Convegno AIPDA LE MISURE DI PREVENZIONE DELLA CATTIVA AMMINISTRAZIONE: LE GARANZIE PROCEDIMENTALI PISA, 19 FEBBRAIO 2016 Gaetana Morgante* Segnali d’allarme di reato nell’amministrazione: la prevenzione attraverso il diritto penale SOMMARIO: 1. Il “sistema corruttivo” al cospetto del diritto penale. 2. Prevenzione e diritto penale: alle origini di un (apparente) ossimoro. 3. La prevenzione generale della corruzione: una nozione “veterotestamentaria”. 4. L’evoluzione “neotestamentaria” della prevenzione della corruzione attraverso il diritto penale. 4.1. La responsabilità amministrativa da reato contro la Pubblica Amministrazione degli enti collettivi 4.2. Il ruolo dell’ANAC. Rinvio. 4.3. Le intersezioni con il contrasto alla criminalità organizzata ed al riciclaggio: la corruzione come “reato-mezzo” delle organizzazioni criminali e “reato-fonte” del money laundering. 5. Riflessioni conclusive. 1. Il “sistema corruttivo” al cospetto del diritto penale. Il delitto di corruzione, rectius i delitti di corruzione, hanno sempre imposto al penalista di adottare una forma mentis speciale e per molti versi “derogatoria” rispetto a quella che presiede all’analisi delle tradizionali fattispecie incriminatrici contenute nella parte speciale del Codice penale. Si tratta, infatti, di reati che offendono il corretto funzionamento ed il prestigio della pubblica amministrazione attraverso una costellazione di diverse condotte, variamente connotate sul versante del soggetto attivo (se pubblico ufficiale ex artt.318 e 319 c.p. o incaricato di pubblico servizio ex art.320 c.p.) dell’oggetto (se l’esercizio della funzione ex art.318 c.p. o un atto contrario ai doveri d’ufficio ex art.319) e delle modalità della condotta a sua volta descritta attraverso il ricorso alla discussa figura dell’elemento d’illiceità speciale di volta in volta costituito dal carattere indebito dell’accettazione di vantaggi nella corruzione per l’esercizio della funzione, ovvero dalla violazione delle norme che regolano il compimento degli atti amministrativi, nelle diverse forme dell’omissione o del ritardo dell’atto dell’ufficio fino al vero e proprio compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio nell’omonima corruzione ex art.319 c.p . I delitti di corruzione, dunque, impongono al penalista un diuturno dialogo con il diritto amministrativo, perché per ravvisare una patologia dell’attività * Professore associato di diritto penale presso la Scuola Superiore S. Anna - Pisa 1 amministrativa risulta pregiudiziale conoscerne la fisiologia. E’, altresì, nota la ratio che ha ispirato la scelta del legislatore del 1930 di punire, accanto al corrotto, anche il corruttore il quale, ai sensi dell’art.321 c.p., risponde delle medesime pene stabilite dal primo comma dell’art.318 (corruzione per l’esercizio della funzione), 319 (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio), 319-bis (circostanza aggravante della corruzione per il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l’amministrazione di appartenenza o il pagamento o il rimborso di tributi), 319-ter (corruzione in atti giudiziari) qualora dia o prometta denaro o altra utilità al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio (art.320 c.p.). La natura giuridica della corruzione è, infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale che può considerarsi assolutamente maggioritario, un unico reato plurisoggettivo (o a concorso necessario) di natura bilaterale basato sul pactum sceleris stipulato tra il privato ed il pubblico agente (sia esso pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) avente ad oggetto l’indebita remunerazione dell’esercizio della funzione. Peraltro, lo schema “bilaterale” ha attratto nell’orbita del reato plurisoggettivo anche una “costola” della concussione, quella denominata, prima dell’intervento della riforma dei delitti contro la Pubblica Amministrazione di cui alla l. 6 novembre 2012, n.190 (meglio nota come “legge Severino”), “per induzione” prevedendo oggi l’art.319 quater c.p. che nei casi in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della loro qualità o dei loro poteri, inducano taluno a dare o promettere indebitamente, a loro stessi o a un terzo, denaro o altra utilità debba essere punito anche “chi dà o promette”. Ma il dato che, forse, impone di adottare un approccio sui generis alla definizione di un efficace sistema di contrasto alla corruzione rispetto agli schemi classici del diritto penale è la sua, ormai indubitabile, sistematicità. Tra le “regole auree” del sistema penale vi è la frammentarietà e l’episodicità dell’intervento di una pena che, essendo la più afflittiva prevista dall’ordinamento perché direttamente o indirettamente privativa della libertà personale, deve essere riservata ai casi che non possano essere altrettanto efficacemente “gestiti” dalla sanzione civile o amministrativa. I principi di frammentarietà, proporzione, extrema ratio della pena possono, tuttavia, avere un senso solo rispetto a fenomeni criminali “puntiformi”, ad isole di crimine lambite dal mare della legalità, per riecheggiare la nota metafora di Arturo Carlo Jemolo sui rapporti tra famiglia e diritto. Ma ad oggi i numeri della corruzione fanno piuttosto pensare ad un’inversione di piani e ad uno sviluppo della frequenza e della gravità dei fenomeni criminali tale da indurre ad 2 immaginare un mare di corruzione nel quale si ergono orgogliose talune sempre più rare isole di legalità, buon andamento e imparzialità dell’amministrazione. L’ultimo EU Anti-Corruption Report stima la consistenza dell’economia criminale generata dalla corruzione in 120 miliardi di dollari all’anno nel territorio dell’Unione Europea, con un assai triste primato dell’Italia non soltanto sulle proporzioni del fenomeno criminale ma anche (v. Report on Monitoring performances in the fight against corruption 2011-2015) sull’impegno nei confronti del contrasto a questa grave forma di delinquenza. E’ altresì opportuno rilevare come frequentemente l’Europa contesti all’Italia di non fornire neppure i dati utili alla stima da parte delle competenti Agenzie europee, e di vantare un elevato Corruption Perception Index (v. Transparency International report che ha indicato l’Italia al 61° posto nel 2015, dopo un 69° piazzamento nel 2014 nella graduatoria dei Paesi ove l’indice di percezione della corruzione è più elevato). Nel citato EU anticorruption report del 2014 il carattere endemico e strutturale del fenomeno corruttivo a livello europeo ha giustificato il richiamo esplicito, accanto all’intervento repressivo classico, all’importanza delle “preventive policies” giuridiche e non (inclusive anche di “clear-cut ethical rules”, “awareness-raising measures”, e “culture of integrity”) ad ulteriore conferma dell’insufficienza di un approccio esclusivamente penalistico al fenomeno della corruzione, e della necessità di insistere sul tema della prevenzione e delle misure “sociali” di contrasto alla cultura che allo sviluppo della corruzione fa da sfondo. Invero i due approcci presentano una profonda differenza con particolare riguardo al “fattore tempo” che, se riferito allo sviluppo di una cultura della legalità che prevenga alla fonte la criminalità corruttiva, risulterà fatalmente (ed imponderabilmente) lungo. Lo strumento immediatamente utilizzabile parrebbe,dunque, innanzi tutto essere quello penalistico, purché, tuttavia, esso non venga ridotto allo schema tralatizio della (mera) punizione post delictum pur nel nome delle richiamate esigenze preventive. Ma come si declina l’istanza preventiva nel diritto penale, uscendo dall’ossimoro di un titolo che volutamente azzarda l’affiancamento della prevenzione con i tratti caratteristici di un diritto tipicamente repressivo? 