Europa Unita - luciogentilini

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Lucio Gentilini
BREVE STORIA DELL’EUROPA UNITA
Introduzione
Il 12 ottobre 2012 l’Unione Europea è stata insignita del Premio Nobel per la Pace
con la motivazione che ‘per oltre sei decenni ha contribuito all’avanzamento della
pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa’: il
Comitato Norvegese per il Premio Nobel ha riconosciuto infatti che la UE ‘ha
contribuito a trasformare la maggior parte dell’Europa da un continente di guerra in
un continente di pace. L’impegno della UE è finalizzato alla fraternità tra le nazioni.’
Nella loro replica congiunta il belga Herman Van Rompuy (Presidente del Consiglio
Europeo) ed il portoghese José Manuel Barroso (Presidente della Commissione
Europea) hanno concordato con il Comitato sulle ‘profonde motivazioni politiche che
stanno alla base della nostra Unione: lo sforzo unico di un crescente numero di paesi
europei di superare guerre e divisioni per disegnare insieme un continente di pace e
prosperità.’
Nonostante possa sembrare strano che un Premio Nobel per la Pace sia stato
assegnato ad una istituzione politica e non ad una persona, o che non abbia inteso
richiamare l’attenzione su qualche situazione drammatica ma trascurata (e non ne
mancano certo), in realtà la decisione del Comitato Norvegese è stata quanto mai
opportuna e le parole che l’hanno accompagnata - come quelle della risposta – per
una volta non sono retorica e stucchevole chiacchericcio politico, ma esprimono la
pura e semplice verità.
La decisione del Comitato è poi ulteriormente condivisibile per la scelta del momento
in cui è stata presa, quando cioè la grave e prolungata crisi economica che da quattro
anni (siamo nel dicembre 2012) attanaglia gran parte del mondo ha scosso la fiducia
delle società europee nell’euro - quando non è addirittura la moneta unica stessa (o la
sua gestione da parte della Banca Centrale Europea) ad essere messa sotto accusa
come corresponsabile della crisi stessa.
Oggi in Europa ed in Italia ci sono infatti forze politiche che propongono la ‘uscita
dell’Italia dall’euro’ (o la morte dell’euro stesso) ed il ritorno alla lira come soluzione
del problema della crisi e con questi sproloqui trovano consensi ed approvazione in
non trascurabili settori dell’opinione pubblica: peggio ancora, da troppe parti in Italia
(e probabilmente anche nel resto del continente) l’Europa è identificata soltanto con
l’euro, quindi con la crisi.
Certamente queste (pericolose) sciocchezze esprimono la paura del mondo che
cambia ed il bisogno e la necessità psicologica di trovare un colpevole o almeno un
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responsabile per le proprie angosce, ma, soprattutto, denotano una profondissima
ignoranza sull’Europa stessa.
Senza voler entrare nel complicatissimo campo delle numerose istituzioni giuridiche
che regolano la vita della UE, queste pagine vengono così stese per tracciare le linee
essenziali della storia dell’Europa Unita e colmare così questa grave lacuna nella
percezione della realtà stessa in cui viviamo: si tratta di una storia ricca di eventi e
molto più complessa di quanto si possa credere, ma è la nostra storia, il nostro
presente … ed il nostro futuro se non vogliamo semplicemente sparire.
Nasce un’idea
Lungo tutto l’arco della sua accidentata storia i progetti per unire l’Europa sono stati
molteplici e diversi: Impero romano, Sacro Romano Impero, Impero napoleonico,
Terzo Reich, tutti vollero e riuscirono a tenere insieme nello stesso contenitore
politico (a volte solo per brevi periodi) l’intero continente.
La Chiesa Cattolica medievale considerava l’Europa ‘Res publica christianorum’ a
significarne l’unità religiosa e culturale (oltre a quella linguistica del latino) la quale a
sua volta ne implicava anche la direzione politica unificata (dal papato);
l’Illuminismo sostenne la comunanza degli uomini in quanto dotati tutti di ragione e
non faceva nemmeno caso alle differenti nazioni in cui il continente era diviso;
Mazzini propose la ‘Giovine Europa’ come insieme di popoli affratellati (seppur
ognuno nel suo stato); e da ultimo (perché no?) papa Giovanni Paolo II dopo il crollo
dell’Impero sovietico e la fine della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti
sostenne che il Cristianesimo avrebbe dovuto tornare ad essere l’unificatore del
continente e il guaritore delle sue fratture.
Si potrebbe continuare a lungo nel ricordare quanti furono coloro che sottolinearono
l’unità culturale e spirituale dell’Europa, che proposero il superamento delle sue
divisioni interne giudicate incomprensibili … e tutti ebbero sicuramente ragioni
validissime nell’insistere sulla fittissima trama dei legami e delle influenze reciproche
che univano (e uniscono) i vari popoli europei e l’esiguità e la scarsa significanza di
ciò che era (ed è) particolare e non comune.
Il paradosso consisteva insomma nel fatto che popoli così affini ed in pratica figli
della stessa cultura e civiltà si combattevano in guerre continue e spesso feroci finchè
nella prima metà del XX secolo lo scontro (le due guerre mondiali) arrivò a livelli
talmente devastanti da richiedere un’azione radicale e decisiva che risolvesse una
volta per tutte una contraddizione così macroscopica.
Contro l’orrore dell’occupazione nazifascista sorse così in tutta Europa un vigoroso
movimento di Resistenza e fu in quei terribili frangenti che, insieme al grande lavoro
di ricostruzione dell’intero continente, vennero elaborati anche i primi progetti di
superamento delle divisioni nazionali e di una struttura federativa degli stati europei.
Fra questi merita sicuramente un posto di primo piano il cosiddetto ‘Manifesto di
Ventotene’ (intitolato in realtà ‘Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un
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manifesto’) elaborato nel giugno 1941 e rielaborato nell’agosto 1943 da Altiero
Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni ed altri confinati antifascisti su tale isola:
fu pubblicato per la prima volta nel 1943 in occasione della fondazione a Milano del
Movimento Federalista Europeo, ma già da tempo circolava clandestinamente fra le
fila della Resistenza.
Il ‘Manifesto’ - attraversato tutto dal respiro ampio delle grandi passioni di quegli
anni epici ed eroici - era una guida per i rivoluzionari che avrebbero dovuto abbattere
il nazifascismo e ricostruire l’Europa su basi di giustizia e libertà, ma in questa sede
se ne considererà soltanto il progetto dell’Europa unita.
A questo proposito Spinelli ed i suoi amici chiarirono subito che per spezzare
veramente la folle spirale della guerra non sarebbe stato sufficiente sconfiggere il
nazifascismo, stabilire nuovi trattati di pace e stringere nuove alleanze, perché il vero
problema e la vera causa del male risiedeva nel nazionalismo e nella competizione fra
gli stati, fattori che bisognava stroncare alla radice perché finalmente non
riemergessero più: l’Europa avrebbe dovuto diventare dunque una federazione diretta
da organismi sovranazionali col compito di dirimere le controversie fra stati e
risolvere i problemi di coesistenza con mezzi pacifici.
Vale così la pena riportare per esteso quanto sostenuto nel ‘Manifesto’:
“La sconfitta della Germania non porterebbe automaticamente al riordinamento
dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà. … le forze reazionarie … si
proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più
povere. … Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello
stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più
offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il
sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente
confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza
politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò
abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della
ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in
apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei
reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e
ciascuno stato riporrebbe di nuovo la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella
forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve
scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali tornerebbero a
comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocratici a
gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si
raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di preparare di nuovo la guerra.
Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso
non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati
nazionali sovrani.”
Il seme era stato gettato e fa piacere che siano stati degli italiani a teorizzare per primi
un così vasto ed ambizioso progetto.
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Il primo passo
Alla fine della guerra l’Europa era sconvolta e semidistrutta, ma nondimeno piena di
energie, di progetti e di volontà di ricominciare: la follia dello scontro fra stati
europei appariva in tutta la sua evidenza, ma di fronte ad USA ed URSS, i due colossi
la cui potenza si era rivelata incomparabilmente superiore alla loro, era emersa anche
la loro fragilità e la loro limitatezza.
La strada già proposta ed immaginata da più parti di una federazione o di una unione
degli stati europei appariva dunque sempre più logica e necessaria se si volevano non
solo evitare nuove future guerre, ma anche avere la forza necessaria per gestire il
confronto coi nuovi giganti vittoriosi.
Già il 5 settembre 1944, per iniziativa del belga Paul-Henri’s Spaak, con la nascita
del Benelux una prima mini-unione doganale era stata concordata fra Belgio, Olanda
e Lussemburgo: essa si sarebbe poi sviluppata ed integrata nei più vasti organismi
europei, ma intanto aveva offerto uno spunto ed un esempio.
Nel 1946 fu lo stesso Winston Churchill a sostenere che la ‘famiglia dei popoli
europei’ doveva trovare il modo di superare tutte le sue divisioni, inimicizie e rivalità
per costruire dei veri e propri Stati Uniti d’Europa: è questo un aspetto della
prodigiosa carriera politica di Churchill meno noto, ma fu proprio lui ad essere
nominato presidente onorario del Congresso dell’Aja che il 7-11 maggio 1948 vide
750 delegati da tutta Europa (ed osservatori da USA e da Canada) dibattere sulla
possibilità di costruire una unione politica, economica e monetaria dell’Europa.
Il Congresso dell’Aja contribuì notevolmente a suscitare nei governi e nell’opinione
pubblica un atteggiamento positivo nei confronti di quelle istituzioni europee che
piccole minoranze intellettuali stavano abbozzando e che avevano assoluto bisogno
del sostegno dell’opinione pubblica europea stessa.
Al Congresso dell'Aja fu necessario raggiungere una sorta di compromesso tra due
diverse visioni dell'unità europea - quella unionista, sostenuta in particolar modo da
Churchill e che puntava alla creazione di organismi sovranazionali, e quella
federalista, più prudente e che preferiva limitarsi ad accordi fra stati – ma fu
ugualmente un successo perché pose le basi per i grandi e fecondi sviluppi futuri.
Fu in quella sede che si decise infatti di istituire, fra l’altro, un Consiglio d’Europa
ed un’Assemblea Europea (i cui membri sarebbero stati eletti dai parlamenti
nazionali); di scrivere una Carta europea dei diritti umani e di creare una Corte
Europea dei diritti dell’uomo per giudicarne le eventuali violazioni.
Il Consiglio d’Europa (da non confondere col Consiglio Europeo!) venne istituito
con sede a Strasburgo il 5 maggio 1949 dal Trattato di Londra e conta oggi 47 stati
membri: oltre alla ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa, il suo scopo era
(ed è) la promozione della democrazia, dei diritti dell'uomo e dell’identità culturale
europea.
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU) fu redatta dal Consiglio d’Europa, venne firmata a Roma il 4
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novembre 1950 da 12 Stati (Germania, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi,
Lussemburgo, Danimarca, Inghilterra, Irlanda, Islanda, Norvegia, Turchia) ed entrò
in vigore il 3 settembre 1953: da allora è sempre stata rimaneggiata e completata da
ben 14 protocolli finchè è stata finalmente ratificata il 22 giugno 2007 da tutti i 47
Stati membri del Consiglio d’Europa.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (anch’essa CEDU) benne istituita nel 1959
dalla ‘Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali’ per assicurarne il rispetto: ha sede a Strasburgo e vi aderiscono tutti i
47 membri del Consiglio d’Europa.
Cambia lo scenario
La guerra si era conclusa nel modo che tutti conoscono: USA ed URSS erano emerse
come le due ‘superpotenze’ e si erano divisa l’Europa (e la Germania) così il
problema di come assicurare la pace in Europa - che gli estensori del ‘Manifesto’
e molti altri avevano tanto a cuore - risultò superato dagli eventi (o, meglio, fu
gestito da americani e sovietici).
NATO e Piano Marshall (e, dall’altra parte, Patto di Varsavia e COMECON) furono
infatti le linee di intervento su cui si ricostruì e si costruì il continente: l’Europa degli
stati era stata in qualche modo superata, ma solo perché era stata inglobata in alleanze
molto più vaste di cui essa non aveva né la direzione né il controllo, saldamente
invece in mani americane e sovietiche.
Eppure l’idea di un’Europa (almeno occidentale) che superasse le sue divisioni ed i
suoi confini non era morta e sarebbe ben presto riemersa, solo che avrebbe cambiato
prospettiva, motivazioni ed intenti perché, ora che il problema politico della pace
era stato risolto colla comune appartenenza all’Alleanza Atlantica sotto gli Stati
Uniti, le esigenze che portavano all’integrazione erano diventate di carattere
economico.
Ora che la politica dell’Europa occidentale sotto l’ombrello della NATO era
coordinata e diretta da Washington, questa poteva però integrarsi almeno
economicamente ed il problema riguardava ormai solo lei, per cui parlare di unione
europea sarebbe errato perché era possibile unire (economicamente) solo l’Europa
occidentale.
Il secondo passo
Il 9 maggio 1950 segna ancor oggi la data di nascita della Unione Europea perché in
tale giorno il Ministro degli Esteri francese Robert Schuman lanciò il suo Piano
che proponeva l’unificazione e la condivisione dell’industria pesante europea:
Schuman in ciò era stato aiutato ed indirizzato dal suo consigliere Jean Monnet,
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politico di spicco e già dirigente del CLN francese che fin dai tempi della Resistenza
aveva maturato convinzioni federaliste.
Già il 5 agosto 1943 Monnet aveva infatti sostenuto che ‘Non ci sarà pace in Europa
se gli Stati verranno ricostruiti sulla base delle sovranità nazionali … Gli Stati
europei sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la necessaria prosperità e lo
sviluppo sociale. Le nazioni europee dovranno riunirsi in una federazione.’
E’ veramente notevole che fin d’allora Monnet avesse compreso: a) che il problema
degli stati europei era precisamente quello delle loro ridotte dimensioni; b) che,
già ragionando sull’Europa post-nazifascista, avesse scartato le soluzioni basate
sull’espansione della Francia (evidentemente a spese di altri) o sulle conquiste
coloniali; e c) che avesse puntato invece sulla collaborazione intereuropea.
Comunque il Piano Schuman fu rapidamente accettato da sei paesi (Belgio, Francia,
Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) che il 18 aprile 1951 col
Trattato di Parigi diedero vita alla ‘Comunità europea del carbone e dell'acciaio’
(CECA).
Con la soppressione del pagamento dei dazi doganali, l’eliminazione delle restrizioni
che frenavano la libera circolazione di queste merci e l’abolizione di tutte le misure
discriminatorie, aiuti o sovvenzioni che i vari stati avevano sempre accordato alla
propria produzione nazionale, il Trattato creò insomma un mercato libero, comune ed
aperto, del carbone e dell’acciaio (che divenne di fatto operante il 18 febbraio 1953
per il carbone ed il 1 maggio 1953 per l’acciaio).
L’Europa unita cominciava in grande il suo cammino perché il nuovo organismo (che
entrò in vigore il 23 luglio 1952 e scadde cinquant'anni dopo, il 23 luglio 2002)
costituì una vera rivoluzione nei rapporti fra gli stati europei e va quindi ben
compreso in tutte le sue motivazioni ed implicazioni.
Innanzitutto esso fu il primo passo dell’integrazione europea perchè prevedeva una
(parziale) cessione della sovranità nazionale in quanto rinviava la politica specifica di
ciascuno stato sul carbone e sull’acciaio alla nascente comunità;
in secondo luogo, i principali giacimenti di carbone e di ferro si trovavano nella zona
piuttosto ampia a cavallo tra Francia e Germania e negli stati del Benelux;
in terzo luogo, i suddetti territori lungo il confine franco-tedesco per secoli erano stati
contesi durante le numerose e sanguinose guerre fra i due paesi che avevano sempre
coinvolto anche il Benelux incuneato fra di loro;
in quarto luogo, carbone e acciaio erano le risorse fondamentali per la produzione di
armamenti e le materie prime dell’industria bellica, e dunque la loro condivisione
nella CECA impediva un riarmo segreto.
La CECA insomma non solo organizzava la collaborazione in territori per i quali si
era spesso combattuto, ma scongiurava preventivamente la guerra fra Francia e
Germania perché impediva il riarmo (almeno segreto) ed associava ex-nemici nella
gestione di risorse fondamentali anche per la guerra stessa.
Tranne la Germania Occidentale, tutti gli stati firmatari del trattato di Parigi erano già
alleati fra loro nella NATO ed ora la CECA non solo rinsaldava tali legami perché li
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completava dal punto di vista economico ed industriale, ma anche (e soprattutto)
perchè li estendeva anche alla Germania Occidentale stessa.
Se fu sicuramente comprensibile l’adesione all’accordo degli altri cinque paesi,
possessori delle risorse in questione e sempre coinvolti nelle guerre per i relativi
territori, meno ovvia invece fu quella dell’Italia che aveva una produzione limitata di
quelle materie ed era assai distante dalla zona di fatto interessata dall’accordo stesso.
Tuttavia il governo di Alcide De Gasperi era ansioso di reinserire l’Italia nei circuiti
politici ed economici internazionali e giudicò la CECA un’ottima occasione per
rivitalizzare la disastrosa economia italiana: l’adesione dell’Italia alla CECA
rientrava insomma pienamente nella politica di De Gasperi volta all’apertura del
paese al mondo e, specificamente, all’Europa (di cui era fervente sostenitore) ed
all’Occidente (a partire dall’accettazione del Piano Marshall e dalla partecipazione
alla NATO).
Del tutto contraria fu invece l’opposizione di sinistra del PCI e del PSI che, uniti nel
Fronte Popolare, votarono contro (come avevano già fatto a proposito del Piano
Marshall e della NATO): la loro posizione del resto era del tutto logica in quanto
volta ad ostacolare qualsiasi iniziativa e decisione che rafforzasse il campo avversario
dell’URSS in cui essi invece militavano e, come scrive Mauro Maggiorani
(‘L’Europa degli altri’, Carocci, Roma 1998, pagg. 16–17) dal PCI e dal PSI
“…osteggiate furono ... tutte le … iniziative comunitarie: dall’Unione europea dei
pagamenti alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, dalla Comunità europea
di difesa all’Unione europea occidentale.’
Eppure l’opposizione del PCI e del PSI - al di là del fatto che era una conseguenza
dell’adesione al blocco comunista dei due partiti - merita di essere considerata con
più attenzione perché sostenne allora un argomento che sarebbe sempre stato
adoperato (ed ancor oggi continua ad esserlo) dai nemici dell’Europa ogni volta che
questa fa un passo avanti sulla via della sua unione: il fatto cioè che si tratterebbe
ogni volta di uno svantaggio e di un danno per i propri interessi a favore di quelli di
altri che manipolerebbero e sfrutterebbero l’occasione per propri fini particolari.
Fu così che su ‘l’Unità’ del 17 giugno 1952 nell’articolo ‘I d.c. approvano il Piano
Schuman contro l’interesse della Nazione’ l’adesione italiana fu definita come ‘uno
degli atti più gravi presentati dal Parlamento italiano in questa legislatura’ e si riportò
l’intervento di Di Vittorio in persona secondo cui ‘Affermare che esso rappresenta la
base economica dell’unità europea, e uno strumento di pace, è una astrazione senza
fondamento, dal momento che il Pool [gli altri cinque stati] è la espressione di una
politica di divisione tra i popoli europei e di preparazione alla guerra. In realtà il
Piano Schuman sottopone l’economia italiana per mezzo secolo alla direzione dei
trust franco-tedeschi-americani dell’acciaio e del carbone.
Il Pool infatti si prefigge lo scopo di potenziare le industrie siderurgiche attive e di
eliminare le inattive, poichè le italiane non possono reggere la concorrenza di quelle
tedesche, tutti possono rendersi conto, fin d’ora, delle conseguenze del Piano
Schuman.’
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Questi sospetti, queste paure, questi veri e propri malesseri, denotarono sempre (e
denotano oggi) un attaccamento al passato sicuramente comprensibile sul piano
psicologico, ma improponibile di fronte alle esigenze della realtà concreta: non
stupisce quindi che per esempio un paese così tradizionalista e geloso della sua
particolarità come l’Inghilterra rifiutò in toto il Piano affermando di non ritenerlo
conforme ai propri interessi e alle proprie aspettative nazionali.
Il fallimento della CED
L’affermazione di un organismo sovranazionale che fondesse in sé energie, risorse e
volontà politiche di un così alto numero di stati europei era un progetto estremamente
ambizioso che non poteva non suscitare anche forti opposizioni sia all’interno che
(forse soprattutto) all’estero: il fallimento della Comunità europea di difesa (CED) fu
contemporaneo al successo della CECA e ben illustra quanti e quali ostacoli
dovevano essere superati per procedere sulla strada dell’integrazione.
Per comprendere la situazione vediamo dunque di seguire con ordine lo svolgimento
degli eventi.
Il 4 aprile 1949 era stata costituita la NATO e gli Stati Uniti erano tornati in forze
nel continente ben decisi a guidare la lotta planetaria al comunismo ed all’URSS, ma
bisognava risolvere anche il problema di un qualche riarmo della Germania
Occidentale visto che per evidenti motivi geostrategici NATO (o CED) non potevano
prescindere dalla sua partecipazione;
il 25 giugno 1950 le truppe della Corea del Nord (apertamente sostenuta dall’URSS e
dalla Cina di Mao) attraversarono il 38° parallelo ed invasero la Corea del Sud e
subito gli Stati Uniti accorsero in sua difesa (con numerosi alleati asiatici): lo scontro
fra i due blocchi era divenuto conflitto armato e la guerra di Corea rese molto più
concreto il bisogno di raccogliere tutte le forze del campo anticomunista – Germania
Occidentale compresa;
il progetto di riarmo della Germania Occidentale secondo il ‘Piano Acheson’ (il
Segretario di Stato americano) suscitò la netta (e scontata, dato che il riarmo era
inteso contro l’URSS) opposizione delle sinistre europee ed anche dei – non pochi –
neutralisti e pacifisti tedeschi stessi;
per risolvere l’impasse - e per limitare il peso ed il ruolo degli Stati Uniti in Europa –
il governo francese presentò allora il ‘Piano Pleven’ (l’allora Presidente del
Consiglio francese) che, elaborato in realtà da Jean Monnet, venne formalmente
approvato dal Consiglio d’Europa riunito a Strasburgo il 23 maggio 1952: esso
prevedeva la nascita della Comunità di Difesa Europea (CED) con un esercito
europeo composto da sei divisioni sotto il comando NATO ma gestito da un ministro
della Difesa europeo; ognuna delle nazioni partecipanti (i sei stati che avevano
fondato la CECA) avrebbero trasferito una divisione al nuovo esercito europeo ma,
salvo la Germania Occidentale, avrebbero mantenuto anche un esercito nazionale;
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un altro importante passo sulla via dell’integrazione europea sembrava essere stato
fatto ed addirittura l’Assemblea allargata della CECA redasse un primo statuto della
costituenda Comunità Politica Europea (CPE), vero e proprio embrione degli
imminenti Stati Uniti d’Europa, ma fu l’illusione di un momento;
i parlamenti di Germania Occidentale e del Benelux ratificarono la risoluzione, ma
non così quelli dell’Italia e della Francia;
in Italia il governo di De Gasperi – che pure era stato entusiasta del progetto e si era
speso con passione e determinazione sullo scenario internazionale per farlo approvare
– era caduto nel giugno 1953 ed i suoi successori avanzarono ostacoli ed esitazioni
mentre cercavano di mercanteggiare il loro voto in vista di una sistemazione più
favorevole del nostro confine orientale;
fu comunque la Francia a far fallire la CED: il 30 agosto 1954 la sua Assemblea
Nazionale infatti rigettò il Piano che pure era stato presentato due anni prima dalla
Francia stessa (!) e questo apparente paradosso necessita di una spiegazione:
innanzitutto i settori contrari o tiepidi nei confronti di tutto ciò che era europeo
(comunisti, neutralisti, nazionalisti contrari al riarmo tedesco, protezionisti allarmati
dall’apertura dei mercati, ambienti militari gelosi della sovranità nazionale delle forze
armate) erano sempre all’opera;
i sentimenti nazionali e conservatori (ben rappresentati da De Gaulle) stavano
riprendendo piede;
con la morte di Stalin (5 marzo 1953) il problema della sicurezza in Europa era
divenuto oggettivamente meno pressante;
la guerra di Corea si era definitivamente conclusa nell’estate 1953 spegnendo un
pericoloso focolaio di tensione internazionale;
la Francia stessa si era trovata sempre più coinvolta nella guerra d’Indocina per la
quale era dipesa in misura massiccia dagli Stati Uniti finchè, irrimediabilmente
sconfitta a Dien Bien Phu, nel giugno 1954 aveva dovuto desistere dall’impresa e
rassegnarsi alla Conferenza di Ginevra.
La CED era morta ancor prima di nascere ma questa ‘occasione mancata’ (come ebbe
a definirla Sergio Romano) non aveva in fondo troppo senso se si considera
innanzitutto la potenza, anzi, la superpotenza dell’URSS, poi che la crociata
anticomunista era già guidata (e largamente finanziata) dagli USA e che a provvedere
alla sicurezza in Europa c’era già la NATO: viene insomma da chiedersi a cosa
sarebbe mai servita davvero la CED.
Certamente a riequilibrare i rapporti fra le due sponde dell’Atlantico ed a rendere
l’Europa più autonoma ed indipendente, ma ciò avrebbe avuto anche dei costi non
indifferenti e avrebbe potuto portare a dissidi fra i partner europei, mentre con la
NATO era chiaro chi comandava (e chi pagava) – ed effettivamente sono più di 63
anni che in questo settore tutto procede senza problemi.
La difesa e la sicurezza dell’Europa occidentale era e rimaneva nelle mani degli
Stati Uniti: data la potenza dell’URSS ed i rapporti di forza all’interno del blocco
occidentale questo era forse inevitabile, ma per la prima volta nella sua storia
l’Europa aveva perso la sua indipendenza.
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Un chiaro esempio di questi nuovi rapporti di forza fu offerto dal modo in cui venne
risolto il problema del riarmo tedesco: era evidente infatti che gli Stati Uniti
avevano ragione quando sostenevano che la sicurezza dell’Europa occidentale
implicava necessariamente l’entrata della Germania Occidentale nella NATO e lo
stesso Primo Ministro francese Mendès France comprese che la Francia non poteva
continuare ad opporsi.
La soluzione venne trovata dal primo ministro inglese Anthony Eden che propose
l’allargamento anche all’Italia ed alla Germania Occidentale dell’Unione
dell’Europa Occidentale (UEO), un organismo per la cooperazione militare (ma
senza ambizioni unitarie!) di cui facevano già parte l’Inghilterra, Francia e Benelux:
il 23 ottobre 1954 il relativo Trattato di Bruxelles (del 1948) venne così modificato e
ciò permise alla Germania Occidentale di ricostituire un proprio esercito (con
limitazioni al numero di soldati e di armi) e di entrare nella NATO il 6 maggio 1955.
