. Magrini probably had the feeling that, at certain point, the ancient persecutions were finished, with the Jews finally considered as equal citizens. But everything comes back. The greatest horror in the heart of most cultured Europe. Silvio Magrini died in Auschwitz. R L’INFINITO PRIMA DI NOI Sulle tracce di Archimede tra pagine nascoste e fantasmi in Malatestiana di David Aguzzi* L a Biblioteca di Novello Malatesta – La prima biblioteca civica italiana, donata alla città di Cesena da Novello Malatesta nel 1465. La Malatestiana di Cesena, primo bene italiano a essere stato inserito nel registro delle Memorie del Mondo dell’Unesco (2005), è considerata uno degli esempi più significativi di biblioteca quattrocentesca italiana. Unisce allo straordinario retaggio storico del complesso monumentale-documentario un deciso impegno alla soddisfazione delle esigenze attuali di lettura e di informazione della città. La Malatestiana ha preservato nei secoli la sua immagine immutata: la struttura, l’intonaco, la pavimentazione, gli arredamenti e i codici si presentano a noi, oggi, come ai visitatori di cinque secoli fa. In questo speciale e unico “palcoscenico” per la regia di Gabriele Marchesini, nel 2013, anno del 2300-esimo compleanno di Archimede è stato rappresentato dalla Compagnia Teatro Perché di Bologna lo spettacolo “L’infinito prima di noi. Sulle tracce di Archimede tra pagine nascoste e fantasmi in Malatestiana”. Per l’occasione è stato realizzato un libro con allegato un DVD edito da Carrocci Editore, con la registrazione di questa rappresentazione, realizzata, per l’appunto, nella splendida ambientazione della Biblioteca Malatestiana il 13 dicembre 2013. L’ambientazione nelle solenni e maestose sale della Biblioteca ci conduce in un percorso storico che ci viene presentato dal Custode Narratore e da personaggi dell’epoca: Federico Commandino, Violante da Montefeltro Malatesta, Leonardo da Vinci, Cesare Borgia “Il Valentino”, Lucrezia Borgia, Ramiro dell’Orco, Caterina Sforza, Archimede, Soldato romano. Accompagna la narrazione solo una figura dei giorni nostri, affidata ad una Studentessa/Ricercatrice, Azzurra. Le misteriose evocazioni di questo viaggio teatrale sono introdotte con un omaggio al poeta che più di altri ha cantato l’essenza di ogni biblioteca, facendone la cattedrale dell’uomo. “I tartari vennero dal Nord su piccoli criniti puledri;/annientarono gli eserciti/che il Figlio del Cielo aveva inviati per punire la loro empietà,/ eressero piramidi di fuoco e tagliarono gole,/ uccisero il malvagio con il giusto,/uccisero lo schiavo incatenato che vigila la porta,/ conobbero le donne, le scordarono/e andarono oltre, al Sud,/innocenti come animali da preda,/ crudeli come coltelli./Nell’alba dubitosa/il padre di mio padre salvò i libri./ Sono qui nella torre dove giaccio/e ricordano i giorni stati d’altri,/gli stranieri, gli antichi./ Mancano i giorni ai miei occhi. I palchetti son alti, non ci arrivano i miei anni./Leghe di polvere e sonno cingono la torre./A che ingannarmi?/La verità è che non seppi mai leggere,/ma mi consolo pensando/che immaginato e passato sono tutt’uno/per un uomo che è stato/e contempla quel che fu la città/e toma ora ad essere deserto”. Tratto da Il Guardiano dei libri di J. L. Borges. Un tentativo di rappresentazione fuori dagli schemi e canoni teatrali dove soprattutto la vera protagonista dello spettacolo è l’antica Biblioteca. Un viaggio nella scienza, nella cultura, nella storia e inevitabilmente nelle vicende umane. Archimede è uno degli scienziati più importanti dell’antichità: per aver contribuito alla soluzione di molte questioni di geometria e di misura, per aver studiato i solidi, per il suo metodo, per il concetto di infinito in atto (un’anticipazione del calcolo infinitesimale in forma geometrica, ripreso