2. Prevenzione e diritto penale: alle origini di un (apparente) ossimoro. La necessità, imposta con sempre maggiore enfasi dalle stesse istituzioni europee, di predisporre un efficace sistema di prevenzione della corruzione potrebbe apparire in 3 contraddizione con la vocazione eminentemente repressiva del diritto penale che, strutturalmente, è chiamato ad intervenire in presenza di un fatto commesso, come dall’icastica formulazione letterale dello stesso art.25 Cost. Che l’applicazione della pena dipenda dalla previa realizzazione di un fatto di reato risponde al tralatizio fondamento, per così dire, filosofico della pena secondo quella concezione retributiva che vede nell’irrogazione della sanzione la riaffermazione da parte dello Stato dell’ordine violato dal comportamento illecito (c.d. retribuzione giuridica). Tuttavia, le istanze propriamente preventive non sono estranee al diritto penale sol che si ponga mente alle funzioni preventive, generali e speciali, definite accanto a quelle stricto sensu retributive della pena già dai classici studi di “diritto penale generale”. Come sostenuto dalla prevalente dottrina penalistica che ha approfondito il tema delle funzioni della pena, l’antecedente concettuale dell’attribuzione alla sanzione di una funzione preventiva è costituito dalla convinzione che i comportamenti umani possano essere determinati ex antea sulla base di alcuni strumenti persuasivi, quali, per quanto attiene alla pena criminale, la minaccia della pena. Il presupposto logico della funzione generalpreventiva mediante intimidazione (o prevenzione generale “negativa”) affonda le sue radici nel senso comune. La pena consiste in una “sofferenza”, corrispondente alla privazione o limitazione di diritti individuali fondamentali primo tra tutti quello alla libertà, che viene minacciata dal legislatore nei confronti della generalità dei consociati come conseguenza necessaria dell’illecito a carico di chi lo abbia realizzato in concreto, così da dissuaderli dalla commissione degli illeciti. L’inflizione e l’esecuzione successive nei confronti del singolo autore dell’illecito costituiscono un momento irrinunciabile al fine di mantenere l’efficacia intimidativa generale alla minaccia della pena. In effetti, se quest’ultima non venisse poi eseguita, col tempo la minaccia perderebbe di credibilità . Dunque, lo schema funzionale della prevenzione generale mediante intimidazione è costituito da due momenti: quello della minaccia, che è anteriore alla commissione dell’illecito e rivolto verso la generalità ; e quello dell’irrogazione, che è successivo alla commissione dell’illecito e concerne, sotto questo angolo visuale, non soltanto il singolo autore del fatto criminoso, ma più in generale il significato che l’ineluttabilità e la prontezza dell’applicazione della pena assume in funzione di rafforzamento della credibilità della minaccia. Il nesso tra minaccia della pena e sua concreta applicazione, dunque, è funzionalmente inscindibile. Analogamente connessa all’applicazione concreta della pena ad uno specifico fatto commesso è la c.d. funzione di specialprevenzione della pena, che mira a ridurre la probabilità che un 4 singolo individuo, che ha già posto in essere un fatto previsto dalla legge come reato, possa tornare a commetterne altri. Rispetto alla funzione specialpreventiva, o di prevenzione della recidiva individuale, il precetto costituzionale contenuto nell’art.27, c. 3 Cost., laddove stabilisce che la pena non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debba tendere alla rieducazione del condannato assume un ruolo complementare, risultando il rischio di una reiterazione del reato inversamente proporzionale alla capacità della pena di riportare il reo al rispetto dei valori violati dal comportamento tenuto. Sotto quest’angolo visuale, la prevenzione generale negativa o intimidatoria e la prevenzione speciale si affiancano alla funzione retributiva, presupponendo, al pari di quest’ultima il riferimento all’applicazione della sanzione ad un caso concreto. Sennonché, in presenza di fenomeni criminali “sistemici” come la corruzione la limitazione del ruolo del diritto penale alla repressione, per così dire, hic et nunc di un fatto individuale, sia pur dotata dei significati simbolico-prospettici di cui si è appena detto con riguardo alla funzione di prevenzione generale e speciale, non appare del tutto adeguata ad affrontare efficacemente uno dei temi più urgenti del diritto penale oggi. L’approccio preventivo al tema della corruzione parrebbe, invero, dover prescindere dal riferimento ad un fatto specifico ed assumere un carattere sistemico idealmente parallelo alla sistematicità delle sue attuali forme di manifestazione. In questi termini, la finalità preventiva che meglio sembra adattarsi ai tratti distintivi della corruzione è quella meglio nota come prevenzione generale c.d. “positiva”. Questa sorta di evoluzione delle teorie sulla prevenzione generale tende a superare i limiti del puro meccanismo intimidativo, per esaltare invece componenti generalpreventive di tipo educativo in quanto proiettate sulla generalità dei consociati, esplicando un diffuso effetto “pedagogico” di accreditamento sociale dei valori tutelati mediante la formale stigmatizzazione dei comportamenti criminosi, così da favorire l’astensione spontanea – motivata cioè per “interna” adesione – dai comportamenti inosservanti. L’elaborazione della nozione positiva della generalprevenzione svela, tuttavia, il potenziale ossimoro di una funzione preventiva “sganciata” dal riferimento al fatto concreto. L’idea che le norme penali possano assumere la funzione di accreditare i valori sociali tutelati dall’ordinamento, sollecitandone così l’intima acquisizione da parte dei consociati, può favorire la tendenza ad un uso politicamente discutibile della sanzione privativa della libertà personale. Invero, dinanzi ad una situazione di conflittualità o di emergenza in considerazione della significatività di un determinato fenomeno criminale, il legislatore può subire la 5 tentazione di “approfittare” della particolare efficacia persuasiva della sanzione penale per agevolare in tal modo l’interiorizzazione di un valore che, forse, potrebbe anche affermarsi attraverso il ricorso a misure diverse dalla minaccia della pena. La sfida sollevata dalla corruzione nei confronti del diritto penale consiste, dunque, nella ricerca di un meccanismo di prevenzione che coniughi, ad un tempo, lo strumentario tradizionale della minaccia e dell’applicazione della pena con meccanismi alternativi di prevenzione alla fonte di questa grave forma di criminalità. 