E’ interessante sottolineare che questa era la prima volta che l’Inghilterra aveva
manifestato un atteggiamento costruttivo nei confronti di un problema europeo – ma
non ne sarebbero seguiti molti altri.
La Conferenza di Messina
Nonostante il fallimento della CED il progetto di un’unione europea continuava ad
andare avanti anche perché spinto dalla realtà delle cose: gli stati nazionali, nati con
l’età moderna per raccogliere, coordinare e concentrare le forze delle società prima
divise ed isolate, e dunque portatori di sviluppo e di potenza; incoronati dal
Romanticismo con l’aura dello spirito patriottico, del concetto di popolo unito nella
sua lingua, cultura, civiltà, storia, tradizione, religione e stato; caduti un secolo dopo
nelle spire del nazionalismo aggressivo ed espansionistico; ebbene, questi stati
nazionali coi loro confini e le loro barriere stavano diventando delle gabbie che
imprigionavano le energie delle loro società anziché promuoverle – ed andavano
quindi superati.
Passi importanti in questa direzione furono fatti nella Conferenza di Messina il 1- 3
giugno 1955, una riunione dei ministri dei sei stati membri della CECA sotto la
presidenza di Spaak che redasse anche il testo delle proposte approvate, appunto il
‘Rapporto Spaak’.
Al di là delle decisioni prese, fu molto importante (e bello) quello ‘spirito di Messina’
che animò la conferenza ed i padri fondatori della futura Comunità Europea che vi
parteciparono: aleggiò allora la convinzione che si stava facendo qualcosa di grande e
di decisivo e che dunque non doveva esserci spazio per particolarismi, egoismi e
ripicche – e spesso in futuro nei momenti difficili ci si sarebbe richiamati a questo
spirito.
Alla conclusione dei lavori venne resa nota la ‘Dichiarazione (o Risoluzione) di
Messina’ con la quale i sei paesi annunciavano di voler procedere a) alla creazione di
una ‘Comunità Europea dell'Energia Atomica’ (o Euratom), b) di un mercato
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comune europeo in cui si sarebbe realizzata la libera circolazione di merci, servizi,
persone e capitali, e c) l’integrazione del sistema dei trasporti.
Le linee di intervento erano state decise, si trattava ora di renderle operative.
I Trattati di Roma
A Messina su impulso di ardenti europeisti come l’olandese Johan Willem Beyen, il
lussemburghese Joseph Bech, l’italiano Gaetano Martino, il francese Jean Monnet
(e naturalmente tanti altri) si era deciso di estendere il sistema già adottato e provato
colla CECA ad altri settori (i trasporti, e le fonti di energia tradizionali, l’energia
nucleare) e creare inoltre un’unione economica europea: i sei paesi avevano invitato
anche l’Inghilterra, ma questa aveva preferito accampare scuse e declinare l’invito.
In ogni caso, ben impostati a Messina, i negoziati procedettero senza troppi
impedimenti e si conclusero coi Trattati di Roma del 25 marzo 1957 (ed entrati in
vigore il 1 gennaio 1958), il vero atto di nascita dell’Europa unita.
Due furono le principali decisioni adottate a Roma.
Innanzitutto un Trattato istituì la Comunità europea dell'energia atomica (CEEA o
Euratom), un’organizzazione internazionale che mirava (e mira) alla condivisione ed
al coordinamento delle conoscenze, delle infrastrutture e del finanziamento dei
programmi di ricerca degli stati membri relativi all’energia nucleare allo scopo di
assicurarne e promuoverne un uso pacifico.
Questo trattato era di durata illimitata, non ha mai subito revisioni (a parte alcune
modifiche di natura finanziaria ed istituzionale) ed è attualmente in vigore.
L’Euratom trovò consensi anche negli Stati Uniti dove si seguiva con crescente
preoccupazione il miglioramento della tecnologia nucleare sovietica e, dopo la crisi
di Suez, si riteneva inoltre che lo sfruttamento dell’energia nucleare avrebbe potuto
sostituire il petrolio ed il gas in Europa: l’Euratom infine evitava un possibile
programma nucleare autonomo della Germania Occidentale e la manteneva legata
invece al resto dell’Europa.
Quando si fa riferimento al Trattato di Roma si allude comunque solo a quello (dei
due) che istituì la Comunità Economica Europea (CEE) ed effettivamente fu questa
la grande rivoluzionaria novità che cambiò l’intera storia del continente in quanto
stabilì:
1) l’eliminazione dei dazi doganali tra i sei stati membri: nasceva così il Mercato
Comune Europeo (MEC), un’ampia area in cui, in tre fasi successive per un
periodo complessivo di dodici anni, si sarebbe dovuta realizzare la piena e
libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali;
2) l’istituzione di una tariffa doganale esterna comune, ovvio corollario della
decisione del punto 1);
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3) l’introduzione di politiche comuni nel settore dell’agricoltura e dei trasporti
perché la prima aveva bisogno di un coordinamento ed i secondi di essere
riorganizzati alla luce della nuova e ben più estesa area di libero scambio;
4) la creazione di un Fondo Sociale Europeo in cui si stabilisse quali aree e settori
andavano sostenuti dall’intera comunità;
5) l’istituzione di una Banca Europea degli Investimenti che orientasse i fondi
comuni verso gli obiettivi che erano ritenuti i più meritevoli secondo una
prospettiva europea;
6) lo sviluppo della cooperazione tra i sei stati membri, evidente obiettivo
generale che realizzava il più genuino spirito europeo (o di Messina).
Oltre agli ideali di pace e di concordia, lo scopo del nuovo Mercato Comune
Europeo, dell’unione doganale e della conseguente armonizzazione delle legislazioni
economiche nazionali era quello di promuovere una crescita stabile e duratura del
continente (o, almeno, dei sei paesi firmatari): per procedere su questa strada era
allora necessario che il mercato di sbocco delle merci si ampliasse, che le risorse
venissero messe sempre più in comune e che gli attori economici si incontrassero ed
interagissero in uno spazio ben più ampio di quello che uno stato nazionale poteva
offrire.
Politica ed economia, ideali e concreti interessi, tutto si teneva insieme nei Trattati di
Roma e quello che istituì il MEC fu la base legale di molte decisioni prese, dalla CEE
prima e dall’Unione Europea dopo, per oltre mezzo secolo, fino all’entrata in vigore
(il 1 dicembre 2009) del Trattato di Lisbona che l’avrebbe modificato notevolmente
rafforzandone gli intenti ed adeguandoli meglio ai tempi intanto profondamente
mutati.
I Trattati di Roma furono ratificati dal Parlamento italiano il 30 luglio 1957 e questa
volta l’atteggiamento delle sinistre mutò: dopo i vergognosi fatti di Ungheria il PSI
aveva cominciato infatti a sganciarsi dalla soffocante alleanza col PCI, votò così a
favore dell’Euratom e si astenne a proposito del MEC: il PCI rimase invece
inflessibile nella sua opposizione a tutto ciò che poteva nuocere agli interessi
imperiali dell’URSS e Pietro Ingrao così la argomentò: ‘Votando contro questi trattati
intendiamo indicare alla classe operaia una prospettiva di autonomia e di lotta,
intendiamo chiamare la classe operaia a battersi insieme a tutte le forze sane e
minacciate da questi trattati per dare un corso diverso alla politica internazionale.’
Il Parlamento italiano alla fine approvò i Trattati con 311 voti favorevoli e 144
contrari – e il PCI aveva 142 seggi.
La scelta di entrare nel MEC fu comunque molto importante per l’economia italiana
stessa che potè inserirsi nel vasto nuovo mercato e conobbe uno sviluppo assai
veloce (il famoso ‘boom’) in tutti i settori (per esempio nel campo degli
elettrodomestici, dove l’Italia fu terza dopo Giappone ed USA).
13
Consolidamento e sviluppo
Con la nascita del MEC le decisioni erano state prese ed ora era tempo di affrontare il
lungo e duro lavoro per metterle in pratica e renderle effettive: fu un processo portato
avanti per lunghi anni in cui spicca il Trattato di fusione (nome convenzionale con il
quale è noto il ‘Trattato che istituisce un Consiglio unico ed una Commissione unica
delle Comunità Europee’) firmato a Bruxelles l’8 aprile 1965 ed entrato in vigore il 1
luglio 1967: tale Trattato si era reso necessario perché il MEC e la CEEA, operando
contemporaneamente e sullo stesso territorio della CECA, facilmente occupavano
l’una le competenze dell’altra rendendo spesso difficile individuarne addirittura gli
specifici campi di intervento.
Con questo Trattato gli esecutivi, la struttura organizzativa ed i bilanci delle tre
Comunità Europee vennero così fusi in una Commissione ed in un Consiglio delle
Comunità Europee unici (cui non si accompagnò comunque anche l’unificazione
delle loro funzioni, che restarono ovviamente separate).
Il Trattato sarebbe rimasto in vigore per oltre un trentennio finchè, dati gli sviluppi e
le complicazioni della CEE, non venne abrogato e sostituito dal Trattato di
Amsterdam (ratificato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1 maggio 1999).
Il 1 luglio 1968 l’Unione Doganale decisa a Roma divenne pienamente operativa ed
i sei paesi fondatori ebbero la soddisfazione di vedere ancora una volta i loro sforzi
coronati dal successo.
Il 1 gennaio 1971 entrò in vigore il Trattato di Lussemburgo (firmato il 22 aprile
1970) in base al quale le attività della Comunità europea si sarebbero dovute
finanziare con risorse proprie da ottenere coi dazi doganali per i prodotti importati da
paesi extracomunitari e dalle relative IVA.
L’importanza di questo provvedimento è del tutto evidente: l’autonomia economica
della CEE ne aumentava ipso facto l’indipendenza e la capacità di manovra in quanto
la svincolava considerevolmente dai controlli e dalle pressioni dei sei stati membri,
mentre il diritto di imporre tasse è da sempre sicuro appannaggio degli autentici
detentori del potere.
Il Trattato di Lussemburgo ampliò anche i poteri del Parlamento Europeo che ora
poteva respingere in toto il bilancio comunitario, tuttavia è lecito avanzare il dubbio
che questa misura andasse a vantaggio dell’indipendenza della CEE: il Parlamento
Europeo infatti col nome di ‘Assemblea comune della CECA’ era nato con
quest’ultima, aveva sede a Strasburgo e, soprattutto, non veniva ancora eletto in
quanto i suoi 78 membri erano indicati dai governi dei sei stati membri (previa
consultazione dei rispettivi parlamenti nazionali); in seguito ai Trattati di Roma il 19
marzo 1958 si era trasformato in ‘Assemblea parlamentare europea’ ma i suoi 142
membri erano ancora nominati dai sei governi; ed anche se il 30 marzo 1962 era
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divenuto ‘Parlamento Europeo’ continuava a rimanere pur sempre composto da
delegati.
Se insomma il Parlamento Europeo era un’emanazione dei governi nazionali, tali
erano anche i suoi poteri, quello di respingere il bilancio comunitario compreso.
Non sarebbe mai stato facile – né lo è oggi – trasferire davvero poteri e funzioni dagli
stati nazionali alla CEE, tuttavia, per quanti ostacoli e ritardi possano essere stati ed
ancora essere frapposti, il suo cammino è andato sempre avanti.
Il serpente monetario europeo
Il 15 agosto 1971, abolendo la parità tra dollaro e oro, il presidente statunitense
Richard Nixon mise improvvisamente fine al sistema di cambi fissi che aveva
governato il mercato mondiale fin dagli accordi di Bretton Woods: in quella cittadina
infatti il 1-22 luglio 1944 i 44 paesi che stavano combattendo contro Germania,
Giappone ed i loro alleati si erano riuniti in una Conferenza per costruire il nuovo
ordine monetario internazionale postbellico e, oltre a gettare le basi per la
costituzione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale,
avevano stabilito il cambio praticamente fisso di tutte le valute rispetto al dollaro e la
convertibilità di quest’ultimo con l’oro al costo di 35 dollari per 1 oncia (g. 28,35): in
questo modo tutto il sistema monetario internazionale era fatto ruotare intorno al
dollaro e, visto che i cambi erano fissi, era sempre possibile pretendere la conversione
delle valute in dollari od in oro – quest’ultimo divenuto ora il garante del loro valore.
Il sistema era durato a lungo, ma la guerra del Vietnam aveva fatto crescere
fortemente la spesa pubblica statunitense e di fronte all’emissione di dollari ed al
crescente indebitamento degli USA inevitabilmente erano aumentate le richieste di
conversione delle valute in oro: le riserve statunitensi si erano andate pericolosamente
assottigliando finchè, appunto, Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro.
Era la fine del sistema di cambi fissi e l’economia internazionale, fino ad allora
organizzata rigidamente da regole e procedure concordate tra tutti i paesi, veniva
improvvisamente dominata invece solo dal mercato.
Da quel ferragosto la struttura dell’economia mondiale cambiò radicalmente: la
decisione di Nixon fu una vera rivoluzione che rafforzò il ruolo degli Stati Uniti
nell’economia globale perché, liberati ora da ogni vincolo, essi poterono da allora
finanziare qualsiasi operazione semplicemente stampando moneta.
La CEE dovette fronteggiare e reagire a questo disordine: era evidente che la
stabilizzazione dei cambi era indispensabile per impedire che operazioni su questi
ultimi modificassero le condizioni della concorrenza, per mantenere in seno alla
Comunità prezzi e costi sotto controllo (soprattutto quelli della politica agricola
comune) e, più in generale, perché nessuna integrazione economica era possibile
senza la sicurezza e la stabilità monetaria.
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Il 24 aprile 1972 con l’accordo di Basilea i sei paesi membri della CEE insieme a
Inghilterra, Irlanda, Danimarca e Norvegia adottarono così il cosiddetto ‘serpente
monetario (o valutario) europeo’ il quale stabiliva che: a) ciascuna moneta doveva
stabilizzare il suo tasso di cambio in rapporto all’Ecu (European Currency Unit) in
una fascia di oscillazione (detta tunnel) del 4,5% (2,25 sopra e 2,25 sotto la parità
ufficiale); b) il valore dell’Ecu era uguale a quello del dollaro; c) i margini di
oscillazione delle monete europee fra di loro erano fissati entro una fascia del 2,25%
complessivo (1,125% sopra e 1,125% sotto le singole parità ufficiali).
Graficamente la curva delle fluttuazioni delle monete europee sembrava insomma un
serpente che si attorcigliava all’interno di un tunnel e tutto ciò avrebbe dovuto
permettere una certa regolarità nei cambi.
Il ‘serpente monetario’ equivaleva insomma a stabilizzare le monete europee intorno
al dollaro e (corollario indispensabile) il 19-20 ottobre 1972 - allo scopo di garantire
il controllo delle fluttuazioni dei cambi e di contenere le situazioni di debito o credito
delle banche centrali provocate dagli interventi di stabilizzazione dei cambi, richiesti
in ottemperanza all’accordo - venne istituito il Fondo Europeo di Cooperazione
Monetaria, in pratica il primo organo bancario centrale.
Il ‘serpente monetario’ non figurava nel Trattato costitutivo della CEE e non era
dunque obbligatorio accettarlo, ma fu estremamente importante perché segnò l’inizio
del coordinamento delle politiche monetarie nazionali degli stati della CEE (e non
solo) ed inoltre testimoniò la volontà europea di organizzarsi e di andare avanti sulla
via dell’unificazione: le numerose difficoltà che portarono infine al suo fallimento
furono in realtà anche preziosi insegnamenti.
Il meccanismo di controllo delle fluttuazioni venne infatti travolto in breve tempo dal
peggioramento della situazione economica: il divario dei tassi d’inflazione dei vari
paesi fu acuito dalla crisi petrolifera del 1973 (e dal disaccordo sulla politica
economica da seguire per contrastarne gli effetti) che innescò un forte e generalizzato
aumento dei prezzi, che a sua volta causò fluttuazioni nei cambi oltre i margini
prestabiliti e costrinse alcuni paesi ad uscire (salvo a volte a rientrare) dal sistema:
Inghilterra ed Irlanda uscirono nel giugno 1972, l’Italia nel febbraio 1973, la Francia
nel 1974, la Svezia si aggiunse dal 1973 al 1977 - e solo il marco tedesco, il fiorino
olandese, il franco belga, il franco lussemburghese e la corona danese restarono
vincolati agli accordi fino alla fine.
Il ‘serpente monetario europeo’ fu la prima attività di coordinamento delle politiche
monetarie nazionali - compito mai intrapreso in precedenza – e ne mostrò la
necessità: esso insomma fu il primo passo del percorso che condurrà allo SME,
all’unione monetaria e, infine, all’euro.
16
Il primo allargamento della CEE
Per oltre un ventennio l’Unione Europea era stata la creatura dei sei stati fondatori
che avevano saputo farla crescere, consolidare e sviluppare, ma per poter diventare
davvero unita l’Europa doveva includere molti (se non tutti) i paesi della sua parte
occidentale liberi dal dominio sovietico: non va mai dimenticato infatti che allora
l’Europa era un continente monco e diviso, attraversato da una incredibile ‘cortina di
ferro’ che lo segava in due e ne soffocava la parte orientale.
L’allargamento della CEE, quel processo in base al quale nuovi stati che lo chiedono
possono entrare a farne parte, era stato così previsto e attentamente preparato:
per poter entrare nella CEE uno stato doveva (e deve) a) essere uno stato
geograficamente europeo e b) far propri i principi di libertà, di democrazia, di rispetto
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dello Stato di diritto.
Il percorso da seguire era lungo e complesso ed è difficile stabilire fin dove si trattava
di ponderazione e prudenza e non di pedante burocrazia: Danimarca ed Irlanda
presentarono la domanda di adesione il 10 maggio 1967, i negoziati furono condotti
in tre conferenze ministeriali intergovernative svoltesi dal 30 giugno 1970 al 30
giugno 1971 ed il Trattato di adesione fu firmato a Bruxelles il 22 gennaio 1972, ma
non era ancora finita perchè secondo l’articolo 20 della Costituzione danese tutta le
leggi che comportavano limitazioni alla sovranità nazionale dovevano essere
approvate almeno dai 5/6 dei parlamentari o, qualora ciò non avvenisse, da un
referendum.
Siccome in Parlamento la maggioranza dei 5/6 non venne raggiunta, il referendum
sull’adesione della Danimarca alla Comunità Europea si tenne il 2 ottobre 1972, vide
un'affluenza alle urne del 90,4% e la vittoria dei favorevoli col 63,2% dei voti: la
Danimarca aderì alla Comunità Europea il 1 gennaio 1973 assieme all'Irlanda ed
all’Inghilterra.
L’adesione dell’Inghilterra insieme agli altri due stati non deve però far dimenticare
la sua posizione particolare sull’intera questione e merita un chiarimento.
Nei primi anni della costruzione della CEE uno dei problemi maggiori era stata la
mancata partecipazione dell’Inghilterra ed i motivi del suo rifiuto erano stati diversi:
innanzitutto, la sua ostilità alla cessione di (parte del) potere politico nazionale in
favore di istituzioni sovranazionali aveva radici storiche – anche tenuto conto della
sua insularità;
in secondo luogo, se nel dopoguerra nei paesi continentali l’idea della sovranità
nazionale aveva perso molto credito a causa dei grandi limiti mostrati dagli stati di
fronte all’occupazione nazista, in Inghilterra al contrario proprio le vicende belliche
avevano riaffermato con forza l’idea nazionale e stimolato l’orgoglio patriottico;
in terzo luogo, la ‘special relationship’ con gli USA era molto sentita in Inghilterra
che quindi temeva che il progetto europeo avrebbe potuto metterla in discussione o,
addirittura, generare atteggiamenti antiamericani;
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in quarto luogo, l’Inghilterra temeva che l’ingresso nella CEE avrebbe potuto limitare
il suo rapporto esclusivo col suo ‘Commonwealth’ grazie al quale manteneva notevoli
rapporti commerciali e politici colle sue ex-colonie e che considerava un’integrazione
riuscita ed una garanzia di grandezza e di prestigio internazionali;
in quinto luogo, l’Inghilterra mirava a mantenere una posizione di rilievo planetario
assieme alle due superpotenze con cui aveva vinto la guerra ed in Europa non voleva
ridursi ad essere un alleato fra gli altri;
in sesto luogo, anche se l’Inghilterra era una potenza economica nel campo del
carbone e dell’acciaio, aveva però rifiutato di entrare nella CECA sostenendo
l’impossibilità di sottomettere tali industrie, di proprietà statale, al controllo
internazionale;
in settimo luogo, l’Inghilterra voleva tutelare la propria tecnologia nucleare;
in ottavo luogo, l’Inghilterra, tradizionalmente liberista, guardava con favore alla
costruzione dell’unione doganale europea, ma pretendeva che ogni singolo stato, e
non la CEE, avesse il diritto di imporre proprie tariffe doganali nei confronti di paesi
terzi.
Tuttavia nel 1960 una serie di fattori modificarono sia la situazione nazionale inglese
che quella internazionale e portarono così il paese a modificare il suo atteggiamento:
innanzitutto, in seguito ai Trattati di Roma ed all’avvio della CEE i sei paesi membri
conobbero una notevole crescita economica mentre l’Inghilterra ristagnava, così fu
inevitabile che essa cominciasse a guardare con più interesse alla CEE stessa;
in secondo luogo, l’inevitabile perdita di centralità dell’Inghilterra – troppo piccola
rispetto alle due superpotenze - nell’éra della guerra fredda ne ridimensionò le
aspettative a livello internazionale;
in terzo luogo, gli Stati Uniti stessi, da sempre in ottimi rapporti con l’Inghilterra,
l’esortavano ad entrare nella CEE che pensavano sarebbe così divenuta più filoamericana;
in quarto luogo, il declino e la progressiva perdita del suo impero coloniale
contribuirono alla riduzione delle pretese geostrategiche inglesi.
L’Inghilterra insomma si veniva scoprendo sempre più europea e così nel 1961 il
governo (conservatore) di MacMillan avanzò domanda di adesione alla Comunità.
Tuttavia sia questa domanda, che quella del 1963, che quella avanzata (stavolta dal
governo laburista) nel 1967 vennero tutte respinte per il veto della Francia di De
Gaulle, ed i motivi di questa opposizione (insormontabile finchè il Generale fu al
potere) erano molteplici:
innanzitutto, la Francia temeva che l’ingresso dell’Inghilterra nella CEE avrebbe
comportato cambiamenti di alcune politiche comunitarie (come quelle
sull’agricoltura) a discapito della Francia stessa;
in secondo luogo, Parigi giudicava eccessivo il liberoscambismo di Londra;
in terzo luogo, per De Gaulle gli inglesi non erano veramente convinti e motivati ad
entrare nella Comunità Europea, né ad accettare i termini rigorosi posti dagli altri sei
paesi;
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in quarto luogo, Parigi temeva che le relazioni dell’Inghilterra con gli Stati Uniti
fossero troppo strette e che di conseguenza coll’entrata della prima si sarebbero aperti
eccessivi spazi di intervento anche per i secondi;
in quinto luogo, con l’Inghilterra nella CEE le relazioni strategiche si sarebbero
effettivamente modificate ridimensionando il ruolo della Francia;
in sesto luogo, con l’Inghilterra nella CEE Parigi temeva insomma di perdere la sua
leadership in Europa.
Il veto francese fu la peggiore e più grave crisi che la Comunità Europea dovette
affrontare (almeno fino a quel momento) ed è quindi necessario chiarire bene il
problema e le rispettive posizioni.
Sicuramente De Gaulle era un nazionalista e, da convinto assertore della ‘grandeur’
della Francia, la sua concezione dell’Europa Unita era quella di un’alleanza che
limitasse al minimo gli organismi sovranazionali ed in cui la Francia stessa
esercitasse un ruolo primario: non era dunque un vero europeista e, dal suo punto di
vista, non aveva torto a voler tenere l’Inghilterra, che effettivamente - col suo
‘Commonwealth’ e colla sua relazione speciale con gli Stati Uniti – era anch’essa
poco convinta della affermazione della CEE come soggetto politico autonomo e
sovranazionale; in ogni caso l’Inghilterra aveva un peso ed una rilevanza
internazionali tali che inevitabilmente ed oggettivamente avrebbero ridotti quelli della
Francia.
Per illustrare meglio questo punto può essere utile ricordare le politiche dei due paesi
a proposito dell’armamento nucleare e della NATO.
Dopo USA ed URSS, l’Inghilterra già dall’ottobre 1952 era stata la terza nazione a
sviluppare l’arma nucleare e fin dall’’Accordo di difesa reciproca’ del 1958 con gli
Stati Uniti aveva cooperato con loro in materia di sicurezza nucleare.
La ‘Force de dissuasion nucléaire française’ o ‘Force de frappe’ (Forza d’urto) fu
concepita invece nel 1958, prima ancora che il generale Charles de Gaulle tornasse al
potere e decidesse di far fallire l’Accordo tripartito (stipulato nel 1956 e con il quale
Francia, Germania e Italia avevano stabilito di dotarsi di armamenti nucleari prodotti
in comune) e di dare alla Francia un ‘deterrente nucleare’ autonomo: da allora la
dissuasione nucleare è considerata un pilastro della difesa francese e motivo di
grandezza nazionale.
Circa la NATO, l’Inghilterra, l’alleata più fedele degli USA, ne è sempre stata una
partner convinta mentre la Francia – ancora una volta – la intese sempre più come
un’alleanza fra stati indipendenti ed autonomi entro i loro confini, finchè la
famosissima lettera di De Gaulle al presidente statunitense Johnson del 7 marzo 1966
annunciò che ‘La Francia è determinata a riaffermare sul suo intero territorio il pieno
esercizio della sua sovranità oggi limitata dalla presenza permanente di militari alleati
o dall’uso che è fatto del suo spazio aereo; a cessare la sua partecipazione ai comandi
integrati; e di non mettere più le sue forze armate a disposizione della NATO.’
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Finchè fu al potere il generale De Gaulle la Francia fu sempre gelosa custode della
sua autonomia ed indipendenza e, contemporaneamente, ostile ad ogni
ridimensionamento del ruolo di leader nella CEE che aveva saputo conquistarsi:
l’Inghilterra dovette così restarne fuori.
E’ tuttavia evidente che questo veto così ostinato non poteva essere mantenuto troppo
a lungo e che la CEE avrebbe dovuto allargarsi ed aumentare la sua integrazione,
pena la sua scomparsa o la sua marginalizzazione: fin dalla sua elezione nel 1969 il
nuovo presidente francese Pompidou tolse così il veto e riaprì i negoziati per
l’ingresso anche dell’Inghilterra nella Comunità Europea – che (come si è già detto)
avvenne il 1 gennaio1973 e che venne confermato da un referendum in cui i
favorevoli furono il 67,20% (del 64,50% degli aventi diritto al voto).
Tuttavia l’ingresso dell’Inghilterra nella Comunità Europea comportò anche
l’emergere di problemi e di incomprensioni: essa infatti ha sempre frenato il processo
di una vera costruzione europea perché la CEE secondo gli inglesi avrebbe dovuto
essere una semplice area di libero scambio e di conseguenza svilupparsi soltanto dal
punto di vista economico - e non anche politico.
