Alberto Schiavi
I QUATTRO SIGNIFICATI
DELLA GIOCONDA
“Le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro
sensi. L’uno si chiama litterale (…). L’altro si chiama allegorico (…). Lo terzo senso
si chiama morale (…). Lo quarto senso si chiama anagogico (…)”. Dante, Convivio,
Trattato secondo, I capitolo.
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Indice
Introduzione
7
Chi è?
Per una fettina di quadro in più
Zitti! Il paesaggio sussurra all’uomo
Parenti serpenti
Filosofia d’Egitto
Superstizione, filosofia o scienza?
Convergere verso l’anima del mondo
Al centro dell’anima fino alla giocondità
Un folle volo in paradiso
Colpo di scena: la conversione
Proprio lui!! Che entri
Una prudente ricapitolazione
Perché Monna Lisa è la Gioconda?
La Gioconda gioca? Ovvero Dio gioca?
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Appendice n. 1
Appendice n. 2
106
114
Bibliografia
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Introduzione.
“Nel 1800 la Gioconda fu collocata alle Tuileries nella camera da letto del generale
Bonaparte. Era tale la notorietà dell’opera che il nuovo padrone della Francia
desiderava vederla, forse interrogarla: egli conosceva l’arte di leggere nelle fisionomie
e si proponeva senza dubbio di decrittare anche quella, quantunque la fama del quadro
non fosse allora dovuto al viso femminile e al misterioso sorriso ma piuttosto alla
straordinaria perfezione tecnica, a quel delizioso sfumato di cui Prud’hon, per esempio
si sforzava di ritrovare il fascino1”.
Con questa sottile intuizione di psicologia napoleonica, André Chastel, sommo
critico e storico dell’arte, data in certo modo il tempestoso inizio della questione intorno
all’enigma della Gioconda.
Una questione non piccola se non la si vuol ridurre alla dimensione ridicola del
chiedersi, per esempio, se Monna Lisa sia un maschio o una femmina, l’autoritratto del
più famoso precursore degli aspiranti transessuali, e simili desolanti interrogativi; ma
cercando di rendere onore al genio indiscusso di Leonardo si tenti di scoprire in che
modo e perché quel dipinto gli fu così caro tanto da ritoccarlo fino alla fine dei suoi
giorni e che cosa gli trasfuse della propria anima.
Se fu detto che nell’Amleto, Shakespeare, riversò tutto se stesso, ciò non può essere
meno vero per Leonardo e la sua Monna Lisa. La differenza – non piccola neanche
questa – è che, malgrado gli occhi della Gioconda ci guardino e la sua bocca sorrida,
1
André Chastel, L’illustre incompresa, Leonardo Editore, Milano, 1989, pag. 9.
5
tanto da parere parlanti, in realtà, come ognuno sa, la Gioconda non parla, non declama,
non scalpita, non impreca, insomma non fa nulla che l’accomuni esteriormente al suo
collega Amleto: rimane muta come il più comune dei dipinti del più dozzinale dei pittori.
Eppure dovremo forzarla a fare un po’ di tutte queste cose insieme affinché ci consegni
alla fine la sua vicenda.
Anche per noi, come per il generale Bonaparte, l’interesse vero della Gioconda
non sta dunque tanto nella sua perfezione tecnica quanto nel suo misterioso sorriso, nel
paesaggio che le fa da sfondo, nella sua regale postura e per finire, semplicemente, nella
sua identità. Tanti interrogativi che si riassumono in uno solo: che significato ha la
Gioconda?
Ai giorni nostri questa domanda potrebbe non avere granché senso, o sembrare
oziosa, anche per il pubblico colto e rivestire un’importanza cruciale soltanto per gli
addetti ai lavori. Infatti si accetta comunemente ormai che lo specifico dell’arte sia di
veicolare emozioni, di secernere emozioni, di far grondare i fruitori d’arte di emozioni,
come allo spettatore di pellicole horror e non le si dovrebbe chiedere di più; anche per
non cadere in una forma d’arte faziosa e strumentale, che la priverebbe appunto di
imprimatur artistico.
Eppure, può scaturire un’emozione che non sia espressione di un significato? Un
profano potrebbe imbattersi nel più raro dei coleotteri e conservare la più splendida e
inalterabile indifferenza mentre lo stesso insetto riempirebbe di stupore e di
ammirazione l’entomologo. Esiste forse un’opera d’arte che esprima nel modo più
conseguente e più sfacciato un’ideologia religiosa al pari dei Promessi Sposi? Ma chi ne
contesta la resa artistica? In realtà le produzioni dell’arte non sono un campo privilegiato
degli estimatori della perfezione tecnica, come il signor Prud’hon, né dei cultori dell’arte
per l’arte. Evocate dai sensi, le emozioni passano, svaniscono nel nulla se non si
traducono in un acquisto, in un significato spirituale tangibile che apra la mente. Solo
per questo l’Arte vera resta: i suoi prodotti sono stabili. Lo spirito che in essi è infuso
costituisce un punto d’approdo, una tappa, un itinerario, che l’uomo – essere mortale per
eccellenza – ripercorre necessariamente se ha la ventura di nascere vivo e
d’intraprendere il laborioso cammino della vita.
Il trapasso del sentimento a pensiero, a Logos, punto nodale della speculazione
filosofica del Rinascimento fiorentino, è uno dei temi tra tanti, di cui è immagine la
Gioconda.
Dunque, il generale Bonaparte …
Sì, ecco. Non potendo godere dei suoi privilegi e ispezionare il quadro in camera
da letto, ci trasferiremo idealmente in un ambiente isolato, augusto, ed eleggendo a
mentore l’erma marmorea dell’illustre capostipite degli indagatori della Gioconda,
inizieremo a osservare con occhio strategico il campo di battaglia e, perlustrando il
paesaggio, percorrendolo a volo d’uccello, scrutandone gli anfratti, volteggiando intorno
alla figura, accarezzandone la fisionomia, ci accadrà di scoprire corrispondenze,
decrittare simboli, assaporare significati …
6
7
CHI E’?
Entriamo per direttissima in argomento e per rispondere al quesito rivolgiamoci ad
una recente e pregevole lavoro di Serge Bramly, studioso di Leonardo, il quale
affrontando di petto la questione, scrive:
“Il Vasari descrive minuziosamente la Gioconda; ma non ha mai visto da vicino il
quadro che conosce per sentito dire, dato che, come egli stesso confessa, quando ha
messo mano alle Vite l’opera si trovava in Francia. Il suo racconto non è confortato da
nessuna testimonianza né da nessun antico testo; è lui solo a fare il nome di monna
Lisa. Perciò molti storici l’hanno messo in dubbio e si sono lanciati su altre piste: oggi
abbiamo più di una decina di identificazioni più o meno definibili. Potrebbe trattarsi
della favorita di Giuliano de Medici, dunque, una certa Pacifica Brandano o una tal
«Signora Gualanda»; o di una delle amanti di Carlo d’Amboise; o di Isabella D’Este,
marchesa di Mantova, alla quale il pittore avrebbe finalmente ceduto; o ancora della
duchessa di Francavilla, Costanza di Avalos, dato che una poesia ricorda un ritratto
(ignoto) che Leonardo le avrebbe fatto; alcuni avanzano l’ipotesi che non sarebbe
esistita nessuna modella e che Leonardo avrebbe dipinto una donna ideale; la tesi più
fantasiosa sostiene che si tratterebbe del ritratto di un uomo, se non addirittura dello
stesso artista: questi si sarebbe dipinto, senza barba né rughe, in abito femminile…
Vero è che Leonardo non ha dipinto la sua modella nel solito modo in cui si fa il ritratto
di una borghese: l’ha rappresentata con molta arte e molta cura, come una Madonna o
una principessa, conferendole una statura monumentale. Ma in fin dei conti, poiché
nessuno studioso riesce a fornire la prova incontestabile che ci indurrebbe ad
accettarne la tesi, in mancanza di meglio si torna al Vasari e si continua a dire La
Gioconda2”.
E più oltre:
“Intere generazioni di storici dell’arte si sono invano applicate alla soluzione di
questo rompicapo. Negli scritti dell’artista non si trova la minima allusione al dipinto o
al suo eventuale committente; né nei suoi cartoni si trova un cartone preparatorio.
Siamo costretti a riconoscere che il mistero resta inviolato3”.
Il Bramly continua nella descrizione del quadro e poi dà comunicazione di un fatto
sorprendente quanto sconcertante: “Come la maggior parte dei suoi dipinti, anche la
Gioconda ha subito i danni del tempo. Il pannello è stato mutilato da entrambi i lati di
una striscia di circa sette centimetri: non sono più visibili le due colonne che
inquadravano il paesaggio e che compaiono sia in antiche copie che nel disegno di
Raffaello4”.
PER UNA FETTINA DI QUADRO IN PIU’.
Da tempo avevamo notato sul dipinto una lineetta minuscola, una segno orizzontale
collocato a mezza costa delle rocce erose e dirupate che campeggiano a sinistra della
Signora Lisa, (per chi guarda il quadro5), e che nulla ha a che fare con l’irregolarità di una
2
Serge Bramly, Leonardo da Vinci, Mondadori 1990, p. 287.
3
Ibidem, pp. 288-289.
4
Ibidem, p. 290.
5
8
roccia erosa come quella che Leonardo rappresenta. La rivelazione del Bramly unita al
ricordo dell’esistenza di copie della Gioconda ci suggerii l’idea di verificare se le copie
avessero duplicato il dipinto integralmente, cioè non mutilato sui lati e quindi con le
colonne presenti: probabilmente ci avrebbero offerto l’opportunità di osservare una
rappresentazione più completa e dunque più comprensibile di questo particolare. E così
fu. Quelle che seguono sono alcune delle copie che possediamo della Gioconda. André
Chastel nella sua monografia sulla Gioconda ne riproduce numerosissime ma in bianco e
nero. Evidentemente sono più fedeli e autentiche quelle che riportano le colonne, e tra
queste quelle che danno continuità al paesaggio e non le copie il cui autore ha rifatto il
paesaggio a suo capriccio. Abbiamo dunque scelto le prime.
Esse sono state effettuate in periodi diversi intorno al XVI e XVII secolo. L’ultima a
destra è stata scoperta recentemente nei magazzini del Museo del Prado ed esposta al
Louvre il 12 febbraio 2012.
Guardiamo ora attentamente il paesaggio che sta alle spalle della Gioconda
sull’originale mentre ce lo lasciamo presentare dai più valenti storici dell’arte. Ecco che
cosa ne dice uno degli interpreti più qualificati, Carlo Pedretti, il massimo specialista di
Leonardo in Italia, se non nel mondo. Riportiamo integralmente la sua descrizione del
paesaggio:
“… secondo una tesi recente che va sempre più prendendo piede, sostenuta com’è da
una serata filologia e da un complesso di argomentazioni di ordine storico, geografico
e scientifico, anche lo sfondo della Gioconda sarebbe toscano, e più precisamente una
veduta del Valdarno superiore presso Arezzo, località percorsa da Leonardo in lungo e
in largo al tempo della sua attività di architetto, ingegnere e cartografo al servizio di
Cesare Borgia nel 1502. (…) Leonardo avrebbe ritratto in quegli sfondi perfino il ponte
romano di Buriano sull’Arno, presso il castello di Quarrata, un particolare che si trova
ritrova comunque con impressionante similarità in una mappa della Toscana da lui
prodotta a quel tempo. Ed è forse proprio la sua opera di cartografo che rende meno
problematica la proposta identificazione. A colpo d’occhio, il paesaggio della Gioconda
ricorda subito uno scenario alpino con le catene rocciose poste sullo sfondo su piani
diversi e attraversato a destra da un fiume e a sinistra da una strada. L’immagine così
evocata è quella lombarda del disegno del temporale su una vallata, ma come nel
primo disegno del 1473 Leonardo potrebbe avere adottato un approccio sintetico al
problema prospettico di comprimere un vasto territorio nello spazio ristretto di un
dipinto, che per di più necessita di uno sfondo a connotazioni simboliche più che di
un’ambientazione di accuratezza topografica. Per istituire il confronto fra lo sfondo della
D’ora in avanti tutti i riferimenti al quadro si faranno adottando il punto di vista
dell’osservatore e quindi del lettore.
9
Gioconda e la proposta realtà toscana occorre servirsi della veduta aerea, che è proprio
quella delle mappe di Leonardo, e che può prestarsi a una sintesi visiva in senso
temporale come nel processo di sovrapporre vedute diverse riprese nei vari momenti di
un unico percorso, in questo caso quello che va dal ponte di Buriano in primo piano alle
imponenti formazioni dei calanchi valdarnesi6. Percorso reale se effettuato con l’aereo, o
immaginario se realizzato nella mente dell’artista cartografo. Trasferito a ben altre
dimensioni, come nel caso dello sfondo della Sant’Anna del Louvre, lo stesso paesaggio
diventa lunare, privo ormai di ogni connotazione lombarda o toscana, così come
all’idea dell’aereo subentra quella dell’astronave. Leonardo, si sa, bene si presta
all’iperbole della retorica dei suoi interpreti. Dopo aver fatto di lui il precursore di ogni
aspetto della moderna tecnologia – dall’aereo, appunto, al sottomarino, e dal
carrarmato alla bicicletta -, si è cominciato a indagare altri aspetti della sua genialità
soprattutto per quanto riguarda le sue capacità di comunicazione che con la sua
pittura e il suo disegno sono ancora insuperate come linguaggio universale. E infatti
solo alcuni capolavori del cinema muto – lo ammette un regista come Ejzenstein –
possono reggere al confronto. E così è possibile affermare che, a parte i problemi
filologici presenti nella Gioconda e nella Madonna dei fusi [quadro messo a confronto
con la Gioconda, che il Pedretti ritiene essere il frutto di un’ispirazione analoga (NdR)],
magistralmente affrontati in questi ultimi tempi dagli studiosi aretini, nel paesaggio di
Leonardo la veduta aerea è anche quella della carrellata cinematografica7”.
Così Carlo Pedretti. Il riferimento alle “connotazioni simboliche” non è sviluppato, ma
viene avanzata l’ipotesi che il paesaggio nel suo insieme presenti addizionate in verticale,
dal basso verso l’alto, una successione di vedute che corrispondono a diverse tappe
sovrapposte di un percorso lineare: dal ponte, ai calanchi e poi il tema della veduta aerea
che ha consentito a Leonardo di “comprimere un vasto territorio nello spazio ristretto di
un dipinto”: dove si trovano appunto: A) una strada, a sinistra; B) a destra un fiume con
la campagna circostante; C) i calanchi valdarnesi; D) le catene rocciose poste sullo
sfondo su piani diversi: una “compressione prospettica” che tuttavia, secondo il Pedretti,
risponde più ad esigenze simboliche che ad un’“accuratezza di tipo topografico”. La parte
sinistra non sembra fermare l’attenzione di Pedretti, se non il rilievo generico
dell’esistenza di una strada. L’indicazione che segnala l’esigenza “simbolica” di Leonardo
invece si perde per strada, ma in certo senso viene ripresa nella stessa monografia,
firmata da Pietro C. Marani. Lo stesso Marani viene dunque a parlare del paesaggio
retrostante nel contesto obbligato dell’identificazione del personaggio “Gioconda”. Anche
qui saremo larghi nella citazione in quanto a nostro avviso riassume in modo esemplare
la massima parte delle idee che gli specialisti hanno espresso al riguardo. Ed ecco che
cosa scrive:
“… Se questa è la lettura più corretta del dipinto, così da elevare monna Lisa del
Giocondo al rango delle donne aristocratiche e più virtuose della Firenze di primo
Cinquecento (il ritratto, dunque, visto come strumento di “escalation” sociale),
importanza relativa avranno i vari tentativi di identificare con specifiche realtà
morfologiche e geografiche il paesaggio qui raffigurato a destra (tra le proposte più
recenti, la Valle dell’Arno vicino ad Arezzo, con il ponte di Buriano), che acquista valore
6
Poiché rivestono un’importanza notevole nel nostro studio abbiamo accluso in
appendice una descrizione approfondita dei calanchi del Val d’Arno.
7
“Leonardo, La Gioconda” di Pietro C. Marani, Giunti, Art Dossier, Firenze 2003, con
la collaborazione di Carlo Pedretti per la sezione dedicata al paesaggio: “Gioconda in volo” pp. 67.
10
puramente rafforzativo della virtù del soggetto principale, anche in accordo con la
graduale trasformazione, perseguita in quasi un decennio, del ritratto da individuale a
ritratto ideale di donna virtuosa (sarebbe ben strano infatti che, di contro
all’idealizzazione del soggetto, Leonardo si fosse attenuto a un “ritratto di paesaggio”
puramente illustrativo di un luogo specifico, soprattutto se si tiene conto del fatto che i
due paesaggi, a destra e a sinistra della dama, sembrano non correlarsi tra loro,
avendo essi un diverso orizzonte e collocandosi sue due piani diversi, come due metà
separate). Leonardo potrebbe dunque, veramente, aver riutilizzato due schizzi di
paesaggio eseguiti in precedenza, l’uno, quello di sinistra, forse relativo a un paesaggio
lombardo (della Valtellina, come è stato suggerito), l’altro, a destra, riproducente un
paesaggio aretino. E anche il ponte , sulla destra, può valere come elemento di
raccordo tra il passato, o il presente, e il futuro, sottolineando il valore intramontabile
della virtù. Che questo fosse percepito come il significato reale del dipinto anche
anticamente, è confermato dal ricordo di Padre Dan che, vedendo la Gioconda a
Fontainebleau nel 1642, la definisce il «ritratto di una virtuosa Dama Italiana, e non
d’una Cortigiana (come qualcuno crede), chiamata Monna Lisa, volgarmente detta
Gioconda»8”.
Riassumendo le idee espresse diremmo che per Marani: A) il paesaggio ha
connotazioni simboliche perché in qualche modo partecipa della dignità, del rango, del
personaggio raffigurato: tra queste la più evidente è quella costituita dal “ponte”; B)
questa idea è rafforzata dal fatto che i paesaggi non sembrano correlarsi tra loro: “diversi
orizzonti”, “due piani diversi, “metà separate” e in certo senso si conferma un enigma,
forse simbolico.
Più o meno tutti gli interpreti insistono sulla fantasiosità del paesaggio. In genere si
traggono argomenti dal genio insondabile di Leonardo e si attribuisce tale disinvoltura
figurativa alle sue ricerche naturalistiche, alla sua pioneristica filosofia naturale, che
introduce le “trasformazioni” e dunque l’“evoluzione” nella natura; tuttavia non si
riescono a dipanare le incongruità che esso presenta e si finisce col dire
ingenerosamente, per un quadro su cui Leonardo “ha penato” per più di un decennio,
che potrebbe avere usato vecchi disegni … E non si può non rilevare che nelle descrizioni
analitiche sia del Pedretti che del Marani nessuno dei due si pronuncia sullo specchio
d’acqua che circonda le vette che spiccano sulla destra del paesaggio. D’altra parte,
dobbiamo dire per equanimità, questo specchio d’acqua è identificabile con sicurezza
solo se si osservano le copie della Gioconda, con l’occhio attento a quel trattino invisibile,
che come vedremo, come un tassello dimenticato, riporta ad unità lo sfondo
paesaggistico del quadro. Infatti, compiendo audacemente qualche passo in più, si
finisce per intuire che le imponenti formazioni dei calanchi valdarnesi9, ricordate dal
Pedretti e dal Marani, per loro natura molto friabili, formano come una specie di
altopiano contenitivo di dette acque, che in antico ospitavano un lago10. Non basta; solo
a partire dalla considerazione di questo ulteriore e ignorato pezzo di paesaggio è
possibile ricostruire con una certa sicurezza il significato del quadro.
8
Pietro Marani, “Leonardo, La Gioconda”, Giunti, Art Dossier, Firenze 2003, pp. 3233.
9
Di cui si offrono nell’ appendice n° 1 alcune illustrazioni fotografiche.
10
Vedi sempre l’Appendice n°1 che descrive la storia geologica dei Calanchi Valdarnesi e
dà certamente fondamento all’idea che Leonardo, profondo conoscitore dei luoghi, come
affermano gli specialisti ricordati da Pedretti, si sia ispirato ad essi.
11
Ripartiamo dunque dalla lineetta orizzontale che taglia trasversalmente le rocce
vicino alla cornice del quadro. Se si prolungasse verso destra nel senso della sua
orizzontalità passando appena al disotto della linea delle palpebre inferiori del volto si
ricongiungerebbe esattamente con la linea delle acque alla destra della figura, le quali
formano il lago che circonda le vette rocciose. Ebbene questo esercizio che apparirebbe
un poco azzardato se lo si volesse sovraccaricare di significati, viene appunto confermato
nella sua legittimità proprio dalla fortunata esistenza delle copie. Quei lembi di quadro
che sono stati asportati a destra e sinistra contenevano appunto la possibilità di
intendere la coerenza del paesaggio superando così la sensazione scomoda ed
enigmatica che la Gioconda si affacci contemporaneamente su due mondi diversi. Nelle
copie appare evidente che quel bordo dell’altipiano che conteneva le acque, a sinistra
della Gioconda, è semplicemente franato, in conseguenza dell’erosione delle pareti delle
balze.
Originale
12
Copia del Prado
Ma è franata solo una parte dell’altipiano e non tutto lo scenario alpino con le
montagne alte sullo sfondo, che all’estremo limite dell’orizzonte era comune a entrambi i
lati del quadro. E ciò si può vedere bene solo nelle copie. Sul lato sinistro dove nella
Gioconda non si vede più nulla, se non quella lineetta orizzontale evanescente, si
prolunga il lago e sullo sfondo compaiono le vette di montagna, analoghe a quelle che si
vedono a destra. Tutto ciò non è senza importanza, al contrario: è proprio da qui che
bisogna partire per decifrare l’intero quadro.
ZITTI! IL PAESAGGIO SUSSURRA ALL’UOMO
Infatti la suddetta ipotesi permette di chiederci: le acque che si sono fermate a
comporre un lago di acque più o meno stagnanti (a sinistra per chi guarda il quadro),
c’erano prima che avvenisse la frana? È lecito supporre di no. Ma è lecito formulare
questa domanda o è semplicemente un esercizio cervellotico? Rispondiamo nettamente:
sì, è lecito. Gli artisti del Rinascimento tentarono in ogni modo di svincolarsi dalla
staticità del qui ed ora intemporale, caratteristici dell’arte simbolica, evocatrice di
significati sacri, di verità eterne, che induce l’osservatore a ripercorrere con la mente, in
modo contemplativo, l’avventura del pensiero che vi è racchiusa in potenza. L’arte
moderna la svolge sotto i nostri occhi, la fa trascrescere, la descrive. Ma l’immagine
figurativa rimane nondimeno statica a differenza dell’illusione cinematografica che può
moltiplicare all’infinito i fotogrammi. Per riprodurre al meglio il dinamismo della vita, e
la storicità degli eventi, che col Rinascimento si affacciava nuovamente alla
considerazione degli uomini, essi introdussero quindi il tempo, il prima e il dopo, sia
pure ravvicinati, all’interno della concezione artistica di un evento, facendolo entrare così
nella dimensione del racconto. Forse, l’illustrazione più pregnante di questo trapasso
ideologico e sociologico, scaturita dall’esame di un’opera d’arte, la dobbiamo proprio a
Freud, quale semplice conoscitore d’arte. In un esercizio non psicoanalitico, descrisse
13
passo passo l’idea animatrice del Mosè di Michelangelo11. Ma era un trapasso già
compiuto nel modo più chiaro da Leonardo stesso nella concezione della sua Ultima
Cena. Infatti egli coglie le reazioni degli apostoli DOPO che Gesù ha pronunciato la
fatidica frase: “Qualcuno di voi mi tradirà!”. L’agitazione degli apostoli, la postura e la
gestualità di ognuno rispecchia fedelmente il proprio intimo carattere e trova la sua
giustificazione solo dopo aver chiarito l’evento che si è prodotto un attimo prima, che è
alla base di tutta la concezione della scena. Se Leonardo avesse concepito la Cena come
molti artisti suoi coevi, avrebbe dipinto un Gesù attivo, che parla e gesticola, e gli
apostoli, statici, che ascoltano compunti. Michelangelo improntò ogni dettaglio del suo
Mosé a partire della lotta interiore che egli sostenne DOPO aver visto gli Ebrei adorare il
vitello d’oro; metodo compositivo che spiega in parte il segreto dinamismo delle opere
michelangiolesche. Ma vediamo di esplicitare meglio.
Dipingere un uomo seduto o un uomo in piedi, non presenta particolari difficoltà. Più
facile ancora per chi guarda, riconoscere se un uomo è seduto o è in piedi. Se per ragioni
artistico-filosofiche invece della stasi, un artista opta per il dinamismo e sceglie di
rappresentare un’azione non ancora compiuta o in via di compimento, molto più ardua
diventa l’interpretazione. Un Re o un profeta come Mosè, carico di responsabilità
schiaccianti, rimugina di rivelare volontà divine o ha appena finito di profferire cose
tremende? Nel suo animo ribollono ancora gli elementi che devono trovare espressione
sulle sue labbra oppure il petto si è già placato e nel suo portamento residuano soltanto i
segni della tempesta? Il profeta viene colto mentre si sta sedendo o mentre si sta
alzando: è al principio o alla fine dell’azione? In un dipinto, il contesto, aiuta. Se si tratta
di una scultura molto meno: spesso il contesto non c’è, il solo personaggio lo deve
evocare. Chi ci dirà la direzione del suo movimento? Chi spiegherà che cosa sta
succedendo? Qui soccorre l’esame minuzioso dei dettagli e qui s’inserisce il lavoro del
critico. E’ ovvio che non sarà un artista di secondo rango a scegliere una situazione così
carica di ambiguità. Possono sceglierla un Michelangelo o un Leonardo, perché questa
ambiguità è la sola che consenta una pluralità di significati (che talvolta olezzano di
eresia) consegnati a quell’ambiente o a quella élite che li può recepire, sa come goderli e
tutto sommato che cosa farsene. Fosse pure la semplice conservazione. Stiamo infatti
parlando di opere e di artisti consegnati all’eternità.
