A11 242 Francesco Aqueci Introduzione alla semioetica Copyright © MMVII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–1267–3 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: luglio 2007 Indice 5 Premessa I. 11 15 16 19 21 23 26 Strutture normative e volontà del soggetto 1. La ragione antimonista di Vailati 2. Il volontarismo dialogico di Calogero 2.1. La teoria del dialogo 2.2. La teoria linguistica 2.3. Ritorno al dialogo 2.3.1. Excursus: Calogero e Vico 3. Le trasformazioni morali di Piaget II. Irrequietezza espressiva e scelte vitali 31 37 39 41 44 1. 2. 3. 4. 5. Della Volpe: il nesso dialogico degli eterogenei Scarpelli e Piaget: la natura linguistica della morale Mayr: i prodromi evolutivi del rispetto Lacan: il simbolico e il normativo Dalla costrizione della lingua alla libertà del discorso 47 III. 49 50 1. 2. Sistema linguistico e eccedenza normativa Mayr: processi teleomatici e processi teleonomici La morfogenesi del segno 1 2 Indice 52 53 58 59 60 61 63 65 2.1. I mediatori morfogenetici 2.2. L’imitazione come mediatore morfogenetico 3. Tipologia dei segni e natura semiotica dell’intelligenza 3.1. La tipologia dei segni in Peirce e Saussure 3.2. La natura semiotica dell’intelligenza: Piaget 3.3. La natura semiotica dell’intelligenza: Peirce 3.4. La performatività adattiva del segno 4. Peirce, Saussure, Piaget: una analitica del vivente 69 IV. 71 77 83 85 87 1. La mente tra dovere e segno 2. L’intelligenza al lavoro: Peirce e Lukács 2.1. Digressione sull’ideologia in Lukács 2.2. Ripresa: le radici ontologiche del dover essere 3. Per l’unità del pensiero critico: Popper, Piaget, Lukács 91 V. 92 94 95 96 97 98 101 102 104 1. Interrogazioni saussuriane 2. Dal linguaggio alla cognizione 3. La mente in Saussure 3.1. Una distanza apparente 3.2. Combinare e associare 3.3. La lingua regno del caso 3.4. La mente grammaticale collettiva 3.5. Lingua e mente sociale 3.6. Il grado zero della libertà del segno 107 VI. 108 114 1. Locke: genesi politica della semiotica moderna 2. Da Locke a Hobbes: libertà dell’individuo e astrazione Strutture finalistiche e libertà dell’individuo Mente collettiva e naturalità del segno Mente moderna e libertà politica ciale so- Indice 3 117 123 3. Hobbes: genesi semiotica della politica moderna 4. Compimento e crisi della modernità: l’individuo 129 Frege 5. L’ideologia contemporanea e la ricostruzione dell’essere sociale 135 Conclusione 141 Bibliografia tragico di Premessa Le tante cose che facciamo nella nostra vita quotidiana comportano delle conoscenze, di cui però non abbiamo alcuna consapevolezza teorica. Parliamo, ma non conosciamo o ricordiamo a fatica qualche principio grammaticale della nostra lingua. Facciamo i nostri affari, me non conosciamo le leggi dell’economia, sulle quali del resto neanche gli economisti si intendono, analogamente a quanto accade in linguistica con le infinite controversie dei grammatici sui principi del comportamento linguistico. Eseguiamo dei compiti tecnici, dal far leva con un asse sotto un oggetto particolarmente pesante al far lievitare una ciambella al cacao, senza per questo saper dire tutta la fisica o la chimica che in quei compiti è implicata. E, infine, ci comportiamo moralmente in maniera tale che a volte qualcuno, anche senza invocare il perdono di un padre onnipotente, di cui non tutti disponiamo, ha potuto esclamare: “dio, non sanno quello che fanno!” Se ci si riflette, il risvolto cognitivo di questa più che giustificata esclamazione morale è la formula con cui Karl Marx (1818–1883) compendiava il problema della separazione tra prassi e conoscenza, e cioè “gli uomini non lo sanno, ma lo fanno”, una formula che avrebbe anche potuto essere la divisa di Vilfredo Pareto (1848–1923), quando rilevò la predominanza della dimensione non logica nei comportamenti sociali, e che poi György Lukács (1885–1971) mise al centro della sua estetica ed ontologia quando, con un sorprendente moto sintetico rispetto alle parcellizzate ricerche cognitive contem- 5 6 Premessa poranee, si riferiva a quel complesso di pratiche economiche, sociali, culturali con le quali gli uomini costruiscono il loro essere sociale, senza perciò essere guidati da principi espliciti, dei quali anzi prendono coscienza parzialmente solo a posteriori o post festum, come egli preferiva dire nelle sue astute glosse a Marx. Ma questa separazione si è imposta anche a teorici della conoscenza, oggi diremmo della mente, come Jean Piaget (1896–1980), che distingueva l’inconscio affettivo freudiano dall’inconscio cognitivo, riscontrabile ontogeneticamente sul piano sensorio–motorio o pratico (Piaget, 1971). La nozione di inconscio cognitivo riemerge oggi nelle scienze cognitive contemporanee, che gli attribuiscono una funzione di classificazione rispetto ad una serie di principi soggiacenti a svariati comportamenti, con la caratteristica comune che il soggetto non ne ha coscienza. Tuttavia, Piaget ne indagava un aspetto che resta alquanto in ombra nelle scienze cognitive odierne, e cioè il fatto della presa di coscienza dei principi soggiacenti al comportamento, nel momento in cui si produce un disadattamento. Egli mostrava che si procede, allora, ad una ricostruzione concettuale di tali principi, evidenziata dalla scelta intenzionale da parte del soggetto tra due o più possibilità (Piaget, 1974). Tutte queste suggestioni, che concerno tanto il piano sociogenetico, quanto quello ontogenetico e strutturale, incoraggiano a porre un inconscio morale che, per dirla con Piaget, non ha le maliziose profondità dall’inconscio affettivo, né possiede la vocazione logico–manipolatoria dell’inconscio cogntivo, ma che è soggetto anch’esso a presa di coscienza quando si produce un disadattamento o “crisi”. In particolare, l’inconscio morale sarebbe costituito da ciò che potremmo chiamare il principio normativo, cioè la tendenza spontanea della nostra mente a rappresentarsi l’ordine e a trascurare il disordine. In altri termini, la nostra mente morale funzionerebbe secondo l’articolazione figura–sfondo: le informazioni relative all’ordine spiccano, mentre quelle relative al disordine restano sullo sfondo. Un indice e contrario di tale funzionamento lo troviamo nell’attenzione che riserviamo alle “cattive notizie” o al “male”, e che nei media alimenta il genere infinito della cronaca nera: se la nostra mente non focalizzasse normalmente l’ordine, probabilmente la Premessa 7 “novità” costituita dal disordine delle “cattive notizie” non avrebbe alcuna attrattiva su di noi. Dal punto di vista dell’azione, il principio normativo non è altro che la capacità di apprendere e seguire una regola di comportamento. Infatti, esso non è un principio epistemico, poiché nell’inconscio morale non si manipolano solo conoscenze relative a stati di ordine o di disordine, ma tali conoscenze sono al tempo stesso motivi di azione. Insomma, rispetto all’inconscio cognitivo, l’inconscio morale ha una sua peculiare dimensione pragmatica. E questo spiega l’importanza del problema della genesi del principio normativo. La domanda che si pone è se esso derivi dall’elargizione di ricompense e punizioni, e quindi dalla ricerca del piacere e dall’evitamento del dolore, oppure comporti la creazione di una rappresentazione di se stessi in cui è incorporata la concezione e il rispetto della regola. Quale che sia la risposta, in entrambi i casi abbiamo però a che fare con una asimmetria di base costituita da chi può elargire ricompense e punizioni, o imporre delle regole, e chi deve evitare punizioni e ricercare ricompense, o seguire delle regole. È in questa asimmetria, se vogliamo, che consiste la peculiare dimensione pragmatica del principio normativo cui accennavo prima. Quanto al momento del disadattamento o crisi che innesca la presa di coscienza, sul piano ontogenetico la crisi è prevedibile e determinata, in quanto legata a circuiti di feedback tra maturazioni neurocerebrali e pressioni dell’ambiente. È così che, nelle indagini psicogenetiche di Piaget, sulle quali torneremo spesso nel corso di questo libro, il bambino passa, ad un certo punto del suo sviluppo morale, dal rispetto unilaterale al rispetto reciproco, anche se la necessità di questo passaggio è tutt’altro che assoluta, come dimostra il fatto che in mancanza di un corretto funzionamento di quei circuiti di feedback, l’acquisizione del principio normativo può fallire o risultare parziale, impedendo o rendendo più difficile al soggetto l’accesso a determinati assetti morali. Questa forte prevedibilità del passaggio da una fase morale all’altra sul piano ontogenetico, ha indotto teorici post–piagettiani come Lawrence Kohlberg (1927–1987) a concepire i codici morali come altrettante specie naturali disposte secondo una gerarchia evolutiva. Ma questa concezione irrigidisce la rappresentazione della 8 Premessa vita morale, quando si consideri che ogni assetto morale, compreso quello supererogatorio, resta per noi accessibile a seconda delle concrete esperienze che facciamo. Il che significa, d’altra parte, che il disadattamento o crisi che può innescare la presa di coscienza non è prevedibile secondo tipologie e classificazioni più o meno psicologiche (“è molto probabile che un individuo colpito da un lutto entro un anno sviluppi una depressione, o abbia un grave incidente d’auto, o sia colpito da infarto”), ma è una condizione latente della vita morale, dalla quale deriva la possibilità del suo rinnovamento (e non solo di sedute psicanalitiche, di incidenti d’auto, o di applicazioni di bypass sia pure in day hospital). Abbiamo abbozzato sin qui ciò che potremmo chiamare un modello naturalistico di mente morale, fondato sul carattere inconsapevole dei nostri meccanismi morali, che formano un inconscio morale retto dal principio normativo. Ciò che, tuttavia, questo modello ancora non coglie, è che l’esperienza della crisi e della conseguente presa di coscienza, trasformazione e ricostruzione dei propri assetti morali, è esperita soggettivamente in un vissuto affettivo caratterizzato dal disagio e dalla sofferenza, così come dal sollievo e dalla soddisfazione di essere pervenuti ad una nuova meta. Un vissuto che ha il suo corrispettivo nella rottura del discorso monologico entro cui si era inseriti, e nell’apertura di un dialogo. Ciò, tuttavia, non deve far pensare alla vita morale come ad un colloquio ben condotto che, di stadio in stadio, conduce alle verità della saggezza. Il dialogo è il sintomo della trasformazione dei rapporti morali entro cui l’individuo è inserito, i quali, come abbiamo notato, sono sempre caratterizzati da un comandare e da un obbedire più o meno generici e impersonali. Si tratta quindi di una situazione di conflitto che il dialogo traduce in simboli carichi di dolore e di gioia, di sofferenza e di sollievo. La conseguenza metodologica della soggettività con cui sono vissute le trasformazioni morali è l’assoluta libertà di mezzi e di metodi per descrivere e spiegare questi stati di cose. Lo si può fare tramite un discorso teorico che attinga a campi consolidati del sapere, ed è ciò che qui ancora una volta faremo. Ma lo si può fare anche studiando casi singoli che mettono in gioco l’empatia del ricercatore, sino all’autobiografia e all’invenzione verosimile, che è quello che Premessa 9 forse un giorno si dovrà fare. Qual è allora la differenza tra questa libertà metodologica e la particolarità del romanzo? Come ha osservato Gao Xingjian, Anche la filosofia in fondo è un gioco dell’intelletto. Si situa dove matematica e scienze esatte non arrivano e si dedica alla costruzione di raffinate architetture. Terminata la costruzione, finisce il gioco. A differenza della filosofia, il romanzo è un prodotto della sensibilità che fonde in una miscela di desideri un sistema di segni arbitrariamente costruito. Quando la miscela si amalgama e genera nuove cellule nasce qualcosa di nuovo. Osservi il prodotto e lo trovi molto più interessante di qualsivoglia gioco dell’intelletto. E come la vita non ha un obiettivo (Gao Xingjian, 2002, p. 406). Dunque, a differenza del romanzo, la filosofia non può fondere la vita con l’arbitrarietà semiotica. Tuttavia, con il suo gioco intellettuale può chiarirne le strutture e i gradi, quale premessa per l’accettazione di quella vita senza scopo che il romanzo, in quanto vita, dice ma non spiega. *** I testi che compongono questo libro, benché provengano da varie sedi e risalgano ad epoche differenti, formano, giusta l’espressione di poco prima, un gioco intellettuale unico, sia nel metodo che nel contenuto. Il metodo consiste nella ricostruzione e nel confronto con il pensiero di differenti autori, da Frege a Peirce a Lukács, da Vailati a Della Volpe a Scarpelli, da Locke a Hobbes a Saussure, e altri ancora, con Piaget come costante punto di riferimento. Il contenuto è costituito dalla riflessione intorno a temi quali la natura conflittuale del comunicare tra menti discorsive finite; il rispetto come struttura affettivo–morale evolutiva, in cui si forma la norma ma vengono poste anche le premesse della sua trasformazione; la libertà nel e dal linguaggio come chiave per la comprensione teorica e storica dell’essere sociale. 10 Premessa Metodo e contenuti di questo gioco intellettuale, sin dal suo esordio sono stati indicati con il termine semioetica1, che stava nel titolo di tutti e tre i testi preparati per altrettanti seminari tenuti, sempre per amichevole sollecitazione di Daniele Gambarara, cui va la mia non formale gratitudine, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, il primo risalente al novembre 1996, e pubblicato nel numero 13 del «Bollettino Filosofico» del Dipartimento di Filosofia di tale Università; il secondo, al gennaio 2001, e stampato nel numero 16 dello stesso «Bollettino»; il terzo, al marzo 2004, e apparso nel numero 20, sempre nella stessa sede. Tali testi, debitamente riscritti, costituiscono ora, pur mantenendo l’originario tono colloquiale, i capitoli primo, secondo e quarto di questo libro. Il terzo capitolo, invece, è il rifacimento di un saggio apparso in lingua per i «Cahiers Ferdinand de Saussure» (56/2004), una cui prima stesura in italiano costituiva un capitolo del mio libro Ordine e trasformazione. Morale, mente, discorso in Piaget, édito nel 2003. Il quinto e il sesto capitolo, infine, sono rielaborazioni inedite di appunti utilizzati nei corsi di Semiotica, di Etica della comunicazione e di Filosofia morale da me tenuti negli ultimi anni alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina, ai quali hanno partecipato studentesse e studenti che con il loro ascolto intelligente mi hanno molto insegnato. giugno 2007 1 Per le vicende terminologiche http://www.semioetica.net/suggest.html F.A. di questo neologismo, cfr. Capitolo primo Strutture normative e volontà del soggetto 1. LA RAGIONE ANTIMONISTA DI GIOVANNI VAILATI Il 23 ottobre 1996, Lord Simon Brown, giudice della High Court d’Inghilterra, ha deciso che le carte della società Fininvest di Silvio Berlusconi, sequestrate precedentemente a Londra dalla polizia inglese nella sede di una società collegata, dovevano essere consegnate alla procura della Repubblica di Milano, la quale, con una rogatoria internazionale, ne aveva fatto richiesta. In sé, questo fatto non può interessare la semioetica, ma le motivazioni del provvedimento stese dall’alto magistrato inglese, quelle sì, presentano un qualche interesse per questo indirizzo di studi che cerchiamo di sostenere il meno indegnamente possibile. Infatti, nel suo dispositivo di sentenza, come si dice con termine tecnico, Lord Brown, rigettando l’assunto di uno degli avvocati del magnate brianzolo, secondo il quale il pubblico ministero italiano «è interessato a politicizzare certi casi che riguardano illustri uomini politici per fini politici», scrive che «dire che i magistrati italiani stiano facendo una campagna motivata da scopi politici, o che affrontino il caso Berlusconi animati da uno spirito di persecuzione politica, significa fare un cattivo uso del linguaggio» (“L’Espresso”, n. 45, 7 novembre 1996, p. 48. Corsivo mio). 11 12 Capitolo I Il tema dell’abuso del linguaggio è tipicamente anglosassone, ed è così vivo ed operante in quella cultura, che non lo troviamo solo nei libri di filosofia, ma, come si vede, anche in sentenze giudiziarie dei nostri giorni. Non si può dire certo lo stesso per l’Italia, dove non solo non permea la vita quotidiana, ma è anche raro come tema di analisi e di riflessione filosofica. Giovanni Vailati (1863–1909) fa eccezione a questa regola. Bisogna dire che con l’etichetta «abuso di linguaggio» ci si riferisce a una grande varietà di fenomeni linguistici. L’abuso di linguaggio rilevato da Lord Brown rientrerebbe, secondo la classificazione fattane da Jeremy Bentham (1748–1832) nel suo classico Il libro dei sofismi, nei «sofismi di pericolo» (Bentham, 1824, p. 42), cioè in quei sofismi il cui contenuto è la prospettazione di un qualche pericolo, e il cui fine è di reprimere senz’altro ogni discussione suscitando allarme. Il loro uso è tipico del discorso politico o giudiziario. Gli abusi di linguaggio studiati da Vailati riguardano invece quasi sempre l’argomentazione filosofica e scientifica. Inoltre, la dizione «abuso di linguaggio» non rende completamente la ricchezza delle sue analisi, che ne fanno veramente un precursore in campi come gli studi contemporanei di teoria dell’argomentazione che vanno sotto il nome di informal logic (v. per esempio Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia della scienza e della cultura); o come le ricerche retorico–linguistiche, soprattutto di area francese, sulla “semantica” dei verbi, cioè sulle metafore “morte” con le quali, nel discorso, si indicano operazioni di pensiero: la tal cosa “si basa”, ecc. (v. per esempio I tropi della logica); o come, ancora, le analisi semiotiche comparate della logica e del linguaggio (v. per esempio La grammatica dell’algebra). Il filo che lega questa varietà di contributi, con riferimenti a molteplici aspetti del linguaggio (Aqueci, 1998) e della scienza (Aqueci, 2000a), lo si può individuare tuttavia non tanto nella costruzione di una qualche teoria linguistica, benché Vailati seguisse da vicino gli «sviluppi straordinari» delle scienze linguistiche del suo tempo (Scritti, II, p. 72), quanto piuttosto in un interesse per un uso sempre più avvertito del ragionamento nell’argomentazione filosofica e scientifica (v., per esempio, lavori come Il ruolo dei paradossi in filosofia e La caccia alle antitesi). Strutture normative e volontà del soggetto 13 La sua fu, insomma, assieme ad altri suoi contemporanei, da Gottlob Frege (1848–1925) a Bertrand Russell (1872–1970), la cui opera ebbe però più sviluppo e risonanza, una pioneristica filosofia analitica del linguaggio, il cui scopo era, come si esprimeva crudamente lo stesso Frege, di «spezzare il dominio della parola sullo spirito umano» (Ideografia, p. 106). Un proposito che Vailati traduceva più mitemente nell’esigenza di migliorare e sanare il linguaggio ordinario servendosi dei progressi del simbolismo logico (Epistolario, p. 174). Nell’ultimo capitolo di questo libro, torneremo su questo punto. Qui possiamo intanto osservare che l’approdo finale di Vailati al pragmatismo rappresenta la costituzione in metodo filosofico di tale pratica di analisi. Quale poi sia il significato più profondo di questo metodo, lo si comprende dalla contrapposizione che Vailati instaura tra il pragmatismo e ciò che egli chiama il monismo (Scritti, I, p. 90), la tendenza cioè a generalizzare, a dissolvere le distinzioni, a ricercare in ogni cosa l’uno o il generale (Scritti, I, p. 91) — in altri termini, la riduzione della riflessione scientifica e filosofica alla mera attività di identificazione. Questo pragmatismo antimonista e dalla forte sensibilità storico–genetica — per Vailati, uno dei meriti del metodo di presentazione della logica che il suo maestro, Giuseppe Peano (1858–1932), aveva adottato, era il saper dare di tale disciplina un’idea non «statica» ma «nel suo moto e sviluppo» (Scritti, I, p. 69) — troverà il suo punto d’equilibrio nel criterio empirico della verificabilità degli enunciati e delle teorie da contrapporre alla tendenza identificatrice (Scritti, I, p. 91). Qualche decennio dopo, altri, come ad esempio Jean Piaget (1896–1980), un autore che nella sua riflessione epistemologica ripercorre gli stessi passi di Vailati, dall’interesse per il ragionamento cui accedere tramite il linguaggio, all’analisi dei concetti di definizione, di identità, di causalità, allo studio infine della natura della logica e della matematica, adotteranno per così dire una strategia più d’attacco. Per restare a Piaget, egli non sceglie la strada della critica linguistica dell’argomentazione filosofica e scientifica, ma denunciando «quel mostro amputato che è la ragione esclusivamente identificatrice» (Piaget, 1971, p. 161), mira a determinare, in una pro- 14 Capitolo I spettiva genetica, le strutture che fanno della ragione una attività produttrice di novità. I risultati di questa differente strategia si vedono, ad esempio, nella rispettiva concezione della matematica. Per Vailati, la matematica è un’«attività creatrice», in quanto è indipendente «da ogni riferimento agli oggetti o alle relazioni di cui essa tratta, e alle quali essa è capace di venire applicata» (La più recente definizione della matematica, in Scritti, I, pp. 11–12). Piaget, che pure perviene ad una concezione simile, si spinge sino ad analizzare le strutture di tale creatività, come mostra la sua teorizzazione intorno alle astrazioni riflettenti che procedono dall’azione del soggetto (Piaget, 1971, p. 181). In altri termini, la concezione di Vailati della matematica come pura sintassi infinitamente interpretabile, si arricchisce in Piaget di considerazioni intorno alla formazione del soggetto della conoscenza, per cui la matematica e, come accenneremo dopo, anche la logica, saranno concepite come una “emergenza” delle azioni concrete del soggetto. Su Piaget torneremo in chiusura di questo capitolo, e più volte, nel corso di questo libro. Intanto, per concludere su Vailati, vorrei ancora osservare come il suo pragmatismo antimonista non concerne solo la teoria della conoscenza, ma anche altri aspetti della riflessione filosofica. Colpisce, ad esempio, la nettezza con cui egli coglie la differenza che il significato svolge nel campo pratico rispetto a quello teorico. Nel campo pratico, egli dice, il significato si presenta sempre come intimamente connesso «alle questioni di interpretazione della volontà altrui» (Scritti, II, p. 54. Corsivo dell’autore). A questo proposito, uno storico della filosofia molto serio come Mario Dal Pra ha sostenuto che, sebbene a Vailati non mancasse la consapevolezza filosofica dei «problemi dell’uomo», cioè dei problemi propri dell’etica e della politica, egli non seppe aprirsi la via verso di essi (Dal Pra, 1971, p. L). Questo rilievo critico è accettabile se si ricerca in Vailati il sistema compiuto. Tuttavia, la costruzione di un tale sistema non era fra gli scopi della sua attività di pensiero. Piuttosto, con un lavorìo critico fatto di saggi e interventi, in cui si avvertono, per quanto filtrate da un pessimismo di fondo, le speranze di progresso del suo tempo, egli mirava ad affermare il valore civile del Strutture normative e volontà del soggetto 15 retto ragionare (Aqueci, 2000b). Un intento ostacolato dalla sua prematura scomparsa, e che comunque non avrebbe trovato facile rispondenza nei cambiamenti sociali e politici che già si preannunciavano. 2. IL VOLONTARISMO DIALOGICO DI GUIDO CALOGERO Sotto la tormenta, per parafrasare il titolo di un famoso libro di George Sorel (1847–1922), i semi gettati da Vailati non marcirono. Nel secondo dopoguerra, in cui il rinnovamento degli studi si accompagna all’avvio di un lungo periodo di sviluppo e di trasformazioni sociali, politiche e di costume, ci si avvede dell’importanza delle sue precorritrici riflessioni epistemologiche e linguistiche, e le questioni etico–politiche legate all’«interpretazione della volontà altrui» ritornano al centro della riflessione filosofica. Sebbene per altri stimoli e in modo del tutto autonomo, è questo il caso di Guido Calogero (1904–1986). Per Calogero, l’«interpretazione linguistica» coincide con «tutto il problema del linguaggio», con «tutta la semantica come scienza dell’espressione e della comunicazione» (Logica, p. 21). Tuttavia, questa «forma di ermeneutica del segno», di «interpretazione semantica delle parole e degli indizi» (ibidem) è anche sin dall’inizio una nozione etica. Ciò che distingue, infatti, l’interpretazione linguistica dall’interpretazione scientifica è «la sua costitutiva attenzione per la personalità», «la sua specifica direzione verso l’altrui coscienza» (ibidem). L’interpretazione scientifica spersonalizza gli eventi, l’interpretazione linguistica assume interamente l’«altruità» o «altrui egoità» (Etica, p. 132 e p. 138). Sulla base di queste consapevolezze, che la distinzione di Vailati, sebbene solo in negativo, già implicitamente conteneva, Calogero avanzerà verso la teoria della «situazione dialogica» (Logo e Dialogo, p. 14). Una teorizzazione che procede lungo due dimensioni, una etico–discorsiva, l’altra più propriamente linguistica. La prima dimensione costituisce una teoria del dialogo. La seconda, un’indagine circa la natura del segno linguistico. Benché queste due dimensioni vivano unitariamente nel concetto di interpretazione linguistica, Calo- 16 Capitolo I gero stesso prenderà atto ad un certo punto che l’una non si risolve interamente nell’altra, e distinguerà infatti tra il linguaggio come «alterno sforzo di capire e del farsi capire, dell’interpretare e del comunicare» (Logo e Dialogo, p. 16), ed il linguaggio «come modo d’agire della stessa conoscenza per sé presa» (ibidem). Autorizzato anche da queste oscillazioni dello stesso Calogero, esporrò qui distintamente le sue argomentazioni circa le due dimensioni sopra richiamate. 2.1. La teoria del dialogo L’interpretazione linguistica è dunque quella forma di ermeneutica del segno la cui specifica direzione è l’altrui coscienza. Tuttavia, per quanto ci si sforzi, l’interpretazione linguistica non giunge mai a saltare «il vallo dell’egoità» (Etica, p. 132), poiché l’altruità si presenta sempre come un dato irriducibile (Etica, p. 138). Questa impossibilità a realizzare l’identità con l’altro soggetto non dovrà essere vista come un difetto, bensì come una caratteristica propria della struttura dialogico–morale. L’indagine etica ci insegna, infatti, che ogni genuina morale vive della tensione di due bisogni, quello di investirsi nella persona altrui, e quello di non raggiungere mai l’“altro” (Etica, p. 141). Il processo ermeneutico, dunque, in ciò soddisfa la natura dell’esperienza morale che lo definisce. D’altra parte, la tensione verso l’altro che definisce, ad un tempo, la natura dell’esperienza morale ed il processo ermeneutico, non può essere oggetto di dimostrazione logica. Come mostra, infatti, l’indagine sulla genesi storica delle forme logiche — un’indagine che Calogero, quale storico della logica antica, condusse in prima persona — il principio di non–contraddizione, la coerenza semantica, i modi del sillogismo non sono altro che «schemi atti ad ostacolare gli indebiti sviamenti nell’assunzione del significato dei termini durante il corso di un colloquio» (Etica, p. 160). La loro natura è interamente discorsiva1, ma in quanto «appelli alla lealtà», in quanto 1 Il principio di contraddizione, ad esempio, è nato quando, dopo aver riconosciuta alla particella “è”, interposta tra due vocaboli, la funzione di indicare la pertinenza di quanto era designato dal primo, e al nesso “non è” quella di indicare invece l’esclusione di tale pertinenza, si stabilì che il significato di “A è B” escludeva assolutamente quella di “A non è B”, Strutture normative e volontà del soggetto 17 «norme» del gioco linguistico, essi servono soltanto a migliorare l’efficienza comunicativa della conversazione, a far sì che nel colloquio non prevalga lo spirito di sopraffazione verbale (ibidem). Con una formula molto concisa e molto attuale, se si pensa all’odierna ripresa della filosofia pratica, Calogero può allora concludere che «non è […] la logica che sorregge la morale, ma al contrario la morale che rende possibile la logica, in quanto particolare etica della discussione» (Etica, p. 160). Ora, per Calogero, la morale si fonda su un atto di volontà libero. Ad essere altruisti, bisogna decidersi, e per questa decisione si è soli con sé medesimi: soli con la propria volontà e libertà. Non si può esigere nessun motivo o pretesto. Si deve avanzare d’iniziativa propria, senza che i ponti alle spalle siano stati tagliati dalla ragione (Etica, p. 164). E tale atto trae la sua origine non dalla dimostrazione logica ma dall’esempio morale. Quel che conta non è l’apodeixis, la “dimostrazione” razionale, ma bensì il paradeigma, l’“esempio” personale: il quale è, anch’esso, un modo di deikninai, di “mostrare” e far vedere e mettere sotto gli occhi, ma un modo che impegna infinitamente di più, che non permette di restare nell’adiaforìa argomentante. Si dimostra un teorema, e si può truffare un amico, senza che ciò comprometta l’efficienza della dimostrazione. Ma non si può ingannare, e educare alla moralità: non si può adoperare l’indifferenza della tecnica, che serve insieme per il bene e per il male, allorché il problema è quello di far amare il bene, di richiamare l’animo dalle lusinghe del male. Come la “logica” deve mutarsi in eloquenza, in vivo moto e ridestamento di affetti, così l’esempio diventa la pagina più persuasiva, per dimostrare agli altri in che modo si debba vivere. Educare all’ethos è la cosa più difficile, ed insieme la più alta che l’uomo possa fare al mondo: e come potrebbe pretendersi che vi riuscisse con quattro argomenti, senza mettervi in giuoco tutta la sua umanità, senza dare egli stesso un esempio di vita, impegnando in ciò tutta quanta la vita? A tale scopo, più che la logica dei sillogismi, giova la logica dei martiri e degli eroi (Etica, p. 168). e viceversa. In questo senso, il principio di contraddizione, conclude Calogero, «non poteva spiegare efficacia che in un mondo della dizione», opposto al mondo asemantico della pratica (Estetica, p. 215). 18 Capitolo I Questo dell’esempio morale è uno dei punti su cui torneremo quando avremo terminato l’esposizione del pensiero etico–discorsivo di Calogero. Intanto, prendiamo atto che quel medesimo atto di volontà libero che fonda la morale, fonda anche il dialogo. E fonda anche la legge. Un accenno merita ciò che Calogero dice intorno alla legge. La legge, nella sua concezione, appare completamente immersa nel processo ermeneutico. Infatti, ogni legge è, sì, una dichiarazione di volontà, ma essa è tale in quanto «enunciazione verbale d’una richiesta rivolta ad altri» (Etica, p. 264). «Non c’è legge — sostiene Calogero — senza parola, e quindi senza un parlante ed una, o più, altre persone che l’ascoltino e la capiscano» L’attività giuridica è quindi una delle tante facce del comunicare dialogico, sia in quanto manifestazione della volontà del legislatore, sia in quanto comprensione di tale volontà da parte dei soggetti sottomessi alla legge: «non si capisce la volontà di legge senza risalire dalla formula all’intenzione legislatrice, col consueto processo di ricostruzione ermeneutica di ogni situazione della consapevolezza altrui» (Etica, p. 299). Ma come nasce, secondo Calogero, la norma giuridica? Che cosa legittima l’enunciazione giuridica? Perché si è tenuti ad ascoltare e, quando occorra, interpretare la legge? Fare ricorso all’ipotesi del contratto, tanto nel caso della norma giuridica quanto nel caso della norma linguistica, comporta, per Calogero, di incorrere in una petizione di principio (Etica, p. 328). Infatti, nel caso di quest’ultima, ci si trova nella singolare situazione di dover «presupporre che gli uomini già s’intendano tra loro per potersi accordare sui nomi da dare alle cose» (ibidem). Analogamente, nel caso della norma giuridica, quando essa non nasca dall’iniziativa di volontà individuali, ciò che è la normalità storica, non è la legge che presuppone il contratto, ma, al contrario, è il contratto che presuppone la legge, intesa quest’ultima, appunto, come manifestazione di volontà (ibidem). Siamo così rinviati ancora una volta al volontarismo altruistico che in Calogero fonda con un unico movimento la morale, il dialogo, il diritto e la politica, come si può vedere da questa citazione: Come l’altruismo non discende dal diritto delle altrui persone, ma bensì il diritto delle altrui persone dalla volontà altruistica di capirle, così il principio liberale del consenso e della rappresentanza non si deduce dalla pluralità dei Strutture normative e volontà del soggetto 19 cittadini dello stato, ma solo dalla volontà che questi stessi cittadini possano intervenire al massimo col proprio libero convincimento, nell’instaurazione medesima delle norme coercitive (Etica, p. 333). In altri termini, non è il fatto empirico della eterogeneità delle opinioni che fonda il principio del consenso, ma la volontà di garantire a tutti i cittadini l’espressione del proprio convincimento, nel momento in cui si enuncia una norma giuridica o si perviene ad una decisione politica. 2.2. La teoria linguistica Questo rifiuto della teoria del contratto è un altro dei punti su cui torneremo alla fine, Ma veniamo per ora alla teoria linguistica che, nella filosofia del dialogo di Calogero, è come un lungo intermezzo. Dopo un primo tempo in cui vengono posti i principi cha abbiamo appena visto, si esplorano poi con i ritmi dell’adagio i confini del linguaggio, per ritornare infine con l’impeto del mosso al tema iniziale del dialogo, ma con l’arricchimento di variazioni e sfumature che il lungo intermezzo linguistico consente. In questo intermezzo, l’identificazione di arte e linguaggio, di intuizione estetica ed espressione, affermata da Benedetto Croce (1866–1952), fa da contrappunto ad una concezione del linguaggio, al tempo stesso, referenzialista, empirista e realista che Calogero va sbozzando. L’esperienza del linguaggio, scrive Calogero (Estetica, p. 124), ha questo fondamentale carattere: che quel che si ama, o si odia, ciò che è oggetto della nostra gioia o del nostro dolore, non è mai il segno, ma il significato. Il segno, dunque, ha questa essenziale natura, di non costituire mai il termine reale della nostra azione, poiché essa ha sempre un «eidos», cioè un mondo di possibilità rappresentate, verso cui si orienta, o da cui rifugge (ibidem). Certo, continua Calogero, «ogni segno può essere significato da un ulteriore segno, in una illimitata catena di riferimenti semantici» (Estetica, p. 125). Ma questa catena semiotica deve pur pendere da qualche anello. E lo stabile ed ultimo anello a cui è assicurata, è appunto «quell’immediato volto della nostra pratica e consapevole realtà, la cui cancellazione cancellerebbe il senso della nostra vita, tuffandola senz’altro nel fiume del nulla» (ibidem). 20 Capitolo I Se la semiosi illimitata è puro suono che annulla il mondo (Estetica, p. 178), e se, invece, la realtà, oggetto e causa del nostro piacere e del nostro dolore, è là, che richiede di essere detta, allora il linguaggio è essenzialmente un’«esperienza di riferimento». Più precisamente, il linguaggio è la designazione di uno degli aspetti dell’«immediato volto della vita» mercé un altro qualsiasi di tali aspetti (Estetica, p. 125). In tal senso, il linguaggio è indifferente al «contenuto d’esperienza» di cui si serve per designare, ma tutto concentrato invece sul «rapporto di designazione» stesso. Arbitrarietà del linguaggio, dunque, in quanto rapporto di designazione (Estetica, p. 125 e p. 179). Ma anche storicità del linguaggio, poiché esso persiste come un’abitudine in una più o meno vasta cerchia di uomini, i quali, quindi, reagiscono con un salutare spirito di conservazione ad ogni tentativo di innovazione rivoluzionaria (Estetica, p. 180). Tuttavia, la storicità del linguaggio non ci deve indurre ad accettare l’idea arcaica di una congruenza naturale del segno al significato (Estetica, p. 181). La costituzione del rapporto arbitrario di designazione è invece opera dell’«infinito ripetersi e rinnovarsi del colloquio umano» (ibidem). Tutto ciò per Calogero è una conferma del carattere strumentale e comunicativo del linguaggio. Per questo aspetto, nulla di più prettamente strumentale, di più radicalmente subordinato alla sua capacità d’uso, del linguaggio. La sua bontà è tutta nella sua efficienza comunicativa: se con esso ci si intende, lo scopo è raggiunto; e quanto meglio ci si intende, tanto più esso è un bel linguaggio. Di qui il fatto che nell’uso, cioè nella più frequente o stabilizzata consuetudine dei parlanti sta il canone ultimo della funzionale correttezza di una lingua (ibidem). A proposito del linguaggio come strumento di comunicazione, vedremo più sotto che sarà possibile enucleare in Calogero un significato più forte di tale principio, che ha rapporti più stretti con l’insieme della sua elaborazione filosofica. Intanto, rileviamo come in questa fase della sua elaborazione, che si attesta su una posizione di referenzialismo classico, la sua terminologia è ancora abbastanza rudimentale, come si può vedere da qualche passo dove il termine “segno”, usato come sinonimo di “significante”, è inteso come etichetta sonora o grafica del significato o cosa (Estetica, p. 125). Strutture normative e volontà del soggetto 21 Tuttavia, cessata l’urgenza di affermare contro Croce l’irriducibile presenza della realtà e la conseguente natura comunicativa del linguaggio, Calogero mostra di avere una concezione più scaltrita della natura del segno. Anche qui egli muove dal rifiuto dell’identificazione crociana di intuizione ed espressione, ma da una posizione, per così dire, semioticamente più interna, che prende in considerazione non più il rapporto tra intuizione ed espressione, bensì la natura stessa dell’espressione, cioè dei segni linguistici. Calogero comincia dicendo ancora un po’ genericamente che «ogni parola, ogni strumento semantico ha […] sempre due facce: quella immediatamente propria, e quella del contenuto mentale che il suo apparire deve presentare alla coscienza» (Estetica, p. 173). Ma poco più sotto chiarisce qual è l’effettiva natura delle «due facce» di ogni parola: «Nessuno che sente dire “pane” vi sente soltanto due consonanti e due vocali, bensì sente insieme orientato il suo sguardo mentale, da quel contenuto fonetico, verso il diverso contenuto visivo costituito dall’immagine del pane» (Estetica, p. 173). Da qui la conclusione che l’espressione, cioè il linguaggio, è «non già un’intuizione, ma bensì un rapporto funzionale di due intuizioni, di cui l’una rinvia all’altra, cosicché l’una è segno e l’altra senso, l’una significante e l’altra significato» (Estetica, p. 174). Come si vede, mentre nel momento più acceso della polemica anticrociana, il segno come etichetta veniva globalmente messo in corrispondenza con un significato o cosa, qui il rinvio semantico avviene fra due intuizioni, l’intuizione sonora, o significante, e l’intuizione eidetica o mentale, il significato. Quale sia la natura del «rapporto funzionale» che lega significante e significato, Calogero non lo dice. Resta il fatto che, spinto dalla polemica anticrociana, egli riesce a staccare il segno dall’ingenuo ancoraggio realistico, e a concepirlo come fenomeno strutturalmente duale e dalla natura interamente psichica. 