1 Il valore della differenza nella consulenza filosofica.

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Il valore della differenza nella consulenza filosofica.
di Nicoletta Poli
La mia risposta al carteggio – pubblicato sul numero di Phronesis n.18 - a cura di
Moreno Montanari e Neri Pollastri “I confini della consulenza” sarà articolata e
dettagliata come gli autori della stessa si meritano.
In premessa non posso che ringraziare Moreno Montanari per avere ivi sostenuto la
convinzione che “Vite controvento. La consulenza filosofica individuale., Ipoc Path of Culture,
2012”, rappresenti “… finalmente un libro che non si limita a proclamare che cosa la consulenza
filosofica dovrebbe essere, ma che ce ne offre una meticolosa, appassionata e ispirata testimonianza”. E
ancora: “..Si tratta di testimonianze di una professionista che sa bene come intende procedere, sa
dimostrarsi flessibile, capace di accoglienza e sensibilità sia rispetto ai valori che rispetto ai tempi dei suoi
interlocutori, opera con il consultante per facilitarne la promozione di una maggiore consapevolezza e
“saggezza” e si dimostra capace di guida, nel senso indiretto che abbiamo chiarito prima. La sua
testimonianza è un utile documento dal quale si possono imparare procedure e modalità, che può essere
utile per chiarire meglio - fosse anche per contrapposizione- le specificità del proprio approccio procedurale
di consulenza filosofica che non deve ambire a essere necessariamente innovativo, inedito o differente dagli
altri ma che non può rinunciare a essere espressione profonda del proprio modo di essere e del proprio
percorso di formazione – filosofico e consulenzial-filosofico”.
Una pratica irriducibile a schemi rigidi e confini pre-definiti
E da qui desidero iniziare per rispondere punto per punto a Neri Pollastri che - in più
parti del carteggio con Moreno Montanari – invece – mi accusa di non fare consulenza
filosofica, ma qualcos’altro... Non solo. Mi attribuisce altresì intenzioni che non ho e non
ho mai avuto nel fare consulenza filosofica. Certamente la mia sensibilità e le modalità
filosofiche della mia proposta (peraltro sempre in itinere) possono discostarsi da quelle
di altri, ma è forse la consulenza filosofica una via unica? Esiste forse un manuale che
possa racchiuderne non solo epistemologia e metodi, nonché finalità e obiettivi? Ma
come possiamo stabilire un limite, un confine pre-definito oltre il quale la consulenza
filosofica non è più tale? Non sarebbe forse come “sabotarne” ricchezza, vitalità e
potenzialità? Questa pratica – ancora assai giovane – è, a mio modesto parere,
irriducibile ad una serie di schemi rigidi. Sarebbe come rapinarla, ridurla in pezzi. Essa è
patrimonio dell’umanità e deve avvalersi di questo patrimonio che è infinito.
Avere a cuore gli altri stimolando l’auto-indagine filosofica
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Mi sono chiesta tante volte se una consulenza filosofica possa risolvere l’infelicità di un
individuo, se possa colmare delle mancanze, se possa ricondurre l’individuo alla pura
gioia di vivere. Vivo questo lavoro come una professione che necessita di vocazione: un
modo di vivere avendo a cuore gli altri, cercando sempre di mettere in condizione la
persona di guadagnare sufficiente autonomia da abbandonare la consulenza. E che male
c’è ad avere a cuore gli altri? Certamente (lo scrivo più volte nel mio libro) l’autoindagine filosofica è un obiettivo prioritario, essendo, essa un processo in cui la persona
va oltre le proprie preoccupazioni egocentriche e il proprio particulare per aprirsi al
mondo, alla comprensione delle basi della nostra ed altrui esistenza. Stiamo parlando di
auto-indagine filosofica, ossia di una fase che – a mio parere – è prodromica ad una
conclusione del percorso in cui la persona riesce ad autodeterminarsi nel mondo,
consapevolizzandolo e aprendo al suo sé la consapevolezza di fare parte di una
meravigliosa rete dell’umanità.
L’approdo verso un sé collettivo e aperto al patrimonio dell’umanità
L’approdo verso un sé, alla fine, aperto al mondo, un sé che si sostanzia delle precomprensioni e dei patrimoni socio-culturali di altri sé. Un sé collettivo, una mente ed
un cuore collettivi.
Ma Neri Pollastri liquida questo concetto del sé, che emerge spesso nel mio libro, in
maniera sbrigativa – pur ammettendo che “sarebbe necessaria una riflessione più ampia per
prendere una posizione critica forte”, sostenendo che io farcirei il mio libro di sé , “conoscenza
di sé”, “mio”, “auto”, un libro nel quale consulente e consultante non parlano mai del mondo, della
società, di politica, ma invece quasi esclusivamente dei dolori soggettivi e della realizzazione delle proprie
personali aspettative”. Ciò non è corretto, per non dire che l’osservazione nasconde una
lettura assai superficiale dei casi presentati nel mio libro. Perché Neri Pollastri non cita il
caso di Alessia Wrumel? La domanda che le pongo ad un certo punto del percorso porta
dritto al mondo, alla società, alla politica: Cito: “Insomma, può il dialogo modificare e far
superare quelle contraddizioni che soffocano talvolta la crescita, lo sviluppo in senso positivo della propria
vita? Si possono cambiare alcune credenze ed abitudini? Alessia mi ha guardata severamente, poi ha
replicato: “Nella mia terra, la Calabria, c’è la N’drangheta e dei gruppi di persone che soffocano il
pensiero prima che nasca. Me ne sono andata per questo, per essere libera.”. Le domando se fuggire è
sempre la soluzione migliore e le parlo di Lèvinas, il quale sosteneva che occorre l’insonnia, perché con il
sonno della ragione e con la creazione degli alibi o delle buone intenzioni si possono realizzare le peggiori
nefandezze, anche quando si cerca di aiutare. Senza la propria messa in gioco, nessun aiuto è possibile”.
La Wrumel – alla fine della consulenza – dopo avere fatto una faticosa auto-indagine
filosofica - prende in mano la sua vita e corre verso altre prospettive, altre dimensioni.
Cambia la sua filosofia di vita, lo ammette lei stessa quando parla del suo sistema di
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valori. E queste riflessioni sono frutto di un stimolo datoci da Wittgenstein e condiviso:
“ ..il lavoro sulla filosofia – come spesso il lavoro in architettura – è in verità più un lavoro su stessi, sul
proprio modo di pensare, sul proprio modo di vedere le cose e su ciò che ci aspettiamo da esse.”1.
E sempre a Neri Pollastri pare poco filosofico e avulso dal mondo parlare di etica e
morale. Cito sempre dal caso di Alessia Wrumel: “Abbiamo poi iniziato a parlare di valori e di
etica. Guardiamo insieme l’analisi semantica della parola etica. La definizione – trovata da Alessia in
Wikipedia – è la seguente: “ L'etica può anche essere definita come la ricerca di uno o più criteri che
consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri. Essa pretende
inoltre una base razionale, quindi non emotiva, dell'atteggiamento assunto, non riducibile a slanci
solidaristici o amorevoli di tipo irrazionale. In questo senso, essa pone una cornice di riferimento, dei
canoni e dei confini entro cui la libertà umana si può estendere ed esprimere. In questa accezione ristretta
viene spesso considerata sinonimo di filosofia morale: in quest'ottica essa ha come oggetto i valori morali
che determinano il comportamento dell'uomo”. Alessia ha subito osservato che è una definizione che la
soddisfa e che le piace perché è razionale e poi “.. anche la libertà deve avere dei limiti se siamo in una
società!”.
Ma è davvero così poco filosofico e fuori dal mondo il mio modo di fare consulenza?
Ma andiamo avanti. Cito sempre il caso Alessia Wrumel: “ Ho provato, sempre in questo
incontro, a farla riflettere anche sulla parola “valore”: “Una volta che si stabilisce che il valore è, come
dicevano gli stoici, oggetto delle scelte morali, i valori possono essere oggetto di conoscenza oppure sono
qualcosa di assoluto e definitivo come, per esempio, la verità? Alessia ci ha pensato un po’, poi non ha
dubbi: “No, il valore non si può mettere in discussione”. Le ho chiesto di farmi qualche esempio.
Alessia: “Il senso della famiglia, la fiducia, la fedeltà, la lealtà sono tutti valori che non si possono
mettere in discussione”. Ho provato anche a farla ragionare sulla felicità: “ La felicità è un valore
oppure è una attività razionale?” Alessia:” La felicità non si può raggiungere con la razionalità, ma
non so se è un valore”. Ho osservato che esiste la teoria del valore di Makiguchi, che forse ci potrà
chiarire meglio questo aspetto. Per questo filosofo e pedagogista giapponese, la filosofia era incentrata
sulla teoria della creazione del valore. Nella sua maggiore opera, Soka Kyoikugaku Taikei, “creazione
di valore” il valore è parte integrante di ciò che significa essere uomini. …. Alessia sembra avere
compreso che, secondo questo filosofo, il valore è relativo. Le rispondo: “Beh, secondo questo filosofo, se la
felicità è la realizzazione delle proprie potenzialità nel processo di creazione di valore, essa diventa un
valore. Insomma, una volta compresa la propria missione in questa nostra vita, possiamo essere felici
creando valore. Facendo, per esempio, volontariato, scoprendo qualcosa di inestimabile dal punto di vista
scientifico, facendo felici i nostri simili, lavorando per la pace nel mondo…Che ne pensa?” Alessia: “Mi
piacerebbe molto, ma non so se sono in grado. Forse sono troppo dura con gli altri e anche egoista. Ci
devo riflettere”.