Ripetiamo dunque il nostro interrogativo: le acque stagnanti a sinistra della Gioconda
c’erano prima che avvenisse la supposta frana dei calanchi?
Dando quindi per ammesso che è lecito porsi il quesito esaminiamo quindi se
l’eventuale risposta si rivela effettivamente fruttuosa: supponendo che non si fosse
verificata la frana quale aspetto assumerebbe il paesaggio? A questo punto le acque
ritornerebbero là da dove sono partite, e cioè dalla sommità delle alture dell’altipiano. E
che cosa mostrerebbero d’interessante al loro posto? Dobbiamo ripetere lo sforzo che
fece il regista Cecil de Mille quando ideò la scena della separazione delle acque del Mar
Rosso per lasciare il passo a Mosè e al suo popolo. Il regista le divaricò fino a lasciar
scoperti i fondali del mare dove i viandanti s’incamminarono restando così coi piedi
all’asciutto. Leonardo non ci lascia soli in questa impresa immaginifica poiché queste
acque non hanno invaso l’intero paesaggio che circonda il lato sinistro della Gioconda.
Possiamo osservare infatti che all’altezza della sua spalla sinistra c’è un monte di pietra
grigia, in tutto e per tutto uguale per forma a quello che sta alla destra del quadro (l’altro
lato “differente” e “opposto” di paesaggio), ma solo un poco più grande, perché più vicino
11
Dimostrazione che ha irritato gli specialisti, ma non il De Tolnay, un gigante della
critica d’arte che, anzi, ha fatto proprie le sue osservazioni.
14
a chi guarda12, che né il Pedretti, né il Marani hanno trovato degno di menzione. Poi dalla
punta dello stagno si diparte una strada a forma di S rovesciata che finisce all’altezza del
braccio della Gioconda e prosegue presumibilmente dietro le spalle. Nella sua seconda
ansa la strada si sdoppia e sembra correre su due argini. La resa pittorica non chiarisce
molto bene ciò che Leonardo ha rappresentato, ma siccome l’ambiguità non è mai
casuale in Leonardo, altrimenti non esisterebbe un “enigma Gioconda” si deve tentare di
esplicitare il più possibile che cosa rappresenti questa “strada”. L’impressione che ne
abbiamo è che questo tracciato sinuoso vicino al monte, sia, in realtà, il letto di un
torrente o di un fiume, il quale proseguendo il suo corso si trovi imbrigliato tra gli
argini13 che costituiscono la seconda ansa della “strada”, che si perde dietro la schiena di
Monna Lisa. Ma non è lecito supporre che, prima della frana e l’invasione delle acque,
questo corso sinuoso, proseguisse anche in senso opposto, in direzione dell’orizzonte,
come il suo omologo di destra e come suggerisce la similarità dell’immagine curvilinea?
Infatti l’identità dei due monti, ci induce a ipotizzare una sostanziale specularità, così
come la “sinuosità” di entrambi i tracciati, strada o fiume a secco che siano. A
sorprenderci per un momento, mentre stiamo soppesando questa ipotesi, chini con la
lente vicino al petto della Gioconda, lampeggia il sorriso ironico di un volto che ci
osserva … . Sotto incantesimo, che dura poco più di un attimo, ci sentiamo di formulare il
sospetto che i paesaggi non siano correlati tra loro non perché siano diversi e opposti, ma
perché sono identici, cioè erano identici, ed è questo che definisce la loro fondamentale
separatezza e discontinuità in un dipinto realistico; che invece appartiene ad una
simmetria figurativa esclusivamente simbolica. Sono dunque identici, anzi erano identici
prima del crollo, sebbene quello di sinistra soffra di un leggero décalage (uno scarto, uno
spostamento in basso) dell’uno rispetto all’altro, proprio per indicare, diremmo, in modo
sub liminale, l’idea del cedimento, della frana, della Caduta. E dettaglio più sottile, che
lasciamo alla discrezione del lettore di prendere in considerazione: se realmente
Leonardo ha voluto suggerire l’antico letto di un torrente ora interrotto dallo
sbarramento dei materiali di riporto generati dalla frana, e ormai prosciugato, non si può
forse coglierne l’intenzione nelle pennellate da miniaturista14 che lambiscono la roccia
della prima ansa della strada15 come i residui fangosi e ormai secchi di un’antica
limacciosa acqua scorrente?
PARENTI SERPENTI.
Comunque sia: tracciato di sentiero, di strada, di torrente o di fiume: che cosa
otteniamo dall’osservazione dei soli caratteri formali, superficiali, geometrici del quadro?
Se lo traducessimo cioè, in un semplice disegno? Avremmo sia a destra che a sinistra gli
stessi elementi: monti pressoché identici, salvo che per le dimensioni e soprattutto due
tracciati sinuosi paralleli all’asse centrale del quadro, rappresentato da Monna Lisa, che
è inserita in una struttura geometrica a forma di triangolo, in cui la verticale, l’altezza del
12
C’è qui una evidente dissimmetria che cercheremo di chiarire strada facendo.
13
Ci sembra di poter dire “argini” in quanto il sentiero pittoricamente si sdoppia in due
pennellate più chiare.
14
Poiché Leonardo era anche un “miniaturista” di paesaggi, basti osservare
l’Annunciazione.
15
Quella che sta più in alto.
15
triangolo, funge da asse centrale di tutta la composizione16. Riflettiamo: che cosa
possono voler dire due tracciati sinuosi disposti parallelamente uno all’altro e disposti in
modo verticale? Non ricordano forse per analogia il Caduceo di Ermete? Il Caduceo,
emblema di Hermes (Mercurio) è una bacchetta intorno alla quale si arrotolano in senso
inverso due serpenti. Nella Gioconda si trovano separati ma affiancati all’Asse centrale
del quadro. Come si vede nella figura sottostante la loro immagine è perfettamente
simmetrica.
Che cosa sappiamo del Caduceo di Ermes? Rivolgiamoci ad una fonte profana: il
Dizionario dei Simboli di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant tradotto e edito in Italia da
Rizzoli. “Il Caduceo – vi si dice – è uno dei simboli più antichi (…). Il serpente ha un
doppio aspetto simbolico – benefico o malefico – di cui il caduceo rappresenta
l’equilibrio; questo equilibrio e questa polarità sono riferiti soprattutto alle correnti
cosmiche, raffigurate in modo più generale dalla doppia spirale. “Mercurio” dice San
Martino, “mantiene l’equilibrio tra l’acqua e il fuoco”; si tratta anche dell’equilibrio,
dice Nicolas Flamel “del Mercurio e dello Zolfo alchimistici”. La leggenda del caduceo si
riferisce chiaramente al caos primordiale (due serpenti che si combattono) e alla sua
polarizzazione (separazione dei serpenti da parte di Hermes);
quanto
all’arrotolamento finale intorno alla bacchetta, esso rappresenta l’equilibrio delle
tendenze contrarie intorno all’asse del mondo, giustificando quindi la definizione del
caduceo quale simbolo di pace. Hermes è il messaggero degli dei e anche la guida degli
esseri nei cambiamenti di stato, cosa che ben corrisponde, come osserva Guénon, al
senso “ascendente” e quello “discendente” delle direzioni raffigurate dai due serpenti17.
Questo brano è ricco d’implicazioni. Esso contiene in sé una sorta di storia del mondo,
di una filosofia naturale della Creazione: rinvia al Caos primordiale. Un raggiunto
16
La forma del triangolo non è casuale, rientro nello spirito geometrizzante di tutta la
pittura del suo tempo, a far data dalla invenzione della prospettiva. E’ stata usata da Leonardo
nel modo più espressivo e spericolato in un quadro quasi altrettanto famoso: “Sant’Anna, la
Vergine e il Bambino” del Louvre.
17
Dizionario dei Simboli di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Rizzoli, 1986, p.166.
16
equilibrio che deriva da una polarità (tendenze contrarie), una polarità costituita da un
senso ascendente ed un senso discendente intorno ad un asse.
Torniamo al nostro quadro. Abbiamo visto che a sinistra possiamo ragionevolmente
supporre rappresentato l’esito di una frana dell’altopiano: ciò ci consentirebbe di
considerare provvisoriamente tale frana una metafora del piano discendente; a destra,
per contro, che cosa avremmo a significare il piano ascendente che completerebbe e ci
confermerebbe nella nostra supposizione? Il ponte? Marani che abbiamo citato
diffusamente parla effettivamente del ponte come componente simbolica del quadro18.
Ma vi è di più. Affidiamoci nuovamente al nostro Dizionario, vera miniera di Sapere delle
Tradizioni più ancestrali. “Il simbolismo del ponte19 – vi si dice - che permette di passare
da una riva all’altra è uno dei più universali. E’ il passaggio dalla terra al cielo, dallo
stato umano allo stato sovrumano; dalla contingenza all’immortalità, dal mondo
sensibile al mondo sovrasensibile (Guénon). Molte leggende dell’Europa orientale
parlano di ponti di metallo attraversati a cavallo: Lancillotto traversa un ponte-spada
il ponte Chinvat, il divisore della tradizione iraniana, è un passaggio difficile, largo per
i giusti, “stretto come una lama di rasoio per gli empi”: questi ponti stretti o taglienti
sono talvolta ridotti a fragili liane. L’antico Oriente, la Visione di San Paolo, le
Upanishad, parlano di simboli analoghi. (…) E’ interessante notare che il titolo di
Pontefice, che fu quello dell’imperatore romano e che permane oggi al Papa, significa
costruttore di ponti. Il Pontefice è ad un tempo costruttore e ponte, essendo un
mediatore tra cielo e terra. (…) “Che chiunque è capo sia ponte”. (…) [E’ un aforisma che
(NdR)] si ritrova anche in bocca a Re Artù il quale, in quanto re, era l’intermediario
perfetto, dunque il ponte fra cielo e terra”.
Ci sentiamo dunque confermati nel ritenere che il ponte, rappresentante anch’esso del
simbolismo della Tradizione iniziatica, sia una valida conferma del senso ascensionale
che verrebbe rappresentato a destra della Gioconda e che culminerebbe a questo punto
con le vette delle montagne giovani e innevate che emergono all’estremo limite
dell’orizzonte. Dunque il simbolismo ermetico del Caduceo verrebbe confermato
sicuramente per la sua metà di destra, nella sua valenza ascensionale. Potremmo
chiedere un ulteriore conforto simbolico alla metafora del piano discendente
rappresentato dal supposto crollo fisico, dove campeggia l’esito acquatico della frana dei
calanchi valdarnesi? Sì. I contenitori simbolici, dove, in antico, si effettuava
l’accumulazione del sapere ci offrono il tema delle “Acque superiori e delle acque
inferiori”: già nella sola enunciazione pare rivelare la sua pertinenza. Vediamo infatti nel
dipinto due specchi d’acqua collocati su due diversi piani rispettivamente superiore e
inferiore, separati ancora dall’asse centrale dell’immagine dove destra e sinistra, hanno
simbolicamente la loro valenza. Il solito dizionario ne darà contezza: “I significati
simbolici dell’acqua si possono ridurre a tre temi fondamentali: sorgente di vita, mezzo
di purificazione, centro di rigenerazione. (…) . Le acque, che rappresentano la totalità
delle possibili manifestazioni, si separano in acque superiori, che corrispondono alle
possibilità informi, e in acque inferiori, che corrispondono alle possibilità formali (…).
La nozione di acque primordiali, di oceano delle origini, è quasi universale (…). Nelle
tradizioni ebraica e cristiana l’acqua simboleggia innanzitutto l’origine della creazione.
La lettera men (M) ebraica simboleggia l’acqua sensibile, madre e matrice, fonte di tutte
le cose, essa manifesta il trascendente e deve perciò essere considerata una ierofania,
una manifestazione del sacro. Tuttavia, come avviene per ogni simbolo, l’acqua
18
Vedi più sopra.
19
Dizionario dei Simboli, p. 238.
17
presenta anche un’ambivalenza totale e a tutti i livelli, come del resto avviene per tutti i
simboli. E’ fonte di vita e fonte di morte, creatrice e distruttrice.20.
Come i serpenti avvinghiati, separati da Ermete, rappresentano il Caos primordiale, e
poi attorcigliati attorno al bastone, la raggiunta armonia, così le acque primordiali
corrispondono al caos della “totalità delle possibili manifestazioni” le quali separate e
riordinate si suddividono in ‘acque superiori’ che contengono le idee (“le possibilità
informi”), e in ‘acque inferiori’ che generano i frutti, le manifestazioni (formali21),
componendo così l’armonia pulsante del creato ermetico. Al centro la Mater, la grande e
nobile Signora, madre e matrice, garantisce la circolarità del trapasso dalle idee, dai
semi, ai frutti (movimento discendente), dai frutti ai semi (movimento ascendente). Una
circolarità che nel Caduceo è raffigurata nell’Asse attorno al quale si genera il nuovo
equilibrio a partire dal viluppo dei serpenti. Abbiamo rilevato come i soggetti naturali, i
serpenti, i due specchi d’acqua, rimandino alla simbologia ermetica del Caduceo e delle
“acque primordiali”, ai quali spetta di illustrare la tensione esistente tra ogni polarità. Ed
invero la concezione di un universo strutturato per polarità costituisce il principio
ordinatore di quel Sapere antico che prende il nome di Tradizione. Una tensione che a
seconda della prospettiva adottata può apparire sia oppositiva che complementare, ma
mai totalmente irriducibile. Così da un massimo ad un minimo di armonia possiamo pur
sempre rinvenire una “circolarità”, il ritmo vivente e pulsante, ora strozzato ora
scorrente, del Tutto.
Ciò richiama evidentemente la formula celeberrima della filosofia ermetica, che ha
per essa il valore di un assioma: “Ciò che sta in basso è come ciò che sta in alto”. Formula
che si completa con un enunciato che evoca il rapporto tra microcosmo e macrocosmo,
quando per microcosmo s’intende l’uomo, e per macrocosmo, l’universo22.
Marsilio Ficino, filosofo, sacerdote e medico, ai tempi di Lorenzo il Magnifico,
procedendo al ripensamento di tutta l’eredità filosofica antica, diede particolare
significato e rilievo alla tradizione ermetica. Ripensamento che si proponeva il non facile
compito di sintetizzare non meno di tre filoni di pensiero: quello cristiano, quello greco
fino ai filosofi neoplatonici del III – IV secolo dopo Cristo e la Sapienza Ermetica, il cui
profeta, Ermete Trismegisto, era un sapiente egizio.
FILOSOFIA D’EGITTO
20
Dizionario dei Simboli, p. 6.
21
In questo contesto “formali” sta per “reali”, in quanto ciò che assume forma trapassa
dal piano invisibile, virtuale, dell’idea, del seme, alla forma visibile, e quindi reale e concreta, per
es. della pianta.
22
Celebre è a questo riguardo l’incipit del Manifesto di Pico: l’ “Orazione sulla dignità
dell’uomo”.
18
Come filosofo Ficino si espresse soprattutto nelle opere “Della cristiana religione”,
“Teologia platonica”, e i “Libri de Vita” oltre che in vari commentari a Platone e a
Plotino. Nel suo pensiero riconosciuto unanimemente come una forma di neoplatonismo
cristianizzato, si possono isolare come concetti cardine: a) un nuovo concetto di filosofia
come “rivelazione”; b) il concetto di anima come “copula mundi”; c) una rilettura in
senso cristiano dell’ “amor platonico”; d) una difesa della “magia naturale”, consegnata
nel trattato i “Libri de vita”, che gli valse l’accusa di eretico.
Ermete Trismegisto sosteneva che la filosofia nasce come “illuminazione” della mente.
Ciò costituisce il punto di incontro più saldo tra filosofia e religione. L’attività filosofica
consiste nel disporre e il piegare l’anima in modo che diventi intelletto e accolga la luce
della divina rivelazione, e perciò coincide con la stessa religione. Filosofia e religione
sono ispirazione e iniziazione ai sacri misteri del vero. Ermete Trismegisto, Orfeo,
Zoroastro, sono stati ugualmente “illuminati” da questa luce, e sono, quindi, profeti.
Pertanto, la loro opera è un messaggio sacerdotale, proteso alla divulgazione del vero. Il
fatto che questi “prischi teologi” abbiano potuto cogliere una medesima verità (cui
attinsero, successivamente, Pitagora e Platone), secondo Ficino, si spiega in funzione del
Logos, ossia del Verbo divino (di cui Ermete Trismegisto addirittura parla
espressamente), che è uguale per tutti. La venuta di Cristo, il farsi carne del Verbo, segna
il completamento di questa rivelazione. Pertanto, Ermete, Orfeo, Zoroastro, Pitagora,
Platone (e i platonici) potevano perfettamente accordarsi con la dottrina cristiana, in
quanto derivanti da un’unica fonte: il divino Logos.
Ficino concepisce la struttura metafisica della realtà, secondo lo schema neoplatonico,
come una successione decrescente di gradi di perfezione, che egli identifica nei seguenti
cinque: Dio, angelo, anima, qualità e materia. Ora, i primi due gradi e gli ultimi due sono
nettamente distinti fra loro, come mondo intelligibile e mondo fisico. L’anima
rappresenta il “nodo di congiunzione”, che ha le caratteristiche del mondo superiore e,
insieme, è capace di vivificare quello inferiore.
Ficino ammette un’anima del mondo, anime delle sfere celesti e anime degli esseri
viventi, ma è soprattutto all’anima razionale dell’uomo che egli rivolge il suo interesse. Il
posto mediano dell’anima è terzo, sia percorrendo i cinque gradi della gerarchia del reale
dal basso verso l’alto, sia viceversa, come mostra questo schema:
1
↓
DIO
↑
5
2
↓
CIELO (intelletto) ANGELO (idee/mente)
↑
4
3
↓
UOMO – ANIMA (copula mundi)
↑
3
4
↓
NATURA (ragioni) qualità (semi)
↑
2
5
↓
(corpi) MATERIA (forme)
↑
1
In particolare, Ficino rileva l’importanza dell’anima con la sua funzione di
“intermedio” (medium - mediatrice) di tutte le cose. Essa si inserisce fra i corpi sensibili,
senza essere corporea né sensibile; è dominatrice dei corpi, ma aderisce al divino. E
questo, dice Ficino, è il miracolo massimo della natura. Essa, in un certo senso, include
in sé tutte le cose, perché ha in sé le immagini delle cose divine da cui tutte le altre
dipendono, e costituisce il nesso che le collega, e quindi, essa è “il nodo e la copula del
mondo”.
19
Strettamente connessa alla tematica dell’anima è la teoria dell’ “amor platonico”, (o
“amor socratico”), in cui l’Eros platonico (inteso da Platone come forza che, alla visione
della bellezza, eleva l’uomo all’Assoluto, ridando all’anima le ali per ritornare alla sua
patria celeste) si sposa all’amor cristiano. Nella sua più alta manifestazione, per Ficino,
l’amore coincide con la reintegrazione dell’uomo empirico con l’uomo archetipico che
giace nell’Intelletto di Dio, resa possibile attraverso la progressiva ascesa nella scala
d’amore, che costituisce dunque una sorta di “indiamento”: un farsi eterno nell’Eterno.
“Certamente – scrive Ficino nel Commentario al Convito – noi siamo qui divisi e tronchi:
ma allora congiunti per Amore a la nostra Idea ritorneremo interi: in modo che apparirà,
che noi abbiamo prima amato Dio nelle cose, per amare poi le cose in lui: e che noi
onoriamo le cose in Dio, per reintegrare noi soprattutto: e amando Dio, abbiamo amato
noi medesimi”. La teoria dell’ “amor platonico” ebbe larga diffusione in Italia23, dove il
terreno era stato preparato dalla diffusione del “Dolce stil novo” e da Dante in
particolare, di cui gli umanisti soprattutto furono attentissimi studiosi ed estimatori.
La rinascita di Ermete operata dal Ficino però in definitiva non faceva che dare una
veste dotta e aggiornata nel suo ricercato e frondoso24 manto filosofico, ad un sapere
ermetico antichissimo che veramente si può far risalire agli egizi, grandi costruttori,
versati nella medicina e maestri di sapienza per tutti i popoli del Mediterraneo, Grecia e
Roma compresi. Conservato e tramandato fino a tutto il Medioevo, era un sistema di
idee espresso nei termini di un simbolismo artigianale come quello alchimistico e
muratorio, vissuto soprattutto all’interno e all’ombra delle Corporazioni di mestieri.
Storicamente, il suo emergere in forma palese a contendere il primato dell’ideologia
religiosa del tempo, coincise con la rinascita dei Comuni, delle città in conseguenza della
rinascita dei commerci, della produzione e delle arti. Una straripante rinascita
economica che portò inevitabilmente ad una rivoluzione interna alle Corporazioni; una
rivoluzione che oggi diremmo – strutturale e culturale - e da cui derivò anche la nascita
di un nuovo ceto di intellettuali, legati altresì alle nuove funzioni amministrative e
statuali di cui Comuni e Città, affrancandosi sempre più dalla Chiesa e dall’Impero,
necessitavano.
Nel primo Umanesimo queste trasformazioni com’è noto, portarono ad una
rivalutazione del lavoro terreno, trovando il suo coronamento nel lavoro degli artigiani e
degli “artisti” impegnati a fare la “nostra” città. L’ideale di vita divenne la vita attiva e
questa era “esaltata” da umanisti e dagli stessi uomini politici. Giannozzo Manetti25,
cancelliere, celebrava lo splendore di Firenze come documento della nobiltà dell’uomo in
questi termini: “le statue, le costruzioni del Brunellesco, i quadri, i poemi, i palazzi
sontuosi, le attività mercantili, le grandi ricchezze, ecco le nostre opere. Nostre, e cioè
umane perché fatte dagli uomini, sono tutte le cose che si vedono, tutte le case, i
villaggi, le città, e tutte le costruzioni della terra … Sono nostre le pitture, nostre le
sculture, le arti, le scienze; nostra la sapienza …; nostre tutte le infinite invenzioni,
nostra opera tutti i linguaggi e le lettere26”. L’uomo assurgeva a microcosmo,
spiritualmente, praticamente: creativamente.
23
Basti citare il Pico, il Bembo, il Castiglione, Leone Ebreo.
24
Gli aggettivi sono del Garin.
25
Eugenio Garin, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari, 1973, p. 278.
26
Ibidem. p. 144.
20
Il Ficino, sentì l’esigenza di adattare questi orgogliosi proclami alle esigenze di una pia
filosofia, ricercando una fruttuosa integrazione con la vita contemplativa, e trovava una
sintesi nell’asserzione che la grandezza dell’uomo, di cui la magnifica Firenze era
testimonianza, stava nella sua essenza divina, nel suo essere intimamente,
sostanzialmente, un dio. Sarà, magari, un dio caduto, ma pur sempre un esule in terra,
memore di una patria lontana, a cui deve tornare, a cui non può non tornare.
Questa valutazione dell’uomo sarà quella che troveremo costante, fuor d’esaltazione,
ma palpitante, nei simboli ermetici.
Nel Caduceo, Ermete guida infatti gli esseri nei cambiamenti di stato. Le Acque,
anch’esse, purificano, sono luogo di rigenerazione; il Ponte, favorisce il passaggio dallo
stato umano allo stato sovrumano. E’ tutto un accordo di simboli che circondando la
Gioconda irradiano dal suo volto il motto dell’oracolo: “Conosci te stesso”, cioè scopri la
scintilla divina che è in te.
“Nel 400 – scrive il Garin – la nuova immagine dell’uomo acquista consapevolezza e
dimensioni caratteristiche sotto il segno di Ermete Trismegisto, e si viene modellando
sulle linee già decisamente fissate nei libri ermetici27”. La tesi del Ficino è quella, scrive
ancora Garin: “di una perenne rivelazione del Verbo, del Logos, di una pia philosophia
tramandata dai poeti antichissimi e dalla Bibbia, accolta da Pitagora e da Platone,
approfondita da Plotino e dagli scritti attribuiti a Dionigi l’Areopagita. E’ questa
appunto la teologia platonica, intesa come tipo esemplare di una docta religio, di una
conoscenza di sé attraverso la conoscenza di Dio, e, viceversa, di una conoscenza di Dio
attraverso la conoscenza di sé28”. Come spiegherà un poeta e filosofo ficiniano ed
ermetico, Bernardino Lazzarelli, la felicità suprema, paradisiaca, che è lo scopo della
nostra vita, è tutta nella conoscenza di sé come conoscenza di Dio, o meglio del Logos
ritrovato in noi stessi, nella conversione di ogni nostro desiderio dall’esterno all’interno,
per ottenere la quiete nella intima vita del Verbo vivente in noi.