L’evoluzione politica della CEE è sempre stata percepita dall’Inghilterra come una
minaccia alla sua identità nazionale e così la sua strategia è stata costantemente volta
ad impedire la formazione di un super–Stato europeo.
L’Inghilterra è stata così da sempre considerata dagli altri paesi continentali un
‘awkward partner’ (un membro scomodo) ed il suo comportamento è stato definito
‘l’approccio minimalista britannico all’integrazione europea’.
Il Sistema Monetario Europeo
In campo valutario il fallimento del ‘serpente monetario europeo’ non poteva essere
accettato: la CEE infatti non poteva semplicemente esistere se non diveniva anche
un’area di stabilità monetaria che, limitando i rischi e le oscillazioni dei cambi,
rendesse di nuovo possibile un efficace funzionamento del mercato comune
industriale e di quello agricolo: nel 1978 dunque per ovviare all’eccessiva
oscillazione dei cambi, che evidentemente non permetteva nessuna vera integrazione
economica, l’Accordo monetario europeo venne rinegoziato con successo ed il 13
marzo 1979 nacque così il Sistema Monetario Europeo (SME) che, regolatore dei
rapporti tra le monete della CEE, segnò un altro deciso passo verso la sempre meno
eludibile unione monetaria europea.
Lo SME fissò i rapporti di cambio tra le valute dei paesi che avevano aderito in
precedenza al ‘serpente monetario europeo’ (ad eccezione in un primo tempo della
sterlina): esso decise cambi stabili (per quanto soggetti a revisione) sulla base di una
parità centrale definita rispetto all’ECU che però – e questa era la novità – era
calcolato indipendentemente dal dollaro e rappresentava la media ponderata delle
valute europee.
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I margini di fluttuazione di ogni valuta continuavano ad essere del 4,5% (il 2,25%, in
più o in meno della parità con l’ECU) e, se questo non avveniva, la banca centrale di
ogni paese era tenuta ad intervenire comprando o vendendo valuta: a causa del suo
elevato tasso di inflazione la banda di oscillazione della lira italiana fu del 12% (6%
in più o in meno della parità con l’ECU) e solo nel gennaio 1990 sarebbe riuscita ad
entrare in quella ‘stretta’ del 4,5%.
L’importanza dello SME è evidente: esso permetteva agli operatori economici di
poter contare su cambi regolari ed abbastanza precisi e di potersi muovere dunque
con una certa sicurezza all’interno della CEE di cui rappresentò un ulteriore
progresso.
L’elezione del primo Parlamento Europeo
Il processo di costruzione della CEE ha subito dei rallentamenti ed ha dovuto
superare crisi ed ostacoli, ma non si è fermato mai: dopo l’ingresso di Danimarca,
Irlanda ed Inghilterra nella CEE la necessità più avvertita fu così quella di radicare il
sentimento di appartenenza europeo nella società e renderla più partecipe della
costruzione della nuova realtà continentale.
Il 20 settembre 1976 a Bruxelles il Consiglio Europeo decise di trasformare il
Parlamento Europeo da assemblea (nata insieme alla CECA) composta da membri
nominati dai vari parlamenti nazionali in organo elettivo a suffragio universale
diretto: le prime elezioni si svolsero così il 7-10 giugno 1979 ed il numero dei suoi
componenti – ogni stato ne ebbe in proporzione ai suoi abitanti - passò da 198 a 410.
Per noi italiani queste elezioni furono importanti anche perché ad esse fu favorevole
anche il PCI che, guidato da Enrico Berlinguer, aveva ormai abbandonato le sue
pregiudiziali antieuropee tanto che candidò e fece eleggere lo stesso Altiero Spinelli,
da sempre consulente in campo europeo ed ispiratore di uomini politici e dei governi.
Le competenze di questo organo erano tuttavia frutto di difficili equilibri e di
compromessi.
In estrema sintesi il Parlamento Europeo (con sede a Strasburgo) esercitava il potere
legislativo nella CEE per tutto ciò aveva rilevanza comunitaria, ma doveva
convivere coi poteri legislativi dei parlamenti nazionali cui spettava la ratifica di
quanto da esso stabilito: il Parlamento Europeo godeva insomma di un rapporto
fiduciario coi parlamenti nazionali cui però spettava ancora l’ultima parola.
Il secondo allargamento della CEE
Nonostante la nuova crisi petrolifera del 1979 aggravasse le difficoltà economiche e
finanziarie dei vari paesi europei (e non solo), nondimeno (o forse proprio per questo)
il processo di integrazione e di unificazione non si fermò ed il 1 gennaio 1981 anche
la Grecia entrava definitivamente nella CEE diventandone il decimo membro.
21
In realtà la Grecia era stata associata alla CEE fin dal 1962, ma ne era stata sospesa
quando il 21 aprile 1967 i cosiddetti ‘colonnelli’ avevano brutalmente preso il potere
ed instaurato il loro nefando regime e, in assenza di democrazia, era venuto a
mancare il requisito fondamentale per l’appartenenza del paese alla CEE.
Fu quindi ben comprensibile che quando finalmente il 24 luglio 1974 l’odiato ed
esecrato regime dei ‘colonnelli’ crollò e venne ripristinato il sistema parlamentare,
ripartirono anche le trattative per l’adesione alla CEE che culminarono con la firma
del relativo accordo il 28 maggio 1979: in realtà il leader conservatore Karamanlis, il
sottoscrittore dell’accordo, dovette superare lo scetticismo di una parte non
trascurabile della popolazione e fu criticato dall’opposizione socialista che, anch’essa
contraria, aveva chiesto almeno un referendum confermativo.
La scelta risultò tuttavia irreversibile: Karamanlis si dimise da capo del governo per
essere eletto presidente della repubblica il 15 maggio 1980 e l’anno seguente i
socialisti del Pasok di Papandreu vinsero le elezioni ma, pur dovendo affrontare gli
effetti della crisi petrolifera ed in presenza di una congiuntura economica negativa,
non misero in discussione l’ormai avvenuto ingresso nella CEE.
Per la Grecia l’ingresso nella CEE rappresentò il coronamento dell’intenso sforzo
compiuto per raggiungere un livello economico tale da farla considerare alla stessa
stregua dei principali stati europei: ancora nel 1960 la Grecia esportava per il 90%
prodotti agricoli e zootecnici mentre quelli industriali contribuivano al reddito
nazionale in modo estremamente esiguo, ma a partire da allora si era avviato un
processo di industrializzazione e di modernizzazione che aveva mutato la fisionomia
socioeconomica del paese e dieci anni dopo per la prima volta i prodotti industriali
avevano superato quelli agricoli nella formazione del reddito nazionale.
Malgrado questi progressi (e quelli che si sarebbero verificati negli anni Ottanta), in
ambito comunitario l’economia greca era comunque - e sarebbe rimasta - la più
arretrata insieme a quella del Portogallo.
La Dichiarazione solenne sull’Unione europea
Come una valanga, più il processo di unificazione europea avanzava, più acquistava
velocità: dopo l’ingresso del decimo paese nella CEE furono così l’Italia (il cui
Presidente del Consiglio era allora il repubblicano Giovanni Spadolini, di sicura fede
europeista) e la Repubblica Federale Tedesca a prendere l’iniziativa.
Il 6 novembre 1981 veniva infatti presentato a tutti i membri della CEE il cosiddetto
piano ‘Genscher-Colombo’ (i due ministri degli Esteri), un progetto di ‘Atto europeo’
volto ad approfondire il processo di integrazione del continente; il Consiglio Europeo
del 26-27 novembre 1981 diede mandato a tutti i ministri degli Esteri di approfondire
l’argomento ed il prodotto di questa riflessione fu la Dichiarazione solenne
sull’Unione europea (detta anche ‘dichiarazione di Stoccarda’) adottata il 17-19
giugno 1983 e da rivedere ogni cinque anni.
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Gli intenti espressi nella Dichiarazione erano quanto mai lucidi nel riconoscere che
l’Europa poteva solo procedere sul suo cammino di unificazione e che era
praticamente costretta a farlo se voleva che la sua azione avesse senso e risultasse
incisiva: ciò richiedeva dunque un crescente coordinamento delle sue iniziative e dei
suoi processi decisionali ed una migliore definizione dei suoi organi direttivi.
La Dichiarazione infatti era a favore di:
1) la volontà di approfondire e di rafforzare l’integrazione;
2) la riaffermata adesione ai principi democratici ed al rispetto dei diritti umani;
3) l’esigenza di maggiori coerenza e coordinamento nelle politiche comuni;
4) l’impegno ad armonizzare le legislazioni europee soprattutto nel
completamento del mercato unico;
5) la costruzione di meccanismi decisionali più efficienti sui temi economici,
monetari, del mercato interno, delle politiche industriali e dell’agricoltura;
6) il rafforzamento del coordinamento nella politica estera;
7) una maggiore cooperazione sui temi culturali;
8) una prima istituzionalizzazione del Consiglio Europeo;
9) un rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo.
E’ chiaro che erano gli ultimi due punti ad essere quelli decisivi e cruciali perché
senza di questi tutti gli altri sarebbero rimasti auspici ed inviti dipendenti dalla buona
volontà (o dalla convenienza) dei vari stati membri.
Il Parlamento Europeo (con sede a Strasburgo) era (ed è) eletto a suffragio diretto
universale e questo ovviamente avrebbe dovuto conferirgli autorità e prestigio, ma
finchè le sue decisioni dovevano essere ratificate dai parlamenti nazionali e finchè al
suo interno si facevano sentire gli interessi dei vari stati membri è evidente che la sua
azione poteva essere poco più che di indirizzo: un rafforzamento dei suoi poteri era
quindi quanto mai opportuno e necessario sulla via dell’integrazione e dell’unione del
continente.
Il Consiglio Europeo (con sede a Bruxelles) era (ed è) composto dai Capi di stato o
di governo dei paesi membri: esso era nato dalla prassi instaurata fin dal 1961 di
tenere riunioni, informali e senza una cadenza prestabilita, ed era divenuto
l’istituzione in cui i leader della CEE si incontravano e discutevano tra loro ma le
regole del suo funzionamento non erano state previste, così cominciarono ad essere
definite nel corso di alcune riunioni del Consiglio Europeo stesso (Londra 1977 e,
appunto, Stoccarda 1983).
Come sempre a proposito del processo di integrazione europea, ogni passo avanti era
la premessa per quello successivo ed anche la Dichiarazione solenne fornì la base del
dibattito che avrebbe poi portato nel 1987 all’adozione dell’Atto Unico Europeo - ma
allora la CEE sarebbe stata composta di dodici paesi membri.
23
Il terzo allargamento della CEE
I percorsi che portarono la Spagna ed il Portogallo nella CEE il 1 gennaio 1986
furono simili e completarono il definitivo rientro dei due paesi nel novero delle
nazioni civili e democratiche - e questo fu (ed è) un aspetto della massima importanza
del processo di integrazione europea.
Come nel caso della Grecia, la rinascita democratica delle due nazioni veniva
definitivamente certificata dalla sua entrata CEE che, oltre allo stato delle sue
istituzioni, aveva verificato e controllato anche il corretto funzionamento della loro
economia: entrando nella CEE anche Spagna e Portogallo uscivano dall’isolamento
ed accettavano di condividere un progetto comune di collaborazione, di rispetto e di
amicizia.
In Portogallo il 25 aprile 1974 la cosiddetta ‘rivoluzione dei garofani’ aveva posto
fine in modo incruento a quasi mezzo secolo di dittatura - iniziata con la presa del
potere da parte di Salazar nel 1926 e, dopo la morte di questo nel 1970, di Caetano.
Il paese si era improvvisamente risvegliato pieno di entusiasmo e con forti speranze
ed esigenze di rinnovamento: il nuovo governo socialista aveva così voluto operare
una radicale trasformazione delle strutture produttive pesantemente arretrate e
lanciarsi in non meno incisive riforme in campo sociale, ma i risultati erano stati
scarsi e contraddittori.
Senza entrare nel merito dei problemi, l’arretratezza culturale ed i ritardi da colmare
in ogni ambito erano molto profondi: gravi errori vennero commessi dal governo (per
esempio nella confisca dei latifondi, nelle nazionalizzazioni e nella riforma
fondiaria); le acute tensioni sociali resero incerto il clima politico; scarso fu l’afflusso
di capitali stranieri; ed infine la perdita delle colonie (Angola, Mozambico e Timor
Est) ebbe grosse ripercussioni sull’equilibrio del paese.
Era stata proprio l’insostenibilità della guerra in Africa a far precipitare
definitivamente la situazione ed a portare alla ‘rivoluzione dei garofani’, ma la fine
dell’impero portoghese portò anche nuovi problemi: se da un lato la perdita delle
colonie pose finalmente termine alle elevatissime spese belliche a lungo ed
inutilmente sostenute per il mantenimento dei territori d'Oltremare, dall’altro però il
Portogallo si vide privato delle materie prime a buon mercato (soprattutto di quelle
destinate alla fondamentale industria tessile) cui era abituato; fattore non meno grave
fu l’arrivo nella madrepatria, da sempre caratterizzata da una pesante disoccupazione,
di un milione di ex-coloni, i cosiddetti ‘retornados’, che si sommò
all’assottigliamento dei flussi migratori in uscita.
Era evidente che il Portogallo non poteva risolvere i suoi problemi da solo (ma quale
nazione può farlo?): dopo alcuni anni di alternanza politica le elezioni anticipate del
marzo 1983 riportarono al governo gli europeisti del socialista Mario Soares che
subito aprì le trattative per l’ingresso del paese nella CEE che il 12 giugno 1985 si
conclusero positivamente.
24
I benefici si videro immediatamente: subito iniziò una fase di vivace sviluppo che
elevò sensibilmente il tasso di incremento del prodotto interno lordo mentre
l’economia nazionale veniva liberalizzata, il paese si andava industrializzando ed
arrivavano i capitali della Comunità: parallela era ovviamente l’apertura politica e
culturale del Portogallo che in breve tempo era divenuto irriconoscibile rispetto al
chiuso, arretrato e marginale paese che era stato fino a pochi anni prima.
Questa è l’Europa quando vi si lavora insieme.
Anche la Spagna a partire dalla fine della guerra civile (1939) si era chiusa in un
vero e proprio isolamento politico: nonostante qualche elemento di novità, la
dittatura del ‘generalissimo’ Francisco Franco col suo rimpianto per il passato, il suo
attaccamento alla tradizione e la sua paura del nuovo e del progresso, aveva
inevitabilmente fatto accumulare al paese tutta una serie di ritardi economici rispetto
agli altri stati europei.
Tuttavia alla morte di Franco (il 20 novembre 1975) il giovane re Juan Carlos I riuscì
ad aprire il paese alla democrazia ed a riscattarlo dal suo isolamento e dalla sua
arretratezza grazie anche all’ordinata collaborazione della società spagnola e dei suoi
partiti: il percorso di transizione con la sua costruzione di solidi rapporti
internazionali ed i suoi inevitabili e necessari allineamenti socio-economici e politici
culminò così con l’ingresso nella CEE avvenuto col governo del socialista Felipe
Gonzales.
Ancora una volta un paese sino ad allora rimasto chiuso nell’ambito di una politica
economica autarchica e protezionistica (riuscita peraltro a salvaguardare il
tradizionale settore tessile oltre a quello siderurgico e metalmeccanico) aveva
compiuto la decisiva scelta europea: tale decisione metteva in evidenza tutte le
arretratezze strutturali del paese, ma implicava chiaramente anche la volontà di
superarle e di competere con l’estero.
Cosa ancora più importante, come il Portogallo anche la Spagna accettava
l’integrazione in Europa e la collaborazione costante con gli altri stati: non si può non
tenere sempre a mente questo ruolo importantissimo svolto dalla CEE.
L’Atto Unico Europeo
Come si è già detto, la Dichiarazione solenne aveva costituito il punto di partenza per
l’elaborazione dell’Atto Unico Europeo, visto che il processo di integrazione non
poteva fermarsi e che era quindi necessario a) proseguire la costruzione del mercato
interno superando e risolvendo le difficoltà economiche degli anni Settanta (dovute
principalmente alle due crisi petrolifere) e b) cominciare a costruire anche le strutture
dell’unione politica dell’Europa.
Tutto ciò era inevitabile: era l’integrazione economica stessa a richiedere
completamento e sviluppo progressivi, mentre l’unificazione politica era anch’essa
inevitabile se si voleva davvero superare i limitati che gli stati nazionali europei, in
quanto tali, non potevano che avere.
25
Era evidente che con una produzione globale di poco inferiore a quella degli Stati
Uniti e doppia rispetto a quella dell’Unione Sovietica e con 1/3 del commercio
internazionale (metà del quale fra i dodici stati membri), l’Europa non era tuttavia
alla loro altezza e se fossero ritornati indipendenti fra loro gli stati membri sarebbero
scivolati inesorabilmente verso il sottosviluppo industriale e la conseguente instabilità
politica (per non dire altro).
I costi della non-Europa sarebbero stati insomma proibitivi, fallimento della ricerca e
presenza di sprechi e doppioni compresi.
La Comunità Europea aveva inoltre una popolazione di più di 300 milioni di persone,
più numerosa di quella statunitense e due volte e mezzo quella giapponese: le
potenzialità erano dunque immense ed era quindi tempo di passare da un’unione
puramente doganale fra gli stati membri alla costruzione di un autentico mercato
unico continentale – e questo richiedeva anche una moneta unica (ed una banca
centrale europea).
Subito dopo la Dichiarazione solenne erano così iniziati i lavori di due Comitati
(Dooge ed Adonnino) che al Consiglio europeo di Milano del 28-29 giugno 1985
presentarono le loro relazioni e le loro proposte: queste andavano dalla istituzione di
una ‘comunità tecnologica’ che mettesse in comune formazione e ricerca alla
creazione di uno spazio giuridico comune europeo per la lotta contro il crimine e per
la tutela delle libertà fondamentali; dal potenziamento dello SME attraverso un
coordinamento delle politiche economiche, di bilancio e monetarie, alla riduzione a
poche materie del voto all’unanimità; dalla semplificazione delle procedure ad una
maggior cura nell’informazione sulle attività della CEE.
Era infine stata richiesta una Conferenza dei rappresenti degli stati membri al fine di
stilare un nuovo Trattato.
In realtà i giochi furono molto più complicati di quanto si potesse supporre e le
resistenze più forti vennero (al solito) dall’Inghilterra di Margareth Thatcher che
voleva impedire ogni rafforzamento politico della CEE e che puntava semmai ad un
accordo minimalista: fu il ministro degli Esteri italiano Giulio Andreotti (presidente
di turno) che si impuntò proclamando che l’Italia non avrebbe mai accettato un
accordo al ribasso e che pretese che la proposta del cancelliere tedesco Helmut Khol
per una Conferenza intergovernativa venisse votata.
Così fu: la Conferenza intergovernativa venne però approvata soltanto a maggioranza.
e con i voti contrari di Inghilterra, Danimarca e Grecia: essa avrebbe avuto come basi
della discussione e la relazione Dooge ed il Libro bianco della Commissione
europea presieduta dal francese Jacques Delors.
Il ‘Libro bianco’ di Delors si poneva il duplice obiettivo di organizzare il
completamento del Mercato Unico e di specificarne i benefici: per questo esso
stabiliva le tappe del processo d’integrazione (a partire già dal 1985 e con la scadenza
al 31 dicembre 1992) individuando ben 279 provvedimenti legislativi necessari per
abbattere tutte le barriere fisiche, tecniche e fiscali ancora esistenti.
26
Sotto la direzione della Commissione Delors i lavori della Conferenza
intergovernativa durarono tre mesi ed il compromesso fu infine raggiunto al
Consiglio Europeo di Lussemburgo: anche se in tale occasione venne affossata
definitivamente le speranza di una svolta federalista del percorso d’integrazione ed
anche se tale risultato per motivi opposti venne accolto con riserva da Italia e
Danimarca (il cui Parlamento lo bocciò addirittura, costringendo il governo danese ad
indire un referendum popolare che si tenne il 27 febbraio 1986 e che espresse però
parere favorevole), il testo finale, ormai noto come Atto Unico Europeo, fu firmato
il 17 febbraio 1986 da nove membri e da Danimarca, Italia e Grecia il 28 seguente:
entrò in vigore il 1 luglio 1987.
L’Atto Unico Europeo segnò una tappa importante nel percorso di integrazione ed i
suoi capisaldi furono questi:
1) eliminazione del voto all’unanimità (che per un solo contrario poteva bloccare i
lavori e le decisioni) in diversi settori-chiave: ora le delibere che si potevano prendere
a maggioranza salivano di fatto da 1/3 a ¾;
2) istituzionalizzazione della politica regionale, ambientale e di ricerca;
3) istituzione di un ‘Fondo europeo di sviluppo regionale’, strumento fondamentale
per la coesione economica e sociale – un nuovo obiettivo europeo introdotto
dall’Atto: il problema era infatti che il completamento del mercato unico avrebbe
inevitabilmente avvantaggiato le regioni economicamente più avanzate (Benelux,
Francia settentrionale, Inghilterra sud-orientale, Germania occidentale, ecc.)
privandole di ostacoli e permettendo loro di competere liberamente con quelle meno
sviluppate. Si sarebbe insomma verificato ancora una volta il fenomeno per cui il
liberismo rende i forti più forti ed i deboli più deboli - e ciò andava evitato: la politica
comunitaria si pose invece l’obiettivo di ridurre il divario fra le regioni e gli stati;
4) stabilimento di (molto importanti) regole sulla concorrenza;
5) riconoscimento istituzionale delle procedure di cooperazione monetaria istituite
con lo SME;
6) conferimento al Parlamento Europeo del potere di ‘parere conforme’ per gli
accordi di adesione, associazione e cooperazione coi paesi terzi: in questo modo
veniva prevista la formulazione da parte del Parlamento Europeo di un parere
obbligatorio e vincolante, in pratica un sostanziale diritto di veto sulle proposte del
Consiglio Europeo;
7) conferimento al Parlamento Europeo di una ‘procedura di cooperazione’ con il
Consiglio Europeo: questa prevedeva un sistema di doppia lettura delle proposte
legislative da parte del Parlamento e del Consiglio stessi e, se al termine della
seconda lettura il Consiglio non voleva accogliere gli emendamenti del Parlamento,
avrebbe potuto farlo solo con un voto all’unanimità (i punti 5) e 6) costituivano
evidenti ed indubbi rafforzamenti del Parlamento stesso);
8) ‘cooperazione’ in politica estera;
9) prima definizione di una politica della sicurezza comune;
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10) abolizione dei controlli alle frontiere e rafforzamento di quelli alle frontiere
esterne;
11) adeguamento delle regole tecniche che dovevano diventare comuni (per esempio,
un prodotto riconosciuto sano e sicuro in uno stato membro lo sarebbe stato anche in
tutti gli altri);
12) riconoscimento reciproco di titoli di studio e professionali.
Lo scenario cambia ancora
Naturalmente tutte le norme approvate in sede di Consiglio Europeo andavano
ratificate e recepite dai parlamenti nazionali e sarebbe toccato agli stati collaborare al
loro rispetto, nondimeno con l’Atto Unico Europeo finiva la lunga e complessa
preparazione dell’Unione Europea che, ormai imminente, sarebbe però nata (a
Maastricht) in uno scenario internazionale del tutto mutato.
Lo storico Consiglio Europeo di Hannover (giugno 1988) aveva infatti conferito ad
uno speciale Comitato presieduto da Jacques Delors l’incarico di elaborare le
proposte relative a rendere l’Atto operativo, ma quando nella primavera dell’anno
seguente il Comitato le presentò, la situazione internazionale era in procinto di
mutare profondamente e l’intero progetto di Unione Europea andava dunque
aggiornato e ripensato prima ancora di entrare in funzione (!).
L’Unione Europea era stata infatti concepita e prevista in un mondo diviso nei due
blocchi ed era stata intesa per la sola parte occidentale dell’Europa, invece avrebbe
visto la luce proprio quando l’URSS era appena crollata, il continente andava
riunificato ed il comunismo era morto e sepolto.
Crollo dell’URSS e riunificazione dell’Europa
Il 1 gennaio 1992 nasceva ufficialmente la Federazione Russa dopo che sulle torri
del Cremlino il suo tricolore aveva cominciato a sventolare fin dal precedente 25
dicembre al posto della bandiera rossa dell’URSS.
Nessuno si stupì di un evento pur così importante nella storia del pianeta stesso
perchè tutti sapevano bene che l’URSS – inesorabilmente travolta dalle sue
contraddizioni interne - era già definitivamente finita senza rimpianti: lo stesso Soviet
Supremo, come ultimo atto del suo mandato, l’aveva sciolta ufficialmente il
precedente 26 dicembre.
Giungeva così a conclusione un drammatico triennio i cui sviluppi politici avevano
scandito l’inesorabile ed inarrestabile processo di disfacimento e dissoluzione di
quella che era stata la seconda superpotenza della Terra.
Il 1989 era iniziato col definitivo ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan il 15
febbraio, saggia e non più rimandabile decisione che faceva finalmente cessare
l’inconsulta occupazione militare giunta già al suo decimo anno.
28
Era proseguito poi con la perdita degli Stati-satellite della cintura esterna
occidentale dell’Impero: Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria,
Germania Est, una dopo l’altra in un tumultuoso vortice di rivolte e manifestazioni si
erano liberate della pesante e soffocante tutela sovietica cacciandone a furor di
popolo i tristissimi rappresentanti locali.
L’evento simbolo per eccellenza di questo processo era stata la celeberrima caduta
del Muro di Berlino la notte del 9 novembre.
Nei due anni seguenti erano poi giunti a conclusione il processo di liberazione ed il
raggiungimento dell’indipendenza dei popoli e dei paesi sottomessi all’interno
dell’Impero, dalle Repubbliche sul Baltico a quelle sul Caucaso, da quelle
nell’Europa orientale a quelle nella sterminata Asia centrale.
Il 21 dicembre 1991 era nata così la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) - della
quale anche la Russia era una componente - che cercava di tenerli ancora collegati
grazie a quei legami ancora utili e necessari dopo settant’anni di appartenenza allo
stesso stato.
Colui che aveva saputo affrontare ed interpretare un rivolgimento di questa portata
era stato l’allora segretario del PCUS e poi presidente del Soviet Supremo Michail
Gorbaciov che, partito nel 1985 con una politica volta a riformare e democratizzare
l’URSS, non solo era riuscito a rendersi conto che ciò era impossibile e che
l’immenso edificio era talmente corroso che poteva solo crollare, ma, soprattutto, era
riuscito ad accompagnare ed a gestire la gigantesca trasformazione senza ricorrere
mai alla violenza (che ci fu solo là dove il controllo sovietico arrivava meno, come in
Romania).