anche nello spettacolo dal personaggio “Custode”). Un atmosfera teatrale insolita ma suggestiva, una perfomance dove qua e là si ha l’impressione di riascoltare la voce dei personaggi vissuti oltre cinque secoli pri- Recensioni Libri CESENA ma, alternandosi con parole eterne, a volte crude e violente, a volte delicate e poetiche.. Una guida che aiuta anche noi contemporanei ed i giovani in particolare ad assaporare tempi, luoghi e spazi lontani, storie di vita. Uno spettacolo che riporta in vita il secolo delle meraviglie italiane, il Rinascimento, anche in chiave emotiva ed intima. “Pagine nascoste e fantasmi in Malatestiana come a dire che straordinari personaggi storici –artisti, scienziati e umanisti – si sarebbero avvicendati in una fascinosa sequenza di brillanti resoconti ciascuno del proprio ruolo di ospite ideale di un celeberrimo ambiente di tale grandiosità così sobriamente maestosa” (Carlo Pedretti). Perché le vicende dei protagonisti che hanno segnato la storia del ‘500 si scoprono umani nella rappresentazione teatrale con tratti tipici rinascimentali, l’amore, le passioni, i tradimenti, le vite violente e sanguinarie. In assenza di una vera “scenografia” allestita, ma avvolti nelle sale della Biblioteca, è la voce e la narrazione degli interpreti la vera protagonista che ricostruisce un mondo lontano, ma vicino a noi. L’infinito prima di noi. Sulle tracce di Archimede tra pagine nascoste e fantasmi in Malatestiana di Gabriele Marchesini. Progetto di Franco Pollini, da un’idea di Vincenzo Fano in collaborazione con Franco Pollini e Gino Tarozzi. * Sociologo e critico letterario Abstract THE INFINITE BEFORE US Malatesta Library in Cesena is the first Italian public library, donated to the city by Novello Malatesta in 1465. This special and unique “stage” for director Gabriele Marchesini , in 2013 , the year of 2300-th birthday of Archimedes was represented by theTeatro PerchèCompany of Bologna the show “Infinity before us . On the trail of Archimedes, including hidden pages and ghosts in Malatesta “. A theatrical atmosphere unusual but charming, a performance where here and there you get the impression of a recording of the voice of the people who lived five centuries before, alternating with eternal words, sometimes crude and violent, sometimes delicate and poetic. teatridellediversità 111 Recensioni Libri PADOVA IFIGENIA. VARIAZIONI SUL MITO Euripide, Racine, Goethe e Ritsos nel loro confrontarsi con il mito. Da qui le varianti registrate da Caterina Barone attraverso il tempo e le diverse forme artistiche di Sandro Avanzo* T utto ciò che avreste voluto sapere sulla figlia minore di Agamennone e non avete mai avuto occasione o modo di approfondire. Ecco che ora il ricchissimo libro curato da Caterina Barone arriva a informare e ad analizzare il mito e le sue varianti attraverso il tempo e le molteplici espressioni artistiche. Il volume si compone di tre sezioni distinte, tutte di assoluto rilievo: una focale introduzione di 44 pagine redatta dalla curatrice, il confronto tra cinque fondamentali testi teatrali (i due imprescindibili di Euripide seguiti da Racine, Goethe e Ritsos) a dimostrazione di come l’umanità e la storia si siano confrontati con i temi e i simboli di Ifigenia nel corso dei 20 secoli dalla Grecia classica alla nostra contemporaneità e infine un’appendice dedicata agli autori e alle bibliografie delle loro tragedie (il valore di questa sola sezione per ricchezza e 112 puntualità delle informazioni prodotte supera di anni luce il modesto costo di €10 del libro). Nel suo saggio introduttivo (perché, anche se breve, di un vero saggio si tratta) Caterina Barone prende in esame gli accadimenti della mitologia, dal sacrificio della vergine in Aulide per permettere la partenza delle navi verso Troia all’incontro in Tauride