Si tocca qui un luogo particolare, ma carico di importanza e di significati: il tema della
“conversione”, senza affrontare il quale non è praticabile la “conoscenza di se stessi”. La
“conversione” è l’inevitabile corollario concettuale dell’idea di un percorso umano che si
percepisce e si descrive come una discesa e allontanamento da Dio, unito all’esigenza
complementare di una successiva risalita verso Dio, essendo il punto di congiunzione
obbligatorio dei due movimenti. Che è un luogo cardine di tutta la filosofia e di tutta
l’esperienza umana, codificata o no dalla Filosofia, dalla Teologia, dalla Sapienza
Ermetica o dal senso comune: poiché alla fatalità della Caduta si contrappone la
necessità della Risalita: una necessità/libertà per chi tende alla propria salute o salvezza
o mera felicità terrena. Oppure rigettando russoianamente la fatalità della Caduta e
affermando coraggiosamente che l’uomo nasce libero, il problema rimane pur sempre
quello di prospettare una liberazione, una risalita all’innocenza iniziale, poiché l’uomo si
ritrova e persiste nel rimanere pur sempre in catene. Del problema della vera sostanza
della libertà umana si tratta e di come raggiungerla: teologicamente, filosoficamente o
politicamente.
SUPERSTIZIONE, FILOSOFIA O SCIENZA?
27
Ibidem. p. 144.
28
E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Bari, 1978, p. 108.
21
Vogliamo però fare una piccola sosta a beneficio della serenità del lettore, affinché
continui a seguirci sia pure cautamente lungo il nostro itinerario, per dichiarargli che
non intendiamo servire di soppiatto una inattesa e oscura immagine di Leonardo, tutto
simbologia, magia e filosofia, a detrimento di quella che pare essere, ed è, una tra le sue
glorie principali: quello di contendere il primato a Galileo, quale fondatore del metodo
sperimentale. Il nostro proposito semmai andrà solo nella direzione di integrare l’idea
che ci facciamo di questo artista universale con qualche elemento ulteriore.
Leonardo era, come ognuno, uomo del proprio tempo e non poteva non accogliere e
assimilare l’eredità che gli veniva consegnata: solo così poteva utilizzarla, e saggiandola,
criticarla. D’altra parte, che senso avrebbe ignorarla: sarebbe quanto meno irrispettoso
nei confronti del suo conclamato genio. E sarebbe tanto più sciocco quanto più si
credesse che il neoplatonismo ficiniano confliggesse con un approccio insieme
pragmatico e metodico alla conoscenza. Per quanto curioso o strano possa apparire, ciò
non risponderebbe affatto a verità. Lo ha evidenziato molto bene il Garin che osservava a
questo riguardo: “Alla radice di gran parte della scienza del Rinascimento resta,
sottinteso il presupposto, dal Ficino messo in chiara luce, di una corrispondenza perfetta
fra mente umana e realtà attraverso la matematica, in cui si rispecchia esemplarmente il
ritmo preciso con cui Dio ha creato l’universo (numero, pondere et mensura). Questo
sottinteso pitagorico-platonico, di una specie di armonia prestabilita fra mondo e uomo,
fondata sul platonico Dio geometrizzante, è comune così a Leonardo, “omo sanza
lettere”, come a Galileo, nemico dei “trombetti” ripetitori dell’antico, ma
dogmaticamente sicuro del fatto che Dio ha scritto l’universo in caratteri matematici29”.
Porre uno iato incolmabile tra gli uomini dediti all’Arte, al Lavoro e alla Scienza, venuti
prima o dopo Cartesio e Galileo, come pare acquisito sulle orme degli assidui cultori di
filosofia della scienza, rispecchia, a nostro modo di vedere, una deformazione
intellettualistica di stampo scolastico, che confonde la storia della scienza con
l’escogitazione e la fondazione di dicotomie adatte solo alla celebrazione del metodo
positivo. Tanto che, sinceramente, vorremmo chiedere a un rappresentante di costoro:
vogliamo negare a un Brunelleschi e alle anonime maestranze che elevarono la Cupola
del Duomo, sicure conoscenze sperimentali? una cupola considerata allora come oggi un
miracolo d’arte e d’ingegneria! (E la stessa domanda varrebbe in riferimento ai
costruttori degli acquedotti del mondo romano). L’imbroglio a cui soggiace l’esaltatore
del metodo scientifico che storce il naso di fronte alla scienza antica intrisa di
superstizione, consiste nel dimenticare che l’uomo è costretto ad acquisire conoscenze
certe, sperimentali, perché, lo voglia o no, (detto marxianamente) è sottomesso alla
produzione e riproduzione della sua esistenza. Ma la Metodologia in sé, che venne
definita a posteriori, e cioè da Galileo in poi, anche se ha impresso al processo
conoscitivo una velocità mai vista prima, non vale come criterio assoluto di giudizio per
decidere della consistenza delle conoscenze, del sapere accumulato nei millenni, tradotto
e conservato in forme più o meno ingenue per essere tramandato.
La riproducibilità delle conoscenze prima di essere garantita e certificata e omologata
dagli alambicchi e dalle provette di laboratorio è garantita dal lavoro e dalla tecnologia
del lavoro che si è sviluppata in ogni Civiltà, ed ha la sua certificazione inequivocabile nei
suoi monumenti30.
29
Ibidem, p. 212.
30
22
Ma d’altra parte, questa Metodologia formatasi in parallelo con l’evoluzione delle
scienze fisico-matematiche nella costruzione di un universo meccanico, va fiera tutt’ora
di aver respinto, escluso e spezzato irrimediabilmente le “scienze dello spirito31” dalle
“scienze della natura”. Un parto, una soluzione della modernità che ha lacerato il mondo
del Sapere umano in due campi contrapposti e irriducibili e perciò disumanizzanti, che
hanno il loro oggettivo rispecchiamento nella scienza utilitaristica e nelle ideologia
religiosa: cioè uno scadimento della spiritualità, da un lato a superstizione volta
all’imbonimento del volgo; dall’altro a etica (protestante) del lavoro matrice della lupa
capitalistica: una creatura cui si opposero fino alla morte Giordano Bruno, Tommaso
Campanella e altri molti, e di cui l’oggi può valutare appieno la parabola e la bellezza.
CONVERGERE VERSO L’ANIMA DEL MONDO:
luce, bellezza, amore, gioia …
Ritorniamo dunque ai misteri di quella filosofia che fu anche quella di Leonardo,
questo lavoratore infaticabile dedito alla scienza, alla tecnologia, all’arte, ai sogni e alla
bellezza, di cui la Gioconda è una simbolica traduzione.
Parafrasando Ficino32, conoscere, e quindi ascendere alla luce di Dio, è vedere ogni
aspetto della realtà come momento, o tappa, grado, dell’unitaria serie del tutto; risalire
dal raggio al centro, secondo l’antica immagine; cogliere nelle cose l’insufficienza loro
per giungere così alla divina sufficienza. Poiché ogni grado dell’essere è “specchio” di
Dio; ma ogni grado, se vi si sosta, ci si dimostra imperfetto e ci rimanda ad altro: le cose
a noi stessi, noi stessi a Dio. Unità e gradualità del tutto sono temi in Ficino strettamente
congiunti, e formano la base di quella visione dei vari simboli , aspetti o specchi della
divinità. D’altra parte i singoli gradi della serie delle cose si dispongono secondo una
convergenza verso l’Unità piena, partendo dalla corporeità, come quantità pura per
procedere, attraverso la qualità, l’anima, l’angelo, fino a Dio. Convergenza, conversione,
verso l’Unità, che sola spiega la struttura del mondo, articolato in un ritmo musicale
pulsante mediante allontanamento e avvicinamento. Siccome l’unità numerica è
dovunque presente in tutti i numeri, e il punto in tutte le linee, così anche quella divina
Unità, rimanendo in sé indivisibile, è ugualmente presente dovunque a tutti gli spiriti e a
tutti i corpi, e ugualmente lega e connette l’universo. E perciò stesso tutte le cose in una
mutua convenienza convergono a un unico fine, essendo guidate da un solo principio. E
come tutti i corpi si possono ricondurre a un solo sommo corpo che tutti li muove, così
tutti gli spiriti a un solo supremo spirito che tutto abbraccia, e che i corpi vivifica e guida
mediante spiriti a sé soggetti. “Simile a Dio”, unificante cioè, ma non unità raggiunta, è
l’anima, la quale ha veramente questa funzione: di collegare, di restituire. Posto Dio al di
là, l’anima sola può esser partecipe, per l’ambigua sua costituzione, dei termini estremi
Tale certificazione verrebbe meno, se, per esempio, case, templi, palazzi delle civiltà
appartenenti all’Evo antico e all’Evo Medio rischiassero di crollare in ogni momento e senza
preavviso al suolo, come accadde alle costruzioni dell’architetto Numerobis di Alessandria
d’Egitto, durante la visita dei galli armoricani, ai tempi di Asterix e Cleopatra.
31
Così vennero chiamate almeno dai tempi di Max Weber.
32
Con la guida di Eugenio Garin …
23
della realtà, connettendo ciò che più è simile a Dio, come l’angelico spirito puro, a ciò che
ne è più lontano, come la materia elementare.
Grazie all’onnipresenza dell’Anima Mundi sia nel macrocosmo stellare e terreno che
nel microcosmo umano, come anima tout court, può attuarsi la conversione umana, la
quale dalla esteriorità visiva, conoscitiva, impigliata nei limiti delle cose, andando al di là
del limite, riorienta la volontà, per risalire alla sorgente. Ma la conversione, per attuarsi,
ha bisogno di amore, di fede. Ora che cosa accende l’amore? la fede? la forza, l’energia
che è in grado di dare un’altra direzione alla nostra volontà? E’ la bellezza! La bellezza
riposta in ogni espressione elevata che si rifrange nella tripartizione dell’anima umana: il
pensiero, la volontà, il sentimento: il Vero, il Buono, il Bello: la dialettica, l’amore, l’arte.
Alla luce di questa triade, Marco Vannini illustrando l’antico pensiero neoplatonico,
spiega:
“La nostalgia dell’origine, la tensione verso l’Uno, l’esigenza di liberazione e di
salvezza sono presenti – dice Plotino - sia in «coloro che dormono», sia in quella
regione dormiente dell’uomo che noi oggi chiameremmo inconscio. Occorre però che
l’anima ascolti questo richiamo, lo coltivi dentro di sé e dia uno spazio sempre
maggiore a quelle attività che costituiscono le vere e proprie «vie del ritorno» all’Uno.
Esse sono l’arte, l’amore, la dialettica. “L’arte è il momento in cui le cose si presentano
come oggetto di contemplazione pura, disinteressata, priva della contaminazione con
l’utile. Tutto il mondo sensibile è, in effetti, simbolo e messaggero del mondo
intelligibile: artista è colui che sa decifrare il simbolo e intendere. Si tratta di vedere le
cose non come meramente sottomesse alle leggi della natura e al criterio dell’interesse,
ma come rivelazione del bello che nel sensibile si annuncia. Ancora in senso platonico,
infatti, il bello è il manifestarsi sensibile dell’idea, dell’intelligibile puro. E siccome l’idea
è riflesso dell’Uno e all’Uno rimanda, già la contemplazione del bello conduce verso
l’essere, al di sopra del mondo delle apparenze. Anche l’amore, nel senso del Convito
platonico, costituisce una «via del ritorno» all’Uno. Certamente esso inizia con il
desiderio del bello sensibile, ma questo conduce l’anima sempre più in alto, dal
desiderio del possesso alla contemplazione dell’idea: ciò avviene, per lo meno, se è
amore grande e nobile. Se invece è volgare e inferiore, esso rischia di trascinare
l’anima nel territorio oscuro del molteplice, ove si fatica a ritrovare la strada verso
l’origine. Occorre perciò che l’amore, come l’arte, sia sempre diretto dalla vigile
presenza della razionalità, che sola è in grado di elevarsi dal sensibile all’intelligibile,
fino a riconoscerne l’unità organica. Da questo punto di vista la dialettica costituisce la
scienza suprema e la «via del ritorno» per eccellenza. (…) Mediante la dialettica
l’anima scioglie i legami temporali che la tengono avvinta alle cose terrene, elevandosi
alla contemplazione dell’essere, dove non esiste più il tempo. Il tempo infatti non è altro
che la dimensione dell’anima legata alle cose, e scompare appena essa se ne distacca: il
presente è già l’eterno per l’intelletto, che è, appunto, senza tempo, eterno. Perciò la
dialettica produce da un lato l’oblio, ossia attenua la memoria delle cose terrene,
dall’altro risveglia l’anamnesi, ossia il ricordo della verità eterna, dell’origine e del fine
del nostro cammino33”.
AL CENTRO DELL’ANIMA … fino alla giocondità
33
Marco Vannini, Storia della mistica occidentale, Mondadori, 1999, p. 78.
24
Forti di questa chiarificazione plotiniana, rifacciamoci ancora alla lettera del nostro
Ficino. Lettera che non possiamo trascurare perché è espressione, come vedremo, che
dà forma e contenuto ai simboli che allora suggestionarono le menti degli artisti.
Constatiamo allora che la conversione consiste in una “crisi” per cui “la chiarità visiva
(la bellezza) accende il caldo d’amore, e lo status diviene circuitus. “Mal d’occhi” è inizio
d’amore, dice Ficino, quando l’oggetto cui noi ci volgiamo si fa di passivo attivo, e per la
comune natura degli esseri risponde alla nostra azione con la sua azione, che è “un certo
tiramento dell’una cosa all’altra per similitudine di natura”; come quando l’occhio
dell’amante fisso in quello dell’amata ne è vinto, e il cacciatore diventa preda. Questo
produce amore: ci riduce da attivi, o almeno apparentemente attivi, in passivi; in umili e
devoti servi. “Il Sole volge inverso sé fiori e foglie: la Luna muove l’acqua, e Marte i venti
… Così ciascuno è tirato dal suo piacere”. La nostra salute consiste, nel lasciarci vincere
da Colui che è vera bellezza, e, divenuti suoi devoti, ritrovarci attraverso il dono totale di
noi. E così, la passione, se si patisca l’azione del bene, di cui la bellezza è un riflesso, è
veramente educazione dell’uomo, come quella che trae fuori (e-ducit) la sua divina
sostanza. Perché l’oggetto amato, se è buono, trae a sé, trae al bene l’amante, e
dall’amante, che patisce la sua azione, trae fuori quello che v’è di bene. Qui sta, secondo
Ficino, la funzione educatrice dell’amore socratico, quando Socrate, saggio e buono, “fu
da’ giovani assai più amato, che egli alcuno ne amasse”. Ostetrico egli era perché
educava, e cioè traeva fuori; e “giocondamente”, facendosi amare. La via feconda è la via
socratica. Socrate, amatore di Dio, si fece servo devoto di Dio, e, “commosso da carità di
Patria”, fu, non l’amatore dei giovani, ma il suscitatore dell’amore loro, per trarli al bene,
per trarne il bene, per educarli insomma, facendoli anch’essi, per tramite suo, servi di
Dio nella giocondità d’amore.
A somiglianza di quel vero Amore che noi crediamo cercare e afferrare, laddove è lui
che ci cerca, e ci si fa presente, e ci conquista; come Platone dice, alato perché dà le ali e
fa volare34. L’amore che erompe nella passione dei sensi, e trascorrendo per gradi, si
educa nella percezione di bellezze spirituali fino alla letizia d’amore intellettuale: la
giocondità d’amore: quell’itinerario che va dal piacere dei sensi alla gioia dei sentimenti
congiunti all’intelletto. “Come il Pico stesso dichiarerà in una lettera al Manuzio – scrive
il Garin – perché cercare invano con l’intelletto quello che gioiosamente si può
raggiungere d’un balzo con l’amore? Perché ripeterà in versi Lorenzo de’ Medici,
restringere in noi Dio e non amando, «dilatarsi» in lui?35”.
Siamo giunti così ad un approdo del nostro percorso filosofico, con la ragionevole
sicurezza che non si sia trattato soltanto di una dotta quanto superflua divagazione,
poiché infatti, non è chi non veda, come, anche lessicalmente, Ficino ci abbia fornito
l’indicazione di un contenuto filosofico, l’amore platonico, principio d’incarnazione del
Logos, a fondamento del soggetto di Leonardo, da lui tradotto e travestito plasticamente
in una figura muliebre. Ma questa indicazione “la giocondità”, alquanto perentoria e
francamente insperata, suscita a sua volta ulteriori quesiti che vanno delucidati al fine di
avvicinarci il più possibile, come direbbe il Bramly, a quella “prova incontestabile che ci
indurrebbe ad accettarne la tesi”.
Il quesito inaggirabile che a nostro giudizio presentemente si affaccia è il seguente:
perché l’amore socratico o l’amore platonico, sublime espressione microcosmica
34
M. Ficino, Sopra lo Amore, Edizione ES, Milano, 1998,
35
E. Garin, l’Umanesimo italiano, Laterza, Bari, 1978, pag. 124.
25
dell’Anima Mundi, può ricevere una degna rappresentazione nell’immagine di una
donna? Dobbiamo chiederci cioè quanto vi sia di arbitrario in questa rappresentazione
dell’amore platonico, che evoca la manifestazione termica dell’incarnazione del Logos,
nelle vesti di una donna. Una indicazione si affaccia subitamente poiché c’è stata
suggerita in principio dal Bramly, il quale, distillando le riflessioni di schiere di studiosi,
asserisce che questa dignitosa signora evocherebbe la figura di una “Madonna” di regale
compostezza.
Ora, volendo dare il giusto credito ad un’intuizione così meditata, e memori del fatto
che per il Ficino religione e filosofia coincidono, potrebbe forse trattarsi di una Madonna
non semplicemente cristiana, ma di una Madonna “filosofica”? E’ questa ipotesi che
andremo sul principio a sondare. Si fa avanti il solito Dante, molto amato sia da
Leonardo che da Michelangelo, onnipresente e onnisciente, per fortuna, che ci ricorda di
aver analizzato con spirito laico la suggestiva figura della Madonna cristiana, i cui
attributi, sembrano avere una stretta parentela con le proteiformi risorse e risonanze
dell’amore platonico.
UN FOLLE VOLO IN PARADISO
in compagnia di Bernardo. Sappiamo che ancora nel XXXIII canto del Paradiso,
l’ultimo, dei cento canti della D.C., Dante si era tenuto in serbo un immodesto desiderio,
alla cui soddisfazione aspirava per dare adeguata e felice conclusione al suo
interminabile peregrinare: trovarsi a tu per tu con l’Eterno, con l’Uno, con il Bene, con il
Logos, più volgarmente con Dio. E’ qui che interviene Bernardo di Chiaravalle, il
prescelto da Dante per rendere possibile questo prodigio, a mezzo di un altro tramite:
Maria. Bernardo può rivolgersi direttamente a Lei e impetrarne la grazia. In questo
contesto mai ricorso alla preghiera fu più giustificato: un concentrato di teologia …
platonica?
1
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19
“Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore
Per lo cui caldo ne l’eterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
Di caritate, e giuso, intra i mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua disianza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietade,
in te magnificenza, in te s’aduna
26
quantunque in creatura è di bontade.
Rovistando in questi versi, tra i più amati e declamati della D.C., notiamo che la
successione degli attributi di Maria riflette a un dipresso la fenomenologia dell’anima
convertita e accesa d’ardore platonico, secondo quanto abbiamo esposto più sopra. Nel
verso n. 3 ritroviamo a) la componente più elevata dell’anima che corrisponde alla
“razionalità” e ciò nell’espressione: “termine fisso d’etterno consiglio”: il “consiglio”
quale direttiva razionale impressa all’anima nella scelta delle azioni; b) ai versi n. 7 e n. 8
l’”amore” col suo caratteristico attributo di “calore” che riscalda la volontà; al verso n. 15
indirettamente la “fede”, in mancanza della quale il mero desiderio non acquista le ali
d’amore; e poi: c) le diverse manifestazioni in cui si articola la “Grazia” discendendo sui
mortali: la carità, la benignità, la misericordia, le quali rispecchiano però anche le virtù e
i sentimenti acquisiti durante le tappe del cammino di coloro che ascendono; in virtù
della “speranza” che “trabocca” come da una “fontana”, o che “emana” come da una
meridiana face, cioè dal “sole”, (metafore tipicamente plotiniane) a stabilire ancora
quella reciprocità circolare, dialettica, tra chi ama e chi è amato, e riama a sua volta
quanto più è amato, perché solo nell’altro riconosce se stesso, nella misura in cui offre
all’altro lo specchio amoroso di sé. Vediamo dunque che “amore platonico” –
condizionamento operante del Logos - e Madonna, sembrano coincidere, quanto meno
con una “madonna neoplatonica” se così si può dire. Ovvero per rimanere rigorosamente
nel nostro assunto, almeno nella “Donna” in quanto aspetto femminile del Logos. Per
sovrapporre Donna e Madonna filosofica più compiutamente, cerchiamo ancora
dell’altro. Il verso n. 9 ci viene in soccorso, almeno così ci pare. In esso si parla della
germinazione di un fiore un fiore molto particolare: si tratta della Rosa candida formata
dai Beati. E’ un punto cruciale.
Qui, si afferma in modo inequivocabile, che la “Vergine Madre” non sarebbe osannata
da Bernardo perché il ventre caldo, racceso d’amore, avrebbe generato, come potrebbe
credere un mortale qualunque, il figlio di Dio! No, bensì … la rosa dei beati: cioè un
accolta di assidui e ostinati scalatori, scarnificati e purificati fino ad una trasparenza
diafana, tra i quali potrebbero degnamente comparire le barbe di Mosè ed Ermete
Trismegisto, disposti a raggiera in un silenzio floreale; tutti coloro, cioè, che sempre più
sensibili alla bellezza morale, hanno optato per la conversione e si sono dati la pena e la
gioia di far scaturire il Logos nella loro anima.
E’ qui evidente che viene condiviso il concetto che sarà poi anche di Ficino e di Pico,
che non solo una volta, nel Cristo, il Logos si è incarnato, ma si incarna tutte le volte che
un uomo s’incammina dietro le orme del Giusto. E qui non possiamo non ricordare la
posizione tipicamente ficiniana di una “perenne rivelazione del Verbo” che pare essere
anche quella di Dante, della cui parentela filosofica col Ficino diremo più avanti. Ma
tutto ciò non è invenzione né di Dante, né del Ficino.
Nel primo capitolo dedicato a “La generazione del Logos da Giovanni a Eckart” il
Vannini, considerando le sistemazioni teologiche effettuate dai primi Padri della Chiesa
scrive:
“Ancora Ippolito è il primo a parlare della nascita del Logos dal cuore della Chiesa,
la quale assume così il ruolo che una volta è toccato alla Vergine Maria. Essa generò
una volta il Verbo, ma la Chiesa lo genera continuamente. Nella storia della
trasmissione del concetto della nascita del Logos nell’anima è importante notare come
fin dall’inizio vi sia una duplice possibilità: sottolineare la generazione nella singola
anima del fedele o piuttosto quella della Madre Chiesa. Le due possibilità non sono di
per se stesse oppositive, in quanto è chiaro che la fede ha una dimensione ecclesiale,
27
ovvero si trasmette nella comunità e grazie a essa, però l’accentuazione dell’una o
dell’altra non è irrilevante. Nel primo caso infatti, quello preferito dalla cosiddetta
mistica speculativa tedesca, si insiste sul fatto che il Logos si genera nell’anima in
assenza di ogni mediazione (…), (e in questo senso, esso si è generato anche presso i
pagani); mentre nel secondo caso, prediletto dalla Chiesa d’Oriente, l’elemento
comunitario, ecclesiale, e poi anche liturgico-sacramentale, prende il sopravvento,
dando luogo spesso a forme di esclusivismo e di intolleranza del tutto contrastanti con
la dottrina stessa che viene sostenuta36”.
Entrambe le concezioni hanno una dignità antichissima ed è logico che, in relazione
alla situazione di sostegno o di rivalità nei confronti della Chiesa, teologi e eretici laureati
propugnino l’una o l’altra concezione, in aderenza ideologica alle spinte sociali che le
condizioni storiche comportano.
D’altra parte, la designazione di “Vergine Madre” che compare nel primo verso della
preghiera, che parrebbe giustificarsi in quanto mera e comoda eredità della tradizione
religiosa cristiana, con la quale si indica la vicenda mitologica della Vergine Maria
fecondata e resa madre dallo Spirito Santo, ha una valenza teologico-filosofica nonché
allegorica molto pregnante, che esula dal dato storico, reale o irreale che sia. Il Vannini
citando direttamente un Padre della Chiesa (Gregorio di Nissa) ci informa che: «Ciò che
avvenne fisicamente nell’incorrotta Maria, quando la pienezza della divinità rifulse in
Cristo attraverso la Vergine, si compie anche in ogni anima che vive verginalmente
secondo il Logos» e con la consueta luminosa chiarezza, spiega: “E’ qui evidente la
contrapposizione tra generazione fisica e verginità spirituale: (…) quest’ultima non è che
il perfetto distacco, il vuoto assoluto che l’anima ha fatto di se stessa e in se stessa,
rendendosi così disponibile alla vita divina. In questo senso ogni cristiano ripete la
maternità della Vergine, permanendo vuoto e libero, perché in lui avvenga la nascita del
Logos37”.
A questo punto possiamo ritornare al Bramly nel luogo in cui si prospetta il quesito
dell’identità della Gioconda in rapporto alla destinazione del quadro, alla committenza:
“Un altro aspetto da considerare è che Leonardo non si sarebbe mai disfatto del quadro
in quanto non si tratta di un ritratto ma della rappresentazione di una creatura di sogno
davanti ad un paesaggio fantasmatico, che egli avrebbe dipinto per sé solo, per puro
piacere (per questo stavolta avrebbe fatto a meno di collaboratori), dandole un sorriso
che secondo Freud gli ricorderebbe quello della madre, oltre a tutte le virtù e le qualità
che si aspetta da una donna – dolcezza, comprensione, indulgenza, pazienza, costanza;
allora, la Gioconda sarebbe il primo quadro al mondo assolutamente puro d’intenti38”.
