Teatro Municipale Valli
6 marzo 2012, ore 20
Mahler Chamber Orchestra
Martha Argerich, pianoforte
Claudio Abbado, direttore
Ludwig van Beethoven
Egmont, Ouverture in fa minore op. 84
Wolfgang Amadeus Mozart
Concerto per pianoforte e orchestra n. 25 in do maggiore K 503
Franz Schubert
Sinfonia n. 4 in do minore ‘Tragica’ D 417
Edizioni del Teatro Municipale Valli
Fondazione I Teatri di Reggio Emilia 2012
Area Comunicazione
L’editore si dichiara pienamente disponibile a regolare le eventuali spettanze relative a diritti di
riproduzione per le immagini e i testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte.
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Programma
Ludwig van Beethoven
Egmont, Ouverture in fa minore op. 84
Sostenuto ma non troppo - Allegro - Allegro con brio
Wolfgang Amadeus Mozart
Concerto per pianoforte e orchestra n. 25 in do maggiore K 503
Allegro maestoso
Andante
Allegretto
(intervallo)
Franz Schubert
Sinfonia n. 4 in do minore ‘Tragica’ D 417
Adagio molto - Allegro vivace
Andante
Menuetto (Allegro vivace)
Allegro
Mahler Chamber Orchestra
Martha Argerich pianoforte
Claudio Abbado direttore
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Gli interpreti
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Claudio Abbado
Claudio Abbado è stato direttore musicale del Teatro alla Scala di
Milano dal 1968 al 1986. Nel 1987 è stato nominato Generalmusikdirektor della città di Vienna. Nel 1988 ha fondato il Festival
Wien Modern, manifestazione dedicata alla musica e all’arte contemporanea.
Ha diretto la Berliner Philharmonisches Orchester per la prima
volta nel 1966 e nel 1989 l’Orchestra lo ha eletto direttore artistico. Nel 1994 è stato nominato direttore artistico del Festival di
Pasqua di Salisburgo. Ad arricchimento delle produzioni liriche
e dei concerti sinfonici, ha integrato questa manifestazione con
un ciclo di musica da camera contemporanea, un premio per una
composizione musicale e un premio per un’opera letteraria.
Claudio Abbado ha sempre sostenuto i giovani talenti. Nel 1978
ha fondato la European Community Youth Orchestra, nel 1981 la
Chamber Orchestra of Europe e nel 1986 la Gustav Mahler Jugendorchester dalla quale si è costituita la Mahler Chamber Orchestra.
Dal 2003 è impegnato con la nuova Orchestra del Festival di
Lucerna; la formazione è composta dalla Mahler Chamber Orchestra, da alcune prime parti dei Berliner e dei Wiener Philharmoniker, da solisti di fama internazionale, dall’Ensemble Sabine
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Meyer, dall’Hagen Quartett e da elementi dell’Alban Berg Quartett. Nasce poi a Bologna nel 2004 l’Orchestra Mozart, di cui è
direttore musicale ed artistico.
A Caracas e a l’Havana, nel 2005, Abbado inizia a fare musica con
l’Orquesta Simón Bolívar, la cui attività si inserisce nella grandiosa iniziativa portata avanti da trent’anni da José Antonio Abreu.
Vi sono coinvolti quattrocentomila giovani musicisti, molti dei
quali provenienti dal mondo poverissimo dei barrios, a cui è stata
data la possibilità di ricevere degli strumenti musicali al fine di
conseguire un’adeguata formazione.
Fra le incisioni discografiche di Claudio Abbado ricordiamo l’integrale delle opere sinfoniche di Beethoven, Schubert, Mendelssohn, Brahms, Čajkovskij, Mahler, Ravel, Prokof’ev, e le principali opere liriche di Mozart, Rossini, Verdi e Wagner. Nel 2000
è uscita l’edizione integrale delle Sinfonie di Beethoven con i
Berliner Philharmoniker, acclamata quanto la serie di esecuzioni
dal vivo delle Sinfonie e dei Concerti per pianoforte di Beethoven tenutesi a Roma e a Vienna nel febbraio 2001, realizzate in
DVD. Le sue incisioni hanno ricevuto i premi più importanti: International Grammy Award, Grand Prix International du Disque,
Diapason d’or, Record Academy Prize, Stella d’oro, Orphée d’or e
Grand Prix de la Nouvelle Académie.
In Italia e all’estero Claudio Abbado ha ricevuto i premi e riconoscimenti più prestigiosi.