Per opporsi all’inevitabile cambiamento il 18 agosto 1991 a Mosca era stato perfino
tentato un colpo di stato ad opera di un gruppo di alti ufficiali e di funzionari che
addirittura aveva imprigionato Gorbaciov insieme alla famiglia; tre giorni dopo il
golpe era tuttavia già fallito anche per il deciso intervento del presidente della
Repubblica Russa Boris Eltsin e per la resistenza popolare, ma questa era stata la fine
politica dello stesso Gorbaciov che, incolpato di scarsa vigilanza e di incapacità, fu
messo bruscamente da parte mentre il 21 agosto il PCUS stesso veniva bandito
dall’URSS.
Il crollo dell’URSS è l’evento che sega la storia del mondo contemporaneo in due,
distinta fra un prima ed un dopo – e, tutto sommato, avvenne nell’ordine e nella
compostezza: così finiva il ‘secolo breve’ secondo la fortunata formula di Hobsbawn,
iniziato nel 1914 con lo scoppio della prima guerra mondiale e, appunto, terminato
coll’irreversibile fallimento dell’URSS.
Per quel che riguarda il processo di integrazione europeo il crollo dell’URSS e del
comunismo (almeno in Europa) ebbe conseguenze enormi non solo perché la
immediata riunificazione della Germania portò all’interno della CEE anche l’exDDR, ma anche e soprattutto perché l’integrazione europea stessa era stata pensata ed
organizzata in un continente profondamente diviso in due parti nemiche ed armate
fino ai denti mentre ora esso riacquistava la sua unità e la sua parte orientale era
profondamente arretrata rispetto a quella occidentale.
29
Il nuovo compito dell’Europa era dunque organizzare, accompagnare e gestire la
ricostruzione dei paesi ex-comunisti, rimettere sul mercato la loro economia,
sostenere e favorire il loro approdo al sistema democratico-parlamentare: un compito
enorme, ben più impegnativo di quello affrontato per accogliere ed inserire nella CEE
i paesi ex-fascisti (Grecia, Spagna e Portogallo).
La riunificazione della Germania
Dopo le numerose ed imponenti manifestazioni nelle principali città della DDR, le
dimissioni di Erich Honecker - sostituito con Egon Krenz - (18 ottobre 1989) e di
tutto il suo governo (7 novembre), il celeberrimo crollo del Muro di Berlino (9
novembre), il nuovo governo dell’ex-SED Hans Modrow (13 novembre), la
proclamazione della fine del ruolo-guida del SED (1 dicembre), le dimissioni di
Krenz e di tutto il Politburo (3 dicembre), la trasformazione del SED in Partito del
Socialismo Democratico (PDS) (8-9 dicembre), il 18 marzo 1990 si tennero le prime
(ed ultime) libere elezioni della storia della Repubblica Democratica Tedesca e da
queste uscì un governo (dominato dalla CDU) il cui principale mandato era quello di
negoziare la fine stessa dello stato che rappresentava.
Il Muro era caduto ma esistevano ancora due Germanie, due stati con istituzioni
politiche, sistemi economici, leggi, scuole, università, tutta l’organizzazione della vita
pubblica completamente diversi - e bisognava provvedere alla unificazione sia
internazionalmente che internamente.
Sotto la guida del nuovo primo ministro (dal 12 aprile 1990) Lothar de Maizière, la
Germania Est negoziò con la Germania Ovest, l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti
e l’Unione Sovietica le condizioni della riunificazione tedesca:
il 14 luglio 1990 fu raggiunto un accordo che permetteva alla Germania di rimanere
nella NATO a condizione che le truppe di quest’ultima non fossero stanziate nei
territori della ex-Germania Orientale;
il 18 maggio i governi tedeschi dell’Est e dell’Ovest firmarono l’accordo per l’unione
sociale, economica e delle due monete, che entrò in vigore il 1 luglio;
il 23 agosto il parlamento della Germania Orientale approvò la proposta di unione
con quella Occidentale;
la Germania fu ufficialmente riunificata il 3 ottobre 1990 (questa è la data
designata per il ‘Giorno della riunificazione’), quando i cinque Länder orientali
(Brandeburgo, Meclemburgo-Pomerania Occidentale, Sassonia, Sassonia-Anhalt e
Turingia), ora trasformati in province, aderirono formalmente alla Repubblica
Federale di Germania (Germania Ovest), anche se fra i tedeschi dell’est ciò fu causa
di un diffuso sentimento di frustrazione per essere stati di fatto occupati ed annessi
(poteva anche essere vero, ma – concretamente – cos’altro sarebbe stato possibile
fare?);
un emendamento della costituzione affermò esplicitamente che ‘...non ci sono altre
parti della Germania, esistenti al di fuori dei territori unificati, che non hanno ancora
30
acceduto alla federazione’ e il 14 novembre 1990 il governo tedesco firmò un
trattato con la Polonia che riconosceva confine permanente tra i due stati la linea
Oder-Neisse (stabilita da Stalin) rinunciando così a qualsiasi rivendicazione su Slesia,
Pomerania Orientale, Danzica e Prussia Orientale.
Le elezioni della Germania riunificata si risolsero con un ulteriore incremento della
maggioranza democristiana del governo del cancelliere Helmut Kohl.
I costi della riunificazione furono un grosso fardello per l’economia tedesca e furono
coperti con un massiccio ricorso all’indebitamento, ma erano inevitabili data la
assoluta volontà di mantenere unito il paese, di inserirlo da subito e tutto nella CEE,
di privatizzare, chiudere, ristrutturare e ammodernare le industrie e le aziende di
stato, di assumersi i costi dell’adeguamento e dell’omogeneizzazione dei servizi in
tutto il territorio e, insomma, di pareggiare le condizioni fra le due Germanie.
In Europa solo i tedeschi potevano essere in grado di accollarsi un simile impegno e,
nonostante tante difficoltà, sono riusciti nell’impresa continuando per di più a
rimanere il più forte paese della CEE.
Maastricht
Il Trattato di Maastricht, o Trattato sull'Unione Europea, costituì un passaggio
decisivo sulla via dell’integrazione europea e ne segnò una vera e propria svolta: esso
venne firmato il 7 febbraio 1992 - ed entrò in vigore il 1 novembre 1993 - a
Maastricht (in Olanda) dai dodici paesi membri della CEE ribattezzata ora Unione
Europea (UE).
Esso fissò le regole politiche ed i parametri economici necessari per l’ingresso dei
nuovi stati nella UE, ma cui ovviamente dovevano attenersi anche i paesi già
membri: la UE si sarebbe fondata su ‘tre pilastri:’
I) Comunità Europee (CE): CEE, CECA, Euratom;
II) Politica estera e sicurezza (PESC);
III) Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (GAI).
Il mercato senza frontiere richiedeva di per se stesso una moneta unica (per non
fondare più la necessaria stabilità monetaria sul precario SME) ed un unico governo
dell’economia, ma ora, in seguito alla riunificazione tedesca e di quella dell’Europa
stessa, il problema da risolvere, anzi, di impedire che rinascesse addirittura, era
quello di evitare un ritorno al passato ed alle tensioni politiche che avevano portato ai
due conflitti mondiali.
Anche se la Germania aveva riconosciuto il confine con la Polonia sull’Oder-Neisse,
era soprattutto la Francia di François Mitterrand a temere infatti che la ricostruzione
di una Germania forte ed unita potesse preludere alla sua rimilitarizzazione ed alla
sua volontà di egemonia sull’Europa centrale ed orientale - in conflitto con la Russia.
31
La questione era semplice e fondamentale: dopo che la Germania era stata unificata
da Bismarck nel 1870 aveva ben presto intrapreso un poderoso processo di crescita,
di rafforzamento e di industrializzazione, sviluppando nel contempo inevitabili e
comprensibili mire imperialistiche ed espansionistiche verso l’Europa centrale ed
orientale; tali mire si erano scontrate con quelle della (allora confinante) Russia la
quale, oltretutto, date le sue smisurate dimensioni, era stata sempre più avvertita dai
tedeschi come un’incombente minaccia ed una presenza soffocante.
La sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale ne aveva fermato la spinta
espansionistica solo temporaneamente ed infatti con la seconda essa era stata ripresa
fino alle sue estreme conseguenze: l’ulteriore sconfitta tedesca, la divisione della
Germania e dell’Europa e la presenza russa (sovietica) fin nel cuore del continente
avevano congelato la situazione, ma con la caduta del Muro di Berlino, il crollo
dell’URSS, l’arretramento della Russia e la riunificazione tedesca, si riproponeva ora
tutto il vecchio scenario con le sue minacce alla pace ed alla stabilità generali.
Ora i paesi dell’Europa centro-orientale (quelli su cui si era concentrata la contesa
russo-tedesca) uscivano finalmente dal tetro dominio sovietico-comunista in
condizioni di totale arretratezza e bisognosi di ogni sostegno ed aiuto, dunque terreno
ideale su cui l’ombra della Germania avrebbe potuto allungarsi con facilità - e ciò
aggravava il pericolo di tensione e di instabilità.
Al di là dei patetici auspici di papa Giovanni Paolo II perché l’Europa si riunisse
sotto l’egida del Cristianesimo, fu in realtà chiaro che solo un’accentuata
integrazione che legasse ineluttabilmente la Germania all’Europa sarebbe stata
in grado di scongiurare il pericolo - e le relative trattative si incrociarono infatti
e fecero tutt’uno con quelle per la riunificazione tedesca.
In questo modo i paesi europei dell’ex-impero sovietico sarebbero stati sostenuti ed
aiutati dalla UE (e non dalla Germania!) e l’intero continente si sarebbe potuto
saldare definitivamente sotto una regia europea unica e concordata fra tutti.
Per la UE si trattò di compiere un vero e proprio salto di qualità: essa era nata nella
metà occidentale del continente ed era stata intesa come un’economia ed una politica
possibile solo in tale ambito; aveva saputo inserire al suo interno quegli stati exfascisti (Grecia, Portogallo e Spagna) che dopo che si erano liberati del fardello dei
loro odiosi regimi non erano stati lasciati soli coi loro problemi od addirittura
minacciati da eventuali vicini e rivali, ma avevano trovato la struttura comunitaria
che li aveva accolti e sostenuti finchè essi stessi non ne erano divenuti membri.
Adesso il problema era ben più arduo e complesso e, oltretutto, si saldava a quello di
attrezzare la UE perché fosse all’altezza delle sfide del nuovo contesto internazionale,
anzi, planetario, che era sorto col crollo dell’URSS – la globalizzazione.
Di qui la necessità di regole e parametri che organizzassero la vita collettiva europea
e ne permettessero concretamente la prosecuzione e lo sviluppo: bisognava agire in
fretta per bloccare sul nascere eventuali tentativi in senso opposto e, soprattutto,
approfittare della debolezza della Russia stessa, invischiata nella grave crisi della
sua transizione post-comunista.
32
Senza entrare nel dettaglio delle numerose ed estremamente complesse manovre
politiche, dei contrasti fra i diversi interessi e sensibilità e delle varie ulteriori
proposte avanzate nei numerosi incontri che si susseguirono a partire dall’aprile
1990, finalmente il 9 dicembre 1991 si aprì a Maastricht lo storico Consiglio Europeo
che avrebbe dato vita al nuovo Trattato sull’Unione Europea che veniva firmato il 7
febbraio 1992 e che da allora sarebbe stato conosciuto come ‘Trattato di Maastricht’.
Esso constava di 252 articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni e le sue decisioni
più rilevanti furono che il 1 gennaio 1999 sarebbe nato l’euro, la moneta unica
europea: dal 1 gennaio 1999 le monete nazionali avrebbero continuato a circolare ma
in base a tassi fissi con l’euro (nel cosiddetto SME2), nel secondo il 1 gennaio 2002
esse sarebbero state finalmente sostituite anche fisicamente dalla moneta unica.
Tuttavia per entrare nell’area dell’euro ciascun paese avrebbe dovuto rispettare
cinque parametri di convergenza:
1) rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%;
2) rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% (Belgio e Italia furono
tuttavia esentati da questo impegno);
3) tasso d'inflazione non superiore dell'1,5% rispetto a quello dei tre paesi più
‘virtuosi’;
4) tasso d'interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio dei
sopracitati tre paesi;
5) permanenza negli ultimi due anni nello SME2 senza fluttuazioni della moneta
nazionale.
L’Inghilterra si oppose fermamente a questa soluzione (e ad altre sulle questioni
sociali) tanto che per essa venne sancita la clausola cosiddetta di ‘opting-out’ per la
quale essa avrebbe potuto rimanere nella UE anche se il suo governo avrebbe potuto
rifiutarne le innovazioni che non condivideva: nasceva così l’Europa ‘a due velocità’;
entro il 1 gennaio 1999 sarebbero poi nati anche la Banca Centrale Europea (BCE) ed
il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) che avrebbero dovuto coordinare la
politica monetaria unica;
sul piano della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) - i cui obiettivi erano lo
sviluppo della democrazia e dei diritti dell’uomo - ci si impegnava a costituire una
difesa comune e si stabiliva che sulle decisioni di politica estera sarebbe stato
necessario il voto all’unanimità o a maggioranza qualificata se una previa decisione
unanime lo stabiliva (ma sarebbe bastato quello a maggioranza per le conseguenti
‘decisioni di applicazione’). Veniva inoltre stabilito un legame organico tra UEO e
UE nell’ambito della sicurezza comune e della difesa;
si introduceva il principio di sussidiarietà secondo il quale nei settori che pure non
erano di sua esclusiva competenza l’UE poteva intervenire se l’azione dei singoli stati
non era sufficiente al raggiungimento degli obiettivi desiderati (ma le materie ‘a
competenza concorrente’ non vennero stabilite con precisione);
diverse competenze comunitarie vennero poi ampliate, come la politica di coesione
economica e sociale che si arricchiva di un fondo ad hoc per finanziare progetti di
sviluppo economico nelle regioni più arretrate;
33
nel campo della legislazione sociale, della ricerca, dello sviluppo e dell’ambiente
veniva adottata il voto a maggioranza qualificata (salvo per le questioni più spinose);
veniva riconosciuta come politica comunitaria anche la protezione dei consumatori e
lo sviluppo delle reti transeuropee nei trasporti, nelle comunicazioni e nell’energia;
in campo giudiziario e degli affari interni venivano previste nuove procedure per
l’accesso dei cittadini di stati terzi nella UE ed una maggiore cooperazione doganale
verso l'esterno;
veniva creata l’Europol (l’Ufficio europeo di polizia), rafforzata la lotta al terrorismo,
al traffico di droga ed alla grande criminalità;
grazie all’introduzione della Cittadinanza dell’Unione Europea era automaticamente
cittadino della UE chiunque avesse la cittadinanza di un suo stato membro; veniva
rafforzato il diritto di stabilimento, circolazione e soggiorno nel territorio della UE;
un cittadino europeo all’estero poteva chiedere assistenza alle autorità diplomatiche
di un qualsiasi paese della UE in assenza di istituzioni di rappresentanza del proprio;
veniva regolamentato il diritto di presentare una petizione al Parlamento Europeo su
temi di competenza comunitari che coinvolgevano gli interessi dei cittadini; veniva
previsto un mediatore comunitario con l’incarico di tutelare le persone fisiche e
giuridiche in caso di cattiva amministrazione delle istituzioni comunitarie.
Il Trattato aumentava poi i poteri del Parlamento Europeo che con la procedura di
codecisione approvava gli atti legislativi comunitari insieme al Consiglio Europeo e
votava la fiducia ad ogni nuova Commissione Europea.
La Commissione Europea era l’organo più importante della UE in quanto esercitava
il potere esecutivo ed era la promotrice del processo legislativo: era composta da un
delegato per ogni stato membro cui era richiesta la massima indipendenza dal
governo nazionale che lo aveva indicato (la Commissione rappresentava e tutelava
infatti gli interessi dell’intera UE); avendo il monopolio del potere di iniziativa
legislativa, la Commissione era l’organo che proponeva gli atti normativi comunitari
(la cui approvazione ultima spettava comunque al Parlamento Europeo ed al
Consiglio Europeo); era responsabile inoltre dell’attuazione delle decisioni politiche
degli organi legislativi, gestiva i programmi UE e la spesa dei suoi fondi.
A fianco della Commissione Europea e del Consiglio Europeo nelle materie di
interesse regionale veniva poi creato con poteri consultivi un Comitato delle regioni
composto dai rappresentati delle entità regionali e locali.
L’Unione Europea era nata, ma era ancora una struttura anomala in quanto priva
di personalità giuridica e di risorse proprie anche se per aumentarne le entrate
veniva proposto di incrementare la percentuale del PIL degli stati membri destinata al
bilancio comunitario dall’1,20% all’1,37% in cinque anni.
34
Una partenza difficile
Le novità di Maastricht erano notevoli ed inevitabilmente emersero fin da subito
resistenze, dubbi e contrarietà.
La Danimarca aveva sempre mantenuto contatti politici particolari con gli altri paesi
affini dell’area scandinava ed aveva da tempo rapporti economici privilegiati con
l’Inghilterra e - di conseguenza - era sempre stata molto tiepida nei confronti del
processo di integrazione europea: a norma della sua costituzione indisse così un
referendum sulla ratifica del Trattato di Maastricht ed il 2 giugno 1992, a sorpresa, la
maggioranza (seppur col solo 0,7% in più) votò contro.
La bocciatura danese diede fiato a tutti i cosiddetti ‘euroscettici’ e mise in dubbio
addirittura l’intero processo di integrazione: Mitterrand ne indisse così uno analogo
(che pure non era obbligatorio) in Francia, mentre l’Inghilterra decise di aspettare che
tutti gli altri stati si pronunciassero ma anch’essa sembrava orientata verso una
consultazione popolare.
Nel giugno 1992 il Consiglio Europeo, riunito a Lisbona per cercare una soluzione
all’evidente crisi dell’intero processo, decise però di tener duro e di continuare
comunque con le ratifiche del Trattato da parte degli altri paesi (e sollecitò la
Commissione a chiarire meglio i contenuti della sussidiarietà dato che effettivamente
era sembrata formulata in termini troppo vaghi).
Tuttavia fu l’esito del referendum francese a risultare decisivo perchè qui
fortunatamente il 20 settembre 1992 una seppur ristretta maggioranza (il 51%) votò
per la ratifica.
Per parte loro i partiti politici danesi approvarono allora un documento dal titolo ‘La
Danimarca in Europa’ che, pur riconoscendo la validità del processo di integrazione,
chiedeva però una maggior trasparenza delle procedure: al Consiglio Europeo di
Edimburgo le richieste danesi vennero accolte (ma ufficiosamente si avvertì anche
che, in caso di un secondo esito contrario nel nuovo referendum, la Danimarca
sarebbe dovuta uscire addirittura dalla CEE).
Il 18 maggio 1993 il 56,8% dei danesi si espresse allora a favore del Trattato - e tre
giorni dopo anche la Camera dei Comuni inglese lo ratificò ad ampia maggioranza.
Come se tutto ciò non fosse bastato, il Trattato di Maastricht vide la luce in un
momento particolarmente difficile per la congiuntura valutaria dei paesi membri della
UE: data la scarsa credibilità dello SME, le monete più deboli – la lira italiana, la
sterlina inglese e la peseta spagnola - vennero infatti ‘attaccate’ dalla speculazione.
L’Italia era allora nel pieno della tempesta di ‘Tangentopoli’ che stava facendo
crollare quella che sarebbe passata alla storia come la ‘Prima repubblica’.
Data poi l’irresponsabilità con cui il bilancio pubblico italiano era stato gestito negli
ultimi anni, il peso degli interessi era cresciuto continuamente aggravandone in modo
insostenibile il deficit: l’alto debito pubblico - il 105,2% del PIL (nel 1982 era al
35
64%) - costringeva infatti il Tesoro ad offrire rendimenti sui propri titoli superiore al
12,5 %.
Era assolutamente necessario riportare un minimo di ordine nei conti pubblici italiani
e recuperare credibilità sui mercati: il 10 luglio 1992 il governo Amato varò una
manovra correttiva da 30mila miliardi ed una patrimoniale del 6 per mille sui
depositi bancari e postali; il 31 luglio fu poi raggiunta l’intesa con le parti sociali che
abolì la scala mobile (l’agganciamento automatico di salari e stipendi all’inflazione)
inaugurando così la cosiddetta ‘politica dei redditi’, cioè quell’insieme di decisioni e
di orientamenti di politica economica volti a modificare preventivamente la
distribuzione dei redditi che si sarebbe determinata se il mercato fosse stato lasciato
libero: nella fattispecie italiana si voleva prevenire l’inflazione da costi (cioè da
aumenti salariali) senza interrompere lo sviluppo economico.
Nonostante ciò, a fine agosto all’asta dei Bot erano rimasti invenduti titoli per 3.300
miliardi ed il 4 settembre la lira sotto attacco crollava nei confronti del marco mentre
la Banca d’Italia continuava a vendere valuta e portava il tasso di sconto al 15%: il
13 settembre Amato svalutò così la lira del 7% mentre l’accordo di luglio teneva
bloccati i salari – a tutto ovvio vantaggio delle imprese e della loro competitività sui
mercati.
Eppure tutto ciò non bastò ancora: dopo che il 16 settembre la sterlina dovette uscire
dallo SME, il giorno seguente fu costretta a farlo anche la lira e a fine anno Amato
varò addirittura la maximanovra da 93mila miliardi (il 5,8% del PIL) la più grossa
correzione dei conti mai realizzata fino ad allora.
Per parte sua anche il franco francese fu messo sotto pressione dalla speculazione e
potè salvarsi solo grazie al sostegno della Deutsche Bundesbank.
La gravità della situazione fu tale che nell’agosto 1993 si giunse al cosiddetto
Compromesso di Bruxelles che stabiliva una nuova banda di fluttuazione del 15%.
Contemporaneamente a tutto ciò, sul versante politico l’Europa stava attraversando la
sua più grave crisi dalla fine del secondo conflitto mondiale: l’ex-Jugoslavia si stava
sgretolando e dalle dichiarazioni di indipendenza della Macedonia, della Slovenia,
della Croazia e della Bosnia-Erzegovina sarebbero scaturite guerre spaventose
(vedi su questo punto il mio ‘Jugoslavia – dalla nascita alla dissoluzione’).
Tutto ciò è altamente significativo: Maastricht vide la luce subito dopo che la
Germania si era riunificata e mentre l’Europa centro-orientale era sconvolta dal crollo
dell’URSS e del comunismo, nei Balcani il sangue cominciava a scorrere a fiumi e i
mercati valutari erano percorsi da massicce manovre speculative che distruggevano
parità e costringevano lo SME a vistosi ripiegamenti.
Sembrerebbe che non si sarebbe potuto scegliere momento peggiore per varare
l’ambizioso e lungimirante progetto della UE, ma è vero il contrario: era proprio
quello il momento di agire se si voleva impedire alla Germania di uscire dalla CEE
(o quantomeno di intiepidire la sua partecipazione) e a tutti di allentare i collegamenti
e la volontà politica di procedere insieme.
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Bisognava infine approfittare della debolezza della Russia di Eltsin, così abbattuta
dalla crisi seguita al crollo dell’URSS ed al momento incapace di imporsi in Europa e
nei Balcani.
Il quarto allargamento della UE
Il nuovo scenario ed i nuovi più impegnativi compiti della UE richiesero anche una
precisazione ed un adeguamento delle modalità con cui un nuovo stato poteva
entrarvi.
Ovviamente la UE era aperta all’ingresso di ogni paese europeo che comunque
doveva accettare e praticare tutti quei princìpi comuni agli altri stati membri e sui
quali si fondava la UE stessa, la libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali e lo stato di diritto: ogni paese europeo che lo desiderasse
poteva quindi presentare la propria candidatura al Consiglio Europeo che, prima di
decidere (all’unanimità) se riconoscergli lo status di paese candidato, doveva
consultare la Commissione e chiedere un parere conforme al Parlamento Europeo.
Soddisfatti questi requisiti, potevano allora iniziare le trattative vere e proprie: le
condizioni dell’adesione del nuovo paese e gli adeguamenti dei suoi trattati e delle
sue istituzioni andavano infatti stabiliti in un particolare accordo il quale andava a sua
volta sottoposto alla ratifica di tutti gli stati membri.
Nonostante la meticolosità delle procedure di adesione e la loro prudenza, la nuova
situazione creatasi col crollo dell’URSS e colla riunificazione dell’Europa spinsero
gli stati membri ad essere ancora più vigili ed attenti per evitare che i nuovi ingressi
creassero problemi invece che opportunità: nuovi criteri di adesione, o criteri di
Copenhagen, vennero così definiti nel corso del Consiglio Europeo di (appunto)
Copenhagen il 21-22 giugno 1993 (e completati nel Consiglio Europeo di Madrid il
15-16 dicembre 1995) dove si stabilì che per poter divenire membro della UE ogni
paese avrebbe dovuto possedere e rispettare i seguenti princìpi:
in campo politico, la stabilità delle istituzioni che garantiscono la democrazia, lo stato
di diritto, i diritti dell’uomo ed il rispetto e la tutela delle minoranze;
in campo economico, la solidità dell’economia di mercato, la capacità di far fronte
alla concorrenza ed alle forze del mercato all’interno della UE;
in campo comunitario, l’assunzione e l’accettazione degli obblighi del diritto e delle
politiche (anche economiche e monetarie) della UE;
l’adeguamento delle proprie strutture amministrative all’integrazione.
E’ evidente che ora ci si preoccupava più che in passato che i nuovi membri fossero
ben preparati all’ingresso nella UE - ed a poterci restare - ma i primi stati che furono
ammessi nella UE dopo Copenhagen non erano ex-satelliti dell’URSS, ma paesi
sicuramente democratici del blocco occidentale, Austria, Finlandia e Svezia.
I negoziati della Comunità Europea con l’Austria non incontrarono particolari
problemi, data la sua sicura appartenenza al campo democratico, la sua stabilità e la
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sua situazione economica favorevole, tuttavia l’adesione alla UE contrastava con
alcuni princìpi della costituzione austriaca, soprattutto quello che stabiliva che il
diritto è creato da rappresentanti eletti dal popolo, mentre nell’Unione era
preminente la creazione del diritto da parte del Consiglio Europeo (non eletto) e il
Parlamento Europeo non rappresentava il popolo austriaco; il principio austriaco
della divisione dei poteri era violato perché nell’Unione gli esecutivi nazionali
detenevano di fatto la funzione legislativa; infine il monopolio interpretativo della
Corte europea sul diritto della UE limitava evidentemente la competenza della Corte
costituzionale austriaca.
Per tutto ciò (e per altro) l’adesione dell’Austria alla UE rese necessario un
‘emendamento complessivo’ della costituzione federale austriaca ed un referendum
(il 12 luglio 1994), il cui esito vide la netta vittoria dei favorevoli all’adesione: il
66,4% (dell’82% degli aventi diritto al voto) fu infatti per il sì ed il 1 gennaio 1995
l’Austria entrò nella UE insieme alla Svezia ed alla Finlandia.