col fratello Oreste, a partire dal contrasto temporale presente nei due differenti momenti della vita di Ifigenia e dal fatto che Euripide compose per primo il secondo dei due episodi e che l’antefatto arrivò ad anni di distanza dall’altro. Da lì con un linguaggio estremamente fluido, quasi da indagine gialla, estremamente colto e insieme altrettanto accessibile, la ricerca si sviluppa in senso cronologico e va a toccare gli autori che hanno ripensato e raccontato la storia di Ifigenia in funzione della fruizione letteraria e soprattutto della rappresentazione in palcoscenico. Incontriamo così decine e decine di varianti e di autori da Ovidio a Ilse Langner e Vico Faggi, passando per le drammaturgie di Jean Rotrou e Ippolito Pindemonte, e di ciascuna vengono fornite le coordinate e le contestualizzazioni storiche e culturali. In parallelo sono prese in esame le versioni di Ifigenia relative al palcoscenico musicale e della lirica con una particolare attenzione al ‘700 di Scarlatti, Gluck e Jommelli ma anche alla danza del ‘900 di Pina Bausch (e a tal proposito è interessante sottolineare come la Barone non si limiti a dar nota delle sole caratteristiche e specifiche della drammaturgia dei libretti, ma riferisca le sue notazioni con un occhio costantemente rivolto alla messa in scena concreta degli spettacoli). Nell’excursus complessivo non tralascia neppure le arti figurative di cui vien dato conto in relazione alle principali raffigurazioni pittoriche della figura della vergine sacrificata tanto sulla ceramica greca a.C. come negli affreschi del Tiepolo, per non dire della riappropriazione del mito da parte della cinematografia del ‘900 in film come quello di Cacoyannis. La parte più corposa della (come s’è visto) ricchissima introduzione viene infine riservata all’analisi singola dei cinque testi drammatici proposti. Di questi viene data una lettura non solo delle diverse variazioni più o meno fondamentali nelle vicende, ma vi si affrontano le motivazioni delle differenti psicologie della protagonista nel mentre che si fornisce un ricco inquadramento storico, politico e filosofico. Sempre con l’occhio che tiene presente la messa in scena effettuale dello spettacolo, l’occhio di chi il teatro lo frequenta e lo ama e non si limita solo al suo studio accademico. In sintesi: non un libro destinato solo agli studenti universitari, ma a tutti gli appassionati frequentatori dei teatro. * Critico teatrale Abstract IPHIGENIA. MYTH’S VARIATIONS. andro Avanzo reviews the book of Caterina Barone (Edizioni Marsilio, 2014). Iphigenia is the first victim of a war not yet begun, the epic Trojan war. In the book, different interpretations of the myth - by Euripides, Racine, Goethe and Ritsos – are reported. S ARRIVEDERCI, NINA! Alcune riflessioni dopo la lettura (in russo e a Mosca!) del libro “Досвиданья, Нина/ Dosvidan’ja, Nina! di Claudio Facchinelli di Monica Santoro* Recensioni Libri MOSCA Q uando incontro un italiano così inspiegabilmente innamorato (come me) della Russia, mi stupiscono sempre due cose: il fatto che l’amore per la Russia sia inspiegabile e la sensazione comune di uno spazio vastissimo dell’anima di questo popolo. Anche se io e Claudio non ci siamo ancora incontrati di persona, abbiamo parlato di questo Paese e della suo animo grande. Il suo libro, è un omaggio a quest’anima: nasce da un’attenta osservazione di un particolare che nasconde una storia e che porta lontano nello spazio, nel tempo, persino al dialogo con un Maestro di letteratura e di vita, Anton Pavlovič Čechov. Allora: questa storia nasce da un addio scritto sulla pietra. Da un nome - Nina - e da poche lettere di saluto scritte in latino e in cirillico su una lapide. Si tratta di una giovane donna, scomparsa a fine Ottocento. E quel saluto inconsueto lasciatole per l’eternità. Sarà