1
L. Wittgenstein, La filosofia, Donzelli Editore, Roma, 2006, p.5.
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Osare parlare di speranza
Ma davvero nelle mie consulenza non parlerei dunque del mondo e della società e dei
valori ad essa correlati? Non mi pare proprio. E perché Neri Pollastri non cita il caso di
Laura? Cito dal suddetto caso: “ Il percorso di Laura è stato, in realtà, un percorso di apertura
verso il mondo, di accettazione e razionalizzazione del dolore, di osservazione della propria mente e delle
proprie emozioni. Abbiamo parlato di tutto, abbiamo scritto lettere, congetturato, abbiamo fatto esercizi
filosofici, ci siamo perfino rivisti in modelli di autolesionismo esasperati, ben riuscendo a prendere le
distanze. E’ stato metaforicamente un cammino per la riappropriazione della propria speranza di vivere.
Sembra a pennello una riflessione di S. Schuster2:” La pratica filosofica, attraverso la sua indagine
aperta mentalmente e aperta nelle conclusioni sulle domande e i problemi della gente, offre prima di tutto
e soprattutto speranza”.
Perché non dobbiamo parlare di speranza, perché non ci dobbiamo occupare di fare
riflettere le persone su questo? La pratica filosofica offre la speranza che è possibile
ottenere molto di più, non mettendo confini al pensiero e alla ricerca di senso, evitando
un eccessivo attaccamento all’io. Sostengo e ribadisco nel mio libro: “[…]l’eccessivo
attaccamento al concetto dell’io sarebbe la fonte principale della sofferenza umana. L'auto- indagine
filosofica è un processo in cui la persona va oltre le proprie preoccupazioni egocentriche ed il proprio
particulare per aprirsi alla comprensione delle basi del nostro essere. Spesso i miei sforzi, come già detto, si
concentrano nel cercare di condurre il soggetto fuori da sé, suggerendo di aprirsi al mondo, soprattutto
quando noto che si avvita troppo su se stesso. Questa sorta di avvitamento mi piace immaginarlo come
una sorta di “pensiero circolare”, una sorta di collo stretto di bottiglia in cui ci si è infilati e da cui non si
esce più, ossia una strettoia di pensiero, di credenze e pre-giudizi, che, alimentati dalla sofferenza, non ci
fa sentire liberi e, dunque, ci rende il dolore insostenibile”.
E filosofare sulla propria filosofia di vita
Secondo Neri Pollastri io non farei riflettere le persone sulla loro filosofia di vita. E
allora che dire del caso di Ivana? Cito: “Ma Epitteto e gli stoici già una volta l’avevano aiutata e,
questa volta, dopo qualche incontro all’insegna della disperazione e del pessimismo, Ivana ha iniziato –
a detta sua – a fare “l’incazzata reattiva” e, un giorno, ha esordito dicendo: “Voglio cambiare
direzione. Ho lasciato anche lui. Non ho più paura di stare sola. Voglio essere me stessa sempre, voglio
avere il controllo sulle cose, questa è la mia filosofia di vita.”. Così abbiamo rivisitato il vademecum di
sopravvivenza con le seguenti linee-guida: a) non auto-punirsi; b) mai essere debole, né con se stessi né con
2
S. Schuster, La pratica filosofica, Milano, Apogeo,2006,p-219.
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gli altri; c) controllare la mia emotività; d) non ingigantire le cose; e) perdonarsi; f) allargare i propri
orizzonti e fare qualcosa per gli altri; g) con le persone sentirsi una parte attiva.
Quindi è evidente che la sottoscritta parli ampiamente della filosofia di vita e delle
problematiche inerenti il mondo, il sociale, la politica. Esiste evidentemente un lavoro di
analisi critica sulla visione del mondo del consultante. Quel lavoro, più volte richiamato
da tutti i teorici della pratica e, talvolta, definito anche ricerca dei presupposti di
significato e valore, critica epistemologica, ricerca di ampiezza e profondità di pensiero,
esiste con molta chiarezza in tutti i casi descritti come esplosione di riflessioni del
consultante indotto dal filosofo consulente. Ma certamente lo faccio a mio modo. Le
persone che vengono in consulenza soffrono e frequentemente hanno il problema che
non si conoscono , che non sanno quali sono i loro profondi fabbisogni, le competenze
per la vita (techne peri ton bion …) per vivere meglio. E allora è obbligatoria questa tappa
del sé in cui la persona riflette su di se stesso, sul proprio dolore, momenti in cui la
persona arranca nell’interpretare il suo malessere. Ebbene sì. E il filosofo pazientemente
li ascolta, offre loro modo di rivisitare delle situazioni coi tempi opportuni e necessari.
Ma forse non abbiamo a che fare con delle persone? In quasi tutti i casi che descrivo nel
mio libro, le persone, dopo questo travaglio, imparano a pensare diversamente, a capire
come pensano e come devono gestire la loro vita in maniera più chiara e, spesso, anche
in maniera più etica. Molti di loro vanno verso il mondo, fanno volontariato. Perché
Neri Pollastri non cita questi casi e si sofferma solo sul caso Terry?
Il caso Terry
Sì, Neri Pollastri pare avere letto di questo libro solo il caso Terry e di averlo letto – a
mio modesto parere – anche in maniera sbrigativa, traendone conclusioni non corrette.
Reputo che egli traligni per emozione e pregiudizi quando sostiene che io compirei
un’azione esplicitamente “proibita” in consulenza filosofica: la concreta indicazione
operativa, il suggerimento alleviante la sofferenza, in una parola: il consiglio. Ma allora
leggiamo bene alcuni passi tratti dal caso Terry: “Di qui in poi Terry ha iniziato a chiedermi
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esplicitamente aiuto per riuscire a tirare fuori tutti i segreti che le pesano da anni e di cui non riesce a
parlare con nessuno. Come posso fare, mi aiuta? Solo lei può farlo, tiri fuori i suoi segreti e vedrà che
riuscirà a risolvere le sue pene da sola, le ho risposto”. Le avrei forse dato un consiglio? No,
esercito solo l’arte della maieutica e lo faccio sempre e ostinatamente con tutti i miei
consultanti. Ma prendiamo un altro caso. Cito dal caso di Paola: “Grazie all'oikeiosis, secondo
gli stoici, gli esseri viventi possono volare, nuotare, muoversi senza che nessuno l'abbia mai insegnato
loro. In esso sono dunque racchiuse la forza, la salute, la bellezza, le funzionalità del corpo, così come
anche l'amore per la propria specie e nell'uomo per la sua comunità. Talvolta la mia tentazione, come
consulente filosofico, è quella di voler vedere il consultante sempre andare oltre, non accontentandosi mai.
Ma peccherei di arroganza e poi non è questo il mio compito di filosofo, perché la vita non è la mia, è
quella del consultante, che ha imparato un metodo e va avanti coi suoi tempi e i suoi obiettivi”. Ecco: la
vita non è la mia e la sottoscritta non dà consigli. Mi citi Neri Pollastri una sola frase del
mio libro in cui io darei dei consigli ed in cui io sarei ancorata al mio punto di vista. Cito
dal caso Rosanna: “Co-pensare con Rosanna è stato complesso, soprattutto all’inizio, quando non si
riusciva a trovare un pertugio in cui infiltrarsi per iniziare un dialogo davvero filosofico, autentico. Quello
che io chiamo il dialogo filosofico ossia una sorta di fiume in piena, in cui si attraversano mille concetti e
altrettanti mille o poco più poi si scartano o poi si riprendono per tutt’altra finalità… Sembrava di
trovarsi in un tunnel stretto e buio, in cui Rosanna – sempre volutamente contro vento - stava attendendo
di morire o di essere finita da qualcuno. Dicevo che ci vuole un forte impegno per rapportarsi con la
propria verità: è difficile, arduo, faticoso. Ma Rosanna è riuscita step by step nell’intento di mettersi in
gioco, di fidarsi di quel gioco, che, a volte rifiutava, a volte la faceva arrabbiare, a volte la rivoltava come
un calzino….E quante volte ha messo alla prova anche me.. Insomma, abbiamo cercato insieme di
conoscere la nostra anima. Tramite Rosanna anch’io ho dovuto affrontare i miei lati oscuri, i miei timori,
la mia inquietudine di fronte alla malattia e alla morte”.
La filosofia che si occupa profondamente delle persone non è in contraddizione
con una filosofia che si occupa dei pensieri delle stesse persone
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Ben osserva nel carteggio Moreno Montanari: “[…]ciò che dici della filosofia, della consulenza
filosofica e del filosofare, non è tanto connotativo di queste pratiche quanto, piuttosto, del tuo modo di
intenderle. Il tuo punto di vista, non coincide con il mio..”. E condivido pienamente: Neri
Pollastri ha una visione della consulenza filosofica a dir poco rigida, tutta sua, che
pretende di erigere ad “universale”. Una consulenza filosofica che non dovrebbe
occuparsi profondamente delle persone. Egli infatti afferma: “[…]io non ho mai pensato di
prendermi a cuore la persona (cosa che non mi pare spetti a un filosofo: la filosofia si occupa di pensieri,
non di persone, anche se deve tener conto anche delle persone che pensano quei pensieri), né tantomeno
della sua crescita (cosa, di nuovo, che spetta propriamente a un educatore, figura professionale già
esistente e con la quale da filosofo non vorrei andare a competere), ma solo della questione problematica e
del modo in cui questa viene pensata ed è pensabile…Io, da filosofo, ho il dovere deontologico di
occuparmi solo di pensieri e del modo in cui essi corrispondono al mondo in cui vive colui che li pensa (e
in tale mondo includo anche le sue stesse azioni e reazioni a quanto lo circonda). Forse questa differenza
ha la sua importanza per spiegare anche come mai le mie consulenze non sforino quasi mai - e non per
definizione, statuto od obbligo, ma fenomenologicamente - la decina di ore/incontri”.