2.3. Ritorno al dialogo Dunque, per Calogero il segno è un’entità psichica a due facce, cioè il rapporto funzionale di un’intuizione sonora e di un’intuizione eidetica. 22 Capitolo I Da premesse simili, Ferdinand de Saussure (1857–1913), di cui tratteremo più oltre approfonditamente (cap. V), tirò una teoria del valore linguistico che, prendendo a modello l’equilibrio economico della scuola marginalista (Molino, 1984), fa della lingua un sistema dove si scambiano valori. Roland Barthes addirittura osservò che il modello di Saussure è la democrazia intesa come contratto sociale (1973, p. 87). Vedremo quanto è fallace questa idea, salvo considerare la democrazia come un plebiscito permanente. Quanto a Calogero, egli, oltre a diffidare, come abbiamo visto prima, dell’idea di contratto, non si interessa ad una teoria della lingua come sistema linguistico. Anche questo è un altro punto che, assieme all’esempio morale e al rifiuto dell’idea di contratto, dovremo valutare alla fine in sede critica. Per ora limitiamoci ad illustrare come la nuova concezione del segno, emersa nella polemica anticrociana, dia i suoi frutti quando Calogero torna a trattare del rapporto tra la logica, la grammatica e il linguaggio. Per Calogero, la logica come sillogistica non è altro che «linguaggio cristallizzato», «linguaggio ridotto ad immobile schema», «una raccolta di schemi verbali» (Estetica, p. 215). E quanto alla grammatica, le astratte strutture morfologiche non sono altro che «schemi di schemi, classi generalissime di atteggiamenti semantici» (Estetica, p. 219). Dunque, logica e grammatica «non sono entrambe se non schematizzazioni arbitrarie, compiute per questo o quello scopo pratico, dell’unica realtà vivente del linguaggio» (ibidem). Ma, si chiede Calogero, in questo ridurre a schemi linguistici la logica, in questo negare il carattere di logicità agli schemi verbali, in altri termini, in questo richiamarsi alla «realtà vivente del linguaggio», così come faceva Croce, non c’è il rischio di aprire la via, assieme ad una concezione vitalistica del parlare, anche all’irrazionale? La garanzia contro questo rischio, secondo Calogero, sta sempre nella buona volontà d’intendere cose e persone (Estetica, p. 229). La serietà dell’attenzione critica, l’onestà della discussione, egli afferma in modo ancora sorprendentemente attuale, «non è questione di logica, bensì questione di pratico comportamento, faccenda morale: oggetto di quel particolare capitolo della filosofia della prassi, che è la morale del colloquio, l’etica del linguaggio» (Estetica, p. 231). Strutture normative e volontà del soggetto 23 Ancora una volta, dunque, ed ora dopo il lungo intermezzo linguistico, torna a stringersi quel nodo di etica, logica, e linguistica che spiega come si instaura e funziona il dialogo, la cui forma più alta e compiuta è il «dialogo scientifico» (Estetica, p. 198), al quale, pur nella sua peculiarità, deve tendere anche la comunicazione politica (Calogero, 1946). Ed è il modello del dialogo scientifico che chiarisce la sua concezione del linguaggio come strumento di comunicazione. Infatti, a differenza di quanto accade nella pratica, dove domina l’«ideazione diretta» che fa a meno della mediazione dei segni, nel dialogo scientifico il linguaggio ci si presenta pienamente come «ideazione parlata», attraverso cui il colloquio avanza di termine in termine con un «processo di rinvio» semantico continuo, senza dover ritornare, se non in piccola parte, alle cose (ibidem). In Calogero, allora, la concezione strumentale del linguaggio, più che all’idea di trasmissione di informazioni già date, si avvicina al modello giudiziario dell’istruire una causa2. in cui non basta raccogliere prove, produrre memorie, presentare istanze, ma dove occorre dimostrare, mettere in scena pubblicamente il proprio interno discorso. La comunicazione, allora, appare come l’ideazione pubblica di contenuti discorsivi individuali. 2.3.1. Excursus: Calogero e Vico I temi che stiamo esaminando, rendono opportuno un accenno alle critiche che Calogero formula nei confronti di Giambattista Vico (1668–1744), e ciò sia in ragione dell’interesse in sé dei punti di vista avanzati, sia per quanto meglio ci fa capire delle sue posizioni filosofico–linguistiche. 1) Un primo punto riguarda il significato delle etimologie proposte da Vico nel De antiquissima Italorum sapientia, in particolare quella concernente la formula verum et factum convertuntur. Il richiamo a Vico avviene alla fine dell’esposizione di una sua originale concezione dell’etimologia. 2 Devo questa suggestione a Jean–Blaise Grize (lettera privata, 8 gennaio 1993). 24 Capitolo I Calogero distingue tra il «tema fonetico» o «tema etimologico», che corrisponde a ciò che i glottologi chiamano «radice», e il «tema semantico», che è invece costituito dall’identità translinguistica di un certo modo di designazione metaforica (Estetica, pp. 206–207). Per esempio, in tedesco si ha il termine Anschauung, la cui radice o tema fonetico è Schau; mentre in italiano si ha considerazione, la cui radice o tema fonetico è sidus. Si hanno dunque due temi fonetici, ma uno stesso tema semantico, cioè l’attività teoretica designata con la metafora della visione. È solo a livello del tema semantico che, secondo Calogero, si possono fare legittimamente delle osservazioni circa lo spirito di una lingua (Estetica, p. 210). Ora, per tornare a Vico, Calogero suggerisce che egli, nell’indagine etimologica su cui fondò tutto l’edificio del De antiquissima Italorum sapientia, altro non fece che ricercare temi semantici, e interpretarli come documentazioni di atteggiamenti spirituali del passato (Estetica, p. 211). In particolare, egli interpretò l’uso linguistico registrato in antichi testi latini di factum est equivalente a verum est, come l’espressione del tema semantico secondo il quale la verità è il prodotto di un facere mentale. Tuttavia, sostiene Calogero, è assai più probabile «che quell’uso linguistico sia nato invece dalla semplice parificazione del “vero”, nella sua identità col “reale”, al “fatto” non già dell’azione conoscitiva ma proprio dell’azione pratica, all’incirca allo stesso modo in cui sorgono, sia nell’accezione corrente sia in quella positivistica, le locuzioni per cui si chiedono non astratte idee, ma bensì “fatti”, verità “di fatto”, cose che “stiano di fatto”, e così di seguito» (Estetica, p. 212). Dunque, la corroborazione del principio gnoseologico del verum et factum convertuntur, che Vico intendeva effettuare tramite la ricostruzione storica del tema semantico soggiacente all’uso di significare verum est con factum est, non può essere raggiunta, se non commettendo l’errore di attribuire la sua stessa concezione gnoseologica all’antichissima sapienza italica (Estetica, p. 211). 2) Un secondo punto concerne la discussione da parte di Calogero del carattere metaforico del linguaggio sostenuto da Vico (Estetica, pp. 93–98). Strutture normative e volontà del soggetto 25 Il metaforeggiare, concede Calogero a Vico, è intrinseco al linguaggio. Tuttavia, per quanto frequentissimo, non è né onnipresente né indispensabile. Nel linguaggio infatti non mancano le parole che non presuppongono alcun processo metaforico, come è nel caso delle parole che nascono da sigle, o come è nel caso delle onomatopee (Estetica, p. 96). Quanto poi al fatto che la metafora sia sempre poetica, anche qui Calogero obietta a Vico che «come il linguaggio è molto spesso metaforico, ma non sempre metaforico, così la metafora è qualche volta poesia, ma non sempre poesia» (Estetica, p. 97). In conclusione, contrariamente alle estensioni abusive di Vico, il quale attribuì al linguaggio una natura radicalmente metaforica, e vide in ogni metafora manifestarsi una radicale forza poetica (Estetica, p. 96), si deve distinguere, secondo Calogero, tra una «metafora lirica» e una «metafora semantica» (Estetica, p. 98). E geneticamente bisogna porre prima la metafora semantica, e poi quella lirica. Infatti, in quanto espressa nel mondo del linguaggio, la metafora lirica è implicitamente anche una metafora semantica: «parlare è una cosa, cantare è un’altra, anche se la lingua è la stessa per entrambe» (ibidem). 3) Un terzo punto di discussione, infine, che si riattacca immediatamente al punto di sopra, concerne ciò che Calogero chiama «il carattere radicalmente oratorio del linguaggio», che è per lui l’occasione di riassumere tutta la sua concezione del linguaggio. La dottrina crociana della linguistica–estetica, dice Calogero, concepisce la comunicazione come l’estrinsecazione di un contenuto già tutto dato nell’intuizione prelinguistica. Così facendo, però, essa non può spiegare come un contenuto semantico passi da un soggetto all’altro, e non è un caso che il problema della molteplicità dei soggetti resti in questo sistema praticamente in sospeso (Estetica, p. 241). Concependo il linguaggio, invece, come l’ideazione pubblica di contenuti discorsivi individuali, si supera il paradosso crociano di una incomunicabilità che comunica. Ciò deve portare, secondo Calogero, a escludere definitivamente «la classica idea vichiana, ripresa dal Croce, della priorità del linguaggio poetico rispetto al linguaggio oratorio» (Estetica, p. 245). 26 Capitolo I Infatti, nota Calogero, «prima si parla e poi si canta; prima si ottempera alle immediate pratiche necessità, poi si apprende a superare la brama e la malinconia nell’esperienza dell’arte» (Estetica, p. 246). La tesi di Vico sull’originario carattere poetico del linguaggio è stata vista come l’archetipo di ogni concezione della comunicazione come comunione linguistica dei parlanti (De Mauro, 1965, p. 61). Il suo principio del verum factum ha consentito di avvicinarlo ad un pragmatista come John Dewey (1859–1952) (Child, 1970), ha permesso ai costruttivisti cosiddetti «radicali» di rivendicarlo come l’anticipatore del loro indirizzo di pensiero (Gash, Glaserfeld, 1978; Glaserfeld, 1989), ed ha indotto ad accostarlo all’epistemologia genetica di Piaget (Mora, 1975; Rosnow, 1978), al quale per altro gli stessi costruttivisti radicali si rifanno. Il confronto che Calogero instaura con Vico non è riconducibile a nessuna di queste interpretazioni, poiché si tratta, come abbiamo visto, di un rifiuto critico che serve a definire il punto di vista opposto da cui lo stesso Calogero muove. Per Vico, la verità è generata dall’azione, e il linguaggio è un’energia affettivo–semantica, prima di essere uno strumento logico–discorsivo. Al contrario, per Calogero la verità comporta una frattura tra discorso e azione, e una sua costruzione oratoria, cioè quella ideazione parlata, la cui base sta nell’atto di volontà che motiva l’intenzione comunicativa del singolo parlante. Questa posizione gnoseologico–linguistica si accompagna ad una conseguente posizione etica i cui fondamenti, come vedremo fra poco, possono essere messi in luce proprio nel confronto con Piaget. 3. LE TRASFORMAZIONI MORALI DI JEAN PIAGET L’aspetto del pensiero di Piaget che vogliamo utilizzare per il confronto con Calogero, è il modello sperimentale di morale che Piaget costruisce osservando come i bambini praticano e concepiscono le regole dei loro giochi, e per analogia anche quelle propriamente morali. Il quadro che esce fuori dall’insieme delle sue osservazioni, si può compendiare come segue. Strutture normative e volontà del soggetto 27 Durante i primi anni di vita del bambino, la costrizione anche lieve degli adulti si sovrappone all’originario bisogno di reciproco affetto, concepito da Piaget, in accordo con un’intuizione già espressa da Kant nell’Antropologia pragmatica3, come la radice affettiva del bene morale. In ragione di ciò, si genera una cristallizzazione di sentimenti di dovere la cui presa di coscienza linguistica avviene in termini di realismo morale. Questa primitiva forma di pensiero costituisce per un lungo tratto la coscienza morale del bambino, almeno sino a quando, grazie ad un’ulteriore ricostruzione, non sarà colmato il ritardo tra la pratica ormai cooperatoria e la coscienza teorica ancora tutta impregnata di realismo morale. Nell’evoluzione psicogenetica, vi sono perciò secondo Piaget due fasi. Nella prima si ha un’appropriazione puramente verbale delle norme così come vengono ricevute dall’esterno. Nella seconda vi è una ricostruzione discorsiva dei principi già contenuti nell’azione, che incorpora nella norma il bisogno di reciproco affetto rimasto ai margini della costruzione morale. Ora, il passaggio da una fase all’altra dipende dalla trasformazione di un sentimento particolare, il sentimento di rispetto. Rifacendosi a Kant, e alla revisione critica della struttura normativa dell’imperativo categorico operata da uno dei suoi maestri, Pierre Bovet (1878–1965), Piaget concepisce classicamente il rispetto come un sentimento misto di amore, ammirazione e timore, ma vi introduce una dimensione evolutiva in grado di tener conto delle trasformazioni cognitive ed affettive che intervengono nel corso della psicogenesi. È per questo che egli parla di passaggio dal rispetto unilaterale, o monologico, al rispetto reciproco, o dialogico. Nella fase caratterizzata dal rispetto unilaterale, si potrebbe pensare che il discorso normativo abbia efficacia solo perché chi lo tiene è investito d’autorità. In effetti, spiega Piaget, le norme si instaurano perché chi le pone è anche oggetto di ammirazione e timore da parte di chi le riceve. Nella fase, invece, caratterizzata, dal rispetto reciproco, il di- 3 «Fu saggezza della natura averci data la disposizione alla simpatia per guidarci provvisoriamente, prima che la ragione sia giunta alla sua propria forza, l’aver cioè aggiunto all’impulso morale verso il bene anche lo stimolo patologico (sensibile), come surrogato temporaneo della ragione» (Antropologia pragmatica, p. 143). 28 Capitolo I scorso normativo risulta da una negoziazione tra soggetti che tendono a divenire formalmente eguali. Questa concezione dello sviluppo morale è stata fatta propria da John Rawls (1921–2002), che l’ha incorporata nella seconda parte della sua Teoria della giustizia (1971), per spiegare l’apprendimento dei principi normativi di base della «società giusta». Tuttavia, a dispetto delle apparenze, le due prospettive sembrano divergere radicalmente. Infatti, mentre Rawls muove da una concezione della morale come conoscenza, e vede nello sviluppo morale la maturazione di una competenza in qualche modo comparabile ad una grammatica linguistica di tipo chomskyano, Piaget al contrario concepisce la morale come un fatto di discorso legato ad una prassi, e vede lo sviluppo morale come l’effetto del comportamento all’interno di un rapporto sociale in trasformazione. Da queste premesse deriva che mentre Rawls pone l’accento sull’instaurazione di un ordine, Piaget si interessa alle condizioni degli equilibri ideali, sia pure sempre dentro i limiti di una «morale provvisoria» di tipo cartesiano. Come si vede, l’accettazione da parte di Rawls del modello di sviluppo morale a due fasi di Piaget nasconde una divergenza teorica di fondo che non dovrebbe essere trascurata. Se lo si fa, si rischia di assimilare le trasformazioni morali di Piaget ad un’uniforme «morale autoritaria» del rapporto tra genitori e figli, sul quale lo stesso Rawls modellerebbe il rapporto normativo più maturo tra individui e istituzioni (Maffettone, 2001, pp. 169–170). Posto così il problema, diventa giocoforza avanzare l’esigenza di integrare elementi psicoanalitici in grado di fornire un quadro più mosso della formazione di quel «senso di giustizia» con cui secondo Rawls la persona dovrebbe operare nelle istituzioni (Maffettone, 2001, p. 170). Tuttavia, vedremo nel prosieguo, in particolare nel capitolo secondo, che tale esigenza può essere perseguita non tanto contro una supposta «morale autoritaria», che la semplificazione di Rawls autorizzerebbe a scorgere nel modello di Piaget, quanto per superare un residuo di naturalismo che in esso persiste. Intanto, in tale modello, con riferimento al sintetico resoconto che ne abbiamo fatto sopra, si possono mettere in evidenza tre fatti: 1) l’esistenza di una fonte energetica originaria, cioè il bisogno di reciproco affetto; 2) l’esistenza altresì, non di una complessiva «morale Strutture normative e volontà del soggetto 29 autoritaria», ma di due forme della morale, il rispetto unilaterale e il rispetto reciproco, cui corrispondono due fasi della mente morale, cioè il realismo morale e il pensiero morale critico; 3) il rapporto genetico, infine, che lega la fonte energetica originaria alle due forme di rispetto, in particolare al rispetto reciproco, i cui prodotti normativi acquistano cogenza a condizione di incorporare l’energia affettiva originaria. La concezione della morale che emerge, allora, è quella di una struttura che evolve instaurando un ordine logico–pragmatico, al quale i singoli contribuiscono con lo sviluppo della propria mente, divenendo così individui della totalità sociale. Una compatta morfogenesi cognitivo–morale che può essere illustrata con la seguente affermazione di Piaget: «La logica è una morale del pensiero, come la morale è una logica dell’azione» (Il giudizio morale nel fanciullo, p. 328). Se confrontiamo ora questa affermazione con quella che compendia la teoria dell’interpretazione linguistica di Calogero, vediamo che le cose, all’apparenza simili, sono in realtà radicalmente differenti. Come sappiamo, Calogero afferma: «Non è la logica che sorregge la morale, ma al contrario la morale che rende possibile la logica, in quanto particolare etica della discussione» (Etica, p. 160). Come si vede, mentre in Piaget c’è una linea evolutiva che va dall’interazione affettiva alla norma logica impregnata di comando morale, in Calogero c’è una circolarità che riconduce tanto la norma logica interpretata eticamente, quanto la morale che rende possibile la logica, all’unico piano del dire, poiché come sappiamo solo qui può dispiegarsi l’atto di volontà, sia esso linguistico, morale o etico–politico. Infatti, l’unico, apparente aggancio al piano del fare è l’esempio morale, ma si tratta in effetti di un dire muto o di una mutezza eloquente che non fuoriesce dal piano del dire, il quale perciò si presenta come un dire già a priori etico. Con la conseguenza decisiva che il fondamento dell’atto di volontà altruistico, al di là di ogni evoluzione della struttura, è rimandato all’insondabile coscienza del soggetto. Assieme a quello dell’esempio morale, possiamo ora sciogliere anche gli altri nodi che si sono venuti accumulando nell’esame del pensiero etico–discorsivo di Calogero: il fatto che, nonostante vi sia- 30 Capitolo I no le premesse, non c’è una teoria della lingua come sistema; il rifiuto della teoria del contratto tanto in linguistica, che nel diritto e nella politica; la critica, infine, della teoria linguistica e del principio gnoseologico del verum factum vichiani. Sono tutti aspetti, possiamo dire, che rispondono all’unica esigenza di garantire la libertà del soggetto dal peso che possono esercitare quelle istituzioni cui l’attività stessa del soggetto dà vita. Così è per l’istituzione o sistema linguistico, cui Calogero preferisce l’atto di volontà che genera l’intenzione comunicativa. Così è per il contratto giuridico e politico, cui Calogero preferisce la legge come manifestazione di volontà etico–discorsiva del soggetto. Così è per il linguaggio poetico e per il principio del verum factum vichiani, nei quali Calogero scorge evidentemente il pericolo che la loro implicita tendenza evolutiva possa espropriare il soggetto della sua volontà. Di conseguenza, la lingua, ma anche la morale, il diritto e la politica, per Calogero sono solo momenti empirici di quell’unico principio che è l’atto di volontà, beninteso altruistico, del soggetto. Il soggetto e la struttura sono allora i poli, esemplificati dalle posizioni di Calogero e di Piaget, di una contrapposizione che vogliamo ulteriormente indagare nei capitoli che seguono. Dalla prospettiva di Calogero deriva una morale rigorosa, quando non eroica, ma dalle conseguenze non tutte desiderabili. Oltre la buona volontà, infatti, non c’è alcun sistema di regole, che non sia un vuoto simulacro, in grado di ovviare a individuali cattive volontà, o a momentanee eclissi della buona volontà. Nella contrapposta prospettiva di Piaget, invece, la morale, ma anche la lingua, il diritto e la politica sono strutture logico–normative dotate di vita propria, che trascendono gli individui, nello stesso momento in cui ne incorporano lo sviluppo cognitivo. Ciò che vogliamo capire, allora, è come recuperare un qualche livello strutturale in cui la buona volontà d’intendere dia luogo a istituzioni normativamente cogenti, e per converso come garantire la libertà del soggetto dentro la necessaria permanenza delle strutture. Capitolo secondo Irrequietezza espressiva e scelte vitali Per proseguire nell’indagine annunciata alla fine del precedente capitolo, riprenderemo e approfondiremo ora due direttrici, che dovrebbero portarci a vedere più a fondo in quella nozione di dialogo apparsa già nell’elaborazione di Calogero. La prima di queste direttrici è costituita dall’ancoraggio epistemologico che gli excursus in Vailati, Calogero e Piaget consentono in una concezione antimonista e produttiva della ragione. La seconda direttrice consiste nell’aspetto normativo del linguaggio esaminato in connessione con il tema della struttura morale del rispetto. 1. DELLA VOLPE: IL NESSO DIALOGICO DEGLI ETEROGENEI Quanto alla prima direttrice, discutendo della critica linguistica dell’argomentazione filosofica e scientifica in Vailati, abbiamo visto che il significato più profondo del pragmatismo cui Vailati approda, è il suo antimonismo, cioè il rifiuto della tendenza a generalizzare, a dissolvere le distinzioni, a ricercare in ogni cosa l’uno o il generale, spirito o materia che sia. 31 32 Capitolo II Allargando poi la visuale a Piaget, abbiamo visto che il suo antimonismo, fuoriuscendo da residue impostazioni neopositivistiche, pone al suo centro le trasformazioni che, tanto in ambito fisico, quanto in ambito logico–matematico, generano novità. Piaget stesso, però, pone un limite al suo antimonismo quando afferma che il suo interesse è rivolto alle «trasformazioni che generano novità pur mantenendo al loro interno, e in modo inscindibile, certe costanti» (La causalità secondo E. Meyerson, p. 161). La tensione tra stabilità e costanti nelle trasformazioni è dunque il punto messo in gioco dal tema della ragione antimonista. Un tema che approfondiremo ora in un autore, sino a vent’anni fa famosissimo, oggi quasi dimenticato, e che l’ha, per così dire, tessuto con il filo d’oro di una filosofia del linguaggio passata quasi inosservata, nascosta com’è rimasta, all’epoca, nelle pieghe di un discorso celebrato per altri aspetti, dall’interpretazione del marxismo ai canoni di un’estetica materialista. L’autore cui mi riferisco è Galvano Della Volpe (1895–1968), aristocratico di nascita, gentiliano di formazione, poi marxista fra i maggiori, e dell’indirizzo non storicistico, autore di una Critica del gusto (1963), che con il suo ostico stile affascinò e tormentò intere generazioni di studenti. Questa Critica del gusto, che fu l’opera che rese famoso il suo autore, suscitando le reazioni ingiustificatamente critiche, lo si può oggi ben dire, a distanza di quasi quarant’anni, di qualche linguista supercilioso, è tutta presa dall’allora incipiente vague semiotica. E ancora oggi, per chi la rilegga, con la sua attenzione per gli “specifici” dei generi artistici, risulta addirittura più attuale della semiologia di un R. Barthes, se si pensa all’odierna rivendicazione, per altro non sempre convincente, di una semiotica non puramente linguistica (Fabbri,1998). D’altra parte, la semiotica contemporanea, con la sua rinnovata attenzione per le “passioni”, rimette in gioco problematiche filosofiche come il rapporto tra il sentimento e la ragione, la natura del dialogo, il riconoscimento dell’Altro e quindi il posto dell’etica nella riflessione sul linguaggio, tutti temi che, bisogna dire, la semiotica stessa affronta o riducendoli ad aspetti tecnici della natura dei segni, o con un discorso filosofico, per così dire, in tono minore e occasio- Irrequietezza espressiva e scelte vitali 33 nale. Temi, invece, che, organicamente orchestrati, sono presenti in Della Volpe, non tanto nella citata Critica del gusto, opera levigata della maturità, che facilmente si lascia etichettare come opera di estetica, ma paradossalmente già nella prima elaborazione teoretica degli anni trenta e quaranta. Il punto da cui vorrei partire è la questione che Della Volpe pone nei Fondamenti di una filosofia dell’espressione, un’opera che risale al 1936, quando, constatando che «la ragione, l’universale» è venuto sempre più, dopo Kant, annullando «il sentimento, il particolare», si chiede: «il sentimento non ha altro modo di esprimersi che nel processo categoriale?La sua natura si esaurisce in questa sorta di obiettivazione? Non ne conosce altra?» (Fondamenti di una filosofia dell’espressione, p. 14). Sembrano domande scolastiche, ma esse aprono la strada ad una ricerca intorno ad una ragione non monista, ad una razionalità del molteplice che, sin dall’inizio, si presenta come una ricerca, ad un tempo, di etica e di filosofia del linguaggio. Infatti, in un’opera di poco successiva, e che al suo apparire, non ebbe quasi nessuna risonanza, cioè la Critica dei principi logici (1942), Della Volpe parla della sua filosofia come di una «critica trascendentale del fatto espressivo» che, ponendo al centro «l’esame trascendentale della struttura assoluta della parola», si tramuta in una «filosofia dell’esistenza» (Critica dei principi logici, pp. 172–3). Insomma, mi pare che ce n’è abbastanza per suscitare l’interesse non solo del filosofo del linguaggio teoricamente interessato alle radici storiche della propria disciplina, ma anche di chi si propone di comprendere attraverso il linguaggio la natura e il senso dell’agire umano. Non posso seguire qui nella sua complessità il discorso di Della Volpe, le cui enunciazioni teoriche fanno un tutt’uno con le molteplici analisi che egli conduce, da Dante a Galilei a Leopardi, di testi scientifici e letterari. Mi limiterò a presentarne alcuni aspetti salienti, facendo riferimento sopratutto ai due testi prima citati, e cioè i Fondamenti di una filosofia dell’espressione del 1936 e la Critica dei principi logici del 1942. In queste due opere, uno dei temi più suggestivi sviluppati da Della Volpe è quello della «irrequietezza della parola» (Fondamenti di una filosofia dell’espressione, passim; Critica dei principi logici, 34 Capitolo II p. 262.), una formula suggeritagli dalla sua polemica antihegeliana contro la quiete che lo spirito assoluto raggiungerebbe al culmine del suo sviluppo dialettico. Questa formula è centrale in Della Volpe, e proverò quindi, sia pur brevemente, a chiarirne qui, per quanto è possibile, il significato. Per Della Volpe dire che la parola è irrequieta, significa dire che la parola vive nel «dialogo dell’idea col suo contrario, il sentimento» (Fondamenti di una filosofia dell’espressione, p. 43). Per sentimento, Della Volpe intende ciò che non è mai predicato. Per idea, ciò che è sempre predicato. La pura immagine che resta di un suono o di un colore, tolta ogni determinazione categoriale, quello è sentimento. E la pura determinazione categoriale o logica, come il concetto di essere o di uomo, quella è l’idea. Ora, perché Della Volpe parla di «dialogo» e non più semplicemente di «dialettica», visto che il risultato di questo dialogo è, come lui stesso afferma (Fondamenti di una filosofia dell’espressione, p. 47), quella sintesi di equilibrio espressivo che è la parola? In altri termini, qual è la funzione euristica del concetto di dialogo in Della Volpe? Una prima pregnante funzione è quella di descrivere, beninteso trascendentalmente, la struttura interna della parola. Della Volpe ammette che tra idea e sentimento c’è una asimmetria di base, nel senso che il regime formale proprio di quell’equilibrio espressivo che è la parola, è il regime della determinazione categoriale, e non quello dell’immagine sentimentale. Tuttavia, il dialogo tra idea e sentimento non gli sembra una metafora vuota, perché la natura stessa dell’equilibrio espressivo richiede delle domande e delle risposte «non finte», nel senso che la parola, per costituirsi nella sua formalità espressiva, deve passare per il molteplice e il contingente costituito dal sentimento (Fondamenti di una filosofia dell’espressione, pp. 43–4). La parola, che qui viene a coincidere con il logos o razionalità, è dunque dialogica nella sua stessa interna struttura. Questa natura dialogica della parola si articola — ed è questa la seconda funzione, non meno pregnante, della presenza della metafora euristica del dialogo in Della Volpe — con il dialogo come scambio comunicativo tra parlanti. Ecco l’intero passo in cui Della Volpe espone questa concezione: Irrequietezza espressiva e scelte vitali 35 Si suol dire che gli uomini “s’intendono sempre” e cioè fanno uno — appunto in quanto “hanno idee” o pensano; ma, si dice al contempo, gli uomini pur “divergon fra loro” e cioè sono molti — appunto in quanto il loro pensare non è vuoto bensì è pieno dei “loro sentimenti” cioè del diverso (per definizione).Eppure gli uomini, checché si dica o si creda, non “si scambiano” mai delle pure idee: anche nell’astrazione più alta si scambiano, con le idee, dei sentimenti cioè delle immagini (indifferenti): il loro pensare è un sentire sempre — e, conseguenza capitalissima, ciò che li unisce è il sentire tanto quanto il pens a r e — o il sentire come pensare: uniti, allora, in quanto divisi, uno–molti.Ogni uomo è, cosi, “se stesso” in quanto, ad es., fa delle scoperte scientifiche (le fa “lui”) o ama o fa dell’arte ecc., — e si è visto che c’è bellezza ossia sentimento o stile insomma ( negativo o positivo qui non c’interessa) in ognuno di questi atti; ed è, ogni uomo, al tempo stesso, “gli altri” cioè universo — in quanto tutti quegli atti non sono che un pensare (che è un sentire), e tutti pensano (cioè sentono) e infatti “si comprendono”, come si dice, se sanno e vogliono. Se sanno e vogliono, appunto: occorre cioè che ogni pensante si sottometta all’autorità del gusto ossia del diverso — autorità così tipica nel processo artistico — o insomma “abbia gusto”, sentimento. A questo punto ogni pensante diventa il pensante, anzi lo è già: poiché è proprio per questa perenne dialettica del gusto in quanto è la stessa dialettica dell’idea che l’universo sorge ad ogni momento (esso non è veramente mai fatto ma si fa sempre), ma sorge come universo pieno, uno–molteplice veramente; appunto perché il pensare non è idea che gioca con se stessa in un vuoto formalismo, ma idea che è senso e il pensiero ripetiamo un pensare concreto. L’universo sorge, dunque, da o per ognuna delle prospettive che sono i pensanti in quanto sono il pensante cioè la consapevolezza come dialettica dell’idea, ma sorge, ripetiamo, come universo individuato o concreto in quanto la dialettica dell’idea è dialettica del gusto (= formalità come dialogo dell’idea col suo contrario) (Fondamenti di una filosofia dell’espressione, p. 46). Come si vede, il dialogo dell’idea con il suo contrario, il sentimento, che presiede alla generazione dei contenuti di pensiero individuali, ha la stessa logica del dialogo come scambio comunicativo tra parlanti. Infatti, la dialettica dell’uno e dell’universale e del molteplice e del contingente è alla base tanto dell’uno, quanto dell’altro. Nella prima forma di dialogo, il molteplice e il contingente è dato dalla singolarità del nostro sentire. Nella seconda forma, dalle infinite prospettive dei partecipanti allo scambio comunicativo. Per Della Volpe, insomma, pensare e comunicare sono atti distinti ma coordinati di una stessa razionalità positiva. 36 Capitolo II Viene spontaneo qui l’accostamento tra questa concezione dialogica della razionalità e la contemporanea (anni Quaranta) teorizzazione di un Piaget intorno allo scambio discorsivo equilibrato. Per Piaget, il pensare e il comunicare formano una struttura operatoria, descrivibile in termini di raggruppamento matematico. In questo senso, il dialogo è una «cooperazione sociale intesa come un sistema di co–operazioni»,1 cioè come operazioni individuali la cui esecuzione si integra in un sistema d’insieme. Questo carattere operatorio del dialogo assicura la possibilità di accordarsi su contenuti sempre nuovi, ma in un quadro di stabilità del sistema della comunicazione. Come si vede, ritorna qui l’impostazione epistemologica di fondo di Piaget con la sua attenzione per il nuovo, ma anche per le costanti del sistema. Tornerò ancora più in là su quest’aspetto. Intanto, vorrei far notare come il tema dell’accordo è presente anche in Della Volpe. Infatti, per Della Volpe, il «nesso o circolo di eterogenei» che genera la parola e lo scambio comunicativo, è un nesso o circolo «a cui nessuna specie di storia è estranea» (Critica dei principi logici, p. 262). In altri termini, è un nesso a cui nessuna specie di discorso — poetico, filosofico, pratico — si sottrae. A questo proposito, Della Volpe adduce l’esempio della storia della filosofia intesa come dibattito nel tempo tra punti di vista differenti. La storia della filosofia, o del pensiero, muove da concetti in quanto muove nello stesso tempo da intuizioni. Ma non nel senso che il pensiero da indistinto e astratto si fa distinto e concreto, bensì nel senso che «nello stesso atto di “coerenza” in cui il pensiero nasce, con la sua singolarità lo chiude nell’involucro della sua coerenza o non–contraddizione che fa tutt’uno con la “vocazione” o “genio” di chi pensa» (ibidem). Con una formula più attuale, potremmo dire che, nell’atto espressivo (filosofico, ma anche poetico o pratico), contenuto dell’enunciazione enunciatore e atto dell’enunciazione sono inscindibili, formano cioè quell’unicità del locutore da cui deriva il perpetuo variare e il contrasto dei sistemi o pensieri filosofici. Se così non fosse, sottolinea Della Volpe, dovremmo riconoscere con Hegel che ogni divergenza o disputa, filosofica o di ogni altro 1 Studi sociologici, p. 125. Una discussione più approfondita di questa concezione del dialogo di Piaget, in Aqueci, 1995. Irrequietezza espressiva e scelte vitali 37 genere, esprime solo il grado maggiore o minore di astrazione attraverso cui la ragione, cioè l’unità, si manifesta nei suoi principi e sistemi, e quindi dovremmo ammettere che il fine immancabile del discorso filosofico, come di ogni altro tipo di discorso, è l’accordo nei principi. Ma se il singolare e il molteplice sono solo lacune provvisorie dell’uno, gradi di astrazione del pensiero in generale, e non fatti positivi, in che cosa consiste, si chiede Della Volpe (Critica dei principi logici, p. 263), la positività del razionale o dell’uno? Che diventa l’uno se non unizza nulla? Come può unizzare se esso è solo? Dunque, conclude Della Volpe, non c’è e non ci può essere un accordo sui principi. Il solo accordo possibile non è nel pensare i principi, ma nel pensare tout court, ossia nell’agire. E poiché l’agire, ossia l’esperienza, è uno sforzo di coerenza contingentemente necessaria e universale, il solo accordo possibile è un accordo di discordia. In altri termini, l’accordo ci può essere solo nel fatto che tutti pensiamo, cioè agiamo, nel senso che cerchiamo soluzioni coerenti per i problemi contingenti che ci sono dati da risolvere. Se vogliamo, quello di Della Volpe è un pragmatismo che implica la coerenza dell’adattamento biologico. Tuttavia, Della Volpe, dando prova di rigore filosofico, non varca questa soglia, che pure intravede (cfr. Critica dei principi logici, p. 173, dove rifiuta di seguire Nietzsche su questa strada). Egli piuttosto intraprende la strada di una filosofia dell’espressione che deve tramutarsi in una filosofia dell’esistenza. 