forse per il desiderio di non far sparire la memoria di chi ha lasciato questa terra nel flusso del tempo, sarà quello strano saluto, fatto sta che Claudio, narratore in prima persona di questa storia-inchiesta, decide di scoprirne di più. Nina, che in realtà si chiama Anna, è contemporanea di Čechov e si chiama come la protagonista de “Il gabbiano”. Forse anche questo è un nesso importante e forse lo stesso Čechov passeggiando a San Michele ha visto la lapide e forse... Forse... Claudio decide di andare ancora più a fondo e comincia una ricerca che lo porta da Venezia in Russia. È una ricerca appassionante, che l’autore compie tra archivi, testimonianze, incontri. Lì dove non bastano le notizie, Claudio fantastica. La fantasia lo porta a collegare episodi e personaggi. All’inizio si tratta dello stesso Anton Pavlovič poi, man mano che i tasselli del mosaico si aggiungono, appaiono altre figure, come i genitori di Nina, il Generale Sluckij, e la madre Ljudmila, poi due misteriosi italiani... Il mistero si infittisce, non manca un colpo di scena finale e una conclusione che non conclude, anzi lascia aperto un quesito: ma perché cercare così a ritroso dentro questa storia? Forse è il desiderio di non lasciare un’altra storia nell’oblio... o forse è un atto d’amore. È bellissimo concludere parlando di questo sentimento. Alla fine del testo Claudio ci svela – fantasticando – chi, probabilmente, Nina abbia amato nella sua breve vita. Poi fa quasi lui stesso una dichiarazione d’amore verso la storia che ha appena raccontato. Penso che anche il dialogo di Claudio con la letteratura russa e con i suoi personaggi sia un atto d’amore. Quello inspiegabile, di cui ho parlato prima. Bellissimo viaggiare con la fantasia e conservare la memoria di storie anche lontane o inverosimili. E scavare in esse per sentirsi ancora di più innamorati di terre lontane e meravigliose, spesso visitate anche solo con il cuore. * Attrice presso il Teatro Masterskaja di Mosca RICONOSCIMENTI IN RUSSIA E BIELORUSSIA Il libro qui recensito, per una situazione paradossale – ma neppure tanto – non ha ancora trovato un editore italiano ma, nella traduzione russa di Michail Talalaj, è stato pubblicato a Mosca, per i tipi della casa editrice Staraja Basmannaja. In questa veste è stato presentato a Sankt-Peterburg nell’ottobre 2014 presso la casa museo Dostoevskij e la biblioteca civica Majakovskij; nel febbraio 2015 a Minsk, presso lo stand dell’ambasciata d’Italia della locale fiera internazionale del libro; nel gennaio 2015, in occasione della festa di Santa Tat’jana, presso la Camera di Commercio Italo-Russa di Milano; nel settembre 2015, all’Istituto italiano di cultura di Mosca e, a Omsk, nella Siberia occidentale, al museo Dostoevskij. Il 1° maggio 2016, sul canale Kultura della radio di stato bielorussa, l’attore Viktor Šuleško ne ha iniziato la lettura integrale, per la trasmissione “Biblioteca senza confini”, a cura di Marija Dubrovskaja. teatridellediversità 113 Segnalazioni editoriali DANZA E RINASCIMENTO L’EFFIMERO E L’ETERNO Cultura coreica e “buone maniere” nella società di corte del XV secolo Alessandro Pontremoli (Ephemeria editrice) N el corso del Quattrocento, la corte, complice la cultura umanistica, elabora una nuova forma del vivere e un gusto raffinato in tutte le arti. Accanto allo studio della retorica e della grammatica latina, l’aristocrazia pratica la musica e la danza. I nobili imparano la civiltà e le buone maniere per divenire uomini di potere e colti mecenati. All’interno dei vari momenti della festa rinascimentale e della vita di palazzo, la danza costituisce uno dei modi di espressione della cultura della corte, grazie alle funzioni di intrattenimento sociale e di forma spettacolare. L’affermarsi della figura di un maestro, nel contempo un teorico e un