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Martha Argerich
Nata a Buenos Aires, Martha Argerich studia pianoforte dall’età
di cinque anni con Vincenzo Scaramuzza. Considerata un’enfant
prodige, ben presto inizia la carriera concertistica. Nel 1955 si
reca in Europa, dove studia a Londra, Vienna e in Svizzera con
Seidlhofer, Gulda, Magaloff, Madame Lipatti e Stefan Askenase.
Nel 1957 vince i primi premi dei concorsi di Bolzano e di Ginevra,
nel 1965 il concorso Chopin a Varsavia. Da allora la sua carriera
è stata un susseguirsi di trionfi.
Nonostante il suo temperamento la spinga a prediligere le opere
del virtuosismo del XIX e XX secolo, il suo repertorio è particolarmente ampio: comprende sia Bach che Bartók, Beethoven,
Schumann, Chopin, Liszt, Debussy, Ravel, Franck, Prokof’ev,
Stravinskij, Šostakovič, Čajkovskij, Messiaen.
Invitata dalle più prestigiose orchestre e dai principali festival del
mondo, Martha Argerich privilegia la musica da camera. “L’accordo interno che si crea in un ensemble – sostiene – è molto
stimolante per me”. Suona e registra regolarmente con i pianisti Nelson Freire, Alexandre Rabinovitch, il violoncellista Misha
Maisky e il violinista Gidon Kremer. Numerosi suoi concerti sono
stati trasmessi dalle televisioni di tutto il mondo.
Nel 1996 Martha Argerich viene insignita del titolo di Officier des
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foto Adriano Heitmann
Arts et des Lettres dal governo francese; nel 1997 le viene conferita l’onorificenza dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma, nel
1998 è nominata direttore artistico del Beppu Festival in Giappone. Nel 1999, a Buenos Aires, dà vita al Concorso internazionale per pianoforte “Martha Argerich” e nel 2002 crea il “Progetto
Martha Argerich” a Lugano per promuovere giovani artisti. Nel
2004 è nominata Commandeur de l’Ordre des Arts et des Lettres
in Francia e nel 2005 riceve l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine del Sol Levante dall’Imperatore del Giappone e il prestigioso
Praemium Imperiale dalla Japan Arts Association.
Martha Argerich ha registrato per EMI, Sony, Philips, Teldec e
DGG. Sono in uscita le incisioni del Concerto di Schumann e del
Triplo Concerto di Beethoven con Alexandre Rabinovitch (esecuzione live a Lugano) e dei Concerti n. 1, n. 2 e n. 3 per pianoforte
e orchestra di Beethoven con Claudio Abbado. Nel 2000 Martha
Argerich ottiene il Grammy Award per i Concerti di Bartók e Prokof’ev e il Gramophon – Artist of the Year, Best Piano Concerto
Recording of the Year per le incisioni di Chopin, tutte realizzate
con EMI; le è inoltre stato assegnato il premio Choc Le Monde de
la Musique per il suo recital di Amsterdam, e il Künstler des Jahres Deutscher Schallplatten Kritik. Nel 2001 la rivista Musical
America designa Martha Argerich “Musician of the Year”.
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foto Deniz Saylan
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Mahler Chamber Orchestra
La Mahler Chamber Orchestra è un’orchestra internazionale
itinerante che viaggia all’incirca duecento giorni all’anno. L’ensemble si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica nel
1997, pochi mesi dopo la sua fondazione, grazie a una produzione
del Don Giovanni di Mozart diretta da Claudio Abbado al Festival di Aix-en-Provence. Da allora la MCO si è esibita in tutto il
mondo nelle più importanti sale da concerto e in festival prestigiosi dal Polo Nord al Mar Rosso. Quando l’orchestra ha fatto il
suo debutto al Teatro Real di Madrid con il Fidelio di Beethoven
diretto da Claudio Abbado, Le Monde l’ha definita “la migliore
orchestra del mondo”.
Nella primavera del 2011 la MCO è stata nominata Ambasciatrice
Culturale dell’Unione Europea. Grazie all’origine plurinazionale dei suoi membri e all’internazionale raggio d’azione delle sue
attività, la MCO promuove il dialogo interculturale e la mobilità
delle arti e della musica attraverso le frontiere. Con i suoi versatili progetti educativi l’orchestra è anche sempre più coinvolta sul
piano sociale e pedagogico.
Accanto al fondatore Claudio Abbado, Daniel Harding è stata
una delle principali figure di riferimento dell’orchestra. Nominato Principale direttore ospite a 22 anni, nel 2003 è stato eletto
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Direttore musicale e nel 2008 ha assunto il titolo di Direttore
principale. Nell’estate del 2011 l’orchestra ha deciso all’unanimità di conferirgli a vita il titolo di Conductor Laureate.