2. SCARPELLI: LA NATURA LINGUISTICA DELLA MORALE A questo punto, proporrei di cambiare scenario, tralasciando momentaneamente questi sviluppi del discorso di Della Volpe, e cominciando ad occuparci della seconda direttrice che mi riprometto di approfondire, cioè il lato normativo del linguaggio esaminato in connessione con il tema della struttura morale del rispetto. Lo farò, per cominciare, discutendo brevemente alcuni aspetti della filosofia di Uberto Scarpelli (1924–1993), di formazione anch’egli gentiliana, poi esistenzialista, infine, dagli anni cinquanta in poi, approdato alla filosofia analitica, nel doppio senso di etica a- 38 Capitolo II nalitica e di filosofia analitica del linguaggio. In Italia, come sappiamo, la filosofia analitica del linguaggio aveva fatto una fugace ma luminosa apparizione già all’inizio del XX secolo, con Vailati. Decenni dopo, Scarpelli la riprende durante una sorta di felice intermezzo, quando ormai all’estero aveva avuto imponenti sviluppi, e prima che in Italia conoscesse i più recenti successi. Inoltre, a differenza di Vailati, egli la comprende dentro una cornice di esplicita riflessione etica. Così, concetti centrali attorno a cui si organizza la sua riflessione sono la coerenza del discorso e la libertà della scelta etica. La coerenza, che come abbiamo visto è anche un tema dellavolpiano, mentre in Della Volpe è una condizione dell’esprimersi e dell’agire, in Scarpelli torna ad essere un principio logico di cui servirsi per demarcare il buono dal cattivo ragionamento, la scienza dalla metafisica. Quanto invece alla libertà della scelta etica, per Scarpelli è il fondamento del discorso normativo. Con una formula in cui si avvertono chiaramente gli echi esistenzialistici, Scarpelli infatti afferma che «l’ordinamento dell’esistenza mediante le proposizioni direttive di un discorso etico razionale ha radice in un atto di libertà, da rinnovare e confermare nel continuo riaprirsi delle possibilità» (Etica senza verità, p. 72). Questa conciliazione dal sapore kantiano di libertà esistenziale e di cogenza della norma non è però l’approdo finale di Scarpelli. Infatti, in un interessante confronto con il pensiero linguistico ed etico–politico di Hobbes circa la norma, la sua natura linguistica e la sua cogenza normativa (Scarpelli, 1981), egli pone i seguenti punti: a) la norma è un precetto attraverso cui un uomo è guidato e diretto in una qualsiasi azione; b) la morale consiste di norme, cioè di atti discorsivi direttivi; c) le norme sono asserzioni di passioni; d) la morale consiste di norme ancorate nelle passioni; e) la norma morale fondamentale è quella della conservazione della vita. Tre mi sembrano i tratti salienti di questa costruzione etica e linguistica. Anzitutto, l’affermazione della natura linguistica della morale. Infatti, è vero che la norma è un rapporto pragmatico, ma è anche vero che essa si esprime sempre attraverso un discorso. L’eloquenza percettiva dell’esempio, su cui, ad esempio, insiste un Irrequietezza espressiva e scelte vitali 39 Calogero (Etica, p. 168), viene qui implicitamente concepita come un momento, se non marginale, certo eccezionale della morale. In secondo luogo, l’integrazione delle passioni nell’etica razionale discorsiva. C’è qui, sebbene non esplicitamente tematizzato, qualcosa della preoccupazione di Della Volpe di integrare nella razionalità ciò che egli stesso chiama il molteplice e il contingente. In terzo luogo, la centralità assegnata alla passione egoistica dell’autoconservazione della vita. Il dover essere, insomma, è una risposta adattiva, “pena la rovina”. Vedremo più in là (cap. IV) che questo rispondere ”pena la rovina”, nell’elaborazione del già richiamato György Lukács, un autore di cui torneremo ancora ad occuparci, è la struttura ontologica di base dell’essere sociale. Qui, però, di questi tre punti, vorrei sottolineare sopratutto il primo, e cioè l’affermazione della natura linguistica della morale. Come abbiamo visto nel capitolo recedente, anche Piaget concepisce la morale come un discorso, distinguendola dal comportamento morale vero e proprio. Tuttavia, rispetto all’impostazione analitica di Scarpelli, Piaget si pone il problema del rapporto tra discorso e comportamento morale (teoria dei décalages o dislivelli temporali), mettendo in luce le trasformazioni evolutive cui il discorso morale è soggetto, e che dipendono dalle trasformazioni evolutive del rispetto. Di tali trasformazioni, vorrei ora approfondire il momento iniziale del contatto affettivo, che nell’elaborazione di Piaget è come risucchiato verso l’esito finale della psicogenesi. Lo farò discutendo innanzitutto il racconto evolutivo della nascita del rapporto genitrice–prole che troviamo in uno dei più grandi biologi del secolo appena trascorso, Ernst Mayr (1904–2005). 3. MAYR: I PRODROMI EVOLUTIVI DEL RISPETTO Ragionando intorno al processo di ominazione, Mayr mostra il semplicismo del racconto secondo il quale, a determinare tale processo, sarebbe stata l’acquisizione della stazione eretta da parte di alcune orde di ominidi, che avrebbe permesso l’uso di strumenti. L’uso degli strumenti da parte degli scimpanzé, infatti, lascia intendere che il loro utilizzo da parte degli ominidi fosse un’abilità acqui- 40 Capitolo II sita prima della stazione eretta. L’acquisizione della stazione eretta, inoltre, nei circa 2 milioni di anni e più successivi all’apparizione dei primi manufatti umani non consentì che un lieve miglioramento della tecnica della loro costruzione. Infine, la stazione eretta non ebbe conseguenze significative sull’accrescimento del volume del cervello che, per gli oltre 2 milioni di anni in cui vissero diverse specie di austrolapitechi, si mantenne molto piccolo (Il modello biologico, pp. 194–195). L’acquisizione della stazione eretta è stato allora un fatto evolutivo di non così fondamentale importanza? Ovviamente, no. Anzi, essa ha avuto un’enorme influenza evolutiva, ma non sul punto su cui insiste il racconto che lega assieme stazione eretta–liberazione della mano–uso degli strumenti–sviluppo del cervello. Il nesso è un altro, e vale la pena di leggere tutto il passo in cui Mayr lo espone: Le prime australopitecine erano ancora semiarboricole, con i piedi adatti per arrampicarsi e le braccia relativamente più lunghe di quelle degli ominidi fossili successivi e dell’uomo moderno. Di conseguenza, la loro prole doveva essere sin dalla nascita in grado di afferrare la madre durante i suoi spostamenti da un albero all’altro, proprio come avviene oggi con i piccoli delle varie specie di scimmie. Tra 2 e 2,5 milioni di anni fa, il passaggio definitivo alla vita terrestre liberò le mani e le braccia delle madri che poterono così portare con sé i propri piccoli, i quali videro allungare il periodo della loro dipendenza dalle cure materne. Tale sviluppo più lento, a sua volta, fu favorevole al processo di crescita del cervello nella prima infanzia, che è caratteristico della specie umana. Pertanto, l’impatto più importante della deambulazione eretta si ebbe sul comportamento materno e non sull’uso di strumenti (ibidem). Benché altri autori sfumino il quadro abbozzato da Mayr (Edelman, Tononi, 2000, p. 236), il senso del passo citato secondo me è il seguente: all’origine del processo di ominazione non c’è l’affermazione di una logica strumentale, bensì di un modello culturale. All’origine del processo di ominazione non c’è l’abilità tecnica di forgiare l’ascia di pietra, bensì la costituzione dei prodromi di ciò che poi sarà la diade madre–figlio. A dire il vero, Mayr non sottolinea abbastanza il legame tra l’emergenza del comportamento materno e il linguaggio. Per Mayr, fu la realizzazione di vasti accampamenti ai fini della caccia a richiedere lo sviluppo del linguaggio. Tanto più complessi erano gli accampamenti, tanto più elaborati i piani d’attacco, più sviluppate le Irrequietezza espressiva e scelte vitali 41 strategie, più sofisticate le armi. Questo nuovo stile di vita, conclude Mayr, richiedeva «l’elaborazione di un efficiente sistema di comunicazione: il linguaggio» (Il modello biologico, p. 196). Per Mayr, dunque, il linguaggio è un mezzo di comunicazione che al suo apparire, 300–200 mila anni fa, accresce il vantaggio selettivo dei piccoli gruppi di progenitori dediti alla caccia e alla raccolta di frutta ed erbe selvatiche. È uno strumento del pensiero strategico. Questo aspetto strumentale del linguaggio e il suo impatto evolutivo sono innegabili, ma dall’ontogenesi del linguaggio abbiamo appreso abbastanza sull’importanza del rapporto madre–figlio per non immaginare che il comportamento materno come descritto da Mayr stesso, sia stato — certo, assieme ad altri fatti evolutivi, come il possesso di un adeguato apparato fonatorio — un elemento essenziale nella costituzione del linguaggio. 4. LACAN: IL SIMBOLICO E IL NORMATIVO Ho parlato prima di prodromi di ciò che poi sarà la diade madre–figlio. Stiamo parlando infatti di premesse evolutive di ciò che poi sarà il vero e proprio linguaggio umano. Credo, infatti, che per parlare di linguaggio umano vero e proprio si debba aspettare l’instaurarsi del simbolico con le figure che lo caratterizzano: il servo e il padrone, il governato e il governante, la forza e il consenso, l’uccisione rituale e il patto tra eguali, ecc. Figure che comportano il superamento dei meri appetiti (sesso, territorio, fame) e l’abbozzo di un primo, seppur terribile, mondo delle passioni (guerra, paura, insicurezza, ecc.). In altri termini, il linguaggio con cui comincia la storia umana. E qui, il racconto evolutivo di Mayr, per quanto avvincente, non ci basta più. Dobbiamo rivolgerci ad altri, a coloro che a vario titolo hanno indagato il simbolico. Ad esempio, in campo psicoanalitico, a Jacques Lacan, un autore ora molto meno alla moda, e a cui quindi ci si può accostare senza i pericoli che le mode comportano, anche per realizzare quell’integrazione psicoanalitica del modello genetico–normativo piagettiano, semplificato da Rawls, la cui esigenza riconoscevamo nel capitolo precedente. A proposito dell’Edipo, e della «logica del desiderio» che lo governerebbe, Lacan 42 Capitolo II ha detto, sebbene a volte in modo oscuro, cose interessanti intorno al tema del Nome–del–Padre, del rispetto e della Legge. Un primo nesso che emerge dal discorso di Lacan, è quello tra la figura (o ruolo) paterna, la legge, intesa come comando originario, e il linguaggio. Per Lacan «è nel nome del padre che dobbiamo riconoscere il supporto della funzione simbolica, che dal sorgere dei tempi storici identifica la propria persona con la figura della legge» (Scritti, I, p. 271). E la legge «si lascia dunque riconoscere a sufficienza come identica a un ordine di linguaggio» (ivi, p. 270), nel senso che sono le nominazioni di parentela a permettere al potere di istituire le preferenze e i tabù lungo il filo generazionale delle discendenze (ibidem). È evidente l’eco di Lévi–Strauss in quest’ultima affermazione, in cui il linguaggio svolge ancora, tutto sommato, una funzione strumentale: la conoscenza dei nomi di parentela è la condizione per poter discriminare tra le persone e fissare i tabù. Ma Lacan va più in là, e staccandosi da questa matrice antropologica di stampo razionalistico, afferma che «l’attribuzione della procreazione al padre» è soltanto l’«effetto di un puro significante, di un riconoscimento non del padre reale ma di ciò che la religione ci ha insegnato a invocare come Nome–del–Padre» (Scritti, II, p. 552). Qui emerge un secondo nesso, più profondo, tra la religione, con il suo tema del Nome di Dio, indagato da teologi e mistici, il padre come ruolo simbolico e il linguaggio come lavoro sul significante. Per i mistici, e penso soprattutto ai mistici della cabbala, il Nome di Dio è l’Ur–Name, il nome originario che contiene l’essenza dell’Universo. Esso è significante puro, e per di più un significante scritto. Il che è un bel problema per chi sostiene l’innatezza del linguaggio. Dovremmo, infatti, cominciare a scrivere, prima di cominciare a parlare. Ma per restare al nostro tema, Lacan attribuisce al Nome–del–Padre la stessa valenza originaria che il Nome di Dio ha per i mistici. E ciò spiega l’associazione, vista prima, tra il padre, il Nome–del–Padre e la legge. Per i mistici cabbalisti, infatti, la parola di Dio, che è il manifestarsi discorsivo del Nome di Dio, significa anche governo del mondo (Scholem, 1970, p. 59). Dio è un essere linguistico dotato di autorità legiferante, cui si deve un rispetto assoluto Irrequietezza espressiva e scelte vitali 43 (ivi, p. 20). È questo, a mio parere, il modello che ha in mente Lacan quando enuncia il tema del Nome–del–Padre: il padre come una figura linguistica — nel senso di ente linguistico e di soggetto enunciatore — dotata di autorità legiferante cui si deve un rispetto assoluto. Ma non eravamo forse partiti dalla diade madre–figlio, fattaci intravedere filogeneticamente da Mayr? Come siamo finiti al Nome–del–padre e al padre? Abbiamo forse perso per strada il filo del discorso, che concerneva la madre? No, non abbiamo perso il filo del discorso, perché la diade madre–figlio in Lacan acquista rilievo in connessione con il tema del Nome–del–Padre. Afferma infatti Lacan: Partiamo dalla concezione dell’Altro come luogo del significante. Ogni enunciato d’autorità non trova in esso altra garanzia che la sua stessa enunciazione, perché è vano che la cerchiamo in un altro significante, che in nessun modo potrebbe apparire fuori da questo luogo. Cosa che formuliamo dicendo che non c’è un metalinguaggio che possa essere parlato o, più aforisticamente, che non c’è Altro dell’Altro. E il Legislatore (colui che pretende di erigere la Legge) in quanto esige di supplirgli si presenta come impostore. Ma non così la legge, né colui che se ne autorizza. Di questa autorità della Legge il Padre può essere considerato il rappresentante originale: ciò esige che si specifichi quale sia il modo privilegiato di presenza con cui si regge al di là di quel soggetto che è portato ad occupare in modo reale il posto dell’Altro, e cioè la Madre (Scritti, II, p. 817). La Madre è dunque il lato percepibile di quel significante assoluto e originario che è il Padre, di quel Padre che è il rappresentante originario dell’autorità della Legge. Ora, per uno psicoanalista come Lacan, che reinterpreta strutturalisticamente l’Edipo freudiano e studia l’eziologia della psicosi, è importante occuparsi «non soltanto del modo con cui la madre si colloca in rapporto alla persona del padre, ma del caso ch’ella fa della sua parola, diciamo il termine giusto, della sua autorità, in altri termini del posto che riserva al Nome–del–Padre nella promozione della legge» (Scritti, II, p. 575). A dire il vero, nei mistici cabbalisti che abbiamo fin qui seguito, manca questa figura di intermediazione etico–giuridico–linguistica che è la Madre. Per loro, Dio linguaggio e legge formano un dispositivo unico che richiama una sorta di fisica mistica dell’universo. In Lacan, invece, c’è l’esigenza di rendere percepibile il significante 44 Capitolo II paterno. E proprio a questa funzione è chiamata la Madre. Più che un modello fisico, agisce qui, credo, un modello biologico che recupera ed ingloba la tattilità implicita nel racconto filogenetico di Mayr. In conclusione, funzione della Madre è di iscrivere il Nome–del–Padre nel discorso che lei tiene con il figlio. La logica del desiderio che alimenta l’Edipo acquista così un senso, la cui alterazione è alla base della psicosi. Ma non è questo lato propriamente psicoanalitico e patologico della questione che ci interessa. Quello che ci deve interessare è che in Lacan, come è stato giustamente osservato, si attenua l’aspetto di rivalità omicida, proprio dell’Edipo freudiano, e viene in primo piano il tema del timore e del rispetto del padre (Recalcati, 1996, p. 104). Specularmente, come è stato ancora osservato, la madre lacaniana è «la madre che porta la parola. È infatti la parola della madre che rende attiva la metafora paterna. È attraverso la parola della madre che un padre riceve agli occhi di un bambino il suo prestigio» (ivi, p. 183). In altri termini, la madre lacaniana è l’articolazione discorsiva del Nome–del–Padre, inteso secondo il modello mistico–cabbalistico, cioè come essere linguistico dotato di autorità legiferante. In quanto tale, la madre lacaniana rende possibile l’instaurarsi della struttura del rispetto, quella struttura in cui il padre è dotato di prestigio ed è oggetto di timore. È questo l’ordine simbolico che ingloba e umanizza la diade madre–figlio resa possibile dalla deambulazione eretta. Ed in questo ordine simbolico originario, etica diritto e linguaggio formano un tutto unico. 5. DALLA COSTRIZIONE DELLA LINGUA ALLA LIBERTÀ DEL DISCORSO La prospettiva da cui siamo partiti è quella di Della Volpe, di una filosofia dell’espressione che deve tramutarsi in una filosofia dell’esistenza. Alle prese con il molteplice e il contingente, questa filosofia non tenta di ridurli all’uno, negandoli o assolutizzandoli, ma intraprende la via difficile dell’accordo di discordia, che fa del dialogo addirittura la struttura interna del pensare. Questo sforzo di coordinazione, etico–linguistico e teoretico, è reso possibile dalla parola, che è irrequietezza e equilibrio espressivo. Essa, però, è anche im- Irrequietezza espressiva e scelte vitali 45 possibilità di contraddirsi (Critica dei principi logici, p. 173). Infatti, la parola è azione spontaneamente adattata che, in quanto tale, riflette e partecipa della condizione umana, definita dalla sua contingenza necessaria e dalla sua singolarità. Esistere, comunicare e agire si equivalgono, e condividono tutti il rischio della morte, dello scacco comunicativo e del fallimento. L’altra prospettiva con cui abbiamo proseguito, è stata quella della natura affettiva del rispetto, dove abbiamo affrontato il problema dell’ordine simbolico originario da cui scaturisce la diade madre–figlio, e nel quale etica diritto e linguaggio appaiono marcate dal principio di autorità. La riflessione di Lacan si accorda con le speculazioni etiche, giuridiche e linguistiche che pongono in un dio concepito come autorità, l’origine dei doveri morali, delle leggi, del linguaggio. Limitandoci al linguaggio, secondo i grammatici indiani (Katyayana, Panini e Patanjali) l’autorità riguardo alla conoscenza delle parole del sanscrito era posseduta dagli Sistas, Bramini dall’aura misteriosa che vivevano in una certa regione dell’India (Aryavartta), e il cui comportamento faceva pensare al possesso di una grazia divina o comunque di una natura speciale (Deshpande, 1998). Così concepiti, religione, diritto, morale, lingua sembrano avere il carattere comune di sovrastare l’individuo, e di imporsi ad esso dall’esterno. Appaiono come forme di costrizione. La stessa costrizione che la psicogenesi, nelle ricerche di Piaget sullo sviluppo del giudizio morale nel bambino, ci fa osservare all’inizio del rapporto di rispetto, dove i genitori o gli adulti o, in generale, i più grandi, sono come i Bramini Sistas per i grammatici indiani: conoscono l’uso delle parole, tra cui, frequentissime, quelle che esprimono obblighi e permessi, e fanno pensare al possesso di una grazia divina o comunque di una natura speciale. Tuttavia, quello che la psicogenesi ci fa ulteriormente osservare è il fatto che le forme originariamente costrittive del linguaggio, del diritto e della morale evolvono verso la cooperazione, e che l’originaria credenza o affermazione circa il carattere divino delle regole e di chi le pone, lascia il posto all’affermazione della loro natura contrattuale. In campo linguistico, è stato Michail Bachtin (1895–1975) ad interessarsi a questa trasformazione, con 46 Capitolo II l’opposizione, alla base di una filosofia dell’esistenza prossima a quella qui esaminata di Della Volpe (Bachtin, 1920–24), tra discorso autoritario e discorso internamente persuasivo (Estetica e romanzo, pp. 150 sgg.). E con tale opposizione converge anche la distinzione di Émile Benveniste (1902–1976) tra segno e frase, segno e testo, lingua e discorso. Dice Benveniste: il segno deve essere riconosciuto, il discorso deve essere compreso (Problèmes de linguistiques générales, 2, pp. 64–5). Questo passaggio evolutivo dalla costrizione della lingua alla libertà del discorso, che nel corso di questo libro dovremo ulteriormente indagare, ci consente infine di concepire la psicogenesi non come un processo deterministico che, incorporando uno stadio dietro l’altro, colmando una lacuna dietro l’altra, si acquieta nel pensiero ipotetico–deduttivo e nell’assetto normativo «giusto», ma come una possibilità esistenziale che, per quanto biologicamente determinata, realizziamo con le nostre scelte. Scelte che avvengono in quel rischioso crogiuolo affettivo che è la struttura linguistico–normativa del rispetto. Capitolo terzo Sistema linguistico e eccedenza normativa Nel capitolo precedente, abbiamo visto emergere, con Mayr, il modello culturale all’origine del processo di ominazione, cioè il modello materno. Abbiamo visto anche delinearsi, con Lacan, il nesso di etica, diritto e linguaggio, segnato originariamente dal principio di autorità. Al contempo, le analisi di Piaget circa lo sviluppo morale, rivisitate alla luce della filosofia dell’esistenza di Della Volpe, che converge con suggestioni filosofico–linguistiche circa l’esistenza di fasi distinte e geneticamente concatenate del tempo normativo, ci hanno offerto una prospettiva di liberazione non deterministica dagli originari rapporti di costrizione. Ciò che vogliamo fare in questo capitolo è di consolidare questi risultati, da un lato, saggiando ancora il nesso di etica e linguaggio, di segno e legge, e questa volta direttamente nel vivo della semiotica novecentesca, cioè nelle teorizzazioni di Peirce e Saussure; dall’altro, approfondendo i problemi evolutivi che questo nesso porta con sé: dobbiamo porre il segno all’apice dello sviluppo normativo, oppure come già in parte alcune prospettive ci suggeriscono, da Piaget a Bachtin a Benveniste, dobbiamo andare oltre il segno? Faremo tutto ciò, da una parte, ricostruendo il confronto che Piaget stesso, interessato a descrivere la genesi del segno, instaura con Peirce e Saussure; dall’altra, utilizzando alcune distinzioni metodo47 48 Capitolo III logiche che Mayr, ancora lui, riflettendo sullo statuto epistemologico della biologia, avanza rifacendosi proprio a Peirce. I concetti che metteremo a fuoco, in particolare quello di scopo, ci serviranno, come vedremo nel capitolo successivo, per allargare ed arricchire ulteriormente la nostra prospettiva semioetica. Il punto da cui partirò sarà l’analisi della nozione di teleologia così come svolta da Mayr in riferimento alla biologia. Per spiegare cos’è un processo non–teleologico, tipico del mondo inorganico, e per discutere del carattere non finalistico dell’adattamento evolutivo, Mayr, come già detto, fa riferimento più volte proprio a Peirce (Mayr, 1992, pp. 123, 125, 132), precisamente a quel passo in cui Peirce osserva come il termine «teleologico» sia inadatto per parlare dei processi naturali del mondo inorganico, e quindi suggerisce di adottare il termine «finious», appositamente coniato dallo stesso Peirce , per esprimere la tendenza dei processi naturali inorganici verso uno stato finale (CP, 7.471). Le considerazioni di Mayr sono interessanti non solo per il ricorso a Peirce, ma anche per il loro contenuto riguardo alla concezione del segno come agire finalizzato che è possibile ricostruire in Peirce, Saussure e Piaget. Una concezione utile anche a fornire una risposta all’interrogativo di recente posto in intelligenza artificiale, nell’ambito delle ricerche sulle reti neurali, quando, dopo aver affermato che «il simbolo è una rappresentazione, ed è tale in quanto può operare anche “in absentia” dell’oggetto–stimolo originario (che diventerà il “rappresentato”)», ci si è chiesti: «perché allora questa rappresentazione non potrebbe essere, ad esempio, usata per regolare finalisticamente il comportamento del sistema? Cosa lo vieta?» (C. Castelfranchi, 2000, p. 45, cit. in Tagliagambe, 2001, p. 279). La risposta che emergerà, come vedremo, è che, almeno per quanto riguarda l’organismo vivente, non solo nulla vieta di concepire il simbolo come una regolazione finalistica del suo comportamento, ma anche che questa concezione, ben prima di recenti riscoperte artificialiste, è inscritta nei fondamenti della semiotica novecentesca. Sistema linguistico e eccedenza normativa 1. 49 MAYR: PROCESSI TELEOMATICI E PROCESSI TELEONOMICI In biologia, il concetto di teleologia è centrale. Adottare o meno una concezione finalistica dell’evoluzione comporta l’accettazione o meno dell’opera di Darwin e della cosiddetta “sintesi darwiniana” che ne è derivata. E anche quando si rifiuti il finalismo evolutivo, non sempre si riescono ad evitare oscillazioni e malintesi legati al concetto di teleologia. Con la sua riflessione intorno ad esso, Mayr intende proprio distinguere i molteplici significati del termine ai vari livelli della teoria biologica. Una delle distinzioni che riterrò, e che mi sarà utile nel trattare del segno in Peirce, Saussure e Piaget, è quella che Mayr opera tra processi teleomatici e processi teleonomici. Un fiume che scorre verso il mare, o una pietra che precipita a terra, sono tipici processi teleomatici. In questi processi c’è un cambiamento di stato che obbedisce a delle leggi naturali (seconda legge della termodinamica, forza di gravità), ma si tratta di processi che si dirigono verso il loro fine in modo passivo e automatico, regolati da forze o condizioni esterne (1992, p. 125). Altra cosa sono, invece, i processi teleonomici che sono tipici del mondo organico, in particolare dei processi di sviluppo cellulare e del comportamento degli organismi, come le migrazioni, la ricerca del cibo, il corteggiamento, l’ontogenesi e tutte le fasi di riproduzione. Per Mayr, un processo teleonomico, ovvero un comportamento, è un processo che deve la propria direzione finalizzata all’azione di un programma, risultato di selezione naturale, laddove per programma si intende una informazione codificata che controlla il processo stesso conducendolo verso il suo scopo (1992, pp. 127–8). Che poi questi programmi siano innati o meno, per Mayr è una questione che allo stato attuale delle conoscenze genetico–molecolari resta indecidibile. Pertanto, egli preferisce sottolineare il fatto che questi programmi possono essere chiusi o aperti, a seconda che incorporino o meno informazione durante il loro tempo di vita, tramite procedimenti come l’apprendimento o il condizionamento (1992, p. 129). Mayr, inoltre, riferendosi ai meccanismi omeostatici di Waddington, invocati per altro dallo stesso Piaget per corroborare la sua teoria biologica della fenocopia, di cui tratteremo qui nel capitolo 50 Capitolo III ottavo, riconosce l’esistenza di distinti programmi somatici, quali per esempio i singoli stadi dell’ontogenesi, caratterizzati da una determinazione genetica solo indiretta, dal momento che il corso di ciascuno di essi può essere deviato anche se solo temporaneamente dal suo sviluppo (1992, p. 130). Scopo ultimo delle distinzioni di Mayr circa il concetto di teleologia è di dimostrare, da un lato, che l’adattamento evolutivo non è un processo finalistico, né in senso teleomatico né in senso teleonomico (1992, pp. 132–133); dall’altro, che non esiste, almeno dal punto di vista della biologia evolutiva, una teleologia cosmica (1992, pp. 133–135). Secondo Mayr, infatti, la controversia se l’evoluzione dai batteri all’uomo sia un progresso non può riguardare la biologia. Quanto, invece, all’adattamento, Mayr constata che esso potrebbe giovarsi della definizione di Peirce quale processo teleologico «finious», ma tenuto conto della casualità degli scopi e dei premi evolutivi, nonché del movimento a zig zag del cambiamento evolutivo stesso, risulterebbe singolarmente inappropriato parlare della selezione naturale come di un processo teleologico. L’adattamento, conclude Mayr, più che avere degli scopi definiti, è solo un processo casuale di ottimizzazione che noi constatiamo a posteriori (1992, p. 132). Vedremo nel seguito (cap. V) che questa caratterizzazione dell’evoluzione come regno del caso ci servirà a identificare il principio evolutivo sottostante alla concezione saussuriana della lingua. Ma per intanto proseguiamo nel confronto tra le prospettive semiotiche di Peirce, Piaget e dello stesso Saussure. 2. LA MORFOGENESI DEL SEGNO Normalmente, si ha la tendenza a considerare come secondario o irrilevante l’aspetto sociogenetico del pensiero di Piaget. Ma la problematica del segno in Piaget, e quella più generale dell’equilibrazione cognitiva, prende corpo nel parallelismo tra psicogenesi e sociogenesi. Se così non fosse, non si spiegherebbe la sua insistenza sulla presenza e la progressione gerarchica, tanto nella dimensione psicogenetica, quanto in quella sociogenetica, di quelle Sistema linguistico e eccedenza normativa 51 che egli chiama le «strutture fondamentali della vita psichica», cioè i ritmi, le regolazioni e i raggruppamenti. Un esempio particolarmente significativo della presenza di queste strutture e della loro progressione gerarchica è quello che, nella dimensione psicogenetica e allo stadio sensomotorio, conduce alla costituzione del gruppo degli spostamenti. Il livello dei ritmi è rappresentato dagli spazi tattile, buccale, visivo, ecc., non coordinati tra di loro, e ciascuno di essi con i loro ritmi formalizzabili in termini dello schema d’insieme AB, BA. Il livello delle regolazioni è costituito dalla integrazione progressiva di questi diversi spazi, grazie alla coordinazione della prensione con la visione, che ha come effetto la costituzione di sistemi spaziali elementari. Il livello dei raggruppamenti, infine, è dato dalla coordinazione degli spazi e dalla loro unificazione in uno spazio totale, di concerto con la costituzione dell’oggetto e con la decentrazione del soggetto dal proprio corpo (Piaget, 1947, pp. 152–3; 229). Ora, la differenza tra la psicogenesi e la sociogenesi è che, mentre nella psicogenesi allo stadio sensomotorio seguono poi le regolazioni delle operazioni concrete e i raggruppamenti delle operazioni formali, che costituiscono altrettanti grandi stadi dello sviluppo, nella sociogenesi, le tre strutture dei ritmi, delle regolazioni e dei raggruppamenti vengono a coincidere con l’intero sviluppo sociale, senza l’intermediazione degli stadi. Dello stadio resta solo il carattere della sequenzialità, ma senza chiusura necessaria sul raggruppamento. Nel loro carattere embrionale e nella loro relativa staticità, le tre strutture fungono anche da principio di classificazione, che nella dimensione psicogenetica è svolto invece dagli stadi. In particolare, per quanto riguarda i ritmi, Piaget fa riferimento ai ritmi biologici incorporati nelle forme più elementari di economia, nonché al susseguirsi delle generazioni. Per le regolazioni, cita l’esempio dell’opinione pubblica, e quello delle varie forme di coercizione, dalla politica alla scuola, alla famiglia, alla chiesa, con particolare attenzione alla struttura affettivo–morale del rispetto, che già abbiamo più volte incontrato. Per i raggruppamenti, infine, si riferisce al diritto, alla morale razionale, e allo scambio discorsivo equilibrato (Piaget, 1977, p. 76 sgg.). 52 Capitolo III Si tratta di suggestioni, osservazioni, sviluppi analitici più o meno ampi che, assieme alle ricerche psicogenetiche “maggiori”, formano un quadro d’insieme coerente, intorno al quale si può osservare quanto segue: 1) nella dimensione psicogenetica, la sequenza dei ritmi, delle regolazioni e dei raggruppamenti sembra avere due cicli, uno minore che conduce a quella sorta di logica–in–azione che è il gruppo degli spostamenti e l’invariante oggettuale; l’altro maggiore che conduce dallo stadio sensomotorio allo stadio delle operazioni concrete sino allo stadio finale delle operazioni formali. All’origine del ciclo maggiore, c’è l’emergere della funzione semiotica e, con essa, del linguaggio che, come sappiamo, è, al tempo stesso, una risorsa evolutiva ma anche un ostacolo, l’“ostacolo epistemologico” per il pensiero proiettato verso la logica; 2) al contrario, nella dimensione sociogenetica, lo sviluppo appare come un processo debolmente strutturato, ciò che spiega probabilmente l’assenza di stadi analogamente a quanto si rinviene nella dimensione psicogenetica. Piaget ammette solo un certo finalismo razionale dentro la totalità sociale considerata, nei momenti di convergenza tra le sotto–totalità della politica, del diritto e della morale (Piaget, 1977, p. 76). In generale, tuttavia, su una base intricata di ritmi, la totalità sociale oscilla tra regolazioni probabilistiche e chiusura logica. Quest’oscillazione è la condizione d’esistenza del pensiero simbolico, in tutte le sue forme, dalla mitologia all’ideologia. Il pensiero simbolico, i sistemi di segni e l’argomentazione razionale sono gli attori, in rapporti di collaborazione e di antagonismo, della vita semiotica sociale. 2.1. I mediatori morfogenetici Se la totalità sociale, comparata con gli stadi psicogenetici, appare meno strutturata, ciò non vuol dire che manchi di una sua complessa organizzazione. In particolare, Piaget suggerisce la presenza in essa di «mediatori» tra processi probabilistici e stutture logiche (1977, p. 80). Prima di esaminare più da vicino questi mediatori, un’osservazione preliminare si impone, e cioè che psicogenesi e so- Sistema linguistico e eccedenza normativa 53 ciogenesi, benché disegualmente differenziati, sono entrambi processi di generazione di forme. In Piaget, forma è apertura, mobilità, possibilità. Al contrario, contenuto è chiusura, dipendenza dal contesto, necessità. Se teniamo conto di ciò, allora psicogenesi e sociogenesi appaiono come processi morfogenetici, e i mediatori di Piaget come i regolatori di tali processi. Piaget suggerisce che mediatori morfogenetici, o fattori di crescita speciali, siano presenti sulla superficie dei ritmi e delle regolazioni, e che la loro espressione e regolazione, in configurazioni spaziotemporali specifiche dello sviluppo della forma, porti a cambiamenti nella forma stessa. Come ho già ricordato, quali esempi concreti di mediatori morfogenetici, Piaget cita l’opinione pubblica, le varie forme di coercizione, dalla politica alla scuola, alla famiglia, alla chiesa, infine la struttura affettivo–morale del rispetto. In generale, dunque, Piaget sembra riferirsi al normativo, ma non solo dal punto di vista delle istituzioni in cui esso si manifesta, ma anche dal punto di vista delle strutture socio–affettive che lo generano, come dimostra la sua particolare attenzione per il rispetto (Piaget, 1977, p. 82), intorno al quale, come sappiamo, ruota tutta la sua teoria dello sviluppo morale. Come vedremo più oltre, il rispetto come mediatore morfogenetico è strettamente connesso con i processi semiotici, ma in un modo che conduce oltre il sistema linguistico, introducendo un livello discorsivo che tiene conto dell’eccedenza normativa di cui testimonia la finalità espressiva perseguita dal locutore. 