Qui emergono intanto due questioni delle quali vorrei discutere. Prima questione: ma
siamo proprio sicuri che noi facciamo i consulenti filosofici senza avere a cuore le
persone? Personalmente mi è sempre parso che lo sforzo immane di impegnarsi nel
pensiero filosofico sia piuttosto stupido se non aiuta a vivere una vita serena e dignitosa.
La filosofia pratica, pur essendo filosofia e avendo, dunque, di mira la verità, sarebbe
inutile, secondo Aristotele, se, oltre a determinare concettualmente cosa siano il bene e la
virtù, non aiutasse anche a conseguire una vita buona e virtuosa. Che problema c’è se ci
si preoccupa della realizzazione della persona? Mi pare inoltre_ una contraddizione
pensare che la filosofia che si occupa profondamente delle persone sia in contraddizione
e/o non in sintonia con una filosofia che si occupa dei pensieri delle stesse persone. Ma
secondo Neri Pollastri come faremmo tutti quanti noi filosofi consulenti a comunicare e
a parlare in maniera autentica con una persona se non fossimo attenti al loro linguaggio e
al mondo in cui pensano? E gli esercizi di riflessione che propongo ( tra cui anche
l’analisi semantica-etimologica di una parola) a cosa servirebbero se non a co-pensare
insieme al consultante sul suo modo di pensare e di viversi i suoi pensieri?
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E poi non penso che le persone che vanno a chiedere una consulenza a Neri Pollastri
siano così diverse dalle mie. Talvolta, quando una persona inizia questo percorso non sa
dove andrà, spinto com’è dal disagio, dalla paura di non uscire più dal suo circolo
vizioso. Spesso va da un consulente filosofico perché si sente come il nulla, un nulla fitto
e inesistente, come una rivoltella nella gola. La sfida è migliorare la propria persona fino
a sostituire quella rivoltella puntata metaforicamente nella gola con uno scopo nella vita
che possa liberare la persona da pertugi angusti e oscuri per realizzare una vita più piena.
Come insegnavano gli stoici e Marco Aurelio che sognavano e sentivano una vita in
accordo con il logos cosmico. E legato al monito: “Mantieniti semplice, buono, puro,
serio, senza orpelli, amico del giusto, pio, benevolo, affettuoso, tenace nel compiere il
tuo dovere. Lotta per rimanere tale quale la filosofia ha voluto renderti (Marco Aurelio, “
I Pensieri”, VI 30,1-3).” Il soggetto stesso trova il suo senso nel riconciliarsi con la sua
propria vita auto-trascendendosi. Questo fanno i miei consultanti chi più chi meno, con
più o meno fatica. Il sostegno che si offre ai consultanti consiste nel dare loro degli
strumenti per interpretare il senso della propria vita in modo più consono alla loro
personalità, non argomentando di temi filosofici, ma aiutando filosoficamente a riflettere
sulle proprie scelte, su questioni di diversa natura e sul significato dei propri stati di
disagio. Tali strumenti e metodi devono diventare un patrimonio del consultante, che da sé - li inventa e li auto-riproduce post consulenza per meglio dialogare con se stesso e
con il mondo. Il filosofo, piuttosto che dare direttamente consigli, sostiene il consultante
in un percorso attraverso cui sarà lui stesso a comprendere come esercitare la sua mente.
In questo modo si può offrire una consulenza non indottrinante, sostenendo la persona
nell’approfondire la propria personale posizione etico-filosofica ed a trasformare il suo
disagio in un’opportunità per trasformare la propria vita in qualcosa di assolutamente
unico, insostituibile. Di usufruire di un momento di totale libertà in cui riprogettarsi,
uscendo da un tunnel esistenziale di convinzioni e pre-giudizi spesso imposte da altri,
opinioni e atteggiamenti cristallizzati, asfittici. Questo dico nel mio libro e questa
filosofia pratico nella consulenza filosofica. Non ho fatto niente altro, nel mio libro, che
avere l’obiettivo di porre il consultante nella condizione di riflettere sui prodotti del
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proprio pensiero, di farli contemplare, sedimentare, confutarli e riprogettarli. Quando
ciò accade, la persona ha buone probabilità di mettere in atto azioni per una migliore
auto-realizzazione e, quindi, per un migliore rapporto con il mondo. È come se i propri
pensieri prendessero forma, vivessero in altro da sé, diventassero autonomi e
camminassero e poi volassero via a comporre l’infinito libero dell’universo: tutti i miei
casi dimostrano che più ci si allontana dal proprio ego (e questo è un processo, a mio
parere, possibile solo quando si ha una buona conoscenza di sé) e più ci si avvicina al
nucleo della vita, a quella rete umana pulsante in cui tutti gli esseri sono indispensabili e
uniti come i pesci con l’acqua. Come in un incessante dialogo con la rete infinita delle
idee che s'intrecciano nella vita, facendoci così scoprire le fibre pulsanti della realtà e della
polis, sentendoci un nodo di un’infinita rete di relazioni reciproche. È la vita virtuosa di
Aristotele che conduce alla eudomonìa, alla felicità. E ciò chi l’ha stimolato se non la
sottoscritta? E avendo cuore i miei consultanti, sì, lo ammetto. E ciò pur occupandomi dei
loro pensieri e della loro filosofia di vita.
I pensieri non sono separati dalla sfera emotiva. L’integrazione emotiva.
Un'altra importante considerazione è relativa alla sorveglianza sulle emozioni del
consultante, considerato che le emozioni sono il quadro indispensabile per la presa di
consapevolezza del percorso e delle mete che si stanno raggiungendo. I pensieri del
consultante non sono separati dalla sua sfera emotiva; dunque, si lavora, oltre che sul
piano dei contenuti, anche sul piano delle emozioni. Sia chiaro che, quando si parla di
emozioni, ci si riferisce sia a quelle del consultante che a quelle del filosofo consulente,
perché anche quest'ultimo è chiamato in causa durante il colloquio, è invitato a mettersi
in discussione, a partecipare, ad auto-sorvegliarsi, senza però dimenticare quella giusta
distanza, frutto di un’alleanza. Quello della consulenza filosofica individuale è, infatti, un
incontro, una speciale “alleanza” di pensiero. Vogliamo chiamarlo contagio emotivo?
Vogliamo chiamarlo pathos? E sia, che male c’è? Questo contagio emotivo è, per così
dire, inevitabile, poiché comprendiamo l’altro per il fatto che ci può anche capitare di
sentire l’altro in noi. ..Magari con quella persona condividiamo le stesse sofferenze che
viviamo o che abbiamo vissuto. Ma tale sorta di contagio emotivo (forse – azzardo Neri Pollastri la chiamerebbe contaminazione inammissibile, mentre personalmente la
titolerei integrazione emotiva) va oltremodo governato con l’epochè che farà sì –
filosoficamente - che quel patrimonio emotivo assurga a materiale esistenziale da trattare,
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reinserendolo nel dialogo, in un processo critico-riflessivo, in cui, certo si co-penserà le
modalità di pensiero del consultante e anche del consulente in un percorso in cui ci si
mette a disposizione della persona senza alcuna intenzione di controllare alcunché. Solo
con l’intenzione di condurlo verso l’auto-indagine filosofica di cui parlavo sopra. Il
dialogo – a volte anche molesto, impertinente, emozionante, dolcissimo – deve
articolarsi al punto che diventa una ricerca comune, un tracciato privo di sensi unici o
divieti di sosta o percorsi obbligati.
La ragione razionale da sola non conduce a risultati di rilievo nella consulenza
filosofica. L’arte della pazienza.
Il dialogo filosofico consiste, dunque, in domande e risposte rivolte alla giustificazione e
all’argomentazione. Saper argomentare significa saper filosofare. Non penso proprio che
la ragione razionale da sola conduca a risultati di rilievo nella consulenza filosofica. Per
ben rispondere alle interrogazioni e ben argomentare ci vuole logos (ragione), anche
ethos ( carattere) e pathos (emozione, passione), come ben argomento nel mio libro. E –
ribadisco – ci vuole pazienza. La consulenza filosofica fa riferimento ad un sapere
filosofico che ha 2.500 anni e si avvale delle esperienze pratiche realizzate da altre
discipline. E’ evidente che, nell’approccio e nel setting, si fa riferimento ad esperienze
maturate dalle psicoterapie umanistiche: “una certa empatia, partecipazione emotiva, il
rispetto assoluto del consultante, l’interazione dialogica e la partecipazione del filosofo,
l’interrogazione costante, il farsi domande... Peraltro, nulla toglie che non si possa
attingere ai saperi della psicologia e di qualsiasi altro sapere, pur elaborandoli attraverso gli
strumenti propri, inimitabili, della filosofia.