I 45 membri della MCO provengono da 20 paesi diversi e vivono
in tutta Europa. Oltre al suo nucleo fisso, la MCO si avvale anche
di una rete di eccellenti musicisti, accuratamente selezionati e
formati, che si uniscono all’orchestra in base alle necessità dei
diversi progetti che la vedono coinvolta.
Economicamente indipendente, la MCO si finanzia principalmente grazie agli incassi dei concerti e con l’aiuto di mecenati e
sponsor. La MCO ha una struttura organizzativa democratica ed
è governata dal consiglio dell’orchestra in collaborazione con la
direzione, che ha la sua sede a Berlino.
Il nome della Mahler Chamber Orchestra risale alle origini dell’ensemble: la MCO fu fondata da membri della Gustav Mahler Jugendorchester (GMJO) che, raggiunti i limiti d’età dell’orchestra
giovanile, desideravano continuare a suonare insieme. Fu così
che, con il sostegno del loro mentore musicale Claudio Abbado,
crearono l’orchestra. La parola “chamber” nel nome dell’ensemble si riferisce più alla sensibilità cameristica che ne caratterizza
i musicisti che alle dimensioni dell’orchestra.
Durante la stagione 2011-12 la MCO suona programmi sinfonici,
opere e musica da camera in 41 città di 14 diversi paesi. I partner
più importanti di questa stagione, accanto a Claudio Abbado e
Daniel Harding, sono i direttori John Eliot Gardiner, Sir Roger
Norrington e Vladimir Jurowski – tutti e tre per la prima volta sul
podio della MCO –, Daniele Gatti, Esa-Pekka Salonen e Teodor
Currentzis, e i solisti Leif Ove Andsnes, Martha Argerich, PierreLaurent Aimard, Kolja Blacher e Ian Bostridge.
Ogni anno la MCO esplora nuove sale da concerto, ma conserva
anche collaborazioni artistiche di lungo termine, soprattutto con
le sue sedi di residenza. Qui hanno luogo sessioni di prove e con-
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certi con la possibilità di disporre di più tempo per ulteriori attività come musica da camera eseguita in contesti insoliti, prove
aperte e progetti educativi. In questo modo durante le residenze
si sviluppa una relazione stretta e personale tra i musicisti e le
sedi di residenza come anche con le persone che vivono e lavorano in queste città.
Attualmente la MCO ha tre sedi di residenza: quella con cui collabora da più lunga data è Ferrara, dove fin dal 1998 la MCO è
stata una grande protagonista della scena musicale cittadina. Negli ultimi 13 anni la MCO ha eseguito una novantina tra concerti
e opere per la stagione di Ferrara Musica. A Ferrara la MCO è
attiva anche al di fuori della sua sede principale, ossia il Teatro
Comunale, e si esibisce regolarmente nel repertorio cameristico
presso il Jazz Club Ferrara. Nella primavera del 2011 il contratto
di residenza a Ferrara è stato rinnovato per altri tre anni.
Nelle tre città tedesche di Dortmund, Essen e Colonia nel Nord
Reno-Vestfalia (NRW) la MCO ha trovato la sua seconda residenza stabile a partire dal 2009. La Kunststiftung NRW e la regione del Nord Reno-Vestfalia sono partner e sostenitori di questa
collaborazione. Un’altra collaborazione a lungo termine unisce la
MCO alla città di Lucerna dove l’ensemble è una presenza regolare da quando Claudio Abbado ne ha fatto il nucleo della Lucerne
Festival Orchestra (LFO) nel 2003. Oltre ai concerti della LFO,
in occasione del Festival la MCO esegue anche due concerti nella sua formazione originale, includendo spesso prime esecuzioni
assolute o opere in versione concertante.
La MCO ha realizzato 20 registrazioni, molte delle quali hanno
ottenuto premi prestigiosi, per etichette come Virgin Classics,
Harmonia Mundi, Decca e Deutsche Grammophon. La discografia include opere dirette da Claudio Abbado (la più recente è il Fidelio di Beethoven) e Daniel Harding, la registrazione dal vivo di
concerti per pianoforte di Beethoven con Martha Argerich – CD
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che ha ottenuto un Grammy Award –, e album di arie d’opera con
Anna Netrebko e Jonas Kaufmann. Nel 2011 sono uscite diverse
nuove registrazioni tra cui il Concerto per violino di Brahms con
Isabelle Faust e Daniel Harding – che ha già ottenuto un Diapason d’Or – e un CD dedicato a musiche di Rachmaninov con la
giovane pianista cinese Yuja Wang diretta da Claudio Abbado.