3. La prevenzione generale della corruzione: una nozione “veterotestamentaria”. Volendo brevemente passare in rassegna le fondamentali coordinate dei più recenti interventi del legislatore penale in materia di corruzione, parrebbe innanzi tutto di poter scorgere una nozione, per così dire, “veterotestamentaria” di prevenzione generale (punitur quia peccatum est et ne peccetur) attraverso la minaccia della pena, che, come ricordato poco sopra, affonda le proprie radici nell’etica kantiana e nella funzione retributivo-deterrente della minaccia della pena. Si tratta, cioè, dell’idea di base secondo la quale l’efficacia deterrente della pena sia tanto più pronunciata quanto più elevata è la sanzione prevista per il reato di volta in volta considerato. Invero, riverberi “veterotestamentari” nell’individuazione della funzione della pena nei delitti in materia di corruzione parrebbero potersi rinvenire nella L. 27 maggio 2015 n.69 “Disposizioni in materia di delitti contro la PA, associazioni di tipo mafioso e falso in bilancio”, laddove il legislatore ha innanzi tutto provveduto ad inasprire le pene previste per le diverse ipotesi di corruzione. In particolare, la pena prevista per la corruzione per l’esercizio della funzione (art.318 c.p.) è passata da un minimo di 6 mesi ad un massimo di tre anni, a quella da un minimo di uno ad un massimo di sei anni; la pena prevista per la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) è passata da un minimo di quattro ad un massimo di otto anni, a quella da un minimo di sei ad un massimo di dieci anni, mentre la pena prevista per la corruzione in atti giudiziari (art.319-ter c.p.) è passata da un minimo di quattro ad un massimo di dieci anni, a quella da un minimo di sei ad un massimo di dodici anni. Infine, la pena prevista per l’induzione indebita a dare o promettere utilità (art.319-quater c.p.) è passata da un minimo di tre ad un massimo di otto anni, a quella da un minimo di sei ad un massimo di dieci anni. Analogamente debitrice della previa commissione di un fatto di reato è la misura patrimoniale prevista dall’art.322-quater c.p. introdotto dall’art.4 L.69/2015. Si tratta di una 6 forma sui generis di “riparazione pecuniaria” sulla base della quale si stabilisce che con la sentenza di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis, sia sempre ordinato il pagamento di una somma pari all'ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell'amministrazione cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all'articolo 319-ter, in favore dell'amministrazione della giustizia, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno». Nella ricordata ottica della vanificazione del profitto economico conseguito dagli autori del reato, la disposizione adotta il modello della“ confisca per equivalente” nata nell’humus della legislazione speciale in materia di criminalità organizzata e ora evoluta in modo da contrastare una delle più drammatiche voci della c.d. economia criminale. Alla misura non risulta estraneo il profilo di prevenzione, posto che essa mira istituzionalmente a porre nel nulla il fondamentale movente che spinge il pubblico agente a farsi corrompere, anche se, come ricordato in precedenza, la prospettiva rimane comunque debitrice della previa commissione, e del previo accertamento in sentenza, di un fatto di reato determinato. A fronte di un fenomeno criminale sistemico quale risulta essere oggi quello della corruzione dei pubblici agenti, bisogna tuttavia domandarsi se, in linea con la richiamata nozione tradizionale di prevenzione generale negativa, aumentare le pene “minacciate” sia utile a prevenire il ricorso a pratiche di mercimonio della funzione. Come già accennato, la risposta al quesito parrebbe doversi orientare verso l’alternativa negativa sulla base di ragioni di principio extrasistematiche e di ragioni, per così dire, endopenalistiche e criminologiche. Fuori dal microsistema del diritto penale, studi di psicologia sociale hanno dimostrato che nella reale dinamica delle motivazioni al comportamento, la minaccia e l’effetto intimidativo della pena giocano un ruolo marginale rispetto a fattori motivazionali diversi capaci di orientare il comportamento individuale nel senso sia dell’osservanza che della violazione delle norme giuridiche. Se da un lato esistono soggetti che, pienamente in linea con i valori assunti dall’ordinamento, tengono comportamenti osservanti per intima convinzione vi sono anche soggetti che, esposti a motivazioni alternative, come paradigmaticamente quelle caratteristiche della c.d. criminalità del profitto, rimangono “insensibili” alla pretesa efficacia deterrente della minaccia penale. Rispetto, invece, alla fascia intermedia di soggetti che ispirano il loro comportamento ad un ipotetico calcolo probabilistico di utilità , comparando vantaggi e svantaggi dell’azione criminosa, l’effetto motivazionale e dissuasivo della pena potrebbe continuare ad essere ipotizzato soltanto ove la sanzione penale fosse applicata 7 indefettibilmente, risultando, altrimenti, una minaccia astrattamente grave ma concretamente di “improbabile” applicazione recessiva rispetto ai vantaggi economici conseguenti alla corruzione. Ma anche ipotizzando che rispetto a questa tipologia di soggetti l’effetto intimidativo della pena possa avere fondamento, sono state sollevate ulteriori perplessità di natura teoricoideologica. In sostanza, si è osservato che questa idea di un individuo motivabile dalla minaccia della pena pecca per astrazione razionalistica, presupponendo un modello astratto e molto ipotetico di destinatario, concepito come dotato di una libertà del volere tanto incondizionata da risultare irrealistica. Un simile tipo di essere umano esisterebbe in definitiva solo nell’utopia razionalistica ed egualitaria del liberalismo individualistico ottocentesco. In ogni caso, considerato il sistema penale nel suo complesso, e come tale comprensivo anche della fase dell’accertamento dei reati, indubbiamente, come or ora ricordato, l’effetto intimidativo della pena potrebbe essere significativamente attenuato dalla considerazione, endosistematica, dell’incertezza nell’applicazione della pena in fase esecutiva e, criminologica, dell’esistenza di una significativa cifra oscura della criminalità corruttiva in ragione della ricordata struttura sinallagmatica che vede impegnati agente pubblico e soggetto privato nel comune interesse a non far venire alla luce il pactum sceleris. Ne deriva che, l’efficacia deterrente della minaccia risulterà inversamente proporzionale alla cifra oscura della criminalità, cha a sua volta aumenta tanto è più elevata la percezione dell’ineluttabilità della pratica corruttiva per ottenere prestazioni e vantaggi da parte della PA. 4. L’evoluzione “neotestamentaria” della prevenzione della corruzione attraverso il diritto penale. Le precedenti considerazioni relative all’insufficienza dell’innalzamento dei limiti edittali dei delitti di corruzione nell'ottica della predisposizione di un efficace sistema di contrasto di questa grave forma di criminalità impone di vagliare l’opportunità di perseguire un modello “neotestamentario” di prevenzione della corruzione, come tale non affidato alla mera minaccia della pena bensì a strumenti che mirino a colpire il “cuore” del problema: ponendo nel nulla la convenienza bilaterale del mercimonio del potere pubblico e delle sue applicazioni pratiche ed operando una prevenzione alla fonte attraverso l’intercettazione dei “segnali d’allarme” delle pratiche corruttive, vale a dire quelle situazioni che, pur in assenza di un fatto 8 di reato stricto iure sussumibile nell’ambito di applicazione delle corrispondenti norme del codice penale, risultino sintomatiche del rischio di realizzazione di comportamenti penalmente rilevanti. Tra le predette misure possono annoverarsi: 4.1. La responsabilità amministrativa da reato contro la Pubblica Amministrazione degli enti collettivi. Un primo strumento “neotestamentario” di prevenzione della corruzione attraverso il diritto penale può essere ravvisato nell'applicazione dello statuto della responsabilità amministrativa degli enti ai delitti in materia di corruzione ex art.25 d. lgs. 231/2001 che apre alla possibilità, ad oggi limitata agli enti privati, di