pratico del ballo, e l’introduzione del trattato di danza fanno sì che il ballare assurga al rango di vera e propria arte, diventando così una componente indispensabile della formazione dei prìncipi e degli aristocratici e un requisito fondamentale del cortigiano. Questo studio si propone di indagare processi di memorizzazione di corpi in azione, analizzare e studiare testi, manufatti e monumenti come traccia di una rete di condizioni, ricostruire le relazioni che qualificano la percezione e la presenza di azioni simboliche in un contesto. Macerata, 2011, pag 176 ISBN 978-8-887852-12-7 Premio Pirandello 2015 IL TEATRO DEI LUOGHI Lo spettacolo generato dalla realtà Fabrizio Crisafulli (Edizioni Art Digiland) F abrizio Crisafulli analizza in questo libro i caratteri e le modalità operative di quel particolare tipo di ricerca che ha chiamato “teatro dei luoghi”, a oltre vent’anni dalla sua prima formulazione. Un lavoro nel quale il “luogo” e l’insieme delle relazioni che lo costituiscono vengono assunti dall’autore come matrici della propria creazione teatrale, in tutti i suoi aspetti: la drammaturgia, il corpo, la parola, lo spazio, la luce, il suono, la tecnica. La necessità di questa ricerca, il suo riportare l’attenzione sui luoghi, le realtà locali, la prossimità, si è riaffermata nel corso degli anni per l’accrescersi delle questioni legate allo sviluppo mediatico, alla perdita di contatto della vita quotidiana con i luoghi, e per le criticità che le forme di comunicazione a distanza e i social network creano, accanto a nuove opportunità, sul piano delle relazioni umane e dei modi di sentire lo spazio. Anche l’uso delle nuove tecnologie, nel lavoro di Crisafulli, deriva da un ascolto profondo dei siti. Il volume fa definitivamente luce sul fatto che il “teatro dei luoghi” – nell’uso comune a volte inteso (e frainteso) semplicemente come teatro che si svolge fuori dagli edifici teatrali – non è definito dallo spazio dove si realizza lo spettacolo, ma dall’idea stessa di “luogo” e dal modo specifico in cui il lavoro si relaziona al sito, in qualsiasi posto si svolga. E descrive, attraverso riflessioni ed esempi concreti, un modo radicalmente nuovo di concepire e fare il teatro. Dublino, 2015, Pag 216 ISBN 978-1-909088-06-1 114 L’esperienza teatrale di Gibellina Valentina Garavaglia (Bulzoni Editore) T rattare di Gibellina significa considerare il senso del tempo, della memoria e della loro azione sia sul presente che sul futuro, e porlo in relazione con la reazione dell’uomo difronte al tema delle rovine o più precisamente a quello delle macerie, conseguenza del terremoto avvenuto tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 che cancellò paesi interi che da secoli sorgevano nella valle del Belice. Da allora, Gibellina, per risollevarsi dalla tragedia, ha attivato un intenso programma di ricostruzione, che ha visto come protagonisti l’arte e il teatro: qui ci sono i ruderi del terremoto che, coperti dal Cretto di Alberto Burri, sono divenuti fra le più imponenti opere europee di Land Art; qui si erge Gibellina Nuova con le sue sculture antiscultoree e le sue architetture urbane; qui sorge il Baglio Di Stefano, sede di prestigiose raccolte di opere d’arte contemporanea; qui, da più di trent’anni, si svolgono le Orestiadi, manifestazione teatrale che ha visto coinvolti centinaia di artisti di fama internazionale. L’esperienza teatrale di Gibellina, unica nel suo genere, rappresenta il modello di un teatro totalizzante, proiezione di un dramma dell’immaginario dove lo spettatore è protagonista partecipe e attivo, poiché la misura della rappresentazione non è più, o non solo, l’attore, ma l’essere umano coinvolto da un evento naturale, che fa da prologo e da epilogo a ogni rappresentazione. Visionaria quanto basta, perché nata all’insegna dei miti