Nel luglio 1991 la Svezia fu il primo dei Paesi scandinavi a presentare domanda di
adesione alla Comunità Europea e le sue preoccupazioni più sentite avevano
riguardato la sua possibilità di mantenere e di continuare a gestire autonomamente il
suo elevato livello di protezione sociale cui era (ed è) molto legata e di cui andava (e
va) orgogliosa: su questi punti non ci furono problemi perché le disposizioni del
Trattato di Maastricht (ed il Protocollo n° 14 adottato contestualmente) sulla politica
sociale non attribuivano alla Comunità alcuna competenza sull’armonizzazione delle
legislazioni sociali – né sui contenuti dell’insegnamento e sull’organizzazione del
sistema d'istruzione - degli stati membri.
Era bensì vero che i suddetti Trattato e Protocollo attribuivano alla Comunità la
facoltà di legiferare sul mercato del lavoro, ma dato l’elevato livello di protezione di
cui i lavoratori in Svezia godevano già, quest’ultima dovette introdurvi solo lievi
modifiche.
Dal punto di vista commerciale l’unica deroga concessa alla Svezia fu quella relativa
a limitazioni nell’importazione di alcool e tabacco.
Anche la Svezia l’11 novembre 1994 indisse comunque un referendum sull’adesione
alla Comunità Europea in cui i favorevoli furono il 52,3% (dell’82,6% degli aventi
diritto al voto).
A causa della sua storia e della sua geografia la Finlandia aveva sempre dovuto e
voluto mantenere un atteggiamento prudente e neutrale nei confronti dei due blocchi
fra i quali aveva cercato di mantenersi in equilibrio e di costituire una sorta di ponte:
era stato addirittura coniato il termine ‘finlandizzazione’ per indicare quella
condizione di neutralità che il paese, pur ‘occidentale’, doveva adottare data la
presenza incombente dell’URSS ai suoi confini.
Tuttavia col crollo dell’URSS la situazione internazionale era completamente
cambiata e la Finlandia aveva ora tutto l’interesse ad entrare in uno degli spazi
economici integrati più sviluppati del mondo: essa il 18 marzo 1992 presentò così
38
domanda di ingresso ed il 16 ottobre 1994 fece approvare l’adesione da un
referendum in cui i favorevoli furono il 56,89% (del 70,79% degli aventi diritto al
voto).
Fra i paesi nordici e scandinavi la Norvegia fece eccezione: essa aveva presentato
domanda per l’ingresso in Europa una prima volta già nel 1967, ma il referendum
popolare del 1972 aveva visto la prevalenza dei contrari; aveva ripresentato domanda
il 25 novembre 1992, ma al referendum del 27-28 novembre 1994 il 52,2%
(dell’89% degli aventi diritto al voto) fu ancora una volta contrario.
La Norvegia non era (e non è) un paese isolazionista: essa fa parte della NATO dal
1949, del Consiglio d’Europa dal 1950, e dell’EFTA (l’Associazione europea per il
libero scambio) dal 1960, ma temeva (e teme) gli oneri che l’adesione alla UE
avrebbe comportato.
I norvegesi hanno standard di vita superiori a quelli richiesti dalla UE, praticano la
caccia alle balene che la UE vieta, non vogliono che le loro acque vengano sfruttate
anche da altri paesi europei per la pesca (l’attività economica più remunerativa del
loro paese) nè hanno problemi di scambi economici con gli altri paesi scandinavi: essi
giudicano insomma che la UE per loro sarebbe solo un peso.
Particolare fu infine il caso della Groenlandia: provincia autonoma della Danimarca,
il 23 febbraio 1982 con un referendum potè ugualmente decidere di uscire dalla CEE
per mantenere il controllo sulle sue immense zone di pesca e per limitare le influenze
esterne.
La decisione entrò in vigore il 1 febbraio 1985, ma sarebbe errato pensare ad un
allontanamento della Groenlandia dal continente perché il Trattato sulla Groenlandia
(1984) aveva intanto stabilito relazioni speciali con la CEE ed aveva previsto
finanziamenti CEE in cambio del diritto di pesca nelle acque territoriali dell’isola.
Infine, i 57mila groenlandesi uscirono dalla CEE (unico caso) anche per mantenere,
difendere e valorizzare la loro cultura Inuit eschimese.
Sviluppi
Mentre la Russia di Eltsin non riusciva a rimettersi in sesto ed a riaversi dal crollo
dell’URSS e nell’ex-Jugoslavia si era passati dagli orrori della guerra in BosniaErzegovina a quelli di quella del Kosovo, nella UE il processo di integrazione invece
procedeva e tra i numerosi provvedimenti presi in quegli anni meritano di essere
ricordati il Compromesso di Ioannina e la Dichiarazione sull’UEO.
Il Compromesso di Ioannina fu raggiunto nel 1994 (e modificato il 1 gennaio 1995
in seguito alla mancata adesione della Norvegia) per stabilire il criterio di votazione
in seno al Consiglio Europeo.
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Il Consiglio Europeo (noto anche come Consiglio dei Ministri Europei) esercita il
potere legislativo nell’ambito della UE insieme al Parlamento Europeo ed ha sede a
Bruxelles: esso si riunisce con formazioni variabili perché, oltre al commissario
europeo responsabile, ciascuno stato membro si fa rappresentare da un competente
della questione all’ordine del giorno (affari esteri, affari sociali, trasporti, agricoltura,
ecc.).
La questione verteva sulla cosiddetta ‘minoranza di blocco’, cioè sul numero di voti
necessario per poter impedire l’adozione di un atto da parte del Consiglio stesso:
nell’Europa dei dodici la minoranza di blocco era di 23 voti (su 76 complessivi) e
poteva quindi impedire qualunque atto per il quale era necessaria la maggioranza
qualificata (54 voti).
In seguito al quarto allargamento della UE fu ovviamente necessario modificare
anche la minoranza di blocco che passò da 23 a 26 voti facendo sì che per fermare un
atto ora diventava necessario mettere insieme due stati grandi (Germania, Francia,
Inghilterra e Italia) anziché uno come prima più altri due più piccoli (o la Spagna):
era una decisione semplicemente logica, ma il nuovo criterio di votazione venne
duramente contestato dalla Spagna, dall’Inghilterra e dall’Italia, che evidentemente
volevano mantenere in seno al Consiglio, pur cresciuto di tre nuovi membri, lo stesso
potere che avevano prima.
Dopo lunghe e laboriose trattative si giunse al Compromesso di Ioannina in base al
quale fu deciso che ‘se i voti che si oppongono all’adozione dell’atto sono tra 23 e 25
il Consiglio farà tutto il possibile per raggiungere, entro un tempo ragionevole e
senza pregiudicare i limiti di tempo obbligatori stabiliti dal trattato e dal diritto
derivato, … una soluzione soddisfacente che possa essere adottata con almeno 65
voti: in pratica insomma la maggioranza qualificata veniva elevata a 65 voti.
Il Compromesso di Ioannina è illuminante per comprendere quanto si doveva
discutere ogni volta che si faceva un passo avanti e quanto le gelosie, gli egoismi, le
diffidenze, gli interessi e le strategie dei vari paesi membri fossero ancora forti.
Nella primavera 1996 il nuovo governo di centro-sinistra (la coalizione dell’ ‘Ulivo’)
guidato da Romano Prodi si impegnò seriamente per preparare l’ingresso dell’Italia
nella moneta unica europea decisa a Maastricht ed il 24 novembre, dopo un’intensa
trattativa sul cambio della lira rispetto al marco, riusciva a far rientrare la valuta
italiana nello SME.
Nello stesso anno (in linea coll’Unione Economica Monetaria (UEM) decisa a
Maastricht) per quei paesi che nel 1998 non avrebbero ancora voluto o potuto
adottare la moneta unica europea si prefigurò la nascita di uno SME2.
Con la Dichiarazione sull’UEO del 22 luglio 1997 venne ribadito che la UE
desiderava ‘creare una vera e propria identità europea in materia di sicurezza e di
difesa’ e ‘fornisce all’Unione l‘accesso ad una capacità operativa di difesa, in
particolare nel contesto delle missioni di Petersberg’, cioè delle missioni umanitarie,
di mantenimento e di ripristino della pace.
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La Dichiarazione proponeva un rafforzamento della collaborazione tra UE ed UEO
nel campo della difesa, collaborazione già sperimentata nelle prime missioni
dell’UEO nel Golfo e nella ex-Jugoslavia, ma in questo campo la strada era
praticamente sbarrata: le spese militari erano (e sono) impopolari e, soprattutto, la
NATO e gli Stati Uniti potevano (e possono) provvedere egregiamente alla bisogna e
non hanno nessuna voglia di trovare altri che intervengono sulla scena che essi
giudicano di loro esclusiva competenza.
Il Trattato di Amsterdam
Dopo le decisioni, gli impegni, gli obiettivi ed il calendario di Maastricht, il processo
di integrazione aveva aumentato il suo slancio e ciò si tradusse anche in
un’accelerazione degli incontri e delle decisioni: uno dei momenti più importanti e
significativi di questo periodo fu sicuramente il Trattato di Amsterdam, sottoscritto
il 2 ottobre 1997 dagli allora 15 paesi della UE, ratificato da tutti ed entrato in vigore
il 1 maggio 1999.
Esso fu uno dei trattati fondamentali della UE stessa e costituì il primo tentativo di
riforma organica delle istituzioni europee in vista del suo allargamento ad est e
della creazione della moneta unica.
Per afferrare compiutamente la sua rilevanza e la sua novità è necessario precisare
che fino a quel momento i trattati istitutivi dell’integrazione europea avevano avuto –
inevitabilmente – un’impostazione che si può definire settoriale e funzionalista, come
ad esempio il Trattato di Parigi che aveva istituito la CECA (e che aveva dunque
riguardato solo quei due settori specifici) o i Trattati di Roma che avevano istituito
l’Euratom (limitandosi dunque alla gestione dell’energia atomica) e la CEE (che
nonostante la maggiore ampiezza della sua sfera operativa, nondimeno riguardava
anch’esso un ambito ben definito).
Intendiamoci: sicuramente questi trattati avevano sottinteso fin dall’inizio la necessità
di coordinamento, messa in comune e costruzione di tutta una serie di nuovi rapporti
ed un’unione politica prima o poi avrebbe dovuto accompagnarli e sostenerli,
nondimeno per questa loro natura settoriale i trattati istitutivi non contenevano ancora
una legge fondamentale, od una costituzione, od una dichiarazione solenne dei diritti
fondamentali (come ad esempio la Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
CEDU, firmata a Roma nel 1950).
E’ sicuramente vero che a Corte di giustizia europea aveva intanto preso ad esercitare
un controllo sul rispetto dei diritti fondamentali della persona da parte degli stati
membri ed aveva stabilito così che i diritti fondamentali della persona erano parte
integrante dei principi generali del diritto comunitario e che scaturivano sia dalle
costituzioni degli stati membri, che dai trattati internazionali cui avevano aderito gli
stati membri stessi; nel 1977 il Parlamento Europeo, la Commissione Europea ed il
Consiglio Europeo avevano dichiarato che avrebbero continuato a rispettare i diritti
fondamentali individuati dalla Corte e nel 1986; il preambolo dell'Atto Unico
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Europeo si era basato su questi diritti; il paragrafo 2 dell'articolo 6 del Trattato
sull’Unione Europea aveva infine affermato che ‘L'Unione rispetta i diritti
fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e
quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario.
Sicuramente con il procedere dell’integrazione europea i suoi campi d’azione si
erano insomma inevitabilmente ampliati e gli stati membri avevano sempre più
condotto azioni comuni in settori (la sicurezza, la lotta contro il razzismo e la
xenofobia, ecc.) che fino a quel momento avevano gestito a livello nazionale ma
nondimeno si avvertiva il bisogno di chiari ed espliciti strumenti giuridici che
sancissero il rispetto dei diritti fondamentali in quanto principio costitutivo
stesso dell’Unione europea - ed il Trattato di Amsterdam rispose a questa
necessità.
Esso coi suoi 15 articoli, 13 protocolli, 51 dichiarazioni comuni relative alle
disposizioni di altri Trattati e Protocolli ed 8 dichiarazioni di alcuni degli stati
firmatari modificò i Trattati precedenti e le novità più rilevanti che apportò furono:
1) consolidamento dei meccanismi di Maastricht;
2) definizione di una serie di orientamenti sociali prioritari a livello comunitario,
in particolare in materia di lavoro (puntando a raggiungere ‘un livello elevato di
occupazione’ senza indebolire la competitività);
3) delineazione delle basi e degli obiettivi della politica sociale europea per lottare
contro qualsiasi discriminazione ed emarginazione, per promuovere
l’occupazione, migliorare le condizioni di vita e di lavoro, fornire una
protezione sociale adeguata, favorire il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse
umane, infine la parità tra uomini e donne;
4) enunciazione dei principi essenziali (democrazia, tutela dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, stato di diritto) la cui violazione poteva portare a
gravi sanzioni a carico degli stati responsabili;
5) ampliamento dei poteri del Parlamento Europeo nel processo di formazione
delle normative comunitarie;
6) volontà di rendere uniforme l’elezione dei membri del Parlamento Europeo;
7) raccordo del Parlamento Europeo sia con il Comitato delle regioni e delle
autonomie locali che con i parlamenti nazionali;
8) attribuzione al Parlamento Europeo del potere di approvare la nomina del
Presidente della Commissione Europea;
9) attribuzione al Segretario Generale del Consiglio Europeo della funzione di
Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune;
10) riconoscimento dell’importanza centrale dell’occupazione e maggior
coordinamento delle politiche nazionali in questo campo.
Il punto 4) era sicuramente il più rilevante perchè stabiliva una volta per tutte il
fondamento filosofico-giuridico-politico della UE ed i meccanismi di controllo della
42
sua applicazione: il trattato prevedeva infatti anche la procedure da seguire da parte
della UE nei confronti di uno stato accusato di violazione dei principi del punto 4):
su proposta della Commissione Europea o di un terzo degli stati membri, il Consiglio
Europeo poteva infatti accertare l’esistenza di una ‘grave e persistente’ violazione dei
princìpi; era richiesto il parere conforme del Parlamento Europeo (che decideva con
la maggioranza di almeno due terzi dei voti espressi) ed il governo dello stato
membro sotto inchiesta era invitato a presentare la propria versione; se la violazione
grave e persistente veniva accertata, il Consiglio Europeo aveva la facoltà (a
maggioranza qualificata senza tener conto dei voti dello stato membro in questione)
di sospendere taluni dei diritti (come ad esempio quello di voto nel Consiglio stesso)
dello stato in questione, mentre i suoi obblighi restavano immutati; naturalmente, alla
luce dell’evolversi della situazione, il Consiglio Europeo poteva poi decidere (sempre
a maggioranza qualificata senza tener conto del voto dello stato membro in
questione) di revocare o di modificare le misure di sospensione in vigore.
La promozione della parità sessuale venne inserita esplicitamente nelle finalità
perseguite dalla Comunità: ‘L’azione della Comunità … mira a eliminare le
ineguaglianze, nonché a promuovere la parità fra uomini e donne.’
In caso di una (qualsiasi) discriminazione basata sul sesso, la razza, l’origine etnica,
la religione, le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, il
Consiglio Europeo doveva però adottare le misure necessarie all’unanimità, su
proposta della Commissione Europea e previa consultazione del Parlamento europeo.
Ad Amsterdam furono poi inseriti l’incentivazione dell’occupazione e l’ ‘Accordo
sociale’, a significare che l’integrazione economica doveva essere concepita e curata
di pari passo alle sue ricadute sociali ed ai problemi del lavoro.
Furono poi aggiornati anche gli Accordi di Schengen.
Gli Accordi di Schengen erano stati firmati il 14 giugno 1985 da Belgio, Francia,
Germania, Lussemburgo ed Olanda, avevano eliminato progressivamente i controlli
alle frontiere comuni ed avevano introdotto un regime di libera circolazione per i
cittadini, cioè, più precisamente, avevano previsto:
1) l’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere interne dello
spazio Schengen;
2) il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dello spazio Schengen;
3) la collaborazione delle forze di polizia e la possibilità per esse di intervenire in
alcuni casi anche oltre i propri confini (per esempio durante gli inseguimenti
di malavitosi);
4) il coordinamento degli stati nella lotta alla criminalità organizzata di rilevanza
internazionale (per esempio mafia, traffico d’armi, droga, immigrazione
clandestina);
5) l’integrazione delle banche dati delle forze di polizia (il Sistema di
informazione Schengen, detto anche SIS).
Successivamente vi avevano aderito l’Italia (27 novembre 1990), Portogallo e Spagna
(25 giugno 1992), Grecia (6 novembre 1992), Austria (28 aprile 1995), Norvegia e
Islanda (19 dicembre 1996) che, pur non membri della UE, facevano però parte
43
dell’Unione nordica cogli altri paesi scandinavi. Inghilterra ed Irlanda, pur stati
membri della UE, non hanno però mai fatto parte dell’area Schengen ed hanno
mantenuto i controlli alle loro frontiere.
Gli Accordi di Schengen erano stati insomma un classico esempio di ‘cooperazione
rafforzata’ (cioè di una più stretta collaborazione) e ‘Le cooperazioni rafforzate sono
intese a promuovere la realizzazione degli obiettivi dell’Unione, a proteggere i suoi
interessi e a rafforzare il suo processo di integrazione. Sono aperte in qualsiasi
momento a tutti gli Stati membri’: ancor oggi una cooperazione rafforzata può
riguardare soltanto le aree tematiche che non siano già di competenza esclusiva della
UE per dare maggiore impulso al processo di integrazione della UE stessa e senza
coinvolgere la totalità degli stati membri, alcuni dei quali potrebbero manifestare
reticenze (come l’Inghilterra nei confronti di una politica estera comune).
Oggi (dicembre 2012) 29 stati europei aderiscono allo spazio (o zona) Schengen.
L’euro
Era evidente che per garantire e sviluppare i flussi commerciali tra gli stati membri
della UE e per realizzare davvero il mercato unico i tassi di cambio dovevano essere
stabili ed allineati: le loro fluttuazioni avrebbero ostacolato infatti le previsioni e gli
accordi ed avrebbero impedito insomma una vera integrazione.
Per parte sua, la stabilità monetaria fra i vari paesi membri poteva poi essere
raggiunta solo se questi avevano orientato le rispettive politiche economiche verso il
conseguimento di parametri di bilancio concordati e comuni: la stabilità monetaria
insomma non poteva che accompagnarsi a tutta una armonizzazione delle azioni dei
governi in campo finanziario.
Maastricht era stato un passo decisivo in questa direzione: il 1 gennaio 1999, proprio
secondo quanto era stato stabilito a Maastricht e dopo numerosi altri incontri e
deliberazioni, l’euro divenne la nuova moneta ufficiale della UE in sostituzione
delle vecchie divise nazionali.
Anche se quel giorno in realtà l’euro fisicamente non esisteva ancora ed era invece
una moneta virtuale (valida per i pagamenti non in contanti ed a fini contabili), le
vecchie divise - che pure continuavano ad essere utilizzate - divennero però delle
semplici sottounità dell’euro stesso in quanto ebbero con esso un cambio fisso ed
irrevocabile: a ciò provvide l’ ‘European Exchange Rate Mechanism’ (ERM II) detto
anche ‘Accordo Europeo sui Cambi’ (AEC II), il meccanismo di cambio che successe
allo SME2 (finito con l’arrivo dell’euro) col compito di mantenere stabili i tassi di
cambio tra l’euro e le valute nazionali partecipanti all’ERM II: per gli stati membri
che non aderivano all’area dell’euro la partecipazione all’ERM II era facoltativa ed
esso per questi ultimi prevedeva un tasso centrale ed una banda di fluttuazione del +/15%.
L’euro infatti non fu (nè è) la moneta di tutti gli stati membri della UE: solo Belgio,
Germania, Irlanda, Spagna, Francia, Italia, Lussemburgo, Olanda, Austria, Portogallo
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e Finlandia lo poterono adottare fin da subito in quanto avevano soddisfatto alle
condizioni stabilite e previste per essere accettati nell’area della moneta unica.
In Italia il governo di Romano Prodi aveva lavorato alacremente in questa direzione e
la Grecia sarebbe potuta entrare il 1 gennaio 2001, ma Danimarca ed Inghilterra
avevano già ottenuto a Maastricht una deroga permanente (‘opt-out’), estesa poi
anche alla Svezia, che li aveva esonerate dall’ingresso nell’area dell’euro.
I paesi che non entrarono nell’area dell’euro (o eurozona) scelsero tuttavia strade
diverse per rapportarsi all’auro stesso: la Danimarca volle collegare la sua corona
all’euro nel quadro dell’ERM II ma con ed una banda di fluttuazione del +/- 2,25%
rispetto al tasso centrale; Inghilterra e Svezia scelsero invece di non aderire
all’ERM II e di lasciare che le loro valute fluttuassero liberamente rispetto all’euro.
I motivi che spinsero questi paesi a rimanere fuori dall’area dell’euro furono diversi:
innanzitutto un paese che avesse voluto adottare l’euro avrebbe dovuto soddisfare i
‘criteri di convergenza’ (quelli di Maastricht) e ciò avrebbe comportato sacrifici (che
l’Inghilterra probabilmente non era in grado di sopportare dato che era uscita dallo
SME nel 1992 e che, a differenza dell’Italia, non vi era più rientrata) ed anche una
qualche rinuncia all’autonomia nazionale ed alla propria immagine;
essendo entrata nella UE dopo Maastricht, la Svezia in realtà sarebbe stata obbligata a
raggiungere i criteri di convergenza, ma ha preteso – ed ottenuto – di poterne fare a
meno, anche se allora si avvertì che ciò non sarebbe stato permesso a nessun nuovo
membro (!);
se l’Inghilterra avesse aderito all’eurozona ciò avrebbe coinvolto anche quei paesi
che usavano la sterlina o che avevano una valuta ancorata alla sterlina (la cosiddetta
‘area della sterlina’), ma questa scusa per non entrare non reggeva perché anche la
Francia si trovò di fronte ad una situazione simile coi suoi paesi d’oltremare e
risolse facilmente il problema collegando le valute in questione all’euro anziché al
franco.
Il vero motivo del rifiuto di questi paesi di aderire all’euro fu insomma la volontà di
mantenersi le mani libere e – contemporaneamente – di godere della protezione e dei
vantaggi dell’appartenenza alla UE: un comportamento davvero irritante e
difficilmente sopportabile, ma che non impedì la marcia dell’euro che il 1 gennaio
2002 divenne anche fisicamente la moneta dei dodici paesi che subito procedettero ad
una massiccia e generalizzata conversione delle loro banconote e dei loro spiccioli.
La preparazione dell’allargamento ad est
La UE prese molto sul serio il compito di riunificare il continente dopo il crollo
dell’URSS e di ammettere quindi al suo interno quei paesi europei che avevano fatto
parte dell’impero sovietico: essi andavano strappati dal possibile abbraccio della
Russia (e/o della Germania), ma si trovavano in una situazione molto critica ed erano
in preda a difficoltà di ogni genere.
45
Per quanto riguardava l’aspetto economico della loro ammissione nella UE, questo
era forse quello meno difficile da affrontare perché i relativi parametri e criteri erano
già stati stabiliti e le modalità per l’erogazione dei prestiti e dei finanziamenti non
presentavano problemi di rilievo: era invece necessario chiarire ed adeguare il loro
assetto politico ed istituzionale perché sulle modalità del loro ingresso nella UE i
nuovi membri non incontrassero ostacoli o margini di incertezza.
Il Trattato di Nizza fu così uno dei trattati fondamentali della UE e riguardò proprio
le riforme istituzionali da attuare in vista dell’adesione degli stati ex-comunisti alla
UE: esso modificò il Trattato di Maastricht ed i Trattati di Roma, venne approvato
l’11 dicembre 2000, firmato il 26 febbraio 2001, ratificato dai 15 paesi membri della
UE ed entrò in vigore il 1 febbraio 2003.
Oltre alle seguenti riforme:
1) nuova ponderazione dei voti nel Consiglio Europeo,
2) modifica della composizione della Commissione Europea,
3) estensione della procedura di codecisione e modifica del numero di deputati al
Parlamento Europeo per ogni stato membro,
4) estensione del voto a maggioranza qualificata per una trentina di nuovi
argomenti,
5) maggiore flessibilità del sistema delle cooperazioni rafforzate,
6) nuova ripartizione delle competenze tra Corte e Tribunale,
al Consiglio Europeo di Nizza venne poi solennemente proclamata la ‘Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea’.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (7 dicembre 2000)
aggiornava la CEDU e proclamava i diritti ed i princìpi del diritto comunitario dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà cittadinanza e giustizia - classificabili in
quattro categorie:
1) le libertà fondamentali comuni presenti nelle costituzioni di tutti gli stati
membri;
2) i diritti riservati ai cittadini dell’Unione, con particolare riguardo alla facoltà di
eleggere i propri rappresentanti al Parlamento Europeo e di godere della
protezione diplomatica comune;
3) i diritti economici e sociali (tutti riconducibili al diritto al lavoro);
4) i diritti moderni, cioè quelli che derivavano dagli sviluppi della tecnologia
(come ad esempio la tutela dei dati personali o il divieto dell’eugenetica).
Il passo successivo fu la Dichiarazione di Laeken, sottoscritta il 15 dicembre 2001
dai 15 paesi membri, che prefigurò le riforme necessarie a:
1) l’allargamento dell’Unione a nuovi stati;
2) l’avvicinamento dell’Unione ai cittadini (grazie a notevoli modifiche
istituzionali;
3) il rispetto dei settori di competenza esclusiva dei singoli stati membri e delle
loro articolazioni territoriali;
4) la creazione di una Convenzione Europea per le riforme.
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La creazione della Convenzione Europea che, presieduta dall’ex-Presidente della
Repubblica Francese Valéry Giscard d'Estaing, avviò il processo di riforma delle
istituzioni della UE, fu la decisione più importante presa a Laeken: in vista
dell’imminente grande allargamento dell’Unione era infatti necessario adeguare ed
aggiornare alla nuova situazione ed alla nuova Europa non più divisa nei due blocchi
le istituzioni pensate per una comunità con un numero ben minore di stati membri.
Il 18 luglio 2003 Giscard d’Estaing presentò così a Roma una revisione dei trattati
fondativi dell’Unione Europea, cioè la bozza di una vera e propria Costituzione per
l’Europa: il lungo dibattito che seguì apportò poche modifiche al progetto e si
concluse con la stesura di una definitiva Costituzione Europea.
Nonostante questa il 29 ottobre 2004 venisse sottoscritta da tutti gli stati membri, in
realtà non vide invece mai la luce: undici paesi la ratificarono con un voto dei
rispettivi parlamenti, in Spagna e Lussemburgo si svolsero referendum in cui
prevalsero i sì all’accettazione, ma in Francia ed Olanda i referendum la bocciarono.
In Francia al referendum del 30 maggio 2005 il 55% (del 70% degli aventi diritto)
bocciò la ratifica del trattato nonostante il governo e la grande maggioranza dei
parlamentari fosse invece favorevole: fu il PCF e la sinistra del PSF ad opporsi
insieme all’estrema destra in nome del rifiuto della perdita di sovranità e di
autonomia nazionale e della mancanza del coinvolgimento popolare nella vita della
UE.
