Introduzione
Il termine “immagine” definisce una pluralità di fenomeni: la percezione visiva consente di acquisire immagini del mondo, che vengono
immagazzinate nella memoria e poi riprodotte dall’uomo con tecniche
diverse, per essere immesse nel circuito della comunicazione visiva,
dove vengono da altri percepite, interpretate e comprese. Percezione,
immaginazione, rappresentazione costituiscono funzioni diverse, ma
strettamente intrecciate, attraverso cui l’uomo interagisce visivamente
con l’ambiente. A ciascun livello l’immagine (percepita, mentalmente
elaborata e poi rappresentata in un “oggetto” esterno all’uomo) è il
risultato di operazioni di selezione: il punto di vista adottato produce
infatti, sia concretamente sia in senso più generale e metaforico, una
visione particolare che è il risultato del lavoro interpretativo della
mente applicato agli input giunti dall’esterno 1.
Definire le immagini (anche quelle percepite direttamente dall’occhio) come il risultato selettivo di un’interpretazione del mondo significa considerarle a pieno titolo dei segni. Le immagini non sono
mai la realtà né la copia della realtà, esse sono segni (o insiemi di
segni) di una visione particolare, e in quanto tali sono oggi studiate
dall’antropologia. Le operazioni di interpretazione e rappresentazione
costituiscono infatti funzioni antropologiche fondamentali, con le
quali l’uomo si adatta al suo ambiente naturale e sociale, comunica
con esso e lo modifica. La percezione e la produzione di immagini
possono dunque essere considerate due momenti essenziali di quell’insieme complesso e tipicamente umano di attività che chiamiamo
cultura. La selettività della percezione visiva si determina infatti in
primo luogo nella dimensione culturale, per lo più inconscia e sottoposta a processi di naturalizzazione. Nel CAP. 1 si ripercorreranno
1. Per una trattazione generale dei problemi della psicologia della percezione e
della comunicazione visiva, di cui si offre una breve sintesi nel CAP. 1, cfr. Appiano
(1993).
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FILMARE LE CULTURE
brevemente alcune teorie psicologiche e antropologiche della visione,
suggerendo come ciò che normalmente definiamo “percezione naturale” sia in realtà il prodotto di scelte e selezioni operate attraverso
procedimenti culturali.
La definizione semiotica dell’immagine, e più in generale della
cultura, appartiene a una prospettiva abbastanza recente nella storia
dell’antropologia e più in particolare dell’antropologia visiva. Questa
disciplina a lungo ha considerato – secondo una concezione positivistica – le immagini fotografiche e cinematografiche come inconfutabili
prove documentarie di altre società, utili per convalidare scientificamente il proprio metodo di indagine. Oggi possiamo affermare che
questa concezione è completamente tramontata, lasciando posto a
un’ondata di riflessioni sulla natura comunicativa delle immagini e
sull’esigenza imprescindibile di adottare nei loro confronti un atteggiamento di tipo ermeneutico. In questa nuova prospettiva, che è andata sviluppandosi nel corso degli ultimi trent’anni circa, l’immagine
deve dunque essere “letta” e interpretata con l’ausilio di strumenti
specifici e adeguate griglie concettuali.
Questo libro prende quindi in considerazione la produzione di
immagini e di rappresentazioni visive che si è sviluppata nell’ambito
dell’antropologia culturale, o comunque a partire da interessi di tipo
antropologico, considerandola a tutti gli effetti un’attività di tipo semiotico. A sua volta l’antropologia, a partire dalla crisi della rappresentazione etnografica e dalla svolta ermeneutica che l’hanno profondamente segnata dagli anni settanta del Novecento, viene da molti vista come un sapere di tipo semiotico, da alcuni addirittura come
un’attività letteraria, e se “scrivere le culture” 2 può essere considerata una pratica letteraria, “filmare le culture” costituisce anch’essa una
forma di rappresentazione della diversità culturale fondata sulle specifiche possibilità comunicative ed evocative proprie delle immagini.
Le immagini sono in effetti segni molto particolari: immagini e
parole, costituite rispettivamente da emissioni di onde luminose e di
suoni, danno vita a tecniche comunicative sostanzialmente diverse,
che non possono essere sottoposte agli stessi usi e nemmeno a identiche prassi interpretative. Per marcare la differenza tra la comunicazione verbale e quella visiva, alcuni semiologi fanno riferimento alla
famosa classificazione dei segni messa a punto da Charles Sanders S.