Che ha la purezza di una Vergine Madre. Leonardo, quindi, ricapitolando, con un
ragionamento dritto come una spada, ha rappresentato una Madonna, Vergine Madre,
personificazione dell’anima purificata, e per ciò stesso resa gioconda, che intercede per
l’uomo presso Dio.
Senza Figlio, perché, cristianamente parlando, tutti gli iniziati all’amor platonico che
incarnano il Logos, suoi figli sono: affermazione notevolmente polemica, per non dire
eretica, ma giustificata per dei tempi in cui si cercava filosoficamente la concordia tra le
36
Marco Vannini, Storia della mistica occidentale, op. cit. pag. 105.
37
Ibidem. pag. 107.
38
S. Bramly, op. cit., p. 288.
28
religioni. Anche se ciò significava declassare, per così dire, Gesù di Nazareth tra i Profeti
incarnati, che includevano tuttavia Platone, Mosè … tra i più perfetti e eminenti. La
posizione che aveva nello stesso pensiero di Dante.
Qualcuno bussa energicamente alla porta. Ma più insistente ancora sentiamo un
vociare imperioso che ci giunge alle spalle. Ci volgiamo:
COLPO DI SCENA: LA CONVERSIONE
Ce l’eravamo scordata! La Conversione è al centro di tutta la concezione filosofica del
Ficino, e non solo, di tutta l’Accademia platonica: Ficino, Pico, Landino, Poliziano,
Benivieni, Lorenzo il Magnifico… di Dante, ed è quella entità che rende ragione sia del
dinamismo dell’Anima del Mondo che della corrente macro - microcosmica che dà
significato all’esistenza. Abbiamo detto che il tema della conversione è il necessario
corollario concettuale di un percorso umano concepito come un allontanamento da Dio,
unito ad una ritorno a Dio, essendo il punto di congiunzione obbligatorio dei due
movimenti. Ma tutto ciò non può accadere se non si accende una luce, se non si precipita
in una crisi! “Essa consiste in una «crisi» per cui “la chiarità visiva (la bellezza) accende
il caldo d’amore, e lo status diviene circuitus”: un tuffo volontario nella corrente cosmica
che dal basso ci riconduce verso l’alto alto.
Con ciò ci sembrerebbe di aver detto abbastanza!
E tuttavia persiste una sorta di richiamo che continua a sopraggiungere,
probabilmente in conseguenza del fatto che l’abbiamo impunemente evocata. La
Conversione! Forse che ci riguarda personalmente? La Signora Lisa ci appare come al
solito tranquilla, sorniona. Che si stia producendo un contatto con la dimensione
vibrante di segni che attendono di essere riconosciuti? Siamo in attesa: un simbolo
c’ingiunge di essere placato? Forse la rappresentazione dipinta della conversione?
Questa volta evitiamo garbatamente di avvicinare il petto della Signora Lisa; la
osserviamo perciò da una certa distanza. Lo sguardo ci appare molto triste. La filosofia
neoplatonica c’insegna che il distacco dalle cose di questo mondo, prima di lasciarci
assaporare la gioia del superamento, ingenera molta tristezza. Caspita se è vero! Noi
diremmo un infinito dolore. La conversione è appunto il rifiuto definitivo, la risoluzione
volontaria di sottrarsi a quest’altalena senza costrutto e senza meta di piacere e dolore di
cui ci satolla la vita.
Prestiamo attenzione agli occhi. Anzi per meglio osservarli deliberiamo di coprire con
la mano il suo volto fino alla radice del naso in modo da lasciare campeggiare
unicamente lo sguardo. In verità è di una tristezza infinita: le ombre si addensano dietro
le palpebre superiori che sembrano grevi di lacrime. Vogliono suggerire che la
conversione è la risoluzione della lotta perpetua tra il pianto e il riso, o che il cammino
ascetico è intessuto di pianto e di riso? In verità non c’è molta differenza. Se non c’è
risoluzione, la lotta è incosciente e lunga e ripetitiva e dura sino alla morte. Se avviene è
una lotta cosciente, e c’è solo da augurarsi che diventi molto più breve. Però non
vorremmo che questo discorso sembrasse rivolto solo a vecchiette tremolanti in odore di
santità. E’ di Leonardo che si tratta, un uomo amico di Machiavelli e che trattava
all’occorrenza con Cesare Borgia: non ha certo rivolto il suo lavoro, la sua arte e la sua
scienza a personcine in attesa rassegnata di lasciare questo mondo! Noi crediamo
fermamente che l’abbia rivolto a degli uomini vivi che erano quelli del suo tempo e della
specie più coriacea.
Infine togliamo la nostra mano e ci riscuotiamo da questi pensieri malinconici. Il
contatto è svanito: però lampeggia il segnale figurato della conversione! La Signora sia
lodata! E’ sfacciato come un cartello stradale.
29
E’ proprio vero! Se poniamo mente alla segnaletica stradale, non tutta, quella più
comune, possiamo pescarvi … il divieto di inversione ad U! Ciò fa proprio al caso nostro:
inversione, conversione: qual è la differenza? Si è invertito la rotta. Solo che nel quadro
di Leonardo invece di trovarsi dritto, con una U in piedi, si trova coricato: ed è giusto
perché non si tratta di un divieto di conversione, ma di un invito alla conversione e si
trova collocato orizzontalmente e precisamente è collocato così: “ ⊂ ”. Ora questo segnale
stradale, anticipatamente noto a Leonardo, si trova nel prolungamento di quel braccio di
fiume o di strada che si trova nella parte sinistra del quadro e forma la parte inferiore
della “S” rovesciata che abbiamo già considerato in precedenza quando ci siamo chiesti
se di strada o di letto di fiume prosciugato si trattasse. La parte di tracciato che
indicavamo come probabili argini di un fiume e che si insinua dietro le spalle della
Gioconda.
Perché osiamo dichiarare in modo così assertivo che questa strada come un cartello
segnaletico indica la conversione? Per diversi motivi. Intanto si trova nel prolungamento
delle “Acque inferiori” dalle quali bisogna uscire, simboleggiando esse la Caduta, il Caos,
il molteplice, l’annaspare nel torbido, il perseverare negli errori, con un colpo delle reni:
una conversione, appunto. E poi non bisogna dimenticare che si trova inserita nelle
volute Serpentine del Caduceo, che sono una somma di inversioni o conversioni. Un
altro: riguarda una formazione rocciosa che il Marani e tutti gli interpreti leonardeschi
ritengono di dubbia decifrazione. Dice il Marani: “Oscuro è invece il significato di una
struttura a falde spioventi che appare subito dietro il fianco sinistro della dama [a destra
di chi guarda] come se si trattasse della copertura a capanna di una costruzione
architettonica non finita, forse la stessa cui appartiene la casa con loggia sotto la quale
sta la «Gioconda39»”. Proprio su di essa concentreremo ora la nostra attenzione.
Osserviamo queste due figure:
39
Pietro C. Marani, Leonardo, La Gioconda, op. cit., pp. 32-33.
30
La Vergine delle rocce
31
La Vergine col Bambino, sant’Anna e l’agnellino.
Vorremmo richiamare anzitutto l’attenzione su di un fatto banale, sul quale non pesa
ombra di speculazione. I due quadri “La Vergine delle rocce” e “La Vergine col Bambino,
sant’Anna e l’agnellino”, nei quali figurano principalmente la coppia Gesù Bambino e la
Vergine Madre riflettono palesemente il significato generale di queste composizioni: il
mistero dell’Incarnazione di Dio Padre in un uomo terreno, uomo tra gli uomini. La resa
dell’arte pittorica sempre più realistica non fa che renderlo sempre più persuasivo:
mistero vitale del Cristianesimo, che la pensosità delle figure e la levità dei gesti sanno
bene evocare. Vogliamo soltanto notare che in entrambe i dipinti malgrado la diversità
della circostanza è il paesaggio roccioso che sorregge la scena e, per così dire, la invade
da ogni parte.
E’ sufficiente osservare. La diversità del paesaggio rispecchia in modo coerente la
diversità della situazione e racchiude quindi un significato diverso che si proietta
sull’insieme, ma su questo non è nostro compito soffermarci. A noi basta stabilire che in
presenza dell’incarnazione del Logos, nelle composizioni leonardesche di vasto respiro,
compaiono delle rocce a lastre sovrapposte, della stessa sostanza cioè delle “falde
spioventi di una copertura a capanna” dipinte da Leonardo. Qui le possiamo vedere
esposte in primo piano. Questo tipo di roccia è veramente prediletto dal nostro autore.
32
Concediamoci un’altra riflessione e osserviamo la Vergine delle rocce: il mistero
accennato sembra essere il significato di maggior rilievo: vi figurano un angelo e il
Giovannino Battista: ben due annunciatori del prodigio fanno compagnia ai personaggi
principali. Tutti e quattro collocati sul proscenio di in un antro cavernoso in cui delle
acque confluiscono da lontano. Forse è giunto il momento di consultare il nostro
dizionario: anche la più anodina associazione d’idee può riservare delle sorprese:
sappiamo infatti quanto sia importante in Platone il mito della Caverna. Andiamo alla
voce “caverna”. Siamo fortunati, già la prima riga è tutto un programma: “Archetipo
dell’utero materno, la caverna è presente nei miti di origine, di rinascita e di iniziazione
di numerosi popoli”. Veniamo così ad apprendere che:
“Già nelle cerimonie religiose istituite da Zoroastro, il mondo era rappresentato da
un antro: «Zoroastro per primo consacrò in onore di Mitra un antro naturale, bagnato
da sorgenti e coperto di fiori e di foglie. L’antro rappresentava la forma del mondo
creato da Mitra (…) Ispirandosi a queste credenze, i Pitagorici, e dopo di loro Platone,
definirono il mondo come antro o caverna. Infatti in Empedocle le forze che conducono
le anime dicono: Siamo venute sotto questo antro coperto da un tetto» (Porfirio,
L’antro delle ninfe, 6-9). Plotino commenta così l’espressione: «La caverna in Platone,
come l’antro di Empedocle, significa a mio avviso, il nostro mondo, in cui il cammino
verso l’intelligenza è la liberazione dell’anima dai suoi legami e l’ascesa fuori dalla
caverna» (Plotino, Enneadi, IV, 8, 1). La caverna è un luogo di passaggio dalla terra al
cielo.40”.
Già sappiamo che il triangolo è una figura centrale, vi è inserita la Gioconda;
simbolicamente il triangolo rappresenta una montagna: ed è proprio il centro della
montagna che ospita la Caverna. Dunque le falde indicano la presenza… E adesso
chiediamo retoricamente al lettore: sotto il balcone o il loggiato della Gioconda non
hanno forse preso dimora Platone e la sua caverna? dove avviene l’incontro bruciante tra
l’anima e il Logos? Che l’abbia occultata dietro le spalle della Gioconda, non c’è da farsi
meraviglia, non è la prima volta che Leonardo fa lo spiritoso!
Di nuovo qualcuno bussa alla porta.
- Chi è?
- Dante Alighieri, fiorentino, di nascita ma non di costumi!
PROPRIO LUI! CHE ENTRI!
“Dante fra i platonici”. Così titola un capitolo del libro dedicato a Pico della
Mirandola, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri. “Sappiamo dunque che a Pico
aveva suggerito pensieri profondi anche nella sua forma barbarica e aspra: era
dunque per lui un maestro. In quegli anni a Firenze l’Alighieri ritornava ad esserlo per
molti intellettuali, letterati e filosofi. (…) Marsilio Ficino ne dà un ritratto che è
esemplare della sua fortuna nella nuova cultura del secolo. Il fiorentino Alighieri era –
scriveva Ficino - «per patria celeste […] di stirpe angelico» e aveva interpretato nella
sua poesia le verità di Platone, massimo elogio per il platonico Ficino. Peregrinando nei
40
Dizionario dei Simboli, op. cit. pagg. 234-235.
33
tre regni, «dei beati, dei miseri e dei peregrini» aveva ripercorso i passi di Virgilio
«bevendo alle platoniche fonti». L’aristotelico medievale, l’allievo di Alberto Magno,
Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, era divenuto dunque agli occhi degli umanisti
un platonico puro e profondo, uno di loro. Il processo giunse a compimento nel
commento alla Commedia di Cristoforo Landino pubblicata nel 1481 dove la lunga
prefazione di Landino era completata da una lettera di Ficino: «Fiorenza già lungo
tempo mesta, ma finalmente lieta col suo Dante Alighieri già dopo due secoli risuscitato e
a la patria reso e coronato, si rallegra». Dante era dichiarato un «secondo sole» e i
grandissimi artisti dell’età nuova, fra i quali Leonardo, Raffaello e Michelangelo, lo
conosceranno accompagnato proprio da questo commento e da lì trarranno spunti per
la loro immaginazione41”.
Proprio così. Perciò è venuto il momento di dire in modo più diretto ciò che lega
Dante al nostro soggetto avvicinandoci così maggiormente alla divina Gioconda. Niente
paura: Dante è figura così ingombrante, che gli chiederemo poche cose. Primo: dirci in
poche parole, come è concepita la Trinità nella sua filosofia; secondo: se è vero quel che
si dice intorno alla sua donna; terzo: dove vuole arrivare con i suoi quattro significati;
quarto: se dovremo convertirci al Logos o la nostra ragione spicciola sarà bastante per
giungere a glorioso porto. Poi sarà libero di andare, di rimanere o di confortarci, come
l’aggrada.
Capo primo: abbiamo denunciato, ed è probabilmente questo il motivo che ha
allarmato Dante facendolo scendere dal suo beato scanno, che i neoplatonici fiorentini
hanno in qualche modo declassato la figura di Gesù Cristo a profeta, sia pure al più
eminente tra i profeti, ma comunque ad un primum inter pares. E questa non è cosa di
poco conto! Ne viene scombinata la stabilità della tradizionale trinità cattolica che è
composta come tutti sanno da tre persone, distinte ma profondamente unite: il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo, come i petali, i sepali e il profumo, di un solitario fiore. Venendo
a mancare una delle gambe il tripode s’inclina e cade e così la sua intima coerenza e
stabilità. Ora né Dante né i neoplatonici intendono fare vacillare la divinità tricefala, e
soprattutto la seconda, quella incarnata, anzi. Per loro il senso della vita si commisura al
raggiungimento di una compiutezza umana che ha nella manifestazione della divinità
incarnata il suo richiamo, il suo esempio e il suo specchio. La soluzione di Dante,
consiste in una riconsiderazione degli elementi anatomici del fiore e con il recupero del
pistillo e degli stami: gli organi della riproduzione. Invero la trinità dantesca è composta
di ben “quattro” elementi. Dio si scinde infatti in Padre e Madre. Poi vengono il figlio e la
figlia, e quest’ultima, se non leggiamo male, è facente funzione dello Spirito Santo.
La madre è divina, ed essa rappresenta la Sapienza42. Tanto la Madre procede dal
Padre, quanto l’atto procede dalla potenza, allo stesso modo la Figlia (atto) procede dalla
madre (transitata a potenza) e rappresenta grosso modo lo “Spirito santo”, cioè quella
corrente d’amore, di luce e di calore, presente in alto come in basso, che scocca, a
seconda del grado di dignità, tra i figli microcosmici e la uni-dualità divina,
41
Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Pico della Mirandola, Editori Laterza, Bari,
2011, pagg. 50-51.
42
E in ciò la gnosi dantesca è più ortodossa della dottrina cattolica. Quando Dio creò
l’uomo lo fece a sua immagine e somiglianza: lo fece cioè maschio e femmina.
34
trasformando e maturando una parte crescente di anima che tenderà in modo
progressivo verso l’alto.
Dovendo velare la sua concezione Dante chiamerà madre, moglie, sorella e figlia,
secondo le circostanze: filosofia, sapienza, donna gentile. Come ognuno sa, la sua donna
gentile verrà designata col nome di Beatrice! Figlio, l’ultimo rimasto, è l’essere umano
divinizzato (microcosmico) che ha affrontato e subìto le tappe della trasformazione
morale sulla via del ritorno alla uni-dualità divina. Perciò col termine “filosofia” Dante
indica per lo più quella Sapienza che nei primi secoli del Cristianesimo verrà chiamata
“Gnosi”, dottrina della salvazione che aveva in Platone, il padre universalmente
riconosciuto.
Capo secondo: tutto è complicato ma al tempo stesso esplicitato grazie al fatto che
Dante si è premunito di dichiarare la pluralità dei piani di lettura traendo questo artificio
dall’uso antico di interpretazione delle scritture sacre. A queste oltre un significato
letterale si aggiungono altri tre significati più o meno allegorici, che vedremo al capo
terzo. Una vera risorsa che metteva al riparo se stesso dall’Inquisizione così come i suoi
amici Fedeli d’Amore (ai quali dirigeva principalmente le sue produzioni poetiche),
contrari alla corruzione del clero e favorevoli all’imperatore. Ciò gli consentirà di narrare
in un “gergo” amoroso tutta la sua evoluzione personale unitamente alla gnosi della
quale si faceva banditore, in un inestricabile gioco di rimandi tra se stesso e Beatrice la
“Donna gentile” che volta a volta è: 1) la donna bella e reale che suscita sentimenti nobili;
2) la personificazione dell’anima del poeta che ascende; 3) la luce amorosa e calda che
guida il pellegrino (che fa le veci dello Spirito Santo); 4) la Gnosi o Sapienza santa,
“sposa dell’Imperatore del cielo” .
Poiché anche Leonardo si aprirà alle suggestioni di questo procedere da tetrapodo,
siamo costretti a metterci sulle tracce del poeta e percorrere il suo sentiero di luce.
Narrandoci la sua iniziazione alla filosofia, ricercata per consolarsi della perdita de lo
primo diletto dell’anima sua, Dante ci immette direttamente nel processo dell’evoluzione
della sua anima. Non valendo nessun conforto, egli ricerca nell’alta cultura i libri con cui
si consolarono gli antichi, «e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di
Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea. E udendo ancora che Tullio
scritto aveva un altro libro, trattando de l’Amistade, avea toccate parole della
consolazione di Lelio… io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie
lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando,
giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di
questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la
poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso… in picciol tempo, forse di trenta
mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e
distruggeva ogni altro pensiero43».
In questa confessione sono da mettere in rilievo più luoghi e in particolare la natura
delle due opere cui il poeta domanda soccorso per porre rimedio al suo dolore: il Lelio di
Cicerone e il De consolatione philosophiae di Boezio. In entrambe la consolazione si
fonda su una dialettica d’amore, che da passione terrena si trasfigura, platonicamente, in
ricerca di un bene che non è terreno. Al desiderio, che contrasta la ragione, che si perde
in immagini fittizie di bene, si sostituisce l’amore illuminato che tende, senza posa, al
bene supremo che è il principio primo: amore che, alla donna terrena, sostituisce «la
43
Dante, Convivio, Trattato secondo, XII.
35
bellissima e onestissima figlia de lo imperatore de lo universo, a la quale Pittagora pose
nome Filosofia44».
Come per orientarsi nella metropolitana, il percorso iniziatico viene definito con la
segnalazione delle due stazioni terminali. In alto la figlia di Dio da cui discende la grazia;
in basso l’anima afflitta che si digrossa con il codice della filosofica gnosi sotto il braccio.
L’anima trasformerà se stessa man mano che s’inerpica sul pendìo, avendo come
compagna la visione della Donna gentile, dalla quale dipendono “demonstrazioni” e
“persuasioni” cioè lo specchio mutevole della propria evoluzione. Così, per esempio, ne
La vita nuova Dante afflitto e derelitto si accorse di una Donna gentile che lo guardava
tutta sconsolata: “Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se
altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una
finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei
accolta”. Da un lato la donna gentile è bella e giovane, concordemente a quanto spetta
alla funzione della bellezza, unita al calore della compassione, che è di innalzare l’animo;
dall’altra gli occhi della Donna gli rimandano lo stato miserevole della sua anima.
E’ da notare, incidentalmente, con quale sottile astuzia il poeta evochi l’immagine
della filosofia. Egli sceglie a rappresentarla Pitagora, il più esoterico dei filosofi. Non solo
pensatore, ma fondatore di una scuola e di una comunità ascetico-religiosa all’interno
della quale le conoscenze più elevate venivano riservate solo agli iniziati. La sua dottrina
era fondata sul concetto fondamentale di numero, essenza di tutte le cose, poiché
Pitagora credeva fermamente in un ordine misurabile presente in tutti i fenomeni.
Dante connetterà tutto l’edificio della Commedia proprio con l’uso straripante e
onnipresente di numeri con significato pitagorico-iniziatico: il tre, il cinque, il sei, il
sette, il dieci, l’undici, e i loro multipli a cui si aggiunge una complicata numerologia a
valore letterale che riserva ancora e sempre delle sorprese.
Facciamo dunque dire a Dante chi è la Sapienza traendo la definizione dal suo proprio
commento alle canzoni del Convivio.
«Dico lei essere di tutto madre e prima di qualunque principio, dicendo che con lei
Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose
genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso: dicendo: Costei pensò chi
mosse l’universo. Ciò è a dire che nel divino pensiero, ch’è esso intelletto, essa era
quando lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse45».
E inoltre della Sapienza si dice ancora essere: “… la sposa de lo Imperadore del cielo
s’intende e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima!46”
Non riaffiora forse anche il mito egizio di Iside e Osiride sposi e fratelli?
La Sapienza è madre, persino prima di qualunque principio, dunque è consustanziale
al padre. Proprio qui ci sembra che Dante stabilisca tra Dio padre e la Sapienza madre,
come abbiamo già riferito, un genere di rapporto aristotelico che lega l’atto alla sua
potenza, gli effetti alle cause: infatti la madre si individua “spezialmente” per lo
44
Ibidem, Trattato secondo, XV.
45
Ibidem, Trattato terzo, XV.
46
Ibidem, Trattato terzo, XII.
36
movimento che essa trasmette al cielo e di conseguenza animando tutte le cose che ne
dipendono. Abbiamo dunque qui una Sapienza animatrice del tutto come l’Anima Mundi
(o il Logos di Giovanni), che era presso Dio, quando Dio motore immobile la indusse a
muovere i primi passi.
E passando dagli effetti della sposa che genera la figlia agli effetti che da lei
procedono:
“Per donna gentile s’intende la nobile anima d’ingegno e libera ne la sua propria
potestate, che è la ragione. Onde l’altre anime dire non si possono donne, ma ancille47”.
Laddove si vuol dire che ove si stabilisca il contatto tra l’intelletto dell’anima, la
ragione, con l’intelletto dell’anima superiore figlia della Sapienza, questa penetra e
trasforma gli appetiti inferiori dell’anima, fino a renderla libera e potente. Ove ciò non
avvenga l’anima non è donna, ma serva.
Ma ciò a cui volevamo infine arrivare, affinché sia data la spiegazione di come questi
concetti siano trasfigurabili in pittura, è che secondo Dante, la trasformazione degli
appetiti si rende visibile in luoghi privilegiati e in modi inconfondibili:
“E però che ne la faccia massimamente in due luoghi opera l’anima – però che in
quelli due luoghi quasi tutte e tre le nature de l’anima hanno giurisdizione – cioè ne li
occhi e ne la bocca, quelli massimamente adorna e quivi pone lo ‘ntento tutto a fare
bello, se puote. E in questi due luoghi dico io che appariscono quei piaceri dicendo: ne li
occhi e nel suo dolce riso. Li quali due luoghi, per bella similitudine, si possono
appellare balconi de la donna che nel dificio del corpo abita, cioè l’anima; però che
quivi, avvegna che quasi velata, spesse volte si dimostra. Dimostrasi ne li occhi tanto
manifesta, che conoscer si può la sua presente passione, chi bene là mira48”.
La Monna Lisa s’ispira appunto alla Donna al balcone del Convivio, o alla Donna alla
finestra della Vita Nuova, nei cui occhi e bocca l’Anima ha giurisdizione, si manifesta
cioè una certa idea della Sapienza Santa. Una Beatrice quasi velata, che Umanesimo e
Rinascimento finiranno di disvelare.
Capo terzo: I QUATTRO SIGNIFICATI
Nel Secondo Trattato del Convivio, Dando inizio a quella navigazione, che dovrà
condurre a “salutevole porto” – che la salvezza è la posta in gioco – Dante vuol mostrare
come si debba “mangiare” il suo pane. E dice che le scritture si possono intendere
secondo quattro sensi. Il primo è quello letterale, come si dà nelle favole dei poeti.
Il secondo è quello allegorico, “ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna”. E qui
Dante trova modo d’inserire una delle sue sentenze allusive, nel quale indica
chiaramente che mischierà le carte: “Veramente li teologi questo senso prendono
altrimenti che li poeti: ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare,
prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato”. Così, Dante per facilitare il
lettore prima gli imbandirà una favola, poi una bella menzogna. A lui di cercare la verità.
Ma noi per percorrere le stazioni della Gioconda faremo al modo dei teologi.
47
Ibidem, Trattato terzo, XIV.
48
Ibidem, Trattato terzo, XIV.
37
Il terzo è il significato morale, che fornisce cognizioni utili alla vita. Quest’altra
sentenza ce ne offre un esempio: “a le secrettissime cose noi dovemo avere poca
compagnia”, che è massima propria a tutte le dottrine iniziatiche.