e del sogno, Gibellina è una realtà e come tale va studiata, ricostruendone i contorni e cercando ragione negli antefatti. In questa sede si è tentata una lettura ‘globale’ del luogo dal punto di vista teatrale. Il patrimonio plurigenere e pluricodice presente sul territorio è stato, quindi, analizzato in funzione della sua teatralità o, ancor meglio, in funzione del suo rapporto con il teatro. Roma, 2012, pag 404 ISBN 978-88-7870-651-4 Premio Pirandello 2015 CONTESTI TEATRALI UNIVERSITARI Il progetto di residenza artistica RI_nascite ad Officina Giovani Teresa Megale (Edizioni Firenze University Press) I l volume è il rendiconto dell’attività teatrale della Compagnia universitaria e in specie del progetto di residenza artistica Ri_Nascite che, finanziato dal Dipartimento della Gioventù_Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani, realizzato in collaborazione con il Comune di Prato, ha esplorato nuove dinamiche e rinsaldato il rapporto tra l’istituzione universitaria e la città di Prato per il tramite della compagnia universitaria ‘Binario di Scambio’, che proprio agli ex-Macelli debuttò nel 2007. Il libro a più voci raccoglie contributi originali di autori, attori e registi e riflette sull’esperienza collettiva che ha portato ad Officina, spazio nodale per la creatività giovanile, un programma articolato in diverse attività, per ragionare sulla pluralità dei punti di vista, sulle aree di intervento e sugli obiettivi intorno ai quali si sviluppano le possibilità del linguaggio teatrale oggi. La residenza artistica della compagnia teatrale ‘Binario di Scambio’, estesa tra ottobre 2012 e marzo 2013, ha prodotto quattro nuove produzioni della giovane formazione universitaria, un cartellone di incontri, e tre laboratori di carattere più strettamente formativo, dai quali sono scaturite occasioni sicure di crescita e di consapevolezza collettiva. Premio nazionale ‘Cultura di gestione’ di Federculture. Firenze, 2014, Pag 224 ISBN 978-88-6655-602-2 A conclusione del primo anno di attività del programma della Residenza Multidisciplinare Arte Transitiva a cura di Stalker Teatro, dal 3 al 7 febbraio 2016 presso Palazzo Ferrero a Biella, si è svolta l’iniziativa “Per un teatro contemporanei: interazione sociale e performing art a confronto” con un fitto programma di spettacoli, confronti teorici, seminari di approfondimento e dibattiti fra artisti, esperti e pubblico coinvolto. Dopo l’accoglienza di mercoledì 3 febbraio, si è tenuto lo spettacolo “Adesso che hai scelto”, scritto, diretto ed interpretato da Mimmo Sorrentino: esperienza irripetibile in quanto scelta e indirizzata dallo stesso pubblico, che ne decide conseguentemente anche il finale. Nei giorni successivi si è entrati nel vivo del “Laboratorio d’idee” con seminari teorici e dibattiti e interventi di una serie di docenti e critici invitati a partecipare al programma: Alessandro Pontremoli, docente di discipline dello spettacolo presso il DAMS dell’Università di Torino; Vito Minoia, esperto di teatro educativo inclusivo presso il Dipartimento di Scienze dell’Uomo dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”; Giulia Innnocenti Malini, esperta in teatro sociale in collaborazione con le Università di Milano e di Torino; Claudio Bernardi, professore associato in discipline teatrali presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano e Brescia; Gerardo Guccini, docente di drammaturgia, teorie e tecniche della composizione drammatica all’Università di Bologna; Irene Salza dottoranda in Studi Teatrali presso l’Universidad Autonoma di Barcellona; Roberta Gandolfi, ricercatrice e docente presso l’Università degli Studi di Parma; Armando Petrini, professore associato in Discipline dello Spettacolo, presso l’Università degli studi di Torino; Raimondo Guarino professore ordinario