applicare misure pecuniarie, interdittive ed ablative anche in sede cautelare agli enti che non si siano organizzati, per il tramite di appositi modelli, per prevenire il ricorso a pratiche corruttive da parte dei suoi dipendenti. Si tratta, invero, della “risposta italiana” alla domanda, promanante dalle stesse istituzioni europee, di predisposizione di un efficace sistema di prevenzione, prim’ancora che di repressione, della corruzione attraverso una diretta responsabilizzazione di persone giuridiche, prim’ancora che fisiche. In particolare, l’art.1, co. 77 l. n.190/2012 (c.d. legge Severino) ha introdotto due ulteriori reati-presupposto della responsabilità amministrativa degli enti, estendendo ancora una volta il novero degli illeciti suscettibili di determinare l’applicazione del d. lgs. n. 231/2001 al delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art.319-quater c.p. ed a quello di corruzione tra privati, nei casi previsti dal terzo comma dell’art.2635 c.c. L’ulteriore novellazione del novero dei reati-presupposto, motivata dal rispetto del principio di legalità di cui all’art.2, costituisce ad un tempo un “aggiornamento” ed un “ritorno al passato”. I delitti di concussione e corruzione costituirono, infatti, gli “antesignani” dei reatipresupposto della responsabilità amministrativa degli enti, dal momento che furono già inseriti dal legislatore del 2001 nel ristrettissimo numerus clausus di cui agli artt.24 e 25 insieme a quelli in materia di truffa e frodi in danno di enti pubblici, trattandosi, quantomeno nell’originaria prospettiva di questa peculiare forma di illeciti amministrativi, delle ipotesi paradigmatiche di violazione della legge penale da parte dei dipendenti dell’ente medesimo per la duplice ragione della frequenza statistica e del carattere fortemente disfunzionale al rispetto della legalità nell’attività economica privata del ricorso a pratiche truffaldine o “corruttivo/concussive” nei rapporti con la Pubblica amministrazione. 9 E’ noto, tuttavia, come la tecnica legislativa dell’elencazione tassativa, se per un verso risulta pienamente rispettosa del principio di legalità, determina il rischio di lacune di tutela, come indirettamente dimostrato dalla diuturna opera di ampliamento dell’iniziale elenco dei reati-presupposto della responsabilità degli enti da parte di un legislatore regolarmente aduso ad inserire nell’ambito dei provvedimenti legislativi aventi ad oggetto l’introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice nel sistema penale, una ormai regolare clausola contenente la novellazione del d. lgs. 231/2001, in tal modo destinato a contenere più che un numerus clausus un variopinto e multiforme caleidoscopio di reati-presupposto afferenti agli orizzonti di tutela più disparati dai reati in materia di sicurezza sul lavoro alla tratta di esseri umani, dai cyber crimes ai reati societari. In particolare, non parrebbe di poter ritenere che l’art.1, co.77 l. n. 190/2012 costituisca il pieno ed integrale adattamento del d. lgs. 231/2001 alle nuove “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”. A tacer d’altro, emerge evidentemente il mancato ampliamento dell’elenco dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente al delitto, introdotto all’art.346-bis c.p., di traffico di influenze illecite, il quale pure costituisce una delle più rilevanti novità del riforma del 2012. Piuttosto, analogamente a quanto già rilevato in relazione agli stessi delitti di induzione indebita e corruzione privata, l’impressione generale è che, anche nell'ambito della responsabilità amministrativa degli enti, il legislatore della riforma abbia inteso limitarsi alla novellazione dell’esistente inserendo i due nuovi reati-presupposto “in coda” alle già presenti ipotesi di concussione ex art.317 c.p. e di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità ex art.2635 c.c., evitando accuratamente di introdurre ipotesi del tutto nuove. Peraltro, anche la citata l.69/2015, che pur ha previsto alcune misure orientate alla più severa repressione della corruzione nella Pubblica Amministrazione non ha novellato la materia della responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi. Rimanendo,, dunque, fermi al 2012, da un punto di vista più generale, le modificazioni introdotte nel d. lgs. 231/2001 si inseriscono nel più ampio quadro del sistema preventivo predisposto dal legislatore della riforma, proteso, come esplicitamente desumibile dalla stessa formulazione letterale del titolo della legge, a prevedere un sistema di regole volte innanzi tutto a “prevenire la corruzione e l’illegalità nella pubblica amministrazione”. Ed invero, la parte prevalente della l. n.190/2012 é dedicata alla delineazione di figure soggettive, documenti, procedimenti e sistemi sanzionatori volti ad anticipare la soglia dell’intervento ben prima che i delitti vengano commessi. Anche nella parte, per così dire, “preventiva”, 10 tuttavia, la legge non si segnala per novità e coerenza sistematica, accreditando ancora una volta l’immagine di una legge “strutturalmente discontinua, ispirata ad una logica di manutenzione di norme già in vigore ( si pensi alle numerose modifiche del Testo unico del pubblico impiego) più che di sistemazione organica dei singoli interventi”. In particolare, stupisce che pur risultando per molti versi l’apparato preventivo predisposto dalla legge “assonante” se non perfino “coincidente” con i termini ed i contenuti delle regole della parte generale del d. lgs. 231/2001, non esista alcuna forma di coordinamento tra due sistemi che, pur destinati ad operare nei due diversi ambiti delle pubbliche amministrazioni e degli enti “privati”, dovrebbero costituire le due facce della stessa “medaglia del malaffare”. Ed invero, sotto quest’angolo visuale la legge n.190/2012 perpetua il tabù dell’applicabilità della responsabilità amministrativa degli enti alle Pubbliche amministrazioni pur se in forma per molti aspetti “farisaica”, come desumibile dalla surrettizia introduzione dei principi e delle regole della parte generale del d. lgs.231/2001 nel sistema sanzionatorio (disciplinare e non) previsto nei confronti del responsabile della prevenzione della corruzione di cui all’art.1, co.7, oltre che nel contenuto e nell’efficacia cogente dei codici di comportamento dei funzionari pubblici. Last but not least, la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti per i delitti di induzione indebita e corruzione privata, espressamente derivante dai diversi strumenti internazionali succedutisi nel tempo dall’ambito delle Nazioni Unite a quello dell’Unione Europea, “sconta” il difettoso adattamento delle fattispecie incriminatrici di nuovo conio rispetto ai contenuti indicati dalle disposizioni dei provvedimenti sovranazionali. Il versante di più macroscopico scollamento dai desiderata degli organismi internazionali é quello del delitto di corruzione tra privati, il quale, a dispetto dell’impegnativa rubrica, mantiene molto meno di quanto la rubrica medesima prometta, non determinando l’estensione del paradigma della corruzione anche al settore privato ma novellando l’originaria ipotesi di infedeltà patrimoniale di cui all’art.2635 c.c. in un ambito che continua ad essere in gran parte mantenuto negli esangui confini del diritto penale societario “dimidiato” dalla riforma del d. lgs. 61/2002. Con riguardo al delitto or ora ricordato, le forme ed i contenuti della novella del d. lgs. 231/2001 rafforzano l’idea originaria di un illecito ristretto nei confini delle società commerciali