Il quarto è quello anagogico, in cui si dà a ciò che con verità è detto letteralmente,
anche un sovrasenso, cioè un significato che riguarda le cose dello spirito. Come esempio
viene portato il Salmo che celebra l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto, in cui
simbolicamente si ravvisa la liberazione dell’anima dal peccato. Notiamo che quello
dell’uscita dall’Egitto è anche tema centrale e ricorrente nella letteratura gnostica.
Tale modo di concepire le Scritture è molto antico, e dipende dal fatto che tali
scritture avevano un riscontro in immagini sacre, simboli, archetipi, che a loro volta
rimandavano a differenti ordini e strati di realtà sovrapposti gerarchicamente. Un modo
di proiettare la struttura del reale differente dal nostro, ma che rivelava una sostanziale
sintonia col pensiero del neoplatonismo rinascimentale. D’altra parte vi è una logica
abbastanza trasparente nella successione dei significati e ad essa ci rinvia nel suo parlar
coverto lo stesso Dante.
- Il senso letterale è costituito dalla narrazione di eventi accaduti: è il piano basico, su
cui si reggono gli altri significati: ne costituisce la porta d’ingresso;
- il senso allegorico è il piano dell’immagine, della metafora, ciò che rende il
significato visibile, sensibile, e dunque accessibile alle anime semplici, non abituate alle
astrazioni. La metafora coglie l’analogia che riconduce l’evento narrato ad eventi
analoghi, che costituiscono un’esperienza universale della vita, per se stessa evidente:
come la vecchiaia, la solitudine, l’amore, ecc.. Chi viene toccato dalla forma allegorica, si
apre un varco alla meditazione e coglie la possibilità di riconoscere che esistono verità
stabili nascoste all’interno di vicissitudini che sembrerebbero frutto del caso, e si prepara
ad accedere al
- senso morale, approdo di una riflessione che induce ad una generalizzazione eticofilosofica. Essa può tradursi nella definizione di una norma pratica. Se ciò avviene
accogliamo tale norma come guida del nostro operare, e la saggiamo affinché non sia in
contraddizione con la realtà effettuale (in parole povere: ci consentirà – se corretta - di
non ricadere sempre negli stessi errori). Il nostro peregrinare teorico-pratico si propone
quindi mete più alte: a intuire e verificare l’esistenza di significati superiori, non
percepibili a prima vista: generalizzazioni più vaste, più comprensive. Si presenta allora
il
- senso anagogico: le verità stabili sono parti di un sistema che dà significato agli
accadimenti del mondo e non vi è più necessità di sbatterci contro per riconoscerle. Si
può iniziare ad assumerle da una tradizione di sapere consegnata alle scuole, alle
tradizioni antiche, ai libri profetici, con fede e con ragione. Le quali contrariamente al
senso comune, non si accecano reciprocamente; ma, tramite la conversione, il distacco, e
le virtù ivi connesse, creano una fruttuosa disposizione ad un’attesa consapevole, seppur
operante, che si verifichino i nuovi veri, oggetto di contemplazione. D’altra parte ciò non
costituisce una netta opposizione coll’agire teorico-pratico. Ogni agire umano che si
prefigga uno scopo, una meta, richiede un lungo travaglio e un lungo cammino, che deve
essere sostenuto dalla fede nella fase di passaggio dalla virtualità alla realtà; una fede,
tolta l’enfasi religiosa, che può chiamarsi semplicemente energia morale. Scopi e mete,
nel loro attuarsi, nel loro farsi, non hanno in sé garanzia di certezza, appunto perché il
risultato è ancora di là da venire. Tale è la condizione umana.
I significati si dispongono quindi in una successione maieutica: dal piano del naturale
rispecchiamento esperienziale, alla prima traduzione teorica, ovvero simbolica-
38
analogica; al piano etico-filosofico normativo e infine al piano della verità anagogica che
non opera più per costrizione, secondo il riconoscimento della necessità naturale, ma per
via di identificazione.
Il piano morale contempla altresì le regole di condotta di una vita attiva che sia
propiziatrice all’ingresso nella vita contemplativa, volta al congiungimento dell’umano
col divino, ultimo significato, secondo una gerarchia di valori stabilita sin da Aristotele
ed accolta da Dante.
Questi accenni, servono soltanto a stabilire la possibilità che un’opera d’arte venga
intesa secondo piani diversi, non contraddittori e logicamente sovrapponibili, ed è la
ragione per la quale abbiamo compiuto questo excursus. Che l’uso sia rimasto valido
ancora al tempo di Leonardo, in cui Dante veniva riscoperto come un filosofo antico,
venerato e studiato come un Virgilio redivivo, questa è almeno l’idea che ce ne siamo
fatti. Essa ci sembra la più aderente allo spirito della nostra ricerca e la più adeguata a
interpretare e ordinare i sensi emergenti della nostra analisi della Gioconda.
Capo quarto: il Maestro, dal quale vorremmo almeno un cenno di assenso, sembra
immerso in una profonda meditazione. Non osiamo sperare che dipenda dalla profondità
delle tesi che abbiamo testé esposte. Se non fosse irriverente penseremmo che è stato
sopraffatto dalla morbidezza della poltrona nella quale si è accomodato, senz’altro più
avvolgente e calorosa della nuvoletta a forma di scanno, da dove, stoicamente, da secoli
attende l’arrivo dei dantisti sollecitati, ma renitenti, alla conversione, per presentare loro
di persona la sua compagna, Beatrice. Il nostro modo di procedere gli sarà sembrato
certamente zeppo di lungaggini in confronto a quanto usava ai suoi tempi: con le quattro
canzoni del Convivio e la Commedia Dante ha commentato l’universo. Tuttavia, per
rispetto almeno a quanto abbiamo enunciato, vorremmo rivolgergli sommessamente il
quesito dichiarato nel capo quarto: saremo in grado di procedere senza tradire lo spirito
e la lettera dei quattro sensi per il quale lo abbiamo imprudentemente scomodato?
Saremo liberi di procedere alla comprensione del quarto senso o siamo in difetto di una
regolare e spericolata conversione?
Possiamo cogliere solo un lieve dondolìo verticale del capo. Ma a quale corno del
dilemma annuisce?
UNA PRUDENTE RICAPITOLAZIONE
Non osiamo disturbarlo e non possiamo evitare di procedere. Non abbiamo la stoffa
per affrontare una bruciante conversione: optiamo per una prudente ricapitolazione.
MONNA LISA
1) Il significato letterale.
Il significato letterale è senza dubbio quello più semplice ed è quello indicato dalle
interpretazioni critiche che abbiamo più volte richiamato, quella del Bramly, del Marani,
del Pedretti. Una bella signora appartenente alla classe agiata e dal volto enigmatico.
Esso non esprime i sentimenti e i pensieri racchiusi nella sua mente perché consegnati a
uno sguardo e a un sorriso che sembrano escludersi reciprocamente. Una polarità che si
ripete nell’animazione del suo volto magnetico di contro alla placidità sfingea della sua
39
postura, la quale culmina nella soave compostezza delle mani. Forse evoca il sentimento
dell’attesa, distaccata, appena increspata dai ricordi. Attesa malinconica, che a sua volta
si contrappone polarmente ad uno sfondo dove s’intersecano una caotica pluralità di
forme paesaggistiche: acque, montagne innevate, calanchi, strade, fiumi. Una natura
suddivisa in un piano destro e sinistro rispetto alla centralità della figura: è il regno della
Dialettica, illustrato nel suo supremo e vivente equilibrio.
2) Il significato allegorico.
La bella signora appartenente alla classe agiata, rappresenta allegoricamente la
Vergine Madre, la Sapienza e la figlia della Sapienza, in quanto la figlia della Sapienza è
l’amore per la Sophia, l’una lo specchio dell’altra. La Filosofia nel suo congiungimento
con la Sapienza stessa. Una Madonna senza bambino, di cristiani e pagani. Possiamo
chiederci se dal punto di vista del simbolismo ermetico Leonardo ci abbia offerto
qualcosa in più. In verità ci pare di sì. Nel nome di Monna Lisa potrebbe essere
concentrato un significato da svolgere: per esempio madonna Lisa, che è la traduzione
italiana del toscano “monna”, madonna nel senso di Signora, come la “Nostra Signora”
delle Cattedrali; e inoltre Madonna nel senso di “mia donna”, la mia Donna dei Fedeli
d’Amore cui apparteneva Dante, la quale impersonava anche secondo il Gilson, la
filosofia. E nel nome di Lisa: la Isa, l’Isa, Iside. Semplice gioco di assonanze?
Verifichiamo.
Iside era una Dea ritornata in auge al seguito di Ermete Trismegisto, profeta e
sapiente egizio. Il Pinturicchio, pittore della Rinascenza, compose un ciclo di affreschi
nella Sala dei Santi dell’appartamento di Alessandro VI Borgia “che è il più cospicuo
omaggio rinascimentale al mito dell’Egitto49”. Uno di essi rappresenta “Iside tra Ermete
Trismegisto e Mosé”. L’esecuzione risale al 1492-1494. Maurizio Calvesi ce ne spiega
l’idea animatrice:
“Nell’Egitto, luogo leggendario delle «origini», si ricerca la provenienza della
famiglia Borgia; il pontefice, il rappresentante di Cristo, è il discendente di Iside e di
Osiride e del loro figlio Libio detto Ercole; come tale è l’erede diretto dell’originaria
Sapienza. In uno degli ambienti attigui, si mescolano alle Sibille profeti ebraici e
pagani, divinità egizie, pianeti e costellazioni e questo composito universo annuncia
così la venuta del Redentore. La simbiosi tra teologia cristiana e Sapienza degli antichi,
cara al Ficino, non è più guardata dal nuovo papa con il sospetto dei predecessori. Alla
sua corte, nel lusso più ostentato, si respira un clima pagano e hanno accesso e udienza
umanisti italiani e stranieri, da Pomponio Leto ad Aldo Manuzio, da Ermolao Barbaro
a (…) Annio da Viterbo, astrologo, alchimista ed «egittologo», i cui scritti concorrono
all’iconologia della Sala dei Santi50”.
49
Maurizio Calvesi, Il mito dell’Egitto nel Rinascimento, Giunti, Art dossier, 1988, pag.
32.
50
Ibidem, pag. 32.
40
Il Pinturicchio, Iside fra Ermete Trismegisto e Mosè. Sala dei Santi, Vaticano, Roma.
Oltre a questi affreschi, il Calvesi nella sua monografia dedicata a Il mito dell’Egitto
nel Rinascimento ci propone la descrizione di un romanzo illustrato, l’Hypnerotomachia
Poliphili, di Francesco Colonna pubblicato nel 1499. Esso testimonia un’ispirazione di
derivazione tipicamente egizia ed ermetica, svolta in un linguaggio criptico, dalla quale
possiamo ricavare una rappresentazione più precisa del significato attribuito ad Iside
dagli “egittologi” della Rinascenza, in rapporto alle ricostruzioni d’invenzione o di
“archeologia fantastica” delle origini delle popolazioni d’Italia e dell’origine delle famiglie
principesche, in questo caso dei Colonna. Leggiamo: “Nel romanzo di Francesco
Colonna affluisce non soltanto la componente anniana51, nel sottinteso di una
continuità storica tra Osiride e le popolazioni italiche e nella glorificazione del dio
egizio (…). Ma concorre anche il sincretismo di Apuleio e di Pomponio Leto nella
continua e mutevole rappresentazione di una mitica figura di «Grande Madre», che
simboleggia la Natura e la Terra: la dea «genitrice», che è Iside, è Venere ed è la stessa
Fortuna Primigenia, venerata a Palestrina52. (…) L’iniziazione alla Natura è
l’iniziazione alla Sapienza. Il recupero dell’antica e originaria conoscenza si ottiene
cogliendo il nesso (non dichiarato nel romanzo, ma criticamente suggerito al lettore
«sapiente») tra Iside (a sua volta tutt’uno con Osiride e Serapide), Venere e la Fortuna
Primigenia, afferrando l’unico significato che accomuna queste divinità. «Io, genitrice
delle cose della natura», dice Iside nel romanzo di Apuleio «Io, il cui unico nume sotto
aspetti multiformi con svariati riti e diversi nomi è venerato in tutto il mondo»: diversi
nome tra cui Venere53”.
51
Da “Annio da Viterbo”, umanista, vedere citazione precedente.
52
Località ove venne rinvenuto un mosaico pavimentale che il Calvesi ritiene conosciuto
fin dal Quattrocento, “che allora si trovava in un sacello del Tempio della Fortuna Primigenio.
Prodotto ellenistico e forse di scuola alessandrina, databile probabilmente al I secolo d.C.,
rappresenta la valle del Nilo e il suo corso dalle scaturigini dei monti etiopici al delta
mediterraneo, durante una delle inondazioni”.
53
41
Nel suo libro Sopra lo Amore, il grande Marsilio Ficino, spiega:
“Venere è di due ragioni: una è quella intelligenza, la quale nella Mente Angelica
ponemmo: l’altra è la forza del generare, all’Anima del mondo attribuita. L’una e l’altra
ha lo Amore simile, a sé compagno. Perché la prima per amor naturale a considerare la
Bellezza di Dio è rapita: la seconda è rapita ancora per il suo Amore, a creare la divina
Bellezza ne’ corpi mondani. La prima diffonde questo alla seconda Venere. Questa
seconda trasfonde nella Materia del Mondo le scintille dello splendore già ricevuto. Per
la presenza di queste scintille, tutti i corpi del Mondo, secondo sua capacità, resultano
belli. Questa Bellezza de’ corpi l’animo dell’uomo apprende per gli occhi: e questo
Animo, ha due potenzie in sé: la potenza di conoscere, e la potenzia del generare. Queste
due potenzie sono in noi due Veneri: le quali da duoi Amori sono accompagnate.
Quando la Bellezza del corpo umano si rappresenta agli occhi nostri, la nostra Mente,
la quale è in noi la prima Venere, ha in reverenza e in amore la detta Bellezza, come
immagine dell’ornamento divino: e per questa a quello spesse volte si desta. Oltre a
questo la potenza del generare, che è in Venere in noi seconda, appetisce di generare
una forma a questa simile. Adunque in amendue queste potenze è lo amore: il quale
nella prima è desiderio di contemplare, nella seconda è desiderio di generare bellezza.
L’uno e l’altro amore è onesto, seguitando l’uno e l’altro divina immagine54”.
Ora Marsilio ode elevarsi attorno a sé la protesta dei chierici e scorge il sorriso
scanzonato del lettore; ad essi signorilmente risponde:
“Or che è quello che Pausania55 nello Amore vitupera? Io ve lo dirò. Se alcuno per
grande avidità di generare pospone il contemplare, o veramente attende alla
generazione in modi indebiti, o veramente antepone la Pulcritudine del corpo a quella
dell’Anima, costui non usa bene la degnità d’Amore: e questo uso perverso è da
Pausania vituperato. Certamente colui che usa rettamente Amore, loda la forma del
corpo: ma per mezzo di quella cogita una più eccellente spezie nell’Anima, nell’Angelo, e
in Dio: e quella con più fervore desidera. Ed usa intanto l’uffizio della generazione, in
quanto l’ordine naturale, e le leggi dai prudenti poste, ci dettano. Di queste cose tratta
Pausania diffusamente56”.
Cercando il punto di congiunzione tra Iside ermetica e Venere genitrice abbiamo
goduto del privilegio di sentire Marsilio Ficino esporre a viva voce la sua filosofia e di
verificare sulla viva carne dei testi la successione delle accensioni: dalla Materia alla
bellezza dei corpi, dall’anima dell’uomo al governo dall’Anima del Mondo. Vi è forse
dell’altro che ci autorizza a ipotizzare la presenza di Iside egiziana oltre a quel
riferimento letterario molto scarno della contrazione di “Iside” nel nome di “Lisa”, o il
gioco della declinazione di Monna, Madonna, la mia Donna e Nostra Signora? La dea
Iside raffigurata dal Pinturicchio è una regina incoronata, seduta in trono, col capo
reclinato in un’espressione dolce. Nella mano destra tiene uno scettro, la sinistra è
appoggiata su un libro che tiene aperto sulle ginocchia.
Esiste però una tradizione iconografica che risale a Plutarco, che ci rimanda ad una
Iside misteriosa, il cui volto è coperto da un Velo, il cui significato è affine al “velo di
Ibidem. pag. 40.
54
Marsilio Ficino, Sopra lo amore, Edizione su licenza ES, Milano, 1998, pagg. 39-40.
55
Pausania, interlocutore di Platone nel Convito platonico.
56
M. Ficino, op. cit., pag. 40.
42
Maya”, che dissimula, nel buddismo, la realtà pura. Potrebbe Leonardo essersi ispirato
all’Iside plutarchea? Un indizio ci sarebbe e questa volta pittorico: a ben vedere i capelli
della Gioconda sono coperti da un trasparentissimo velo nero: il famigerato Velo che
copriva il volto di Iside? Un velo sollevato! Che Leonardo abbia voluto mostrarci con
intento quasi sacrilego il volto inavvicinabile e immortale dell’Anima Mundi?
Plutarco racconta che nel Tempio di Iside, vicino a Menfi, era eretta una statua
ricoperta di un velo nero. Sulla base della statua era incisa questa iscrizione: "Io sono
tutto ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà e nessun mortale ha osato sollevare il mio velo”.
Alcuni commentano: “La rimozione del velo di Iside rappresenterebbe la rivelazione
della luce e riuscire a sollevare questo velo equivarrebbe a divenire immortale”. Non è
forse un modo questo per dire che l’iniziazione, l’unione con la divinità, equivale a
condividerne in certo modo, il possesso del tempo, l’immortalità? E questa immortalità,
ovvero la cessazione della condizione di “mortale” che ne consegue, non donerebbe la
capacità di vedere il volto di Iside? Il classicismo e il romanticismo tedesco nelle persone
di Goethe, di Hölderlin, di Novalis , nel loro ritorno alle fonti del tempo si spinsero sino
alla più remota grecità e geograficamente andarono oltre la Grecia giungendo sino in
Persia e ai bordi del Nilo. In Egitto sostò Novalis e quivi conobbe il “discepolo di Sais”
cioè di Iside, di cui narrò: “Accadde ad uno di alzare il velo della dea Sais. Ma cosa vide?
Egli vide, meraviglia delle meraviglie, se stesso”. Con queste parole dal cuore del poeta
sgorgava una luce archeologica che si congiungeva all’invito dell’Apollo delfico: “Conosci
te stesso, e conoscerai te stesso e Dio”.
Siamo forse scivolati nel
3) significato morale?
Ci pare di poter collocare in questo contesto l’insegnamento dell’oracolo delfico: al
significato morale è ascrivibile una massima utile alla vita. Qual è infatti massima più
utile alla vita del “Conosci te stesso” espressa nella forma più piana possibile? Né in
forma di favola, né in forma allegorica, né in forma anagogica (che contiene un’allegoria
ancora più sublime)? Abbiamo visto in che cosa consiste in termini neoplatonici questo
imperativo, ma per tradurlo in un linguaggio più vicino al nostro, quale sarebbe la
dimensione reale di questo comandamento se volessimo esprimerlo senza frondosità e
ricercatezza poetica? E’ una domanda che abbiamo il coraggio di porre solo perché
sappiamo di poter contare su Marco Vannini, il quale ci fornirà immediatamente la
risposta:
“Quest’autentica conoscenza di se stessi si compie essenzialmente scendendo nel
profondo dell’anima, ovvero scoprendo la sua origine quale volontà, affermatività
egoistica, capace di assumere mille forme, anche opposte le une alle altre, permanendo
immutata nella sua sostanza. La scoperta della radice egoistica del proprio io è, nello
stesso tempo, liberazione da tale egoismo, con tutta la sua carica deterministica, ed
emergenza della libertà dello spirito. Infatti l’atto di conoscenza con cui si riconosce
l’insopprimibile egoismo della volontà è, di per se stesso, quel distacco – quella grazia,
per usare i termini cristiani – con cui si esce dal regno del determinismo, dal dominio
dell’egoismo, e ci si apre al regno dello spirito, e ubi spiritus domini, ibi libertas57.”
Forse su questo dovremo ritornare, per ora ci preme di continuare a ordinare le idee e
le figurazioni. Al “Conosci te stesso” abbiamo ricondotto dunque i primi simboli che
abbiamo individuato: il caduceo ermetico, simbolo dell’equilibrio delle correnti micro e
57
Marco Vannini, Storia della mistica occidentale, op. cit., pag. 19.
43
macrocosmiche, la distinzione delle acque in superiori e inferiori e poi l’individuazione
della caverna, quale luogo simbolico deputato al “Conosci te stesso”, cioè alla
conversione, grazie al segnale del codice della strada. Ma forse c’è dell’altro.
Riconosciamo di esigere dal lettore una fiducia irragionevole se pretendiamo che
creda all’esistenza di un segno che non vede. Ma rinunciamo alla nostra prosopopea
critica e affidiamoci all’intima vita e potenza del simbolo alle cui emanazioni siamo stati
ricettivi e insistiamo fidando nella sensibilità e la pazienza di chi ci ascolta. Vediamo
dunque se Leonardo ermetico ci ha riservato una sorpresa.
Dante dorme della grossa, Leonardo non si è fatto sentire, ma … pare di sì. Questa
volta ci viene consegnato un simbolo senza allestimento di coreografia magica, di
vibrazioni, d’incantesimi, di richiami. L’artista è un uomo generoso, ha capito la nostra
difficoltà. Osservi dunque il lettore ciò che offriamo al suo scetticismo: è ancora qualcosa
che si vede e non si vede, ma confidiamo nella buona volontà; ma poi, se non fosse arduo
riconoscere le verità nascoste: Leonardo sarebbe Leonardo e Dante, Dante?
Guardiamo la Gioconda, non diritto negli occhi, che si rischia di rimanerne
invischiati, ma il quadro, nel suo insieme. Consideriamo la linea spezzata delle acque
superiori e ricomponiamola con la fantasia, quale doveva essere prima del disastro: una
linea continua orizzontale che attraversa l’intero paesaggio dello sfondo. Poi
consideriamo un’altra linea orizzontale che attraversa virtualmente di nuovo il quadro –
entrambe le linee passano dietro la Signora della quale ovviamente dobbiamo fare
astrazione – all’altezza della superficie piana della balaustra che accoglie ciò che rimane
degli zoccoli delle colonne. A destra la balaustra si confonde con le lastre di pietra che
abbiamo detto appartenere alla caverna. Ma è innegabile che il corrimano della
balaustra, benché poco visibile, sia esistente, altrimenti le colonne non avrebbero
appoggio, e non può che essere rettilineo. Quindi otteniamo due rette orizzontali e
parallele al centro delle quali brilla il petto dorato della Gioconda.
E allora?
Proseguiamo.
Sappiamo già che Monna Lisa è inquadrata in un triangolo, questa volta preghiamo il
lettore di volerla collocare in un triangolo, aggiungiamo: equilatero anziché isoscele;
giacché poniamo la sua base sulla prima linea (in basso) che segna il corrimano della
balaustra e gli estremi del segmento sui confini attuali del quadro. A questo punto
sarebbe molto agevole riconoscere un altro triangolo equilatero se le vesti della Gioconda
fossero meno annerite dal tempo. Ma possiamo contare ancora una volta sulle copie e
notare come la linea del busto a sinistra e lo scialle vaporoso sulla spalla di destra
convergano verso le mani e formino la punta di un triangolo equilatero che ha la sua
base in alto, sulla linea delle acque superiori. Quindi abbiamo due triangoli equilaterali
che s’intersecano a formare una stella a sei punte … il Sigillo di Salomone!
Trattenendo una disdicevole esultanza,
leggiamo:
afferriamo subito il nostro dizionario;
“Il sigillo di Salomone” forma una stella a sei punte, composta da due triangoli
equilaterali incrociati. Questa figura è la vera sintesi del pensiero ermetico. Essa
contiene prima di tutto i quattro elementi: il triangolo con la punta in alto ∧
rappresenta il fuoco; il triangolo con la punta in basso ∨ l’acqua; il triangolo del fuoco
tagliato dalla base del triangolo dell’acqua … indica l’aria; all’opposto, il triangolo
dell’acqua tagliato dalla base del triangolo del fuoco … corrisponde alla terra. Il tutto
riunito nell’esagramma costituisce l’insieme degli elementi dell’universo. Se si
44
considerano le quattro punte laterali della stella, nelle quali si situano
convenientemente le quattro proprietà fondamentali della materia, si vedono le
corrispondenze fra i quattro elementi e le proprietà, opposte due a due: il fuoco unisce
il caldo e il secco, l’acqua l’umido e il freddo, la terra il freddo e il secco, l’aria l’umido e
il caldo. La variazione di queste combinazioni produce la varietà degli esseri materiali.
Il sigillo di Salomone appare allora come la sintesi degli opposti e l’espressione
dell’unità cosmica. Secondo le tradizioni ermetiche, il sigillo di Salomone indica anche i
sette metalli di base, cioè la totalità dei metalli nonché i sette pianeti che sono la totalità
del cielo. Al centro stanno l’oro e il Sole; la punta superiore è l’argento e la Luna;
l’inferiore, il piombo e Saturno; la punta in alto a destra, il rame e Venere; in basso il
mercurio e Mercurio; la punta a sinistra, in alto, il ferro e Marte; in basso, lo stagno e
Giove. Sulla base di questo esagramma si potrebbe moltiplicare il gioco delle
corrispondenze fra gli elementi, le qualità, i metalli e i pianeti, con le svariate gamme di
simboli. L’intero pensiero e lavoro dell’alchimia consiste nell’ottenere la trasmutazione
dell’imperfetto, che si trova alla periferia, nella perfezione unica che si trova al centro e
che è rappresentata simbolicamente dall’oro e dal Sole. La riduzione del molteplice
all’uno, dell’imperfetto al perfetto, sogno degli scienziati e dei filosofi, si esprime nel
sigillo di Salomone58”.
