N. 3-2016 - Dipartimento di Giurisprudenza

Elisabetta Mottese
SPAMAR 2015
Zone marittime
nel Mediterraneo
2016-3
Direzione scientifica: Rosario Sapienza
Coordinamento redazionale: Elisabetta Mottese
Redazione: Adriana Di Stefano, Federica Antonietta Gentile, Giuseppe Matarazzo, Maria
Manuela Pappalardo, Giuliana Quattrocchi
Volume chiuso nel mese di settembre 2016
FOGLI DI LAVORO per il Diritto Internazionale è on line
http://www.lex.unict.it/it/crio/fogli-di-lavoro
ISSN 1973-3585
Cattedra di Diritto Internazionale
Via Gallo, 24 - 95124 Catania
Email: [email protected] - Redazione: [email protected]
- Tel: 095.230857 - Fax 095 230489
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Pubblichiamo in questa uscita i materiali e i papers prodotti in occasione dell’edizione 2015 del nostro seminario annuale su “Spazi Marini e diritto internazionale”
(SPAMAR 2015) promosso anche quest’anno dalla nostra cattedra nell’ambito dei
corsi di diritto internazionale.
SPAMAR è un seminario annuale che lavora alla redazione di un bilancio delle
complesse problematiche giuridico-internazionali che interessano le zone marittime
nell’area del Mediterraneo, un’area, come si sa, nella quale gli Stati rivieraschi si sono
rivelati assai … prudenti nella istituzione di zone sottoposte a peculiari regimi giuridici, con il risultato che ancor oggi molte porzioni del Mediterraneo sono rette dal
regime dell’alto mare.
Il nostro coordinatore redazionale Elisabetta Mottese è dal 2009 il coordinatore
responsabile dello SPAMAR.
La redazione
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Indice sommario
Elisabetta Mottese SPAMAR 2015. Frammenti di un lessico a mo’ di introduzione
.......................................................................................................................................... p. 7
Adriana Di Noto
La disciplina italiana di salvaguardia del patrimonio sommerso
........................................................................................................................................ p. 21
Valentina Di Liberto Il passaggio delle navi attraverso gli stretti utilizzati per la navigazione internazionale ............................................................................................. p. 41
Simona Granieri
Recenti iniziative assunte dalla magistratura italiana in materia
di contrasto al traffico illecito di migranti. Problemi di giurisdizione .................. p. 53
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Elisabetta Mottese
SPAMAR 2015
Frammenti di un lessico a mo’ di introduzione
ACQUE INTERNE
L’esame degli spazi marini sotto la sovranità territoriale deve cominciare, e
non solo per ragioni bibliografiche, dalle cosiddette “acque interne”. Il termine generico "acque interne" si riferisce a differenti porzioni di acque naturali o vie d'acqua
artificiali di uno Stato, come le baie e i golfi, le foci dei fiumi, insenature, porti, fiumi,
laghi e canali. Le acque interne fanno parte del territorio dello Stato e sono quindi
sottoposte al medesimo regime giuridico della terraferma. Questa stretta relazione
tra le acque interne e la terraferma è determinata dagli interessi vitali del sovrano
territoriale relativamente alle condizioni dell'integrità territoriale, della difesa, del
commercio e dell'industria.
Fanno anche parte delle acque interne le acque marine al di qua delle linee di
base, ossia le linee a partire dalle quali si misura l’estensione del mare territoriale.
Benché solo lo Stato costiero sia competente a tracciare le proprie linee di base, la
questione ha sempre un aspetto internazionale come è stato sottolineato dalla Corte
Internazionale di Giustizia ed esistono al riguardo precise regole internazionali come
quelle secondo le quali le foci dei fiumi che sfociano direttamente nel mare, le baie
non storiche con un'apertura non superiore alle 24 miglia che appartengano a un solo
Stato, e i porti sono considerati acque interne.
Sulle acque interne lo Stato esercita i poteri della sovranità territoriale e disciplina in maniera esclusiva l’accesso e la permanenza in esse. A tal fine occorre distinguere a seconda che le navi straniere siano mercantili o navi statali adibite a scopi
commerciali, navi da guerra o comunque navi statali adibite a scopi non commerciali
e, infine, navi in avaria.
Per quel che riguarda le navi mercantili e le navi statali adibite a scopi commerciali, in tempo di pace l'accesso alle acque interne è normalmente libero, sulla
base dello stesso diritto interno dello Stato costiero. Nella nozione di accesso rientrano il carico e lo scarico di merci, l'imbarco e lo sbarco di passeggeri, il rifornimento
di provviste e carburante.