E torniamo alla pazienza. Pazienza che non mi pare abbia Neri Polastri nella gestione dei
suoi clienti. Cito: …”Ora, fino a oggi io non sono riuscito a reperire nella letteratura internazionale
nessun caso di consulenza che si sia spinto oltre i venti incontri e nella mia ormai non breve esperienza di
consulente filosofico ho un solo caso durato più di venti incontri, ma si tratta del mio più grosso
fallimento! Direi di più: nella stragrande maggioranza delle mie consulenze quando si arriva a dieci
incontri (o anche ore) si è già compreso quel serviva comprendere, così che di solito il consultante decide di
interrompere la relazione e io ne sono ben contento, perché inizio da un lato ad annoiarmi, dall’altro a
fare l’educatore, lavoro che non mi piace e che non è il mio - faccio infatti il consulente filosofico”.
Insomma, che noia provare a sostenere pazientemente una persona nel suo percorso
evolutivo… E poi ci sarebbe forse una durata standard per la consulenza?
Personalmente non credo. E nemmeno Moreno Montanari che ben gli risponde: “Il
tempo è anche un modo per permettere alla persona di soggiornare più serenamente e criticamente presso i
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propri dubbi, per vagliare le proprie contraddizioni, per provare a capire che cosa determina quella
distanza tra ciò che si crede di aver capito in teoria e ciò che si fa in realtà, che così spesso è al centro
della consulenza filosofica. Prendersi tempo, vincere il principio di prestazione, imparare ad abitare le
domande senza fretta di rispondere, imparare a muoversi e a decidersi nell’incertezza, poter tornare su
quanto si è detto, interpretarlo con sguardo prospettico, poter valutare coerenza e contraddizioni, sviluppi
e continuità, è un lavoro di scavo e di approfondimento che richiede tempo ma permette una
consapevolezza filosofica incarnata, maggiormente testata dalla vita. È un fine al quale miro con le mie
consulenze e che ritengo con franchezza di aver contribuito a promuovere specie in chi discute con me per
più di venti incontri. Se sono l’unico poco conta, non lo considero un merito ma ritengo che non vada
nemmeno considerato per questo un demerito. ( Tra l’altro Achenbach, in un’intervista del 2006 su
Repubblica, alla domanda quanto tempo debba durare una consulenza filosofica risponde che non si può
fissare in anticipo, che di pende da caso a caso, ma che la sua consulenza filosofica più interessante
durava da 26 anni e probabilmente si sarebbe interrotta solo alla morte di uno dei due confilosofanti).
Non ho bisogno di aggiungere altro a tale lucida riflessione.
Per riflettere e far riflettere in consulenza filosofica si può guardare al futuro, al
passato, al presente o a tre secondi fa’
Altra questione: il ruolo del futuro e/o del passato in consulenza filosofica riguardo al
quale - secondo Neri Pollastri – avrei una sorta di ossessione e, non solo , la trasformerei
in una sorta di must pensa positivo. Intanto dove sta scritto che se un filosofo consulente
chiede al consultante se è più importante il futuro o il passato non possa fare una
disamina critica della filosofia di vita della consultante. E perché dobbiamo fare tutti la
stessa domanda? Non dice forse Neri Pollastri che la consulenza filosofica è un’opera
artistica di improvvisazione? Io faccio solo delle domande, interrogo, approfondisco.
Ancora qui egli appare pregiudiziale. Per riflettere e far riflettere, inoltre, si può guardare
al futuro, al passato, al presente o a tre secondi fa’. Cito ad esempio Epitteto:
“Anticipiamo il futuro perché tarda a venire, come per affrettarne il corso, o richiamiamo il passato per
fermarlo, come fosse troppo veloce, così, imprudentemente, ci perdiamo in tempi che non ci appartengono, e
non pensiamo al solo che è nostro, e siamo tanto vani da occuparci di quelli che non sono nulla, fuggendo
senza riflettere il solo che esiste” (Pensieri, 1670 (postumo)”. Questa storia che io sarei
ossessivamente presa da questo principio di ipervalutazione del futuro non è corretta. Si
fermi un attimo a riflettere Neri Pollastri: cosa devo fare come filosofo se non stimolare
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la persona – 9 volte su 10 disperatamente senza progetti - a guardare al futuro? A
pensare che può cambiare nel futuro la sua situazione di sofferenza? E mai , dico mai,
induco nel mio libro la persona a pensare forzatamente positivo come fosse un must. Ha
letto bene Neri Pollastri di cosa parliamo io ed i miei consultanti? Cito dal caso Rosanna:
“Negli incontri successivi, in cui Rosanna ha iniziato a leggere detti testi, ho verificato un significativo
salto di qualità nella sua visione pessimistica della vita, poiché ha cominciato a riflettere sul fatto che non
v’è nulla di ineluttabile, in fondo: “Basta combattere i demoni.”. E quali sono i demoni che tormentano
Rosanna? Il demone principale che Rosanna pensa di dover combattere è – a detta della stessa – “il
fatto di pensare che non merito la serenità…”. Sicché è venuto spontaneo stimolarla a lavorare sulla
definizione del concetto di serenità. Rosanna risponde che è una condizione emotiva di tranquillità e
calma profonda, che dovrebbe portare naturalmente a non avere degli sbalzi emotivi. La faccio riflettere
sul fatto che potrebbe anche essere non una condizione emotiva. Le ribadisco che, in consulenza filosofica,
nulla è dato per scontato e che bisogna praticare sempre il dubbio, avendo, dunque, una visione delle cose
a 360 gradi. Per esempio, il concetto di serenità, per molti filosofi, aveva un significato differente. Per
Aristotele la serenità è un modo di affrontare le cose della vita e non uno stato dell'anima. La felicità la
raggiunge chi ha più virtù e per l'epoca la più alta virtù era la sapienza. Di conseguenza, l'uomo più
felice sarà il sapiente e cioè il filosofo. Plutarco3, per esempio, nel suo trattato dal titolo De tranquillitate
animi, sostiene che la serenità si raggiunga solo con la saggezza e che la saggezza si ottenga tramite la
riflessione, la meditazione, l'osservazione dei precetti morali”. Costringerei forse i miei consultanti
a pensare sempre positivo? E poi come? Sarebbe poco filosofico parlare come ho parlato
con Rosanna? E se nel futuro si spinge la persona a essere un tantino più saggia, questa
saggezza comporta fatica, riflessione, meditazione…Tutt’altro che vuoti ed illusori slogans
o must sul dovere per forza stare bene. E poi mi si permetta una mia considerazione
personale su cosa penso del futuro. Ma cosa ci stiamo a fare in questo mondo se non per
– da “normali” umani mortali – trasmutare in originali defunti immortali? Sono convinta
che la consulenza filosofica, oltre a ricostruire la visione del mondo (e non la
3
Plutarco, De tranquillitate animi - Sulla serenità dell'anima (95) [30]
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dimensione profonda della psiche del consultante), debba avere come suo
riferimento temporale il futuro. Citando Krishnamurti, pensatore indiano vissuto nel
secolo passato, lo stesso Lahav sostiene che dobbiamo liberarci dalle catene del
passato. Fermo restando che è dal problema reale che nasce la riflessione filosofica, che
non si risolve nella pratica astratta e lontana dalla realtà, bensì in un atteggiamento atto
ad agire e intervenire sulle questioni della vita con pazienza: “Quando ho piantato il mio
dolore nella pazienza, esso mi ha dato il frutto della felicità” (Kahlil Gibran). Altro che
must positivo. Questo è semmai il lavoro che faccio coi miei consultanti. Sempre. In
questi anni di attività ho avuto modo di lavorare con molte persone con le quali ho
cercato di stabilire un dialogo autentico. Non sempre esse si sono rivelate da subito
attente e disposte ad una o ad una curiosità profonda nei confronti della propria visione
del mondo. Come ho già avuto modo di dire, la maggior parte delle persone che mi
chiedono una consulenza lo fanno perché sentono che quel “qualcosa di sé che non va” li
fa soffrire e vogliono smettere di soffrire o, almeno, attutire il dolore. Nella maggior parte
dei casi, i soggetti con cui ho dialogato né erano preparati filosoficamente né erano così
interessati alle loro “vicissitudini concettuali” e ad un netto sconvolgimento della loro
visione della vita o ad avere un quadro più ampio del proprio passato, presente e futuro.