Ci fermiamo qui. C’è bisogno di far notare che il centro del sigillo di Salomone che
racchiude l’oro e il suo pianeta il Sole, il quale corrisponde al punto più luminoso del
dipinto di colore giallo e oro (la parte superiode del petto della Gioconda) coincide con il
luogo sospettato della Caverna? Il luogo metafisico ove si realizza il processo alchemico
della riduzione del molteplice all’Uno? Non possiamo nemmeno concederci un istante di
tregua perché se abbiamo visto giusto siamo subito rapiti e proiettati, salvo
complicazioni, verso
4) il senso anagogico,
Il senso che inietta un’essenza spirituale, la libertà e la giocondità, che com’è noto fa
tremare le vene e i polsi. Il poeta ha sgranchito le gambe, si è girato sul fianco e si è
sistemato il berretto. La nostra indegnità è passata inosservata. Ma insomma, nostro
malgrado ci siamo. Che cosa possiamo dire? Chi ha esperienza della trasmutazione? Più
che guardarci intorno e aspettare il sopraggiungere di un maestro! Una dimesione
morale che trapassa nell’anagogico? Vediamo: Come raffigurare simbolicamente il
concetto di amore e distacco, caratteristico della dimensione femminile del divino, che
richiama alla mente quello che fu definito l’eterno femminino? Lo ripetiamo a voce alta e
forte: che Leonardo abbia scelto di raffigurare nel sacro volto di Iside la dimensione
occulta e suprema di amore e distacco?
Abbiamo forse formulato la domanda giusta. Ecco che l’ombra del Garin, rimasta per
tanto tempo muta si avvicina e ci indica un volume da lui curato, “L’uomo del
Rinascimento” nel quale si trova un saggio su “Il filosofo e il mago” scritto di suo pugno.
Il saggio è volto a dimostrare come nel Rinascimento nasca un nuovo tipo di studioso, di
intellettuale, che chiamerà filosofo e addirittura mago, i cui connotati si potevano già
individuare nel Petrarca, che già era stato un promotore straordinario di cultura e di un
modo diverso di concepirla. Una cultura che sarebbe poco per volta uscita dalle antiche
università e dagli studi nei quali insegnavano i frati e monaci per essere trasformata nei
suoi contenuti e nei suoi scopi e insegnate nelle accademie dai nuovi filosofi:
58
Diz. dei Simboli, op. cit. pag. 388.
45
“Scrutare nella caverna, ossia penetrare a fondo nella realtà naturale (il riferimento
è proprio a Leonardo); interrogare le stelle; anatomizzare i viventi; dettare le leggi
alla città, anzi costruire la città; curare malinconia e follia: questi alcuni dei compiti di
colui che viene considerato e indicato come filosofo fra Quattrocento e Cinquecento, in
un progressivo aggiustamento del termine che si viene adeguando al profondo
mutamento culturale in atto, e al nuovo diffondersi dei filosofi antichi59”.
E per darci un’idea di come dal nuovo filosofo potesse uscire addirittura un “mago”
riferisce di un libro singolare uscito nel 1621 a Oxford, destinato a eccezionale fortuna
per tutto il Seicento, opera di un certo Democritus Junior, nome d’arte di Robert Burton,
che condensava e consegnava all’Inghilterra colta gran parte della riflessione filosofica
sull’uomo di autori appartenenti in gran parte al Rinascimento italiano. Il titolo
sorprendente del libro era “Anatomia della malinconia”:
“A cominciare dall’argomento, la malinconia e il malinconico, egli indicava, anche
senza dirlo esplicitamente, una delle sue fonti predilette, Marsilio Ficino, non a caso
citato di continuo. Malinconico, nato sotto Saturno, è l’intellettuale, anzi il filosofo, e in
particolare il nuovo tipo di filosofo, da un po’ di tempo circolante in Europa, quale
appunto Ficino: moralista e medico, mago e astrologo, che come i saggi antichi ride e
piange delle cose del mondo, e per cui la malinconia assume i caratteri della divina
mania di Platone. L’idea stessa di nascondersi sotto la maschera di Democritus Junior
poteva essere stata suggerita a Burton proprio dal Ficino, di cui si sapeva che nei locali
della sua ‘accademia’ aveva dipinto su una parete la sfera della Terra e, da un lato,
Democrito che rideva delle follie degli uomini, e dall’altro Eraclito che piangeva sulle
loro sventure”.
Democrito è colui che il mondo a caso pone: se tutto è davvero una danza di atomi nel
vuoto allora ogni vicenda umana deve rinunciare alla sua pretesa di senso e ridicole
appaiono le preoccupazioni e le fatiche degli uomini che non sanno adeguare le proprie
passioni a ciò che la ragione ci insegna. Democrito è il filosofo che sostiene l’infinità dei
mondi, veste i panni del saggio che ci invita a rinunciare ad una concezione
antropocentrica dell’universo e a ridere quindi della pretesa di chi crede di scorgere negli
eventi che accadono su questa terra un significato assoluto.
Al riso del filosofo cui la ragione insegna a prendere commiato dalle passioni
dell’uomo fa da contrappunto il pianto di Eraclito. Il filosofo del divenire che riconosce la
caducità degli eventi, nel tempo che travolge tutte le cose: ciò che è grande e suscita
ammirazione così come ciò che è piccolo e insignificante. Ciò produce il tragico in un
mondo in cui il senso trapassa nel non senso, il valore nel disvalore. Così un'identica
intuizione del divenire del mondo sottoposto ad una necessità cieca si affligge al cospetto
dell’inanità delle fatiche dell’uomo che vogliono imbrigliarlo. Sia Democrito che Eraclito
guardano con spirito disincantato alle passioni che travolgono gli uomini e dimostrano
con le loro reazioni dialetticamente contrapposte, unite in una medesima
rappresentazione, la gratuità o la contingenza sia del riso in Democrito, sia del pianto in
Eraclito. L’esito straordinario di questa rappresentazione è quella di esprimere un
concetto etico-filosofico della massima importanza: il concetto di DISTACCO, (che è
anche quello del Buddha), cioè della necessità, secondo la filosofia neoplatonica, di una
condizione umana che se non vuole naufragare è soggetta alla necessità del DISTACCO
dagli oggetti in cui crede e dall’amore che si manifesta con spirito egoistico, col fine
dell’utile o del possesso.
59
Eugenio Garin, L’uomo del Rinascimento, Laterza,2008, pag. 174.
46
Un distacco che conduce ad una biforcazione: se non conduce al cinismo sacrilego del
traditore che giace ghiacciato in fondo all’abisso, conduce di tappa in tappa al
ritrovamento della divinità interiore nella misura in cui solleva, lentamente, il Velo di
Iside, della schiacciante inconosciuta deità esteriore, con il superamento dell’Ego
interiore.
Donato Bramante, frammento di affresco, Eraclito e Democrito, Pinacoteca di Brera
E’ grazie ai lavori del Vannini, nella misura in cui li abbiamo compresi, che abbiamo
potuto cogliere, dall’interno, le articolazioni della riflessione neoplatonica e riconoscere
nella figurazione quelle tematiche: la conversione, il distacco, l’ascesi rappresentate
ermeticamente nella Gioconda.
Vorremmo perciò avvalerci di un’ulteriore chiarificazione a questo riguardo, che fa
tesoro di tutta la riflessione dei filosofi contemporanei da Hegel a Simone Weil, affinché
60
echeggi ancora il pianto e il riso dei due filosofi composti nella loro unità superiore nel
volto della Gioconda.
“Nel linguaggio comune la parola «spirito» è rimasto ormai solo per indicare la
dimensione accidentale e soggettiva dello stato d’animo, del sentimento – che invece è
proprio l’opposto di spirito. Il nostro mondo ha perduto il senso dell’opposizione
anima/spirito: la psicologia opera con le sole categorie di corpo e di psiche (neppure
«anima», che è termine carico di significato religioso-spirituale), in una beata
ignoranza di cosa spirito sia, e la teologia, dal canto suo, usa la parola in senso vago e
retorico, come rimando a un «soffio» o influsso divino, applicabile a tutto quello cui si
vuole dare valore, in una sfera di tipo mitologico.
Nel suo significato vero – ossia come realtà permanente e profonda dell’uomo, ben
oltre la superficiale mutevolezza dello psichismo – la parola spirito è così scomparsa,
ed è scomparsa perché ne è scomparsa l’esperienza. Per essa occorrono infatti
conversione, ossia la fine dell’egoismo naturale, e distacco, ossia la rimozione di tutti i
60
Dobbiamo avvertire che nella riflessione del Vannini, anima e spirito vengono trattati
come elementi antitetici, e ciò si giustifica con l’approfondimento hegeliano di questi soggetti,
che il Vannini condivide, ma che non è avversa nella sostanza, alla fenomenologia dell’anima e
dello spirito né del Ficino, né del Pico.
47
contenuti-legami psichici: quella che nella mistica si chiama «morte dell’anima», dopo
la quale soltanto si ha spirito, nella dimensione della grazia e della libertà.
In quanto concetto di Dio e concetto di uomo sono strettamente correlati, non
meraviglia così che all’attuale eclisse dell’uomo come spirito corrisponda, parimenti,
anche quella di Dio come spirito, e viceversa. Perciò i cosiddetti teologi mostrano
ancora una volta – come diceva Hegel ai suoi tempi – di non aver superato i
quattordici anni: le loro costruzioni appaiono «buffonerie presuntuose e tediose,
fingenti il discorso teologico», «favole invernali per bambini addormentati», e il
61
discorso teologico, «finora solo tentato da fiaba a fiaba», mai svolto effettivamente ”.
E laddove Vannini enuncia le verità della mistica, intesa come scienza dell’esperienza
dello spirito, (cui voleva condurci Dante con il bastone del “parlar coverto” e la carota dei
suoi versi) risalendo alle fonti greche a partire dalle formulazioni di Platone e di
Aristotele (che sia Ficino che Pico cercavano di conciliare), scrive:
“Non v’è dubbio, peraltro, che Aristotele sia (…) debitore di Platone, e in particolare
della concezione dell’amore che è espresso nel Convito – testo fondante di tutta la
mistica occidentale. Amore è infatti il cammino non solo dell’intelligenza, ma di tutto
l’essere, verso il Bene, che si mostra sensibilmente attraverso la bellezza. Tale cammino
è un continuo distacco, che incessantemente muove, di grado in grado, verso qualcosa
che è più grande, più bello, più universale, fino a giungere alla contemplazione di
quella bellezza che non ha più forma alcuna, determinazione alcuna, perché è appunto
il Bene in sé. Amore è distacco, dunque, come anche il pensiero, l’intelligenza sono
distacco: distacco dal sensibile, dal particolare, alla ricerca dell’universale – ricerca
non del bene particolare, privato, ma dell’Assoluto”.62
PERCHE’ MONNA LISA E’ LA GIOCONDA?
Abbiamo indicato come ad un’osservazione attenta il volto della Gioconda contenga
63
un ossimoro: la tristezza degli occhi e il sorriso della bocca uniti in un medesimo volto .
A questo proposito dobbiamo segnalare che in questo senso eravamo stati preceduti da
una studioso di cui ci dà contezza il Sassoon nel suo libro dedicato alla storia della
Gioconda, in tutti quei risvolti artistici, letterari, scandalistici, di cultura, di costume nei
quali è stata trascinata che vogliamo qui riportare sia a conferma di quanto già
evidenziato, sia come occasione ad ulteriori considerazioni. Scrive il Sassoon:
“La prima seria analisi del sorriso, al di là di quando ne fu semplicemente segnalata
l’esistenza (Vasari) o lo si definì enigmatico, si trova in uno studio di Raymond Bayer
del 1933, Lèonard de Vinci: La Gràce. Un sorriso sostiene Bayer, può illuminare un
volto intero, esso è un gioco di gote, di mento e di occhi. E’ una questione di luce. Il
sorriso della Gioconda è un mezzo sorriso, un “sourire attenué”. Coprite la parte
superiore del viso, segnala Bayer, e il sorriso espresso dalle labbra risulterà più
evidente. Coprite tutto tranne gli occhi e da quegli occhi vi apparirà il sorriso, solo
considerandoli insieme però. Le pupille non appaiono sorridenti; lo sguardo non
61
Marco Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio, Bompiani, Milano, 2010, pagg. 8-9.
62
Ibidem. Pag. 12.
63
I quali – ripetiamo - rimandano alla coppia dei due filosofi, che ridendo e piangendo
evocano la necessità del distacco dalle cose del mondo.
48
possiede alcuna scintilla, è sofferente, meditativo. Concentrandosi sulle singole parti del
volto, egli sottolinea che il labbro inferiore protende lievemente, così da prendere luce,
mentre la bocca rimane chiusa: da ciò deriva un accenno di sdegno. In tal modo,
suggerisce lo studioso, una molteplicità di significati è disponibile, ed è forse questo alla
base del successo che il quadro ebbe tra i posteri”64.
E’ un brano dal contenuto pericoloso perché se esaminato attentamente si potrebbe
dedurne che un critico d’arte può dire tutto e il contrario di tutto. Ma non pensiamo che
questa fosse l’intenzione né di Raymond Bayer, né evidentemente del Sassoon che ne
riporta le idee, presumibilmente in modo fedele. Ciò che va nella nostra direzione è che il
Bayer ha analizzato le diverse parti del viso separatamente, e solo così ha potuto
coglierne la problematicità espressiva. Poi è giunto a conclusioni abbastanza confuse che
cercheremo di volgere, per quanto possibile, in positivo. Primo non si capisce come abbia
potuto scindere le pupille e lo sguardo dagli occhi. Vi si dice infatti: “le pupille non
appaiono sorridenti, lo sguardo non possiede alcuna scintilla, è sofferente, meditativo”:
ciò che conferma la nostra lettura. La riga precedente aveva scritto però: “coprite tutto
tranne gli occhi e da quegli occhi apparirà il sorriso, solo considerandoli insieme però”.
Qui non vi vediamo che una pura e semplice contraddizione che qualora contenesse
qualcosa di vero andrebbe spiegata. Poi l’attenzione si sposta sulla bocca e possiamo
concordare col fatto che coprendo la parte superiore del volto “ il sorriso delle labbra
risulterà più evidente”. E’ un fatto: chiunque può verificare. Osservando ancora la bocca
conclude che essa esprime “un accenno di sdegno” poiché il labbro inferiore protende
lievemente e la bocca rimane chiusa. Francamente non lo vediamo.
Ciò che vediamo è invece un’altra cosa: se noi tagliamo in due la bocca nel senso della
verticalità, la parte di sinistra non è simmetrica rispetto a quella di destra, non perché la
figura è rappresentata di tre quarti, ma perché l’angolo dell’emibocca di sinistra è più
basso rispetto all’angolo dell’emibocca di destra. E quindi l’angolo della bocca di sinistra
non sorride mentre quello di destra sì, cioè è orientato verso lo zigomo. La diversa
inclinazione dell’angolo di sinistra – ed è qui un altro tranello di quello spiritoso di
Leonardo – è però compensato dallo spostamento della guancia come se quel lato
sinistro del viso sorridesse effettivamente. Sorride cioè solo la guancia di sinistra ma non
le mezze labbra i cui muscoli dovrebbero indurre lo spostamento della guancia, le quali
sono invece abbassate in un’espressione di normale quiete. Basta appoggiare un indice
per piatto su quell’escrescenza guanciale, per rendersi conto che il riso si affievolisce
immediatamente. Questo stratagemma è però costato a Leonardo che la sua Gioconda
non sia considerata universalmente la più bella tra le donne, ma una donna paffutella di
cui non si capisce la decantata bellezza. E tuttavia ciò non contrasta con l’indiscutibile
uso mediatico di cui è fatta segno. Perciò concordiamo con il Bayer che essa possa
evocare una molteplicità di significati, ma più che di significati parleremmo di percezioni
e quindi di significati.
Ritornando alla Signora che sorride con la guancia e non con le labbra e all’idea
soggiacente all’intenzione di quel mistificatore di Leonardo, questo ulteriore elemento ci
fa pensare che il sorriso della Gioconda, sull’onda del Bayer che parla di un sorriso
“attenué”, gravato dalla mestizia degli occhi, si compone in una serena malinconia:
un’espressione che evoca la nostalgia dell’Uno …
Piacerebbe, a parziale conclusione della nostra analisi, dire qualcosa intorno
all’indubbio fascino che ha sempre esercitato la Gioconda, onde spiegare in termini
64
Donald Sassoon, La Gioconda, Carocci, 2001. Pagg 21-22.
49
-
-
ragionevoli l’uso mediatico di cui è oggetto, senza che in fondo se ne sappia il perché.
Qual è la radice del suo magnetismo, della sua capacità di fermare l’attenzione, di
sentirsi volta a volta sorpresi dalla sua aria sorniona, impassibile, serena, mesta,
sorridente… senza che se ne possa venire a capo. L’enigma della Gioconda è proprio qui,
lo abbiamo appena enunciato: essa attira perché non sappiamo ciò che ci attira, perché
non riusciamo a riconoscere uno stato d’animo comprensibile, traducibile, che ci lascia
nell’incapacità di restituirle un segnale, anche muto, di risposta. Sorridiamo a chi ci
sorride, salutiamo chi ci saluta, istintivamente. Ma nessuno stato d’animo riesce a
formarsi e a definirsi dentro di noi, malgrado le risorse di mimetismo che ci portiamo
dentro e a cui siamo soggetti essendo animali sociali.
Il quadro appeso alla parete, in un museo, di per sé, non può disporci all’ostilità e
siamo dunque predisposti a lasciarci cullare ed elevare dall’immagine artistica che ci
rimanda. Siamo cioè preliminarmente in una zona franca, in un territorio dove
etologicamente vige la distensione e la simpatia può esprimersi liberamente. La
Gioconda, figura placida come una sfinge non ci conferma e non ci comunica nessuna
sensazione definita, che susciti sicurezza. Anzi sembra interrogarci. Non vorrà forse
pronunciare il famigerato: conosci te stesso!? E se anche fosse, come fa a dircelo nel suo
linguaggio inarticolato?
Non ci resta che guardarci di nuovo intorno, fischiettando. Una vera disdetta. La
domanda è giusta, è collaudata, invecchiata, maturata, marcita … forse … Si tratta
proprio del quesito fondamentale vecchio quanto la Gioconda. Perché la Gioconda è la
Gioconda? Non serve gridarlo. Qui non si tratta né di minuti, né di ore, né di giorni.
Forse di anni, di secoli?
Qualcuno viene nonostante tutto nella nostra direzione. A dire il vero una figura
insolita, per non dire originale. Non abbiamo la minima idea di chi… sarebbe
imbarazzante prendere un abbaglio! Una persona di colore, porta un turbante … Ci ha
risposto Aladino? Il suo Genio? Qui si scade nel grottesco! Ma non abbiamo scelta:
bando agli indugi:
Buongiorno!
Buongiorno! Sono Vilayanur Ramachandran, indiano, professore di neuroscienze e
psicologia all’Università della California di San Diego, direttore del Center for Brain and
Cognition e professore aggiunto di biologia al Salk Institute. Autore di centinaia di
pubblicazioni scientifiche e di alcuni volumi divulgativi, tra i quali quello che lei ha in
mano.
“Che cosa sappiamo della mente”?
Quello. Provi ad andare a pagina 46. Lì troverà che ho individuato e proposto agli
studiosi “le dieci leggi universali dell’arte”. Non si spaventi; per spiegare il suo caso ne
bastano solo due o tre. Dovrà comunque accennare qua e là al contenuto delle altre. Lasci
tranquilli i polsi e le vene. Sia serio. Ce la farà.
Proviamo. Le leggi sono le seguenti: 1. Iperbole; 2. Raggruppamento percettivo; 3.
Risoluzione di problemi percettivi; 4. Isolamento modulare; 5. Contrasto; 6. Simmetria;
7. Avversione per le coincidenze sospette e per le singolarità; 8. Ripetizione; 9.
Equilibrio; 10. Metafora.
La prima legge dell’iperbole afferma che se in una costellazione di segni che presenta
un andamento unitario si ingigantiscono i più significativi rispetto alla sua
configurazione globale, la reazione dell’osservatore sarà più forte e immediata. Su questa
legge si basa da un lato l’apprendimento negli animali superiori, dall’altro, e per quanto
ci riguarda, l’effetto di una caricatura.
La seconda legge del raggruppamento percettivo, invece, ci riguarda da vicino.
50
Ci dovremo avvalere del cane dalmata di Richard Gregory.
“All’inizio – dice Ramachandran – l’immagine ci pare solo un’accozzaglia di macchie
ma il cervello cerca di risolvere il problema percettivo e di trovare un senso al caos:
dopo trenta o quaranta secondi raggruppiamo i frammenti nel modo giusto, tutto
all’improvviso va al suo posto e alla fine individuiamo la sagoma del cane. (…)
L’esempio del dalmata è molto importante, perché ci ricorda che la visione è un
processo assai complesso e sofisticato. Anche per guardare la più semplice delle scene si
mette in moto una complicata gerarchia di dinamiche, un processo a più stadi. A
ciascuno stadio, quando si arriva a una soluzione parziale, per esempio quando viene
riconosciuta una parte del cane, vi è un piccolo segnale di gratificazione, un “Ecco!”
iniziale, e viene inviato agli stadi precedenti un messaggio che influenza e facilita
l’ulteriore correlazione tra caratteristiche del cane. E’ attraverso questo innesco
65
progressivo che l’immagine si completa, producendo nel sistema limbico il grande
“Ecco!” finale”.
Ed eccone la ragione: “La visione si evolse soprattutto per permetterci di individuare
gli oggetti nonostante il mimetismo. Noi adesso non ce ne rendiamo conto perché, se ci
guardiamo intorno, vediamo solo oggetti ben definiti, ma proviamo a immaginare i
nostri antenati primati che, cercando di riconoscere i contorni di un leone fra le
tremule foglie della foresta, si rifugiavano in cima agli alberi. L’immagine sulla retina
rimanda solo tanti frammenti gialli di leone seminascosti dal fogliame, ma il sistema
visivo «sa» che le probabilità che tutti quei frammenti dello stesso giallo appartengono
a oggetti diversi sono pari a zero: essi devono per forza appartenere al medesimo
oggetto. Il sistema visivo li collega, basandosi sulla forma complessiva decide che è un
leone e invia un potente «Ecco!» di avvertimento al sistema limbico, il quale dice agli
ominidi di scappare66”.
Quindi:
“L’eccitazione e l’attenzione stimolano il sistema limbico. A mano a mano che l’occhio
è attirato da entità parziali simili a oggetti si registrano degli «Ecco!» a ogni stadio
della gerarchia visiva. Che cosa cercano di fare un pittore o uno scultore? Cercano di
generare più «Ecco!» possibile in più aree visive possibile, stimolandole con quadri e
sculture più di quanto le avrebbe stimolate la vista di scene naturali o immagini
67
realistiche. A ben riflettere, non è una cattiva definizione di arte ”.
65
Il sistema limbico del cervello è preposto alle emozioni.
66
Vilayanur S. Ramachandran, Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, 2006, pag.
52.
67
51
Secondo la terza legge, la legge della risoluzione di problemi percettivi, la
connessione tra centri visivi e centri emozionali (il sistema limbico) assicura che lo stesso
atto di cercare la soluzione sia piacevole, come lambiccarsi sopra un puzzle è piacevole
già molto prima dell’«Ecco!» finale.
La quarta legge riguarda l’“isolamento modulare” o “dell’attenuazione”:
“Un nudo appena abbozzato di Picasso, Rodin, o Klimt è assai più suggestivo di una
donnina nuda in quadricomia. Analogamente, i tori delle pitture rupestri della grotta
di Lascaux, pur essendo semplici come disegni animati, danno del toro un’immagine
assai più incisiva ed evocativa di una foto dell’animale pubblicata su «National
Geographic». Ecco perché qualcuno ha coniato il famoso aforisma «Il meno è più». Ma
perché il meno è più? Non è un principio in netto contrasto con la prima legge, ossia
con l’iperbole che genera una sequela di «Ecco!»? Un paginone di «Playboy » contiene
molte più informazioni e dovrebbe eccitare molto più aree e molti più neuroni
cerebrali; perché, allora, non è più bello delle pitture rupestri o di un disegno di
Picasso?
La spiegazione del paradosso sta in un altro fenomeno visivo, l’«attenzione». Si sa
che non possono esserci simultaneamente due moduli di attività neurale sovrapposti.
Benché il cervello umano contenga cento miliardi di neuroni, nessun modulo può
sovrapporsi all’altro; in altre parole, c’è un collo di bottiglia nell’attenzione a causa del
quale ci si può concentrare solo un’entità alla volta. I dati principali relativi alla
morbida, flessuosa figura femminile del paginone centrale provengono dai contorni del
corpo. Il colore della pelle, il colore dei capelli e altri dettagli sono irrilevanti, anzi
distraggono l’attenzione su cui dovrebbe concentrarsi: i contorni e la forma del corpo
della ragazza. Omettendo gli elementi irrilevanti di uno schizzo o da un disegno, l’artista
risparmia al cervello molta fatica, e gliene risparmia ancora di più se accentua i
contorni per creare un «supernudo» o, per così dire, un «nudo al quadrato68».
Tutto ciò è sufficiente a consentirci di formulare un’ipotesi interessante? Forse sì!