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Primi violini
Gregory Ahss** (Israele)
Isabelle Briner (Svizzera)
Annette zu Castell (Germania)
Meesun Hong (Stati Uniti)
Julia-Maria Kretz (Germania)
Geoffroy Schied (Francia)
Henja Semmler (Germania)
Timothy Summers (Stati Uniti)
Tristan Thery (Francia)
Laurent Weibel (Francia)
Flauti
Chiara Tonelli (Italia)
Júlia Gállego (Spagna)
Secondi violini
Johannes Lörstad* (Svezia)
Fredrik Burstedt (Svezia)
Michiel Commandeur (Paesi Bassi)
Christian Heubes (Germania)
Paulien Holthuis (Paesi Bassi)
Mintje Van Lier (Paesi Bassi)
Naomi Peters (Paesi Bassi)
Sharon Roffman (Stati Uniti)
Fagotti
Andrea Zucco (Italia)
Chiara Santi (Italia)
Viole
Béatrice Muthelet* (Francia)
Yannick Dondelinger (Regno Unito)
Susanne Linder (Germania)
Josep Puchades Escriba (Spagna)
Anna Puig Torné (Spagna)
Alexandre Razera (Brasile)
Trombe
Christopher Dicken (Regno Unito)
Brandon Ridenour (Stati Uniti)
Violoncelli
Gabriele Geminiani* (Italia)
Natalie Caron (Francia)
Antoaneta Emanuilova (Germania)
Luca Franzetti (Italia)
Thomas Ruge (Germania)
Philipp von Steinaecker (Germania)
Oboi
Mizuho Yoshii (Giappone)
Emma Schied (Regno Unito)
Clarinetti
Marco Thomas (Germania)
Jaan Bossier (Belgio)
Corni
José Vicente Castello (Spagna)
Raimund Zell (Germania)
Peter Erdei (Ungheria)
Fabian Borchers (Germania)
Timpani
Robert Kendell (Regno Unito)
** violino di spalla
* prime parti
Contrabbassi
Burak Marlali* (Turchia)
Johane Gonzalez Seijas (Venezuela)
Hayk Khachatryan (Armenia)
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Note di sala
di Angelo Foletto
Beethoven
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Egmont Ouverture
A parte Fidelio, un titolo tre-quattro versioni, il rapporto col palcoscenico da Beethoven fu praticato nel genere sfuggente e tipicamente romantico della “musica di scena”: occasione d’incontro non condizionato da libretti(sti) o ‘convenienze’ melodrammatiche, confronto
con grandi testi e autori. Tra i più famosi ricordiamo l’ouverture per
il Coriolan di Henrich Joseph von Collin, e le musiche scritte per Leonore Prohaska di Friedrich Dunker e Die Ruinen von Athen e König
Stephan di August von Kotzebue. Ma l’impegno più significativo fu per
la tragedia Egmont di Wolfgang Goethe (1787), affrontata in occasione
della nuova produzione realizzata a Vienna (Hofburgtheater) nel giugno 1810. Beethoven non aveva ancora conosciuto di persona Goethe
ma ne amava l’ispirazione poetica e l’alto senso morale. In Egmont,
tragedia della libertà agognata e del martirio politico e individuale,
molte tematiche vi sono racchiuse: condensate in un racconto che dovette suggerire emozioni forti al musicista ancora ferito dalle delusioni
imperiali franate con le prime cannonate francesi su Vienna (maggio
1809: la partitura per Egmont fu iniziata poco dopo). Il soggetto del
dramma in cinque atti di Goethe evocava la figura del conte di Egmont
(1522-1568), uomo di guerra olandese al servizio di Carlo V nominato
governatore delle Fiandre e dell’Arlois. Come politico Egmont cercò
in ogni modo l’accordo tra cattolici e protestanti, e in seguito ebbe un
ruolo vitale nella resistenza fiamminga contro l’invasore spagnolo impersonato dal Duca d’Alba. La tragedia goethiana dava risalto alla lealtà dell’ex-soldato al servizio del re che seppe condividere le sofferenze
della sua terra. L’ideale di libertà lo condannerà: nonostante i tentativi
dell’amata Klärchen, il sostegno del popolo che lo aveva osannato non
venne. Nella tragedia Egmont – decapitato a Bruxelles nel 1568 – muore sollecitando la lotta per l’indipendenza: “cadete con gioia, io ve ne
do’ l’esempio!”.