per due fondamentali ordini di ragioni. Inoltre, la sanzione amministrativa prevista dalla neo-introdotta lettera s-bis) dell’art.25-ter, co.1 risulta esclusivamente pecuniaria a differenza di quanto, invece, riservato al delitto di induzione indebita di cui all’art.319-quater c.p. suscettibile di determinare 11 l’applicazione all’ente delle ben più gravi sanzioni interdittive (art.25, co.5) previste dall’art.9, co.2, in aggiunta a quelle pecuniarie (art.25, co.3). Anche sul piano sanzionatorio, l’ossequio alla tecnica della ristrutturazione ha condotto a sperequare vistosamente il trattamento sanzionatorio previsto per episodi, almeno formalmente, ugualmente espressivi di quella maladministration che ci si impegnava a prevenire e combattere in tutte le sue forme ed ambiti (pubblici o privati) di manifestazione. La previsione della responsabilità amministrativa degli enti per i delitti in materia di corruzione promana dalle esplicite indicazioni degli strumenti internazionali che, a far data dall’azione comune del 22 dicembre 1998 adottata dal Consiglio sulla base dell'articolo K.3 del trattato sull'Unione europea sulla corruzione nel settore privato (98/742/GAI), avevano previsto come ulteriore strumento di prevenzione e repressione della corruzione l’imputazione di una responsabilità diretta all’ente coinvolto nelle pratiche corruttive medesime. Sotto quest’angolo visuale, dunque, l’adeguamento del sistema italiano a quanto prescritto dai provvedimenti sovranazionali in tema di persone giuridiche giunge con considerevole ritardo. In chiave di sempre maggiore ampliamento dell’ambito della responsabilità amministrativa degli enti per i delitti in materia di corruzione, l’art.26 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003, aperta alla firma a Merida dal 9 all’11 dicembre dello stesso anno nonché approvata dalla decisione del Consiglio 2008/801/CE del 25 settembre 2008 a nome della Comunità europea) prevedeva che ciascuno Stato Parte adottasse le misure necessarie, conformemente ai propri principi giuridici, al fine di stabilire la responsabilità delle persone giuridiche che partecipassero ai reati stabiliti conformemente alla Convenzione, precisando come, fatti salvi i principi giuridici dei diversi sistemi nazionali, tale responsabilità potesse essere penale, civile o amministrativa. Tutto ciò brevemente premesso su quanto previsto da parte degli strumenti internazionali in materia di corruzione, l’art.1, co.77 l. 190/2012 non risulta, in qualità di norma di adeguamento interno in tema di responsabilità degli enti, pienamente “adempiente” dei doveri promananti dalla ratifica della Convenzione di Merida da parte dell’Italia - invero intervenuta già con la l.116/2009 - almeno sotto due diversi punti di vista. Posto che, infatti, la disposizione si sia adeguata alla novella in materia di concussione, opportunamente introducendo l’esplicita menzione al delitto - nato dalla “costola” della fattispecie di cui all’art.317 c.p. - di induzione indebita di cui all’art.319-quater c.p., essa risulta, tuttavia, carente sul versante della corruzione tra privati e del traffico di influenze illecite. 12 Lacune di tutela assolutamente reali si segnalano, invece, con particolare riguardo a quelle ipotesi di reato introdotte dalla l. n.190/2012 e non incluse nell’elenco dei reatipresupposto della responsabilità dell’ente. Come già accennato, “grande assente” dal novellato elenco di reati-presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente risulta il delitto di traffico di influenze illecite di cui all’art.346-bis c.c. con la conseguenza che, in ragione del principio di legalità sancito dall’art.2 d. lgs. 231/2001, esso non potrà costituire presupposto della responsabilità dell’ente nell’interesse o a vantaggio del quale il delitto sia stato commesso. Peraltro, la mancata inclusione della ricordata fattispecie nel numerus clausus dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente costituisce un ulteriore elemento di difformità da quanto previsto dall’art.26 della Convenzione di Merida il quale, come ricordato, richiama, tra gli altri, anche il trading in influence basato, oltre che su un’influenza solo supposta e non esistente (come nei casi di millantato credito) anche e soprattutto su di un reale credito vantato nei confronti di un’amministrazione o di una pubblica autorità, come nelle autentiche ipotesi di traffico di influenze illecite ex art.346-bis c.p.. Rispetto all’arsenale di reati suscettibili di determinare la responsabilità dell’ente descritto dall’art.26 della Convenzione, l’art.1, co.77 l. n.190/2012 si limita, dunque, a recepire solamente le due armi in qualche modo “spuntate” già previste dal d. lgs. 231/2001 confermando una volta di più l’idea che in una materia cruciale come la prevenzione della corruzione nel settore privato si sia preferito muoversi nei tranquillizzanti solchi della tradizione, piuttosto che innovare nel segno voluto dai documenti internazionali. Limitando, per quello che qui interessa, l'attenzione al delitto di cui all’art.319-quater c.p., l’art.1, co.77 lettera a) nn. 1) e 2) ha adeguato il sistema della responsabilità degli enti alle profonde modifiche intervenute con particolare riguardo al delitto di concussione. Ai fini che qui interessano giova, tuttavia, porre l’attenzione su alcune questioni problematiche sollevate dall’interpretazione della disposizione di nuovo conio e suscettibili di riverberarsi sulla disciplina della responsabilità dell’ente. Innanzi tutto, l’incipit della disposizione contiene, come anche nel caso della corruzione tra privati di cui all’art.2635 c.c., una clausola di riserva che fa salvo il caso in cui il fatto costituisca più grave reato. I possibili esiti dell’operatività della clausola sulla disciplina della responsabilità dell’ente sono, tuttavia, fortemente differenziati a seconda che si tratti del delitto di induzione indebita o di corruzione tra privati. In particolare, l’operatività della clausola di riserva contenuta nell’art.319-quater c.p. appare destinata ad intervenire nelle 13 ipotesi nelle quali il fatto commesso sia sussumibile nella più grave ipotesi di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, essendo la limitrofa ipotesi di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art.318 c.p. meno gravemente sanzionata ( reclusione da uno a cinque anni a fronte della reclusione da tre a otto anni dell’induzione indebita). Come sottolineato da attenta dottrina, pur essendo “la nuova fattispecie (..) rispetto agli agenti pubblici, “erede universale” della concussione per induzione (…) resta il fatto ch’essa (…) ruota ora nell’orbita della corruzione” in ragione del duplice elemento dell’introduzione della clausola di riserva e della previsione della punibilità del privato autore della promessa o della dazione. Allo scopo di chiarire i presupposti dell’applicazione della clausola di riserva si impone, dunque, di riformulare i termini dei rapporti tra induzione indebita e corruzione. Orbene, posto che l’induzione debba “essere circoscritta alle ipotesi – peraltro tradizionali – in cui il privato si determina al pagamento per lucrare un vantaggio o per scansare un danno”, l’operatività della clausola di riserva risulta limitata alle sole ipotesi in cui “ il vantaggio sia ‘ingiusto’ e il danno ‘giusto’” dal momento che “il pagamento finisce con l’essere diretto all’acquisto di un atto contrario ai doveri d’ufficio (…). In questo caso, poiché la pena edittale comminata dall’art.319-quater c.p. è la reclusione da tre a