Analogamente anche in Olanda al referendum del 1 giugno 2005 quasi il 62 % (del
63% degli aventi diritto al voto) rifiutò la ratifica, anche qui nonostante il governo e
la grande maggioranza dei parlamentari fosse invece favorevole: anche in Olanda
contraria fu soprattutto la sinistra che incontrò però l’insofferenza dell’opinione
pubblica, gelosa dell’indipendenza del suo paese e diffidente del modello neoliberista
che veniva proposto.
Uno dei motivi per cui francesi ed olandesi bocciarono la Costituzione Europea fu
infatti che essa, sancendo il principio della ‘libera concorrenza senza distorsioni’,
aveva fatto temere privatizzazioni, speculazioni, precarizzazione del lavoro e
riduzione delle protezioni sociali: era la (solita) accusa alla UE di non essere attenta
ai bisogni della popolazione ma solo a quelli del mondo degli affari e di abbandonare
i paesi meno competitivi all’invasione delle economie dei paesi già più ricchi.
Quest’accusa è sempre circolata fin dalla nascita dell’Europa unita (e circola
tutt’oggi) ed è degno di nota che siano state le opinioni pubbliche di due paesi
economicamente forti come Francia ed Olanda ad essersi assunto il carico di
esprimerle con tanta convinzione: a questa gli europeisti rispondono in genere col
richiamo alle (solite) esigenze della concorrenza nel mondo globalizzato - e per molti
aspetti si tratta del (solito) dialogo fra sordi.
In ogni caso la vittoria dei no nei due referendum non solo fece abortire il progetto di
dotare l’Europa di una costituzione - di per sé cosa già grave – ma rivelò anche che su
questo punto le classi di governo erano pericolosamente scollate rispetto alle loro
stesse società più insensibili alla necessità ed all’importanza del progetto dell’Europa
unita.
47
L’Europa era da queste avvertita come un pesante e lontano affare di burocrati, di
banchieri, di funzionari e di ministri che in nome di non si capiva bene quale potere
decidevano sulla vita e sugli interessi delle persone senza rispondere a nessuno del
loro operato: l’euro aveva poi generato ulteriore scontento, dato che veniva incolpato
dell’aumento dei prezzi e di rafforzare il liberismo senza alcun riguardo per i
problemi delle società coinvolte, lasciate sole e senza difesa nei confronti della
concorrenza dei più forti.
Questa disaffezione oltre ad una seria difficoltà di comunicazione aveva
evidentemente delle ragioni e delle giustificazioni: la costruzione della UE non era
avvenuta e non stava avvenendo col concorso e col coinvolgimento dell’opinione
pubblica che semmai veniva chiamata a ratificare a posteriori i fatti compiuti; era fin
troppo facile avvertirne i (veri o supposti) disagi e pericoli ed immaginare che
interessi antipopolari ed antinazionali stavano cospirando per sottomettere quelli
genuini della società e della nazione; si sentiva infine che non si era più padroni
delle proprie scelte e del proprio destino, ormai in mani anonime, incontrollabili ed
irraggiungibili.
Se è vero che ogni processo di sviluppo comporta il doloroso abbandono ed il
difficile superamento del passato, nel caso dell’unificazione dell’Europa questo era
particolarmente vero perché si trattava di una svolta davvero epocale che oltretutto
non stava avvenendo in mezzo a cataclismi politici e sociali che almeno l’avrebbero
potuta preparare psicologicamente, ma in un clima di normalità e di tranquillità - e
ciò la rendeva di conseguenza ancor più incomprensibile e preoccupante.
Ma il processo di unificazione europea riuscì a superare senza particolari difficoltà
anche lo stop referendario perchè quel che non era entrato per la porta venne fatto
passare per la finestra: le innovazioni necessarie della abortita (per volontà popolare)
Costituzione sarebbero infatti state incluse nel successivo Trattato di Lisbona che,
approvato - senza referendum! - dai governi e dai parlamenti, sarebbe entrato in
vigore il 1 dicembre 2009.
Il cammino dell’unità europea proseguiva insomma quasi per conto suo, a
prescindere (o contro) dalla volontà di alcuni dei popoli coinvolti, mentre quella degli
altri (la grande maggioranza) non veniva nemmeno consultata.
Il processo di allargamento della UE ai paesi ex-comunisti dell’est (e non solo) era
intanto proseguito sotto la guida del primo presidente della Commissione Europea
post-nascita dell’euro, l’italiano Romano Prodi.
Il quinto allargamento della UE
L'adesione alla UE era (ed è) una procedura piuttosto complessa che richiede tempo
per essere espletata: bisognava infatti che innanzitutto la Commissione Europea
verificasse se il paese che aveva avanzato la propria candidatura (al Consiglio
Europeo) avesse le capacità di soddisfare i criteri di adesione, cioè i ‘criteri di
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Copenaghen’ (che, come si è visto, riguardano l’accettazione dell‘economia di
mercato, la stabilità della democrazia, lo stato di diritto e l'adozione della legislazione
europea in tutti i settori e, nel caso, l’euro); dopo il parere positivo della
Commissione, il Consiglio doveva poi approvare la procedura della negoziazione e,
settore per settore, i negoziati erano allora avviati ufficialmente; i negoziati duravano
parecchio tempo sia perché la mole della legislazione europea che i paesi candidati
dovevano recepire nel loro ordinamento nazionale era considerevole e sia perché le
condizioni ed i casi specifici e particolari erano numerosi, ma nondimeno durante
questo periodo (di preadesione) i paesi candidati beneficiavano già di aiuti a livello
finanziario, amministrativo e tecnico.
Quando e se i negoziati si concludevano positivamente il paese poteva entrare
finalmente a pieno titolo nella UE con tutti i suoi oneri ed onori, ma l’ingresso
doveva essere ratificato, a seconda del tipo di costituzione del paese in questione, o
da un voto del parlamento o da un referendum popolare.
Tutto ciò dà la misura del lavoro che la Commissione Prodi (17 settembre 1999 – 22
novembre 2004) dovette affrontare perché il 1 maggio 2004 ben dieci paesi potessero
entrare tutti in una volta nella UE: si trattava di ben sette paesi ex-comunisti già
facenti parte dell’impero sovietico, Repubblica Ceca, Slovacchia (l’exCecoslovacchia), Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia e Ungheria, insieme a Cipro
ed a Malta ed addirittura alla Slovenia, la prima delle repubbliche sorte dalla
disgregazione della ex-Jugoslavia.
Tutti questi paesi – tranne Cipro - il 21 dicembre 2007 sarebbero entrati poi nell’area
Schengen ed il 30 marzo 2008 i controlli alla frontiera sarebbero stati aboliti anche
nei loro aeroporti.
La Ue manteneva l’impegno di ricostruire l’Europa, di ricucirne le ferite, di colmarne
i fossati e di sostenere tanti stati che iniziavano un periodo di sviluppo e di
democrazia.
Nella Repubblica Ceca subito dopo la caduta del comunismo le prime elezioni libere
si svolsero nel giugno 1990 ed il paese, allora unito alla Slovacchia nella
Cecoslovacchia, si separò di comune accordo da questa il 1 gennaio 1993, l’anno
dell’ammissione di entrambi all’ONU.
Grazie ad un attento programma di riforme, di privatizzazioni, di riorganizzazioni e
di adeguamenti legislativi, la Repubblica Ceca seppe compiere con successo il suo
percorso verso l’economia liberale, confermando del resto le sue capacità già emerse
nel periodo fra le due guerre: l’adesione alla UE (che aveva saputo organizzare una
generale politica di aiuto e di amicizia nei confronti dei paesi dell’ex-blocco
sovietico) fu approvata in un apposito referendum dal 77,33% (del 55,21% degli
aventi diritto al voto) e fu il coronamento definitivo della nuova stagione del paese.
La Repubblica Ceca non adottò però mai l’euro.
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La Slovacchia seguì lo stesso percorso della Repubblica Ceca, al referendum del 1617 maggio 2003 il 97,71% (del 51,5% degli aventi diritto al voto) votò a favore ed il
paese il 1 gennaio 2009 adottò l’euro.
Il 20 agosto 1991 in seguito al crollo dell’Unione Sovietica l’Estonia vide restaurata
l’indipendenza del 1918 (violata secondo il protocollo segreto del Patto di nonaggressione Ribbentrop-Molotov del 1939), e la nazione si cimentò subito col
compito di restaurare tutte le condizioni (politiche, economiche e giuridiche)
precedenti: il 20 settembre 1992 però, alle prime elezioni democratiche della ritrovata
indipendenza, la maggior parte della minoranza russa o russofona, quella che era
giunta con la ‘russificazione’ postbellica ed era priva della nazionalità estone, non
ebbe diritto di voto.
L’attività economica e commerciale dell’Estonia si spostò nettamente verso i mercati
occidentali (statunitensi ed europei, specialmente scandinavi) ed il ritmo del suo
sviluppo economico prese a salire in modo notevole grazie anche ad una diffusa ed
efficace politica di privatizzazione.
Il 14 settembre 2003 il 66,83% (del 64,06 degli aventi diritto al voto) al relativo
referendum approvò l’adesione all’Unione Europea ed il 1 gennaio 2011 il paese fu il
diciassettesimo (e finora l’ultimo) ad adottare l’euro.
Ovviamente del tutto simile il caso della Lituania, il più grande dei paesi baltici, il
primo a liberarsi dall’Unione Sovietica ed a ripristinare la propria sovranità attraverso
la dichiarazione di indipendenza dell’11 marzo 1990.
Anche qui il processo di liberalizzazione e democratizzazione fu accentuato e fu
coronato dall’adesione alla UE, voluta dall’89,95% (del 63,37% degli aventi diritto al
voto) al referendum del 10-11 maggio 2003.
La Lituania non ha però mai adottato l’euro.
Ancora una volta, simile a quella delle altre due repubbliche baltiche fu la storia della
Lettonia: nonostante ben il 29% della sua popolazione fosse costituito da russi, il 4
maggio 1990 il suo parlamento approvò una prima Dichiarazione di indipendenza,
poi definitivamente confermata il 21 agosto 1991 ed infine riconosciuta dalla Russia
stessa il 6 settembre 1991.
Come le altre repubbliche, anche la Lettonia affrontò con successo la transizione al
sistema capitalistico-occidentale ed il 20 settembre 2003 al relativo referendum il
66,9% (del 72,75% degli aventi diritto al voto) approvò l’adesione del paese
all’Unione Europea: la Lettonia non ha però mai adottato l’euro.
L’Ungheria - sconfitta in entrambe le guerre mondiali – soprattutto dopo la prima
aveva subito grosse mutilazioni territoriali che l’avevano privata di sbocchi al mare
ed a cui erano seguite espulsioni di massa e pulizie etniche ai danni dei suoi cittadini
soprattutto dalle attuali Slovacchia e Romania, eppure nei negoziati e nei controlli
50
sull’adempimento delle clausole per l’adesione fu data grande importanza alla
situazione della sua minoranza Rom (meno del 2% della popolazione complessiva).
Così, se in generale l’Ungheria aveva ampiamente rispettato gli obblighi riguardanti
la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali, il diritto societario, la
politica sociale, l’energia, la cultura, la politica audiovisiva, la cooperazione in
materia di giustizia e degli affari interni e la riforma giudiziaria, quelli richiesti per
migliorare la situazione della minoranza Rom (soprattutto nel settore della cultura e
dell’istruzione, degli alloggi, dell’occupazione, della salute e della lotta contro la
discriminazione) furono rispettati solo parzialmente (almeno a detta della
Commissione).
In ogni caso dopo anni di riforme e controlli l’Ungheria superò finalmente l’esame
per l’ammissione alla UE e venne così indetto un referendum confermativo: tutti i
principali partiti politici, i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali, le chiese
furono a favore dell'adesione alla UE anche se il principale partito di opposizione
(Fidesz) , pur anch’esso favorevole all’adesione, avvertì che si sarebbero potuti
perdere fino a 100mila posti di lavoro a causa dei regolamenti comunitari e
soprattutto della concorrenza dei paesi membri.
Oltre a ciò, durante la campagna referendaria vennero riproposti pregiudizi e timori di
ogni tipo (come quello che si chiedeva se il consumo di gnocchi di semi di papavero
fosse consentito nella UE e se era vero che in Europa i preservativi dovevano essere
di una sola dimensione): più seriamente, molti oppositori contestarono i termini di
adesione (ritenuti svantaggiosi per paesi del peso e del livello dell’Ungheria) e la
forma attuale della UE (troppo burocratica, verticistica, lontana dai popoli e legata
agli interessi della grande finanza), ma non la UE in quanto tale.
Al referendum del 14 aprile 2003 i sì vinsero nettamente, ma si trattò dell’83,8% del
45,6% degli aventi diritto al voto, la maggioranza dei quali non si recò nemmeno alle
urne.
Era un segno inequivocabile di diffidenza e scetticismo, ma il processo andò avanti,
l’Ungheria entrò nella UE ma non adottò l’euro.
Di tutti i paesi ex-comunisti il più importante era certamente la Polonia: con quasi 40
milioni di abitanti aveva all’incirca la stessa popolazione degli altri nove messi
insieme e nel 1979 Solidarnosc aveva dato la prima picconata all’impero sovietico.
Dopo l’indipendenza, il 18 aprile 1995 la Polonia aveva chiesto l’ammissione alla UE
ed il Presidente Kwasniewski nel suo discorso al Collegio d’Europa di Natolin il 6
novembre 1996 seppe cogliere con efficacia cosa significava l’ingresso in Europa per
la Polonia (e, in genere, per un paese ex-comunista):
“La trasformazione avviata in Polonia dopo la svolta storica del 1989 consiste non
solo in una riforma dell’economia ma anche in un’apertura del paese al mondo
esterno. L’apertura è nella tradizione storica della Polonia. Partecipare ai processi
naturali di integrazione del continente rientra nella nostra visione della sovranità
polacca. La prospettiva dell’integrazione europea è per noi una sfida storica: da un
lato, i benefici che l’adesione all’Unione europea apporterà; dall’altro, la
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consapevolezza degli obblighi imposti dal nostro ruolo nell’unificazione del
continente”.
Kwasniewski aveva colto con chiarezza che i vari paesi europei non potevano né
dovevano chiudersi in se stessi se non volevano condannarsi alla marginalità ed al
mancato sviluppo, ma la realtà era purtroppo ben diversa perché anche in Polonia si
rafforzarono invece partiti e movimenti decisamente ‘euroscettici’, cioè contrari alla
UE, o, almeno, a quella UE: al referendum sull’adesione votò infatti solo il 58,85%
degli aventi diritto (77,45% favorevoli), mentre alle elezioni del 2004 per il
Parlamento Europeo un misero 20,4%.
Né le cose migliorarono dopo l’ingresso della Polonia nella UE: il ‘Partito
dell’autodifesa polacca’ e la ‘Lega cattolica delle famiglie polacche’ (ambedue
contrari) raccolsero infatti molti consensi ed alle elezioni presidenziali dell’ottobre
2005 venne eletto Lech Kaczynski, mentre il suo fratello gemello Jaroslaw il 14
luglio 2006 diveniva primo ministro: i Kaczynski erano nazionalisti, tradizionalisti,
cattolici, euroscettici e germanofobi - e bene incarnavano insomma sentimenti diffusi
nel paese (e sicuramente comprensibili data la sua terribile storia).
Come si potevano dimenticare le dominazioni, le spartizioni, le occupazioni, le stragi,
le deportazioni, i genocidi e l’inenarrabile dolore del popolo polacco? Come non si
poteva giustificare l’ansia di riappropriarsi finalmente della propria identità, il
bisogno di riaffermare la propria sopravvivenza e di rinfacciarla a chi aveva tanto
infierito sulla carne e sul sangue di milioni di vittime? La reazione di rinchiudersi in
se stessi e di godere della propria ritrovata indipendenza era più che comprensibile
sul piano emotivo, ma la UE era nata proprio con lo scopo contrario: andare avanti,
cancellare quel passato col superamento degli steccati e con l’affossamento definitivo
ed incontrovertibile delle divisioni, degli egoismi e delle chiusure – anche perché nel
XXI secolo questo è l’unico modo per non autocondannarsi al sottosviluppo ed
all’inconsistenza.
Finalmente nell’ottobre 2007, anche se Lech Kaczynski rimaneva Presidente della
Repubblica, Donald Tusk diveniva Primo Ministro e si apriva una stagione nuova e
più promettente nei rapporti tra la UE e la Polonia, anche se questa non adottò l’euro.
Complicato fu (ed è) l’ingresso nella UE di Cipro dove fin dall’indipendenza
dall’Inghilterra (16 agosto 1960) si erano manifestate in tutta la loro gravità le
serissime divergenze tra le due comunità, la greco-cipriota (all’epoca circa l’82%
della popolazione) e la turco-cipriota (circa il restante 18%), anche a causa dei
rispettivi piani di unione dell’isola alla Grecia (Enosis) o alla Turchia (Taksim): la
situazione precipitò definitivamente quando, in seguito al colpo di stato (greco) del
15 luglio 1974 contro il presidente cipriota Makarios (fautore di una politica di
conciliazione), il 20 luglio 1974 ed il 18 agosto 1974 la Turchia con due interventi
militari occupò la parte settentrionale dell’isola (il 37% del territorio) e nonostante
mediazioni, tentati accordi, diplomazie al lavoro, ecc., l’isola, la terza del
Mediterraneo, è tutt’oggi divisa in due.
52
A livello internazionale l’occupazione fu (ed è) considerata illegale e
l’autoproclamata ‘Repubblica indipendente’ è riconosciuta solo dalla Turchia.
Il 4 luglio 1990 il governo greco di Cipro chiese comunque l’adesione all’Unione
Europea e la domanda venne avanzata per tutta l’isola – né sarebbe potuto essere
diversamente, visto che la parte turca era considerata occupata abusivamente.
Il processo ufficiale di verifica della soddisfazione dei relativi parametri e criteri ebbe
inizio il 31 marzo 1998 e si sperò che ciò potesse costituire uno stimolo per giungere
ad una soluzione del problema – dato che, oltretutto, anche la Turchia aveva
presentato domanda di adesione - ma la comunità turco-cipriota si rifiutò di inviare
propri rappresentanti ai negoziati.
Il risultato fu così abbastanza paradossale: a Cipro la procedura costituzionale non
prevedeva il ricorso al referendum popolare così il Trattato di adesione di Cipro alla
Ue, firmato ad Atene il 16 aprile 2004, venne sì ratificato all’unanimità, ma solo dal
Parlamento della parte greca dell’isola.
I turco-ciprioti erano rimasti fuori dall’intero processo negoziale così la decisione
aveva di fatto riguardato solo la parte greca dell’isola, anche se lo stesso Parlamento
greco-cipriota si riteneva rappresentante dell’intera Cipro che sulla carta era diventato
quindi stato membro della UE nella sua interezza: tuttavia nella parte settentrionale
(turca) dell’isola il diritto comunitario è rimasto a tutt’oggi come sospeso, ed i circa
200mila turco-ciprioti sono cittadini ‘invisibili’ della UE, in attesa di un chiarimento
e di un perfezionamento della loro posizione nell’Unione.
Per rendersi conto della paradossalità della situazione basta considerare che la
richiesta turco-cipriota di stabilire relazioni commerciali dirette con la UE venne
respinta a larghissima maggioranza dal ‘Comitato del Parlamento europeo per le
questioni legali’ perché quell’area risultava occupata illegalmente e dunque con i suoi
rappresentanti non si poteva certo negoziare, ma quei cittadini erano nondimeno
cittadini della UE, seppure ancora senza alcun diritto o beneficio derivante da tale
appartenenza (!).
A questo punto si comprende anche perché Cipro – che ha adottato l’euro il 1 gennaio
2008 – non è entrata nell’area Schengen: essa vuole controllare gli ingressi e le uscite
alle sue frontiere.
L’ingresso di Malta nella UE segnò una netta scelta di campo, ma anche una
necessità dato il rischio di venire ignorata e scavalcata nello sviluppo della situazione
internazionale: Malta era e rimase membro del Commonwealth e la sua adesione fu
condivisa dall’opinione pubblica che l’8 marzo 2003 l’approvò con il 53,65% dei
consensi in un referendum cui partecipò il 90,86% degli aventi diritto al voto.
Il 1 gennaio 2008 Malta adottò anche l’euro.
Accogliendo la Slovenia la UE compiva un ulteriore salto di qualità perché dopo aver
contribuito alla rinascita democratica ed all’integrazione economica e politica di
paesi ex-fascisti, poi di tanti paesi ex-comunisti, ora cominciava a farlo anche nei
53
confronti di quelli della martoriata ex-Jugoslavia (a questo proposito vedere i
paragrafi relativi nel mio ‘Jugoslavia – dalla nascita alla dissoluzione’).
Il 15 gennaio 1992 la Slovenia, sviluppata ed etnicamente compatta, era stata infatti
la prima repubblica dell’ex-Jugoslavia a vedere riconosciuta ufficialmente la propria
indipendenza, seppur dopo una breve e poco cruenta guerra.
L’adesione della Slovenia all’Unione Europea era stato uno dei suoi obiettivi primari
in politica estera ed era stata voluta da tutti i partiti in parlamento: il sostegno
pubblico era stato comunque meno ampio anche se solo raramente era sceso sotto il
50%.
In ogni caso il 23 marzo 2003 nel referendum sull’adesione l’89,64 (del 60,2% degli
aventi diritto) votò sì ed il 1 gennaio 2007 la Slovenia adottò anche euro.
Con l’ingresso nella UE di dieci nuovi paesi questa aveva compiuto un grande passo
in avanti e Romano Prodi poteva andar fiero del lungo e complicato lavoro compiuto
dalla Commissione da lui presieduta (come in precedenza lo era stato per essere stato
il Presidente del Consiglio che era riuscito a portare l’Italia nell’area dell’euro fin
dalla sua nascita.
L’Europa ancora una volta era stata all’altezza della situazione ed aveva saputo
reagire ed adattarsi al nuovo scenario politico europeo del dopo-comunismo e del
dopo-URSS, ma, al di là degli inevitabili errori che chiunque agisca non può non
commettere, l’ingresso dei nuovi dieci stati membri mise però in luce un limite
piuttosto serio all’intero edificio della UE, la tiepida (o poco più) accoglienza delle
opinioni pubbliche coinvolte – ma ciò valeva (e vale) anche per le altre quindici.
Chi più che meno, tutte le società dei paesi dell’Unione non riescono ancora a
cogliere l’enorme rilievo politico dell’unificazione politica di un continente da
sempre e fino a pochi anni prima dilaniato da guerre spaventose; né la bellezza di
scoprirsi accomunati da una stessa cultura e da una stessa civiltà; né l’assoluta
necessità di unire le proprie forze e le proprie risorse di fronte alle sfide planetarie
della globalizzazione.
Da troppi settori dell’opinione pubblica la UE è vista invece come una fredda,
lontana, artificiosa, burocratica, puramente tecnica macchina che decide in modo
anonimo e formale sui destini concreti delle persone; come un organismo senza volto
e senza controllo che le priva del diritto e del potere di decidere del proprio destino;
come una massa di funzionari parassiti legati ad inconfessabili interessi, ecc. ecc..
Le classi politiche dei paesi membri sono invece molto più consapevoli della validità
del modello europeo e stupisce il gap che esiste fra le adesioni dei parlamenti e dei
governi e quelle molto più stentate dei loro elettori.
Forse ci vorrà ancora molto tempo perché ci si abitui a sentirsi europei, ma è più
probabile invece che sia necessaria una ben più forte e costante campagna di
informazione e di sensibilizzazione se in questo lembo occidentale dell’Eurasia non si
vorrà assistere al rinascere dei nazionalismi e dei sacri egoismi con tutto quel che ciò
comportò.
54
Il sesto allargamento della UE
Fin dal momento della vittoria della rivoluzione rumena del 1989 l’adesione alla UE
fu l’obiettivo principale di ogni governo e praticamente di ogni partito politico in
Romania: nella ‘Dichiarazione di Snagov’ (1995) tutti i quattordici i principali partiti
politici rumeni dichiararono infatti il loro pieno sostegno all’adesione alla UE.
Bulgaria e Romania presentarono così richiesta d’ingresso nella UE già nel 1995 ed
iniziarono i negoziati per l’adesione nel febbraio 2000; le trattative si conclusero con
successo nel dicembre 2004 e il Trattato di adesione venne firmato nell’aprile 2005,
anche se in un limitato numero di aree (nelle quali si ritenevano necessari impegni
ulteriori) la UE adottò un pacchetto di misure di salvaguardia.
I problemi da risolvere erano stati ed erano (e sono) comunque molteplici.
Come in molti altri paesi ex-comunisti, anche in Bulgaria dopo la fine del comunismo
la liberalizzazione accelerata dell’economia, la crescita sostenuta, una rigorosa
disciplina fiscale, la fine improvvisa di tante protezioni e servizi che lo stato
comunista aveva comunque offerto ai suoi cittadini, provocò anche seri problemi per
i ceti a reddito fisso che si trovarono sempre più in difficoltà in un mercato in cui i
prezzi – a differenza delle loro entrate - erano lasciati crescere liberamente:
particolarmente colpiti furono i dipendenti del settore pubblico e fra di loro gli
insegnanti che chiesero un raddoppio dei loro stipendi e scioperarono per settimane.
Quello dello standard ancora basso di vita di alcune categorie non era poi l’unico
problema della Bulgaria: oltre a notare che, come nel caso dell’Ungheria, erano stati
compiuti progressi limitati per quanto riguardava l’integrazione della comunità rom,
la UE mosse infatti forti rilievi per le perduranti disfunzioni nel settore della
giustizia, specie in relazione alla prevenzione ed alla persecuzione dei reati della
criminalità organizzata (tra cui il traffico di esseri umani,) ed alla corruzione –
particolarmente dolorosa quella che riguardava l’utilizzo dei fondi europei (!).
Anche in Romania la UE aveva insistito sulla necessità di intensificare la lotta alla
corruzione, ma c’erano anche altri settori su cui i due paesi dovevano intervenire,
dall’ambiente all’agricoltura, dagli aiuti di stato alla preparazione dei funzionari
pubblici che avrebbero dovuto garantire l’applicazione delle regole dell’Unione.
I due paesi, con un prodotto interno lordo che nel 2004 non superava il 30% della
media comunitaria, una volta entrati nella UE furono i più poveri dei 27 e quindi di
gran lunga i primi beneficiari dei fondi per la coesione territoriale, ma, soprattutto,
questo squilibrio pose il grosso problema dei loro lavoratori che, se lasciati liberi di
muoversi e di emigrare liberamente all’interno della UE - come sarebbe stato loro
diritto – si temeva avrebbero abbandonato in massa i loro paesi ingolfando in modo
insopportabile il mercato del lavoro (e non solo) degli altri stati.
Per evitare un cataclisma di questo tipo i lavoratori dei due nuovi stati membri non
poterono beneficiare subito e pienamente del diritto (pure affermato) alla libera
circolazione: come era avvenuto anche quando i precedenti dieci nuovi paesi erano
entrati a far parte della UE, il trattato di adesione previde infatti delle misure
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transitorie restrittive per la ricerca di lavoro al di fuori del proprio stato dalla durata
massima di sette anni (non applicabili però a chi lavorava già legalmente in uno degli
altri stati membri alla data del 1 gennaio 2007).