di discipline dello spettacolo all’Università Roma Tre. La Rivista “Catarsi-teatri delle diversità” documenterà lo sviluppo del lavoro prodotto dalla Residenza “Arte Transitiva”. (www. stalkerteatro.net) Cartoceto e Urbania (Pesaro e Urbino) A Cartoceto proseguiranno dal 24 al 29 luglio 2016 le attività della Scuola Sperimentale di Teatro di Animazione Sociale a cura del Teatro Universitario Aenigma. Due i corsi di formazione intensivi in programma. Il primo dal titolo “Il teatro delle ombre” condotto dal Maestro burattinaio Mariano Dolci, rivolto a studenti universitari, educatori, operatori sociali, artisti interessati a formarsi nell’utilizzo di tecniche derivanti dalla tradizione del Teatro di Animazione (burattini, marionette, ombre) in campo educativo e nel sociale. Il secondo dal titolo “Dove le immagini si muovono in silenzio” sarà condotto dal regista Francesco Gigliotti, ideatore del metodo di ricerca basato su “Il teatro d’arte plastica e dinamica” (maggiori informazioni e indicazioni sulle modalità di iscrizione sono pubblicate sul sito www.teatroaenigma.it - informazioni possono essere richieste scrivendo a: [email protected]). A Urbania, inoltre, il 26 e 27 novembre 2016, si terrà la XVII edizione del Convegno Internazionale della Rivista “CatarsiTeatri delle diversità”. (informazioni saranno aggiornate sul sito www.teatridellediversita.it) (Associazione Nazionale Critici di Teatro) e la Rivista “CatarsiTeatri delle diversità”. Considerando che è giunto il tempo per approfondire ricerche, osservazioni, confronti che vadano in profondità con il contributo plurale di critici e studiosi, responsabili di compagnie, tutti coloro che vivono per scelta dentro le innumerevoli, variegatissime, multiformi “diversità”. L’incontro promosso in collaborazione con la Regione Trentino Alto Adige ed altri enti – ha costituito una prima occasione (a cui ne seguiranno altre, ancora a Bolzano e in altre sedi, a partire dal XVII Convegno di Urbania del 26 e 27 novembre prossimi) per affrontare in modo problematico le differenti questioni intorno al tema del rapporto tra Teatro e Disabilità (o Diversa abilità) e le questioni etiche ed estetiche aperte da questa interazione. La tavola rotonda, ha previsto, oltre ad una più approfondita conoscenza del lavoro sviluppato da Viganò a Bolzano con la visione dello spettacolo “Personaggi”, un dibattito che ha coinvolto altri protagonisti del settore come Alessandro Garzella (Animali Celesti Teatro d’arte civile), Fulvio De Nigris (Associazione “Gli amici di Luca”), Piero Ristagno (Néon Teatro), Mimmo Sorrentino (Teatro Incontro). Giulio Baffi (confermato presidente dell’ANCT in un’assemblea che si è tenuta proprio a Bolzano) ha stimolato i diversi colleghi presenti a riflettere su alcuni temi chiave proposti: la cultura come promotrice di progetti di inclusione sociale; il teatro dei diversi o la diversità del teatro?; teatro sociale e “sistema teatro”. La Rivista “Catarsi-Teatri delle diversità” potrà essere riferimento principale per la pubblicazione di documenti, proposte, progetti, interviste, dialoghi. (www.teatrolaribalta.it) Filo diretto Biella Torino Dal 26 maggio al primo giugno 2016 si è tenuto Caravan Next Torino, un progetto artistico e culturale che fa parte dell’omonimo progetto europeo basato sulla collaborazione tra artisti professionisti e comunità locali e che dà vita a un network di cittadini, teatri e organizzazioni culturali. Il progetto interessa 16 Paesi Europei tra cui l’Italia e nello specifico Torino, scelta come “base” nazionale. Caravan Next ha preso il via a settembre 2015 e proseguirà fino a giugno 2016. Il tema artistico scelto per Torino dall’équipe di SCT Centre, promotore insieme all’Odin Teatret del progetto europeo, è Saving The Beauty, traendo spunto dalla celebre frase di