La composizione delle musiche di scena per Egmont, il più esteso cimento beethoveniano del genere, fu intrapresa in simultanea col Con-
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certo per pianoforte “Imperatore”, il Quartetto per archi op.74 e la
Sonata per pianoforte op.78 : compiuta tra l’ottobre 1809 e il maggio
1810. La pagina d’esordio (Ouverture) fu consegnata all’ultimo momento. Il 15 giugno vi fu la prima rappresentazione che non soddisfò
l’autore: “trattarono la mia musica senza nessuna cura, come del resto
erano soliti fare”. La partitura fa seguire all’Ouverture, rapidamente
entrata nel repertorio concertistico, due Lieder, quattro Intermezzi,
un Melodramma, due episodi sinfonici (morte di Klärchen e sogno di
Egmont) e una visionaria Marcia trionfale (“Sinfonia di Vittoria”) che
sottolinea le ultime parole dell’eroe.
Il 12 aprile 1811 Beethoven scrisse a Goethe, che aveva avuto notizie
dell’esecuzione dai suoi informatori musicali: “riceverà da Lipsia, tramite Breitkopf & Härtel, la musica per Egmont, questo magnifico Egmont che ho meditato, sentito e tradotto in musica con lo stesso entusiasmo di quando l’ho letto. Desidero molto conoscere il suo giudizio
sulla mia musica. Anche se fosse di biasimo sarà proficuo per me e per
la mia arte, e sarebbe bene accetto come il più grande elogio”. Nell’estate del 1812 ci fu il celebre incontro a Teplitz, stazione termale della Boema settentrionale. L’esito di quelle giornate tanto attese dal compositore, fonte anche di malintesi e reciproche irritazioni, fu sintetizzato nelle
lettere di Goethe alla moglie: “Ho imparato a conoscere Beethoven. Il
suo talento mi ha sconvolto: sfortunatamente però, egli è una personalità del tutto senza freni. Senza dubbio non ha torto di trovare il mondo
detestabile, però, così facendo, non lo rende affatto migliore né per sé
né per gli altri. È veramente da scusare e molto da compiangere, poiché
il suo udito lo abbandona, e questo è un fatto che danneggia forse meno
la parte musicale del suo essere che quella sociale”.
In un altro scritto il poeta giudicò frutto di “genio ammirabile” la musica di Egmont che si era fatto suonare al pianoforte, e di cui l’ouverture
– che adotta il modello Lento-Allegro dell’ouverture Coriolan – è straordinaria sintesi emozionale e poetica. In pochi minuti i caratteri dominanti della tragedia vengono condensati e esaltati: la pagina orchestrale introduttiva acquista una specie di ‘programmatica’ narratività
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che la fa assomigliare a un poema sinfonico in miniatura. I memorabili
e granitici accordi dell’introduzione in fa minore, poggiati sulla forza
cupa delle sezioni gravi che la aprono, sono fatti lievitare dalle rinfrancanti ma dolenti figure tematiche assegnate ai legni, sotto cui insiste
l’inquietante passo ritmico di archi e timpano. Facile sentire/vedere
rappresentati la forza bruta degli oppressori contrastata dallo spirito
nobile del protagonista e dall’affetto gaio di Klärchen. Il momento della ribellione è sottolineato dall’energico Allegro che ripropone parzialmente i motivi ascoltati prima di rielaborarli. La ripresa per intero, e
progressivamente intensificata sul piano passionale, dei temi-idee dei
protagonisti, conduce a una breve sospensione: la calibrata e scaltra
proroga emotiva rende sensazionale l’esplosione finale della “Sinfonia
di Vittoria”.
Mozart, Concerto per pianoforte K 503
Sarà un luogo comune, o un semplice dato manualistico, ma ogni tanto
vale la pena di ricordarlo: prima di Mozart il Concerto per pianoforte
e orchestra, così come siamo abituati a considerarlo e ascoltarlo, non
esisteva. In compenso nel giro di pochi anni, il neonato genere annoverava una ventina di capolavori d’autore (non contiamo i primi quattro,
trascrizioni-rielaborazioni a fini didattici di sonate altrui, né gli sparsi
ultimi tre): sei composti a Salisburgo, gli altri nei prodigiosi quattro
anni viennesi 1783-1786 (quindici concerti). La tradizione di far dialogare la tastiera, emancipata dal ruolo di ripieno, con altri strumenti
d’accompagnamento non era ignota: ogni nazione musicale aveva una
sua scuola concertistica, cresciuta per effetto della crescente abilità
strumentale dei solisti e della diffusione del gusto galante che amava
accoppiare le sonorità aggraziate del clavicembalo e dei primi pianoforti, con rabbocchi armonici degli archi rinforzati dai corni e qualche
incursione degli altri occasionali fiati. Ma già dalle prime composizioni
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salisburghesi, che pure adottavano l’economa distribuzione orchestrale “napoletana” (archi, oboi e corni: come la maggior parte delle musiche orchestrali coeve, sinfonie comprese), il significato del sostantivo
Concerto in Mozart assunse un’attribuzione meno elementare.