Pochi –un po’ più esperti di filosofia o, comunque, molto aperti a lavorare più
astrattamente sul significato della “vita” – si sono approcciati alla consulenza filosofica
avendo l’obiettivo chiaro di volere lavorare sui propri assunti e credenze, con un
approccio trascendente al ragionamento. E altrettanto pochi si sono rivolti a me per
cercare di vivere esplicitamente una vita secondo ragione ossia, una vita – come ho già
detto – secondo i propri desideri e non secondo ed esclusivamente i propri bisogni. La
maggioranza dei miei consultanti o si sono avvicinati, nel peggiore dei casi, con un
atteggiamento completamente arrendevole e speranzoso (“ Sei tu il grande saggio che mi
devi tirare fuori da questo guaio che è la mia vita, io non c’entro più di tanto…Tirati su le
maniche e aiutami!”) o, in casi migliori, con un analisi di sé già abbozzata, ma ancora
lacunosa e, comunque, con una predisposizione d’animo ostile al pensare che sarebbe
importante riconoscere il proprio valore per potere progettare la propria vita in
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profondità (“Vorrei provare a capire perché sto soffrendo così tanto, so che è colpa mia
ma, al tempo stesso, non credo di avere la forza di capirlo..Mi sento impotente, la mia vita
è e sarà sempre un fallimento. Gli altri sono sempre migliori di me.”). Ecco un fil rouge che
li accomuna: la paura degli esseri umani e, quindi, anche di se stessi. E visto che la vita è
pregnante di esseri umani, anche paura della vita stessa. E della sua ricchezza. Il mio
lavoro spesso parte da qui, da questo humus: persone smarrite, persone che si sono
perdute dietro a qualcosa, spesso dietro ad un’ossessione amorosa: magari l’attesa di uno
lontano che non si sa se e quando tornerà. Come potrei non preoccuparmi del loro
futuro? Del fatto che la fine di un evento porta inevitabilmente all’inizio di
qualcos’altro… Che filosofo disumano sarei? Il riscatto, il superamento di un limite,
possono trasformare una persona. Diventa come un’ancora, qualcosa che ci definisce,
qualcosa dal quale ricominciare a costruire. Perché non dovrei sostenere la persona in
questo percorso? Ma con metodo filosofico: mettere in discussione le cose, non
prenderle sempre e solo per l’immediatezza con la quale ci si offrono, cercare di andare
oltre, di voler vedere se e cosa c’è dietro. Apprezzando la vita e mai svalutando
l’umanità. E vedendo per questa umanità un futuro, magari migliore. Si pensi alla
prospettiva di Kierkegaard4 in cui è centrale, accanto alla categoria di esistenza, quella di
futuro. Per questo filosofo la nostra categoria è quella del presente che si proietta nel
futuro, poiché ciascuno di noi esiste come singolo e progetta la propria vita affacciato
sull'avvenire.. Spostando la prospettiva verso il futuro, “il problema” diventa l’aspetto di
una più ampia visione del mondo e della vita. Vita che diventa oggetto di un'analisi che,
in senso lato, si può definire filosofica. Spinoza usava espressione sub specie aeternitatis5
ossia sotto l’aspetto dell’eternità e suggeriva che, in questa prospettiva, i fastidiosi eventi
quotidiani diventano meno sconvolgenti. E lo stesso Shopenhauer6: “La tendenza a
4S.Kierkegaard
, Opere , a cura di C. Fabbro, Firenze 1972.
5Spinoza,
Ethica, II, prop.44. “…E’ proprio della natura della Ragione considerare le cose come necessarie e non come contingenti. La
Ragione, poi, percepisce questa necessità delle cose secondo verità, cioè come essa è in sé. Ma questa necessità delle cose è la stessa
necessità dell’eterna natura di Dio: dunque è proprio e peculiare della natura della Ragione considerare le cose, anch’esse, come eterne,
ma in una maniera particolare e loro propria; ossia secondo una loro peculiare eternità..”.
6 Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (titolo originale: Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden
Grunde), 1813. Sulla vista e i colori (titolo originale: Über das Sehen und die Farben), 1816. Il mondo come volontà e rappresentazione
(titolo originale: Die Welt als Wille und Vorstellung), 1818/1819, secondo volume, 1844. Sul volere nella natura (titolo originale: Über
den Willen in der Natur), 1836. Sulla libertà del volere umano (titolo originale: Über die Freiheit des menschlichen Willens), 1839. Sul
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guardare il mondo dall’alto contribuisce ad allargare gli orizzonti”. E ancora: La filosofia
è un’alta strada alpina… Ben presto vede il mondo sotto di sé, i suoi deserti di sabbia e
paludi, scomparire….Il filosofo vede già il sole quando sotto è ancora notte fonda”.
Essere un buon consulente filosofo significa, a mio parere, provare a spezzare quella
condizione vitale di fatalismo paralizzante per prendere in mano la propria vita, perché la
ricchezza del nostro futuro - non solo di quello remoto, ma di quello futuro che nasce hic
et nunc nella nostra mente - dipende interamente da noi.
La riflessione e la lettura aiutano le persone ad ampliare il proprio mondo
Altra questione: le letture che Neri Pollastri non utilizza e di cui – in certo qual senso –
diffida. Sulle letture che consiglio dice Neri: “Io rifiuto di essere definito un hegeliano, perché non
“aderisco” a principi hegeliani (il cielo me ne scampi! Un così brutto personaggio…), casomai prendo a
prestito alcune sue interpretazioni della struttura logica del discorso e le metto alla prova nella costante
rielaborazione del mio modo di guardare il mondo. Questa è una delle ragioni per cui non faccio quasi
mai leggere nulla a nessun consultante, né cito filosofi: citerei autorevoli dottrine, non filosofi, che sono tali
solo finché esercitano il dubbio e la critica sui loro stessi pensieri, ma divengono sapienti quando
“aderiscono” a quei pensieri. Poi posso anche essere d’accordo che talvolta - in consulenza, in realtà,
molto raramente - il confronto con concezioni del mondo diverse possa essere utile a mettere alla prova la
nostra e a chiarificarla: ma questo in Vite controvento non avviene mai! Vi si offre l’alternativa, ma non
la si usa mai come termine di paragone critico, bensì solo come strumento pronto all’uso, insomma
consiglio. E anche la ricerca sul vocabolario, che citi, è fine a se stessa, accidentale: infatti non ha mai un
seguito, non è un passo di quel sistematico lavoro di rielaborazione critica che la consulenza filosofica
dovrebbe essere per distinguersi da pratiche educative, d’aiuto, d’ascolto, terapeutiche. Quanto all’utilità
della consulenza che il libro ipotizzi voglia mostrare, beh, ci sarebbe anzitutto da interrogarsi su quale
sia: se, come tu stesso affermi, non si può mai dire una parola definitiva su un concetto, è tuttavia vero
che si possono dire parole definitive su un non-concetto (concetti inconsistenti) o sul rapporto tra un
concetto e il mondo (mappe inadeguate della realtà); secondo me l’unica utilità che la consulenza può
mostrare è questa, attraverso la reazione - di sollievo o di sconcerto, di cambiamento o d’accettazione,
questo dipende dai casi - che il consultante può avere di fronte alla scoperta dei propri errori di pensiero.
Ma nei casi del libro avviene tutto il contrario: le persone sembrano star meglio senza che ne capiscano il
perché! Se fossi un potenziale consultante diffiderei…”. E qui emergono parecchie questioni cui
desidero replicare nel dettaglio, risparmiando una replica su Hegel e sul fatto che sarebbe
fondamento della morale (titolo originale: Über die Grundlage der Moral), 1840. Parerga e paralipomena (titolo originale: Parerga und
Paralipomena), 1851.
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un brutto personaggio...Parliamo di pensiero pensato o di persone? Non voglio ri
tornare al punto precedente sul quale ho già argomentato.
Primo punto: non bisogna dare le letture in consulenza filosofica, perché le persone
potrebbero infognarsi in qualche indottrinamento e potrebbero sposare chissà quale
teoria contaminatrice. Ritengo che la riflessione e la lettura aiutino le persone ad ampliare
il proprio mondo, fanno spesso guadagnare loro un punto di vista nuovo, come
addentrarsi in un magma interiore esistente, ma messo da parte, dimenticato. Ritengo
che il percorso di consulenza filosofica possa anche essere un percorso formativo, in cui
si impara a leggere, si imparare ad utilizzare meglio la parola, a viaggiare su altre
tematiche, dimensioni, altre culture, altri mondi ..Cito dal caso Alessia Wrumel stimolata
da alcune letture a parlare del rapporto tra amore e libertà: “Certo, gli atti umani sono liberi e,
in quanto tali, chiamano in causa la responsabilità del soggetto. L’uomo, per esempio, vuole un dato
bene e lo sceglie: è conseguentemente responsabile della propria scelta...Ma il fine della propria libertà può
essere solo il proprio piacere?”… La mia domanda ha stimolato Alessia a rispondere che no, non può
essere solo il piacere, ma il rispetto degli altri. Le ho così parlato di Kant, il quale disse che porre il
piacere al primo posto nell’agire umano è pericoloso e che essenziale per la morale della persona è
l’imperativo categorico: “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua quanto nella persona di
ogni altro, sempre contemporaneamente come fine e mai come mezzo.”
E allora a cosa serve la lettura, la poesia, la letteratura se non a far volare verso altri lidi, a
pensare, a riflettere anche sul nostro stesso pensiero? Che può lavorare costantemente,
senza tregua, se adeguatamente stimolata? E, per esempio, una poesia d’amore non può
indurre la persona a filosofare? L’amore è una questione complessa, che rispecchia
l'atteggiamento e la filosofia che ogni persona nutre verso la vita. Ed il filosofo – con
adeguate letture – può sostenere il consultante nel connettere idee, pensieri e arrivare a
concepire una propria filosofia di vita che possa fare stare meglio…Sostiene Salvatore
Veca7: “Ci sono due immagini che possono dare congiuntamente un’idea di come funziona
l’immaginazione filosofica. La prima immagine è quella dell’esplorazione di connessioni.
L’esploratore di connessioni è uno che mira a mettere insieme , a legare fra loro idee, concetti,
congetture, ipotesi. È come uno che cerca di tessere una rete, capace di prendere il maggior
numero di pesci, e di consegnarci così una nuova prospettiva su noi stessi e il mondo. Una
prospettiva più illuminante di altre. (….). La seconda immagine è quella della coltivazione di
memorie. Il coltivatore di memorie è uno che sa bene quanto l’immaginazione filosofica si
alimenti del suo passato e della sua complicata tradizione. (…) L’esploratore di connessioni
è affascinato dall’idea di poter dire l’ultima parola. Il coltivatore di memorie gli ricorda il
destino inevitabile della trasformazione dell’ultima parola in penultima….”. Io mi sento più
Tratto dal Secolo XIX del 30 agosto 2011. L’articolo è riferito alla pubblicazione della lezione che Salvatore Veca tenuta al festival della
Mente di Sarzana il 3 settembre 2011. Il brano è tratto dal suo ultimo libro, “ L’idea di incompletezza”, Feltrinelli, Milano, 2011.