Tuttavia Cipro, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca,
Slovenia, Slovacchia e Svezia decisero ugualmente di aprire le loro frontiere ai
lavoratori bulgari e romeni; Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Irlanda,
Lussemburgo, Malta, Olanda, Portogallo, Inghilterra e Spagna invece le chiusero
completamente, mentre Francia, Ungheria e Italia le aprirono con alcune restrizioni e
modalità particolari.
Bulgaria e Romania non entrarono nell’area Schengen né adottarono l’euro né, dato
che le loro costituzioni non lo prevedevano, tennero referendum sull’adesione.
Un grande passo era infine stato fatto: il 1 gennaio 2007 con l’ingresso della
Bulgaria e della Romania nella UE quest’ultima aveva completato infatti
l’inserimento al suo interno di tutti i paesi che avevano fatto parte della cintura
esterna europea dell’impero sovietico (più le tre repubbliche baltiche): ora la UE (in
cui si scriveva in tre alfabeti, latino, greco e cirillico) andava dal Baltico al
Mediterraneo e dall’Atlantico ai confini dell’ex-URSS, circondando i paesi dell’exJugoslavia (con l’eccezione della Slovenia).
Dopo decenni di divisione e di guerra ‘fredda’ l’Europa dell’est e quella dell’ovest
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si erano riunite pacificamente in uno spirito di amicizia e di collaborazione: dispiace
solamente che un risultato storico di questa portata e di questo valore non sia stato (e
non sia) percepito come dovrebbe dalle opinioni pubbliche europee e che il lungo e
duro lavoro della Commissione Prodi non venga ricordato ed apprezzato come invece
meriterebbe.
La dichiarazione di Berlino
Il completamento dell’inserimento nella UE degli stati ex-comunisti esterni all’URSS
segnò il raggiungimento di un importante traguardo che, oltretutto, cadeva nel
cinquantenario dei Trattati di Roma: la dichiarazione di Berlino (ufficialmente
‘Dichiarazione in occasione del 50° anniversario della firma del Trattato di Roma)
del 25 marzo 2007 volle così celebrare ambedue gli avvenimenti e vale la pena
riportarne per intero il testo:
“ L’Europa è stata per secoli un’idea, una speranza di pace e comprensione. Oggi
questa speranza si è avverata. L’unificazione europea ci ha permesso di raggiungere
pace e benessere. E’ stata fondamento di condivisione e superamento di contrasti.
Ogni membro ha contribuito ad unificare l’Europa, a consolidare la democrazia e lo
stato di diritto. Se oggi l‘Europa ha superato definitivamente un’innaturale divisione,
lo dobbiamo all’amore per la libertà dei popoli dell’Europa centrale e orientale.
L’integrazione europea è l’insegnamento tratto da conflitti sanguinosi e da una storia
di sofferenze. Oggi viviamo assieme come mai è stato possibile in passato.
Noi cittadini dell'Unione europea siamo, per nostra felicità, uniti.
I
L'Unione europea ci consente di realizzare i nostri ideali comuni: per noi l’essere
umano è al centro. La sua dignità è inviolabile. I suoi diritti inalienabili. Donne e
uomini hanno pari diritti.
Aspiriamo alla pace e alla libertà, alla democrazia e allo stato di diritto, al rispetto
reciproco e all’assunzione di responsabilità, al benessere e alla sicurezza, alla
tolleranza e alla partecipazione, alla giustizia e alla solidarietà.
L’Unione europea concreta un’unicità di vita e di azione comune. Ciò si esprime
nella coesistenza democratica di Stati membri e istituzioni europee. L’Unione
europea si fonda sulla parità e sull’unione solidale. Rendiamo così possibile un giusto
equilibrio di interessi tra gli Stati membri.
L’Unione europea è salvaguardia dell'autonomia e delle diversità delle tradizioni dei
suoi membri. L’apertura delle frontiere, la vivace molteplicità di lingue, culture e
regioni sono per noi un arricchimento. Molti obiettivi non possono essere conseguiti
con un’azione individuale: la loro realizzazione ci impone un’azione collettiva.
L’Unione europea, gli Stati membri e le loro regioni e comuni si dividono i compiti.
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II
Siamo di fronte a grandi sfide che non si arrestano ai confini nazionali. L’Unione
europea è la nostra risposta a queste sfide. Soltanto assieme potremo salvaguardare
anche in futuro il nostro ideale europeo di società a beneficio di tutti i cittadini
dell’Unione europea. Questo modello europeo coniuga successo economico e
responsabilità sociale. Il mercato comune e l’Euro ci rendono forti. Potremo così
modellare secondo i nostri valori la crescente interconnessione delle economie a
livello mondiale e la sempre maggiore concorrenza sui mercati internazionali. La
ricchezza dell’Europa è racchiusa nelle conoscenze e nelle competenze dei suoi
cittadini: è questa la chiave per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale.
Lotteremo assieme contro il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione
illegale. Anche nella lotta contro i loro oppositori difenderemo il diritto alla libertà e i
diritti civili. Razzismo e xenofobia non devono trovare mai più terreno fertile.
Ci impegniamo affinché si trovino soluzioni pacifiche ai conflitti nel mondo e gli
esseri umani non divengano vittime di guerre, terrorismo o violenze. L’Unione
europea vuole promuovere la libertà e lo sviluppo nel mondo. Vogliamo far arretrare
la povertà, la fame e le malattie. In tale contesto vogliamo continuare a svolgere un
ruolo trainante.
Vogliamo portare avanti assieme la politica energetica e la protezione del clima e
contribuire a sconfiggere la minaccia globale rappresentata dal cambiamento
climatico.
III
L’Unione europea dipenderà anche in futuro dalla sua apertura e, nel contempo, dalla
volontà dei suoi membri di consolidare assieme lo sviluppo interno dell’Unione
stessa. L’Unione europea continuerà a promuovere la democrazia, la stabilità e il
benessere anche al di là dei suoi confini.
Con l’unificazione europea si è realizzato un sogno delle generazioni che ci hanno
preceduto. La nostra storia ci ammonisce a difendere questo patrimonio per le
generazioni future. Dobbiamo a tal fine continuare a rinnovare tempestivamente
l’impostazione politica dell'Europa. E’ in questo spirito che oggi, a 50 anni dalla
firma dei trattati di Roma, siamo uniti nell’obiettivo di dare all’Unione europea entro
le elezioni del Parlamento europeo del 2009 una base comune rinnovata.
Perché l’Europa è il nostro futuro comune”.
La laicità della UE
La dichiarazione venne criticata dal papa Benedetto XVI perché in essa non veniva
menzionata la cristianità dell’Europa ed addirittura la Polonia in un primo momento
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aveva posto il veto (in seguito ritirato) perché in essa non venivano affermate le
origini cristiane dell’Europa stessa: la polemica sul riconoscimento o meno delle
origini cristiane dell’Europa era già scoppiata in precedenza a proposito della
Costituzione Europea ed a prima vista questa potrebbe sembrare una schermaglia di
secondaria importanza o una quisquilia diplomatica, mentre in realtà si trattava di una
questione di grande rilievo.
La UE nel momento della sua massima affermazione e del suo maggior successo non
sentiva alcun bisogno di far riferimento a valori religiosi, al ruolo delle Chiese ed al
Cristianesimo – né l’aveva mai fatto!
La UE era sempre stata un’organizzazione completamente laica in cui Chiese e
religioni non avevano mai avuto alcun ruolo: nonostante l’attivismo di papa Giovanni
Paolo II nel voler unificare l’Europa nel segno del Cristianesimo, egli era stato
semplicemente ignorato e, nonostante la sua enorme popolarità, la UE aveva sempre
fatto completamente a meno di lui come di ogni altra Chiesa.
La UE era (ed è) la dimostrazione più evidente che con la laicità si può benissimo
gestire la società e costruire il mondo; che gli uomini possono procedere in modo
autonomo senza far riferimento a princìpi trascendenti e senza doversi affidare a
coloro che pretendono di essere gli interpreti della volontà di Dio (o, addirittura,
come nel caso del papa cattolico, Dio in Terra); che gli uomini sono perfettamente in
grado di autogestirsi affidandosi alla sola ragione.
Non era certo la prima volta che da parte cattolica si insisteva in questa pretesa
centralità, primogenitura e fondazione dell’Europa da parte del Cristianesimo e che se
ne pretendeva il conseguente riconoscimento, ma ciò avveniva senza produrre effetto
alcuno, tanto che le Chiese sembrano quasi un corpo estraneo, o comunque superfluo,
nell’Europa Unita: forse è proprio per questo che in Europa si va avanti, perché ci si
confronta in modo razionale su cose concrete ed i contrasti sono della stessa natura
razionale e concreta.
Per rendersi conto della forza del sentimento laico nella UE può essere utile
considerare la contesa a proposito dell’immagine dei santi Cirillo e Metodio (con
l’aureola) e della croce a due sbarre orizzontali sulle due facce della moneta da due
euro della Slovacchia: la richiesta, avanzata dal governo (socialista) slovacco per il
conio del 2013, anno giubilare dei due santi, venne contestata dall’esecutivo di
Bruxelles in quanto giudicata violazione dell’imperativo della laicità della UE e ciò
scatenò un’accesa polemica.
Il governo di Bruxelles sostenne che gli euro non sono monete nazionali, ma europee,
e che imporvi effigi religiose significa disconoscere il principio laico su cui l’Europa
unita si era fondata fin dall’inizio: il governo slovacco ribattè che i due famosissimi
santi sono comunque parte essenziale della memoria storica nazionale; che erano stati
i due evangelizzatori dei popoli slavi ad aver agganciato questi ultimi all’Europa; ed
infine che erano stati questi due inventori dell’alfabeto (appunto cirillico) che
l’avevano portato agli slavi insieme alla cultura occidentale (cioè europea), diritto
compreso.
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Il governo slovacco fece leva poi sul bisogno del suo popolo di riconoscersi nei suoi
simboli dopo che aveva dovuto subire la guerra di Hitler e mezzo secolo di dominio
sovietico: oltre alla gerarchia cattolica anche molti intellettuali laici slovacchi
sostennero la tesi del governo ed alla fine Bruxelles dovette cedere, ma nondimeno
l’aperta contesa ha testimoniato la grande e profonda sensibilità dell’Europa unita sul
tema del laicismo ed il suo timore che abbandonarne lo spirito facilmente potrebbe
portare divisioni e lacerazioni, oltre ad inquinare l’intero progetto europeo voluto per
uomini (e stati) liberi ed indipendenti dalle Chiese – perché quando si parla di
religione è del potere e del ruolo della Chiese nella società che in realtà si tratta.
Il Trattato di Lisbona
Il Trattato di Lisbona, noto anche come Trattato di riforma, fu redatto per sostituire
il progetto di Costituzione Europea bocciato nei referendum francese ed olandese del
2005: la mancata approvazione della Costituzione Europea aveva infatti lasciato un
vuoto che era necessario riempire per adeguare la UE al suo stesso sviluppo ed a
quello della situazione internazionale in continuo movimento.
Fu così che in occasione della Dichiarazione di Berlino la Cancelliera tedesca Angela
Merkel ed il Presidente del Consiglio italiano Romano Prodi (tornato nuovamente al
governo) decisero di risolvere il problema con la stipula di un nuovo trattato europeo
che pensarono sarebbe stato opportuno fosse pronto per il 2009, anno delle elezioni
del Parlamento Europeo.
E così fu: i lavori iniziarono col mandato (ufficioso) al cosiddetto ‘Gruppo Amato’
(ufficialmente ‘Comitato d’azione per la democrazia europea’, o ACED) di
riformulare la Costituzione Europea in base ai criteri emersi nelle consultazioni
tenute dalla presidenza tedesca con le varie cancellerie europee; il 4 giugno 2007 il
Gruppo presentò il nuovo testo che funse da punto di riferimento per i negoziati ed il
Consiglio Europeo di Bruxelles (sotto la presidenza tedesca) il 23 giugno 2007
raggiunse l’accordo sul nuovo Trattato di riforma, che venne firmato il 13 dicembre
2007 nell’affascinante Monastero di Los Jeronimos a Lisbona ed entrò ufficialmente
in vigore il 1 dicembre 2009.
Il Trattato di Lisbona ebbe dunque l’obiettivo di dotare la UE di istituzioni moderne e
di metodi di lavoro ottimizzati per rispondere in modo efficace alle nuove esigenze
dell’Europa e della nuova situazione del mondo, visto che le norme e tutto l’impianto
organizzativo precedenti erano stati pensati per un’Unione molto più ristretta, al
tempo in cui il pianeta era diviso in blocchi ed in cui la globalizzazione era ancora
ben lontana.
A Lisbona si decise che per affrontare i problemi della globalizzazione, dei
cambiamenti climatici, dell’evoluzione demografica, della sicurezza, dei conflitti
internazionali e dell’energia, gli europei avrebbero dovuto ormai guardare sempre più
alla UE, ma non fu facile raggiungere un accordo generale che soddisfacesse tutti,
60
così discussioni, deroghe, eccezioni , casi particolari, ecc., furono inevitabilmente
numerosi.
Il Trattato recepì gran parte delle innovazioni che erano state già inserite nella
Costituzione Europea, ma evitò prudentemente ogni riferimento esplicito ad essa
eliminando i simboli europei e chiamando ancora ‘regolamenti’ e ‘direttive’ le ‘ leggi
europee’ e le ‘leggi quadro europee’.
In realtà il Trattato di riforma non produsse un testo unico (come avrebbe dovuto
essere la Costituzione Europea), ma migliaia di emendamenti a centinaia di regole
già in essere: il (diciamo così) testo del Trattato era infatti composto da 329 pagine di
diversi e scollegati emendamenti a 17 trattati e che andavano inseriti nel posto giusto
all’interno di 2800 pagine di leggi europee: era insomma praticamente
incomprensibile ed illeggibile dalla stessa grande maggioranza dei politici, mentre il
Parlamento Europeo (organo eletto) potè esprimere solamente un voto consultivo.
Fu con tutta questa serie di riforme dei vecchi trattati (come il Trattato sull’Unione
europea, il Trattato che istituisce la Comunità europea, il Trattato di Amsterdam,
ecc.) che a Lisbona si crearono le basi giuridiche per la nascita di un grande Stato
unico europeo con poteri sempre più sovranazionali.
Il trattato garantì che l’Unione Europea si sarebbe impegnata al fine di:
1) offrire ai cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza
frontiere interne;
2) garantire all’Europa uno sviluppo sostenibile, basato su una crescita
economica equilibrata, sulla stabilità dei prezzi e su un’economia sociale
di mercato altamente competitiva al fine di raggiungere la piena
occupazione, il progresso sociale ed un livello elevato di tutela
dell’ambiente;
3) lottare contro l’emarginazione sociale e la discriminazione, nonché
promuovere la giustizia e la protezione sociali;
4) favorire la coesione economica, sociale e territoriale, nonché la
solidarietà fra gli stati membri;
5) continuare l’impegno in favore di un’unione economica e monetaria con
l’euro come moneta europea;
6) conservare e promuovere i valori dell’Unione Europea nel resto del
mondo ed adoperarsi per la pace, la sicurezza, lo sviluppo sostenibile del
pianeta, la solidarietà ed il rispetto fra i popoli, un commercio libero ed
equo e l’eliminazione della povertà;
7) contribuire alla protezione dei diritti dell’uomo (segnatamente dei diritti
dei bambini), all’applicazione rigorosa ed allo sviluppo del diritto
internazionale, ivi compreso il rispetto per i principi enunciati nella
Carta delle Nazioni Unite.
Dato comunque il gran numero di innovazioni, modifiche, aggiunte, ecc., in questa
sede possono essere ricordate solo le principali.
61
La partecipazione: il Trattato rafforzò il ruolo del Parlamento Europeo e chiarì in
modo più preciso sia le sue competenze che quelle dei parlamenti nazionali: il
Parlamento Europeo aumentò infatti il numero dei suoi membri da 736 a 751
(l’Italia passò da 72 a 73) ed acquisì nuovi importanti poteri per quanto riguardava la
legislazione ed il bilancio della UE e gli accordi internazionali, tuttavia, nonostante
fosse l’unico organo europeo eletto, esso continuò ad avere solo potere di codecisione
insieme al Consiglio Europeo (che eletto non era) sulle leggi in genere proposte dalla
Commissione Europea (e nemmeno questa era eletta): la Commissione fu autorizzata
poi anche a legiferare per decreto e, insomma, coi suoi circa 3000 gruppi di lavoro
divenne ancora più potente di prima.
I parlamenti nazionali vennero più coinvolti nell’attività della UE ed ebbero più
tempo per esaminare regolamenti e direttive, ma in virtù del principio di sussidiarietà
l’Unione sarebbe potuta intervenire quando la sua azione a livello europeo fosse
risultata più efficace di quella di un parlamento nazionale che dunque nelle sue
decisioni doveva tener attentamente conto della prospettiva europea e, per così dire,
veniva posto sotto costante osservazione.
Un gruppo di almeno un milione di cittadini (di un certo numero di stati membri)
poteva presentare nuove proposte alla Commissione e/o pretendere che essa si
pronunciasse sui problemi da essi posti.
Il Trattato di Lisbona riconosceva infine espressamente agli stati membri la
possibilità di uscire dall’Unione in quanto fissò le modalità (fino a quel momento non
previste!) per recedere dalla UE e negoziarne le condizioni con i partners.
L’efficienza: per raggiungere una maggiore capacità di intervento nei settori di
massima priorità l’Europa semplificò anche i suoi metodi di lavoro e le sue norme di
voto.
Il Trattato stabilì che il voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio Europeo
sarebbe stato esteso a nuovi ambiti e che questa nuova procedura decisionale a
maggioranza qualificata si sarebbe basata sulla ‘doppia maggioranza’ in base alla
quale una delibera del Consiglio avrebbe avuto bisogno del voto favorevole di
almeno il 55% dei delegati degli stati membri la cui popolazione avrebbe dovuto
essere almeno il 65% di quella complessiva europea.
Il ruolo del Presidente del Consiglio Europeo venne rafforzato dato che egli non
sarebbe più stato nominato a rotazione per un mandato semestrale, ma sarebbe stato
eletto a maggioranza qualificata dal Consiglio Europeo con un mandato di due anni e
mezzo rinnovabile una volta sola.
Il Trattato migliorò la capacità di azione della UE in diversi settori prioritari e in
particolare nel campo della libertà, della sicurezza e della giustizia, per affrontare la
lotta al terrorismo ed alla criminalità, nella politica energetica, nella salute pubblica,
nella protezione civile, a proposito dei cambiamenti climatici, nei servizi di interesse
generale, nella ricerca, nella conquista dello spazio, nella coesione territoriale, nella
politica commerciale, negli aiuti umanitari, nello sport, nel turismo e nella
cooperazione amministrativa.
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Diritti e valori: il Trattato di Lisbona precisò e rafforzò i valori e gli obiettivi sui
quali l’Unione si fonda: questi valori dovevano fungere da punto di riferimento per i
cittadini europei e mostrare al resto del mondo quello che l’Europa poteva offrire:
esso così mantenne i diritti esistenti e ne introdusse di nuovi.
In particolare il Trattato garantì la democrazia, le libertà ed i principi sanciti dalla
Carta dei diritti fondamentali rendendoli giuridicamente vincolanti: nel contemplare i
diritti civili, politici, economici e sociali il Trattato stabilì poi che la concorrenza (pur
riconosciuta) non era più ritenuta un obiettivo fondamentale della UE.
Per mantenere e rafforzare il principio democratico e la tutela delle libertà
fondamentali (politica, economica e sociale) dei cittadini europei, il Trattato attribuì
alla Carta dei Diritti Fondamentali lo stesso valore giuridico degli altri Trattati, ed
alla Corte di Giustizia Europea il diritto di pronunciarsi sul suo rispetto: la (solita)
Inghilterra ottenne però l’ ‘ opt-out’ (la ‘clausola di esclusione’) che l’autorizzava a
non applicare sul suo territorio la ‘Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea’
al fine di preservare la propria ‘Common Law,’ ed in ciò fu seguita dalla Repubblica
Ceca e dalla Polonia (anche se Donald Tusk dopo essere stato eletto si impegnò a
non farla valere).
La capacità di azione dell’Unione in materia di libertà, sicurezza e giustizia venne
rafforzata, consentendo di rendere più incisiva la lotta alla criminalità e al terrorismo.
Oltre all’aggressione armata, all’attacco terroristico ed alle calamità naturali il
Trattato inserì anche l’energia nella clausola di solidarietà (in base alla quale gli stati
membri si impegnavano a sostenere gli altri in caso di necessità).
Anche le nuove disposizioni in materia di protezione civile, aiuti umanitari e salute
pubblica contribuirono a potenziare la capacità dell’Unione di far fronte alle minacce
per la sicurezza dei cittadini.
Il Trattato aumentò poi le competenza della Corte di Giustizia (che ora poteva
infliggere multe più velocemente ed in più casi ad un paese inadempiente) le cui
deliberazioni furono soggette al voto a maggioranza ed alla codecisione: ma ancora
una volta l’Inghilterra e l’Irlanda ottennero (per tutti!) un ‘opt-out’ sulle decisioni a
maggioranza nel settore Giustizia e Affari Interni.
Rapporti internazionali: il ruolo dell’Europa sulla scena internazionale venne
potenziato col raggruppamento e maggior coordinamento degli strumenti comunitari
di politica estera.
Il Trattato di Lisbona permise all’Europa di esprimere una posizione chiara nelle
relazioni con i partners a livello mondiale; mise tutta sua la potenza economica,
umanitaria, politica e diplomatica al servizio dei suoi interessi e valori in tutto il
mondo, pur rispettando gli interessi particolari degli stati membri; conferì all’Alto
rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (il ‘Ministro
degli Esteri’ europeo) più ampi poteri: designato dal Consiglio Europeo, egli sarebbe
stato anche vicepresidente della Commissione UE e quindi soggetto all’approvazione
del Parlamento Europeo.
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La personalità giuridica unica conferita all’Unione ne rafforzava il potere negoziale,
potenziava ulteriormente la sua azione in ambito internazionale e la rendeva un
partner più visibile per i paesi terzi e per le organizzazioni internazionali.
La politica europea di sicurezza e di difesa, pur conservando dispositivi decisionali
speciali, agevolò la cooperazione rafforzata tra un numero ristretto di stati membri.
Il Trattato fece entrare a far parte del diritto comune UE anche l’immigrazione, che
ora sarebbe stata regolata da normative comunitarie.
Infine i ‘tre pilastri’ vennero aboliti e superati mentre la Banca Centrale Europea
(BCE) vide potenziato il suo potere di imporre a tutti la stabilità dei prezzi e divenne
arbitra delle politiche monetarie della UE: da notare che partecipavano come
soci/proprietari anche paesi al di fuori dell’area euro (come l’Inghilterra con una
quota di ‘proprietà’ del 15,98% e la Danimarca col 1,72%).
Il problema della democrazia della UE
La ratifica del Trattato di Lisbona da parte dei 27 stati membri fu un’operazione
lunga e complicata, anche perché la sua accettazione comportò modifiche
costituzionali in alcuni paesi (come l’Irlanda in cui per questo si dovettero svolgere
ben due referendum).
Il Trattato poneva fine ai due anni e mezzo di incertezza istituzionale dovuta alla
bocciatura della Costituzione Europea nei referendum francese e olandese, ma quasi
tutto quello che essa aveva proposto (e che era stato rifiutato) ora venne
semplicemente ripresentato sotto altra forma: Valéry Giscard d'Estaing potè così
dichiarare che le differenze tra il testo della Costituzione Europea (ripetiamo:
rifiutata) e quello del Trattato erano solo ‘cosmetiche’, mentre l’analisi dettagliata
del Trattato operata da (l’euroscettico) ‘Openeurope’ rivelò che esso era per il 96%
identico alla fallita Costituzione Europea.
Questa volta però i governi ed i parlamenti dei 27 stati membri non vollero più
correre il rischio che dei referendum affossassero anche il Trattato, per cui la sua
ratifica avvenne esclusivamente per via parlamentare.
Era questo forse l’unico modo per farlo accettare e renderlo operativo e la strategia
funzionò: i gruppi ed i partiti euroscettici furono decisamente minoritari e marginali,
così poterono solo ritardare o rendere più complessa l’approvazione del Trattato;
l’Ungheria fu la prima a ratificarlo a soli sette giorni dalla sua firma (!) mentre
l’ultima fu la Repubblica Ceca (il 3 novembre 2009); il Trattato fu approvato con
maggioranze amplissime (all’unanimità a Malta e (l’8 agosto 2008) in Italia!)
dovunque tranne che in Inghilterra, visto che alla Camera dei Comuni esso passò con
346 favorevoli, 206 contrari e 81 astenuti (ma alla Camera dei Lords la votazione non
fu necessaria data la netta prevalenza dei favorevoli).
L’approvazione del Trattato fu dunque sicuramente un successo e rappresentò un
importante passo avanti della UE, ma molti euroscettici si interrogarono sulla
democraticità di una tale procedura, che secondo loro non faceva che aumentare la
64
lontananza e l’estraneità dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni europee
e dell’Unione Europea stessa.
Ancor oggi essi sostengono che non ci si può lamentare dello scarso senso di
appartenenza che le società europee mostrano verso la loro nuova patria allargata e
poi escluderle preventivamente dalle sue scelte per il timore che non le condividano;
che non ci si può lamentare se la UE è spesso avvertita come un affare di burocrati e
funzionari chiusi nel loro castello kafkiano se poi in effetti non si lascia che a
pronunciarsi e decidere siano i suoi cittadini.
Se infine si aggiungono le summenzionate complicazioni e farraginosità del Trattato
(ammesso che sia davvero un trattato), tante e tali da renderlo di fatto impresentabile
all’opinione pubblica, essi concludono che la distanza fra UE e popoli europei non
può che risultare ulteriormente accresciuta.
Questo è un problema serio, ancora più avvertito oggi (dicembre 2012), dopo anni di
crisi e di crescente sfiducia - quando non di aperte accuse - nell’euro, e sicuramente
fondato su un dato evidente ed indiscutibile: le classi dirigenti europee sono a favore
dell’integrazione europea molto più (quando non addirittura contro!) le società che
rappresentano e governano.
Com’è possibile dunque difendere e sostenere l’intero processo dell’unità europea?
Non si sta forse commettendo una violazione delle volontà popolari tale da invalidare
l’intero edificio della UE (e della sua moneta)?
Qui non si sta discutendo su chi ha ragione fra i sostenitori dell’Europa ed i cosiddetti
‘euroscettici’, ma se il processo di integrazione europea è democratico, quindi
legittimo, oppure no, proprio in nome di quegli stessi diritti di cui la stessa UE si fa
vanto e di cui si proclama sostenitrice!