Peirce, che li distingueva in icone (cioè rappresentazioni che mostrano una qualche somiglianza con l’oggetto), simboli (cioè segni arbi-
2. Clifford, Marcus (1986).
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INTRODUZIONE
trari il cui significato deriva da un’operazione di attribuzione convenzionale) e indici (rappresentazioni che intrattengono con l’oggetto
una relazione di contiguità spaziale, come quando si indica qualcosa
con la mano) 3. Le immagini, soprattutto quelle fotografiche o cinematografiche, presentano certamente un alto grado di indessicalità,
poiché indicano sempre qualche aspetto di ciò che rappresentano,
come se una linea immaginaria continuasse a collegare spazialmente
l’apparecchio di ripresa e il suo soggetto. In questo si distinguono
dalle parole, che invece rappresentano del tutto arbitrariamente i loro
referenti tramite una convenzione culturale che deve essere appresa.
I segni visivi presentano dunque allo stesso tempo sia la caratteristica di selettività e dunque di almeno parziale arbitrarietà (proprie di
ogni rappresentazione semiologica), sia un certo coefficiente di indessicalità, grazie al quale essi conservano una qualche «corrispondenza
nei fatti» (Caprettini, 1980, p. 55) con gli oggetti che rappresentano.
Ed è proprio grazie a questo coefficiente di indessicalità che uno
spettatore potrà riconoscere il referente di un’immagine anche senza
appartenere alla medesima comunità linguistica dell’autore. Alla caratteristica indessicalità dei segni visivi si connette dunque il loro potenziale comunicativo transculturale, che li rende particolarmente interessanti per l’antropologia. In questo senso, Christian Metz (1968,
trad. it. p. 104) affermava che il cinema è per sua natura dotato di
una certa universalità, «in quanto la percezione visiva varia meno degli idiomi», e per questo potrebbe forse diventare una sorta di «esperanto visivo».
Visto l’alto coefficiente di indessicalità dei segni visivi, la nozione
di “linguaggio” visivo – utilizzata per descrivere i sistemi che articolano questi particolari tipi di segni – risulta però problematica e complessa. A causa della centralità del linguaggio verbale nelle culture
umane, siamo comunemente portati a pensare che i “linguaggi” visivi
– come ad esempio il “linguaggio” cinematografico – si siano modellati a partire dalla logica dei linguaggi verbali. E in effetti tradizioni
cinematografiche sviluppatesi in determinate epoche e in certi luoghi
presentano convenzioni spesso assimilabili alla sintassi del discorso
parlato. Tuttavia anche a questo livello esistono differenze sostanziali,
connesse ancora una volta alla minore arbitrarietà dei linguaggi visivi.
Per via di questa caratteristica, non esiste nel cinema o nella fotografia alcun dizionario contenente l’elenco delle unità semantiche uti3. Per una descrizione della classificazione dei segni in Peirce cfr. Caprettini
(1980). Per le applicazioni della nozione di indessicalità al cinema, e in particolare al
documentario, cfr. Bettetini (1971) e Nichols (1991).
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FILMARE LE CULTURE
lizzabili. Ogni film ricrea in un certo senso ex novo un suo dizionario
e una sua grammatica, che potranno essere citati, ma anche completamente sovvertiti e reinventati nei film successivi, mantenendo così
una ricchezza ed una libertà espressive disponibili a molteplici sperimentazioni.
La fotografia e la cinematografia etnografiche (così come anche il
video e la multimedialità) promettono grandi possibilità di sviluppo,
in un mondo che – da un secolo a questa parte – sta rapidamente
inventando nuove tecniche di comunicazione e trasmissione dei saperi
che si aggiungono alla scrittura diffusa attraverso la stampa, talvolta
addirittura sostituendosi ad essa. Le implicazioni cognitive e culturali
di questa imponente trasformazione, di cui oggi vediamo solo i primi
effetti, devono essere attentamente valutate sotto il profilo antropologico nel senso più ampio (come aveva già iniziato a fare quarant’anni
fa André Leroi-Gourhan 4) e per gli effetti di globalizzazione e comunicazione interculturale che essa ha innescato. Sia come oggetti di
studio sia come linguaggi dotati di un loro specifico potenziale transculturale da impiegare nella rappresentazione etnografica, le immagini possono dunque offrire molto all’antropologia. E in ogni caso l’antropologia non sembra proprio voler rimanere fuori da questa trasformazione delle comunicazioni, che ha accolto con entusiasmo fin dalle
sue origini.