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Si discute se esista, in assenza di accordi in tal senso, un diritto generico di
accesso alle acque interne. La prassi degli Stati di chiudere i loro porti, anche in situazioni nelle quali non possa parlarsi di interessi vitali in pericolo, sembrerebbe indicare che, a parte la situazione di avaria, non esista un generale diritto di accesso alle
acque interne e ai porti in particolare nel diritto consuetudinario. Esiste invece un
obbligo di non discriminazione nel caso in cui tale diritto di accesso venga riconosciuto.
Lo Stato costiero può poi, anche quando esista un diritto di accesso, imporre
delle condizioni per l'entrata nei porti, per esempio relativamente al rispetto di standards internazionali in materia di sicurezza della navigazione e protezione dall'inquinamento.
Una volta nelle acque interne, la nave straniera è, in linea di principio, soggetta
alla giurisdizione piena ed esclusiva dello Stato costiero, benché si tratti di una regola
che conosce numerose eccezioni nell’interesse della navigazione. Gli accordi consolari escludono di solito la giurisdizione dello Stato costiero per questioni di lavoro,
reati avvenuti sulla nave e altre materie. Ciò a meno che non si tratti di reati commessi
o subiti da cittadini dello Stato costiero o di reati che abbiano arrecato turbamento
alla tranquillità e alla sicurezza del porto o in violazione di leggi territoriali in materia
di sanità pubblica, immigrazione, sicurezza della vita sui mari o in materia doganale.
Le navi mercantili straniere devono ricevere un trattamento pari a quello delle
navi dello Stato territoriale. In genere, lo Stato del porto applica le convenzioni internazionali e le altre norme generalmente riconosciute ad ogni nave che sosti nel
suo porto sia che essa appartenga a uno Stato parte di quelle convenzioni sia a uno
Stato terzo.
Le navi da guerra e le navi statali adibite a scopi non commerciali non possono
far accesso alle acque interne di uno Stato senza il suo previo permesso, a parte il
caso di avaria. La questione è normalmente regolata da specifici accordi che dispongono talvolta che, su base di reciprocità, potrà essere sufficiente una semplice notifica
dell'arrivo e del periodo di permanenza.
Una volta entrate nei porti, queste navi godono della piena immunità dalla
giurisdizione dello Stato territoriale. Il fondamento di tale immunità non va ricondotto al criterio della extraterritorialità, bensì all'immunità funzionale, dato che la
nave deve considerarsi organo dello Stato di bandiera.
Le navi che godono di tale immunità devono, tuttavia, rispettare le regole di
diritto internazionale applicabili a tutte le navi straniere in acque interne, nonché le
leggi dello Stato territoriale. La violazione di queste ultime comporta normalmente
l'invito a lasciare le acque.
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Esiste un consolidato principio di diritto internazionale generale che sancisce
il diritto delle navi in avaria o per avverse condizioni di tempo all'accesso nei porti,
in condizioni di immunità dall'applicazione delle leggi dello Stato territoriale.
MARE TERRITORIALE
Il mare territoriale è una zona di mare adiacente al territorio, sulla quale lo
Stato esercita la sovranità territoriale con i limiti previsti dal diritto internazionale.
Nella dottrina anglosassone, che distingue tra sovereignty e i poteri che su di essa si
fondano, indicati come jurisdiction, viene aggiunto che lo Stato costiero esercita sul
mare territoriale jurisdiction, control and exploitation.
Assai varie sono le opinioni che in dottrina sono state avanzate per spiegare la
natura giuridica dei poteri dello Stato costiero sul mare territoriale. Stando alla Convenzione di Ginevra sul mare territoriale e la Zona contigua del 29 aprile 1958 può
parlarsi di vera e propria sovranità statale (art.1), come pure allo spazio aereo e al
fondo e sottosuolo marino (art.2). La Convenzione sul diritto del mare del 1982 contiene all'art.2 una formulazione di analogo tenore.
Il mare territoriale si estende non oltre 12 miglia a partire dalla linea di base
che costituisce il cosiddetto limite interno del mare territoriale.
La maggior parte degli Stati mediterranei hanno stabilito un mare territoriale
di 12 miglia. Alcuni paesi adottano ancora limiti più ristretti, vale a dire Grecia e
Turchia nel Mar Egeo. A causa della complessa situazione politica e geografica, la
stessa possibilità di estendere il mare territoriale oltre il limite di 6 miglia è ancora
contestata dai due paesi. Nel caso del Mar Egeo, l'applicazione della regola linea mediana previsto ai sensi dell'articolo 15 del LOSC è politicamente sensibile anche in
considerazione delle moltissime isole presenti su entrambi i lati della linea mediana.