Dostoevsky “La bellezza salverà il mondo”. ll progetto è realizzato in due luoghi della città: Distretto Sociale Barolo e Barriera di Milano/progetto S-Nodi (Via Baltea). I due luoghi, collocati rispettivamente nelle circoscrizioni 7 e 6, pur nella diversità di storia e di protagonisti, hanno in comune una attenzione al sociale attraverso processi innovativi di formazione della persona. SCT Centre, con un team di 25 artisti, attori, scenografi, musicisti e danzatori e secondo la metodologia europea di Teatro Sociale e di Comunità ideata dall’SCT Centre proprio a Torino, ha attivato in entrambi i luoghi percorsi creativi che coinvolgono i diversi protagonisti: un modo per dare valore alle loro storie e alle loro azioni, aiutandoli a costruire relazioni e occasioni di partecipazione. Nello stesso tempo rappresenta un’opportunità importante per raccontare alla città la vita e la quotidianità di quei luoghi. (www.caravanext.eu) Bolzano Il 22 maggio, con una tavola rotonda al T.RAUM, sede dell’Accademia Arte della Diversità (Teatro La Ribalta diretto da Antonio Viganò) si è aperta una riflessione dal titolo “Il teatro e la norma della diversità” in collaborazione con l’ANCT teatridellediversità 115 rivista europea TEATRI rivista europea teatri teatri 63 Giugno 2013 - € 8,00 Franca Rame Carcere e affettività La Corea di Kim ki Duk Nabucco -Teatri delle diversità - trimestrale - anno 18 - ISSN 1594-3496 64/65 Dicembre 2013 - € 12,00 Garcia Lorca Dramma sacro a Bali Il Butō XIV Convegno Tdd -Teatri delle diversità - trimestrale - anno 18 - ISSN 1594-3496 66/67 Agosto 2014, € 15,00 Antonio Neiwiller Pier Paolo Pasolini Le Albe a New York X IUTA Congress a Liegi Maestri e allievi: rivista europea Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU) rivista europea TEATRI TEATRI delle diversità Abbonamento annuo Italia € 30,00 Estero € 60,00 Sostenitore € 100,00 da versare, specificando la causale e l’indirizzo al quale si vuole ricevere la rivista, sul conto corrente postale numero 92384346 o tramite bonifico su Conto Banco Posta, Codice IBAN IT21Y0760113300000092384346, Codice BIC/SWIFT BPPIITRRXXX, intestati a Associazione Culturale “AENIGMA”, Via Giancarlo De Carlo n° 5, 61029 Urbino, tel. 339 1333907 – fax c/o 0721 893035 e.mail: [email protected] sito internet: www.teatridellediversita.it Dario Fo, Franca Rame e la lingua italiana negli USA di Daniele Abbado Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU) delle diversità delle diversità Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU) rivista europea Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU) delle diversità delle diversità A fianco le copertine delle ultime quattro riviste pubblicate. Tra gli argomenti trattati finora, inchieste monotematiche su: teatro e disabilità, teatro e carcere, teatro e follia, teatro ed etnie, teatro e varie altre forme di disagio sociale. Il costo dei numeri arretrati è di € 15,00 (singoli), € 20,00 (doppi). 68/69 Maggio 2015, € 15,00 Howard Gardner Eduardo De Filippo Ludwik Flaszen Le Maschere dei Sartori È possibile richiedere l’intera collana dei numeri arretrati dal dal n° 1 al n° 68/69 al costo promozionale di € 380,00. Si accettano anche donazioni in forma di erogazioni liberali, utilizzando gli stessi riferimenti di Conto Banco Posta sopra indicati. SUPPLEMENTO TEATRO IN CARCERE Carlo Formigoni -Teatri delle diversità - trimestrale - anno 19 - ISSN 1594-3496 -Teatri delle diversità - trimestrale - anno 20 - ISSN 1594-3496 In promozione per gli abbonati con lo sconto del 20% (€ 9,60 anziché € 12,00) Il volume: La grandezza di vivere Néon teatro A.A.V.V. con fotografie di Jessica Hauf (Edizioni Nuove Catarsi, Urbino, 2014, ppg 80) 116 Il tuo 5x1000 per Teatri delle Diversità 5x1000 codice fiscale 91006880412 Aiutaci a sostenere una rivista indipendente