otto anni, é facile constatare che più grave dell’induzione indebita risulta la corruzione propria (reclusione da quattro a otto anni)”. Trattandosi, tuttavia, di reato ormai plurisoggettivo anche nella forma dell’induzione indebita, non è altrettanto detto che la “riqualificazione” nel più grave delitto di corruzione determini anche per il privato l’applicazione dell’art.321 c.p. in luogo dell’art.319quater , co.2 c.p. Come ritenuto da parte della dottrina, non facendo la clausola di riserva parte della fattispecie, ben potrebbero i rispettivi titoli della responsabilità – quando non si proceda a simultaneus processus - differenziarsi essendo il pubblico agente chiamato a rispondere di corruzione, pur permanendo in capo al privato l’imputazione a titolo di induzione indebita. Ammesso, dunque, che, in ragione della clausola di riserva, la più grave ipotesi di corruzione debba trovare applicazione in luogo della fattispecie di induzione indebita ex art.319-quater c.p. gli esiti sul versante della responsabilità degli enti risultano piuttosto singolari. L’ipotesi-base dell’art.319 c.p. determina, a mente dell’art.25, co. 2 d. lgs. 231/2001, l’applicazione della sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote, in luogo della più grave sanzione da trecento a ottocento quote applicabile nel caso in cui reato-presupposto della responsabilità dell’ente ai sensi dell’art.25, co.3 sia, per l’appunto, l’induzione indebita di cui all’art.319-quater c.p. Perché trovi applicazione la più grave sanzione pecuniaria risulta 14 ulteriormente necessario che la corruzione sia aggravata ai sensi dell’art.319-bis avendo l’ente conseguito dal fatto un profitto di rilevante entità. Infine, per entrambe le ipotesi previste dai commi secondo e terzo dell’art.25, troveranno applicazione le sanzioni interdittive di cui all’art.9, co.2 per una durata non inferiore ad un anno. Il paradossale effetto del coordinamento tra le disposizioni sostanziali aventi ad oggetto le fattispecie incriminatrici e quelle sulla responsabilità degli enti é che, pur a fronte dell’applicabilità di un reato più grave, vale a dire la corruzione di cui all’art.319 c.p. in luogo dell’induzione indebita prevista dall’art.319-quater c.p., all’illecito amministrativo dell’ente nell’interesse o a vantaggio del quale il più grave delitto sia stato commesso corrisponderà la previsione edittale di una sanzione amministrativa pecuniaria meno grave a meno che non ricorra la circostanza aggravante di cui all’art.319-bis. Le sanzioni interdittive rimangono, invece, nominalmente invariate quale che sia la fattispecie di volta in volta applicabile prevedendo l’art.25, co.5 l’applicazione delle medesime misure punitive indifferentemente per tutte le ipotesi di reato previste dai commi secondo e terzo. Peraltro, l’effetto paradosso di un reato più gravemente sanzionato che, una volta presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, determini l’applicazione di una sanzione pecuniaria meno grave é comune anche all’ipotesi di corruzione in atti giudiziari di cui all’art.319-ter, co.1 punita con la reclusione da quattro a dieci anni, la quale, tuttavia, al pari dell’ipotesi-base di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, dà luogo all’applicazione della sanzione pecuniaria da duecento e seicento quote, a fronte di quella da trecento a ottocento quote applicabile in caso di responsabilità da reato di induzione indebita ex art.319-quater punito con la meno grave pena della reclusione da tre a otto anni. Invero gli effetti distorsivi di un reato-presupposto più gravemente sanzionato che determini l’applicazione all’ente di una sanzione amministrativa pecuniaria meno grave potrebbero essere scongiurati dal ricorso da parte del giudice ai criteri di commisurazione della sanzione pecuniaria ed interdittiva ai sensi, rispettivamente, degli artt.11 e 14 d. lgs. 231/2001. Ma pur concesso al giudice il potere discrezionale di adeguare il tipo, l’entità e la durata delle sanzioni alla gravità del fatto permane un dato normativo sperequato e rispetto al quale parrebbe di poter ritenere come il legislatore della riforma abbia perso un’occasione per “riconciliare” i livelli edittali dei reati presupposto elencati all’art.25 d. lgs. 231/2001 con i limiti delle sanzioni pecuniarie, non risultando del tutto coerente che a fronte della contestabilità all’ente di un reato-presupposto più grave la lettera della legge consenta di dar 15 luogo all’applicazione di sanzioni meno gravi. Per di più, posto che nella commisurazione della sanzione pecuniaria come anche, giusta l’espresso rinvio dell’art.14, per la scelta e la determinazione della durata delle sanzioni interdittive il giudice debba tenere conto oltre che della “gravità del fatto” anche “del grado di responsabilità dell’ente” nonché “dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti” ben potrebbe la considerazione della maggiore gravità del reato-presupposto risultare “soccombente” rispetto ai concorrente criteri indicati dall’art.11, confermando la possibilità che, pur a fronte dell’operatività della clausola di riserva a favore della corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, all’ente vengano applicate sanzioni meno gravi di quelle previste per i casi di induzione indebita. Non risulta, invece, suscettibile di riverberarsi sulla disciplina della responsabilità degli enti la questione problematica connessa alla distinzione tra la coartazione rilevante ex art.317 c.p. ed induzione ora trasmigrata nel corpo dell’art.319-quater c.p. A tal proposito, la giurisprudenza ha chiarito come la fissazione della linea di demarcazione tra le due ipotesi debba seguire due criteri: il primo fondato sul grado di coartazione morale ed il secondo sul tipo di vantaggio del destinatario della pretesa indebita. In base al primo criterio si avrebbe costrizione quando la pretesa abbia una maggiore carica intimidatoria, in quanto espressa in forma ovvero in maniera tale da non lasciare alcun significativo margine di scelta al destinatario (voluit quia coactus). Risulterebbe, invece, integrata l’induzione quando la pretesa si concretizzi nell’impiego di forme di suggestione, persuasione o più blanda pressione morale in modo da lasciare al destinatario una maggiore libertà di autodeterminazione in ordine alla possibilità di non cedere alla richiesta del pubblico funzionario (coactus tamen voluit). Sulla base del secondo criterio, invece, ricorrerebbe la concussione per costrizione quando il pubblico agente, pur senza l’impiego di brutali forme di minaccia psichica diretta, abbia posto il destinatario di fronte all’alternativa di accettare la pretesa indebita ovvero di subire il prospettato pregiudizio oggettivamente ingiusto. Sarebbe, invece, integrato il reato di cui all’art.319-quater c.p. se il pubblico agente, abusando della sua qualità o del suo potere, formula una richiesta di dazione o promessa ponendola come condizione per il compimento o il mancato compimento di un atto, di un’azione o di un’omissione, da cui il destinatario della pretesa trae direttamente un vantaggio indebito. Quale che sia il reato-presupposto concretamente configurabile, la sottoposizione delle fattispecie di cui all’art.317 e 319-quater c.p. al medesimo trattamento sanzionatorio da parte 16 dell’art.25, co.3 e 5 d. lgs. 231/2001 non appare circostanza suscettibile di modificare i termini della questione posto che risulterà pur sempre applicabile all’ente la sanzione amministrativa pecuniaria da trecento a ottocento quote unitamente a quelle