2.2. L’imitazione come mediatore morfogenetico Uno degli argomenti di Chomsky per avanzare la sua ipotesi di una facoltà linguistica universale e innata, è l’apparente contraddizione fra l’estrema complessità della struttura grammaticale delle lingue e la facilità con cui qualsiasi locutore le padroneggia (Formigari, 2001, p. 262). C’è un’argomentazione simile in Piaget concernente la competenza inconscia delle strutture logiche durante lo sviluppo psicogenetico. In particolare, a proposito della situazione sperimentale in cui un preadolescente di 12–15 anni assiste ad un certo numero di movimenti e di soste d’un oggetto mobile accompagnate dall’accensione 54 Capitolo III di una lampada, egli osserva che quest’adolescente, «senza conoscere alcuna formula logica, né la formula dei “gruppi” in senso matematico» (Piaget, Inhelder, 1966: 120), sarà capace di padroneggiare una serie di ipotesi circa la connessione tra movimenti e accensione della lampada, secondo le quattro possibilità della trasformazione identica (I), inversa (N), reciproca (R) e correlativa (C), che vengono così a costituire un sistema di trasformazioni che sintetizza ad un livello astratto le strutture parziali costruite fin là al livello delle operazioni concrete (Piaget, Inhelder, 1966, p. 121). Come sottolinea lo stesso Piaget, questa competenza logica inconscia del preadolescente è analoga a quella del neonato quando scopre il gruppo pratico degli spostamenti (Piaget, Inhelder, 1966: 120). Suffragato da molti fatti, appare pertanto un parallelismo di natura tra il linguaggio come competenza grammaticale di Chomsky e il pensiero come competenza logica di Piaget. Tuttavia, contrariamente a quanto fa Chomsky per il linguaggio, dalla constatazione di quella competenza logica spontanea Piaget non tira la conseguenza che vi sia una facoltà logica universale e innata. Egli piuttosto si pone due problemi e cioè: 1) se vi sia, da un punto di vista genetico, una filiazione tra la logica e il linguaggio; 2) da dove derivi geneticamente la logica. Come abbiamo visto nel § 3.2, Piaget riconosce che il linguaggio incorpora alcune essenziali strutture operatorie nella sua sintassi e nella sua semantica. Tuttavia, egli constata anche come, dal fatto che il linguaggio comporti una logica, si ammetta troppo facilmente che la logica derivi dal linguaggio (Piaget, Inhelder, 1966, p. 79). Contro questa tesi, egli cita una serie di fatti tratti dalla comparazione tra il differente sviluppo delle abilità logiche nei bambini normali, in quelli sordomuti e in quelli ciechi. In particolare, se nei sordomuti si rileva solo un ritardo di 1 a 2 anni nella successione degli stadi, nei ciechi invece si ha un ritardo di 4 anni e più, e ciò nonostante nei bambini ciechi le seriazioni verbali siano normali. La conclusione di Piaget in relazione a questi fatti è che dato che il disturbo sensoriale caratteristico dei ciechi dalla nascita ha impedito sin dall’inizio l’adattamento degli schemi senso–motori e ha ritardato la loro coordinazione generale, le coordinazioni verbali non bastano a compensa- Sistema linguistico e eccedenza normativa 55 re questo ritardo, per cui tutto un tirocinio dell’azione resta necessario per far capo alla costituzione di operazioni paragonabili a quelle del normale o perfino del sordomuto. (Piaget, Inhelder, 1966, p. 80). E, pertanto, la conclusione generale riguardo ai rapporti tra linguaggio e logica è che il linguaggio non costituisce la fonte della logica, ma è invece da essa strutturato. In altri termini, le radici della logica vanno cercate nella coordinazione generale delle azioni (condotte verbali comprese). (Piaget, Inhelder, 1966, p. 81). Ma se la logica deriva dall’azione, da dove proviene allora il linguaggio? Almeno a prima vista, la risposta di Piaget su questo punto sembra dilatoria. Egli infatti sostiene che, non tanto il linguaggio, quanto tutta la funzione semiotica procede dall’imitazione. Ma se il linguaggio è un sotto–prodotto della logica, perché invocare l’imitazione per spiegarne la genesi? Il fatto è che Piaget, a dispetto della sua fama di panlogista, sa bene che noi esperiamo il linguaggio non come fatto logico, ma come nebulosa di significati che premono per essere espressi tramite significanti. Spiegare il linguaggio, dunque, più che spiegare la sua struttura logica, significa spiegare il segno in funzione del bisogno espressivo. Qual è a questo proposito l’argomentazione di Piaget? Piaget distingue geneticamente due fasi. Una prima fase, senza evocazione di un oggetto assente, in cui i significati sono gli schemi stessi con i loro contenuti relativi alle azioni in corso, e i significanti sono percettivi e indifferenziati dai loro significati. Una seconda fase, con evocazione di un oggetto o di un avvenimento assente, che implica l’uso di significanti differenziati (Piaget, Inhelder, 1966, pp. 51–52). Si avrà così il bimbo di pochi mesi che riproduce in presenza del modello un movimento della mano, e che continua anche in assenza del modello, come puro fatto motorio. Ma si avrà poi la bimbetta di 16 mesi che assiste agli strepiti di un compagno e che, dopo qualche ora dalla sua partenza, ne riproduce ridendo il comportamento. E, poi, la stessa bimba che fa finta di dormire, e che poco dopo fa dormire il suo orsetto di peluche. E, infine, questa stessa bimba che dice 56 Capitolo III “Miao” quando non vede più il gatto, o “Nonno via” indicando la strada che poco prima il suo nonno ha imboccato andando via (Piaget, Inhelder, 1966, pp. 52–53). Ora, in questi comportamenti rappresentativi dell’evoluzione dalla prima alla seconda fase gli aspetti da sottolineare sono tre: 1) ad un livello primario, il significato coincide con l’azione ed è mentalmente “cieco”. Con una frase incisiva, Piaget afferma che «ogni assimilazione senso–motoria (quella percettiva inclusa) consiste già nel conferire significati» (Piaget, Inhelder, 1966, pp. 51–52). Tuttavia, questi significati, la cui consistenza è assicurata dagli indici, rinviano a null’altro che a se stessi. Se, come Piaget sostiene rifacendosi ad una concezione veneranda del significare, sulla cui permanente validità torneremo tra poco, il significare consiste nel rappresentare qualcosa per mezzo di qualcos’altro, allora qui siamo al di qua del significare. C’è la chiusura e la necessità del contenuto, e non c’è l’apertura e la possibilità della forma; 2) nel caratterizzare la coscienza come un sistema di significati, Piaget le attribuirà oltre all’operazione di implicazione, anche quella di designazione (Piaget, 1967, p. 55). Ma prima che la coscienza si installi come pensiero o forma logica compiuta, egli riconosce che il segno, più che designare, evoca, suggerisce, narra, vive cioè in stretta simbiosi con lo psichismo proprio del simbolo. L’emergenza del segno, allora, si configura come un processo morfogenetico che dall’azione corporea “cieca”, passando per il territorio del simbolico, giunge al significare come rappresentazione, nel senso di qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. Come ho già detto, sulla struttura di questo stadio finale, indagato da Peirce, ma anche da Saussure in termini di immotivatezza del segno, tornerò tra poco; 3) nella morfogenesi del segno, l’imitazione, diffusa anche nel più elementare mondo animale, assume la funzione di mediatore o fattore di crescita speciale, le cui varie espressioni, dal germe affettivo dell’evocazione alla compiutezza formale del riferimento, avvengono nel quadro di processi di decentramento conoscitivo (Piaget, 1945). Questo status di alta specializzazione cognitiva è quello che le odierne scienze della cognizione fanno oggetto delle loro indagini (Meltzoff, Prinz, 2002), restringendosi però al solo comportamento imitativo individuale, a prescindere dal contesto sociale e culturale Sistema linguistico e eccedenza normativa 57 (Meltzoff, Prinz, 2002, p. 1). Quanto abbiamo visto sin qui, invece, mostra che lo sviluppo psicogenetico indagato da Piaget, lungi dal resuscitare una regressiva psicologia delle facoltà, può essere posto in stretta continuità con le dinamiche sociogenetiche dell’imitazione. In questo modo, si evita di operare, tra il livello dell’individuo e quello della totalità sociale, un taglio magari giustificato dalla selettività della scienza (Meltzoff, Prinz, 2002, p. 2), ma che finisce per impoverire l’analisi tanto dell’uno, quanto dell’altro livello. In ciò sta l’interesse della possibile convergenza tra le indagini di Piaget e quelle condotte nella più generale incomprensione da un autore come György Lukács il quale, come abbiamo già ricordato, sotto l’equivoca etichetta di un trattato di estetica, propose in realtà una teoria sociogenetica della mente sociale (Lukács, 1963). In particolare per quanto concerne l’imitazione, Lukács mostra lungamente (1963, I, capp. V–X) la sua funzione morfogenetica nel passaggio dal sistema di segnalazione animale al linguaggio vero e proprio, sottolineando come una delle espressioni principali di tale crescita morfologica sia la «fantasia motoria», sorta di sistema semiotico intermedio, solidale con le manifestazioni evocativo–simboliche a valenza affettiva, le quali, nelle distinte sfere del pensiero quotidiano, dell’arte e della scienza, sono toccate in modo differenti da ciò che egli chiama i «processi disantropomorfizzanti», equivalenti di ciò che Piaget, a sua volta, denomina processi di decentramento cognitivo. Del pensiero di Lukács, prenderemo in considerazione nel prossimo capitolo aspetti etico–ontologici e retorico–linguistici che, oltre a confermare la sua sintonia con l’elaborazione di Piaget, saranno utili a definire la nostra prospettiva semioetica. Qui però era già opportuno segnalare queste convergenze nel campo specifico dell’imitazione, anche alla luce delle ricerche in corso nelle neuroscienze circa le sue basi neurali, localizzate nei cosiddetti neuroni–specchio (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). L’«immaginazione motoria», di cui si parla in tali ricerche, (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006, p. 94), sembra confermare, infatti, l’intuizione di Lukács circa la fantasia motoria. Ma ancora più importante è il fatto, da esse messo in evidenza, che i circuiti neuronali mirror implicati nell’osservazione e nell’esecuzione di comportamenti finalistici, si attivano anche nel funzionamento di quella soglia etica che è l’empatia, intesa come 58 Capitolo III struttura motoria imitativa, precedente il livello linguistico–dichiarativo (Jacoboni, 2003; Gallese, 2005). Questi risultati, da un lato, offrono ulteriore alimento all’integrazione di quel punto di vista semioetico cui qui ci andiamo man mano introducendo; dall’altro, come vedremo nel capitolo sesto, richiedono di essere assunti con cautela, soprattutto quando, nel giusto intento di evidenziare la novità dei meccanismi neuronali di base dell’imitazione e dell’empatia, la polemica contro la concezione teoreticistica della mente, propria del cognitivismo classico, si tramuta in un riduzionismo neuronale inaccettabile. 3. TIPOLOGIA DEI SEGNI E NATURA SEMIOTICA DELL’INTELLIGENZA La tipologia dei segni (indice, simbolo, segno) emersa nella ricostruzione sin qui operata della semiologia di Piaget, si ricollega alla tipologia di Peirce e Saussure, che Piaget non solo conosce bene, ma a proposito delle quali mostra di avere un preciso giudizio. Questo è quanto si deduce quando, quale esempio di una continua autocostruzione del pensiero, Piaget cita proprio la funzione semiotica, con un diretto riferimento a Saussure e a Peirce: Per attenersi alla funzione semiotica, non si può già pensare, accettando la distinzione saussuriana fra il segno e il simbolo (più profonda, ci sembra, della classificazione di Peirce), che c’è stata evoluzione dal simbolo immaginifico al segno analitico? (Piaget, 1968, p. 144). E, in una nota a questo passo, spiega: Saussure distingue l’indice (che partecipa causalmente del suo significato), il simbolo (motivato) e il segno (arbitrario), il quale è dunque necessariamente sociale perché convenzionale, mentre il simbolo può essere indivduale (sogni, ecc.). Peirce opponeva all’indice l’icona (immagine) e il simbolo (il segno, ma legato ai due precedenti). (Piaget, 1968, p. 150). Come si vede, qui convivono entrambe le accezioni del termine arbitrarietà, quella pre–saussuriana di convenzionalità, e quella propriamente saussuriana di immotivatezza. Ma la convenzionalità è Sistema linguistico e eccedenza normativa 59 interpretata come l’effetto del grado di astrazione raggiunto dal pensiero sociale. Di qui il giudizio di maggiore profondità sulla classificazione di Saussure rispetto a quella di Peirce. 3.1. La tipologia dei segni in Peirce e Saussure Vorrei qui richiamare il modo in cui Peirce illustra la dinamica della seconda delle sue tre tricotomie dei segni, quella appunto cui fa riferimento Piaget e in forza della quale un Segno può essere detto Icona, o Indice, o Simbolo (CP, 2.247 = 2003, pp. 139–140). Scrive Peirce in proposito: Un Simbolo è un segno naturalmente atto a esprimere quanto segue: l’insieme di oggetti denotato da qualsiasi serie di indici, in certi modi connesso al simbolo, è rappresentato da un’icona associata a esso. Per mostrare che cosa significhi questa definizione complicata, prendiamo come esempio di simbolo la parola “ama”. Associata a questa parola è un’idea, la quale idea è l’icona mentale di una persona che ne ama un’altra. Ora si deve tenere presente che “ama” occorre in un enunciato, e che ciò che può significare in sé, se pure significa qualcosa, non è qui in questione. Supponiamo allora che l’enunciato sia “Ezechiele ama Huldah”. Allora, Ezechiele e Huldah debbono essere o contenere indici: infatti senza indici è impossibile designare ciò di cui si parla; qualsiasi mera descrizione lascerebbe in sospeso se essi possano essere meri personaggi di una ballata o no; ma sia che essi siano meri personaggi o no, gli indici possono designarli. Ora, l’effetto della parola “ama” consiste nel fatto che la coppia di oggetti denotati dalla coppia di indici Ezechiele e Huldah viene rappresentata dall’icona, ossia dall’immagine che abbiamo nella mente, di un amante e della sua amata (CP, 2.295 = 2003, pp. 173–74). Dunque, gli indici sono ciò che dà consistenza alla designazione, mentre l’icona è molto simile a ciò che oggi chiameremmo prototipo. La funzione designativa degli indici e quella prototipica dell’icona è ciò che consente ad un Segno, ovvero al simbolo, di significare. Se vista in maniera dinamica e non statica, la seconda delle tricotomie del Segno di Peirce è la descrizione del funzionamento cognitivo di un atto di significazione. Quanto a Saussure, conviene anche qui citare senza ulteriori commenti il passo in cui ricorre la distinzione tra il simbolo, motivato, e il segno, immotivato, cui fa riferimento Piaget: 60 Capitolo III Ci si è serviti [tradizionalmente] della parola simbolo per designare il segno linguistico o più esattamente ciò che chiamiamo significante. Vi sono degli inconvenienti ad accoglierlo, appunto a causa del nostro primo principio [idest, principio di arbitrarietà]. Il simbolo ha per carattere di non essere mai completamente arbitrario. Non è vuoto, implica un rudimento di legame naturale tra il significante e il significato. Il simbolo della giustizia, la bilancia, non potrebbe essere sostituito da qualsiasi altra cosa, per esempio un carro. (Saussure, CLG, pp. 86–87). In conclusione, come effettivamente Piaget sostiene, in Peirce il simbolo appare «legato ai due precedenti», cioè l’indice e l’icona. Ma la funzione che questi ultimi due svolgono nell’atto di significazione non è propriamente ciò che attira Piaget, che è invece interessato alla dimensione genetica implicita nella distinzione saussuriana tra simbolo e segno. Egli, quindi, da un lato, adotta questa distinzione; dall’altro, la completa sia con la considerazione degli indici, sia introducendo una progressione genetica dagli indici, propri dei significati agiti, ai simboli, motivati e individuali, ai segni, arbitrari nel senso di convenzionali proprio perché immotivati. 3.2. La natura semiotica dell’intelligenza: Piaget Come abbiamo visto, per Piaget significare è rappresentare qualcosa per mezzo di qualcos’altro. L’interesse di questa classica concezione consiste nel modo in cui Piaget la intreccia con la sua concezione, altrettanto classica, dell’intelligenza. Piaget critica l’interpretazione simbolica, avanzata dagli psicanalisti, della suzione del pollice da parte del bambino piccolo come simbolo che sta per la suzione del seno. Qui, egli sostiene, non ci sarebbe simbolismo, ma solo estensione di schemi motori per integrazione di nuovi contenuti (Piaget, Inhelder, 1966, p. 17). Per dirla con Mayr, siamo ad un livello teleomatico di abitudini, quindi di schemi sensomotori d’insieme senza differenziazione tra mezzi e fini. Ora, per Piaget, l’intelligenza consiste precisamente nella scelta deliberata di perseguire scopi, ricercando attivamente i mezzi adatti per raggiungerli (Piaget, Inhelder, 1966, p. 17). Un esempio di condotta intelligente lo offre il bambino che si propone di aprire una scatola di fiammiferi socchiusa per impossessarsi di un dado che vi è Sistema linguistico e eccedenza normativa 61 stato posto prima dentro (Piaget, Inhelder, 1966, pp. 19–20). In questo comportamento, è interessante il fatto che lo scopo di allargare l’apertura della scatola per raggiungere il dado, è preceduto dall’apertura e dalla chiusura della mano o della bocca da parte del bambino, cioè dalla rappresentazione mentale, sebbene in parte ancora agita, dello scopo stesso: l’apertura e la chiusura della mano o della bocca stanno per la scatola aperta. La funzione euristica della significazione, che questa condotta esemplifica, spiega perché il linguaggio, secondo l’antica osservazione di Aristotele, serve agli uomini per determinare «ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto» (Pol., 1253a 15–20). Nel suo intrecciarsi con l’intelligenza, il linguaggio, in quanto struttura semiotica, permette di anticipare la realtà, rendendo i mezzi e gli scopi non solo calcolabili, ma anche ponderabili secondo criteri morali. Tuttavia, perché ciò avvenga, e su questo punto il testo aristotelico è assai sintetico, l’intelligenza dovrà, per così dire, umanizzarsi, uscire cioè dalla mutezza strumentale, e congiungersi con quella parola irrequieta che mette in contatto non più singoli della specie, ma individui di una comunità. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, in questo germinale momento discorsivo l’intelligenza si presenta come lavoro, ovvero intelligenza storicamente situata, legata all’emergenza della figura del dovere, che pone le basi per le successive trasformazioni morali. Ma nell’attesa di questi approfondimenti, ritorniamo alla lettura parallela di Peirce, Saussure e Piaget. 3.3. La natura semiotica dell’intelligenza: Peirce A questo proposito, ciò che si può facilmente constatare è che azione, scopo, segno e significazione come stare per sono i concetti che anche Peirce usa per analizzare la stessa realtà di Piaget, cioè il comportamento intelligente. Per Peirce, la semiotica è la «dottrina della natura essenziale e delle varietà fondamentali di ogni possibile semiosi» (CP, 5.488 = 2003, p. 270), dove per semiosi si intende una influenza tra il segno, il suo oggetto e il suo interpretante «tale che questa influenza tri–relativa non si possa in nessun modo risolvere in azioni fra cop- 62 Capitolo III pie» (CP, 5.484 = 2003, p. 268). Ora, un’azione fra coppie è «ogni azione dinamica o azione di forza bruta, fisica o psichica» avente luogo o fra due soggetti, oppure risultante di tali azioni fra coppie (CP, 5.484 = 2003, p. 268). E, a sua volta, un’azione bruta è un’azione senza scopo, come la caduta di una pietra a terra (CP, 8.330 = 2003, p. 187). Nei termini di Mayr, un processo teleomatico. Un segno, invece, è un’azione dotata di scopo, come per esempio il comando «Armi a terra!» (CP, 5.473 = 2003, p. 260). Nei termini di Mayr, un processo teleonomico. Quest’analisi del segno condotta in termini di azione e scopo arriva, come ora vedremo, sin dentro al cuore del processo di significazione come stare per. Scrive infatti Peirce che «un segno, o representamen, è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità. […] Il segno sta per qualcosa: il suo oggetto. Sta per qualcosa non sotto tutti i rispetti, ma in riferimento a una sorta di idea che io ho talvolta chiamato la base del representamen» (CP, 2.228 = 2003, pp. 147–48). Un’analisi del carattere sostitutivo del segno in grado di unificare le molteplici dimensioni cognitive, etiche e adattive del finalismo linguistico: «RAPPRESENTARE. Stare per, cioè essere in una tale relazione con un’altra entità da essere trattato da qualche intelletto per certi scopi come se si fosse l’altra entità» (CP, 2.273 = 2003, p. 163. Corsivo mio). Dunque, lo stare per del segno implica il suo essere trattato da qualcuno per certi scopi, come si evince dal seguente passo dove Peirce, a proposito dell’Icona, afferma che «qualsiasi cosa è atta a servire da Sostituto per qualsiasi altra cui sia simile (il concetto di “sostituto” implica quello di scopo, e dunque di Terzità genuina)» (CP, 2.276 = 2003, p. 165. Corsivo mio). Con riferimento al tema dell’imitazione cui più sopra si è accennato e alle ricerche neurocognitive sui neuroni–mirror, vorrei sottolineare il nesso che qui Peirce pone tra lo stare per del segno, il suo essere trattato per certi scopi, e il suo essere in qualche modo copia per poter funzionare da Sostituto. In particolare, l’Icona sembra essere la mappa neuro–motoria che si attiva quando degli indici sono interpretabili come indizi di scopi (Rizzolatti, Fogassi, Gallese, 2006, p. 56) Sistema linguistico e eccedenza normativa 63 Ma continuando nell’esame del rapporto tra stare per e scopo in Peirce, si constata facilmente come esso si annidi dappertutto nella sua riflessione. Così è quando, con riferimento alle definizioni di pragmatismo date da James, scrive che «la sua quarta definizione è che il pragmatismo è la dottrina secondo cui “ogni significato dipende dallo scopo”. Penso che vi sia molto da dire in favore di questa definizione, che, tuttavia, farebbe apparire pragmatisti molti pensatori che non si considerano appartenenti alla nostra scuola di pensiero, anche se le loro affinità con noi sono innegabili» (CP, 5.494 = 2003, p. 277). E così pure è quando riprende e sviluppa tutta questa materia a proposito dei tre livelli di realtà, cioè la Primità, la Secondità e la Terzità. Anche qui egli distingue tra azione diadica o bruta (Mayr direbbe azione teleomatica), e azione triadica o intelligente (Mayr direbbe azione teleonomica) (CP, 5.472 = 2003, p. 260). Ora, l’azione diadica o bruta è anche Secondità, e «il tipo di idea di Secondità è l’esperienza di uno sforzo, prescindendo dall’idea di uno scopo» (CP, 8.330 = 2003, p. 186). L’azione triadica, invece, mediata dal segno, è Terzità, e nella Terzità si troverà sempre un elemento mentale: «L’azione bruta è secondità, mentre ogni mentalismo implica la terzità» (CP, 8.331 = 2003, p. 189). Un’azione diadica o bruta, propria della Secondità, è dunque un’azione senza scopo. Un’azione triadica o segnica, propria della Terzità, è invece un’azione dotata di scopo. L’azione bruta è un processo teleomatico, l’azione segnica un processo teleonomico. Dunque, la vita, cioè i processi biologici volti al cosciente perseguimento di scopi, coincidono con il segno. 3.4. La performatività adattiva del segno Nella sua analisi semiotica del vivente, laddove per vivente si intende un organismo intelligente, cioè capace di perseguire scopi, Peirce avanza in una direzione presente anche in Piaget quando tratta delle equilibrazioni discorsivo–morali. È l’idea di Legge o Convenzione. Quest’idea è presente anche in Saussure, sebbene solo come paradigma con cui confrontare il grado normativo del sistema linguistico. Un punto sul quale, come vedremo nel capitolo quinto, egli si 64 Capitolo III pone degli interrogativi che lo conducono in una direzione semioetica. Per restare a Peirce, un’azione bruta o diadica o della Secondità, è un’azione non regolata da una Legge o Convenzione. In proposito, Peirce scrive: «Generalmente parlando, la Secondità genuina consiste in una cosa che agisce su un’altra: in un’azione bruta. Dico bruta, perché nella misura in cui interviene l’idea di una qualsiasi legge o ragione, interviene la Terzità» (CP, 8.330 = 2003, p. 187). Ma che cos’è questa legge o ragione, e qual è la sua funzione? Rileggiamo un passo precedentemente citato, ma questa volta per intero e sino in fondo: Se prendete in esame una qualunque comune relazione triadica, troverete sempre un elemento mentale in essa. L’azione bruta è secondità, mentre ogni mentalismo implica la terzità. Analizzate per esempio la relazione implicata in ‘A dà B a C’. Ora, che cos’è dare? Non consiste nel fatto che A allontana B da sé e successivamente C prende B. Non è necessario che abbia luogo un trasferimento materiale. Dare consiste nel fatto che A rende C possessore secondo la Legge. Ci deve essere un tipo di legge prima che vi possa essere un tipo di dare — sia pure la legge del più forte. Ma ora supponete che dare consista in verità semplicemente nel fatto che A depone il B che C successivamente raccoglie. Questa sarebbe una forma degenerata di Terzità in cui la terzità è aggiunta esteriormente. Nel fatto che A allontana B non vi è terzità. Nel fatto che C prende B non vi è terzità. Ma se dite che queste due azioni costituiscono una sola operazione in virtù dell’identità del B, superate il puro fatto bruto, e introducete un elemento mentale. (CP, 8.331 = 2003, p. 189). La chiusa di questo passo rivela, anzitutto, la consonanza esistente tra Piaget e Peirce circa la loro concezione del «mentale». Per Piaget, la mente è retta da una logica sorta dall’interiorizzazione dell’azione intersoggettiva (Aqueci, 2003). Analogamente, per Peirce, la mente è costituita dalla «sola operazione in virtù dell’identità del B», che unifica le azioni singole di A e di C. Anche qui, dunque, la mente, sebbene solo dal punto di vista strutturale e non più genetico, coincide con un’operazione logica intersoggettiva. Ora, questa concezione logico–intersoggettiva della mente consente a Peirce, come mostra l’intero passo che abbiamo letto, di affermare una performatività del segno più generale e profonda rispetto a quella che, negli anni Cinquanta del secolo scorso, John L. Sistema linguistico e eccedenza normativa 65 Austin (1911–1960) sottolineò a proposito di alcune classi di segni (Austin, 1962). Infatti, mentre Austin, almeno in una prima fase, distingue tra enunciati constativi, con cui descriviamo fatti, e enunciati performativi, con cui compiamo azioni, Peirce afferma che il segno è sempre performativo, e ciò in virtù del nesso tra il suo stare per e il suo essere trattato per certi scopi. Un nesso che è il mezzo per rendere efficiente, cioè non bruta ma finalistica, l’azione: «Mi sembra che la funzione essenziale di un segno sia di rendere efficienti relazioni inefficienti — non di porle in azione, ma di stabilire un abito o regola generale secondo la quale esse all’occasione entreranno in azione» (CP, 8.332 = 2003, p. 191). Segno e Legge, dunque, coincidono. Certo, la Legge o abito di cui parla Peirce, e con lui tutto il pragmatismo, è come un magma morale raffreddatosi nello stampo del segno. Vedremo nel corso di questo libro come occorrerà staccarsi da questo ancoraggio, e affrontare il mare aperto della norma etico–politica. Ciò che qui possiamo affermare, però, è che Segno e Legge sono lo strumento per rendere efficiente il perseguimento degli scopi e, in ultima analisi, per permettere al vivente di accrescere le proprie opportunità adattive. 4. PEIRCE, SAUSSURE, PIAGET: UNA ANALITICA DEL VIVENTE Abbiamo visto che per Peirce la semiotica è la dottrina di ogni possibile semiosi, semiotiche brute o teleomatiche come semiotiche segniche o teleonomiche (CP, 5.488 = 2003, p. 270). Quanto a Saussure, una prima definizione è quella ben nota della semiologia come scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale, e che dovrebbe dirci in che consistono i segni e quali leggi li regolano (Saussure, CLG, pp. 25–27). Una seconda è l’altra, altrettanto nota ma assai meno citata, secondo la quale oggetto principale di una semiologia interamente stabilita deve essere «l’insieme dei sistemi fondati sull’arbitrarietà del segno», poiché è nei segni interamente arbitrari, cioè immotivati, come quelli della lingua, che si realizza meglio «l’ideale del procedimento semiologico» (Saussure, CLG, p. 86). 66 Capitolo III Morfogenesi della cognizione sociale pensiero individuale egocentrico pensiero sociale decentrato costrizione (rispetto unilaterale) cooperazione (reciprocità morale) discorso autoritario (monologo) – simbolo discorso internamente persuasivo (argomentazione) segno arbitrario funzionale a sistema di concetti stabile e mobile – Alla luce anche di quanto abbiamo visto in Peirce, possiamo ora mettere a frutto la lettura genetica di Saussure che Piaget ci suggerisce. Se, infatti, il segno immotivato, ovvero analitico, rappresenta il culmine tanto dello sviluppo psicogenetico, quanto dell’evoluzione sociogenetica; se, per converso, la psicogenesi, e in una qualche misura anche la sociogenesi, sono una sorta di “narrazione” dell’immotivatezza del segno; se, infine, il segno immotivato rappresenta il completo stabilirsi dei processi teleonomici, allora la semiologia saussuriana non sarà solo una scienza classificatoria, ma un’analisi formale del segno vivente. Nel capitolo quinto, vedremo quali sono le strutture che quest’analisi formale porta alla luce, di che natura sono, e quali sono i rapporti tra la normatività linguistica e la normatività della Legge o Convenzione. Ciò che qui possiamo anticipare è che la tensione tra libertà espressiva e costrizione dell’uso, se è tipica del sistema linguistico (Gambarara, 2006, p. 227), essa è anche un’eccedenza normativa che, malgrado gli sforzi operati per tenerne conto linguisticamente (Coseriu, 1952; Coseriu, 1958), conduce fuori dal sistema linguistico. In tal senso, la prospettiva genetica di Piaget, con la quale abbiamo fatto interagire le semiotiche di Peirce e Saussure, suggerisce che tanto la Legge di Peirce, quanto il sistema linguistico di Saussure normativamente inteso, possono essere concepiti come una morfogenesi della cognizione sociale, governata dalle trasformazioni af- Sistema linguistico e eccedenza normativa 67 fettivo–morali del rispetto, le quali si manifestano passando da forme di discorso che, sulla scorta di Bachtin, potremmo chiamare autoritarie, a forme di discorso internamente persuasivo. Tale morfogenesi, le cui manifestazioni discorsive sono state del resto analizzate dallo stesso Piaget sul piano psicogenetico (Piaget, 1923), appare segnata dalla successione delle due grandi fasi della costrizione e della cooperazione, cui corrisponde cognitivamente il passaggio dal pensiero individuale egocentrico al pensiero sociale decentrato, con le loro rispettive strutture semiotiche (Piaget, 1977, pp. 271–73) (v. schema della morfogenesi della cognizione sociale). Da questo punto di vista discorsivo, e non più puramente linguistico, può essere allora rivisitata, come faremo più oltre (cap. V), la distinzione di Saussure tra esprit de clocher e esprit d’intercourse, per imprimerle quel dinamismo evolutivo che Piaget suggerisce tra simbolo individuale e segno analitico. Quel che intanto possiamo affermare, in chiusura di questo capitolo, è che la lettura genetica della distinzione saussuriana di simbolo e segno, avanzata da Piaget, consente di legare la semiotica di Peirce alla semiologia di Saussure, proiettandole verso l’orizzonte di una analitica del vivente in cui acquista un ruolo centrale la dinamica delle strutture discorsivo–morali. Capitolo quarto Strutture finalistiche e libertà dell’individuo Le vie sin qui esplorate di una possibile semioetica, implicano una definizione di comunicazione come ideazione pubblica di contenuti di pensiero individuali, intendendo con ciò la progressione genetica ma, al tempo stesso, la problematicità con cui si stabilisce la comunicazione sociale. Questa definizione ripropone la questione di ciò che trent’anni fa Ferruccio Rossi Landi chiamava l’alienazione del linguaggio. Alienazione linguistica, nel senso che il parlante, dal momento in cui entra nella macchina di produzione linguistica, ne deve accettare inesorabilmente le regole, pena la sua morte linguistica. E questa inesorabilità del meccanismo lo spossessa del suo prodotto linguistico, e rende la comunicazione un processo che sovrasta l’individuo (Rossi Landi, 1968, pp. 103–104). Non esiste, dunque, linguaggio privato, e la comunicazione è solo pubblica, ma in quanto tale il linguaggio è alienato. Questa identificazione di linguaggio, carattere pubblico della comunicazione e alienazione riproduce lo stesso errore che György Lukács riconobbe autocriticamente nella sua identificazione giovanile di oggettivazione e alienazione, ammettendo che «l’oggettivazione è naturalmente priva di un indice di valore» (Lukács, 1967, p. XLIV). Lo stesso si può dire del linguaggio, il quale 69 70 Capitolo IV emerge da una socialità eticamente neutra, di cui la naturale «attenzione comune» fra i partecipanti all’interazione comunicativa è il tratto peculiare (Bara, 1999, p. 84). Tuttavia, una caratterizzazione di tale emergenza come progressione linearmente naturale che va dall’attenzione comune alla restrizione progressiva sui materiali fonetico–sintattici, sino al dibattito pubblico quale libero esame condiviso (Changeux, 2002, pp. 149–152), rende implausibilmente deterministico, per dirla con i termini classici di John Locke (1632–1704), autore di cui tratteremo nel capitolo sesto, il passaggio dalla socialità linguistica, o socialità naturale dello stato di natura (Locke, Secondo trattato sul governo, VIII, 95, p. 297), alla socialità discorsiva, o socialità normativa del patto politico (ivi, IV, 22, p. 244). Un passaggio che, quando si innesca, è sorretto dalla struttura trasformazionale del rispetto, il quale, come è stato ultimamente sottolineato, «significa accettare negli altri proprio ciò che non si capisce di loro» (Sennett, 2004, p. 256). L’opacità dei contenuti individuali non è dunque un dato estrinseco che la comunicazione può rimuovere, né d’altra parte la loro messa in discorso coincide con l’alienazione del soggetto linguistico. L’attenzione comune, come anche la presupposizione che l’altro compia le mie stesse operazioni logico–discorsive quando usa le parole, già messa in evidenza dallo stesso Locke (Saggio sull’intelletto umano, III, II, 4, p. 477), e su cui torneremo più oltre (cap. VI), sono strutture eticamente neutre della comunicazione. Tuttavia, se al pari dell’oggettivazione, la comunicazione vuole essere un’esperienza che non allontana l’essere dell’uomo dalla sua essenza (Lukács, 1967, p. XLIV), allora essa deve incorporare una buona dose di opacità dell’altro. Nel presente capitolo, affronteremo queste questioni approfondendo il nesso tra segno, scopo e intelligenza già in parte esplorato nel capitolo precedente, a proposito delle semiotiche di Peirce, Saussure e Piaget. Come si ricorderà, il rapporto tra segno e morale è emerso dal fatto che il linguaggio, in quanto programma finalistico aperto o, secondo i termini di Mayr, teleonomico, comprende fra i suoi scopi anche quello di ponderare il giusto e l’ingiusto. Proveremo ora a serrare ulteriormente questo nesso semioetico, prendendo in conto non più solo il linguaggio, ma anche la mente. Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 71 1. LA MENTE TRA DOVERE E SEGNO A tal fine, vorrei ricollegarmi ancora alle ricerche di Rossi Landi, in particolare alla sua ipotesi circa un’omologia esistente tra linguaggio e mercato, tra segni e merci, ipotesi poi ripresa in maniera più sofisticata da Umberto Eco (1975, pp. 39–40; 203), il quale non cercherà più di applicare le categorie dell’economia al linguaggio, ma di inglobare l’economia nella semiotica. Il punto che vorrei riprendere di queste discussioni, concerne la caratteristica di tutte le merci, compresa la merce–lavoro, di essere segni del lavoro sociale astratto. Secondo la formulazione di Lucio Colletti (1969, p. 106), interessante non solo perché, come al solito, molto limpida, ma anche per le conseguenze che se ne possono trarre circa i modi di conoscenza del pensiero sociale, aspetto che qui però non tratterò — secondo tale formulazione, dicevo, il lavoro sociale astratto è ciò che vi è di eguale e comune in tutte le concrete attività lavorative umane (falegnameria, tessitura, filatura, ecc.), quando queste attività siano considerate a prescindere dagli oggetti reali, o valori d’uso, che esse di fatto lavorano e in funzione dei quali si diversificano (tavolo, stoffa, filo, ecc.). Considerati come prodotti dal lavoro astratto, considerati cioè in riferimento ad un valore che li eguaglia e li rende scambiabili l’uno con l’altro, tutti i prodotti dei lavori concreti vedono cancellate le loro qualità sensibili di valori d’uso, per rappresentare ormai soltanto dei valori di scambio, valori di merci. In altri termini, un tavolo sta per tot ore di lavoro astratto, una stoffa sta per altre tot ore di lavoro astratto, e ciò che in realtà si baratta o, servendosi dell’intermediario del denaro, si scambia, sono quantità di lavoro sociale astratto, cioè valori di scambio. Non bisogna nascondersi il fatto che, nella scienza economica, per le difficoltà che sorgono dal tradurre il valore in prezzi (cioè, in valori di efficienza), questo modo di concepire la merce e il mercato è stato a più riprese contestato e rigettato. E a tal proposito, basti citare la travagliata riflessione di un Claudio Napoleoni che, cosa degna di nota, seguendo un percorso tutto interno all’economia politica, dalla negazione della teoria del valore–lavoro è giunto a riscoprire «l’altro come tuo primo bisogno», e l’uomo come «nodo di re- 72 Capitolo IV lazioni» naturali e sociali (Napoleoni, 1985).Oggi, Amartya Sen, con la sua teoria delle capacitazioni, cerca forse di rendere tecnico ciò che per Napoleoni restò solo un orizzonte. Ma tornando al filo del discorso, non bisogna nascondersi, dicevo, il fatto che la scienza economica rifiuta la teoria del valore–lavoro, e ciò per evitare quell’impressione di “mare tranquillo”nei rapporti tra le discipline, in particolare la semiotica e l’economia politica, che si ricava da Rossi Landi e Eco, come se le categorie dell’una potessero essere “verificate” senza residui dall’altra. C’è indubbiamente questa categoria dello stare per che è un forte punto di contatto tra le due discipline, e che rende suggestiva l’ipotesi che la merce, in quanto sta per una certa quantità di lavoro sociale astratto, è in forza di ciò un segno. È a partire da qui che Eco ha proposto la sua nozione di cultura come semiotica generale, la quale si instaura nel momento in cui il lavoro di un essere pensante si fissa in una relazione di rimando ad uno scopo. Ad esempio, a seguito di una pratica fortuita e primordiale, un essere pensante userà pietre S1, S2, … Sn, in funzione dello scopo di rompere delle noci, riconoscendole come occorrenze di ciò che egli, poco importa se pubblicamente o privatamente, ha denominato “pietra che serve a qualcosa”, cioè a rompere delle noci (Eco, 1975, pp. 37–38). È di tutta evidenza, e non meraviglia che ciò accada in Eco, che la relazione di rimando che rende semiotico quel lavoro (“la pietra che serve a qualcosa” e tutte le sue occorrenze stanno per lo scopo di rompere le noci) ricade interamente in una delle due definizioni di segno di Peirce, quella secondo la quale il rappresentare è uno «stare per, cioè essere in una tale relazione con un’altra entità da essere trattato da qualche intelletto per certi scopi come se si fosse l’altra entità» (Peirce, 2003, p. 163). Notiamo ancora che Eco afferma che «se un essere vivente usa una pietra per spaccare una noce, non si può ancora parlare di cultura» (1975, p. 37). Di conseguenza, il lavoro produttivo di cui poi Eco si occuperà in tutto il suo Trattato, non sarà il lavoro in generale, ma solo il lavoro produttivo segnico, cioè lo sforzo fisico e psichico compiuto nell’interpretare e produrre segni, messaggi, testi (1975, p. 204). Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 73 Notiamo, infine, che per Eco le discipline che studiano il lavoro produttivo segnico, sono la teoria dell’informazione, la fonetica, le scienze fisiche, poi la retorica in un senso ampio, e infine la logica e la filosofia dei linguaggi naturali. Solo marginalmente e genericamente vengono menzionate anche le altre scienze «che vertono sugli stessi argomenti» (1975, p. 205, tavola 31). È questa barriera disciplinare così netta che qui vorrei provare un po’ a scuotere, puntando lo sguardo su quel momento in cui il lavoro è ancora solo produttivo e sta per diventare segnico, prima insomma che la struttura semiotica si installi, e le discipline chiamate ad analizzarla stabiliscano la loro ferrea legalità. Capisco che è come andare a cercare guai, perché, tentando di fissare qualche fotogramma in più della genesi, da un lato si rischia di perdere la cristallina purezza del lavoro produttivo segnico, dall’altro non si ha nemmeno il conforto dell’economia politica che, come ho già ricordato, rifiuta con buoni argomenti di teoria economica la categoria del lavoro da cui deriverebbe il valore di scambio delle merci, e quindi il carattere semiotico del mercato. Tuttavia, ritengo che valga la pena di pagare il primo prezzo, e quanto al secondo, non essendo primariamente interessati all’analisi economica, possiamo limitarci ad estrapolare l’ipotesi antropologico–evolutiva che c’è dietro la concezione del valore–lavoro, così come la si ritrova nei padri fondatori dell’economia politica, da Locke, per il quale il lavoro era il modo in cui l’uomo si assimila la natura e da cui nasce il diritto alla proprietà privata, a Smith, che lo considerava nel quadro di un’etica “umanistica” della simpatia, sino allo stesso Marx, che è critico dell’uno e dell’altro, ma, come dire, per troppo generosità, perché nel lavoro vedeva la possibilità della realizzazione massima delle potenzialità umane, e gli dispiaceva che vi si scorgesse solo la dimensione del sacrificio imposto dalla maledizione divina. Questo è un punto su cui ritornerò. Intanto, se vogliamo riassumere quest’ipotesi antropologico–evolutiva, possiamo dire che Locke o Smith o Marx, tutti hanno più o meno sottolineato il fatto che dopo l’esplosione dell’istinto, il lavoro è stato il modo tipico dell’uomo di soddisfare i propri bisogni. In particolare, il lavoro è apparso come il mezzo che serve a raggiungere i fini legati al soddisfacimento dei bisogni umani. Questo 74 Capitolo IV rapporto mezzi/fini era prima incorporato nell’istinto (il castoro che costruisce le dighe, l’ape che dà vita all’alveare). Dopo l’esplosione dell’istinto, avvenuta con l’emergere e per l’emergere della specie umana, cioè dopo la rottura del legame meccanico e unideterminato tra mezzi e fini, il lavoro è stato la risposta adattiva tipica della specie umana per riaccordare questi “pezzi” del meccanismo finalistico. La storia sociale del lavoro è poi un capitolo che è stato scritto soprattutto da Marx, quando ha mostrato che l’avvento del mercato capitalistico ha trasformato il lavoro, da mezzo per soddisfare bisogni, in una potenza sociale “macchinale” o “macchinica”, (certo il termine “tecnologico” è troppo usurato per rendere l’idea di una concentrazione inaudita di tecnica e cognitività), di cui gli individui sono delle semplici appendici nervose (Grundrisse, p. 709). È questo lo stadio del vero e proprio lavoro sociale astratto, un lavoro reificato, alienato, “estratto” dagli individui da quel potente ma cieco meccanismo di coordinazione dei mezzi con i fini che è il lavoro divenuto capitale. Ma qui possiamo tralasciare quest’aspetto, per concentrarci, invece, sulle conseguenze semioetiche che derivano, da un lato, da una concezione sostantiva, e non più semiotico–formale, del lavoro come struttura finalistica, e, dall’altro, da una concezione strumentalmente semiotica della merce come stare per, cioè come qualcosa (l’oggetto sensibile che soddisfa un nostro bisogno) che sta al posto di qualcos’altro (la quantità di lavoro sociale astratto necessaria a produrlo). A questo punto, consideriamo le due definizioni di segno che si ritrovano in Peirce, la prima, già richiamata, secondo la quale il segno è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, in funzione di un qualche scopo; la seconda che afferma che il segno è un mezzo per rendere efficienti relazioni inefficienti (Peirce, 2003, p. 191). Dopo l’esplosione dell’istinto, l’efficienza della relazione mezzi/fini è cruciale per l’adattamento vitale della specie umana. Qual è allora il legame tra il segno così definito e l’adattamento vitale post–istintuale? Leggiamo l’analisi dell’atto del dare che Peirce ci propone: Se prendete in esame una qualunque comune relazione triadica, troverete sempre un elemento mentale in essa. L’azione bruta è secondità, mentre ogni mentalismo implica la terzità. Analizzate per esempio la relazione implicata in Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 75 ‘A dà B a C’. Ora, che cos’è dare? Non consiste nel fatto che A allontana B da sé e successivamente C prende B. Non è necessario che abbia luogo un trasferimento materiale. Dare consiste nel fatto che A rende C possessore secondo la Legge. Ci deve essere un tipo di legge prima che vi possa essere un tipo di dare — sia pure la legge del più forte. Ma ora supponete che dare consista in verità semplicemente nel fatto che A depone il B che C successivamente raccoglie. Questa sarebbe una forma degenerata di Terzità in cui la terzità è aggiunta esteriormente. Nel fatto che A allontana B non vi è terzità. Nel fatto che C prende B non vi è terzità. Ma se dite che queste due azioni costituiscono una sola operazione in virtù dell’identità del B, superate il puro fatto bruto, e introducete un elemento mentale (Peirce, 2003, p. 189). Vorrei far notare che le forme primitive del baratto sono regolate da un’etichetta che appare curiosamente simile alla terzità degenerata di Peirce, cioè qualcuno lascia cadere “casualmente” qualcosa che qualcun altro successivamente altrettanto “casualmente” raccoglie (Polany, 1944, p. 80). Ma più che terzità degenerata, qui c’è, da un lato, il permanere piacevole nella degenerazione che segue all’esplosione dell’istinto e che precede l’instaurarsi del mentale; dall’altro, terzità germinale, com’è testimoniato dal fatto che lo scambio risponde ad una logica sociale di reciprocità, irriducibile al punto di vista economico–razionale. Del resto, qualcosa di simile si riproduce sui treni, gli autobus o i caffè, soprattutto del Nord Europa, con quelle ragazze o ragazzi che passano, lasciano un ninnolo ad ogni passeggero o avventore, e ripassano poco dopo ritirando le monete che ciascuno di essi ha deciso di dar loro. In questa pratica silenziosa che, certo, non è più un dare, ma un sollecitare, sollecitare un dono, si sarebbe tentati di vedere ancora una volta una logica economica mascherata o degenerata, quando probabilmente non c’è altro che una residua luminescenza della gratuità del legame sociale andata perduta in una società interamente retta dalla logica economica. Ma tornando all’etichetta del baratto primitivo, e alla strana terzità che ci rivela, potremmo dire che essa è come se testimoniasse dell’impulso a godere dell’infinita libertà acquisita dopo la fine della costrizione della relazione istintuale mezzi/fine, e prima che si instauri il «mentale» (Peirce), cioè la regolazione costruita della relazione mezzi/fini. Ma costruita, come? 76 Capitolo IV L’abbiamo visto: un contributo importante lo dà il segno, sub specie di abito, in quanto mezzo per rendere efficienti relazioni inefficienti. Ma c’è dell’altro. Una delle prime manifestazioni discorsive della figura deontica del Dovere è, subito dopo il divieto di conoscere il fondamento della morale, la maledizione divina seguita alla caduta, e riportataci dal Genesi: “Lavorerai con il sudore della tua fronte”. Una figura che si manifesta proprio quando esplode quella consonanza istintuale tra natura e bisogni trasfigurata nel mito del Paradiso terrestre. Intendiamoci, non voglio dire che prima di quella “scissione” non ci sia lavoro. Se leggiamo il resoconto del Genesi, vediamo che Dio crea Adamo e lo pone nel bel giardino perché lo mantenga e lo custodisca. Non è, dunque, che Adamo è posto nel giardino perché non faccia nulla. Adamo ha un lavoro da fare, quello di mantenere e custodire il giardino. Semplicemente, si tratta di un lavoro che risponde ad una causalità posta non da lui, ma da Dio. Egli è strumento di una teleologia che lo sovrasta. Solo quando Adamo pecca, indotto in ciò dalla sua compagna, e viene scacciato dal giardino, il lavoro diventa un’alternativa: lavorare e sopravvivere, non lavorare e morire. Il lavoro diventa, dunque, oggetto di scelta, e allora si rende necessario un regolatore sociale che conformi la decisione ai bisogni vitali. Osservo di passata che in questo racconto delle origini la donna appare come un operatore di libertà. Ma il punto che voglio sottolineare, e che riconduce alla traccia principale del nostro ragionamento, è che, come il segno, anche il Dovere si presenta come un mezzo per rendere efficienti relazioni inefficienti, un mezzo per contro–bilanciare l’impulso a dissipare energia, in assenza ormai delle regolazioni automatiche dell’istinto. Nella sua prima forma costrittiva, ecco allora il carattere adattivo della morale, su cui, dai sociologi agli etologi, si insiste. Ma ciò significa anche che, originariamente, il «mentale» di Peirce è, oltre che semiotico (segno), anche etico (Dovere), in quanto si instaura grazie alla funzione adattiva tanto del segno, quanto del Dovere. L’impulso, poi, che ha portato a escogitare il segno e il Dovere come mezzi adattivi, non può che essere l’istinto di sopravvivenza, esattamente opposto all’istinto di morte che si manifesta nella dissipazione piacevole della reciprocità sociale primitiva, ma anche del Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 77 simbolo. Qui si vede il carattere sofistico e forse patologico di chi, mondanizzando il pessimismo religioso del racconto biblico delle origini, ha preteso di raffigurare l’uomo come “gettato nel mondo”, rappresentandolo in preda all’angoscia. Così facendo, si è enfatizzato il momento negativo di una situazione che in realtà non è tanto dominata dalla paura della morte o dalla speranza di qualcuno o qualcosa che ci salvi, ma è piuttosto caratterizzata dal desiderio di vivere. In realtà, in quanto essere biologico, l’uomo desidera, desidera vivere, e questo desiderio incontra la resistenza dell’ambiente. Un’ontologia non mistificatrice non può essere, allora, quella esistenzialista dell’angoscia, della morte e del nulla, ma un’ontologia realista di un soggetto che nel suo desiderio di vivere incontra la forza di resistenza dell’oggetto. 2. L’INTELLIGENZA AL LAVORO: PEIRCE E LUKÁCS Sul terreno di una tale ontologia realista reincontriamo, come già annunciato, György Lukács, autore in vecchiaia della grande Ontologia dell’essere sociale, e possiamo riprendere il discorso su Peirce, per un confronto che chiarisca e arricchisca entrambe le prospettive. Fra i due, infatti, c’è una insospettabile ma credo non superficiale convergenza che verte intorno alla dicotomia tra causalità e teleologia, ovvero per dirla ancora con Mayr, tra processi teleomatici e processi teleonomici. Una dicotomia, che almeno per quanto riguarda Peirce, ma in maniera più sottintesa anche Lukács, innerva l’ontologia su cui edificare ogni semiotica (Lukács direbbe: ogni teoria dell’ideologia). Data la vastità della trattazione, specie in Lukács, il confronto che proporrò non è organico. A titolo di esperimento, oltre a fare riferimento agli scritti canonici di Peirce, ho utilizzato qui di Lukács, oltre che alcuni luoghi dei Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, sorta di abrégé della grande Ontologia, soprattutto un piccolo testo di sintesi che egli redasse come comunicazione ad un congresso di filosofia della fine degli anni Sessanta, che ebbe luogo a Vienna, e a cui poi non partecipò. In lingua italiana, lo scritto si intitola Le basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo, ed è stato pubblicato nel 1973, assieme a un saggio Su 78 Capitolo IV Lenin e il contenuto attuale del concetto di rivoluzione, dagli Editori Riuniti, in un volumetto ormai credo introvabile dal titolo complessivo e sommario L’uomo e la rivoluzione. Benché dunque la base testuale del confronto sia limitata, credo che, per gli scopi che qui mi propongo, il rischio dell’incompletezza andava corso, anche perché il confronto ci permetterà un rilancio sul tema del lavoro come intelligenza applicata all’adattamento vitale dopo l’esplosione dell’istinto. Entrando in argomento, ricorderò che la tripartizione ontologica di Peirce è quella che abbiamo incontrato nel brano sopra letto, dove si distingue una Primità, una Secondità e una Terzità. Abbozzando una analisi pragmatista dei significati modellata sulla valenza e la combinabilità degli elementi della tavola chimica di Mendeleev, Peirce così definisce una prima volta le tre classi di caratteri o predicati denominate appunto Primità, Secondità e Terzità: In primo luogo vengono le “primità”, o caratteri positivi interni del soggetto in sé; in secondo luogo vengono le “secondità”, o azioni brute di un soggetto su un altro, senza riguardo alla legge o ad alcun altro terzo soggetto; in terzo luogo vengono le “terzità”, intendendo per “terzità” l’influenza mentale o quasi–mentale di un soggetto su un altro relativamente a un terzo (Peirce, 2003, p. 258). Un’altra definizione delle stesse categorie è la seguente: Fra i tanti principi di Logica che trovano applicazione in Filosofia, qui posso menzionarne solo uno. Ci sono tre concetti, che saltano fuori dappertutto in ogni teoria della logica, e che nei sistemi più rifiniti si presentano in connessione fra loro. Sono talmente ampi e quindi indefiniti che è difficile afferrarli, e così possono facilmente venir trascurati. Io li chiamo i concetti di Primo, Secondo, Terzo. Primo è il concetto di essere o di esistere indipendentemente da alcunché d’altro. Secondo è il concetto di essere relativo a, il concetto di reazione con, qualcosa d’altro. Terzo è il concetto della mediazione, per mezzo della quale un primo e un secondo sono posti in relazione. Per illustrare queste idee fondamentali mostrerò come entrino nelle idee che stiamo considerando. L’origine delle cose, considerata non in quanto conduca ad alcunché, ma in se stessa, contiene l’idea di Primo; il compimento delle cose l’idea di Secondo; il processo di mediazione fra di esse l’idea di Terzo. Una filosofia che ingigantisce l’idea dell’Uno è generalmente una filosofia dualistica in cui il concetto di Secondo riceve esagerata attenzione; perché questo Uno (sebbene naturalmente Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 79 implichi l’idea di Primo) è sempre l’altro di una molteplicità che non è una. L’idea di Molti, poiché la varietà è arbitrarietà, e l’arbitrarietà è rifiuto di ogni secondità, ha come componente principale il concetto di Primo. In psicologia, il Sentimento è primo. il Senso di reazione è Secondo, il concetto Generale è Terzo o mediazione. In biologia, l’idea di variazione arbitraria è Primo, l’ereditarietà è Secondo, il processo per cui si fissano i caratteri accidentali è Terzo. Il caso è Primo, la legge è Secondo, la tendenza ad assumere abiti è Terzo. La Mente è primo, la Materia è secondo, l’Evoluzione è Terzo (Peirce, 2003, p. 348). Da questi passi credo che si comprenda agevolmente come l’intento di Peirce sia di costruire una ontologia logico–formale capace di districarsi dalla pastoie della materia. Per Peirce, infatti, le classificazioni fondate sulla forma sono di molto superiori per la comprensione scientifica delle cose, di quelle fondate sulla materia. E la classificazione chimica di Mendeleev, con la sua distinzione tra «gruppi» (cioè fra le diverse colonne verticali della tavola), e «serie» (cioè le diverse file orizzontali della tavola), ne è per lui un chiaro esempio. Infatti, mentre le distinzioni fra gruppi dipendono dalle differenti valenze degli elementi, le distinzioni fra serie dipendono dal fatto, «non tanto formale, quanto materiale, che gli atomi degli elementi di una “serie” hanno masse maggiori degli atomi di un’altra serie». Ugualmente, elementi che si trovano in differenti file orizzontali, ma nella stessa colonna verticale, presentano sempre marcate differenze fisiche, ma il loro comportamento chimico a temperature corrispondenti è esattamente simile (Peirce, 2003, p. 258). Il primato della forma sulla materia che Peirce pone a base della sua ontologia, comporta di conseguenza il superamento della distinzione tra organico e inorganico, che è invece quella cui si attiene Lukács, il quale distingue tra mondo inorganico, organico e sociale, secondo il criterio della predicabilità o meno, per ciascuno di questo regno dell’essere, delle categorie di valore e dover essere. Nella natura inorganica, nota Lukács (1969, p. 27), è di tutta evidenza che i mutamenti da un modo di essere all’altro non hanno nulla a che fare né coi valori, né con il dover essere. Nella natura organica, nota ancora Lukács, il processo di riproduzione significa ontologicamente adattamento all’ambiente, e si può già parlare di riuscita o di insuccesso. Dal punto di vista ontologico, però, non si oltrepassa il mero 80 Capitolo IV passaggio da uno stato A precedente, a uno stato B susseguente. Completamente diversa è la situazione quando si entra nel mondo sociale, dove gli oggetti incorporano quale proprietà effettiva il loro essere finalizzati ad un qualche scopo, il che fa sì che gli oggetti assumano un valore per chi pone lo scopo. Come si vede, a questo livello, il punto di vista di Lukács è più tradizionale di quello di Peirce, poiché la sua tripartizione è ancora di tipo sostanzialistico. Ciò che è interessante, però, è la parentela, segnalata già dal concetto di scopo, e al tempo stesso la contrapposizione delle forze che, per così dire, muovono queste tripartizioni. In effetti, la tripartizione di Peirce, per il suo carattere non solo ontologico, ma anche logico, sembra essere fatta apposta per fare a meno di qualsiasi dinamismo. Si vede però che ciò non appaga Peirce, se è vero che egli tenta di dinamizzarla tramite un Amore universale dal carattere orgogliosamente lamarckiano. Ritengo infatti che la sua teoria agapica non sia una bizzarria di un pensatore altrimenti geniale, ma una parte essenziale del suo pensiero, contro cui non serve far finta di niente, né minimizzarne o ignorarne, più o meno consapevolmente, gli aspetti sorprendenti o addirittura imbarazzanti. Il lamarckismo, ad esempio, è uno di tali aspetti. Ma tornando a Lukács, la sua tripartizione ontologica, che a prima vista appare appesantita dalla distinzione sostanzialistica tra organico e inorganico, è poi mossa dal dinamismo di una forza più terrena e, direi, darwiniana, ma direi ancora meglio piagettiana. Mi riferisco al lavoro inteso come struttura finalistica: Il lavoro è un porre consapevole, quindi presuppone una conoscenza concreta, anche se mai perfetta, di fini e mezzi determinati (Lukács, 1969, p. 29) Il lavoro è fatto di posizioni teleologiche le quali ogni volta mettono in funzione delle serie causali. […] Contrariamente alla causalità, che rappresenta la legge spontanea in cui tutti i movimenti di tutte le forme dell’essere trovano la loro espressione generale, la teleologia è un modo di porre — posizione sempre compiuta da una conoscenza — il quale, pur guidandole in determinate direzioni, può mettere in movimento soltanto serie causali (Lukács, 1969, p. 27). Questi passi ricorrono in contesti in cui, Lukács sembra un nuovo George Sorel, interessato com’è a rimuovere le incrostazioni fatali- Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 81 stiche e dogmatiche che si erano attaccate al marxismo. Ma possiamo tralasciare questi aspetti contingenti di lotta ideologica, e concentrarci su quelli di interesse permanente del suo discorso. Intanto, Lukács parla di «forme dell’essere». Dunque, come in Peirce, c’è la preoccupazione di dare una ontologia generale. Come in Peirce, anche la pietra fa parte dell’essere. Poi, c’è chiara e netta la distinzione tra processi teleomatici, rappresentati dalla causalità quale legge spontanea dell’essere stesso, e processi teleonomici, rappresentati da un soggetto che pone. Che pone dei fini alla sua attività. Ancora, il lavoro è la sorgente stessa della teleonomia. Esso è, al tempo stesso, porre consapevole di fini e mezzi determinati, e conoscenza concreta anche se mai perfetta. Il lavoro, dunque, sia staticamente (conoscenza) che dinamicamente (porre), è una struttura cognitiva a parte intera. Non mi pare esagerato dire che, in quanto tale, il lavoro di Lukács altro non è che l’intelligenza di Piaget e il segno di Peirce finalisticamente inteso. Ma mentre Peirce e Piaget indagano la mente–segno lasciando ai margini la concretezza del mondo sociale, salvo più o meno sapienti recuperi, e sui recuperi di Piaget tornerò brevemente un po’ più in là, Lukács invece parte proprio dal mondo sociale, per vedere come l’azione intelligente dell’uomo, cioè il suo lavoro, lo modella. L’intelligenza, dunque, nella sua concretezza sociale e, aggiungerei, in forza di quanto abbiamo visto prima, nella sua pesantezza deontica. L’intelligenza come lavoro. Ma ancora altre due notazioni si impongono circa questa ontologia sociale di Lukács. La prima. Tanto Piaget, tentato a volte da un certo finalismo normativo, quanto Peirce, nettamente schierato per un irenismo lamarckiano come meta finale dell’evoluzione, hanno un rapporto conflittuale, anche se mai di rifiuto, con il darwinismo. Invece, la concezione generale dell’evoluzione sociale cui Lukács perviene è direi perfettamente darwiniana, nel senso in cui la precisa Mayr. Per Mayr, la controversia se l’evoluzione dai batteri all’uomo sia un progresso non può riguardare la biologia. La biologia, infatti, non ha nulla da dire circa una teleologia cosmica. La selezione naturale, infatti, non è un processo teleologico, ma un processo casuale di ottimizzazione che noi constatiamo a posteriori. 82 Capitolo IV Ora, ciò che Mayr afferma a proposito del mondo naturale, Lukács lo afferma a proposito del mondo bio–sociale umano. Con le loro infinite posizioni teleologiche, i soggetti mettono in moto infinite serie causali di cui hanno una coscienza assai limitata, a volte addirittura una non–coscienza, per così dire, che li spinge ad agire contro i loro convincimenti. Lo stadio a cui si trova pervenuto l’uomo (homo sapiens sapiens) è il prodotto di tali serie causali. Tale processo, però, non ha uno scopo (Lukács, 1969, p. 36), non è finious, non è teleologico. Esso, se vogliamo stare ad una preoccupazione espressa da Piaget a proposito dell’evoluzione darwiniana, è soggetto a sprechi, e avanza per contraddizioni immanenti al complesso stesso delle serie causali innescate dalle posizioni teleologiche dei soggetti (Lukács, 1969, pp. 32 e 36). Il mondo descrittoci da Lukács è quello di un soggetto che deve porre dei fini se vuole sopravvivere, ma senza mai essere in grado di vedere tutte le condizioni e le conseguenze della propria attività (Lukács, 1969, p. 28). Tornerò fra un attimo su questo aspetto. Intanto, vorrei osservare che molto semplicemente, ma in modo anche molto austero, per questo soggetto adattarsi ad un mondo è decidere tra alternative in condizioni di incertezza. C’è qualcosa del velo di ignoranza di Rawls, ma mentre in quest’ultimo l’incertezza, volontariamente ricercata, mira a salvaguardare la possibilità di costruire l’ordinamento sociale giusto, secondo un ideale a priori di razionalità che, come sappiamo, incorpora un modello semplificato di apprendimento morale in cui è stato riscontrato un orientamento autoritario, per Lukács l’incertezza è la condizione esistenziale del soggetto che, senza indulgere al senso di angoscia mortale che tale innata restrizione conoscitiva comporta, si slancia nella attiva costruzione di una forma di vita adattata. Resta, certo, il problema di definire normativamente la razionalità che deriva da tale slancio adattivo. Come vedremo più sotto, nel suo tentativo di derivare l’implicazione logica del dovere dalla causalità biologica del lavoro, Lukács non è del tutto persuasivo, mentre più aderente alla sua concezione attiva del soggetto appare la rivendicazione della razionalità dell’utopia, intesa come prodotto, a sua volta, possibile ma non necessario, delle energie umane sprigionate dallo sviluppo stesso (Lukács, 1969, p. 38). Un’apertura che, in un immanentismo ai limiti, se si vuole, della claustrofobia, proviene ancora Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 83 una volta, non da un ideale a priori, né tanto meno da un qualche dio che ci salvi, ma dall’attività stessa del soggetto. 2.1. Digressione sull’ideologia in Lukács Spezzando un po’ il filo del discorso, vorrei fare a questo punto, una diversione su un aspetto, come dire, molto classico del pensiero di Lukács, ma che, a distanza ravvicinata, si rivela, almeno a mio parere, sorprendentemente fresco e attuale. Mi riferisco alla sua teoria dell’ideologia che deriva dalla sua ontologia, analogamente a quanto accade in Peirce per la teoria del segno fondata anche lì su una ontologia. Da un marxista come Lukács, ci aspetteremo una riproposizione, per quanto smaliziata e personale, di una teoria dell’ideologia come “falsa coscienza” della realtà. Ma Lukács respinge dichiaratamente una tale prospettiva (Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, p. 6 e p. 74, nota 29), e pur mimando il solito costume delle glosse a Marx, abbozza una teoria dell’ideologia per nulla dogmatica, i cui capisaldi sono i seguenti: 1) non esisterebbe ideologia se l’uomo non fosse quella macchina finalistica teleologica in gradi di porsi delle alternative: fare o non fare qualcosa. L’ideologia è, dunque, legata a quella condizione post–istintuale che chiamiamo libertà umana; 2) funzione dell’ideologia è, infatti, quella di raccordare le molteplici, infinite decisioni dei singoli componenti di una totalità sociale, e di chiarire loro la necessità di tenere conto, nelle loro decisioni, degli interessi della collettività. Una funzione, dunque, normativo–persuasiva di tipo adattivo, analogamente a quanto si può rinvenire in un Vilfredo Pareto (1848–1923) (Aqueci, 1991, p. 158), autore che Lukács conosce e con cui si confronta, e di cui ci occuperemo più estesamente nel capitolo quinto; 3) quale meccanismo di pensiero, l’ideologia funziona per proiezioni analogiche di proprie esperienze ontologiche sull’essere in generale. Di qui le entificazioni, le personificazioni, le generalizzazioni “abusive”. Le interpretazioni sorte intorno all’esperienza del lavoro sono un esempio tipico di tali proiezioni: «Tutti gli dei delle religioni 84 Capitolo IV naturali hanno delle “funzioni lavorative” a fondamento della loro esistenza» (Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, p. 14); 4) assieme al lavoro, il linguaggio — che ontologicamente viene in essere simultaneamente al lavoro (ibidem) — è la parte più importante della vita visibile, percepibile dell’uomo, soprattutto nelle fasi primordiali del vivere in società. Il linguaggio, pertanto, fornisce un ausilio essenziale alla edificazione delle ideologie, per esempio attraverso l’attività di dare e di dire i nomi delle cose. Nella sua ottica filogenetica, Lukács rileva quest’attività soprattutto nelle prime fasi della socialità umana ma, come già osservava lo stesso Pareto, il carattere linguistico dell’ideologia (o «derivazioni») è proprio anche di livelli ulteriori, come si può osservare nella lotta politica, dove spesso gli affrontamenti avvengono attorno a nomi da dare, o formule verbali da interpretare; 5) l’ideologia, nella misura in cui “deforma” la realtà, viene riadeguata alla prassi sociale tramite altri processi ideologici che rischiarano e ripuliscono l’essere sociale stesso (Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, p. 15). Così come non si esce mai dalla semiosi, altrettanto non si esce mai dall’ideologia; 6) i meccanismi di pensiero “proiettivi” e i “giochi linguistici” magico–religiosi sono solo strumenti di una più generale cognitività — diremmo oggi, di una mente — che nasce limitata: nel suo agire, infatti, l’uomo non ha mai presente tutte le circostanze e le conseguenze che derivano dalle sue decisioni (Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, p. 15). Il “velo di ignoranza” è, dunque, in Lukács, oltre che una caratteristica ontologico–normativa, anche una proprietà della mente, e in ciò richiama il carattere non logico, ovvero inconscio ma spontaneamente adeguato al fine, dell’agire sociale visto sempre da Pareto. Come si vede, e come avevo annunciato, si tratta di una teoria dell’ideologia ben lontana dal semplicismo dell’ideologia come “falsa coscienza”. Al contrario, come si potrebbe mostrare con una opportuna rilettura della grande Estetica, cosa che mi riprometto di fare in altra sede, si tratta di una rinnovata e originale orchestrazione di molteplici motivi della tradizione empiristica, volta ad evidenziare una struttura infralinguistica all’opera nel comportamento quotidiano, e che collega dialetticamente lo schematismo primario, che Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 85 l’uomo condivide con gli altri animali, con il pensiero discorsivo (Estetica, II, pp. 815 sgg.). Insomma, una teoria dell’ideologia che è, in effetti, parte di una più generale teoria della mente come cognitività limitata, una concezione oggi all’ordine del giorno in scienza cognitiva, ma che Lukács propose in tempi insospettati, integrandovi l’ineliminabile dimensione della genesi storico–sociale (Tertulian, 2003; 2004), e l’esigenza di una morale della lotta contro la tendenza sociale dominante, cioè la «manipolazione» che distoglie l’essere sociale dal suo centro. 2.2. Ripresa: le radici ontologiche del dover essere Torniamo al filo del nostro discorso. Dicevamo, due notazioni circa l’ontologia sociale di Lukács. La prima ci ha messo di fronte alla austera libertà dell’essere sociale di Lukács, con la necessità che lo caratterizza di gettare uno sguardo, per quanto è possibile penetrante oltre il luogo chiuso della sua condizione bio–sociale. La seconda, ad essa in qualche modo legata, concerne il livello simbolico e normativo delle strutture finalistiche. Come ricorda lo stesso Lukács, il lavoro è il modello cui la mente primordiale si rifà per concepire la creazione divina della realtà (1969, p. 29). Dunque, oltre il finalismo delle strutture, permane sempre lo spazio soggettivo del simbolico, del mitologico, dell’ideologico, nei cui confronti, in determinati periodi storici, il lavoro–intelligenza addirittura appare come un’energia al loro servizio. Basti pensare all’utilizzazione del valore d’uso del lavoro per la costruzione di un simbolo quali le piramidi egiziane. A questo proposito, però, Marx ha mostrato che, con l’avvento del capitale, lo scopo ultimo del lavoro trasformato in capitale sociale è «l’universale ricchezza di forma e di contenuto della produzione» (Grundrisse, II, p. 793). Ci troviamo qui in uno dei luoghi d’elezione dove è nata l’idea secondo la quale il nesso di scienza, tecnica e lavoro rappresentato dal capitale avrebbe inglobato il simbolico, e che ormai l’unico scopo sopravvissuto sia quello dell’accrescimento infinito della produzione. E una prova di ciò sarebbe lo stadio attuale dello sviluppo del capitale che, in funzione di quell’unico scopo, colonizzerebbe con le marche (brands), ovvero con simboli–parassiti, gli spazi connotativi dell’esistenza. 86 Capitolo IV Di qui, allora, la domanda: con il capitale, le strutture finalistiche, trasformate esse stesse in scopo ultimo, sono arrivate alla fase terminale in cui fagociteranno l’uomo e i suoi bisogni, ivi compresi quelli simbolici? Contro quella che appare l’incontrollabile potenza delle strutture finalistiche, è possibile trovare in Lukács una risposta che concerne il livello normativo della società. Ogni società, nota Lukács in un modo che si presta agevolmente a essere tradotto nei termini sociogenetici di Piaget (1977, p. 49), si sviluppa oltre il grado puramente causale, per pervenire al livello implicativo dell’indurre, dello spingere, del costringere, oppure del trattenere gli uomini da determinate decisioni teleologiche (Lukács, 1969, p. 32). Al di là della sfera della produzione, che sembra esaurire l’Umwelt dell’uomo contemporaneo, ecco apparire lo spazio del discorso normativo, con la sua tipica funzione persuasiva, di cui Lukács ha cura di citare i singoli atti linguistici. Discorso normativo che, potremmo dire con Peirce (2003, pp. 1101 sgg.), sta in una posizione ontologica, non di estraneità o di opposizione, ma piuttosto di «continuità» con il lavoro. Il contenuto del dover essere, afferma infatti Lukács, è un comportamento dell’uomo determinato da fini sociali (e non da inclinazioni semplicemente naturali o spontaneamente umane). Ora, essenziale al lavoro è che in esso ogni movimento e gli uomini che lo compiono devono essere diretti da fini determinati in precedenza. Quindi ogni movimento è soggetto a un dover essere. Anche qui non abbiamo nulla di nuovo, fra gli elementi ontologicamente importanti, quando questa struttura dinamica si trasferisce in campi d’azione puramente spirituali. Al contrario, gli anelli di congiunzione ontologica, che dal comportamento iniziale conducono ai successivi comportamenti più spirituali, appaiono in tutta chiarezza, di contro ai metodi gnoseologici–logici con i quali il cammino che dalle forme più elevate porta a quelle iniziali risulta invisibile, dove anzi le seconde dal punto di vista delle prime appaiono addirittura come opposizioni (1969, p. 28). Dunque, continuità ontologica in grado di esibire la genesi delle proposizioni normative. Non si può non sottolineare, tuttavia, che, almeno in questo testo, l’esigenza di esibire la genesi resta semplicemente affermata da parte di Lukács, che incorre in un arresto deterministico. Egli, infatti, dapprima si limita a riproporre (e non è poco) la definizione kantiana di dover essere, quale comportamento determinato da «fini sociali», cioè da norme, che non coincidano con Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 87 inclinazioni semplicemente naturali o spontaneamente umane. Successivamente, demanda la necessità di tale principio al fatto che ogni movimento del lavoro degli uomini deve essere diretto da fini determinati in precedenza. Il dover essere sarebbe dunque un segmento del filamento teleologico del lavoro, di modo che una volta che una posizione teleologica è posta, il dover essere successivamente si installa. Non si può non ammirare l’immaginazione biologica che sta dietro questa spiegazione della libertà umana, la quale, come un filamento di DNA che si srotola, deriverebbe dagli stessi materiali della causalità. A mio parere, tuttavia, l’analogia biologica con cui questa spiegazione si lascia interpretare, sacrifica l’autonomia del soggetto che si trova ancora una volta determinato da un meccanismo che lo sovrasta, e comprime livelli che, pur nell’ipotesi suggestiva della continuità ontologica, vanno salvaguardati nella loro specificità etica, un problema che si pone, del resto, anche per quegli indirizzi di ricerca che oggi vanno sotto il nome di neuroetica (Gazzaniga, 2005), verso il cui riduzionismo, dai rilevanti risvolti pratici, si levano voci critiche dentro le stesse neuroscienze (Rose, 2005). Da questo punto di vista, va valutata la condizione che i «fini sociali» siano il risultato di un contrasto di discorsi al quale l’individuo partecipa liberamente. E nel passaggio dalla causalità organica all’implicazione normativa va valorizzata l’ipotesi della struttura evolutiva del rispetto, in modo che il dover essere kantiano, preziosamente riaffermato da Lukács, non sia il portato di un meccanismo evolutivo “cieco”, ma l’esito di una costruzione dove intervengono effettivamente e progressivamente le libere determinazioni del soggetto in interazione con gli altri soggetti. 