La Repubblica araba siriana rivendica un mare territoriale di 35 miglia, che non si
adatta al diritto internazionale che si riflette nella LOSC. Non è chiaro, tuttavia, se la
Repubblica araba siriana fa rispettare i diritti oltre le 12 miglia. Bosnia-Erzegovina e
Slovenia non hanno ancora determinato la misura della loro mare territoriale. Entrambi i nuovi Stati indipendenti hanno una stretta via di accesso al mare Adriatico.
Inoltre, le caratteristiche geografiche della costa rendono molto difficile, se non impossibile, stabilire qualsiasi mare territoriale sostanziale.
Trattati per la delimitazione del mare territoriale sono stati conclusi tra la Francia e l'Italia il 28 novembre 1986 per quanto riguarda lo stretto di Bonifacio tra la
Corsica e la Sardegna; Italia e Jugoslavia il 10 novembre 1975 rispetto al golfo di
Trieste, e più recentemente tra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina il 30 luglio 1999.
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Di solito la linea di base è la linea di bassa marea. Se però la costa ha un andamento
irregolare o è contornata da isole si ricorre alle linee di base rette che congiungono i
punti più sporgenti delle coste o delle isole.
Sul mare territoriale, come abbiamo detto, spettano allo Stato costiero tutti i
diritti inerenti alla sovranità territoriale, ma una norma consuetudinaria di antica origine, riconosciuta anche dalla Corte Internazionale di Giustizia nella sua decisione
sul caso del Canale di Corfù lo obbliga a consentire il passaggio inoffensivo delle navi
straniere.
Il passaggio è la navigazione nel mare territoriale da parte di una nave, sia che
essa sia diretta verso le acque interne, sia che essa semplicemente le attraversi. Il
passaggio deve essere ininterrotto ed è "inoffensivo" se non danneggia gli interessi
dello Stato costiero. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare fornisce
all'articolo 19 un elenco di attività sicuramente incompatibili con il diritto di passaggio inoffensivo.
Particolarmente importanti sono poi le disposizioni che riguardano il potere
dello Stato costiero di legiferare in materia di prevenzione dell'inquinamento marino.
Tali leggi possono venire applicate anche nei confronti di navi straniere che esercitano il diritto di passaggio inoffensivo. Tale potere è però soggetto a due condizioni:
la prima è che le leggi dello Stato costiero non possono riguardare la progettazione,
costruzione ed equipaggiamento delle navi straniere a meno che non siano attuative
di regole o standards generalmente accettati (art. 21.2).
La seconda è che lo Stato costiero non può imporre requisiti che avrebbero
l'effetto pratico di negare o limitare il diritto di passaggio inoffensivo o che conducano a discriminazioni formali o sostanziali nei confronti di alcuni Stati (art. 24).
Quanto all'esercizio della giurisdizione da parte dello Stato costiero deve osservarsi
che le navi da guerra e le navi di Stato adibite a fini non commerciali godono dell'immunità dalla giurisdizione.
La giurisdizione può invece essere esercitata in certi casi rispetto alle navi mercantili o alle navi di Stato utilizzate a fini commerciali.
Secondo l'articolo 27 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del
mare, lo Stato costiero "non dovrebbe" tuttavia esercitare la giurisdizione penale sulle
navi straniere che passano nel suo mare territoriale, se non nei casi seguenti:
1) se le conseguenze dell'infrazione si estendono allo Stato costiero;
2) se l'infrazione è di natura tale da turbare la pace del paese o l'ordine nel
mare territoriale;
3) se l'assistenza delle autorità locali è stata richiesta dal capitano della nave o
da un agente diplomatico o funzionario consolare dello Stato di bandiera;
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4) se queste misure sono necessarie per la repressione del traffico illecito di
stupefacenti o sostanze psicotrope.
ZONA CONTIGUA
La Zona contigua è uno spazio marino nel quale lo Stato costiero vigila per
prevenire o reprimere le violazioni delle sue leggi doganali, fiscali, sanitarie e d'immigrazione. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare prevede che la
zona contigua si estenda fino a 24 miglia nautiche dalle linee di base.