All’idea di addizione-contrapposizione tra organismi diversi – ma
ognuno da leggere e valutare nel rispettivo grado di autonomia e personalità – il compositore sostituì quella di contrapposizione-collaborazione finalizzata al dialogo e alla convergenza in una forma musicale
unitaria e dotata di codici propri. Mozart mise in pratica fin dai primi
lavori consapevoli l’idea che a quella forma, giovane e ingenua, ancora
un po’ condizionata dalle semplificazioni funzionali ereditate dal concerto barocco, si potevano affidare l’elaborazione tematica e le sorti
del nascente virtuosismo pianistico; il garbo espressivo e sentimentale
filtrato dai rappresentanti dell’Empfindsamkeit musicale e la densità
del sinfonismo haydnian-viennese. Oltre a ‘rappresentare’ una teatralità musicale plastica e immediata: determinata dalla contrapposizione
solo-tutti e dalle ‘fisicità’ dei temi, e dalla condivisione di una dialettica
musical-spaziale e gestuale mutuata dalla logica narrativa dei numeri
d’assieme dell’opera napoletana comica. Non a caso, i migliori interpreti dei Concerti ritengono obbligatorio avere confidenza col teatro
di Mozart, quello dapontiano in particolare: per poter cogliere meglio
quel che di realistico e “di palcoscenico” vivifica la natura dei temi pianistici, per saper restituire il fervore nel dialogo-quasi cantato che il
solista deve intrattenere con i soli d’orchestra (soprattutto legni), per
duettare con interventi orchestrali che spesso paiono quinte teatrali
vere e proprie.
L’insistenza della grammatica teatrale nella struttura intima del Concerto perfezionata nelle partiture viennesi, che tra l’altro svelano le
molteplici viabilità dialogiche percorribili impiegando un’orchestra
con i legni al completo, è un riferimento biografico preciso per il Concerto in do maggiore K 503. Terz’ultimo dei ventisette, primo della
stagione di crisi del rapporto Mozart-Vienna e per il genere-concerto
impegnato che Mozart aveva di fatto imposto all’ambiente della capita-
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Mozart
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le per tre anni (ora il pubblico delle accademie era distratto dal nuovo
genere: protagonisti erano i primi virtuosi e le loro incantatorie capacità tecnico-acrobatiche).
La musica del 25esimo concerto vide la luce nel dicembre 1786, intrecciandosi con la Sinfonia in re maggiore “Praga” (completata due giorni dopo, il 6 dicembre): al termine di un anno dedicato soprattutto alla
produzione cameristica e a ridosso delle settimane convulse in cui, tra
Vienna e Praga, Mozart mise a punto la partitura di Don Giovanni,
opera commissionata dalla capitale culturale dell’Impero dopo il successo delle Nozze di Figaro (1 maggio 1787). Non occorre una deviazione sulla storia dell’opera per ricordare come in questi due capolavori
teatrali Mozart avesse portato a perfezione il processo di sovrapposizione e di ibridazione di codici espressivi e forme, di stili e gergalità
musicali che costituisce la sua straordinaria diversità e unicità creativa:
riversando l’acquisita padronanza cameristica e la sensibilità contrappuntistica nella creazione d’un corrispondente cantato e recitato che i
più artigianali operisti italiani d’opera non avevano saputo (né potuto,
forse) immaginare. Né occorre un orecchio speciale per avvertire nel
gesto orchestrale e in alcuni impasti timbrici archi-legni che introducono il Concerto l’eco della “vita militar” di Cherubino, dei sensuali incanti notturni di Susanna, la frenesia e l’insinuante tinta complessiva
delle Nozze di Figaro (qualche orecchio fino, nel prosieguo dell’Allegro
coglierà addirittura qualche presagio di Papageno). Così come la presentazione sobria, quasi esitante, del primo intervento del pianoforte
ha la funzione della cavatina d’ingresso del personaggio che poi progressivamente s’impadronisce della scena e diviene protagonista.