interdittive per una durata non inferiore ad un anno, essendo ancora una volta rimessa al giudice la commisurazione delle misure punitive in proporzione, tra l’altro, alla gravità del fatto commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Sotto tale ultimo profilo, potrebbe, invece, concorrere a variare i termini dell’applicazione del d. lgs.231/2001 all’ente per il quale il delitto di induzione indebita sia stato commesso sulla base del criterio della “gravità del fatto” la circostanza che, come invero si verifica con estrema frequenza, il delitto sia stato commesso nell’ambito di procedure per l’assegnazione di appalti. La giurisprudenza risulta, infatti, concorde nel ritenere che i due delitti possano concorrere “trattandosi di illeciti che hanno una diversa obiettività giuridica, tutelando il primo l’interesse della pubblica amministrazione con riferimento al prestigio, alla correttezza ed alla probità dei pubblici funzionari, ed il secondo l’interesse alla libera formazione delle offerte nei pubblici incanti e nelle licitazioni private”. A parte qualunque considerazione in merito all’opportunità di ricorrere al criterio del bene giuridico protetto per risolvere le questioni legate all’unità o alla pluralità di reati, che risulterebbe in questa sede assolutamente ultronea, bisogna ricordare come, pur non essendo il delitto di turbata libertà degli incanti di cui all’art.353 c.p. previsto nel numerus clausus dei reati-presupposto della responsabilità degli enti, esso potrebbe verosimilmente rilevare ai limitati fini della commisurazione delle sanzioni applicabili agli enti parendo, invero, adeguato e ragionevole riservare una valutazione in termini di maggiore gravità ad un fatto di induzione indebita commesso nell’ambito di procedure indette per l’assegnazione di appalti, come tali suscettibili di determinare elevati vantaggi, così come ingenti danni ai soggetti coinvolti. Infine, sul versante propriamente processuale, l’esplicita trasformazione della concussione per induzione in un reato plurisoggettivo necessario ove anche il privato autore della promessa o della dazione risulti punibile determina la possibilità, alla quale si faceva in precedenza cenno a proposito della possibile divaricazione dei titoli della responsabilità del pubblico funzionario e del quivis de populo autore della dazione o della promessa, dell’avvio di due distinti processi nell’ambito dei quali possa verosimilmente giungersi ad esiti differenziati come tali non necessariamente contraddittori in base ai principi del sistema processuale. Tale “duplicazione processuale” potrebbe ulteriormente coinvolgere anche il processo a carico 17 dell’ente a norma dell’art.38, comma 2 lettera c) d. lgs. 231/2001, il quale, prevedendo i casi di riunione e separazione dei procedimenti, dispone che il procedimento per l’illecito amministrativo dell’ente venga riunito al procedimento penale instaurato nei confronti dell’autore del reato da cui l’illecito dipende, fatta salva la separazione qualora, tra le altre ipotesi, “l’osservanza delle disposizioni processuali” lo renda “necessario”. La possibilità precedentemente ricordata di contestazioni differenziate a titolo di corruzione al soggetto pubblico e di induzione indebita a quello privato potrebbe verosimilmente rendere necessaria anche la separazione del procedimento a carico della persona giuridica nel rispetto delle norme del codice di rito. Si tratta, tuttavia, di una disposizione che, come segnalato da parte della dottrina, per la sua estrema genericità dovrebbe essere interpretata coerentemente con la tenuta del sistema processuale “nella piena consapevolezza che una esegesi estensiva della norma rischia di svuotare di significato il principio del processo simultaneo, trasferendo nelle mani del giudice una discrezionalità pura, non vincolata a parametri specificamente individuati”. Con riferimento, invece, alla corruzione tra privati ex art.2635 c.c., la clausola di riserva che fa salvo il caso in cui il fatto costituisca più grave reato rischia di porre definitivamente nel nulla la riforma avente ad oggetto il recepimento del delitto di corruzione tra privati nel novero dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente. Per meglio chiarire i termini della questione occorre, tuttavia, distinguere almeno tra tre diversi sottoinsiemi di delitti: quelli suscettibili di attivare comunque la responsabilità amministrativa degli enti, quelli legislativamente non compresi nell’elenco dei reati-presupposto e, infine, quelli concorrenti con la corruzione tra privati ex art.2635 c.c. Tra i delitti della prima serie si segnalano, innanzi tutto, quelli di corruzione ex art.319 e 320 c.p. nelle ipotesi nelle quali il soggetto attivo assuma la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. In questi casi la clausola di riserva consente di far prevalere ipotesi di reato che sarebbero risultate soccombenti qualora avesse trovato applicazione il criterio strutturale di specialità, risultando la corruzione tra privati doppiamente speciale per aggiunta in ragione della presenza dei due elementi dell’esecuzione dell’accordo corruttivo e della causazione di un nocumento alla società. In questi casi, la responsabilità degli enti potrà comunque conseguire dall’applicazione dell’art.25 d. lgs. 231/2001 assicurando altresì l’applicazione delle sanzioni interdittive, non previste in caso di esclusiva configurabilità del reato (societario) di corruzione tra privati. Dove, invece, la riforma disvela non poche lacune di tutela é con riguardo ai delitti che, 18 pur risultando più gravi di quello di cui all’art.2635 c.c., non sono ricompresi tra quelli presupposto della responsabilità amministrativa da reato degli enti. Si tratta, innanzi tutto, della già ricordata ipotesi della turbata libertà degli incanti (art.353 c.p.) come anche della limitrofa fattispecie di astensione dagli incanti (art.354 c.p.), ma anche del mercato di voto (art.233 LFALL) e della frode in competizioni sportive (art.1, l.401/1989). In questi casi, la distorsione rispetto agli orizzonti di tutela della riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione é totale, dal momento che, pur a fronte della configurabilità di una fattispecie più gravemente sanzionata, l’intero apparato preventivo e sanzionatorio predisposto dal d. lgs. 231/2001 risulterà inapplicabile in ragione del superiore principio di legalità di cui all’art.2 del decreto medesimo. Il carattere paradossale di tale conclusione interpretativa condurrà verosimilmente ad insistere sul dato della diversità dei beni giuridici protetti allo scopo di configurare il concorso di reati in luogo dell’applicabilità della clausola di riserva, come già avvenuto con particolare riguardo al ricordato caso del concorso tra induzione indebita e turbata libertà degli incanti. Ciò posto sulle riforme in materia di responsabilità amministrativa degli enti da delitto con la Pubblica Amministrazione, pur non avendo la legge l. n.190/2012 inteso scalfire il privilegio accordato alle pubbliche amministrazioni sin dall’approvazione del d. lgs. 231/2001, il quale, com’é noto, scelse di escludere dal suo ambito di applicazione “gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale” (art.1, co.3 d. lgs. 231/2001), l’apparato preventivo pensato dal legislatore della riforma é chiaramente, quando non perfino letteralmente, mutuato dalla parte generale della responsabilità amministrativa degli enti “privati”. Basti a tal proposito por mente, per limitarsi solamente ad alcuni dei più significativi esempi, all’assonanza tra il piano di prevenzione della corruzione ex art.1, co.5 l. n.190/2012 ed i modelli organizzativi ex art.6 d. lgs. 231/2001, tra i contenuti delle esimenti previste per il responsabile della prevenzione della corruzione dal comma 12 e quelli delle cause che escludono la responsabilità dell’ente ex artt.6 e 7 d. lgs. 231/2001. Tuttavia, posto che manchi totalmente nella legge alcuna disposizione di coordinamento tra il sistema preventivo della corruzione nel settore pubblico, rispondente, per l’appunto, alle regole introdotte dalla legge qui in commento, e quello valevole nel settore privato, secondo i principi e le discipline del d. lgs.231/2001 i due sistemi potrebbero verosimilmente collidere allorquando i reati-presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente coinvolgano la Pubblica amministrazione come, ontologicamente, nell’ipotesi di 19 induzione indebita e, potenzialmente, nella corruzione tra privati, nel ricordato caso in cui risulti configurabile – ed applicabile in ragione dell’operatività della clausola di riserva contenuta nell’art.2635 c.c.