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un filosofo coltivatore di memorie, nel senso che credo che immaginazione e ricerca non
abbiano mai fine, però un coltivatore di memorie che pretende di fare e far fare parresia. Le
consulenze filosofiche sono una sorta di compendi di dialoghi lasciati a metà, incompleti,
ancora germinanti di idee, dubbi, connessioni da riordinare o, di contro, smembrare,
dividere…Uscire dalla noiosa cogenza di vedere le cose, mettere a soqquadro certezze che
sembravano certezze e che, invece ,non le erano e forse un giorno – ma solo un giorno – le
saranno ancora. Mi chiedo quante volte ho messo a soqquadro le stanze mentali di molti
miei consultanti, compresa la puntigliosità di Alessia. Certo è che tutti gli strumenti utilizzati,
tutte le congetture filosofiche sono mutevoli, incomplete, ma hanno un loro scintillio
interiore, che è quello di avere mostrato, anche per un solo istante, altri colori, altri mondi,
altre vite. Un barlume di verità da dire a se stessi. Un barlume di verità che affranchi da un
cieco vagare confuso nel mondo del bisogno, aprendosi al mondo del desiderio per
diventare protagonista della propria vita. E ciò non si può fare solo con lo stretto dialogo
filosofico, con il principio di contraddizione, bensì con l’immaginazione, il patrimonio tutto
dell’umanità. E così ho lavorato anche con Terry. In itinere, chiarificando le modalità del
suo pensare , Terry ha optato per un cambiamento nella sua vita per stare meglio. Ci è
voluta tanta pazienza, nulla è stato sbrigativo. Qui di sbrigativo mi pare vi sia solo la
riflessione di Neri Pollastri, non il mio libro che è un esempio ineccepibile di lavoro
filosofico sul pensiero, che egli – pensando al mio posto – afferma che per me sarebbe
tempo perso. Neri Pollastri sostiene che la consulenza sarebbe condotta a mo’ di
coaching/formazione per il fatto che Terry ha iniziato a parlare su come vorrebbe essere e
– per di più – che non mi sarei occupata del modo in cui Terry avrebbe pensato il
mondo. Per Neri Pollastri la persona “è tutto ciò che è espresso precedentemente”.
Prima osservazione: quello che ho fatto con Terry è stato semplicemente di usare la
congettura retorica. Il coaching è ben altro! Seconda questione: ma è Terry che deve capire
chi è, non io! E’ Terry che – da sola e facendo auto-indagine filosofica – arriverà a
pensare se stessa nel mondo e a dettagliare meglio la sua filosofia di vita. All’inizio Terry
aveva perfino paura di pensare se stessa, molte questioni le erano assolutamente oscure.
Personalmente penso che un consulente filosofico dovrebbe pensare sempre in termini
di potenzialità, di risorse magari mai espresse, non credo che l’uomo – come sostiene
Ponge – è ciò che fa’. Mi pare davvero limitativo pensare alle persone secondo
quest’ottica e poi sempre con uno sguardo rivolto al passato, “al precedente”. Si rischia
di vedere di analizzare le vicende umane in maniera troppo deterministica. E poi non
comprendo perché Neri Pollastri affermi che io non ho affrontato filosoficamente il
materiale umano di Terry (un precedente marito, l’intervento di chirurgia estetica alle
labbra che non ha mai rivelato neppure al marito e alla figlia, il suo passato costellato di
sofferenze e insicurezze..). Solo che l’ho letto secondo il filtro del suo sistema di valori.
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Non dovrebbe forse un filosofo consulente occuparsi di valori? E poi è forse proibito
arrivare alla fine di un percorso secondo altre strade? C’è forse qualche evento
concettuale o itinerario concettuale proibito in consulenza filosofica? E perché Neri
Pollastri disprezza tanto gli ottenuti benefici di Terry (“Così come sorprende che, in questo
vuoto di riflessione e comprensione, alla fine la consultante si congedi dichiarando tutta una serie di
benefici avuti dalla consulenza: come mai possono spiegarsi?)?. Nessun vuoto di riflessione e
comprensione…Terry alla fine cambia rotta perché ha cambiato la sua filosofia di vita e
c’è arrivata tramite la riflessione e la comprensione..E ancora Neri Pollastri liquida:
“L’unica risposta che mi si prospetta è quella che danno gli psicologi: parlare è sempre terapeutico….
Ma non sempre è filosofico: in questo caso, per esempio, non lo è”. E chiude lì. Insomma mi da
della psicologa, del fare coaching, ma come ho ben dimostrato ho fatto solo consulenza
filosofica.
La filosofia è amica di tutti i concetti: non vi sono ambiti proibiti
E Moreno Montanari – molto correttamente – nel carteggio infatti sostiene che la sua
idea di consulenza filosofica, che non reputa eretica, è “che il filosofico non vada concepito per
sottrazione dallo psicologico, dal religioso, dal politico e così via ma ne costituisca piuttosto un
superamento in senso hegeliano in quanto capace di portare a concetto questioni che, per questo,
diventano filosofiche. La filosofia lavora sui concetti, è, come direbbero Deleuze e Guattari, “amica dei
concetti”. Di tutti i concetti. Il lavoro filosofico sui concetti è lavoro filosofico per eccellenza e non ha
ambiti proibiti specie in consulenza”. E qui sono d’accordo. Ma poi non sono d’accordo con Moreno
quando scrive: “Nel caso specifico, per esempio, Nicoletta sembra – le trascrizioni sono sempre forzature
e la prudenza è d’obbligo – perdere un’occasione quando Terry si autodiagnostica la propria nevrosi e
così via. Avrebbe potuto chiederle che cosa intende con quello che dice; a che le serve descriversi così; se è
consapevole delle conseguenze di pensarsi in questo modo; se si tratta di un pensiero autentico o di un
luogo comune e così via. Avrebbe insomma potuto sondare la visione del mondo della consultante
partendo da un suo pronunciamento fortemente significante. Sarebbe stata, almeno a me pare, una
possibilità interessante da sviluppare”. Certo che con Terry abbiamo parlato di nevrosi e di
psicosi, ma parlandone con cognizione di causa tanto che ha approfondito queste
tematiche sul web, se ne è interessata, ma non ho voluto- proprio perché filosofa –
addentrarmi nella sua visione auto-nevrotica del mondo, perché, in tal modo, avrei
direzionato la consulenza allora davvero verso una direzione di tipo psicologico…E
sono ancora d’accordo con Moreno Montanari quando comprende profondamente le
ragioni di uno strumento euristico che spesso utilizzo coi clienti ossia l’analisi
etimologico-semantica dei termini: “..quando Nicoletta invita il consultante di turno a cercare nel
vocabolario la definizione di un concetto per lei – consultante – cruciale e in certi casi identificativo e per
la consulente fecondamente problematico. In questo senso superare la propria pre-comprensione in favore
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di una più “oggettiva” – tra mille virgolette – può costituire un esercizio di trascendenza. Certo se questo
significasse correggere il punto di vista del consultante con l’autorità della verità sancita dal vocabolario o
dalla lettura, non importa di che indirizzo, consigliata, sarebbe assurdo e poco filosofico, certamente poco
consulenzial-filosofico, ma non mi sembra che sia questa la direzione nella quale va l’autrice del libro”.
E infatti non la è. Pensiamo solo a Wittengenstein per cui la filosofia è critica del
linguaggio. E Moreno Montanari comprende anche che: “In effetti, talvolta si ha l’impressione
che la premura per il malessere del consultante – motivo per il quale solitamente ci si reca in consulenza e
del quale è naturalmente necessario prendersi cura – divenga il principale, se non l’esclusivo, focus della
consulenza e che il tutto possa avvicinarsi - io non direi ridursi – a un approccio di counseling. Ma
questo, tendo a immaginare, potrebbe essere dovuto al fatto che il libro vuole descrivere anche l’utilità
della consulenza filosofica e indurre, senza ammiccamenti o forzature strumentali, un potenziale
consultante a provarla per la naturale aspettativa che la consulenza possa aiutarlo a vivere meglio un suo
disagio e, perché no, a superarlo se possibile”. Ma è inevitabile, direi umano che ci si soffermi
sulle conseguenze pratiche ed efficaci della consulenza. Specie se la persona è portatrice
di un forte malessere. E ancora nel carteggio risponde a Neri Pollastri: “A me questa pare
una questione cruciale che provo a sintetizzare: se la persona che viene in consulenza porta un carico di
tensione considerevole legato a un problema – serio o meno non importa, ciò che conta è il modo in cui lo
sente, l’urgenza che lo muove – che vive con angoscia, il lavoro di progressivo allontanamento dalla
centralità della questione immediata - l’urgenza – non per ignorarla ma per considerarla all’interno di
un discorso e di un orizzonte più ampio, richiederà tempo che è, heideggerianamente parlando, ma non
solo, una delle condizioni della cura – nel senso, come sai, di prendersi a cuore non tanto la questione
problematica ma la persona che vive questa questione e la possibilità che essa accresca autonomamente,
seppure grazie alla consulenza, le proprie capacità di confrontarcisi”. Pazienza, cuore, cura di se’
per imparare a meglio confrontarsi con se stessi e il mondo. Appunto.