Pensiamo di poter lasciare indietro la prima legge perché manifestamente la Gioconda
non è una caricatura, anzi è un volto privo di connotazioni fisiognomiche; come direbbe
Ramachandran, i suoi elementi: bocca, naso, occhi, mento, ecc., costituiscono una
“media” di nasi, bocche, ecc. di una popolazione di razza bianca. Quello che invece la
denota è la particolare accentuazione e problematicità dello stato d’animo che Leonardo
gli ha infuso e dal quale sembra dipendere il suo magnetismo. Sappiamo quanta
importanza ha la mimica facciale tra i primati. La lettura della mimica fa parte del nostro
modo naturale di rapportarci l’un l’altro: rivelando gli stati d’animo condiziona
spontaneamente le relazioni e i comportamenti. Sarebbe persino superfluo sottolinearlo,
se non fosse una percezione recepita a livello “istintivo”, a livello subliminale. Possiamo
ricorrere ad un esempio eloquente traendolo da un’osservazione comune, non di
laboratorio. Roberto Vacca, nel suo libro Imparare più cose e vivere meglio segnalava
tra lo stupore e lo sconcerto l’accadimento futile che aveva il potere di condizionare
l’umore di una sua giornata di lavoro: dopo attenta riflessione si era accorto che
dipendeva in gran parte dal grado di empatia del saluto dell’edicolante da cui si recava
ogni mattina per comprare il giornale.
Ibidem, pag. 53.
68
Ibidem, pagg. 54-55.
52
La seconda legge ci informa che la percezione è un processo, ed esso avviene a più
stadi e che questi stadi sono legati tra di loro – in termini etologici - da messaggi di
ritorno di successo: una sequenza di “Ecco!”, che secondo
- la terza legge, procurano piacere, grazie al sistema limbico.
- la quarta legge descrive il processo dell’attenzione che innesca un processo di tipo
astrattivo: esclude i dettagli e si concentra sulla forma, “i contorni”, “la forma del corpo
della ragazza”, risparmiando “fatica”: che è manifestamente un messaggio di ritorno di
“insuccesso”. Il quale si traduce in uno sprone ad ulteriore ricerca (nella ricerca del
piacere) in altra direzione, costituendo nell’insieme un sapiente bilanciamento biologico
dialettico: una ricerca sostenuta da risultati positivi, gli “Ecco!” coadiuvata da sensori che
guidano come fari (fatica) l’attenzione, segnalando le direzioni non remunerative ovvero
che non producono conferme di piacere. Affinché ciò possa avvenire “occorre che, a ogni
stadio dell’azione, la vista parziale del suo corpo sia abbastanza piacevole da stimolare
un’ulteriore ricerca e da evitare che ci scoraggiamo e rinunciamo all’obiettivo69”.
Applicato alla Gioconda che cosa può voler dire tutto ciò? Conosciamo l’oggetto della
nostra ricerca: che cosa produce il magnetismo dal quale dipende l’universale attenzione
di cui è fatta segno la Gioconda? Procediamo come è nostra consuetudine. Abbiamo
pronunciato inavvertitamente la parola “attenzione”, presto, andiamo a cercare sul
dizionario dei Simboli.
Il lemma “attenzione” non c’è! Non ha funzionato. Ci siamo presi in giro da soli!
Abbiamo scherzato. Ce la dobbiamo cavare con quanto abbiamo abbondantemente
riportato. Ma poniamo che sia proprio dall’“attenzione” che dobbiamo partire.
L’attenzione, nell’osservazione di una immagine, innesca un processo astrattivo che
nell’escludere i dettagli riesce a ricostruire un supercontorno o un superprofilo dal quale
emerge prepotente l’essenza, l’archetipo della figura rappresentata: scoperta l’essenza, la
media, riconosciuto l’oggetto, il nostro cervello gode, ma al contempo fa scattare un
comando inerente al significato: l’ominide, che ha scorto un leone, per esempio, scappa.
Se vediamo sbucare un cane dalmata da una siepe ci chiediamo immediatamente se tra
lui e noi non si frapponga una rete metallica, a seconda che ci mostri i canini o no. Ed è
nel senso di questa “utilità” che ha potuto esercitarsi quella pressione selettiva che ci ha
dotato di organi di senso sempre più raffinati: per tradurre e collegare gli oggetti reali a
significati dapprima semplici: ostile, amico o indifferente; e poi sempre più sofisticati, in
un circuito che si potenziava e raffinava reciprocamente.
Vogliamo sottolineare il fatto che il riconoscimento della figura che genera un moto di
soddisfazione al cervello si accompagna sempre ad un significato, che si traduce in un
comando, sia esso di attivazione o di inibizione della reazione, che deve avere un
rapporto adeguato alla situazione. Ora l’immagine alla quale Ramachandran è ricorso
per farci capire il concetto di attenzione è quella di un nudo pubblicato su Play-boy
comparato a un disegno di Picasso, di Rodin o di Klimt. Ed è palese che un nudo di Klimt
o di Rodin, faccia scattare un moto di avvicinamento, ma a condizione che lo si
riconosca come nudo e gli si attribuisca un significato erotico; non è detto che ciò
avvenga sempre con Picasso.
Nella Gioconda , come abbiamo detto, non c’è il problema del riconoscimento, non c’è
una stilizzazione caricaturale e nemmeno il suo inverso: un insieme di macchie su un
muro dalmata dal quale ricostruire un volto70: è il volto puro e semplice di una donna. Si
69
Ibidem, pag. 53.
70
53
pone però il problema del significato che gli è correlato e che istintivamente cerchiamo
in esso, secondo una determinazione, una coazione iscritta nei nostri geni, e non
troviamo: perché non è univoco.
Ed è qui che Leonardo – forse anticipando Ramachandran – si fa beffe del processo
attentivo. Non c’è elemento che nel volto della Gioconda rimandi ad un altro in modo
coerente. Il processo attentivo va incontro ad una sistematica frustrazione e gira in
tondo, e in generale, va dagli occhi alla bocca, dalla bocca agli occhi, e orizzontalmente
dall’emibocca destra all’emibocca sinistra, senza riuscire a fermare un’immagine dello
stato d’animo che essi rappresentano. Proprio perché “non possono esserci
simultaneamente due moduli di attività neurale sovrapposti”, e “c’è un collo di bottiglia
nell’attenzione a causa del quale ci si può concentrare solo su un’entità alla volta”
quando la nostra mente si fissa sull’intensità dello sguardo e si abbandona alla ricezione
della tristezza che emana, e decide che quello è il vero stato d’animo, che giace nelle
profondità della sua anima, appena vuol imporlo all’intero suo volto. Su cui si sposta
l’attenzione, viene contraddetta dal sorriso; e più si sosta sul sorriso per coglierne la
verità, più la presenza degli occhi diventa fioca. E ciò varia a seconda della natura degli
sforzi che ognuno fa a seconda della propria sensibilità. Ma in generale, facendo la
media, la nostra attenzione oscilla come un pendolo: scivolando da una allegria
malinconica e frenando, risalendo verso una malinconia sofferente: sorelle di un
fatalismo olimpico, una solitudine divina.
Il magnetismo che emana dipende dunque dal fatto che essa rinvia alla nostra
attenzione un messaggio che non sappiamo decifrare, cui non sappiamo dare una
risposta. Il nostro sforzo ripetuto, se non è intervenuta la rinuncia, fa affiorare il
garbuglio oscillante alla nostra coscienza che si tramuta in una conversione: se prima
eravamo noi a cercare di dare istintivamente una risposta inconscia, adattando la nostra
mimica facciale alla sua, adesso affiora in noi la domanda. E il nostro Io, con tutti i suoi
neuroni, pretende una risposta: ma la risposta non giunge: è una risposta complessa. La
nostra attenzione è inceppata in tanti colli di bottiglia. Stupiti, ammaliati da una serenità
sfingea che promana un insieme mobile di impressioni, supponiamo che un sovrumano
pensiero alberghi nella sua mente. Forse, in quel momento, realizziamo pure il dubbio
che non siamo degni di una risposta. Così formuliamo l’ipotesi che nella risposta negata
sia contenuta una grande verità, che ci riguardava personalmente, poiché essa ci ha
trattenuto inaspettatamente andando dritto nel nostro intimo. Quando decidiamo di
allontanarci, di staccarci da lei, di rinunciare a quella sua calda attrazione gentile, ci
sembra di abdicare alla nostra intelligenza. Forse in quell’attimo in qualche petto
malinconico risuona sommessamente quel “conosci te stesso!” che suona come invito a
uscire dalla inferiorità.
LA GIOCONDA GIOCA? OVVERO, DIO GIOCA
Vilayanur Ramachandran ci ha salutati congiungendo le mani davanti al petto
chiamato da più pressanti impegni. Ma noi siamo intenzionati ad utilizzare
ulteriormente il suo testo anche in sua assenza: potevamo forse rimanere insensibili alla
seguente osservazione?
“Quasi tutte le grandi opere d’arte, occidentali o indiane che siano, sono dense di
metafore e hanno più livelli di significato71”.
Un gioco istruttivo che Leonardo si divertiva a suggerire ai suoi allievi: inventare o
riconoscere figure a partire dalle macchie di muffe o di altro genere su muri screpolati, nel suo
Trattato della pittura.
71
Op. citata, pag. 60.
54
Grazie. Tra le leggi dell’arte proposte dunque da Ramachandran, figurava, ultima, la
“metafora”: a suo dire, la più elusiva. A questo proposito cita prima una metafora
letteraria del poeta indiano Tagore, e commenta poi una metafora figurativa, relativa ad
una scultura indiana, l’una e altra vicinissime al nostro tema, ma è la seconda quella che
più ci tocca da vicino:
“Si pensi alle doppie braccia dello Shiva danzante, o Natarjana, raffigurato in un
bronzo della dinastia dei Chola, del XIII secolo. Le molte braccia simboleggiano i
molti attributi
Shiva Natarjana
divini di Dio, e l’anello di fuoco in cui Nataraja danza, nonché la danza stessa, sono una
metafora della danza cosmica e del ciclo della creazione e della distruzione72”.
Questa grandiosa metafora ha per Ramachandran, come per noi, un’importanza
notevole. Infatti noi vorremmo proprio sostenere che nel secondo nome con cui ci è
pervenuta Monna Lisa, ovvero la Gioconda, non sia contenuta soltanto la declinazione al
femminile dell’aggettivo “giocondo”, ovvero gioioso o allegro, ma soprattutto l’inclusione
del termine “gioco” e perciò del suo significato, da cui l’aggettivo propriamente deriva.
L’aggettivo derivato, “giocondo” contiene dunque nel suo etimo non solo una
connotazione di allegria, di spensieratezza, ma anche quella di sofferenza e di lotta, che è
in fondo l’origine vera e propria del gioco. Il quale prima di essere espressione dei
bambini e appannaggio dei cosiddetti sportivi, costituisce la stilizzazione e la
sublimazione delle attività più serie dell’uomo: il lavoro, la caccia e la guerra. Tutte
72
Ibidem, pagg. 59-60.
55
materie in cui creazione e distruzione si avvicendano: l’aratro che sconvolge la terra per
far posto alla spiga di grano, la punta della lancia che perfora le viscere dell’antilope, la
contesa del territorio e del cibo.
Che cosa significherebbe che Monna Lisa giochi? Vorrebbe dire che Iside, ovvero lo
specchio femminile di Dio, imprimendo movimento e vita all’universo ordinato e
regolato dagli archetipi stabili del Dio maschile, viene immesso in uno stato di perenne
trasformazione, sotto forma di cicli, rivoluzioni, implosioni ed esplosioni, alla stessa
stregua di un “gioco” che si svolge alla scala macro e microcosmica?
Infatti nessuno pensa che Dio Uno, creando, emanando, si trasformi come le sue
controparti mortali in bestia da soma: no. Dio non lavora: gioca! In verità è il proprio di
Dio di giocare poiché sarebbe una diminuzione di Dio immaginare che Egli agisca o crei
per necessità: perché allora sarebbe sovradeterminato; o per un sentimento di
solitudine: e allora sarebbe da compatire; o, ancora più grave, per un sentimento di
compiacimento verso se stesso, cioè per impulso narcisistico: e allora sarebbe umano,
troppo umano, degno di una Caduta. Quindi l’immagine più razionale, meno
contraddittoria di Dio è quella di un Dio che “esistendo”, crea in libertà, gratuitamente,
per il solo fatto di “esistere”, perché in Lui “esistere” e “creare” coincidono, come per il
sole irraggiare luce e calore. Forse in modo non troppo diverso rispetto a noi mortali
occupati a resistere a più repentini e superficiali avvicendamenti della delicata e vivente
crosta terrestre,
continuando microcosmicamente l’opera divina, costruendo
faticosamente e contraddittoriamente una supernatura, perpetuando la nostra specie,
scommettendo involontariamente e gratuitamente, che la nostra
esistenza sia
necessaria.
Perciò dall’allegria e gioia intima insita nella gratuità dell’idea di gioco, non si può
separare l’idea di lotta, di fatica, consustanziali a colui che gioca: il gioco, come ogni
creazione, contiene come forza propulsiva una profonda e energica volontà interiore
votata alla manifestazione. Nella vocazione al gioco dei bambini, in cui è molto più
agevole scorgere questa gioia, gratuità, concentrazione e fatica – ad un tempo “spirituali
e materiali” allo stato nascente - gli psicologi riconoscono la manifestazione di una
sovrabbondanza di energia psichica e fisica che va lasciata libera di sfogarsi. Essa
costituisce la massima espressione di fiducia nella vita del giovane essere venuto alla
luce, una fiducia “primaria”, che oltrepassa lo scopo, il mero finalismo, l’utile. Il gratuito
che non abbisogna di motivazioni, di moventi, contrapposto all’utile che guida l’azione
degli adulti, è il proprio dell’infanzia che assimila e spende se stessa, crescendo e
assimilando, senza un “perché?”. L’energia dei bambini rassomiglia – sia detto di passata
– alla sovrabbondanza dell’Uno di Plotino, alle forze elementari e primigenie che
erompendo liberamente portano in sé un disegno costruttivo73.
Ramachandran, che ha liberamente deciso di accompagnarci e di confortarci con il
suo Natarjana, insiste nel volerci stupire. Benché l’argomento non inerisca strettamente
le neuroscienze, e confinando perciò i suoi pensieri in una nota oltremodo corposa,
arricchisce ulteriormente il tema che stiamo delineando. Insistendo sulla profondità
spirituale contenuta nell’idea di un Dio che nel gioco esprima la sua essenza74 e
73
A questo aspetto “serio”, spontaneo e costruttivo dell’infanzia, nessuno più di Leonardo
è stato sensibile. Nella Madonna Benois, di San Pietroburgo, egli rappresenta in modo
impareggiabile la concentrazione intelligente del bambino che osserva un fiorellino stretto nella
dita della madre, piena di stupore e di orgoglio.
74
56
prendendo spunto dal giudizio incauto di un certo Sir George Birdwood, critico d’arte
vittoriano che aveva definito lo “Shiva Natarjana” un “mostro tentacolare”, il
neuroscienziato indiano, evidentemente piccato, si avvale dell’opera di un altro
specialista per svolgere ulteriormente il profondo significato della statua, mettendo a
confronto due punti di vista contrapposti:
“Non tutti i critici d’arte occidentali erano ottusi come Sir George. Lo studioso
francese René Grousset descrisse in questo modo lo Shiva Natarjana: «Che sia
circondato o no dall’aureola fiammeggiante del tiruvasi: l’anello cosmico che egli
riempie e a un tempo supera, il signore della danza rappresenta il trionfo del ritmo.
Con il tamburello che tiene in una delle due mani destre invita tutte le creature al
movimento ritmico ed esse danzano in sua compagnia. I riccioli sollevati in bell’ordine
dal vento e la sciarpa sospesa in aria tradiscono la velocità del moto universale, che
cristallizza la materia per poi ridurla in polvere. Con una delle due mani sinistre regge
il fuoco che anima e divora il mondo nel vortice cosmico e, con il piede destro, schiaccia
il demone dell’ignoranza, perché “questa danza si esegue sopra i corpi dei morti”; nel
contempo, con la mano destra libera compie il gesto di protezione, sicché è vero che,
considerata dal punto di vista cosmico (…) la crudeltà del determinismo universale, in
quanto principio generatore del futuro, è anche benevola. In diversi bronzi, poi, il
signore della danza sfoggia un grande sorriso. Egli sorride alla morte come alla vita, al
dolore come alla gioia; se così possiamo dire, il suo sorriso è morte e vita, gioia e dolore
… Se si guarda all’opera da quest’ottica elevata, tutte le cose hanno un senso, tutte le
cose hanno la loro logica e giustificazione. La stessa molteplicità di braccia, che a
prima vista può apparire sconcertante, segue una sua legge interna, giacché ciascun
paio è, in sé, un modello di eleganza e l’intero Nataraja esprime nella sua terribile
gioia, una suprema armonia. Quasi a voler sottolineare il concetto che la danza del
divino attore è in realtà una forza, la forza della vita e della morte, della creazione e
della distruzione, a un tempo infinito e insensata, la prima mano sinistra pende floscia
nel gesto noncurante del gajahasta (mano come proboscide di elefante). Infine, se
guardiamo la statua da dietro, la fermezza delle spalle che reggono il mondo e il
poderoso dorso gioviano non sono forse il simbolo della stabilità e dell’immutabilità
della sostanza? E il moto rotatorio delle gambe, nella sua vertiginosa velocità, non sta
forse a significare il vortice dei fenomeni?»”.
Così Grousset, nella citazione di Ramachandran.
Si ritrovano qui, riuniti e raffigurati in una sola immagine, i concetti che abbiamo
individuato nella rappresentazione dei due saggi dell’antichità greca: non siamo forse
ritornati al cospetto del riso senza pietà di Democrito e al pianto senza lacrime di
Eraclito? Non vi è riunita la commistione di gioia e dolore, passività e azione, senso e
non senso, insomma le polarità di cui è intessuto il cosmo e la stessa vita-morte umana?
L’idea di fornire di quattro braccia e di quattro mani la divinità è indice di una diversa
sensibilità artistica che preferisce “unire”, piuttosto che “separare” e “contrapporre”
com’è d’uso in Occidente, le figure dei due filosofi.
Leonardo fonde, invece, come nel Natarjana, in nuova inseparabile unità il contrasto
cosmico, in una mite dialettica figurativa dei complementari anziché dei contrari,
sovrapponendo l’immagine del dolore e della gioia nell’unico volto divino della
Gioconda; ricacciando nel paesaggio tutto ciò che – attraverso il distacco - è
umanamente incomponibile: le vette e i laghi alpini da un lato; le frane e le acque
stagnanti dall’altro.
57
In questo modo risorgono da profondità abissali le concezioni delle più remote civiltà
umane che prosperarono per millenni, le quali, l’Indiana come l’Egiziana, essendo
prossime al Principio, presentano fuse in un unico crogiolo Religione e Filosofia (intesa
come Scienza), prima della loro scissione e separazione da quell’unico organismo che era
la Sapienza Una e cioè prima della Caduta. Una caduta che ha prodotto una polarità
nuova, che ha avuto come conseguenza la desacralizzazione dell’esistenza, cui la
Religione da un lato, divelta dalla sua naturale linfa, ha voluto porgere una toppa, e la
Filosofia la sua, dall’altra. Una Sapienza che i neoplatonici fiorentini con l’egiziano
Ermete tentarono di risuscitare, e che ogni uomo nel corso della sua vita tende a
ricomporre in sé: l’armonia tra sentimento e volere, tra amore e intelligenza, tra impulsi
e ragione.
Sulla comprensione della differenza – quasi un’opposizione – tra religione e filosofia,
tra Amore della sapienza e Sapienza, è necessario soffermarsi un poco, perché
fondamentale nella considerazione di ciò che fu e volle essere il Rinascimento, e quindi
uno dei suoi figli, Leonardo. A questo scopo le parole di Giorgio Colli non saranno
superflue:
“Le origini della filosofia greca, e quindi dell’intero pensiero occidentale, sono
misteriose. Secondo la tradizione erudita, la filosofia nasce con Talete e Anassimandro:
le sue origini più lontane sono state cercate nell’Ottocento, in favolosi contatti con le
culture orientali, con il pensiero egiziano e quello indiano. Per questa via non si è
potuto accertare nulla, e ci si è accontentati di stabilire analogie e parallelismi. In
realtà il tempo delle origini della filosofia greca è assai più vicino a noi. Platone chiama
«filosofia», amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa,
legata a un’espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. E Platone guarda con
venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i «sapienti». D’altra
parte la filosofia posteriore, la nostra filosofia, non è altro che una continuazione, uno
sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come
un fenomeno di decadenza, in quanto «l’amore della sapienza» sta più in basso della
«sapienza». Amore della sapienza non significava infatti, per Platone, aspirazione a
qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che già era stato
realizzato e vissuto. Non c’è quindi uno sviluppo continuo, omogeneo, tra sapienza e
filosofia. Ciò che fa sorgere quest’ultima è una riforma espressiva, è l’intervento di una
nuova forma letteraria, di un filtro attraverso cui risulta condizionata la conoscenza di
quanto precedeva. La tradizione in gran parte orale della sapienza, già oscura e avara
per la lontananza dei tempi, già evanescente e fioca per lo stesso Platone, ai nostri
occhi risulta così addirittura falsificata dall’inserimento della letteratura filosofica. Per
un altro verso è assai incerto l’estensione temporale di quest’epoca della sapienza: vi è
compresa la cosiddetta età presocratica, ossia tra il sesto e il quinto secolo a. C., ma
l’origine più lontana ci sfugge. E’ alla più remota tradizione della poesia e della
religione greca che bisogna rivolgersi, ma l’interpretazione dei dati non può evitare di
essere filosofica75.”
A parte un certo infondato pessimismo, espresso da Giorgio Colli, sulla potenza
dell’indagine archeologica, etnologica, paleontologica, antropologica, filologica,
linguistica e altre scienze ancora, che, ciascuna nel proprio ambito, offrono dati più
sperimentali della “filosofia”, e sulla possibilità di andare in futuro oltre “analogie e
parallelismi”, questo aperçu, offre nondimeno in modo magistrale il senso della distanza
che corre tra l’amore della sapienza e il possesso della “Sapienza” tout court; concetto
75
Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, 1975. Pagg. 13-14.
58
che ai nostri fini è tutt’altro che trascurabile, poiché è proprio questa Sapienza
“misteriosa” che i pensatori dell’Umanesimo rinascimentale volevano disseppellire, non
già per amore erudito, ma per trasformare l’esistenza, con la certezza che questo ritorno
alle fonti avrebbe dato nuova linfa, potere e spiritualità alla società civile nella sua
interezza. E’ dunque con lo spirito e l’entusiasmo di chi era giunto a impossessarsi degli
strumenti di ricerca adeguati che si rilessero i documenti antichi; si tracciarono piani di
“città ideali”; si fondarono scuole per fanciulli improntate ad una nuova pedagogia; si
fece largo una considerazione rinnovata dell’uomo, del bambino, e finanche della donna.
Lo attestano in modo insuperato, secondo Federico Zeri, proprio i dipinti di Leonardo
ove ritrae Ginevra Benci e le amanti di Ludovico il Moro, dai quali emerge un’attenzione
vivissima e sconosciuta sino ad allora, alla psicologia femminile.
Fonti dunque che sopravvivevano non già soltanto nei testi e nelle cattedre di filosofia
o di teologia ma in un sapere non mai estinto, che proveniva da tutte le regioni e paesi
che si affacciavano sul Mediterraneo, in particolare dall’Egitto, dalla Grecia e da Roma
antica; a volte occulto, a volte palese, rifugiatosi nelle sopravvivenze delle tradizioni
templare, catara, alchèmica, ermetica, pitagorica, cabalistica, muratoria; o venuto alla
luce attraverso il profetismo eretico, ma che, pur nella sua apparente farraginosa
diversità, aveva come fulcro un principio irrinunciabile: la credenza che l’origine e
l’esistenza di questa Sapienza fosse coincisa con una cosiddetta “Età dell’oro” o
altrimenti detta dei “Saturnia Regna”. Età dell’oro, cui per successive “cadute”, si era
passati, rifacendosi a Esiodo, rotolando giù pesantemente di gradino in gradino, dall’età
dell’oro all’età dell’argento, da questa all’età del bronzo, e poi del ferro: in cui loro e noi,
presentemente ci agitiamo.
“Si venivano così riconfigurando – dice il Garin - fra il secolo XIV e il XVI, fra la fine
del Medioevo e l’origine del Rinascimento, alcuni temi che si consideravano
caratteristici della “spiritualità” medievale: secolo nuovo, età nuova, renovatio, venuta
dell’Anticristo, venuta del Messia, avvento del Regno, unificazione dell’umanità. La
cultura “rinata” si presentava consapevolmente come un compimento di quelle attese,
di quegli annunci, attraverso un’interpretazione specifica dei concetti stessi di secolo
nuovo, di pace universale, di ritorno alle origini, di riunificazione dell’umanità. D’altra
parte nel punto medesimo in cui quei motivi venivano accettati, venivano anche
trasfigurati radicalmente, e se, nelle apparenze e nei termini, continuavano a vivere, in
realtà diventavano anche tutt’altra cosa da quello che erano stati in origine76.
Del concetto dunque che ebbero i pensatori del Rinascimento di questa Età dell’oro,
dei “Saturnia Regna”, converrà dunque dire qualcosa, in quanto non poca parte hanno
nella triste giocondità della Monna Lisa.