Questo libro è rivolto in primo luogo a chi desideri conoscere e
approfondire l’antropologia visiva o sia interessato all’analisi di rappresentazioni visive di interesse antropologico o anche alla loro produzione (tenendo conto però che non è un manuale di tecnica cinematografica, e intende offrire in quest’ambito soltanto alcuni spunti
di riflessione 5). Il percorso proposto non ha ovviamente alcuna pretesa di esaustività, né tantomeno vuole ripercorrere puntualmente tutta la storia dell’antropologia visiva. Esso affronta unicamente alcuni
temi e autori che paiono, dalla prospettiva attuale, particolarmente significativi ed emblematici del dibattito interno alla disciplina. Dopo
la discussione di talune questioni teoriche nel CAP. 1, e una sintetica
presentazione di problematiche inerenti alla fotografia etnografica nel
CAP. 2, viene trattato nei capitoli successivi il cinema etnografico, un
ambito che ho avuto modo di frequentare nel corso di numerose
esperienze professionali. La disposizione cronologica adottata nei
CAPP. 3, 4 e 5 deriva dalla necessità di descrivere l’evoluzione del lin4. Leroi-Gourhan (1965).
5. Per un manuale specificamente rivolto alla realizzazione di documentari etnografici si rimanda a Barbash, Taylor (1997).
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INTRODUZIONE
guaggio cinematografico in quanto risultato delle progressive innovazioni tecniche, un percorso che viene sinteticamente descritto in cinque “riquadri” esplicativi. A proposito dell’evoluzione del cinema etnografico, l’esposizione si concentra su un periodo che va dalle origini fino grossomodo agli anni settanta-ottanta del Novecento, e resta
estremamente parziale. Anche in questo caso ho preferito selezionare
e approfondire alcuni autori significativi, omettendone di conseguenza molti altri non meno importanti.
Unicamente per ragioni di spazio non è stato possibile sviluppare
due argomenti che mi stanno particolarmente a cuore, e che spero di
poter affrontare in un prossimo futuro. Il primo riguarda l’antropologia visiva italiana, che ha prodotto sperimentazioni significative seppur poco conosciute in ambito internazionale. Tra queste ricordo la
fase che ha dato vita a quella che Paolo Chiozzi 6 definisce la “scuola” fiorentina, nella quale uno dei pionieri dell’antropologia italiana,
Paolo Mantegazza, fu impegnato in un’opera di promozione dell’uso
della fotografia nell’indagine antropologica, che verrà accolta da varie
figure di etnografi tra cui Lamberto Loria, Enrico Giglioli e, più tardi, Lidio Cipriani. Non si possono poi dimenticare le sperimentazioni
visive iniziate dall’opera di Ernesto De Martino, il quale, oltre ad
aver realizzato con Diego Carpitella un importante documento filmato del tarantismo pugliese 7 e aver incoraggiato gli interessi etnografici
del fotografo Franco Pinna 8, è stato anche l’ispiratore di una serie di
film documentari sul Meridione, alcuni dei quali di notevole interesse
antropologico e cinematografico 9. Alcuni antropologi italiani hanno
più recentemente ripreso e sviluppato alcune delle suggestioni demartiniane, utilizzando sistematicamente la fotografia nelle loro indagini
etnografiche (Faeta, 1995, 1996; Mazzacane, 1978).
Un’altra possibile linea di analisi riguarda le produzioni cinematografiche indigene o partecipative. Fin dal famoso esperimento condotto da Sol Worth e John Adair con un gruppo di Navajo, che realizzarono alcuni brevi film dopo aver acquisito i rudimenti della tecnica
cinematografica (Worth, Adair, 1972), altri esperimenti sono stati
condotti nell’intento di trasferire le tecnologie audiovisive alle culture
native, in modo che esse potessero in prima persona realizzare film o
6. Per una trattazione puntuale cfr. Chiozzi (1993). Sull’opera di Loria e più in
particolare sull’uso che fa della fotografia cfr. anche Barberani (2003).
7. Incluso nell’antologia di classici dell’antropologia visiva Pennacini (1990a).
8. Carpitella (1980).
9. Per un elenco di questi e di altri film etnografici realizzati in Italia cfr. la Filmografia etnografica riguardante l’Italia (a cura di Pennacini) in Bravo (2001).
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video tali da mostrarci la loro visione del loro mondo (Malinowski,
1973, p. 49). Tra questi esperimenti ricordo soltanto l’impegno di Terence Turner con i Kayapo della foresta amazzonica, che ha dato notevoli risultati (Turner, 1992), cui sono seguiti molti altri esempi di
produzioni indigene 10. Più in generale, si rileva come oggi la vocazione transculturale del cinema e dei media stia incrementando sempre più la produzione di film e comunicazioni audio-visive al di fuori
del mondo occidentale, in una sperimentazione di linguaggi e di temi
che paiono confermare alcune delle speranze espresse in questo volume, e in particolare la possibilità che il cinema e le immagini possano
aiutarci – insieme a tutti gli altri sistemi di comunicazione e non certo in alternativa ad essi – a rendere più profondo ed intenso il dialogo tra le culture.
10. Sul tema dei “media indigeni” cfr. Ginsburg (1991, 2002).
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