3. PER L’UNITÀ DEL PENSIERO CRITICO: POPPER, PIAGET, LUKÁCS Tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta del secolo scorso, in rapidi saggi psicogenetici e sociogenetici culminati nel Giudizio morale nel fanciullo, e la maggior parte dei quali raccolti poi in volume solo nei tardi anni settanta, Piaget propone un modello evolutivo, di cui abbiamo trattato nel capitolo terzo, che spiega il passaggio dalle forme di socialità costrittive, dominate dal pensiero sociocen- 88 Capitolo IV trico, alle forme di socialità cooperatorie, in cui il pensiero decentrato fonda e si alimenta della nuova libertà dell’argomentazione (Piaget, 1932; 1977). Nel 1932, giusto l’anno di pubblicazione del Giudizio morale nel fanciullo, Henri Bergson (1859–1941), già anziano e troppo prestigioso per poter prendere in considerazione il punto di vista del valente ma ancor giovane e periferico Piaget, riformula il problema, proponendo una spiegazione alternativa di tale passaggio. Secondo Bergson, la società prodotta dalla natura è una società chiusa, retta cioè dall’istinto e dall’abitudine (“si fa così, perché si fa così”). L’esperienza mistica, di ordine emozionale, e che è propria dei santi e degli eroi, conduce alla società aperta. Lo slancio emozionale verso la società aperta è sorretto e provocato dalla facoltà “fabulatrice”, cioè dall’atto che fa sorgere le rappresentazioni fantasmatiche che si concretizzano nei miti, nei drammi, nei romanzi, nelle produzioni artistiche (Bergson, 1932, p. 111). Qualche anno più tardi, ormai in piena guerra mondiale, Karl R. Popper (1902–1994), indipendentemente dalla precedente elaborazione di Piaget, riprende la terminologia della dicotomia di Bergson e, riformulandola teoricamente in termini che si ritrovano già in nuce in Piaget, ne fa un modello di spiegazione, al tempo stesso teorico e politico, della genesi della civiltà occidentale. Secondo Popper, il totalitarismo contro cui le nazioni libere in quel momento si battevano, è la risposta ricorrente allo stress della rottura del legame naturale su cui riposa la società tribale o chiusa (Popper, 1943, I, p. 248; II, p. 82). Da quella rottura, operatasi per la prima volta nella civiltà greca, e di cui è emblema quella prima e paradigmatica forma di accordo di discordia che è il dialogo socratico, è derivata la società aperta, fondata sulla discussione come sincero desiderio di comprendere il discorso proposto dall’interlocutore (Popper, 1969, pp. 597–598). Con questa difesa della funzione argomentativa del linguaggio (Popper, 1969, pp. 231–232) che sarebbe piaciuta non solo a Piaget, ma anche a Guido Calogero, Popper si oppone tanto al pragmatismo irrazionalista di un Bergson, quanto al pragmatismo a sfondo biologico di Uexküll, padre e figlio, con il loro Umwelt quale estensione della biologicità umana (Popper, 1969, pp. 642–649). Queste forme Strutture finalistiche e libertà dell’individuo 89 di pragmatismo, infatti, assai distanti da quelle di un Peirce o di un Vailati, identificando la conoscenza con l’azione, dissolvono l’oggetto e la possibilità da parte del soggetto di condurvi sopra un discorso conoscitivo critico — una posizione, anche questa, che Piaget, impegnato a spiegare geneticamente la costruzione dell’oggetto, avrebbe senz’altro apprezzato. Questa teoria critica della conoscenza, che nella versione razionalista di Popper si nutre di fede nella ragione (Popper, 1943, II, pp. 303–304), e nella versione genetica di Piaget di fiducia nelle autoregolazioni della scienza (Piaget, 1928, pp. 38–39), credo che, raffreddatesi ormai le linee di scontro politico che, nel secolo scorso, hanno minato l’unità interna del pensiero critico, si sposi bene, a dispetto della sua fama di costruzione dogmatica, con l’ontologia sociale di György Lukács, di cui prima ho presentato e discusso qualche tratto. Capitolo quinto Mente collettiva e naturalità del segno Giunti a questo punto, vorrei riprendere due figure il cui pensiero è essenziale per precisare ed approfondire il campo di studi semioetici. Si tratta di Vilfredo Pareto e soprattutto di Ferdinand de Saussure. Il primo è già apparso, ma fugacemente, mentre del secondo ci siamo più ampiamente occupati nel terzo capitolo. Entrambi svilupparono la loro indagine, sociologica il primo, linguistica il secondo, nella stessa epoca, l’ambiente svizzero romando tra fine XIX e inizio del XX secolo, di cui già conosciamo figure come Pierre Bovet e soprattutto Jean Piaget, e che, con una modernizzazione non tanto abusiva, potremmo definire come uno dei maggiori centri degli studi cognitivi dell’epoca. Sia Pareto che Saussure, infatti, ciascuno nel proprio ambito disciplinare, e in modo reciprocamente autonomo, indagarono intorno agli stessi oggetti, dalla mente, dell’individuo sociale Pareto, del parlante Saussure, al sistema, l’equilibrio sociale Pareto, il sistema linguistico o langue Saussure. E i risultati cui giunsero sono, come vedremo, facilmente integrabili in un’unica prospettiva che, sebbene non esplicitata da nessuno dei due, oggi può contribuire a rendere più perspicue le loro analisi, soprattutto per quanto riguarda Saussure. La sua semiologia, infatti, sembra essere entrata in un cono d’ombra, e addirittura a volte, come vedremo, va incontro a dei rifiuti. Oblio e incomprensione che, per quanto è possibile, vanno 91 92 Capitolo V rimossi, se non si vuole disperdere la ricchezza di suggestioni che il suo pensiero contiene per numerosi ambiti contemporanei di ricerca, dalle odierne indagini, abbondanti ma non sempre interessanti, intorno alla mente, ai problemi concernenti la genesi dell’ordine sociale e le sue trasformazioni. 1. INTERROGAZIONI SAUSSURIANE Incomincerò, dunque, ricollegandomi alla tesi storiografica ormai classica, secondo la quale la teoria linguistica di Saussure è il portato di un movimento plurisecolare che affonda le sue radici nell’Umanesimo e nel Rinascimento, quando al verbalismo e al logicismo derivanti dalla concezione linguistica della scienza di Aristotele, si vengono a sostituire il metodo sperimentale e le classificazioni fondate su criteri non più verbalistici ma oggettivi (De Mauro, 1965, pp. 51–52). La conseguenza in campo linguistico di questa rivoluzione di pensiero è che, mentre in Aristotele la lingua era solo la porta che dava accesso alla mente e alla realtà, in Saussure la lingua diventa oggetto di scienza in sé (De Mauro, 1965, p. 50). Questa costituzione della linguistica in campo autonomo di indagine scientifica produce però un paradosso che forse non è stato sufficientemente notato. Come si è a ragione sostenuto, la corrispondenza in Aristotele tra lingua, mente e realtà, era la garanzia della stabilità dei significati, su cui, contro lo scetticismo logico e morale, potevano fondarsi una scienza, un’etica, una società ordinate e razionali (De Mauro, 1965, p. 48). Differentemente, la rivoluzione scientifica dell’epoca umanistico–rinascimentale, che si prolunga nell’Illuminismo, potrà fare a meno di questa garanzia fornita dal linguaggio, poiché adesso è la scienza con i suoi propri metodi a proporsi come criterio della stabilità del reale. Dunque, nel momento stesso in cui il linguaggio diventa oggetto di scienza, perde quel posto privilegiato di pietra angolare del sapere Mente collettiva e naturalità del segno 93 e del vivere civile. Non sarà più esso, bensì la scienza, a fornire i criteri di verità su cui edificare il sapere, la morale e l’ordine sociale. Non bisogna nascondersi che questo decentramento rispetto al linguaggio, operato dal pensiero logico–sperimentale moderno, non sempre è stato vissuto come una liberazione. Al contrario, a volte è stato visto come una minaccia, soprattutto quando sembrava mettere in discussione il valore referenziale di un genere di discorso eticamente e politicamente “sensibile” come il discorso storico. Ad esempio, di una paura simile si fa portavoce Paul Ricoeur, quando imputa a Roland Barthes di estendere indebitamente il modello saussuriano dalla linguistica alla semiotica, allo scopo di denunciare il carattere “ideologico” del discorso storico che, secondo Barthes, deriverebbe dal fatto che lo storico, sfruttando la funzione referenziale del linguaggio, proporrebbe come verità ciò che è soltanto una sua propria costruzione di senso. A questa imputazione di indebita estensione, che potrebbe anche essere condivisa, Ricoeur fa però seguire la denuncia della minaccia implicita che il «modello saussuriano» conterrebbe contro la referenzialità, ovvero il valore conoscitivo del discorso storico (Ricoeur, 2000, pp. 353–357). Una denuncia, poi, che in posizioni meno avvertite e sofisticate diventa addirittura il rifiuto del «dogma saussuriano» (Caserta, 2005, p. 13). E, allora, prima che la reazione di Ricoeur diventi senso comune, con le sue appendici di processi e condanne, conviene interrogarsi su una proposta teorica come quella saussuriana che evidentemente il mutare dei tempi non rende più trasparente nelle sue interne articolazioni. Senza mirare alla difesa di un’ortodossia, per altro inesistente, bisogna chiedersi allora se la contrapposizione tra il referenzialismo aristotelico e l’arbitrarismo assoluto di Saussure sia veramente così netta e inequivocabile; e, seconda questione, quale genere di socialità chiama in causa la fondazione sociale del fatto linguistico che, secondo l’ormai classica tesi storiografica richiamata, il suo arbitrarismo assoluto assicurerebbe (De Mauro, 1965, p. 176). 94 Capitolo V 2. DAL LINGUAGGIO ALLA COGNIZIONE Per venire al primo quesito, se cioè la contrapposizione tra il referenzialismo aristotelico e l’arbitrarismo assoluto di Saussure esista, e sia così netta e inequivocabile, ciò che si può cominciare a dire è che, se si resta in ambito strettamente linguistico, tale contrapposizione sicuramente c’è. Per Aristotele, infatti, almeno ad una prima lettura del famoso passo iniziale del Peri hermenias (De interpretatione, in latino, Dell’espressione, in italiano), il segno sta per qualcosa, e precisamente sta per l’oggetto esterno di cui le affezioni dell’anima sono un’immagine interna (Dell’espressione, 1, 16a, 5–10). Dunque, segni da un lato, e oggetti e entità mentali dall’altro. Non c’è bisogno di richiamare gli schemi saussuriani, per ricordarsi che per Saussure il rapporto non è tra una collezione di oggetti e una collezione di nomi, ma tra segni all’interno di uno stesso sistema (CLG, p. 410). Ma questa lettura è adeguata? E, si badi bene, è adeguata tanto per Saussure, quanto per Aristotele? Perché, se si va oltre la considerazione linguistica, e oltre la canonica ripetizione del principio nomenclaturista aristotelico e di quello sistemico saussuriano, si vede come la contrapposizione sfuma e cambia di oggetto tanto per l’uno, quanto per l’altro. Aristotele, infatti, liberato dal ruolo di rappresentante di un arcaico passato epistemologico–linguistico, non appare più solo come il padre del tradizionale e secolare referenzialismo. Perché, certamente, il segno sta per, ma sta per, prima ancora che per gli oggetti, per le affezioni dell’anima. Non che Aristotele non sia interessato a quel nesso di segno, immagine interna e realtà, garanzia di stabilità logica, etica e politica. Ma il fatto è che egli ricerca quel fondamento non tanto nel linguaggio, quanto nella mente. Il fulcro della sua argomentazione, infatti, non sta tanto nel rapporto linguistico tra segno e realtà, ma nel fatto che i segni rinviano alle affezioni dell’anima, cioè a delle strutture della mente che, egli afferma, «sono le medesime per tutti» (Dell’espressione, 1, 16a, 5–10). Aristotele è insomma interessato alla cognizione e al modo in cui essa si rapporta all’ambiente. Ed egli pensa che è possibile fare Mente collettiva e naturalità del segno 95 scienza della cognizione, quindi logica, etica e politica, perché c’è una certa omogeneità del campo di indagine («sono uguali per tutti»). Che l’impianto, poi, del suo cognitivismo resti germinalmente osservativo, poco sperimentale, verbalistico e speculativo, è un limite contingente del quale, per altro, noi stessi, che pure abbiamo a disposizione la risonanza magnetica funzionale e la tomografia ad emissione di positroni, siamo ben lungi dall’aver superato. Se tutto ciò è plausibile, la questione centrale diventa allora quella di vedere come Saussure si pone non tanto nei confronti del referenzialismo, ma del cognitivismo aristotelico. In altri termini, esiste un’interrogazione saussuriana sulla mente? Se esiste, essa è un prodotto spurio e marginale della sua proposta teorica, oppure ne costituisce il fulcro centrale? In che cosa si differenzia, in che cosa innova e in che cosa riconduce all’indagine aristotelica sulla cognizione? Per non complicare troppo il discorso, in questa sede cercherò di rispondere soprattutto alle prime due domande, lasciando sullo sfondo la terza. E, per cominciare, riepilogo per sommi capi la posizione di Saussure circa la disciplina deputata allo studio del segno, cioè la semiologia. 3. LA MENTE IN SAUSSURE Sappiamo bene che nel definire lo statuto della semiologia, Saussure ne rivendica l’autonomia rispetto alla psicologia, ponendo tuttavia quest’ultima come quadro di riferimento della semiologia (CLG, p. 26). Compito autonomo della semiologia sarà allora di determinare la struttura di quel «sistema speciale che è la lingua» fra gli altri sistemi semiologici (CLG, p. 26–27). Per inciso, osserviamo che, che nella temperie culturale comune sopra richiamata della Svizzera romanda di fine XIX e di inizio del XX secolo, un’operazione metodologica analoga compie Pareto con la sua «sociologia scientifica», la quale sta in un rapporto di inclusione ma di autonomia rispetto alla psicologia. L’omologia non finisce qui. Le operazioni di base della mente sociale indagata da Pareto sono il combinare e l’associare (Aqueci, 1991, pp. 41 sgg.). Vedre- 96 Capitolo V mo che qualcosa di analogo c’è nell’indagine di Saussure intorno alla mente del parlante. Richiamiamo ora sinteticamente i principi dello strutturalismo linguistico di Saussure, facendo attenzione a cogliere la loro valenza cognitiva rimasta sinora assai in ombra. 3.1. Una distanza apparente Come sappiamo, Saussure parte dal rifiuto del nomenclaturismo, a favore del carattere relazionale della lingua e, egli dice, dello «esprit humain» (CLG Payot, p. 440). Senza forzare il suo testo, oggi diremmo a favore del carattere relazionale della «mente umana». Al rifiuto del nomenclaturismo, che avviene dunque su un terreno cognitivo, Saussure fa seguire l’affermazione di una concezione della lingua come totalità di valori linguistici, laddove il valore è dato dalla presenza simultanea di tutti gli elementi e dalla loro differenza (CLG, pp. 138–143). La lingua funziona sia perché c’è un concetto che si scambia con la sua immagine acustica, ovvero perché un’immagine acustica sta per un concetto, sia perché ciascun segno è in rapporto con gli altri segni (CLG, pp. 139–141). Se la lingua fosse una nomenclatura del pensiero, da una lingua all’altra si avrebbero delle parole esattamente corrispondenti per ciascun concetto o senso. Ma così non è (CLG, pp. 141). Quindi, se non si vuole cadere in una concezione sostanzialista della lingua, lo stare per va visto sempre all’interno dei rapporti che ciascun segno intrattiene con tutti gli altri. Non c’è una sostanza della cosa che il segno attualizza con il suo stare per, ma c’è una forma che deriva dal suo stare per in rapporto con tutti gli altri segni, e tramite la quale si effettua la significazione. Qui la distanza dal referenzialismo che attribuiamo ad Aristotele sembra massima. Aristotele, servendosi del linguaggio, va a vedere com’è fatto l’oggetto nella sua pesantezza ontologica, e stila la lista delle categorie quali determinazioni dell’essere. Al contrario, Saussure, liberandosi di ogni metafisica e di ogni ontologia, si concentra esclusivamente sul segno, e sui rapporti che essi hanno all’interno della lingua, e sembra quasi suggerire che ogni lingua corrisponda ad una concezione del mondo. Mente collettiva e naturalità del segno 97 Ma si tratta di una distanza effettiva? Anzitutto, come ha mostrato ad abundantiam la sterilità della cosiddetta ipotesi Sapir–Whorf, dal nome di Edward Sapir (1884–1939) e Benjamin Whorf (1897–1941), il linguista e l’antropologo americani che nel corso degli anni Trenta del secolo scorso l’avanzarono, l’attribuzione ad ogni lingua di una particolare concezione del mondo, più che una suggestione, è un miraggio. Un miraggio che Saussure non ha mai inseguito. Tenere conto della variabilità linguistica, infatti, come un linguista come Saussure non poteva non fare, non deve per forza comportare di tagliare i ponti con il pensiero, ovvero con le strutture della mente che, per dirla con Aristotele, sono uguali per tutti. In secondo luogo, come abbiamo visto, Saussure non rifiuta la concezione del segno come stare per, ma la desostanzializza, cioè la scioglie all’interno dei rapporti tra i segni che formano la struttura della lingua. In altri termini, per Saussure, noi significhiamo qualcosa non indicandola per così dire con un’etichetta, bensì tramite i valori della lingua. E quest’atto di denotazione si realizza nell’atto di parole, che è opera del soggetto parlante. Quest’autonomia della lingua e del locutore sembrerebbe ancora una volta proiettare Saussure verso una posizione di idealismo linguistico. La nostra tesi, al contrario, è che l’abbandono di ogni preoccupazione metafisica e ontologica, lo predisponga verso una posizione naturalistica che, facendo salva l’autonomia del segno, recupera al livello della mente il rapporto tra lingua e oggetto. Il referenzialismo, dunque, non sembra essere la frattura principale tra Saussure e Aristotele, che va invece cercata altrove. A questo scopo, torniamo al tema dei rapporti tra i segni nella lingua. Che genere di rapporti sono? 3.2. Combinare e associare Si tratta di rapporti sintagmatici, cioè combinazione nella linearità del discorso dei vari elementi linguistici, e di rapporti associativi, cioè “stockaggio” nella memoria, tramite associazione, degli elementi linguistici (CLG, pp. 149–153). Rapporti che, dice Saussure, «corrispondono a due forme della nostra attività mentale, entrambe indispensabili alla vita della lingua» (CLG, p. 149). 98 Capitolo V La lingua vive perché la nostra mente è capace di queste due operazioni, l’operazione del combinare e l’operazione dell’associare. Qui bisogna fare attenzione, perché non si tratta di due proprietà del modello che il linguista sta costruendo a fini analitici, ma di due vere e proprie attività della nostra mente. La lingua è il prodotto cognitivo di queste due attività mentali. Si pone già qui la questione se il combinare sia completamente libero. Vi ritorneremo alla fine. Ma intanto si può dire che la libertà del combinare, per Saussure, è propria della parole, cioè del soggetto parlante (CLG, p. 24), anche se di questa attività mentale è difficile dire che cosa è della lingua e che cosa della parole (CLG, p. 151). Questo perché il combinare deve sempre vincere la vischiosità dell’associare (ibidem), il quale però concorre alla ricchezza espressiva (CLG, p. 152). Notiamo, infine, quanto Saussure afferma a proposito dei rapporti associativi. I gruppi di forme linguistiche creati per associazione mentale non si limitano a raccostare i termini che presentano qualche cosa di comune, poiché, sottolinea Saussure, «lo spirito percepisce anche la natura dei rapporti che li collegano in ciascun caso e crea con ciò tante serie associative quanti sono i diversi rapporti» (CLG, p. 152). Anche qui, l’«esprit» di questo passo (CLG Payot, p. 173) è inequivocabilmente «mente». 3.3. La lingua regno del caso Dicevamo prima che l’atto di significazione si realizza nella parole, che è opera del soggetto parlante. La lingua (langue) è allora una forma sempre attualizzabile a disposizione del soggetto parlante. E l’atto di parole, dal canto suo, è un’attualizzazione della forma linguistica in funzione di un bisogno espressivo. Quindi, da un lato, la libertà del soggetto parlante è massima, perché è lui che mette la langue in rapporto con il mondo; dall’altro, il soggetto parlante può far questo solo in rapporto ad una forma che è collettiva, cioè sociale. E, Saussure lo dice chiaramente (CLG, p. 200; p. 203), tutte le forme nuove che possono sorgere nell’atto di Mente collettiva e naturalità del segno 99 parole, per diventare patrimonio collettivo devono passare dal filtro della langue. Ma, ecco il punto, «sociale» in Saussure non evoca per così dire una festa della libertà dell’individuo. Benché infatti la significazione sia affidata ai suoi atti di parole, esso appare completamente subordinato alla lingua. Questo è un punto centrale del discorso che stiamo conducendo lungo tutto questo libro, e va quindi ulteriormente approfondito. A proposito del segno, Saussure ne afferma il carattere arbitrario sia dal lato del suo aspetto sensibile (immagine acustica o significante), sia dal lato del suo aspetto concettuale (concetto o significato). Per Saussure, la lingua è un taglio che il corpo sociale opera arbitrariamente nel continuum della sostanza fonica e della sostanza concettuale, le quali, di per sé, prima di questo intervento, sono amorfe. Notiamo, per inciso, che anche questa formulazione, nel contesto del naturalismo di Saussure, di cui fra poco apprezzeremo la consistenza, non può dar adito a nessuna posizione di idealismo linguistico. L’arbitrarietà del taglio linguistico collettivo è limitata, infatti, dai vincoli adattivi del sistema. Ma tornando al filo del discorso, il taglio che la lingua opera, crea continuamente un sistema sincronico, la “partita a scacchi” della lingua, che qui e là è continuamente modificata dal tempo e dall’uso, ma sempre ricomponendosi in uno “stato”del sistema. Qui conviene avere sott’occhio tutto il passo di Saussure: In una partita a scacchi, una qualsiasi determinata posizione ha il singolare carattere d’essere indipendente dalle precedenti; è totalmente indifferente che vi si sia arrivati per una via oppure per un’altra; colui che ha seguito tutta la partita non ha alcun vantaggio sul curioso che viene a considerare lo stato del gioco nel momento critico; per descrivere questa posizione, è assolutamente inutile richiamare ciò che è avvenuta nei dieci secondi precedenti. Tutto questo si applica ugualmente alla lingua e consacra la distinzione radicale di diacronia e sincronia. La parole opera sempre e solo su uno stato di lingua, ed i mutamenti che vi intervengono tra gli stati non vi hanno alcun posto. Vi è soltanto un punto in cui il paragone è difettoso: il giocatore di scacchi ha l’intenzione di operare lo spostamento e di esercitare una azione sul sistema; invece la lingua non premedita niente: i suoi pezzi si spostano, o piuttosto si modificano, spontaneamente e fortuitamente: l’Umlaut di Hände per hanti, di 100 Capitolo V Gäste per gasti ha prodotto una nuova forma verbale come trägt per tragit ecc. Perché la partita di scacchi rassomigliasse in tutto e per tutto al gioco della lingua, bisognerebbe supporre un giocatore incosciente o stupido. D’altra parte questa unica differenza rende la comparazione ancora più istruttiva, mostrando la assoluta necessità di distinguere in linguistica i due ordini di fenomeni. Perché, se dei fatti diacronici sono irriducibili al sistema sincronico da essi condizionato, quando la volontà presiede a un mutamento di questo tipo, a più forte ragione essi lo saranno quando oppongono una forza cieca all’organizzazione di un sistema di segni (CLG, pp. 108–109). Che cosa si trae da questo passo arcinoto? Si trae, come avevamo intuito, che al centro non ci sono i singoli soggetti con i loro scambi linguistici: «lo spostamento di un pezzo è un fatto assolutamente distinto dall’equilibrio precedente e dall’equilibrio seguente. Il cambiamento avvenuto non appartiene a nessuno di questi due stati: ora, i soli stati sono importanti» (CLG, p. 108). Al centro, invece, c’è lo stato di lingua, ovvero una totalità cognitiva che emerge dalle operazioni di combinazione e di associazione dei singoli parlanti. Ora, come abbiamo visto, Saussure, paragonando i passaggi di stato della lingua con quelli della partita a scacchi, trova che l’unica differenza sta nell’assoluta mancanza di intenzionalità dei primi rispetto ai secondi. In un certo senso, la lingua è come il «giocatore incosciente o stupido» di una assurda partita a scacchi (CLG, p. 109). E questo, dice Saussure, perché «la lingua non premedita niente» (ibidem). Ecco, qui tocchiamo con mano il naturalismo di Saussure, il quale sembra aver assimilato quello che, discutendo di Mayr, ci è apparso come uno dei cardini dell’evoluzionismo darwiniano: così come l’evoluzione, anche la lingua è naturalisticamente il regno del caso. Se una cesura c’è con Aristotele, allora, è su questo piano che bisogna cercarla, cioè in un differente naturalismo che ha le sue conseguenze nella concezione tanto della lingua, quanto dell’etica e della politica. Questa è una questione che affronteremo nel prossimo capitolo, soprattutto in Aristotele, ma di riflesso anche in Saussure, per mostrare il suo ambiguo rapporto con il “sociale”, ovvero con il contrattualismo etico–politico tipico della modernità. Una questione, dal cui chiarimento, dipende anche il posto della semiotica Mente collettiva e naturalità del segno 101 nell’ideologia contemporanea, sol che non la si voglia ridurre ad un’agenzia di consulenze di marketing. 3.4. La mente grammaticale collettiva Se la lingua è il regno del caso, invece, come più volte detto, regno del singolo individuo è la parole. Ogni innovazione sorge ad opera di un individuo o di un gruppo di individui (CLG, p. 118). Ma Saussure subito dopo aggiunge che l’innovazione del singolo individuo diventa fatto linguistico solo quando la collettività l’accoglie (CLG, p. 119). Dunque, è solo la collettività che, con il suo consenso implicito, spontaneo e necessario, trasforma una innovazione linguistica in un uso. Ancora una volta, in Saussure, l’individuo è la fonte del cambiamento, ma solo se passa al vaglio della collettività. C’è in lui un antagonismo mai risolto tra ragioni dell’individuo e ragioni del sistema. Nella parole, il ruolo dell’individuo è massimo. Ma senza la langue, la parole è un fatto linguistico mai avvenuto. La conseguenza di tutto ciò, allora, è che Saussure, più che fondare socialmente il fatto linguistico, finisce per costruire una teoria naturalistica della mente grammaticale collettiva. Abbiamo visto che i rapporti tra i segni che formano la struttura della lingua sono rapporti sintagmatici (combinazione nella linearità del discorso dei vari elementi linguistici), e rapporti associativi (“stockaggio” nella memoria, tramite associazione, degli elementi linguistici). Ora, come abbiamo già detto, il combinare e l’associare non sono proprietà del sistema linguistico elaborato dal grammatico per capire come funziona la lingua. Al contrario, sono proprietà di una mente che è la mente del singolo individuo. Ma abbiamo visto che questa sorta di individualismo metodologico non regge, dal momento che i singoli atti di parole prendono vita solo dentro il sistema. Dunque, giunti a questo punto, possiamo affermare con certezza che il combinare e l’associare non sono proprietà del modello, ma sono operazioni di un sistema che, nella sua cogenza, è un fatto ben reale per chi parla. Un sistema che è, appunto, quella langue o mente grammaticale collettiva di cui Saussure costruisce una teoria naturalistica. 102 Capitolo V D’altra parte, le operazioni del combinare e dell’associare non sono le uniche che si possono rinvenire in tale teoria. Operazioni altrettanto importanti sono l’analisi, che individua le radici (CLG, p. 227) e «sente» l’alternanza delle forme linguistiche (CLG, p. 202), e l’analogia fondata sulla capacità di imitare con regolarità un modello (CLG, p. 195). 3.5. Lingua e mente sociale Dunque, combinare, associare, analizzare, imitare. Queste le quattro operazioni fondamentali della mente grammaticale collettiva che sembrano emergere dall’analisi di Saussure. Ma perché le operazioni del combinare e dell’associare hanno un rilievo speciale rispetto alle altre? Saussure afferma a ragione che «la lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio» (CLG, p. 33).La storia naturale, sociale, politica di chi la parla, è esterna alla lingua stessa, e la linguistica non deve occuparsene se non appunto in quanto «linguistica esterna» (CLG, p. 31). Il rilievo speciale delle operazioni del combinare e dell’associare, allora, deriva dal fatto che esse sono quelle dove maggiormente sfuma il netto confine tra interno ed esterno del sistema linguistico. Per rendersene conto, basta leggere con la dovuta attenzione quel passo purtroppo assai trascurato del Corso di linguistica generale, in cui Saussure parla della forza di interscambio e dello spirito di campanile, e che qui di seguito ripropongo nella sua interezza: La propagazione dei fatti di lingua è sottomessa alle stesse leggi di qualsiasi altra abitudine, per esempio la moda. In ogni massa umana due forze agiscono senza posa simultaneamente ed in senso contrario: da una parte lo spirito particolaristico, lo “spirito di campanile”: dall’altra, la forze di “interscambio” che crea le comunicazioni tra gli uomini. Per lo spirito di campanile una comunità linguistica ristretta resta fedele alle tradizioni sviluppatesi nel suo seno. Queste abitudini sono le prime che ogni individuo assimila nell’infanzia; di qui la loro forza e persistenza. Se agissero sole, creerebbero in materia di linguaggio particolarità che andrebbero all’infinito. Ma i loro effetti sono corretti dalla forza opposta. Se lo spirito di campanile rende gli uomini sedentari, l’interscambio li obbliga a comunicare tra loro. E l’interscambio che conduce in un villaggio i passanti di altre località, che spo- Mente collettiva e naturalità del segno 103 sta una parte della popolazione in occasione d’una festa o d’una fiera, che riunisce sotto le armi uomini di provincie diverse, ecc. in una parola, è un principio unificante, che contrasta l’azione dissolvente dello spirito di campanile. È all’interscambio che si deve l’estensione e la coesione d’una lingua. Esso agisce in due modi: a volte negativamente: previene il frazionamento dialettale soffocando un’innovazione nel momento in cui sorge in un punto; a volte positivamente: favorisce l’unità accettando e propagandando tale innovazione. È questo secondo tipo di interscambio che giustifica la parola onda per designare i limiti geografici d’un fatto dialettale: la linea isoglossematica è come il bordo estremo di un’inondazione che si espande,e che può anche rifluire (CLG, pp. 249–250). Ho già richiamato più sopra l’analogia metodologica esistente tra Saussure e Pareto circa il modo di concepire rispettivamente il rapporto tra semiologia e psicologia, e quello tra sociologia e psicologia, e ho anticipato il fatto che Pareto, nell’indagare la mente sociale, vede nel combinare e nell’associare le due operazioni di base. Si può ora qui aggiungere che, per Pareto, il combinare, o «istinto delle combinazioni», genera tutto ciò che, per dirla con un vecchio ma pregnante termine di Lukács, la prassi produce di nuovo (Aqueci, 1991, pp. 40–64); mentre l’associare è all’origine di «aggregati persistenti», ovvero di costrutti percettivo–simbolici, “sigillati” dai nomi, che formano il deposito della memoria collettiva (Aqueci, 1991, pp. 64–77). Credo che, anche in ragione della sorprendente assonanza terminologica, il passo di Saussure citato serva a chiarire cosa intende Pareto con i suoi due istinti e, viceversa, la teorizzazione sociologica di Pareto serva ad attribuire al passo di Saussure il rilievo che merita. Combinare elementi linguistici sull’asse sintagmatico, infatti, è il modo peculiarmente linguistico di produrre novità espressive, a partire da costrutti che persistono grazie all’operazione di associazione, e che vengono rinnovati dalle combinazioni stesse. Come si vede dal passo citato, queste due operazioni hanno la loro proiezione esterna al sistema linguistico rispettivamente nella forza di interscambio e nello spirito di campanile, che non sono altro che comportamenti collettivi derivanti dalle due tendenze di fondo della mente sociale, così come analizzata da Pareto. Combinazioni che innovano e aggregati che persistono, dunque, sia dentro il sistema linguistico, che 104 Capitolo V all’esterno, secondo un movimento ad «onde» che non sembra essere altro che un caso particolare e autonomo, ma quanto mai importante, dei «cicli sociali» di Pareto, con le loro alternanze di «pensiero libero» e di «fideismo», di «speculatori» e di «redditieri» (Pareto, TSG, IV, cap. XII). Di modo che, in un’ottica semiologica del tutto saussuriana, ma cognitivamente rinnovata, la lingua non sembra essere altro che una manifestazione fra le tante, anche se certo la più importante, della mente sociale, la quale appare perciò unitaria nella sua costituzione cognitiva e retta dalle medesime leggi. 3.6. Il grado zero della libertà del segno Come ho mostrato altrove a proposito di Pareto, la socialità generata dalla mente sociale intenta a combinare e associare, analizzare e imitare, è una socialità costrittiva e eteronoma (Aqueci, 1991, pp. 77–82; 107–112).La socialità cooperatoria degli individui autonomi nasce da una rottura con quella prima forma di socialità, solo quando dalla stessa evoluzione cognitiva della mente sociale emergono gli «equilibri ideali», con la loro forza dissolvente dei precedenti equilibri statici (Aqueci, 1999; 2000). Questo nesso di problemi, che a prima vista sembrerebbe non più riguardare la lingua, si ripresenta invece in Saussure quando si consideri la sua sensibilità per gli aspetti diremmo “semioetici” delle questioni linguistiche, che recenti, intelligenti letture stanno riportando alla luce (Gambarara, 2005). Già a proposito del combinare abbiamo accennato alla questione della libertà nella lingua. Possiamo riprendere ora questo aspetto ed approfondirlo. Nella lezione del 19 maggio 1911 del terzo corso di linguistica generale (1910–1911), Saussure anzitutto riconosce chiaramente il carattere intrinsecamente eteronomo del segno: Par rapport à la société humaine qui est appelée à l’employer, le signe n’est point libre mais imposé, sans que cette masse sociale soit consultée et comme s’il ne pouvait pas être remplacé par un autre [Riguardo alla società umana che è chiamata a usarlo, il segno non è affatto libero ma imposto, senza che questa massa sociale sia consultata e come se esso non potesse essere sostituito da nessun altro] (Saussure, 2005 [1911], p. 169). Mente collettiva e naturalità del segno 105 Come si vede, un’asserzione che non lascia spazio ad una concezione della lingua come mediazione fra individui autonomi, e liberi di disporne secondo le loro convenienze. Non è così che funziona il segno, sembra dirci Saussure, poiché esso non è libero, nel senso che i suoi utenti lo subiscono. Ma subito dopo Saussure ancora aggiunge: La transmission des institutions humaines, voilà la question plus générale dans laquelle nous voyons enveloppée la question posée au début: pourquoi la langue n’est–elle pas libre? [La trasmissione delle istituzioni umane, ecco la questione più generale nella quale noi vediamo avvolta la questione posta all’inizio: perché la lingua non è libera?] (ibidem). Nella successiva lezione del 30 maggio 1911, la risposta di Saussure a questa cruciale domanda consiste nel mettere in evidenza la linea ininterrotta del tempo che innerva la lingua: La langue n’est pas libre, parce que principe de continuité ou de solidarité indefinie avec les âges précédents [La lingua non è libera, a causa del principio di continuità e di solidarietà ininterrotta con le epoche precedenti] (Saussure, 2005 [1911], p. 172). Con questa risposta tutta interna alla linguistica — il segno non è libero a causa dell’eredità linguistica, cioè della pressione dello stato di lingua precedente su quello seguente, il compito di Saussure potrebbe essere terminato. Ma, e qui sta la sua grandezza che rende vivente il suo pensiero, egli è inquieto, e si chiede: Mais pourquoi est–ce un héritage? Pourquoi ne pourrait–on rien changer à cet héritage? Nous voyons d’autres choses héritées des siècles précédents: ainsi les lois. On ne pas tenue à ne pas changer les lois [Ma perché è un eredità? Perché non si potrebbe cambiare niente di questa eredità? Noi vediamo altre cose ereditate dai secoli precedenti: ad esempio, le leggi. Non si è obbligati a non cambiare le leggi] (Saussure, 2005 [1911], p. 169). Ecco, qui Saussure è già fuori dalla linguistica, ed entra in una semiologia che non è la scienza generale che classifica tutti i tipi di segni, ma una riflessione sulla libertà umana così come si realizza nelle varie istituzioni prodotte, per usare ancora il vecchio ma quanto mai significativo termine di Lukács, dalla prassi. 