A questo proposito dobbiamo innanzitutto rilevare come nel passo del Garin testé
citato la venuta di questa “Età dell’oro” non si configurava affatto come un trapasso
indolore da un evo all’altro, frutto di una provvidenziale evoluzione di tipo quantitativo:
contrassegnata da un accrescimento aritmetico o esponenziale di conoscenze
scientifiche, letterarie, filosofiche; di invenzioni, di scoperte geografiche, di commerci,
sfocianti infine in una civiltà superiore gravida di concezioni religiose ecumeniche. Ma
piuttosto, al contrario, tutti questi fattori avevano operato sotterraneamente nella società
civile come agenti di dissoluzione delle vecchie forme di convivenza, e l’attesa del nuova
età conteneva la consapevolezza che ad essa si sarebbe giunti solo attraverso scossoni,
76
Eugenio Garin, L’Età nuova, Morano Editore, Napoli, 1969, pagg. 87-88.
59
catastrofi, rivolgimenti senza i quali nessun nuovo ordine si sarebbe potuto stabilire. A
questa visione gli uomini della Rinascenza non erano giunti, come sempre, per
particolare lungimiranza politica ma dopo secoli di continue e inconcludenti lotte
intestine tra municipalità, Papato, stati regionali da un lato e Impero e potenze straniere
dall’altro. Dunque proprio all’interno di lotte civili e di rivolgimenti politico-geografici e
quindi nelle doglie del parto prende coscienza di sé il Rinascimento. Cosicché non nella
celebrazione festosa della Tolleranza e della Ricchezza si attende la nuova Età, ma più
“realisticamente”, paradossalmente, proprio in un Anticristo e in un Messia si
cristallizzano le aspettative di patrizi, popolo grasso e popolo tutto. E’ bensì l’età del
Ficino, del Pico e del Poliziano poeta e filologo, dell’Alberti, uomo universale, di Botticelli
ma anche l’età del frate ferrarese Savonarola chiamato dal Pico a predicare e a reggere
Firenze, e di Machiavelli.
“E, di fatto, - aggiunge il Garin - il mondo che si riflette nelle grandi opere e nelle
grandi figure del primo Rinascimento italiano è un mondo più spesso tragico che lieto,
più spesso enigmatico ed inquieto che limpido ed armonioso. Leonardo da Vinci è quasi
ossessionato da visioni catastrofiche, e fissa nei disegni e nelle descrizioni un universo
che muore” (…) “Di fatto la vita e la storia erano, in quel Quattrocento così ricco di
documenti della grandezza dell’uomo, veramente tragiche in un’Italia corsa da guerre,
insanguinata da congiure, con i suoi signori che uccidevano o erano uccisi, con i suoi
capitani di ventura che salivano i troni o ne erano precipitati, con le sue fosche figure di
pontefici, con la sua diplomazia sempre più ostile ed astuta, la sua sconfortata
intelligenza, mentre i suoi centri maggiori vedevano sgretolarsi i propri imperi,
affievolirsi i propri traffici, inaridirsi le proprie sorgenti di ricchezza. (…) I regni di
Saturno, l’età dell’oro, sono vagheggiati con maggiore forza proprio perché sembrano
tanto lontani dalla terra77”
Se noi ora verifichiamo sui documenti la temperie spirituale evocata dal Garin
caratterizzata dall’attesa di personaggi risolutori – il Cristo, l’Anticristo78 – caratteristici
dell’inclinazione plebea a personificare avvenimenti catastrofici, cui
i disegni
leonardeschi del diluvio aggiungevano un ché di fisico piuttosto che di biblico,
constatiamo che oltre alle profezie che vedevano nella congiunzione tra Saturno e Giove
il momento propizio per il ritorno della sospirata Età dell’oro, che si spingevano persino
a stabilirne la data e l’ora, rifioriva nella cerchia eletta dei neoplatonici fiorentini
nientedimeno che il tema del Veltro, creatura di dantesca memoria, e della sua venuta.
Uno studioso che ha scandagliato l’intera letteratura italiana alla ricerca di documenti
che attestino l’inesausta reviviscenza del mito dell’Età dell’oro e delle forme che ha
assunto ce ne fornisce un puntuale riferimento:
“Landino ribadì la sua concezione astrologica dei «Saturnia regna» nel commento
alla Divina Commedia, che consegnò alla signoria di Firenze nel 1481, aprendo una
nuova fase nella storia della fortuna di Dante. (…) Facendo propria la posizione
assunta da Jacopo della Lana e da altri chiosatori trecenteschi rispetto alla profezia
77
Eugenio Garin, La cultura del Rinascimento, Laterza, 1981, pagg. 7-8.
78
L’espressione figurativa più eloquente di questo infuocato trapasso si ha negli affreschi
di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto, ove si rappresenta il diavolo che suggerisce propositi
diabolici nelle orecchie di un falso Cristo che intrattiene un’assemblea, mentre intorno a lui
avvengono roghi e ammazzamenti. Vedi in Appendice n. 2.
60
dantesca del veltro, l’umanista esprimeva la propria convinzione circa una palingenesi
politico-religiosa, destinata a verificarsi entro pochi anni (…)in cui sembrano vibrare le
anime di Dante, Petrarca e Cola di Rienzo: «Io credo che il poeta, come ottimo
matematico, avesse veduto per astrologia, che per l’avvenire avessero a essere certe
rivoluzioni dei Cieli per la benignità delle quali abbi al tutto a cessare l’avarizia. Sarà
dunque il veltro tal influenza, la quale nascerà tra Cielo e Cielo, o veramente quel
Principe, il quale da tal influenza sarà prodotto […]. E certo nell’anno 1484, nel dì
vigesimo quinto di Novembre, et a ore tredici e minuti 41 di tal dì, sarà la congiunzione
di Saturno e di Giove, nel Scorpione, nell’ascendente del quinto grado de la Libra, la
qual dimostra mutazion di religione. Et perché Giove prevale a Saturno, significa che
tal mutazione sarà in meglio. Laonde, non potendo esser religione alcuna più vera che
la nostra, avrò dunque ferma speranza che la Repubblica christiana si ridurrà a ottima
vita e governo, in modo che potremo veramente dire: «Iam reditet virgo, redeunt
saturnia regna79»”.
E per non addossare al solo Landino, e cioè alla ristretta cerchia del Ficino, il grave
contenuto di importanti profezie è d’uopo ascoltare quest’altra del Nesi, riportata questa
volta dal Garin:
“Giovanni Nesi, ficiniano e piagnone, discepolo del Platone fiorentino e del “Socrate
ferrarese”, amico di Giovanni Pico e del Benivieni, rinnova accenti gioachimiti
nell’annuncio del riscatto imminente. «Che significa questo secolo nuovo se non la
conversione e il rinnovamento della chiesa militante? … Ecco ormai io ti chiamo in nome
di Dio attraverso le molte vicende al secolo nuovo. Ecco, dopo tanti casi, io ti suscito a
quell’età d’oro … Chiunque è seguace di Cristo venga nel regno di Cristo … Volete un
profeta? Eccolo veridico nell’annunciare il futuro, ammirabile sempre e dovunque …
L’Italia sarà devastata dai barbari … Roma giungerà alla rovina … ma la chiesa si salverà
per soccorso divino e trionferà; i Maomettani ben presto si convertiranno alla fede
cristiana. E, finalmente, unico sarà il gregge e uno solo il pastore». Non a caso il dotto e
pio frate Paolo Orlandini congiunse nella gloria della salvazione Ficino e Savonarola.
L’umanesimo fiorentino, rimasto nel suo fondamento civile anche quando fu platonico,
combatté perché la città terrena fosse immagine della città celeste; pose una pia
philosophia al servizio di una docta religio perché il filosofare da sterile giuoco di
sillogismi si facesse operoso programma onde la pace scendesse fra gli uomini nel
secolo nuovo80.
Possiamo ricordare qui come nell’affresco del Bramante, ispirato alla pia
philosophia, nel fregio superiore posto sopra i due saggi greci (Democrito ridente e
Eraclito piangente) siano raffigurati i carri allegorici di Saturno e di Giove, i pianeti e al
tempo stesso gli dèi che presiedono ai due opposti caratteri e passioni. Si illustrava in tal
modo l’origine astrale del riso di Democrito, collegata alla figura di Giove, il quale
trasmette alle anime un temperamento gioviale; e altresì l’origine astrale del pianto in
Eraclito legata all’influenza di Saturno, il quale foggiava temperamenti taciturni, pensosi,
saturnini, i più adatti e sensibili alla elevazione e alla contemplazione, secondo una
nuova interpretazione che aggiungeva un lato positivo alla sola influenza nefasta
caratteristica di Saturno precedente alla filosofia neoplatonica. Il riso di Democrito e il
79
G. Costa, La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana, Editori Laterza, Bari
1972, pag. 44.
80
Eugenio Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Bompiani, 1994, pagg.
139-142.
61
pianto di Epicuro, nella loro opposizione complementare, come la diastole e la sistole del
cuore, troveranno risonanza nei pensatori fino alla fine inoltrata del Rinascimento e avrà
un’ultima drammatica eco e incarnazione in Giordano Bruno, il quale, a posteriori, può
fornirci un lampo rivelatore su quel pensiero che porta nel grembo Monna Lisa,
permettendoci di avviarci con una certa pompa, alla conclusione.
Nella sua succinta rievocazione del pensiero e della figura di Giordano Bruno, sempre
il Garin, tratteggiando con insuperabile maestria la personalità del filosofo, illustrava, a
nostro parere, non poco del carattere di Leonardo o per lo meno, quella non piccola parte
che trasfuse nella Gioconda, e altresì il comune sentimento che aleggiava negli spiriti di
quel tempo. Egli scrive:
“Così l’amaro «accademico di nulla accademia, detto il fastidito»; l’uomo che si
sentiva allegro solo in mezzo alla tristezza, e triste in mezzo al riso (in tristizia hilaris,
in hilaritate tristis); l’autore che dedica la sua commedia «non a Sua Santità, non a Sua
Maestà Cesarea, non a Sua Serenità, (…)» ma «alla Signora Morgana B., sua signora
sempre onoranda»; lo scrittore spregiudicato fino all’oscenità e irriverente fino alla
bestemmia, si compiace di unire all’uscita da trivio la nostalgia struggente del suo
paese, al ricordo di un amore lontano una solenne professione di fede. «Ricordatevi,
Signora, di quel che credo che non bisogna insegnarvi: il tempo tutto toglie e tutto dà;
ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è uno solo che non può mutarsi, uno solo è eterno, e
può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l’animo mi
s’aggrandisce, e me si magnifica l’intelletto. Però qualunque sia il punto di questa sera
ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son
nel giorno, aspettano la notte». Fra un lampo di riso e un doppio senso, fra un’allusione
turpe e una satira atroce, d’improvviso, s’inserisce la traccia purissima di una visione
del mondo capace di liberare l’animo dalla paura, di restituire l’uomo a se stesso, di
pacificarlo col ritmo eterno della realtà regolata da una fondamentale giustizia: chi è
nella notte, aspetti il giorno che non può mancare”81.
E appunto questo sentimento che si agita in modo oscuro nell’osservatore attento
della Gioconda: questa filosofia che aggrandisce e magnifica l’intelletto. Una filosofia
che non teme la notte poiché essa è gravida del giorno, ed è pronta ad affrontare il giorno
salda e gioconda pur calata in un mondo tristo; pur essendo ebbra di vita permane
tristemente consapevole.
Ma poiché abbiamo detto che i tempi in cui operò Leonardo, erano tempi di attesa, di
incipienti congiunzioni astrali e di rivoluzioni religiose e politiche; insomma, in termini
bruniani, di una interminabile notte burrascosa dal cui grembo rigonfio doveva scaturire
l’età dell’oro: ovvero un nuovo giorno illuminato da un nuovo sole, sarebbe poi così
peregrino opinare che anche Monna Lisa, in qualità di Iside, di Anima Mundi, si trovi in
stato d’attesa, di una vera e propria gravidanza, come si addice ad una Madonna dei
filosofi? Che quella Iside sdoppiatasi ficinianamente in una Venere Celeste e in una
Venere Terrestre, sia pregna, la prima, della macrocosmica ’Età dell’oro, e la seconda,
microcosmicamente incinta di un “Cristo dei filosofi”, ovvero sulla scorta del Landino, di
un nuovo profeta, un “principe”, un “Veltro” che avrebbe inseguito la lupa per ogni città
per ricacciarla ne lo Inferno?
Non esprimerebbe Essa un sottile appagamento con le sue guance pienotte e quel
sorriso sornione che vela morbidamente l’espressione di distacco del saggio? una
81
Eugenio Garin, Bruno, I protagonisti della Storia Universale, CEI – Giano – I Tascabili
doppi, 1966, pag. 15.
62
soddisfazione che si distende languida nella placidità delle sue braccia amabilmente
disposte intorno al grembo?
Al lettore l’ardua sentenza.
Per alleggerire un poco questo ingrato travaglio e una non lieve responsabilità,
possono accompagnarlo le osservazioni di un filosofo delle scienze della levatura di
Fritriof Capra autore di ben due corpose e recentissime monografie dedicate all’arte ma
soprattutto alla scienza di Leonardo da Vinci. L’autore, sensibilissimo al fascino
leonardesco, cede, al termine della sua fatica, alla tentazione di dare un significato alla
Monna Lisa.
“La Gioconda, il più celebre dei suoi dipinti, era in origine il ritratto della giovane
fiorentina Lisa del Giocondo. Il quadro era stato commissionato dal suo ricco marito,
ma per qualche ragione a noi ignota non fu mai consegnato. Leonardo lo tenne con sé
fino alla morte, e nel corso degli anni lo trasformò in una propria personale riflessione
sull’origine della vita. La Gioconda è diversa dai suoi altri ritratti e, a dire il vero, è
diversa da tutti gli altri ritratti. La differenza principale, per prendere in prestito la
frase di Daniel Arasse, è «il forte contrasto tra la dolcezza della figura umana e l’aspra
severità dell’arcaico paesaggio che le fa da sfondo». Uno sfondo che è un ambiente di
nuda pietra con le celebri formazione rocciose, i laghi e i torrenti che Leonardo dipinse
in tutta la sua carriera. In questo caso però il paesaggio non è solo un retroscena
lontano, ma diventa protagonista, ed è non meno significativo della figura femminile in
primo piano. Le formazioni geologiche sono raffigurate in perenne metamorfosi, le
acque primordiali fendono le rocce, modellano le valli e depositano i macigni, la ghiaia
e la sabbia che alla fine diventeranno suolo fertile. Quello che vediamo nella Gioconda è
il nascere della Terra vivente dalle acque degli oceani primigeni.”
E più oltre l’ipotesi suggestiva:
“Noi sappiamo che la Gioconda era una giovane madre, e Kenneth Keele, esaminando
il dipinto con sguardo di medico, si è detto convinto che Monna Lisa fosse
effettivamente incinta quando posò per il quadro. Gli indizi citati da Keele a sostegno
della sua ipotesi sono convincenti – la postura dritta della modella, ben seduta su una
confortevole poltrona e leggermente aggrappata al bracciolo con la mano sinistra; il
leggero gonfiore delle sue dita, da cui ha rimosso tutti gli anelli; la sua intera apparenza
un poco “matronale” e la floridezza del petto; e infine la forma dell’addome, abilmente
mimetizzato. «Nel suo corpo,» scrive Keele «c’è un nuovo mondo vivente sotto forma di
figlio che cresce dal liquido amniotico proprio come il mondo in grande cresce dalle
acque marine». Il misterioso sorriso di Monna Lisa può essere interpretato come
un’allusione al segreto che ha in grembo. Indipendentemente dal nostro accettare o
meno l’ipotesi dello studioso di una gravidanza reale, è evidente ch il tema centrale del
celebre capolavoro di Leonardo è il potere procreativo della vita, che in particolare si
manifesta nel corpo femminile e in quello della Terra vivente82.”
Così, Fritriof Capra.
82
Fritriof Capra, L’anima di Leonardo, Un genio alla ricerca del segreto della vita, Rizzoli,
Milano, 2012, pagg. 368-370.
63
APPENDICI
Appendice n. 1.
Le Balze del Valdarno
La parte del territorio, che viene denominato "Valdarno Superiore", compreso tra la riva
destra dell'Arno e le formazioni collinari che fanno da preludio al Pratomagno, è
contraddistinta da strutture geologiche di particolare suggestione e bellezza, costituite da
sabbie, argille e ghiaie stratificati alte fino ad un centinaio di metri ed in successione di
forme diversificate, intercalate da profonde forre. Tali strutture, denominate Balze, sono
il risultato, allo stato attuale, dello smantellamento degli antichi sedimenti provocato
dagli agenti atmosferici, ma anche segnati dalla presenza, nel tempo, dell'uomo.
Nel '98 i comuni di Terranuova Bracciolini, Castelfranco di Sopra, Loro Ciuffenna e Pian
di Scò hanno promosso la tutela dell'area istituendo un'Anpil (area naturale protetta di
interesse
locale).
La parte che ricade nel comune di Reggello, in provincia di Firenze ha necessità di
difendere le balze dai danni paesaggistici ed in modo da salvaguardare non solo gli
64
aspetti ambientali, ma anche i valori culturali e paesaggistici presenti.
Dal punto di vista turistico, le potenzialità della zona, che va dal comune di Reggello a
quello di Castiglion Fibocchi, lungo la fascia della strada dei Setteponti, sono
promettenti, se si considerano la sua estensione, la ricchezza di valori, la vicinanza a tre
città d'arte come Firenze, Siena ed Arezzo, mete favorite di innumerevoli flussi turistici,
la presenza di grandi vie di comunicazione come l'autostrada del Sole e la Direttissima,
l'alta presenza di turismo straniero più attento e consapevole.
La Geografia
Il Valdarno Superiore è un bacino intermontano tra Firenze ed Arezzo, tra i più estesi
dell'Appennino settentrionale, delimitato ad ovest dai Monti del Chianti, con quota
massima di 892 m e ad est dalla dorsale del Pratomagno, con quota massima di1591m.
Il Valdarno superiore presenta numerose forme di paesaggio come la pianura, le colline, i
pianori, i versanti montagnosi appartenenti alla catena appenninica.
La temperatura media annua del fondovalle è di 12,8 °C con punte di massima in agosto e
minima in dicembre. In autunno e inverno il fenomeno della nebbia o leggera foschia
tende a stagnare nel fondovalle, con frequenti brinate. Nei mesi invernali si hanno
modeste precipitazioni nevose sopra i 1000 m. I confini amministrativi comprendono due
Province: Firenze e Arezzo con 14 comuni, comunque la sua conformazione così netta e
precisa indica anche dal punto di vista geografico un vero comprensorio noto in tutta la
Regione.
Le rocce più comuni sono arenarie, sabbie e argille. Il Valdarno è una delle zone più
ricche di fossili di grandi mammiferi della terra e vi si trovava il più grande bacino di
lignite
xiloide
d'Italia.
E' attraversato nella sua lunghezza da importanti vie di comunicazione: oltre alla statale,
passa l'autostrada A1 e la direttissima Roma-Milano.
65
La Valle è attraversata in tutta la sua lunghezza dal tratto intermedio del fiume Arno che
insieme ai suoi affluenti ha eroso i detriti che colmarono il fondo del lago pleistocenico
che centomila anni fa si erano accumulati in un'ampia area lunga 40 km circa (da Laterina
a Matassino) larga 10 km dal Chianti al Pratomagno e alta 300 m di quota. Questo
altipiano è stato eroso completamente dalla parte del Chianti perché, trovandosi l'Arno
spostato verso questa parte, le acque superficiali, sono riuscite a demolire completamente
lo strato di sedimenti lacustri. Dalla parte del Pratomagno, invece, si è formato
un'altipiano in quasi tutta l'estensione della montagna e vi troviamo costruiti paesi e
frazioni, come Reggello, Pian di Sco, Castelfranco, Persignano, Piantravigne,
Montemarciano, Loro Ciuffenna, San Giustino, Laterina.
La larghezza è di qualche centinaia di metri e l'altezza di 260 -280 m s.l.d.m. L'altipiano
si interrompe bruscamente con pareti verticali alte decine di metri che lo bordano alla
base come una cornice quasi ininterrotta di un tipico colore giallo ocra.
L'aspetto delle Balze è il prodotto dell'erosione delle acque di dilavamento che scendendo
dal versante del Pratomagno prima, e dall'altipiano poi, arrivano finalmente all'Arno.
La strada dei Setteponti si snoda lungo l'altipiano ed unisce Arezzo a Fiesole. E' molto
panoramica e si possono ammirare le belle colline coltivate a vite e olivi e le
caratteristiche case coloniche, molte delle quali sono attive Aziende agricole o
Agriturismi. Da questa strada partono molte altre che raggiungono il Pratomagno.
Panorama Balze
La Storia Geologica
L'Italia come la vediamo oggi è il risultato dello scontro lento ma continuo tra due delle
"zolle" in cui è suddivisa la crosta terrestre: quella africana e quella europea. Da questo
poderoso scontro, iniziato circa 25 milioni di anni fa, ha avuto origine il sollevamento
della catena appenninica.
Una volta esauritasi la spinta che aveva causato la compressione degli strati rocciosi
sollevandoli dal fondo del mare, dove si erano in prevalenza formati, trasformandoli in
alte montagne, tutta la zona appenninica è stata interessata da una sorta di "rilassamento"
in conseguenza del quale si sono originate una serie di fosse: il Valdarno risulta essere
una delle più grandi di queste conche tra le quali ricordiamo anche il Mugello, la
Valdichiana, il Casentino, la Valtiberina.
Pertanto, quando alla fine dell'epoca pliocenica, il fondo dell'attuale valdarno cominciò
lentamente a sprofondare, le acque di scorrimento superficiale, non potendo defluire, vi si
accumularono, formando un lago che dapprima occupò solo la parte occidentale del
66
bacino
e
successivamente
il
resto
della
valle.
Durante la prima fase lacustre il clima era simile a quello che oggi ritroviamo nelle
lussureggianti foreste tropicali, come testimoniato dai ritrovamenti fossili di piante e
animali
oggi
conservati
nel
museo
Paleontologico
di
Montevarchi.
E' comunque nella seconda fase lacustre del bacino valdarnese, tra due milioni di anni fa
e centomila anni fa che, trascinati dai corsi d'acqua che scendevano dal Pratomagno si
accumularono nell'antico lago o in prossimità di esso i materiali, argilla alla base e poi
sabbie e ciottoli, che noi oggi possiamo osservare nelle pareti delle balze.
In questa fase il clima è divenuto meno caldo, sono scomparse le piante tropicali, mentre
arrivano dall'Europa orientale gli animali tipici della savana come gli elefanti, i
rinoceronti,
gli
ippopotami,
le
tigri,
le
scimmie,
le
iene...
Il continuo trasporto di sedimenti prodotti dalla disgregazione delle rocce operata dagli
agenti atmosferici dalle zone più elevate verso il lago ne determinò il progressivo
riempimento trasformandolo dapprima in un ampio stagno con tratti che rimanevano
periodicamente all'asciutto e poi colmandolo definitivamente. Si venne pertanto a creare
un'ampia pianura estesa per tutto il bacino. L'attuale superficie dell'altipiano valdarnese è
ciò che ancora oggi rimane della vecchia superficie di colmamento.
Estintosi il lago, si formò un reticolo idrografico, con un corso d'acqua principale che
scorreva nel centro della pianura e parallelamente ad essa, e una serie di affluenti
trasversali.
Comincia così una nuova fase della storia geologica del bacino valdarnese: la fase
erosiva.
Infatti a valle della soglia di Incisa i terreni sono a quote inferiori rispetto alla pianura del
Valdarno e così l'Arno e i suoi affluenti iniziano l'opera di smantellamento dei terreni
fluvio lacustri accumulatisi in precedenza.
I terreni che hanno riempito il lago e formato un ampio tavolato, vengono via via
intagliati e scavati e si formano valli e vallecole. Il corso dell'Arno si abbassa
progressivamente fino a portarsi alla quota attuale, circa 150 m più in basso rispetto alla
superficie di colmamento. Miliardi di tonnellate di terra vengono continuativamente
rimosse, l'attività erosiva modella i terreni formando colline tondeggianti in
corrispondenza delle argille verso il centro del bacino, e pareti verticali, le balze, dove si
incontrano
i
terreni
più
resistenti
all'erosione.
Pertanto quando ci poniamo in osservazione di una parete delle balze non ci collochiamo
semplicemente di fronte ad un ammasso di terre inerti ma ad uno spaccato di storia
naturale di grande valore, una superstite di forze primordiali ed eventi catastrofici, una
testimonianza della lotta millenaria della natura alla costante ricerca di un punto di
equilibrio.
L'arretramento del fronte delle balze è dovuto alle acque dei borri e alle acque di
dilavamento lungo le pareti che le scalzano alla base provocando il crollo, sotto il proprio
peso
dello
strato
conglomeratico
sovrastante
non
più
sostenuto.
Al progredire dell'erosione, le pareti vengono via via smembrate in forme isolate come
torrioni, lame e piramidi di terra: sono le forme finali della demolizione prima della
67
scomparsa.
Questa terra, fragile come un castello di sabbia, a lungo andare cadrà sotto i colpi del
tempo. Questo non succederà domani e per centinaia di anni a venire essa sarà ancora tra
noi a ricordarci la stupenda storia geologica del Valdarno superiore.
Appendice n. 2.
68
Luca Signorelli, Predica e fatti dell'Anticristo (1499-1502), Cappella di San
Brizio, Duomo di Orvieto
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