Gli esercizi euristici come porta verso il cambiamento
E torniamo ai miei ipotetici consigli e al caso Terry ove Neri Pollastri, oltre ad
ammettere che non capisce bene cosa significhi occuparsi dell’intera persona, insiste sul
fatto che darei dei consigli dottrinari: “ Insomma, ripeto, che si tratti di spunti religiosi o di
concetti psicologici, di sguardi prospettici o di letture del mondo alternative, in Vite controvento non sono
mai utilizzati filosoficamente - ossia come mattoni di una strutturata analisi critica del modo di pensare
la vita del consultante - ma solo come consigli dottrinari”. Trovo che questo modo di considerare
gli esercizi euristici che pongo e le letture varie che propongo sia pregiudiziale,
sciattamente tassonomico con insinuanti accuse indirette di essere millantatrice: “. Se noi
non riusciamo a mettere a fuoco questo e a stigmatizzarlo, la nostra povera disciplina professionale non
si svilupperà mai, perché non avrà un’identità e si confonderà confusamente con altre professioni, con le
ovvie conseguenze che gli altri professionisti ci considereranno millantatori interessati solo al denaro e che
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i potenziali fruitori, non capendo le differenze, diffideranno di noi e preferiranno andare da altri. Come e ne ho le prove - già oggi stanno facendo, con scorno di tutti noi che tanti sforzi profondiamo per farla
crescere”. Ma dare input alle persone per farle riflettere meglio e magari – qualora fosse
possibile – stimolare a delle letture – sarebbe forse manipolare una persona cercando di
veicolarla in una direzione? No. I miei consultanti – se e quando leggono – leggono di
tutto: da Borges a Proust, a qualunque autore. Io, ribadisco e il libro ne è una chiara
dimostrazione, di consigli non ne do’. Così come non obbligo col fucile Terry a cambiare
in una certa direzione. Ma Neri Pollastri, leggendo superficialmente la trattazione dei casi
e contrastando Moreno Montanari continua : “Al contrario di quel che dici, nel caso di Terry la
consulente non “asseconda acriticamente” il desiderio di cambiamento, ma addirittura cerca di indurlo, di
spingere Terry a cambiare, condizione necessaria per solving the problem, e lo fa strategicamente,
invitando insistentemente la consultante a “guardare al futuro” - analogo al must psicologico del “pensa
positivo” - invece che a guardarsi così com’è, a comprendere come vede e giudica il mondo, a esplicitarne le
ragioni e i valori, a costruire una più dettagliata e congrua concezione del mondo e di se stessa….”. Ma
Terry non viene spinta a cambiare in maniera manipolatoria, semplicemente cambia nel
tempo la sua visione del mondo e delle persone che interagiscono con lei. Terry –
facendo auto-analisi filosofica – si rende conto che la sua filosofia di vita basata
sull’invidia, la insicurezza, la menzogna – le porta solo sofferenza. Ma questo è frutto di
un processo lungo, in cui entrambe abbiamo lavorato con molta pazienza utilizzando
tutti gli strumenti euristici a disposizione. Il suo cambiamento è frutto di questo,
null’altro. Terry ha preso coscienza delle sue contraddizioni grazie all’attento e paziente
lavoro filosofico fatto: per esempio dire all’inizio che voleva fare carriera e poi rendersi
conto che il suo riveduto sistema di valori la porta a fare qualche altra cosa…. Le sue
paure – al contrario di quelle che dice Neri Pollastri – non le ha bypassate, le ha
sedimentate, se ne è anche vergognata e ha deciso di vivere una vita maggiormente
dignitosa e scevra da non-valori. Non significa forse questo un duro lavoro di auto
indagine filosofico? Altro che pensiero in movimento.. Qui Terry ha fatto una vera e
propria rivoluzione della sua antica filosofia di vita! Sostiene Moreno Montanari: “Ma
torniamo al confronto con il testo di Poli: il fatto di non aver sufficientemente messo in discussione il
desiderio di cambiamento di Terry pone Nicoletta fuori dalla filosofia e dalla consulenza filosofica? La
mia risposta è no, perché per altri aspetti la consulente filosofica favorisce il chiarimento dei pensieri e
delle valutazioni etiche di Terry che infatti comprende che, diversamente da come pensava, non le
interessa davvero fare carriera, capisce l’infondatezza di alcune sue paure e la dannosità di alcuni suoi
comportamenti che, grazie a questa maggiore consapevolezza, decide, almeno in parte, di rivedere. La sua
richiesta di aiuto - che così viene portata, come spesso accade, dalla consultante - è quindi accolta dalla
consulente che però fa filosofia perché non si concentra sui singoli problemi con un approccio strategico
volto a favorirne la soluzione ma, semplicemente, invita la consultante a discuterne il significato. Invitata
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a spiegare le ragioni di quanto pensa, vive, progetta e fa, Terry ne diviene più consapevole, il che favorisce
in lei, come dicevamo, una maggiore capacità di decisione per la sua vita, aspetto che si trova in
moltissimi casi di consulenza filosofica di Achenbach – penso alle due prostitute che poi decidono di
cambiare mestiere – e che senz’altro costituisce per me un banco di prova della bontà consulenza
filosofica. Se la consulenza filosofica non incide sul modo di vivere del consultante benché abbia inciso sul
suo modo di pensare resta, a mio parere, monca. Se ripropone quella spaccatura tra la teoria e la prassi,
ribadisce i limiti di quella filosofia accademica dalla quale vuole discostarsi”. Certo. Concordo su
tutto.
Il buddismo
Non ho mai taciuto il fatto che pratico la filosofia buddista e mi aspetto da un filosofo
rispetto e un confronto davvero filosofico, non un j’accuse reiterato di indottrinare le
persone: “Queste sono le principali lacune di ogni consulenza filosofica possibile: distribuire consigli
(“guarda al futuro”, in quel contesto, è un consiglio, così come lo sono le indicazioni buddhiste), indurre
strategicamente il consultante a prendere strade comportamentali, ma soprattutto farlo nella pressoché
completa assenza di un lavoro di esplicitazione critica e di sistematica riprogettazione”. Mi chiedo se
Neri Pollastri l’abbia davvero letto il libro. Fra i numerosi strumenti euristici che utilizzo
uno, uno solo lo mutuo – come già aveva fatto Marinoff ne “ Le pillole di Aristotele”
dalla filosofia buddista di Nichiren Daishonin, ossia l’esercizio dei Dieci mondi che io –
insieme a Marinoff, appunto ho giudicato efficace nella pratica filosofica per spingere il
consultante ad avere maggiore consapevolezza di sé. E sarei addirittura
deontologicamente pericolosa la mia pratica? Su chi? E perché? Poi fa un passo indietro:
“Stante questo, gli esiti più o meno positivi non hanno alcuna pertinenza con il giudizio relativo
all’essere o meno quel che è stato fatto “consulenza filosofica”; caso mai sono pertinenti al giudizio sul
suo essere una pratica utile o inutile, accettabile o deontologicamente pericolosa. Riguardo a questo
giudizio, però, ho fin dall’inizio detto che il lavoro di Nicoletta mi pare tutt’altro che disprezzabile, pur
non essendo consulenza filosofica. E la mia valutazione critica non riguarda il danno sul dialogante,
bensì quello sulla nostra pratica: il libro invita a fare l’educatore o il motivatore sotto mentite spoglie e,
in tal modo, confonde ancor più l’immagine pubblica della nostra professione”. Io non confondo
l’immagine di una professione, la arricchisco semmai, offro nuovi spunti.
Moreno Montanari nel carteggio, peraltro, non pare condividere questa mia intenzione di
indottrinare le persone: “Nei casi del libro in esame questo non accade quasi mai: si offrono letture
di dottrine religiose, modi possibili di guardare il mondo, alternative comportamentali, sempre come
suggerimenti atti a migliorare lo stato in cui versa il consultante. Una cosa ben diversa da quella che tu
stesso descrivi come tratto caratterizzante la consulenza filosofica”.
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E addirittura ho anche degli esiti pragmatici – di cui accusa Moreno Montanari per
esserne influenzato - assolutamente dimostrabili. Neri Pollastri pare – lo dice lui stesso –
che le sue relazioni di consulenza finiscono quando il lavoro ha inciso sulle persone
quanto basta affinché si sentano in grado di proseguire da soli e che la consulenza lunga
sarebbe un suo fallimento. Ma qui Neri Pollastri non chiarisce bene il suo “quanto
basta”.. quanto basta per fare cosa, per andare dove? E poi forse non potrebbe fallire
anche una consulenza breve? A me è accaduto. E credo che sia accaduto anche ad altri
miei colleghi.
Il pensiero vola, il pensiero che pensa se stesso va chissà dove.