- la più grave ipotesi di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio. Come già anticipato, la ragione di tale asimmetria, e potenziale duplicazione, tra i diversi sistemi preventivi predisposti dai due provvedimenti rispettivamente applicabili al settore pubblico ed al settore privato si giustifica in ragione della scelta di perpetuare l’inapplicabilità del d. lgs. 231/2001 alle pubbliche amministrazioni. Il carattere ormai anacronistico di questa scelta emerge, tuttavia, dalla ratio stessa della l. n.190/2012 che ha inteso, proprio sulla scorta di quanto già previsto nel settore privato, combattere la piaga della corruzione anche e soprattutto anticipando la soglia dell’intervento sanzionatorio alla violazione di codici di comportamento intesi a prevenire ed evitare la maladministartion della cosa pubblica. Il legislatore del 2012 e quello del 2015 hanno, tuttavia, perso l’occasione per coordinare i due sistemi se non nel (forse) troppo coraggioso segno della definitiva abrogazione dell’art.1, co.3 d. lgs.231/2001, almeno nella direzione di una conciliazione tra i simili – e non raramente sovrapponibili – strumenti preventivi predisposti per il settore pubblico e quello privato. Si sarebbe, invero, trattato della più autentica forma di attuazione delle direttive promananti dagli strumenti internazionali aventi ad oggetto la prevenzione e la repressione della corruzione nella richiamata ottica “neotestamentaria” di prevenzione sistemica dei segnali d’allarme della corruzione indipendentemente dalla sussistenza formale di un fatto di reato consumato. 4.2. Il ruolo dell’ANAC. Rinvio. Senza voler invadere il campo dei contributi degli esperti espressamente dedicati al tema, un indubbio strumento neotestamentario di prevenzione della corruzione fin dalla comparsa dei suoi primi “segnali d’allarme” deve essere individuato nel ruolo dell' autorità Autorità Nazionale Anti Corruzione. Come rilevato nella stessa Relazione presentata al Parlamento dall'Autorità medesima, essa costituisce l’inveramento istituzionale dell’idea secondo la quale la corruzione può essere efficacemente contrastata con interventi e strategie di tipo “sistemico”. Tale approccio si è sviluppato a tutti i livelli di azione e, in primo luogo, attraverso la creazione di rapporti e collaborazioni di tipo istituzionale tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale, come descritto nei capitoli 2 e 3. Sul piano internazionale si segnalano, 20 in particolare, l’accreditamento dell’ANAC come Autorità nazionale indipendente per il contrasto alla corruzione entro la Directory dell’United Nations Office on Drugs and Crime. Sul piano interno si segnala altresì la costante implementazione del ruolo dell'Autorità nazionale nella collaborazione con l'Autorità Giudiziaria nell'ipotesi in cui i segnali di allarme si traducano nella commissione di fatti di reato. In particolare, l’art. 213, comma 6 D.Lgs. 18/04/2016, n. 50 “Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” vigente dallo scorso 18 aprile prevede che qualora accerti l'esistenza di irregolarità, l'Autorità trasmette gli atti e i propri rilievi agli organi di controllo e, se le irregolarità hanno rilevanza penale, alle competenti Procure della Repubblica, in tal modo “sincronizzando” il monitoraggio dei segnali d’allarme con l’esercizio dell’azione penale qualora venga in considerazione un fatto sussumibile nell’ambito d’applicazione di una fattispecie di corruzione prevista dal codice penale. 4.3. Le intersezioni con il fenomeno del riciclaggio: la corruzione come “reato-fonte”. Ad ulteriore riprova del carattere sistemico del fenomeno corruttivo e del suo ormai strutturato collegamento con altre gravi forme di criminalità organizzata giova ricordare brevemente che un recentissimo rapporto ( The Cost of non-Europe in the Area of Organised Crime and Corruption) pubblicato dal Parlamento europeo (http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2016/579319/EPRS_STU(2016)57 9319_EN.pdf) ha dato conto del collegamento tra corruzione e crimine organizzato assegnando alla corruzione il ruolo di reato-mezzo delle organizzazioni criminali allo scopo di influenzare le decisioni pubbliche e, correlativamente, di reato-fonte di operazioni di riciclaggio funzionali alla re-immissione dei proventi illeciti ( ivi compresi quelli derivanti da pratiche corruttive) nel circuito dell’economia legale. Anche questo Rapporto, analogamente agli strumenti internazionali ricordati all’inizio di questo scritto, pone la necessità di adottare una logica “neotestamentaria” di prevenzione della corruzione non più semplicemente affidata ad una minaccia che ha poca presa in un settore endemicamente afflitto dalla criminalità ma orientata a colpire alla fonte la convenienza della pratica corruttiva attraverso la sinergie di misure penali ed amministrative. 21 5. Riflessioni conclusive. Il rapporto appena ricordato, unitamente alle ultime proposte del Presidente dell’ANAC di utilizzare lo strumento dell’agente infiltrato anche nel contrasto della corruzione pone concretamente la questione del sempre maggiore avvicinamento dello statuto penale della corruzione a quello della criminalità organizzata. Si tratta di un giusto parallelismo? L’ottimismo della ragione ci imporrebbe di rispondere negativamente recuperando la regola aurea della frammentarietà dell’intervento penale (mare di legalità con isole di reato non viceversa). Non si tratta, tuttavia, di abbandonare il ricorso allo strumento penale ma di adattarlo alle specifiche caratteristiche del fenomeno corruttivo in una virtuale sinergia, come dimostrato da questo Convegno, tra penalisti ed amministrativisti nell’ambito delle rispettive competenze. Tractent fabrilia fabrii, dunque, agli “amministrativisti”, il primario compito di disciplinare le attività pubbliche in modo da minimizzare il rischio-corruzione; ai penalisti, invece, il ruolo di costruire un sistema che non si riduca alla mera repressione del fatto commesso ma, accanto ad un‘efficace e indefettibile condanna dei fatti commessi, prevenga altresì la commissione dei reati attraverso l’intercettazione e la gestione dei suoi primi segnali d’allarme per il tramite dei richiamati strumenti della responsabilità da reato degli enti e dello sviluppo di sistemi di controllo, come quello dell’ANAC, funzionalmente connesso all’eventuale iniziativa penale. 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