106 Capitolo V Anche qui, un’altra sorprendente assonanza con Pareto, quando questi si chiede quale sia il «modo analogo» con cui scrittura, lingua, religione, diritto, morale si sviluppano in quanto «prodotti simili dell’attività umana». Ed ecco la risposta di Pareto: in tempi remoti, [scrittura, lingua, religione, diritto, morale] si confondevano in una massa unica, come le parole che nelle antiche iscrizioni greche sono scritte senza essere separate, e nelle quali il contatto modifica l’ultima lettera e la prima di due parole che si separano. L’operazione analitica tanto semplice di separare una parola dall’altra, rimasta incompiuta nel sanscrito, si compie nel greco in un tempo non tanto lontano, e lascia traccia dell’antica unione sino alla letteratura classica. Similmente l’operazione analitica che separa il diritto, la morale, la religione, accennata fortemente pur non essendo compiuta, presso i popoli moderni, rimane ancora da compiersi presso i Barbari. Le iscrizioni greche come la storia delle origini greco–latine, ci mostrano lingua, diritto, morale, religione, come una specie di protoplasma, da cui, per scissione, nascono parti che poi crescono, divengono distinte, si separano (TSG, I, § 469). Come si vede, nella sua allusione biologica, è una risposta suggestiva, ma tutta giocata dentro una teoria filogenetica dell’astrazione. Su questo punto, invece, Saussure è un passo oltre. La sua inquietudine lo porta a porsi il problema semioetico del grado di libertà delle istituzioni umane: «Il y aura lieu de comparer le degré de liberté qu’offrent d’autres institutions [Sarà opportuno comparare il grado di libertà che offrono altre istituzioni]» (Saussure, 2005 [1911], p. 169). Certo, in Saussure c’è l’apertura a questo problema, ma non c’è la risposta. O per lo meno, c’è una risposta in negativo che ci dice ciò che nella lingua non può accadere. Per Saussure, infatti, la lingua, come è stato osservato, è «l’unica istituzione sociale in cui non si possono fare rivoluzioni» (Gambarara, 2005, p. 181). Spetta a noi, invece, capire cosa e perché si può fare di altro nelle altre istituzioni. Capire, in altri termini, perché il segno non si può cambiare, ma le leggi sì. Capitolo sesto Mente moderna e libertà politica Potremmo compendiare quanto abbiamo visto nel capitolo precedente, con la seguente affermazione di Piaget: «Il pensiero crea la lingua, poi la supera; ma la lingua si ripercuote sul pensiero e cerca di imprigionarlo» (Piaget, 1926, p. 254). Sappiamo come Frege si proponesse di abbattere questa prigione. E sappiamo come Saussure porti all’estremo limite la riflessione sulla lingua quale inevitabile prigione del pensiero. Istruiti da quanto abbiamo appreso dall’analitica del vivente prospettata sulla base delle distinzioni di Mayr, è ora completamente visibile davanti a noi l’antinomia tra la lingua come teleonomia aperta che incorpora fini espressivi, e la lingua come regno del caso che imprigiona il pensiero. Qual è il significato di tale antinomia? Perché Frege, alle origini della filosofia analitica del linguaggio, in contemporanea con la riflessione di Saussure, e cogliendo inquietudini espresse dall’affermazione di Piaget, si propone l’impresa di liberare il pensiero dalla sua prigione linguistica? Ciò che vogliamo mostrare in questo capitolo conclusivo è che il senso di questa riflessione sul peso della struttura nei confronti del soggetto, si può cogliere se si riportano geneticamente alla luce alcuni fili di quella arbitrarietà linguistica su cui riflette Saussure, e che conducono a quelle che potremmo indicare come le prime manife107 108 Capitolo VI stazioni della mente moderna. L’antinomia, allora, su cui Frege, Saussure e Piaget in maniera diversa ma convergente si interrogano, diventa il sintomo di trasformazioni profonde della modernità stessa In questa direzione, un punto da cui muovere è il fatto che la concezione saussuriana dell’arbitrarietà del segno non è la prima volta che appare nella storia del pensiero semiotico. Nel Seicento, John Locke, il filosofo della libertà politica, cui già abbiamo accennato nel capitolo quarto, spostandosi sul terreno gnoseologico, emerso dalla frattura tra la nuova scienza sperimentale e la vecchia ontologia religiosa sin allora dominante, la avanza in termini apparentemente simili. Nelle storie della semiotica, perciò, si ha la tendenza a presentarlo come un precursore, per quanto importante, di Saussure. Tuttavia, è sufficiente riandare ai passi ben noti del Saggio sull’intelletto umano (1690), l’opera in cui Locke, nel quadro della sua teoria della conoscenza, prospetta le sue posizioni sull’arbitrarietà del segno, per rendersi conto che dietro l’apparenza di una certa continuità, si nascondono differenze essenziali tra i due autori, concernenti in particolare il ruolo dell’individuo nella lingua. Da dato storico–erudito, allora, il rapporto tra Locke e Saussure diventa un tassello della questione teorica che in vari modi abbiamo affrontato nel corso dei precedenti capitoli, cioè i fattori cognitivi e pragmatici che conducono all’individuo autonomo e alle costruzioni normative che ne governano il comportamento sociale. Una questione che, dal punto di vista storico–culturale, coincide, appunto, con la genesi di ciò che chiamiamo modernità. Alla luce di quanto abbiamo visto sin qui, allora, e muovendo sempre dalla teoria del segno, scopo di questo capitolo conclusivo è di riepilogare e rilanciare su tale questione, spingendoci sino alla crisi che oggi sembra colpire la modernità stessa. 1. LOCKE: GENESI POLITICA DELLA SEMIOTICA MODERNA Il primo e più famoso dei passi del Saggio sull’intelletto umano dedicati all’arbitrarietà del segno è quello in cui Locke, proponendo una nuova organizzazione delle scienze alla luce della critica gnoseologica sin lì condotta, accanto alla fisica, deputata alla conoscenza Mente moderna e libertà politica 109 delle cose in sé, e all’etica, il cui scopo è la determinazione di ciò che è giusto, pone anche la semiotica, quale ambito autonomo di studio dei segni. Non c’è bisogno di dire che il contributo dell’antichità a tale studio è ricchissimo, ma la decisione di Locke di farne un ambito autonomo, denominandolo con quel termine che, soprattutto dalla seconda metà del XIX secolo, avrà poi un così vasto impiego, è una novità del tutto moderna che, come vedremo, non è solo terminologica ma sostanziale. Ma leggiamo il passo del S a g g i o sull’intelletto umano in cui Locke definisce questa terza nuova branca delle scienze: In terzo luogo, la terza branca può essere chiamata Semiotiké o dottrina dei segni, e poiché la parte più comune di essa concerne le parole questa è abbastanza convenientemente chiamata anche Loghiké logica: il suo compito è di considerare la natura dei segni che lo spirito usa per intendere le cose e comunicare la sua conoscenza agli altri. Giacché, dal momento che le cose che lo spirito contempla non sono mai presenti all’intelletto, tranne lo spirito stesso, è necessario che qualcosa d’altro come il segno o la rappresentazione della cosa considerata, sia presente allo spirito; e questa è l’idea. E poiché la scena delle idee, che costituisce i pensieri di un uomo, non può aprirsi alla vista immediata di un altro uomo né può essere accumulata altrove che nella memoria, che non è un deposito molto sicuro, per comunicare ad un altro i nostri pensieri, come per registrali per il nostro proprio uso, sono necessari i segni delle nostre idee e quelli che gli uomini hanno trovato più comodi e quindi usano generalmente, sono suoni articolati. La considerazione delle idee e delle parole è perciò un grande strumento di conoscenza e costituisce una parte non disprezzabile della contemplazione di chi vuole abbracciare la conoscenza umana nella sua intera estensione. E forse, se esse fossero distintamente investigate e debitamente considerate, ci consentirebbero un’altra specie di logica e di critica, diversa da quella che c’è stata fin qui familiare (Saggio sull’intelletto umano, libro IV, cap. XXI, p. 818). Come si vede, in questo passo Locke, quasi a giustificare il ruolo di precursore che le ricostruzioni storiche gli assegnano, enuncia un programma di ricerca semiotica che sembra una formulazione ante litteram di quello di Saussure. La distinzione, infatti, tra lo studio dei segni, compito della semiotica, e lo studio in particolare delle parole, compito della logica, potrebbe essere vista, tenendo conto del vasto rivolgimento che nel campo logico, linguistico e retorico avrà luogo 110 Capitolo VI nei successivi tre secoli, come una prefigurazione di quella saussuriana tra semiologia e linguistica. Altrettanto pre–saussuriana potrebbe essere giudicata l’analisi dei segni linguistici come entità composte da un lato interno o significato, e da un lato esterno o significante, anche se questa analisi non conduce Locke ad una teoria dei valori linguistici ma, coerentemente con le sue preoccupazioni gnoseologiche, ad una specificazione della funzione dei segni verbali. Locke, infatti, interessato ad analizzare quegli oggetti del pensiero che sono le idee, sia esse che provengano dalla percezione degli oggetti esterni (il bianco, il caldo, il dolce, ecc.), o dalla percezione delle operazioni della nostra mente (il pensare, il dubitare, il credere, ecc.), concepisce i segni linguistici come entità bifacciali che servono per conoscere e per comunicare. In particolare, la conoscenza richiede il differimento dell’oggetto e la sua sostituzione con qualcosa di astratto che sta al suo posto. Questa è l’idea o significato o lato interno del segno. Nella comunicazione, invece, i segni rendono percepibile ciò che è astratto, cioè l’idea o significato. Questo è il suono articolato, o significante o lato esterno del segno. Per entrambe queste operazioni il segno fa da supporto in quanto entità che sta per qualcos’altro: l’idea per l’oggetto, il suono articolato per l’idea. Notiamo qui che il classico principio del segno come qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, non serve a Locke per indagare la funzione regolativa del segno, così come abbiamo visto in Peirce, bensì a inoltrarsi su quel nuovo terreno gnoseologico in cui, senza entrare in conflitto con l’ontologia religiosa dominante, ci si interessa ai processi conoscitivi piuttosto che alle modalità dell’essere. L’ideale traiettoria della modernità, dunque, che la sua indagine contribuisce ad aprire, se lascia presagire sviluppi saussuriani, non sembra indirizzarsi verso le analisi semiotiche di Peirce, ma in direzione di altre mete che nel corso di questo capitolo dovremo individuare. Ma tornando alle anticipazioni saussuriane che esisterebbero in Locke, l’impressione che il suo programma di ricerca semiotica sia un’anticipazione di quello di Saussure posteriore di tre secoli, è ulteriormente rafforzata dal modo in cui Locke si pone nei confronti della pietra angolare di ogni costruzione semiotica, cioè la giustifica- Mente moderna e libertà politica 111 zione del legame esistente tra il significato e il significante. A questo proposito Locke, infatti, sostiene: Come abbiamo detto, le parole, mediante l’uso prolungato e la familiarità, suscitano negli uomini costantemente e prontamente certe idee che si è portati a supporre che ci sia una connessione naturale fra le due cose. Ma è evidente che le parole indicano solamente le idee particolari degli uomini, e ciò mediante un’imposizione perfettamente arbitraria, in quanto spesso mancano di suscitare in altri (anche se adoperano lo stesso linguaggio) le stesse idee di cui le riteniamo segni; e ciascun uomo ha una libertà così inviolabile di fare che le parole stiano per le idee che più gli piacciono, che nessuno ha il potere di far sì che altri abbiano nel loro spirito le stesse sue idee quando usano le stesse parole che egli usa. Perciò lo stesso grande Augusto, che col suo potere dominava il mondo, riconosceva di non poter fabbricare una nuova parola latina: il che voleva dire che non poteva arbitrariamente designare quell’idea il cui suono avrebbe dovuto essere il segno sulla bocca e nel linguaggio comune dei suoi sudditi (Saggio sull’intelletto umano, libro III, cap. II, § 8, pp. 478–9) Come si vede, in questo passo Locke nega la teoria di una connessione naturale fra parole (ovvero, significanti) e idee (ovvero, significati), e adotta la teoria di un legame arbitrario, cioè immotivato, fra queste due entità. Se si limitasse a questa posizione di arbitrarismo linguistico, Locke sarebbe effettivamente quell’importante ma nient’affatto originale precursore di Saussure che le storie della semiotica ci presentano. Ma come abbiamo appena letto, egli precisa non solo che le parole indicano «le idee particolari degli uomini», cioè di ciascun individuo singolarmente preso, ma anche che l’imposizione arbitraria delle parole per indicare le idee particolari degli uomini dipende dalla libertà inviolabile di ciascun individuo di indicare con le parole le idee che più gli piacciono, e ciò al di là di ogni possibile costrizione («nessuno ha il potere di far sì che altri abbiano nel loro spirito le stesse sue idee quando usano le stesse parole che egli usa»). Quindi, analogamente a quanto fa Saussure, Locke afferma l’arbitrarietà, cioè l’immotivatezza, del legame tra significanti e significati, ma, a differenza di quanto sostiene Saussure, Locke concepisce l’arbitrarietà non come l’effetto del taglio che il corpo sociale «incosciente o stupido» (CLG, p. 109) opera nel continuum amorfo della sostanza fonico–concettuale, bensì come il portato di 112 Capitolo VI un’euristica individuale, cioè di un modo di conoscenza semiotico fondato sull’assoluta libertà dell’individuo. C’è quindi in Locke un radicale individualismo linguistico–conoscitivo che fa dell’arbitrarietà linguistica non una legge naturale di autoregolazione della totalità linguistica, ma la conseguenza del principio politico della libertà dell’individuo. Una libertà che, beninteso, Saussure non disconosce, ma che relega funzionalmente nella parole, senza ulteriormente indagarne la natura. Posto ciò, come avviene allora la comunicazione? Come si esce dall’anarchia comunicativa cui potrebbe condurre questo radicale individualismo linguistico–conoscitivo? Leggiamo in proposito il seguente passo del Saggio sull’intelletto umano: 4. Ma sebbene le parole, come sono adoperate dagli uomini, non possono propriamente e immediatamente significare se non le idee che stanno nello spirito di chi parla, tuttavia gli uomini, nei loro pensieri, attribuiscono loro un riferimento segreto a due altre cose. In primo luogo, suppongono che le loro parole siano segni di idee che sono anche nello spirito degli altri uomini coi quali comunicano: infatti, parlerebbero invano e non potrebbero essere compresi se i suoni che applicano ad un’idea venissero applicati dall’ascoltatore ad un’altra idea, il che significa parlare due lingue diverse. Ma quanto a questo, gli uomini di solito non si soffermano ad esaminare se l’idea che essi hanno nello spirito e quella di coloro coi quali discorrono sia la stessa: pensano che basti usare quella parola, secondo essi la immaginano, nella comune accezione di quella lingua. Con ciò suppongono che l’idea, di cui l’hanno fatto diventare un segno, è precisamente la stessa alla quale gli uomini dello stesso paese che sono in grado di capire, applicano quel nome. 5. In secondo luogo, giacché gli uomini vorrebbero si ritenesse che parlino non solo di cose che stanno solo nella loro immaginazione, ma anche di cose che realmente ci sono, suppongono spesso che le parole stanno anche per la realtà delle cose (Saggio sull’intelletto umano, libro III, cap. II, §§ 4 e 5, p. 477). Come si vede, un primo freno all’anarchia comunicativa è costituito da un residuo di innocuo, anzi funzionale, realismo nominale, che limita gli spazi sconfinati guadagnati dalla mente, nel momento in cui, grazie al segno, differisce l’oggetto. Un secondo freno, ancora più importante, perché di natura intersoggettiva, consiste in una sorta di supposizione implicita che i par- Mente moderna e libertà politica 113 lanti fanno circa l’identico funzionamento semiotico delle rispettive menti: così come la mia, la mente dell’altro con cui sto parlando è fatta di idee; così come faccio io, anche per lui le parole sono segni delle idee della sua mente; le idee che ho nella mia mente, infine, e che indico con determinate parole, stanno anche nella mente di colui con cui sto comunicando, ed egli stesso le indica con medesime parole. Questa supposizione implicita, che richiama il reciproco riflesso neurale che, secondo le più recenti ricerche neurocognitive, i neuroni specchio assicurerebbero ai parlanti (Rizzolatti et al., 2006), è qualcosa di più che il semplice conformarsi all’uso comune. Osserva infatti in proposito Locke: È vero che l’uso comune, mediante un tacito consenso, accoppia certi suoni con certe idee in ogni linguaggio, il che limita il significato di quel suono a tal punto che, se un uomo non l’applica alla stessa idea non parla con proprietà; e mi sia consentito di aggiungere che, se le parole di un uomo non suscitano nell’ascoltatore le stesse idee per cui quelle parole stanno per chi parla, questi non parla in modo intellegibile. Ma qualunque siano le conseguenze dell’usare le parole diversamente dal loro significato generale o dal senso particolare in cui le intende la persona alla quale le rivolge, è certo che il loro significato, per chi le usa, è limitato alle sue idee e che esse possono solo essere i segni di queste idee (Saggio sull’intelletto umano, libro III, cap. II, § 8, p. 479). Come vediamo, qui Locke ha ben presente il consenso tacito dell’uso comune che regge lo scambio linguistico, ma ancora una volta egli pone l’accento sull’individuo che, nell’usare le parole, crea i significati in corrispondenza con le sue idee. Oggi, i neuroscienziati si spingono sino ad affermare che «la comprensione diretta significa che due individui non hanno bisogno di precedenti accordi — per esempio su simboli arbitrari — per potersi comprendere tra loro: l’accordo è inerente all’organizzazione neurale di tutti e due» (Rizzolatti et al., 2006, p. 61). Locke offre il modello di come fronteggiare il rischio dell’eliminazione del piano etico–discorsivo che implicitamente comporta un simile riduzionismo neuronale. Infatti, come abbiamo visto, benché la sua argomentazione non si opponga, ma anzi evochi la nuova spiegazione neurocognitiva, egli tuttavia sottolinea sempre la libertà linguistico–conoscitiva dell’individuo, in con- 114 Capitolo VI seguenza della quale la comunicazione resta un fatto eminentemente politico, che non può fare a meno dell’idea di patto tra individui autonomi. Certo, si può immaginare un futuro in cui costrutti proposizionali come patto, autonomia, libertà siano resi inutili e sostituiti dalla generale consapevolezza tutta scientifica dell’identica costituzione neuronale. Ma non per ciò sarebbero risolti i problemi che quei costrutti cercavano di risolvere. Infatti, non è difficile immaginare che dalla consapevolezza dell’identica costituzione neuronale discenderebbero richieste ancora più stringenti di libertà, e quindi di eguaglianza circa l’accesso al potere e alla ricchezza. Non è dunque imboccando scorciatoie riduzioniste che tali problemi possono essere affrontati, i quali anzi richiedono che le “finzioni” politiche permangano, benché rinnovate nei loro contenuti alla luce delle nuove conoscenze. 2 . DA L OCKE A SOCIALE H OBBES : LIBERTÀ DELL’INDIVIDUO E ASTRAZIONE Il radicale individualismo linguistico–conoscitivo di Locke non viene dal nulla, ma trova la sua spiegazione nel Locke filosofo della politica moderna, di cui assieme a Thomas Hobbes (1588–1679) è fondatore, e in particolare nel Locke filosofo della proprietà privata, da un lato, e della società politica (commonwealth) come contratto, dall’altro. Quanto al primo punto, basterà dire qui che per Locke la proprietà privata è l’assimilazione della natura da parte dell’uomo ai suoi bisogni tramite il lavoro. Come abbiamo visto in altri autori posteriori a Locke, il lavoro è intelligenza, ovvero capacità storicamente situata di perseguire scopi. Quella di Locke, allora, si può considerare come una delle prime analisi delle condizioni che generano lo stadio storico moderno dell’intelligenza. Per Locke, infatti, il lavoro è condizione della libertà dell’individuo, poiché consente di uscire dalla schiavitù e dalla condizione servile medioevale (Secondo trattato sul governo, cap. V). Libero sarà, allora, non solo l’agricoltore indipendente, che trasformando la terra con il suo lavoro ne acquista il diritto di proprietà, ma anche il lavoratore salariato, con la sua possibi- Mente moderna e libertà politica 115 lità, come chiarirà l’economia politica, da Smith a Ricardo a Marx, di vendere forza–lavoro, un’energia misurabile in termini quantitativi di valore, indifferente perciò al soggetto che la eroga e all’oggetto, o merce, in cui si incorpora. Con la sua critica dell’economia politica, Marx mostrerà poi i limiti della libertà del lavoro salariato, ma ciò che qui importa notare è il nesso tra libertà dell’individuo e accrescimento dell’astrazione sociale, la quale tocca aspetti differenti e apparentemente slegati dell’esperienza quali il lavoro ma anche, come vedremo appresso tanto in Locke quanto in Hobbes, il linguaggio e la politica. Veniamo così al secondo punto, cioè il Locke della società politica come contratto, da cui si evince che lo stato di natura non è la guerra di tutti contro tutti, come aveva sostenuto prima di lui, appunto, Hobbes, ma è caratterizzato da una «libertà estesa» (Secondo trattato sul governo, cap. VIII, § 97), ovvero dall’assenza di una norma fissa secondo cui vivere, la quale invece interviene proprio con il patto che fonda la libertà regolata (cap. IV, § 22). Lo stato di natura è dunque una forma di socialità in cui individui embrionalmente dotati di ragione (perseguono scopi ma sono anche potenzialmente in grado di compiere libere scelte etiche), vivono in condizione di pace precaria. In termini comunicativi, esso corrisponde alle intese labili e contingenti che sono possibili grazie alla dotazione semiotica di base che l’uomo in parte condivide con le altre specie animali (segnali, indici, protofrasi legate all’azione). La necessità di uscire dallo stato di pace precaria e di conseguire la sicurezza reciproca, che è lo scopo precipuo del contratto, spinge al patto politico, secondo modalità costruttive che Locke così descrive in termini normativi: Poiché gli uomini sono, come s’è detto, tutti per natura liberi, eguali ed indipendenti, nessuno può esser tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. L’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e s’investe dei vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso delle proprie proprietà, e con una garanzia maggiore contro chi non vi appartenga. Ciò può esser fatto da un gruppo di uomini, in quanto non viola la libertà degli altri, i quali rimangono com’erano, nella libertà dello stato di natu- 116 Capitolo VI ra. Quando un gruppo di uomini hanno così consentito a costituire un’unica comunità o governo, sono con ciò senz’altro incorporati, e costituiscono un unico corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di deliberare e decidere per il resto (Secondo trattato sul governo, VIII, § 95, p. 297). Il processo di incorporazione, il cui motore è ancora una volta la libera volontà dei singoli individui, produce dunque il corpo politico, cioè un’entità normativa costruita e non naturale che assicura la sicurezza reciproca. Da un punto di vista comunicativo, il patto politico corrisponde all’intesa linguistico–conoscitiva che si stabilisce grazie alla supposizione implicita sull’identico funzionamento della mente altrui. Una supposizione, quindi, che non ha solo un valore funzionale ma anche normativo. Questa omologia che abbiamo appena ricostruito in Locke tra ordine politico e ordine comunicativo, ci permette di avanzare due serie di considerazioni. La prima concerne la «massa parlante» che, in Saussure, adopera la lingua. Essa, a differenza del corpo politico, non è un’entità costruita, ma un dato naturale, senza alcuna volontà che non sia la spinta — teleomatica, potremmo dire — del caso. Ecco perché, prendendo in contropiede l’analogia di Saussure, l’abbiamo potuta paragonare a un giocatore di scacchi incosciente o stupido. A voler estendere ulteriormente il senso di quest’analogia, si potrebbe dire che in Locke la comunicazione, nella sua forma compiuta, è una partita a scacchi condotta da giocatori coscienti e intelligenti. Questo arretramento del dato naturale è l’effetto dell’idea normativa di patto che Locke introduce tanto nell’ordine politico quanto nell’ordine comunicativo. I teorici del linguaggio hanno, dunque, ben ragione a valorizzare la plasticità comunicativa dello stato di natura linguistico, ma quando su di esso proiettano una dimensione normativa, affermando che la parola altrui contiene di per sé il riconoscimento etico dell’altro, comprimono livelli, quello naturale e quello normativo, che vanno invece tenuti separati, per non occultare il processo costruttivo che conduce dall’uno all’altro. L’altra serie di considerazioni concerne proprio il carattere del corpo politico generato dal patto. Locke sembra concepire la sua costruzione semiotico–politica come il potenziamento di una socialità spontanea fondata su una ragione naturale. In qualche modo, Mente moderna e libertà politica 117 nell’autore della tabula rasa c’è come una contraddizione di fondo: la mente esiste ab initio, basta potenziarla con opportuni accordi che facciano presa sui bisogni e gli interessi degli uomini. E in questo modo, essa viene a coincidere con la società stessa costituitasi in corpo politico, verso cui lo Stato avrà una mera funzione di coazione. Assieme, allora, alla concezione dello stato di natura, questo è un altro punto di differenza con Thomas Hobbes, per il quale, invece, come vedremo fra poco, lo Stato o sovrano è la costruzione di una mens unica, una razionalità che, prendendo il posto delle inconciliabili passioni dello stato di natura, viene a costituire un livello di astrazione totalmente nuovo, senza alcun legame con il dato naturale pre–esistente (Izzo, 2005). Se, dunque, nell’ordine comunicativo Locke introduce un grado di astrazione normativa che lo differenzia dal successivo naturalismo di Saussure, anche se sappiamo quanto quest’ultimo avverta l’urgenza del normativo, nell’ordine politico sembra arrestarsi ad un’astrazione quasi gravata dal peso fisico degli «incorporati». Il corpo politico, infatti, non è una totalità nuova rispetto alle parti componenti (una totalità logica, per dirla con Piaget), ma è la somma delle singole volontà libere (una totalità additiva, per dirla ancora con Piaget). La domanda cui rispondere è, allora, come si costruisce quel livello puro, o logico, di astrazione che è lo Stato quale mens unica di Hobbes, e se e quali procedimenti semiotici sono coinvolti in tale processo costruttivo. In questo modo, potremo stabilire anche se nello stesso Hobbes la semiotica, sebbene con modalità differenti rispetto a Locke, gioca un ruolo costruttivo nella trama del pensiero moderno. 3. HOBBES: GENESI SEMIOTICA DELLA POLITICA MODERNA Per stabilire come si costruisce il livello puro, o logico, di astrazione che è lo Stato quale mens unica, dobbiamo andare oltre l’omologia tra ordine linguistico e ordine politico che abbiamo ricostruito in Locke, e individuare gli strumenti che nella descrizione di Hobbes generano la sovranità. Siamo qui ad uno snodo centrale del 118 Capitolo VI pensiero moderno, cioè l’enucleazione dei principi di una nuova teoria politica dalle trasformazioni storiche che conducono al mondo moderno: dalla lotta contro l’assolutismo politico di derivazione divina, alla mondanizzazione del potere e della religione, dalla rottura dei vecchi legami sociali sotto l’urto del nuovo modo di produzione economica, al bisogno di un nuovo ordine sociale. Tutto ciò impone, anche contro le stesse intenzioni dei suoi autori (Hobbes era un difensore dei vecchi assetti di potere), l’idea di un potere legittimo che non deriva più dal mandato divino o dall’atto d’imperio, bensì dal patto tra individui liberi. Ora, ciò che appare chiaro in Hobbes, è il fatto che lo Stato quale mens unica o totalità logico–normativa propria della sovranità moderna, è generato da una struttura di stare per di tipo semiotico che altro non è che il meccanismo della rappresentanza. In questo senso, particolarmente significativo è quanto Hobbes afferma nel Leviatano (1651), l’opera in cui egli espone compiutamente la nuova concezione contrattualista della politica. Per Hobbes, la sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dalle aggressioni esterne e dai conflitti interni, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà ad una volontà sola. Ora, sostiene Hobbes, ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere sé stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui (Leviatano, II, XVII, p. 167). E poco più avanti, in maniera più completa, ancora afferma: Si dice che uno stato è istituito, quando una moltitudine di uomini si accorda e pattuisce, ognuno con ogni altro, che qualunque sia l’uomo o l’assemblea di uomini cui sarà dato dalla maggior parte, il diritto a rappresentare la persona di loro tutti (vale a dire, ad essere il loro rappresentante), ognuno, tanto chi ha votato a favore quanto chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini, alla stessa maniera che se Mente moderna e libertà politica 119 fossero propri, al fine di vivere in pace tra di loro e di essere protetti contro gli altri uomini (Leviatano, II, XVIII, p. 169). Come si vede, analogamente a quanto accade in campo semiotico, dove, più compiutamente del simbolo, sempre motivato, e ancor più dell’indice, dipendente dalla materialità di ciò che significa, il segno si costituisce quando qualcosa in modo del tutto immotivato sta al posto di qualcos’altro, anche nel dominio della politica il potere, se vuole evolvere verso una forma più astratta che lo liberi dalle “aderenze” sostanzialistiche della derivazione divina o della forza, deve costituirsi quale effetto di un’operazione di rinvio, o «designazione», per mezzo della quale qualcuno, il rappresentante, ovvero il Sovrano (Leviatano, II, XVII, p. 168) sta al posto di qualcun altro, il rappresentato, ovvero la moltitudine che, riunita nel patto, si trasforma in corpo politico. Senza quest’operazione di rinvio, infatti, il corpo politico, da totalità logica, torna ad essere moltitudine, cioè un significato “cieco”; il sovrano, un significante ”libero”, non più vincolato alla immanenza del corpo politico; la politica, atto decisorio arbitrario, ma non nel senso di immotivato, proprio dell’astrazione semiotica, bensì nel senso di volontà incontrollata, proprio dello stato di natura. In virtù di tale operazione, invece, la politica diviene una rappresentazione, ma in un senso del tutto nuovo rispetto alla teatralità della vecchia politica, dove emblemi e simboli rinviavano allegoricamente alla sostanza arcana del potere. Il fondamento del nuovo potere è, infatti, funzionalmente semiotico, nel senso che, grazie alla reversibilità dell’operazione di rinvio (Eco, 1972, p. 24), propria dei processi logici, designante e designato si vengono a trovare in una relazione di reciprocità: il designato può essere persona, cioè attore, al posto di qualcun altro, e il designante può riconoscersi autore di ciò che fa il designato. Questa logicizzazione del potere spiega due fatti. Anzitutto, si capisce perché il segno non si può cambiare, mentre le leggi sì. Con la fine dello stato di natura, la legge, infatti, diviene motivata, e perciò soggetta a contestazione. Il procedimento semiotico, che normalmente porta all’immotivatezza, agisce qui come un reagente chimi- 120 Capitolo VI co: almeno per questo aspetto, nella nuova soluzione non ce n’è più traccia. In secondo luogo, con la logicizzazione del potere si capisce perché l’incorporazione in Hobbes va oltre, come abbiamo anticipato, la totalità “additiva” di Locke. Per Hobbes, infatti, l’operazione di designazione non produce il semplice consenso o la concordia tra coloro che stipulano il patto, bensì un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile (Leviatano, II, XVII, p. 168). Come si vede, l’unità reale delle molteplici volontà in una sola persona è l’effetto di una coordinazione di scopi tra individui che l’operazione di designazione pareggia e rende sostituibili l’uno con l’altro, analogamente a quanto accade nella sfera autonoma ma coordinata del lavoro dove, come abbiamo visto, la stessa tensione verso l’astratto libera quell’energia eguale da individuo a individuo, e indifferente all’aspetto fenomenico della merce, che è la forza–lavoro. Se nel campo dell’economia ciò produce la nuova totalità finalistica sorta dalla combinazione di lavoro e capitale, nel campo della politica si ha non una fusione mistica, né la semplice somma delle volontà concordi, ma una totalità normativa, di cui gli individui sono i singoli ed infiniti nodi logici. È questo lo Stato quale mente collettiva che Hobbes, nella maniera devota ma ardita che gli è propria, in un passo conclusivo di tutta la sua costruzione chiama il Leviatano: Questa è la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l’essenza dello stato che (se si vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’alto e viceversa, si è fatto autore, affinché essa pos- Mente moderna e libertà politica 121 sa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa (Leviatano, II, XVII, pp. 167–168). Prendiamo atto che in questo passo, da un periodo all’altro, quasi senza soluzione di continuità, convivono due modelli, quello arcaico del potere come forza e terrore, e quello moderno del potere come totalità logica prodotta dall’operazione di designazione. Torneremo alla fine su questo punto. Qui notiamo invece come questa costruzione semiotica della politica si spinga sino a rigenerarne lo stesso campo terminologico, come si evince da quest’altro passo del Leviatano: La differenza degli stati consiste nella differenza del sovrano o della persona rappresentativa di tutta la moltitudine e di ciascun suo componente. E per il fatto che la sovranità è in un uomo o in un’assemblea di più uomini, e che in quell’assemblea hanno diritto a entrare o tutti gli uomini oppure non tutti ma solo certuni che si distinguono dagli altri, è manifesto che non ci possono essere che tre generi di stato. Il rappresentante infatti deve essere necessariamente un uomo o più uomini; se sono più uomini, è allora o l’assemblea di tutti o solo di una parte. Quando il rappresentante è un uomo, lo stato allora è una MONARCHIA; quando è un’assemblea di tutti coloro che vogliono riunirsi, allora è una DEMOCRAZIA o stato popolare, quando è un’assemblea di una parte soltanto, è chiamata allora una ARISTOCRAZIA. Non vi può essere alcun altro genere di stato, poiché o uno, o più, o tutti devono avere il potere sovrano (che ho mostrato essere indivisibile) per intero (Hobbes, Leviatano, II, XIX, p. 181). I nomi del potere dipendono, dunque, dalla natura del rappresentante: se il potere è rappresentato da un uomo, si ha la monarchia, se è rappresentato da un’assemblea, si ha la democrazia, se è rappresentato da un’assemblea di una parte soltanto, si ha l’aristocrazia. Tutto ciò non è puro gioco terminologico, e per rendersene conto, basti vedere cos’è lo Stato, il cittadino e le forme della politica in Aristotele, che su questi argomenti ai tempi di Hobbes era l’autorità per eccellenza, e contro cui Hobbes lotta aspramente. Per Aristotele, conformemente al suo ammirevole naturalismo, tuttavia oberato da un finalismo indiscriminato, lo Stato è un prodotto naturale in quanto è il fine naturale delle comunità (famiglie e villaggi) che lo compongono (Politica, 1253a). Esso, dunque, coin- 122 Capitolo VI cide con quella condizione naturale che Hobbes chiama stato di natura. Ma mentre per Hobbes si tratta di una condizione da superare, poiché priva di una sua spontanea capacità di coordinazione, cui supplisce, come sappiamo, l’operazione di designazione, per Aristotele, al contrario, lo stato di natura, come ogni cosa creata dalla natura, possiede un suo fine che lo porta a compimento, cioè appunto allo Stato quale aggregato di comunità ad esso pre–esistenti. Si potrebbe osservare che anche in Aristotele c’è l’idea dello Stato quale totalità nel senso di un rapporto di parte a tutto (Politica, 1253a 15–25), ma qui non possiamo addentrarci in questi particolari. Ciò che importa è cogliere la rottura che interviene con Hobbes nella concezione della politica, una rottura che concerne la concezione dello Stato, ma dicevamo anche del cittadino. Infatti, mentre per Hobbes il suddito, come egli lo chiama, tradendo tanto le sue aspirazioni restauratrici quanto il suo rapporto ambiguo con il modello arcaico del potere, è quel nodo logico di una totalità astratta che abbiamo sopra visto, per Aristotele il cittadino è chi può assumere cariche e funzioni (Politica, 1275a 20–25). Una definizione fattuale, dunque, tratta dall’osservazione della storia e delle costituzioni, così come accade, infine, per i nomi del potere e la tipologia che ne deriva. Infatti, regno, aristocrazia e politia, con i nomi correlati delle loro degenerazioni, tirannide, oligarchia e democrazia (Politica, 1279b 5–10), non sono i nomi che specificano le modalità della designazione, ma l’inizio di una lunga descrizione empirica di stati di cose. Ai giorni nostri, non più segnati dalle urgenze normative dei secoli originari della modernità, ma anzi caratterizzati dalla sua crisi, si può anche preferire l’approccio empirico di Aristotele, e forse questo è uno dei significati dell’odierna ripresa aristotelica nella filosofia pratica non solo continentale. Una ripresa che, per evitare conseguenze “sgradevoli” (naturalità della schiavitù e della subordinazione delle donne), è costretta ad “allargare” il concetto di natura di Aristotele, attribuendogli una componente normativa ad esso estranea (De Anna, 2006). Ma qui non possiamo soffermarci oltre su queste questioni. Ciò che importava mostrare era come, nella sua tensione verso l’astratto e il normativo, la modernità trovi nei procedimenti semiotici uno strumento essenziale di sviluppo. Ciò che, contro un Mente moderna e libertà politica 123 certo continuismo dominante nella storia della semiotica, dovrebbe forse indurre a marcare di più la differenza tra una semiotica dei moderni distinta da una semiotica degli antichi, in corrispondenza con l’emergenza del concetto di individuo autonomo. 