Importanza e bellezza speciale del Concerto in do maggiore sono date
dalla sua complessità ammantata di sobrietà. La solare tonalità affermativa e senza alterazioni di do maggiore (poi magnificamente celebrata nell’ultima Sinfonia “Jupiter”) suggerisce una struttura ‘sinfonica’ di estrema chiarezza, quasi sempre racchiusa entro le potenzialità
dell’accordo di base, che viene dichiarato nel marziale avvio introduttivo all’Allegro; il più ampio e solenne scritto da Mozart. Ed è ancora
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la triade tonale - fa maggiore in questo caso - a sostanziare l’Andante
semplicemente bipartito e il movimento finale a rondò (ma il manoscritto evita la precisazione). Entro queste strutture armoniche e formali non tortuose, anzi economiche, Mozart elabora un discorso musicalmente complesso, orchestralmente e ‘sonatisticamente’ avanzato
- Gian Paolo Minardi parla di “accresciuta spaziatura sinfonica” - ma
anche carico di gusto e sapienza pianisticamente virtuose, dimostrando che la ricchezza della tecnica solistica in Mozart non era un intralcio
poetico-musicale ma un vantaggio. Peggio per i viennesi che gli preferirono Dussek e Hummel, Cramer e Steibelt.
PS
Trentacinque anni fa circa, Claudio Abbado registrò quattro concerti per pianoforte di Mozart, tra cui il Concerto in do maggiore K 503. Solista era Friedrich
Gulda, lo straordinario musicista viennese (1930-2000) che negli anni cinquanta ebbe tra i suoi più celebri allievi (in senso ampio, ché Gulda non era un insegnante ortodosso né dava lezioni di pianoforte ma di musica) proprio Abbado
e Martha Argerich. Al primo, nonostante le qualità musicali – o forse proprio
avendo saputo guardare oltre – consigliò di orientarsi verso la direzione d’orchestra. Alla seconda dischiuse il mondo della musica e della poesia; lei ha sempre riconosciuto a Gulda un ruolo formativo unico in quanto seppe trasmetterle
“qualcosa di più importante che suonare il pianoforte”. E, a verificare il rapporto
Argerich-Mozart-Gulda, è facile rilevare come coincidano certe scelte di repertorio. Il Concerto in Do maggiore è tra quelli più eseguiti da entrambi. Riascoltarlo
oggi, affidato ai due più talentati allievi, poi compagni di musica del maestro,
sarà un po’ come rievocare Friedrich Gulda, il suo stile inconfondibile e quelle
masterclass viennesi del 1955.
Schubert, Sinfonia n. 4
Bisogna essere grati a Franz Schubert, musicista nevroticamente autocritico, per non aver distrutto le partiture delle prime Sinfonie. In questo modo ha offerto agli esegeti in cerca di rubricazioni didascaliche e
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Schubert
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rassicuranti – cioè, nel caso dei musicisti del primo Ottocento, ‘beethoveniane’ – l’opportunità di spartire anche il suo catalogo in due: da
una parte le prime sei Sinfonie, nate nel 1813-1818 (tra i sedici e i ventun’anni), dall’altra la coppia costituita da Sinfonia in Si minore “Incompiuta” (1822) e Sinfonia in Do maggiore (1825-28). Identificando
uno stile sinfonico tardo – per quanto l’attributo strida con la biografia
di un musicista vissuto 31 anni – e uno giovanile. Le prime cinque sono
caratterizzate dal piccolo organico e da una scrittura che tiene conto
della non-professionalità degli esecutori mettendo in pratica lo spirito della Hausmusik (musica d’intrattenimento, e destinazione privata)
alla cui sfera appartiene quasi tutta la produzione d’autore fino al 1820.
Rispetto a altri generi che come in Mozart paiono nascere già maturi –
quello liederistico iniziò con un capolavoro: Erlkönig – dall’analisi delle otto partiture complete (e degli abbozzi) possiamo trarre indizi utili
a tracciare il cammino evolutivo della scrittura sinfonica di Schubert.
Il criterio è di per sé didatticamente utile, e basta distinguere ulteriormente i lavori adolescenziali (Sinfonie 1-3) dai più consapevoli (Sinfonie 4-6) a metterle in parallelo con la tripartizione critica per stagioni/
stili impiegata per Beethoven.