Ebbene, la risposta che emerge da queste pagine è affermativa: oltre al fatto che i
cittadini europei votano i loro rappresentanti al Parlamento Europeo, anche le classi
dirigenti nazionali che da decenni faticosamente stanno costruendo l’Europa sono
state democraticamente elette ed i nostri sistemi politici sono democrazie
rappresentative, non democrazie dirette (alla Rousseau, per intenderci)! Le loro
decisioni vanno quindi accettate a meno che le elezioni non siano vinte da
formazioni politiche che propongono nel loro programma l’uscita dalla UE e/o
dall’area euro.
Questo ovviamente non significa che istituzioni europee e società europee non
vadano meglio avvicinate nè che tante incomprensioni non debbano essere chiarite e
risolte, ma se si adottasse come metro e criterio di democrazia la sola consultazione
diretta, allora anche l’ONU, la NATO e qualsiasi organismo internazionale
risulterebbe illegittimo e si passerebbe il tempo continuamente impegnati fra un
referendum ed un altro.
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Conclusione
Col Trattato di Lisbona l’Unione Europea ha raggiunto un nuovo più avanzato (e per
il momento ultimo) punto di equilibrio: essa può essere definita un’entità politica di
carattere sovranazionale ed intergovernativo che ad oggi (dicembre 2012) comprende
27 paesi membri ed i cui organi principali sono la Commissione Europea (esecutivo)
a Bruxelles, la Corte di Giustizia (giudiziario) a Lussemburgo, il Parlamento Europeo
a Strasburgo ed il Consiglio Europeo a Bruxelles (legislativo) e la Banca Centrale
Europea (monetario e finanziario) a Francoforte.
La UE tuttavia non è una semplice organizzazione intergovernativa come l’ONU né
una vera e propria federazione di stati come gli USA, ma un organismo strano e
particolare alle cui istituzioni gli stati membri delegano solo una parte della propria
sovranità nazionale secondo una rete di rapporti piuttosto intricata.
Essa ha trasformato un continente da secoli e millenni attraversato da guerre sempre
più folli e devastanti, da continue rivalità e da divisioni che sembravano insanabili, in
un’oasi di pace e prosperità, di collaborazione e di intesa: per una volta le speranze,
gli auspici ed i progetti degli amanti della pace – della pace vera, non di quella che si
pretende ottenere con una guerra – sono diventati realtà e solo degli scriteriati
possono essere insensibili (o addirittura contrari!) ad un sogno avverato come questo.
Tuttavia i motivi concreti che hanno portato alla UE sono di fatto quelli che l’hanno
resa possibile: all’inizio, dopo gli assurdi e spaventosi sconvolgimenti dei due
conflitti mondiali, la prima spinta all’integrazione era stata la ricerca di un nuovo
assetto del continente che gli permettesse di evitare la maledizione delle guerre;
inoltre in confronto ai due colossi USA e URSS gli stati europei (fino a poco prima
padroni del mondo!) si erano scoperti piccoli e limitati e di conseguenza era
giocoforza unissero capacità e risorse se volevano evitare un inarrestabile declino;
con la divisione dell’Europa la necessità di rafforzare la coesione fra gli stati del
blocco occidentale si era fatta evidentemente ancor più impellente; poi ci fu la
necessità di integrare nella compagine dell’Europa occidentale gli stati ex-fascisti ed
anche questo fu un compito delicato ed importante perché si trattò di sostenerli ed
indirizzarli non solo nell’ammodernamento e nell’apertura al mondo della loro
economia, ma anche nella costruzione delle istituzioni dello stato democratico e
civile; infine si trattò di integrare, aiutare ed accogliere nella grande famiglia europea
gli stati ex-comunisti ex-sovietici.
Tuttavia la vera accelerazione e la decisiva spinta in avanti si verificò in seguito ai
profondi sconvolgimenti planetari a partire dall’inizio degli anni Novanta, quando
l’Europa si trovò a fronteggiare, a reagire e ad adeguarsi ad una situazione
mondiale in completa evoluzione:
1) nel 1989 cadeva il Muro di Berlino e nel 1991 l’URSS cessava di esistere: il
comunismo era morto e l’Europa (ed il mondo) non erano più divisi;
2) liberi dalla gabbia del confronto planetario est-ovest gli stati e le regioni dei
cinque continenti si aprivano al commercio ed alla concorrenza economica sui
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mercati di tutto il mondo che era diventato un ‘villaggio globale’: iniziava
infatti l’età della globalizzazione;
3) il 1 gennaio 1994 entrava in vigore il North American Free Trade Agreement
(NAFTA), un trattato di libero scambio stipulato tra Stati Uniti, Canada e
Messico;
4) l’11 dicembre 2001 la Cina (che di comunista manteneva ormai solo
l’onnipotenza dello stato a partito unico) entrava nel WTO.
Gli sviluppi della globalizzazione sono impressionanti e stanno trasformando il
pianeta in un policentrico intrico di strategie economiche e di lotte per la conquista di
mercati e di risorse, mentre sulla scena globale si affrontano degli autentici giganti
(USA, Cina, India, Brasile, Indonesia, Russia, ecc.): non è questa la sede per
esaminare anche solo superficialmente questo nuovo affascinante scenario né per
esprimere le numerose considerazioni che pur esso meriterebbe, ma è più che
evidente che in un contesto di questo genere l’Europa può giocare un ruolo e non
scivolare nell’insignificanza solo mantenendosi unita, anzi, rafforzando ed
aumentando i vincoli per diventare sempre più un soggetto unico.
L’Europa è stata finora in grado di essere all’altezza della situazione così come di
reagire alla grave e soprattutto prolungata crisi economica sulla quale è ora
necessario soffermarsi.
In questa sede la crisi economica (la più lunga e grave dal dopoguerra), che dal 2008
sta imperversando nel mondo occidentale ed è ancora ben lungi dall’essere conclusa,
può essere solo accennata.
Essa è scoppiata fondamentalmente perché il sistema bancario (innanzitutto
statunitense) si era esposto in modo spropositato assumendosi rischi eccessivi mentre
quello finanziario (ancora una volta innanzitutto statunitense) si era lanciato in
speculazioni emettendo titoli (i famosi ‘derivati’, mutui ‘subprime’, ‘junk-bonds’,
ecc.) privi di una base solida e fondati invece sulla speranza che il mercato ‘tenesse’,
cioè continuasse ad acquistarne sempre di nuovi man mano che era necessario coprire
quelli vecchi.
Quando questo sistema - a dir poco irrazionale - cominciò a scricchiolare e queste
cosiddette ‘bolle speculative’ cominciarono ad esplodere (cioè quando i titoli emessi
non furono più rimborsabili ed i crediti risultarono non più esigibili) ed i trucchi
contabili non furono più in grado di nascondere le voragini degli ammanchi, solo
allora ci si rese conto di quanto i controlli che avrebbero dovuto impedire queste
imprudenze e salvaguardare i risparmi degli investitori erano stati insufficienti (sia
per autentiche carenze della legislazione che per la corruzione degli organismi
preposti).
Il 15 settembre 2008 la Lehman Brothers, una delle massime società statunitensi
attiva nei servizi finanziari, di fronte all’impossibilità di onorare i propri impegni
dichiarava il proprio fallimento ed il presidente degli USA George W. Bush la
lasciava fallire.
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Ma questo fu l’unico caso perché poi la FED ed il governo degli Stati Uniti si
gettarono a capofitto a rifinanziare gli istituti bancari con cifre colossali e piani di
intervento di un’ampiezza mai vista: se altre banche fossero infatti fallite sarebbe
saltato l’intero sistema economico in uno scenario da incubo.
Lo stesso avvenne in Europa dove le banche (soprattutto tedesche e francesi) avevano
concesso prestiti in eccesso e mutui soprattutto alla Grecia: da anni era infatti
prevalsa in Europa un’atmosfera di fiducia eccessiva ed i finanziamenti erano fluiti
con eccessiva facilità, cioè anche in mancanza di garanzie attendibili.
La speculazione ‘attaccò’ così gli anelli deboli della UE (fra cui l’Italia) mentre i
governi riversavano masse imponenti di denaro nelle casse delle banche oppresse da
debiti e da crediti inesigibili.
Il problema divenne davvero grave perché in occidente i bilanci degli stati erano già
di per sé enormemente in deficit ed ora venivano gravati da ulteriori pesantissimi
impegni mentre la speculazione continuava a fare il suo mestiere vendendo e
comprando per realizzare i massimi profitti e costringendo i paesi in difficoltà per i
loro elevatissimi debiti pubblici (come l’Italia) a pagare tassi sempre più elevati se
volevano piazzare i loro titoli.
Ovviamente l’inevitabile e conseguente stretta creditizia si ripercosse sulla
produzione e la crisi divenne così ben presto anche economica con contrazione della
domanda, scarsità di finanziamenti alle aziende, aumento della disoccupazione,
insomma con tutti gli ingredienti del circolo vizioso.
La tempesta arrivò oltretutto in Europa quando questa si stava ancora assestando
dopo aver appena portato a termine il suo sesto allargamento.
Si arrivò davvero ad un passo dal fallimento dell’euro e della UE perché se anche uno
solo degli stati membri avesse dovuto dichiarare bancarotta, avrebbe con ciò fatto
crollare anche l’euro e si sarebbe dovuti tornare ad una UE di minori dimensioni o
addirittura assistere alla fine della UE stessa: le voci in questo senso si moltiplicarono
anche perché crebbe il numero di coloro che ritenevano l’euro responsabile di ogni
difficoltà ed auspicavano il ritorno alle vecchie valute dei bei tempi andati (ed
addirittura ci fu chi sostenne che come via d’uscita sarebbe semplicemente bastato
non pagare i debiti).
In particolare i detrattori dell’euro lamentavano che la BCE non avesse i poteri per
esempio della FED e non potesse quindi stampare ulteriore moneta nella quantità
desiderata: proposero insomma di pagare i debiti stampando moneta!
In realtà l’Europa a tutt’oggi (dicembre 2012) è riuscita a resistere e, soprattutto, a
compiere le scelte giuste:
1) innanzitutto ha ribadito con assoluta fermezza che nessuno stato sarebbe uscito
dall’euro e che ci si sarebbe salvati tutti insieme (e ciò ‘raffreddò’ la
speculazione);
2) in secondo luogo si sono approntati numerosi (e farraginosi) piani di ‘aiuto’ ai
paesi in difficoltà (Grecia e Spagna soprattutto, ma non solo) vincolandoli a
severe e severissime politiche di bilancio pubblico, mentre in Italia il governo
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‘tecnico’ di Mario Monti, fortemente voluto dal Presidente della Repubblica
Napolitano, subentrato in pochissimi giorni a quello inefficiente e screditato di
Berlusconi ed appoggiato dai maggiori partiti (Pdl, Pd, Udc), procedeva ad una
dolorosa politica di aumenti fiscali e di riduzione di spesa, ma evitava
l’intervento della UE e la messa sotto osservazione e controllo del paese;
3) il nuovo presidente della BCE Mario Draghi bloccava i tentativi della
speculazione sui titoli pubblici proclamando l’impegno della BCE di comprarli
(seppur sul mercato secondario) in caso di eccessivi rialzi del loro tasso
d’interesse e bastò quest’annuncio per calmare i mercati (!);
4) per evitare che in futuro le banche ritornino alla politica dei finanziamenti
‘facili’ ed al collocamento di prodotti finanziari puramente speculativi varò un
piano per mettere sotto controllo della BCE le 150-200 banche più grosse ed
importanti dell’area dell’euro (seppure, per motivi tecnici, a partire dal 2014);
5) soprattutto, già nel marzo 2012 – tranne la (solita) Inghilterra e la Repubblica
Ceca - tutti i capi di stato e di governo (facenti parte dell’eurozona o no)
hanno firmato il ‘Fiscal compact’, cioè l’onerosissimo obbligo (da inserire
entro il 1 gennaio 2014 addirittura nelle costituzioni nazionali o in leggi
altrettanto vincolanti!) di pareggiare il proprio bilancio e, insieme, di far
rientrare il proprio debito pubblico entro il limite massimo del 60%. Ogni stato
avrà 20 anni per raggiungere quest’ultimo obiettivo ed il suo deficit strutturale
(cioè depurato dalle spese per eventi eccezionali e dagli interessi sul debito)
non potrà superare il PIL più dello 0,5% (1% per gli stati con deficit al di sotto
del 60%). La violazione di questi impegni e di questi ‘tetti’ porterà a correzioni
automatiche e raccomandate dalla Commissione che potranno essere annullate
solo con un voto a maggioranza qualificata dell’85% mentre a quegli stati che
non provvederanno ad inserire l’obbligo del pareggio di bilancio nelle loro
costituzioni penserà la Corte di Giustizia Europea con multe (inappellabili)
fino allo 0,1% del PIL da versare all’ESM, il Fondo salva-stati permanente
- altra misura adottata per fronteggiare la crisi ed impedirne di nuove.
L’eccezionalità e la radicalità di queste misure balza agli occhi: l’Italia per esempio,
abituata ad aumentare disinvoltamente il suo deficit (anche col governo Monti!)
dovrà più che dimezzarlo in 20 anni (!) ma questi interventi della UE appaiono
assolutamente condivisibili.
Dopo anni e anni di politica irresponsabile un richiamo così netto e deciso alla
razionalità ed alla serietà non può che essere salutato con soddisfazione e, anche se
naturalmente le discussioni ed i contrasti sono stati numerosi e se, per esempio,
l’Inghilterra (già fuori dall’euro e da Schengen) non ha aderito al Fondo salva-stati, al
Trattato sulla sorveglianza dei bilanci ed alla supervisione bancaria europea, al
momento (dicembre 2012) questa politica sta dando i suoi frutti: una certa calma è
tornata sui mercati, il risparmio è stato salvato ed i debiti pubblici degli stati membri
sono già in qualche modo sotto osservazione e controllo, ma, soprattutto, la UE ha
saputo reagire nel modo giusto perché ha rafforzato i suoi poteri e la sua coesione
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interna, anziché dividersi e frantumarsi – come pure sarebbe stato
(catastroficamente) possibile.
La UE ha saputo essere all’altezza della situazione (come gli USA) e la speranza
che abbia imparato la lezione (fatta di controlli seri ed attenti e di politiche di spesa
equilibrati) appare fondata: certamente le tensioni e le rivalità interne sono state forti
e centrale è stato il ruolo della Germania della cancelliera Angela Merkel, il più ricco
e forte stato membro tenace sostenitore della politica del rigore finanziario (di cui ha
saputo profittare attirando capitali a bassissimo costo data la solidità della sua
economia e l’equilibrio dei suoi conti), ma i costi dell’operazione sono stati – e
saranno! - altissimi.
La cosiddetta ‘politica del rigore’ ha fortemente ed ulteriormente depresso le
economie degli stati membri e la conseguente grave crisi produttiva e dei consumi
che dura da anni è ben lungi dall’essere stata superata: i costi sociali sono stati, sono e
saranno dolorosissimi, la disoccupazione, già molto grave, è in crescita come la
precarizzazione del lavoro mentre i servizi sociali vengono continuamente ridotti e le
imposte aumentano di numero e di peso.
Purtroppo la lista delle difficoltà potrebbe continuare a lungo e si scontano oggi
errori, imprudenze, colpe, ecc., perpetrate per decenni da classi politiche
irresponsabili (e, almeno in Italia, sprecone e corrotte): da qui, da società sofferenti,
sconvolte e scontente, potrebbero venire serie minacce alla coesione dell’Europa
unita se queste masse alla disperata ricerca di vie d’uscita alle loro sofferenze
cedessero alle facili ma irresponsabili lusinghe di agitatori e demagoghi.
Dopo che si è sottolineato il gap fra classi dirigenti ed opinioni pubbliche a proposito
della scelta europea, si assiste oggi ad un’ulteriore e crescente disaffezione di settori
sempre più ampi delle società nei confronti dell’Europa unita (e dell’euro!) che va
assolutamente contrastata e fermata: oltre ad una politica che addolcisca nel modo più
concretamente possibile il disagio sociale, è così necessaria una seria, razionale,
costante e precisa campagna di informazione che illustri che sarebbe esiziale fermare
il processo di avanzamento dell’integrazione europea alla quale nell’éra della
globalizzazione non esiste alternativa e senza delal quale la crisi si evolverebbe in un
disastro ed in una catastrofe di proporzioni storiche.
Per comprendere appieno questo punto è utile provare ad immaginare quali sarebbero
i prezzi della non-Europa: aumenterebbero i costi amministrativi di organizzazioni
statali diverse e non integrate, quelli dei trasporti coi controlli alle frontiere, delle
merci prodotte secondo normative diverse e dunque meno facilmente esportabili,
della ricerca frammentata nei diversi paesi, degli appalti con le ditte straniere escluse
dalle gare; i mercati sarebbero limitati ed asfittici, i capitali quindi fuggirebbero alla
ricerca di investimenti più remunerativi, le barriere doganali proteggerebbero imprese
sempre meno competitive e destinate a rimanere indietro rispetto ai progressi fatti
all’estero dove i mercati sono ben più vasti, le opportunità diminuirebbero a vista
d’occhio … tutti gli ingredienti del circolo vizioso crescerebbero insomma senza fine
in una spirale perversa!
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E questo solo per rimanere nell’ambito economico: in una non-Europa le rivalità fra
gli stati crescerebbero col peggioramento delle congiuntura riportando in auge gli
scenari in cui si scatenavano la corsa agli armamenti, il nazionalismo e la lotta senza
esclusione di colpi coi vicini divenuti ora avversari quando non nemici.
Sembra davvero strano che tanti settori dell’opinione pubblica non si rendano conto
di queste banalità!
Le conseguenze di un fallimento della UE sarebbero insomma gravissime e
storicamente imperdonabili – almeno questo però le nostre classi dirigenti ce lo
stanno risparmiando.
Quel che comunque manca ancora è una politica estera comune: di fatto ogni
governo, in accordo con qualche altro, la conduce in base ai propri supposti interessi
ed alle proprie valutazioni.
Questo costituisce un limite serio alla capacità di manovra e di intervento della UE
sullo scenario internazionale, ma è comprensibile che ci vorrà ancora molto tempo
perché questo avvenga: il peso degli stati nazionali è ancora molto forte ma quel che
è stato fatto in campo economico e monetario prima o poi dovrà trovare i suoi
riscontri anche in quello della politica estera perché il processo di unificazione
europea – per la sua stessa natura! - non può fermarsi e può solo procedere.
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Appendice: Balcani, Serbia e Turchia
Dopo l’assorbimento nell’Europa unita dei paesi ex-fascisti ed ex-comunisti-sovietici,
sembrerebbe ora arrivato il momento in cui si può procedere a quello dei paesi
dell’ex-Jugoslavia: il 1 luglio 2113 la Croazia (candidata dall’11 dicembre 2004)
diventerà il ventottesimo paese membro della UE, ma candidati sono anche il
Montenegro (dal 17 dicembre 2010) e la Macedonia (dal 12 dicembre 2005), mentre
l’Albania ha fatto domanda il 28 aprile 2009 ed è ancora in attesa di una risposta.
I relativi negoziati sono ancora in corso e sembrano piuttosto difficili soprattutto nel
caso dell’ingresso della Macedonia che, storicamente al centro di aspre contese fra
Bulgaria, Serbia e Grecia, trova opposizione e difficoltà soprattutto da parte di
quest’ultima.
Tuttavia ben più importanti sono i casi di Serbia e Turchia.
Anche la Serbia ha infatti presentato domanda di adesione alla UE il 22 dicembre
2009 ed è paese candidato dal 1 marzo 2012: sicuramente il suo ingresso nella UE
porrebbe il sigillo definitivo alle turbolenze (per non dire altro) nei Balcani (si veda a
questo proposito il mio ‘Jugoslavia’), ma su questo esito, per quanto sicuramente
auspicabile, è lecito nutrire seri dubbi per almeno i seguenti motivi:
1) la Russia, slava, ortodossa e che scrive in cirillico, è stata da sempre lo storico
alleato della analoga sorella Serbia e l’ingresso di quest’ultima nella UE
taglierebbe inevitabilmente molti legami, simpatie e collegamenti fra i due
paesi;
2) la Russia di Putin è oggi una ben altra potenza rispetto al paese boccheggiante
ai tempi di Eltsin che allora nulla potè quando USA, NATO (ed Europa)
decisero di schiacciare senza eccezioni tutte le ambizioni serbe nei Balcani;
3) la Serbia non ha ancora risolto la sua questione territoriale: non tutti i serbi
vivono infatti in Serbia e tanti si trovano invece in Croazia, BosniaErzegovina, Montenegro e Kosovo. Certamente l’assorbimento di tutti questi
stati nella UE risolverebbe il problema (ed anche quello dei profughi serbi in
Serbia), ma è lecito dubitare che ciò sia condiviso anche dai serbi stessi, i
grandi sconfitti nelle guerre balcaniche degli anni Novanta, che sentono
bruciante l’incomprensione nei loro confronti dell’Europa e dell’Occidente in
generale;
4) il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo coi suoi confini immutati e
non negoziati ha poi aggravato il risentimento dei serbi che sentono che in
questo modo le minoranze serbe locali sono state definitivamente abbandonate
da tutti (tranne che dalla Russia) in un paese ad esse (comprensibilmente)
fortemente ostile.
Da tutto ciò parrebbe dunque che - almeno per il momento - la Serbia si troverebbe in
una condizione a lei più consona se, invece di entrare nella UE, fungesse invece da
tramite e ponte fra la UE stessa e la Russia, in equilibrio fra i due mondi e paese di
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collegamento fra est e ovest: una parte di serbi (per il momento quelli rimasti
Croazia) saranno comunque cittadini della UE e ciò potrebbe facilitare ulteriormente
intese e contatti.
In ogni caso dal 1 luglio 2013 i confini sud-orientali della UE torneranno a correre
sulla Sava e sul Danubio, come già fu fra Impero romano d’oriente e d’occidente, fra
Impero asburgico ed Impero turco: la UE è nata per sciogliere ed annullare i confini
fra i popoli, ma questi, così ben radicati nella storia, appaiono – almeno per il
momento - molto difficili da superare.
Per alcuni aspetti lo stesso discorso può essere fatto a proposito della Turchia: essa
aveva presentato domanda di adesione fin dal 14 aprile 1987 e quando finalmente il
12 dicembre 1999 venne ammessa come paese candidato la notizia venne accolta con
manifestazioni di giubilo in piazza, ma le difficoltà che fin dall’inizio erano emerse
continuarono a persistere.
Innanzitutto, qui si trattava di un popolo non-europeo: da nessuna parte nei
numerosissimi documenti stilati a proposito dell’Europa si trovava il minimo accenno
ad una specifica identità etnica europea (?) ed anzi vi era rigorosamente bandito ogni
riferimento di sapore anche vagamente razzista, ma, insomma, vi si parlava pur
sempre di Europa e non di Asia;
in secondo luogo la Turchia, per quanto con istituzioni laiche, aveva pur sempre una
popolazione di religione mussulmana: ancora una volta, l’Europa professava il più
rigoroso laicismo, la libertà religiosa ed il rispetto per tutte le confessioni, ma,
insomma, anche questa differenza religiosa si temeva potesse creare problemi di
amalgama e di intesa;
in terzo luogo, la UE era riservata ai soli paesi geograficamente europei e di tutto il
territorio turco solo la Tracia orientale faceva parte dell’Europa: poteva bastare?
In quarto luogo la questione curda faceva apparire la Turchia come uno stato
oppressore di una comunità nazionale impedita di vivere appieno secondo la sua
identità, di parlare la sua lingua e di seguire la sua cultura ed i suoi costumi e
costretta invece a turchizzarsi;
in quinto luogo, le istituzioni turche, il suo sistema giudiziario ed il preponderante
ruolo giocato dall’esercito non apparivano sufficientemente democratici e garantisti
secondo i parametri della UE.
Fu soprattutto la Francia ad opporsi all’ingresso della Turchia nella UE e, anche se
quest’ultima si dedicò con impegno a soddisfare le richieste dell’Europa, col passare
degli anni la questione si è, diciamo così, raffreddata ed è stata superata dagli eventi.
Mentre la Turchia col governo di Tayyp Erdogan ha decisamente ripudiato buona
parte del suo precedente assetto kemalista accettando più di buon grado l’Islam,
ridimensionando il peso ed il ruolo dell’esercito, ammodernando le strutture dello
stato e proiettando il paese verso un’era di benessere grazie al forte impulso dato allo
sviluppo economico, il suo ministro degli esteri Ahmet Davutoglu (come illustrato
anche nel paragrafo ‘Il richiamo del Panturchismo’ in ‘Gli ultimi due secoli in
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Asia Centrale’ e in “ ‘Neve’ di Orhan Pamuk”) ne ha cambiato il corso in politica
estera.
Col suo concetto di ‘Profondità strategica’ Davutoglu ha infatti impresso un nuovo
corso alla Turchia indirizzandola – fra le altre cose – a recuperare (pacificamente!)
terreno, influenza e prestigio in tutta l’immensa area costruita nei secoli dell’Impero
ottomano: facendo leva su quel retaggio culturale e storico ed andando al di là dei
confini e degli stati (ormai obsoleti come sostenuto da Kotkin) Davutoglu infatti
vuole far leva su ciò che ha unito tanti popoli e stati per costruire nuove zone di
influenza, di collegamento, di interscambio.
E’ tutto un mondo di legami che si credeva fossero ormai definitivamente allentati
che riemerge dopo la fine del comunismo e lo scioglimento dei blocchi contrapposti
che ne avevano creati di nuovi, ma evidentemente poco radicati: lingua, razza,
religione, storia, tutto oggi ritorna in superficie annullando le barriere di un tempo.
La Turchia insomma ha smesso di guardare con troppo interesse all’Europa: anche se
ormai l’euro circola diffusamente entro i suoi confini ed è usato normalmente, essa
sembra aver definito meglio la sua vocazione estera proponendosi come traino e
partner delle popolazioni turcofone dell’Asia Centrale, equilibratore in Medio Oriente
ed anche in Nordafrica e, soprattutto, collegamento fra Europa, Russia, Caucaso e
Asia: non a caso se gli oleodotti ed i gasdotti dal Caspio l’attraversano alla volta del
Mediterraneo e del nostro continente (vedere il paragrafo ‘Oleodotti e gasdotti’ nel
mio ‘Asia Centrale’ e le parti relative nel mio ‘Azerbaijan’).
Una Turchia nella UE non avrebbe senso: già membro essenziale della NATO, essa
ha ormai trovato la sua più propria ed utile (per tutti) collocazione internazionale
come crocevia fra i continenti ed il suo poderoso sviluppo economico, la sua laicità e
la sua democrazia l’additano come esempio al mondo islamico.
Una Turchia amica ed alleata dell’Europa, ma ben connessa con Africa ed Asia,
assicura equilibrio e collegamento fra i tre continenti.
Anche se in grado di esercitare pur sempre capacità d’attrazione (come nei confronti
dell’Islanda, paese candidato dal 17 giugno 2010), l’Europa unita sembra quindi aver
ormai raggiunto i suoi confini praticamente definitivi ed eventuali futuri allargamenti
non ne potranno alterare l’assetto ormai consolidato.