4 . COMPIMENTO E CRISI DELLA MODERNITÀ: L’INDIVIDUO TRAGICO DI FREGE Eppure, come abbiamo visto in chiusura del precedente capitolo, al culmine della modernità, nella costruzione linguistica di Saussure, la constatazione che si impone è quello del segno non libero ma imposto, della lingua come istituzione sociale in cui non sono possibili rivoluzioni. È come la fine dell’illusione sulla forza dell’individuo e sulla cogenza delle costruzioni astratte, che legittima un ritorno del naturalismo, sebbene nelle forme scientificamente rinnovate del darwinismo. Il Novecento, però, non si rassegna a questo esito, ma anzi è segnato da tentativi di forzare la ferrea legalità naturale descritta da Saussure. All’inizio di questo libro, abbiamo accennato alle esigenze di riforma logica del linguaggio ordinario avanzate da Frege e Vailati. Alla luce di quanto abbiamo visto in Saussure, e poi in Locke e Hobbes, esse ci appaiono ora come dei tentativi, sorti nella riflessione logica ma assurti a bisogno generale, di salvare il programma della modernità, controllando l’arbitraria potenza del linguaggio. Vailati, raffigurando il linguaggio come «un’istituzione, che (come quella della proprietà) è piuttosto “da riformare” che da abolire (anche in matematica)», si proponeva con le sue analisi logiche il compito di «mettere a nudo le magagne del linguaggio ordinario, mostrando in che direzione si dovrebbe provvedere a migliorarlo e a sanarlo (precisamente come il socialismo mette a nudo i difetti dell’ordine sociale presente)» (Epistolario, p. 174). Di qui l’idea implicita del valore civile del retto ragionare, ovvero la fiducia di poter migliorare con dialoghi ben condotti tra individui autonomi l’ordine linguistico esistente. Più radicalmente Frege, quasi a voler tentare l’impossibile rivoluzione contro il segno, si proponeva di «spezzare il dominio della pa- 124 Capitolo VI rola sullo spirito umano» (Ideografia, p. 106). Una rivolta contro il linguaggio che di conseguenza andava al di là della mite filosofia civile adombrata da Vailati, e che, forse a causa di radici oggettivamente più profonde nell’originario progetto moderno, comportava un soggetto parlante sottratto alla irriflessiva spontaneità quotidiana, e ancorato a categorie di pensiero consapevolmente poste. In articulo mortis, dunque, un ritorno dell’ontologia, le cui forme e modalità sono tutte da valutare, ciò che tra l’altro faremo nel prosieguo affrontando proprio il progetto di riforma logica del linguaggio di Frege. Dire riforma del linguaggio in Frege significa dire edificazione di una logica del pensiero, cioè di una struttura simbolica verofunzionale in grado di controllare il corretto rapporto tra linguaggio e mondo. A questo scopo, Frege procede alla scomposizione del segno (Zeichen) nei suoi elementi costitutivi, e cioè il senso (Sinn) e la denotazione (Bedeutung), che sono oggettivi e esterni, e l’immagine o rappresentazione (Vorstellung), che è soggettiva e interna. Il senso di un segno corrisponde al suo apporto conoscitivo, ovvero esprime una conoscenza che è il possesso di più persone (Senso e denotazione, p. 11). La denotazione esprime il valore di verità di un segno: l’enunciato vero «Ulisse è un uomo», di contro all’enunciato falso «Ulisse è un cavallo». Se siamo protesi verso la verità, dice Frege, come ci accade quando consideriamo la denotazione di un segno, la seconda frase perde subito di interesse per noi (Senso e denotazione, p. 16). In altri termini, l’essere protesi verso la verità equivale a puntare dritto alle cose, un principio che, come vedremo appresso, non è rivendicato solo dalla logica, e dalla cui concezione dipende l’esito stesso della rifondazione ontologica. Distinta dal senso e dalla denotazione, c’è, infine, la rappresentazione, cioè l’immagine interna che ciascuno di noi collega ad un segno, la quale, fa notare Frege, «è spesso impregnata di sentimenti» (Senso e denotazione, p. 12), e dà il «tono», ovvero l’impronta soggettiva, all’asserzione (Il pensiero. Una ricerca logica, p. 51). Per questo suo carattere soggettivo, ai limiti del solipsismo (Il pensiero. Una ricerca logica, pp. 56–59), la rappresentazione è estranea al vero, il quale, come abbiamo visto, è invece il possesso di più persone. Senza questa intersoggettività del vero, la scienza non sarebbe possi- Mente moderna e libertà politica 125 bile poiché non ci potrebbe essere discussione, ovvero contraddizione tra opposte asserzioni (Il pensiero. Una ricerca logica, p. 60), le quali sono pensieri presi a carico dai soggetti linguistici. Questa distinzione tra pensieri e asserzioni, ovvero tra contenuto cognitivo e enunciazione discorsiva, ci conduce all’ontologia che sorregge l’analisi che Frege opera del segno. Frege pone che, accanto al mondo esterno degli oggetti fisici (tavoli, cavalli, uccelli, martelli e quant’altro), e al mondo interno delle rappresentazioni (impressioni sensoriali, immagini, sensazioni, desideri, ovvero le «idee»), ci sia il mondo oggettivo ma non attuale dei pensieri e dei loro sensi costituenti (ad es., il numero che, così come l’equatore o il centro di massa del sistema solare, è «oggettivo» ma «non attuale», non ha cioè alcuna influenza causale su di noi). Ora, il mondo esterno è esteriore e pubblico, in quanto tale indipendente da un possessore. Gli oggetti esterni, infatti, esistono indipendentemente dal fatto che qualcuno li possieda, desideri, ecc. Il mondo interno è, invece, interiore e privato. Le rappresentazioni o idee esistono in funzione di un solo possessore, nel senso che due individui non avranno mai due idee perfettamente uguali. Il mondo dei pensieri, infine, non è percepibile con i sensi ma è indipendente da un possessore di pensieri e le sue verità sono eterne (il teorema di Pitagora è vero per l’eternità, ed è solo asserito ogni volta che qualcuno lo dimostra). L’intersoggettività è propria solo di questo mondo, che però è tutt’altro che sicuro. Anzi, avverte Frege, il luogo della sicurezza è il mondo interno. Il mondo esterno è invece il luogo del dubbio e del possibile errore. In conclusione, il soggetto parlante che risulta da questa rifondazione logico–ontologica, è un soggetto pubblico che, con una lingua logicamente controllata, «afferra», cioè enuncia, asserisce, prende a carico pensieri. Dalla irriflessiva spontaneità linguistica siamo proiettati verso uno spazio intersoggettivo abitato da soggetti naturalmente protesi verso la verità, cioè che, tramite pensieri oggettivi e eterni, puntano dritto alle cose. Due osservazioni si possono fare, a questo punto. La prima concerne la connotazione negativa che, rispetto a Locke, Frege riserva al fatto che due individui non avranno mai due idee o rappresentazioni perfettamente uguali. Come sappiamo, Locke non era per nulla sco- 126 Capitolo VI raggiato da questa circostanza, anzi ne faceva la chiave di volta della sua costruzione politico–comunicativa. Frege, al contrario, la esorcizza, andando alla ricerca con la sua ontologia di un mondo in cui, quale garanzia di verità logico–linguistica, gli oggetti siano completamente staccati dal soggetto. Questo ci porta alla seconda osservazione. L’essere protesi verso la verità è un principio debole, se reciso dalla sua costruzione genetica. Come ha mostrato Piaget, infatti, non è l’attività intellettuale iniziale che ricerca attivamente il vero, ma è l’organismo che, costretto dalla resistenza delle cose e delle persone, seleziona i suoi modi di procedere (Piaget, 1932, p. 329). Ecco perché la verità, prima di essere tale, è solo un’opinione valida cui ci si conforma per rispetto della fonte da cui promana (Piaget, 1932, p. 331). La genesi, dunque, benché cognitivamente opaca, è ontologicamente costruttiva, e ciò spiega perché Lukács, la cui ontologia nel capitolo quarto abbiamo confrontato con quella di Peirce, inserisca in una cornice genetica l’assioma ontologico secondo il quale «l’uomo è un essere che risponde». Dalla mancata considerazione di questo dinamismo, ovvero del ruolo causale della genesi, che si manifesta nella centralità sociocognitiva della presa di coscienza (Piaget, 1974), deriva il carattere disincarnato del soggetto linguistico rimesso a nuovo da Frege, pura macchina logico–enunciativa, tuttavia angosciato dal pericolo che l’apertura al mondo esterno fa incombere su di lui: In effetti, con il passo nel quale mi guadagno il mondo che mi circonda mi espongo al rischio dell’errore. E qui mi accorgo di un’altra differenza tra il mondo esterno e il mondo interno. Per me non può esserci alcun dubbio che ho l’impressione visiva del verde; ma non è altrettanto certo che io veda una foglia di tiglio. Contrariamente a opinioni assai diffuse troviamo così nel mondo interno la sicurezza, mentre il dubbio non ci abbandona mai completamente nelle nostre peregrinazioni nel mondo esterno. Ciò nonostante anche qui la probabilità è in molti casi appena distinguibile dalla certezza, cosicché possiamo azzardarci ad avanzare dei giudizi circa le cose del mondo esterno (Il pensiero. Una ricerca logica, p. 67). Incertezza, dubbio, errore, una condizione tragica, quella del soggetto linguistico in Frege, determinata da una generale limitatezza dell’essere, cui Frege allude in chiusura del brano sopra citato: «E Mente moderna e libertà politica 127 dobbiamo azzardarci, anche a rischio dell’errore, se non vogliamo soccombere a pericoli maggiori» (ibidem). Si può cogliere qui un’assonanza con «la scelta, pena la rovina», l’altro assioma che Lukács pone a base della sua ontologia storico–genetica. Ma la cifra di Frege è piuttosto quella classificatorio–formale che, almeno all’apparenza, sembra avvicinarlo più a Peirce. Sappiamo, infatti, che in Peirce la Primità comprende i caratteri positivi interni del soggetto in sé (l’essere in sé); la Secondità, le azioni brute di un soggetto su un altro senza riguardo alla legge o ad alcun altro soggetto (essere relativo a o di reazione con); la Terzità, l’influenza mentale di un soggetto su un altro relativamente a un terzo (mediazione, per mezzo della quale un primo e un secondo sono posti in relazione). Come si vede, tanto Frege divide (mondo interno dal mondo esterno) e sottrae (la rappresentazione dal complesso del segno), quanto Peirce integra e somma. Peirce, infatti, non è interessato ad un soggetto disincarnato afferratore di pensieri eterni. Al contrario, gli interessa vedere come, grazie ai segni, esseri in sé, in tutta la loro “pesantezza” ontologica, entrano in relazione tra loro. E la modalità è quella di porre scopi tramite segni. Il segno come regolatore dell’azione intelligente. Differenze di metodo, dunque, tra Frege e Peirce, ma anche differenze quanto all’esito finale. Da un lato, infatti, con Frege abbiamo la costituzione di uno spazio logico–enunciativo che, con i suoi soggetti disincarnati, prefigura paesaggi cibernetici, se non fosse per quel residuo della scelta pena la rovina, che ritorna come un sintomo angoscioso e non ulteriormente analizzabile; dall’altro, con Peirce abbiamo l’assunzione della pienezza ontologica dell’essere semiotico relazionale, ma in una direzione fanciullescamente agapica che dissolve il portato tragico della limitatezza dell’essere. Più in Frege che in Peirce, dunque, si avverte la compiutezza del tema moderno dell’emergenza dell’individuo, annunciato da Locke. Un tema, tuttavia, che a causa della mutilante rifondazione ontologica da Frege stesso operata, appare esposto a derive e metamorfosi impreviste e forse indesiderate. 128 Capitolo VI Tutto quello che non è pensiero, afferma Frege, è poesia (Il pensiero. Una ricerca logica, p. 51). Appena qualche decennio dopo, Wittgenstein riformula quest’opposizione, sostituendo alla poesia l’etica, e affermando che tutto ciò che non è logicamente pensabile, è mistica, salvo poi recuperare l’impegno etico nei giochi autofondanti (Livret, 2006). Questa impossibilità dei giochi di uscire da se stessi per giustificarsi, con l’implicita violenza verso il molteplice e il differente che ciò comporta, non è il solo sintomo delle amputazioni che una pura rifondazione logico–ontologica può arrecare all’essere. L’opposizione di Frege tra pensiero e poesia appare esposta, infatti, all’autonoma azione di ritorno della poesia stessa, la quale non si fa così facilmente ridurre ad inerte ricettacolo di tutto ciò che non è logico. Emblematica, da questo punto di vista, la rivolta estrema contro il giogo dell’arbitrarietà linguistica teorizzata da Samuel Beckett (1906–1989), con accenti, per somma ironia, molto simili a quelli di Frege, come si può vedere in questa lettera dello stesso Beckett all’amico Axel Kaun: mi diventa sempre più difficile, per non dire insensato, scrivere nell’inglese “ufficiale”. E sempre più la mia lingua mi appare come un velo che bisogna lacerare per giungere alle cose (o al Nulla) che dietro si nascondono. La grammatica e lo stile: sono divenuti caduchi come un costume da bagno dell’epoca Biedermaier o come l’imperturbabilità di un gentleman. Una larva. Speriamo che venga il tempo, e già è giunto, grazie al cielo, almeno in certi circoli, in cui il miglior uso della lingua sarà con la più alta bravura mal usarla. E poiché non si può eliminarla d’un tratto, bisogna almeno nulla trascurare che possa contribuire al suo discredito. Trapanare in essa un buco dopo l’altro, finché ciò che si rannicchia dietro — che sia qualcosa o nulla — cominci a trasudare, non posso rappresentarmi compito più alto per uno scrittore d’oggi (Beckett, 1937). Anche qui, come in Frege, opera l’attrazione per le cose, per gli oggetti, cui giungere senza mediazioni soggettive che non sia, nel caso del letterato, la sua singolarità universale. Lacerare il velo della lingua, infatti, è l’equivalente dell’essere spontaneamente protesi alla verità con cui spezziamo il dominio del linguaggio. Ma, ecco l’inatteso e forse indesiderato “spostamento” di Beckett: lacerare il velo della lingua è un essere protesi che può anche condurre verso il Mente moderna e libertà politica 129 Nulla. La prospettiva di un ordine logico eternamente perfezionabile si tramuta nel rischio estremo e imprevisto della dissolvenza dell’essere. La logica, che nella grande mole dell’essere si era orgogliosamente ritagliata il suo mondo di pensieri puri, è attratta nella medesima cattiva compagnia di quella poesia, sub specie letteratura, che il poeta vuole emendare dei suoi ritardi rispetto alla capacità sviluppata dalla musica e dalla pittura di puntare dritto alle cose: O deve la letteratura rimanere sola su un vecchio cammino disertato dalla musica e dalla pittura? C’è forse qualcosa di così sacro da paralizzare nella “innaturalità” della parola, che non si troverebbe negli elementi delle altre arti? C’è mai qualche fondamento per cui questa materialità terribilmente arbitraria della superficie della parola non possa essere dissolta, come ad esempio la superficie del suono, inghiottita da enormi pause nere, nella 7° Sinfonia di Beethoven, che fa sì che per interi movimenti non possiamo nient’altro percepire che un vertiginoso abisso di silenzi tesi a annodare, sul senza fondo,un sentiero di corde sonore? (ibidem). Questi tormentosi interrogativi dell’artista intorno alla parola sembrano ricollegarsi a quello saussuriano: perché l’immodificabile eredità del segno? Ma non è più il tempo della rasserenante indagine che un nuovo naturalismo darwinianamente istruito può assicurare, né a Beckett basta la rivolta logica contro il linguaggio: «Sul cammino dunque di una desiderabile Letteratura della non–parola, qualsiasi forma di ironia nominalista può davvero essere uno stadio necessario […] Un precipite distruggere nomi, in nome della bellezza» (ibidem). 5 . L ’ IDEOLOGIA CONTEMPORANEA E LA RICOSTRUZIONE DELL’ESSERE SOCIALE La gnoseologia di Locke, da cui siamo partiti, esprimeva la fiducia nel potere costruttivo della conoscenza che, grazie al circolo semioetico di astrazione e di autonomia dell’individuo, diveniva una potenza sociale per la quale si sarebbero man mano aperte possibili- 130 Capitolo VI tà, impensate per coloro che per primi ne esploravano il territorio, di sviluppi logici, metodologici, cognitivi, cibernetico–informatici. Alla fine del percorso, mentre la conoscenza appare lanciata verso le ulteriori mete della realtà virtuale, delle reti cognitive, dell’economia informazionale, ritroviamo in Frege il bisogno di ontologia che Locke si era lasciato alle spalle. Ma tale bisogno assume quasi la forma di un ritorno del rimosso, soddisfatto con una formazione reattiva, qual è l’ontologia dei tre regni, in cui le basi del rimosso non vengono raggiunte, e il bisogno risorge in forme più esacerbate e angosciose, sino all’ideale della distruzione estetica del linguaggio. Questo conflitto con l’interezza dell’essere, che segna la modernità compiuta, comprese le sue propaggini nichilistiche, lo si ritrova nella proclamazione, appunto, del carattere di sintomo del «reale», che preparerebbe il prossimo «trionfo della religione» come cura per l’individuo di cui si diagnostica lo stato patologico: «l’essere parlante è un animale malato » (Lacan, 1974/2006, p. 105). E lo si ritrova quando, a proposito del contratto sociale hobbesiano, non si parla più di operazione di designazione, ma di «alienazione»: «il contratto sociale rappresentava la parte di sovranità che il cittadino aliena a beneficio dello Stato ma, ai giorni nostri, sarebbe piuttosto la parte alienata di se stesso di cui il cittadino si sbarazza per conservare la propria sovranità» (Baudrillard, 2004, p. 143). Non più solo, dunque, la malattia dell’individuo, ma dell’intero corpo sociale, con le sue molteplici conseguenze: la designazione hobbesiana diventa un’espulsione psicotica del male che è nell’individuo; il rappresentante, cioè l’élite politica, non è più una entità astratta, risultato di un’operazione analitica, ma il capro espiatorio su cui, come in un rito magico, è possibile concentrare il male di cui ciascuno è portatore; la politica, infine, diventa la totalità del Male e della corruzione. Non mancano certo le cause che, nello stesso programma moderno di libertà dell’individuo, hanno potuto condurre a questa sfiducia. Nel nostro percorso, abbiamo intravisto due grandi questioni la cui sistemazione già in Locke e in Hobbes appariva precaria: la questione del lavoro e quella del comando–obbedienza. Mente moderna e libertà politica 131 Quanto alla prima questione, abbiamo visto che in Locke il lavoro, in quanto intelligenza storicamente situata, è condizione della libertà dell’individuo, ma anche di una sua nuova servitù nella forma del lavoro salariato. Abbiamo anche ricordato che l’economia politica classica, soprattutto nei suoi svolgimenti critici, ha descritto le condizioni di tale servitù, sino all’analisi del general intellect, con cui si presagiscono gli ulteriori sviluppi cognitivi del capitale, per i quali si parla oggi di società informazionale (Castells, 1995–2000). D’altra parte, a queste trasformazioni interne delle strutture finalistiche autovalorizzanti, si accompagna l’affermarsi puntiforme di una sfera di vita sociale in cui la merce, nella veste di brand o marchio (Klein, 2000), è il simbolo stesso, la cui produzione tuttavia dà luogo paradossalmente ad un ritorno di lavoro servile quando non schiavistico. Queste antinomie del lavoro, preso da un lato in modi di produzione sempre più autovalorizzanti, dall’altro in regressioni pre–moderne funzionali ad un moderno sempre più stilizzato, ne corrodono il nesso originario con la libertà dell’individuo, dal quale dovrebbe trarre slancio la mente sociale. Occorre risalire, allora, alla struttura antropologica–evolutiva del lavoro, di cui abbiamo trattato nel capitolo quarto, per scorgere le condizioni di una possibile rimessa in moto del circolo tra astrazione e lavoro. Ora, ciò che tale struttura antropologica–evolutiva mostra è che la fatica del lavoro come mezzo per soddisfare bisogni è naturale nel senso che è successiva all’esplosione dell’istinto. Nell’istinto, lavoro e bisogno sono un tutt’uno. La scissione che l’esplosione dell’istinto provoca, giustifica l’instaurarsi della morale nella figura del Dovere. Questa condizione del lavoro, scisso dal bisogno e sottomesso alla prescrizione, non è dunque atemporale e assoluta, ma costituisce un momento della storia evolutiva. Restando all’interno di tale storia, ciò che si impone, allora, è la ricerca dei modi per pervenire alla ricomposizione razionale dei mezzi (lavoro) con i fini (bisogno), già spontaneamente presente nell’istinto, per farli ridiventare momenti interni e non più scissi dell’agire umano. Una ricomposizione, ovviamente, che non potrebbe più avere la rigidità e la specializzazione dell’istinto, ma che si realizzerebbe su di un piano di infinita combinabilità (infiniti mezzi per infiniti fini), e che soprattutto costituirebbe non una destinazione finale specularmente opposta alla condizio- 132 Capitolo VI ne originaria, ma una sorta di ideale regolativo verso cui far tendere incessantemente le situazioni di fatto. Quanto all’altra questione, quella del comando–obbedienza, abbiamo visto che in Hobbes convivono, quasi senza soluzione di continuità, il modello arcaico del potere come forza e terrore, e quello moderno del potere come totalità logica prodotta dall’operazione di designazione. Ma se rileggiamo il testo di Hobbes, vediamo che, in effetti, il secondo modello è, se non un modo indiretto per ottenere lo scopo raggiunto con il primo, certo come una trasfigurazione del primo. Da questo punto di vista, l’operazione di designazione è certamente la “tecnologia” che la semiotica mette a disposizione del nascente pensiero moderno in lotta contro le aderenze sostanzialistiche della vecchia mente sociale. Tuttavia, in questa ricerca dell’astratto l’effetto conseguito è, alla fine, di occultare il dato reale, cioè la salvaguardia del carattere dicotomico e asimmetrico del rapporto politico, fondato sul blocco emotivo della paura. La tesi “materialistica” classica vuole che la mancata integrazione del dato affettivo all’interno della nuova totalità cognitiva moderna sia da attribuire alla struttura degli interessi, in cui la paura stessa continua a svolgere un ruolo cruciale, sotto forma di minaccia “legale” a difesa di interessi privati. La totalità logica di Hobbes “processerebbe”, insomma, una “materialità” che ne costituisce un ostacolo evolutivo. Fondata o meno che sia tale tesi, fra gli esiti di quella mancata integrazione c’è una “ideologia del presente” nella quale, al posto dell’individuo che liberamente aderisce alla libertà regolata di cui parla Locke, si pongono strutture, totalità, organismi che si autoregolano secondo le leggi di un olismo tanto equivoco quanto pervasivo: il linguaggio, il mercato, l’Impero, la società informazionale, la natura. Tali strutture sarebbero portatrici di libertà poiché l’individuo non sarebbe più sottoposto a costrizioni normative di sorta. Da un lato, infatti, nella società informazionale, egli potrebbe sviluppare indefinitamente la propria creatività, anche se poi gli stessi teorici di tale modello di società non possono far a meno di constatare che, nei fatti, l’informazionalismo è principalmente un mezzo di ribadire e rafforzare la subalternità del lavoro (Castells, 1995–2000, I. cap. IV). Dall’altro, con l’Impero, l’individuo, inglobato nella nuova soggettività della moltitudine, che all’Impero si oppone, avrebbe la possibi- Mente moderna e libertà politica 133 lità, trascendendolo con l’esodo, di pervenire ad una nuova, più grande, definitiva libertà (Hardt, Negri, 2000; 2004). Tuttavia, il punto debole di tale ideologia contemporanea, a volte irta di statistiche, a volte tinteggiata di tenui colori new age, è che le strutture, totalità, organismi autoregolantesi, nel loro fare a meno dell’individuo, lo riducono di nuovo, sì, a moltitudine, ma nel senso di significato “cieco” che abbiamo sopra visto. Nell’Impero, infatti, la possibilità di «andarsene» è illusoria, poiché la moltitudine non esiste senza l’Impero, in quanto è l’Impero che la produce, destrutturando l’individuo autonomo (Aqueci, 2003). E quanto alla società informazionale, che i suoi teorici vorrebbero attuata secondo il modello ideale dell’infinita creatività dell’individuo, essa, più che un ideale regolativo, è solo un’illusione, come essi stessi sono costretti ad ammettere. Di fronte a tutto ciò, piuttosto che abbandonare il programma moderno di libertà dell’individuo, è meglio, allora, saggiarne la consistenza in una direzione resa bene da una osservazione di Antonio Gramsci (1891–1937) quando, pur accettando il dato di fatto «tecnico» della divisione, anche all’interno di un gruppo sociale omogeneo, in governanti e governati, afferma che, nella formazione dei dirigenti, il punto da cui partire deve essere il seguente: Si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del governo umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni? (Quaderni del carcere, vol. III, p. 1752). A prima vista, può sembrare che la direzione qui proposta sia quella di una esclusiva valorizzazione della società civile, che diverrebbe così il luogo dove le varie identità crescono e competono, lasciando al politico il ruolo marginale di rappresentare gli esclusi. È questo l’equivoco in cui cade chi, come qualche rappresentante dei cultural studies (Chatterjee, 2006), cercando di uscire da un’ottica puramente occidentale, propone un modello della politica adatto alle società un tempo colonizzate, e dove oggi è forte la resistenza, condotta in nome dell’identità, all’innesco di processi di astrazione so- 134 Capitolo VI ciale. Ma un tale modello sarebbe in realtà solo un ritorno mascherato allo stato di natura hobbesiano, selva di identità inconciliabili, contro cui poco potrebbe un Leviatano semplice difensore di chi non ha identità forti da far valere. Alla domanda di Gramsci, invece, si può rispondere imboccando una differente direzione, che egli stesso del resto autoironicamente suggerisce con il mito rinascimentale del Leonardo da Vinci di massa: L’uomo moderno dovrebbe essere una sintesi di quelli che vengono… ipostatizzati come caratteri nazionali: l’ingegnere americano, il filosofo tedesco, il politico francese, ricreando, per dir così, l’uomo italiano del Rinascimento, il tipo moderno di Leonardo da Vinci divenuto uomo–massa o uomo collettivo pur mantenendo la sua forte personalità e originalità individuale. Una cosa da nulla, come vedi (Gramsci, 1965, p. 654. Lettera alla moglie Iulca, del primo agosto 1932). La visione, cioè, per quanto ardua, di uno sviluppo dell’astrazione sociale, in grado di vincere le vischiosità della tradizione e delle identità. Dunque, non un ritorno al significato “cieco” dello stato di natura, comunque giustificato, né un ritorno alla libertà arbitraria, e perciò totalitaria, del “significante”, bensì la valorizzazione politica integrale della mobilità del segno, tentata da Hobbes, e infrantasi sugli scogli di una emotività prigioniera della dura materialità degli interessi. Conclusione Il nostro percorso, conclusosi sulla necessità di una ripresa della matrice della mente moderna, alla quale siamo risaliti seguendo le tracce semiotiche, si è aperto con uno sguardo sulle origini della ragione analitica, che ci ha mostrato la speranza temperata di un riformismo linguistico il quale, muovendo dall’esigenza conoscitiva di distinguere e verificare, mirava ad affermare il valore pratico del retto ragionare. Ma abbiamo visto poi che presto subentra lo smarrimento in un programma che, nato per spezzare il dominio della parola sullo spirito umano, confluisce e diventa uno dei sintomi della tragedia dell’individuo moderno. La passione per la ragione critica si spegne infine nel gelo analitico di una filosofia del linguaggio incapace di discernere il fondamento etico del discorso. Infatti, con le massime conversazionali di Grice (1913–1988) declina l’impegno di tutto l’individuo nel dialogo, dal cui esercizio invece possono pur scaturire nuovi assetti sociali (Aqueci, 1995a), e si afferma la messa in scena strategica della conversazione (Aqueci, 1995b). Gran parte del secolo poi è segnato da uno scontro che, per ragioni politiche, vede schierate su fronti contrapposti saggezze conoscitive i cui presupposti giustificherebbero più una confluenza che un conflitto. A questa lunga guerra intestina, che prostra il pensiero critico, nell’ultimo scorcio del millennio subentra la risorgenza del pensiero conformistico, lo sgretolamento dei livelli normativi, il misticismo dei singoli riuniti non più in corpi politici ma nelle nuove mol135 136 Conclusione titudini, quelle virtuali, che vagano nelle reti informatiche, autoriproducendo i propri demoni con tecnologie prêt–à–porter, e quelle che, in un arcaismo di ritorno, accrescono l’audience dei pulpiti tradizionali e delle televisioni globali. Di fronte a questo paesaggio di patti sociali falliti e di stati di natura qui e là risorgenti, le sorti della ragione sembrano sempre più affidate al crescere delle conoscenze e delle metodologie scientifiche, le quali però non sono né neutre, né immediatamente disponibili. La scienza si presenta come una potenza cognitiva dallo sviluppo casuale e illimitato. Questo sviluppo di tipo darwiniano non è una freccia nel vuoto, ma si lega alle strutture finalistiche autovalorizzanti, che vedono così accentuata la loro tendenza a misurare e manipolare l’esistenza degli individui. A questo aspetto già rilevato in passato, si aggiunge quello più recente delle possibili e diverse manipolazioni dei processi vitali. Una novità che investe tanto l’individuo quanto la specie, come dimostrano sia le dispute bioetiche sul controllo della nascita e della morte, sia quelle sulla sostenibilità ecologica dello sviluppo. Se l’evoluzione della scienza può dissolvere dilemmi e svelare direzioni, essa può anche distorcere le finalità dei singoli e della totalità sociale. L’evoluzione è una sintassi il cui senso è prodotto dal comportamento dell’individuo. Alla scienza non si possono dunque delegare gli scopi, tanto quanto l’espressività non può essere delegata alla struttura della lingua. C’è quindi la necessità di un’analisi categoriale permanente, cioè di una critica ontologica che controlli gli scopi che la scienza con il suo stesso sviluppo rende possibile raggiungere, e con i quali si alimenta il processo finalistico dell’esistenza. L’ontologia diventa così, non più un bisogno di ordine metafisico, religioso o secolare che sia, né, come più recentemente, un supporto ad una conoscenza tecnologicamente omogeneizzata (Casati, 2003), ma il luogo del decentramento cognitivo per una visione prospettica dei processi sociali finalistici. Un luogo, tuttavia, non esterno, riservato agli “esperti”, bensì un’istanza politica incorporata nei processi finalistici stessi, e volta ad accrescere la libertà dell’individuo. Una analisi categoriale di questo tipo è oggi svolta dal cosiddetto “dibattito pubblico”, la cui conduzione, come è stato proposto, do- Conclusione 137 vrebbe essere assicurata da una «metafisica “pubblica”», in grado sia di riconoscere, senza pretese prescrittive, la pluralità delle opzioni teoriche in campo, sia di riflettere sui propri strumenti linguistico–discorsivi (Maffettone, 2001). Una tale prospettiva ha il merito di respingere il tentativo postmoderno di liquidare la nozione, per quanto difficile, di verità. Tuttavia, non si può non riconoscere che, al momento attuale, il “dibattito pubblico” è più un’arena di dispute che trasfigurano antagonismi profondi (Aqueci, 2006), che il luogo in cui tradurre criticamente posizioni particolari in consapevolezze universali. Ciò dipende probabilmente dal fatto che il distacco degli individui dalle matrici ancestrali, che un integrale controllo categoriale richiederebbe, si presenta attualmente come una richiesta cognitiva troppo onerosa. D’altra parte, la posizione “post–illuministica”, intesa come una procedura nella quale le varie concezioni del mondo, fra le quali quella di derivazione scientifica, convivono in ascolto reciproco, autoriflessivamente coscienti dei propri limiti, viene presentata come l’esito finale di una ragione colpevolmente auto–concepitasi come potenza (Habermas, 2005). In una visione meno contrita, e che tenga conto realisticamente del peso del controllo categoriale, tale posizione può essere vista come quella tatticamente più adatta a preservare le potenzialità evolutive di una ragione decentrata da luoghi e storie particolari, e che, arginata la paura, voglia tornare a dettare nuove norme in grado di superare l’odierna eterogeneità cognitiva. In quest’ottica, è cruciale chiarire se l’apprendimento dei principi procedurali è indipendente dall’apprendimento di una visione razionale del mondo, se cioè la forma del dialogo ragionevole è indipendente dai contenuti di una visione laica e immanente, altrettanto quanto, del resto, può esserlo da una visione religiosa fondata sull’amore del prossimo. È qui che può acquistare rilievo la struttura del rispetto, messa in evidenza dall’indagine semioetica, le cui trasformazioni conducono all’apprendimento formale della norma di cooperazione, che condiziona performativamente la vita dell’individuo, in virtù del legame con l’affettività originaria. Tale apprendimento coordina entità originariamente eterogenee: chi crea e può dare ordini; chi è creato e deve riceverli. Il rispetto u- 138 Conclusione nilaterale valorizza la capacità di obbedire, esemplificata dalla leggenda biblico–cabbalista del Golem, che il futurismo novecentesco ha rivisitato con il mito della Macchina Universale. Ma il Golem, creato dalla parola rituale magica, è passivamente muto (Idel, 1990), mentre la parola mediatrice della madre introduce attivamente l’infante nel circuito discorsivo della norma. D’altra parte, anche i primi informatici alle prese con la mente artificiale che stavano creando, avevano già chiaro che la disciplina da sola non basta a produrre ragione, e che è richiesta in aggiunta ciò che chiamavano iniziativa (Turing, 1948). Ora, di iniziativa dà prova con la sua resistenza colui che è stato creato, imponendo per così dire al creatore il rispetto reciproco, che deriva dalla sua crescente autonomia. Se l’infante all’inizio appare un tenero Golem, o una malleabile Macchina Univerale, che alcuni addirittura vorrebbero determinare geneticamente, con tale resistenza, in qualche modo attesa da chi lo ha affettuosamente creato, egli dà vita ad una dialettica della libertà fondata sull’irriducibilità di chi è posto agli schemi di chi pone. Tale irriducibilità non è un passivo resistere, bensì un attivo rispondere a delle alternative che si traducono in “scelte, pena la rovina”. Il rispetto rimanda, dunque, al dato ontologico di fondo, cioè all’essere che per adattarsi pone scopi. In questa completa trasparenza di ciò che l’essere è, risalta la scelta di base, già espressa nel mito greco di Hestia ed Hermes, tra la quiete del conosciuto, e la sfida dell’ignoto, tra il ripiegare sull’identico e l’aprirsi al molteplice, tra lo stato di fatto e l’ideale regolativo che guida la prassi. La scelta di base, nel crescere su se stessa dentro una forma orientata alla reciprocità, resta dunque sempre aperta a quel kantiano regno dei fini in cui tutti, essendo legislatori, sono capi, ovvero capaci di controllo categoriale. L’apprendimento formale della norma di reciprocità, allora, è solo il momento “liberale” di un’evoluzione che nel suo stato presente è “post–illuministica”, ma la cui storia non è conclusa, e il cui orizzonte, al suo estremo limite, mai esauribile senza per questo essere un miraggio, è quello nel quale non c’è più l’ansia di un senso da ricercare: «Quando egli considerando la pluralità de’ mondi perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile Conclusione 139 dell’esistenza, allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente». 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