Interessante è la produzione del 1816, anno che vide la nascita di due
sinfonie-spartiacque tra vecchio e nuovo: la quarta in do minore che
l’editoria in seguito catalogò con l’epiteto non ingiustificato di “Tragica” e quella in si bemolle (n. 5), opposta e speculare. Non solo per la
precisa scelta armonica (la Quarta è la prima sinfonia “in minore”, e la
tonalità corrisponde a quella idiomaticamente tragica della Quinta di
Beethoven) quanto per la diversa personalizzazione di due mo(n)di sinfonici. Soprattutto nei movimenti esterni e nell’Andante, la “Tragica”
riepiloga i gesti ‘patetici’ e da Sturm und Drang da cui prese le mosse
la stagione beethoveniana più propositiva, e per certe tinte è una sorta
di cartone preparatorio all’inabissamento nel si minore dell’“Incompiuta”. La Quinta è l’estremo omaggio al fervore mondano e al modello
haydniano e mozartiano (nel Minuetto fa capolino anche un’esplicita
citazione della Sinfonia in sol minore K 550).
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L’“ardita, temeraria impennata beethoveniana” (Sergio Sablich) della
“Tragica” è ben ricapitolata nell’Allegro finale, che nelle dimensioni e
nella lunghezza insolita è sovrapponibile alla successione Adagio molto-Allegro vivace che l’aveva aperta. L’ambizione sinfonica si riconosce
nel procedere tematico tortuoso del primo inciso scambiato tra fiati e
violini cui fa da elemento di contrasto un secondo spunto – un motto
più che un tema vero e proprio: due note discendenti – anch’esso rapidamente avvicendato tra le sezioni dell’orchestra. Già attraverso la
scelta di organico strumentale della sinfonia, Schubert fece intendere
che la stagione adolescenziale era conclusa, operando per una corposità orchestrale e densità contrappuntistica che non sarebbero state
plausibili in una partitura pensata per un piccolo spazio concertistico
e un complesso di strumentisti dilettanti (o apprendisti, come i compagni di convitto che suonarono le prime sinfonie). Nella Sinfonia in
do minore l’autore architettò sonorità voluminose e accordalità piene
dei fiati che richiedono congrui bilanciamenti degli archi, anche raddoppiando i corni (da due a quattro), e facendo presagire un progetto
compositivo più elaborato. A ciò fu conforme la maggior attenzione dedicata agli snodi nevralgici della struttura sinfonico-sonatistica (sviluppo, ripresa e coda degli Allegro) dove Schubert adottò soluzioni plastiche e gestualità musicali personali (come le digressioni-modulazioni
armoniche per terza, che del pianismo schubertiano saranno una sorta
di meravigliosa firma) e rinunciò alla più tradizionale distribuzione a
mo’ di Romanza del movimento lento. In compenso il pathos drammatico che agita l’Allegro conclusivo fu instradato verso una risoluzione
in maggiore – com’era avvenuto nel primo movimento che al minore
aveva consegnato la breve e gluckiana introduzione – e, “muovendo
da un’animazione che ricorda l’ouverture Le creature di Prometeo di
Beethoven, si distende in una solennità che preannuncia l’apertura
visuale della Sinfonia “Grande” (Giorgio Pestelli). Mentre l’apertura
tonale in maggiore richiama, con un’evidenza che l’impaginazione di
questo programma rimarca, il trionfante epilogo di Egmont, oltre che
lo straripante ultimo movimento della Sinfonia n. 5 dello stesso autore.
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Completata il 27 aprile 1816, inascoltata fino al 19 novembre 1849
quando fu diretta a Lipsia dal compositore e critico musicale August
Ferdinand Riccius in occasione del ventesimo della morte di Schubert
organizzato dalla Società Euterpe, la Sinfonia in do minore è un lavoro
non omogeneo ma smanioso di novità: vi convivono audacie e ingenuità. Di forte impronta personale è certamente il disegno dei temi.
L’inquietudine cromatica li contrassegna perfino nel Minuetto (non
Scherzo: il compositore preferì la denominazione arcaica) che elude la
predominanza del ritmo ternario ma non la tonalità d’impianto e la tradizionale costruzione intarsiata di ritornelli. Poi nel Trio, si trascorre
qualche momento di distensione, col passaggio momentaneo alla tonalità di mi bemolle maggiore. Perfettamente schubertiano è l’Andante:
identificabile nell’invenzione melodica principale e nella naturalezza
con cui il tema di indole pianistico – lo spunto sarà ripreso nell’Impromptu in la bemolle maggiore op. 142 n. 2 (dicembre 1827) – dilaga
sulla più vasta tavolozza orchestra senza perdere intimismo e suadente
fragilità lirica. Anche in questa pagina Schubert si affidò a un taglio formale un po’ antiquato che ricalcava lo schema a refrain del rondò. Così
la prima idea in la bemolle, esposta tre volte (in minore, la seconda), si
avvicenda con la doppia inserzione di una quinta tenebrosa e teatrale
in fa minore che richiama e legittima il sottotitolo “Tragica”.
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