Mi pare doveroso ora soffermarmi sull’ennesimo j’accuse di Neri Polastri: il mio fare
sarebbe strategico. E scrive: “… Ripeto: noi, in quanto filosofi che filosofano - che cioè non
insegnano, non educano, non curano, non trasformano vite, ma solo ricercano verità attraverso discorsi abbiamo l’unico dovere (e anche l’unico diritto) di fare scoperte nel pensiero degli ospiti e costruire assieme
a essi interpretazioni del mondo che abbiano la possibilità di essere da loro adottate. Il resto miglioramento della loro vita, rafforzamento delle capacità decisionali, assunzione di autonomia, persino
consapevolezza - non è compito nostro: dobbiamo lasciare che accada”. Certamente. Metterei forse
in gabbia il pensiero dei miei consultanti? Il pensiero vola, il pensiero che pensa se stesso
da’ risultati che nemmeno ci immaginiamo. E accade così ai miei consultanti. Anche qui
di certo alcuni pensano molto, altri pensano meno, ma il nodo è che non pensano quello
che li ho indotti a pensare io. Anzi. La sorpresa è sempre grande, e al contrario di
Polastri che sostiene “gran parte delle persone che ho avuto in consulenza hanno visto i frutti maturi
del lavoro svolto con me diverso tempo dopo che lo avevamo interrotto, e le ragioni di quei frutti siamo
stati sempre d’accordo a considerarle coerenti con quel che avevamo scoperto assieme”. Io no, a me
sembra molto frequentemente che le persone vadano oltre a quello che abbiamo pensato
insieme. E giustamente, poiché altrimenti avrei il sospetto di essere manipolatoria.
Francamente, se poi il consultante, tramite il metodo che ha acquisito in consulenza nel
pensare il suo pensiero, dopo un po’ di tempo, si accorge che potevamo pensare meglio
e più coerentemente, ben venga. Quando è accaduto, ne sono stata felice. In ogni caso
credo che nella consulenza filosofica qualche elemento di strategicità vi sia e vi debba
essere. La gente viene in consulenza perché ha un problema, una mancanza…E un
problema è, etimologicamente, un ostacolo in vista di una meta. Si può affrontare, fare
finta che non ci sia, aggirarlo..oppure, semplicemente, andarsene da un’altra parte. Nella
consulenza filosofica, però, tale azione deve essere intenzionale. Come ben sostiene
Giacometti: “Ciò che, soltanto, si richiede è l'intenzione, per quel che è possibile sincera,
di cercare, insieme, grazie al dialogo comune, ciò che, di volta in volta, è, come dire, il
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meglio che si può ottenere. Che sia il raggiungimento di questo meglio che, alla fine
giustifica la consulenza filosofica come professione.8.
Conclusioni
Penso che non si riesca a dare una definizione della nostra disciplina: diversi di noi
l’hanno data concordando su moltissimi punti, anche se, come tutte le cose, la
definizione è non solo perfettibile, ma anche suscettibile di modifiche dettate
dall’esperienza. Moreno Montanari – in questo carteggio - pare invocare una maggiore
elasticità mentale, ma tanto la direzione di Neri Pollastri in risposta appare preconfezionata: “Concordo invece sull’esigenza di maggiore elasticità mentale, che però inviterei a usare
in una direzione diversa da quella che proponevi tu: perché tutti vogliono pervicacemente utilizzare il
medesimo termine per denominare la loro pratica, legittima ma diversa da quella che tanti (spesso prima
di loro) hanno definito? Non potrebbero, con elasticità mentale, darle un nome diverso?”. Eccoci. Ma
se nelle scienza avessero tutti dato un nome diverso alla loro scoperta , che guazzabuglio
vi sarebbe? Neri Pollastri vuole proprio scrollarsi di dosso chi non la pensa come lui,
tanto che spira vento di epurazione: “.. non potremmo essere più elastici, ammettendo la
possibilità (e prendendoci la responsabilità) di escludere chi svolga pratiche non corrispondenti a quella
definizione? Cos’è mai questo principio per il quale i recinti (che comunque ci sono: nessuno di noi è
disposto a riconoscere che l’ipnosi sia consulenza filosofica!) dovrebbero essere amplissimi e
onnicomprensivi?”. Io non faccio ipnosi e sono un consulente filosofico. Il mio libro lo
dimostra. Ma il bello è che non si ferma qui perché da’ dell’ignavo anche a Moreno
Montanari: “Non è tirannico, né scandaloso, e neppure presuntuoso invitare chi è diverso a definirsi
tale, oltre che a esserlo di fatto. Anzi, lo trovo pienamente coerente con quel principio della filosofia
espresso tanti anni fa da Galimberti con l’espressione: “pensare è pensare per differenze”. Ma,
soprattutto, farlo è serio e garante della serietà di quel che facciamo: tutte le associazioni professionali del
mondo, a cominciare da quelle di psichiatri e psicoanalisti, escludono dal loro consesso chi diverga dalle
linee fondamentali della loro pratica. Perché noi non lo facciamo? Ho solo due possibili risposte: o perché
siamo confusi, o perché siamo degli ignavi. E - forse perché sono concittadino di Dante - propendo per la
seconda ipotesi”.
Neri Pollastri cita Galimberti ed il “pensare per differenze”, ma chi non la pensa per
differenze come lui, è ignavo. Sembra che l’apporto delle differenze non gli interessi,
non le consideri preziose. Forse non ricorda che nella storia del mondo ci si è evoluti
veramente quando ci si è confrontati sulle differenze per poi – talvolta – fare un passo
indietro rispetto alle proprie convinzioni originarie.. Questo significa avere un
atteggiamento dialettico che ci invita a guardare le cose dal punto di vista che gli è meno
8G.
Giacometti, Filosofia come stile di vita?, p. 21
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usuale, che è anche più destabilizzante. Ma questo è accettare di filosofare davvero. E’ il
pensiero in movimento come ben sottolinea Moreno Montanari: “ Come scrivevo in apertura
di questo scambio, nella parte di recensione del libro, se così si può dire, il modo in cui Nicoletta l’ha
fatto non è il mio e, come si capisce, non è nemmeno quello di Neri ma per questo è ancora più prezioso.
Esso mostra un pensiero in movimento, tanto dalla parte del consulente che da quella del consultante,
fissa alcune fasi di questo percorso, mette a fuoco alcune questioni che ritiene particolarmente significative
e trae delle conclusioni di carattere generale dai singoli casi. Non sempre le condivido ma ritengo che siano
appieno nel novero della consulenza filosofica…In definitiva non è il mio modo di fare consulenza,
tuttavia è un possibile modo di fare consulenza”.
Personalmente credo in un metodo di fare consulenza filosofica pluridimensionale,
complesso e sempre in divenire, che, continuamente, accoglie nel suo seno la dialettica,
la fenomenologia, l’ermeneutica, la poetica, la retorica, il pensiero critico e quello
esistenzialistico. Insomma – ormai è chiaro a tutti - non esiste un metodo unico cui i
consulenti filosofici si possano riferire e, per quanto mi riguarda personalmente, posso
solo dire di utilizzare, come dicevo, un diario di bordo, che mi permette di navigare in
mare aperto insieme alla persona, con un sorta di kit attrezzato, in modo da potere
navigare abbastanza serenamente in mezzo alla tempesta, perché, come scrisse Seneca,
“Non esiste vento favorevole per chi non sa verso quale porto andare.”. Ciò non vuol dire che si
sappia e si debba andare in un porto pre-definito, né che gli strumenti da me adottati
siano sufficienti per affrontare il mare aperto. Perché davvero di mare aperto si tratta, un
mare aperto e spesso tempestoso, che prevede non solo un agire, per così dire, tecnicoprofessionale, bensì coraggio, intraprendenza, capacità di ascolto a 360 gradi, abilità
nell’essere saggiamente capitani, temperanza, ma anche temerarietà, abilità di
mimetizzarsi e mettersi da parte,di trasmettere una seria vitalità e giocondità, compresa
l’abilità di giocare con la cupezza e la problematicità. E ve ne sarebbe una lista infinita.
Una sorta di “metodo a variazione minimale” - personalizzato e sviluppato in itinere non vuole fare mistero del fatto che il dialogo debba sortire comunque un effetto
concreto, non foss’altro nel modo di ragionare dello stesso cliente, al fine di potenziare
la propria autonomia, di impegnarlo in una progressiva consapevolezza a tutto tondo
della propria vita. Il filosofo, in fondo, null’altro fa se non incoraggiare ad avere coraggio
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e fiducia nella propria mente, motore di un cambiamento di atteggiamenti fonte di
sofferenza…. Come scrive William James: «La più grande scoperta della mia generazione è che
gli esseri umani possono cambiare la propria vita, modificando i propri atteggiamenti.». Più esercito
questa professione e più mi convinco che in questa professione non si cerca la verità né
la perfezione, ma solo il verosimile come una specie di verità. Una verità provvisoria
imperfetta, ma non questo ingannevole e comunque tesa sempre verso un successivo
obiettivo.
Dialogare e crescere con gli altri esseri umani, questo è filosofare. Spesso i mali del
nostro tempo hanno origine da una credenza superficiale. Sono convinta che la gente
debba essere libera di credere come meglio crede, ma anche che questa libertà non debba
mai implicare la libertà di ferire o eliminare chi la pensa diversamente. E per confrontarsi
in maniera autentica, per dialogare davvero filosoficamente il lavoro è durissimo e deve
consistere in un una continua messa in discussione di ogni pretesa certezza, di ogni
infondato pre-giudizio. Insomma, in questo mondo di terrore e, spesso, di orrori, la cosa
migliore da fare, dal momento che ogni altro “valore” è dubbio, sembra ricercare il
dialogo con spirito di ricerca. Ecco, perché, come è noto, per Socrate “una vita senza
ricerche non è degna per l'uomo di essere vissuta”9.
9Cfr.
Platone, Apologia di Socrate, 38a.
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