La configurazione dei poteri spettanti allo Stato costiero sulla propria Zona
contigua è tutt'ora oggetto di controversia fra i giuristi. L'opinione dominante pare
essere quella secondo la quale, mentre sul mare territoriale lo Stato costiero esercita
una sovranità piena, nella Zona contigua può solamente esercitare quella che con
terminologia giuridica anglosassone viene definita una "control or enforcement jurisdiction". Ne deriverebbe quindi che nella Zona contigua potrebbero applicarsi le
leggi dello Stato, ma solo per la repressione di atti commessi sul territorio o nel mare
territoriale e non nella Zona contigua. Tale interpretazione dell'articolo 24 della Convenzione del 1958 non appare, però, conforme con le intenzioni degli Stati parti
come risultano dai lavori preparatori.
La prassi applicativa della convenzione non appare chiarificatrice perché
troppo varia, né maggior chiarezza è derivata dall'adozione della Convenzione del
1982, sul punto meramente riproduttiva della Convenzione del 1958.
Secondo molti, comunque, quale che sia la corretta interpretazione delle disposizioni convenzionali, il diritto consuetudinario permetterebbe agli Stati l'esercizio di ampi poteri sovrani.
ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA
Oltre il mare territoriale si estendono la Zona Economica Esclusiva e la Piattaforma Continentale, spazi marini sui quali lo Stato costiero non esercita la pienezza
dei suoi poteri sovrani, ma poteri funzionali, ossia poteri pur sempre fondati sulla
sovranità, ma legati allo scopo o funzione che si intende esercitare, ossia lo sfruttamento delle risorse marittime, viventi e non.
La Zona Economica Esclusiva è un'area adiacente al mare territoriale, estesa
fino a 200 miglia dalla linea di base, nella quale lo Stato costiero esercita particolari
poteri per fini economici. Essa viene definita nella Parte V (artt. 55-75) della Convenzione del 1982.
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Venendo alla configurazione del regime dei poteri in quest'area, occorre concludere che in essa si configura un regime sui generis, caratterizzato dalla coesistenza
di alcuni specifici poteri dello Stato costiero volti allo sfruttamento economico delle
risorse dell'area e delle libertà a vantaggio degli altri Stati tipiche dell'alto mare.
Rimane dubbio se essa esista ipso jure, quale automatica e diretta pertinenza
della sovranità territoriale (a somiglianza di quel che accade per il mare territoriale) o
se invece lo Stato costiero debba procedere a una esplicita proclamazione volta alla
sua istituzione.
Secondo la Convenzione del 1982, lo Stato costiero esercita sulla Zona ampi
ma circoscritti poteri così qualificati:
(1) diritti sovrani all'esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle
risorse naturali, viventi o non, delle acque e del fondo e sottosuolo marino, nonché
ad altre attività di sfruttamento economico, quali la protezione di energia dalle acque,
dalle correnti e dai venti;
(2) "jurisdiction" sull'insediamento e uso di isole artificiali, installazioni e strutture, ricerca scientifica e la protezione e preservazione dell'ambiente marino;
(3) altri diritti e obblighi previsti dalla Convenzione (art.56).
I poteri dello Stato costiero potranno essere esercitati nei confronti dei cittadini di qualunque Stato.
Oltre il mare territoriale si estende pure la piattaforma continentale, ossia
quella parte del fondo marino che mantiene una profondità costante non superiore
ai 200 metri. Essa è stata oggetto in passato di rivendicazioni da parte di Stati rivieraschi, rivendicazioni che avevano lo scopo di affermare il diritto di esclusivo sfruttamento delle risorse poste sulla piattaforma continentale.
Oggi la Convenzione di Montego Bay la considera praticamente inglobata
nella Zona Economica Esclusiva, e il regime tipico della piattaforma continentale
rivive ove essa superi le 200 miglia (e comunque non oltre le 350).
Il concetto di piattaforma continentale appartiene alla geologia prima ancora
che al diritto e indica quella parte del fondo marino che si estende verso il largo come
prolungamento della massa continentale terrestre dal punto nel quale la terra incontra
il mare fino al punto nel quale si verifica un significativo cambiamento nell'angolo
del fondo marino (dai 4 ai 45 gradi). Di solito questo punto si trova tra i 67 e i 75
chilometri dalla costa, a una profondità media di 64 metri. La pendenza media del
pendio del fondo é di 0.07 gradi.
Nel punto in cui la piattaforma continentale ha termine inizia la scarpata continentale che si estende da 20 a 100 chilometri, con una profondità variabile tra i 3000
e i 5000 metri. Segue poi il pendio continentale caratterizzato da una pendenza meno
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accentuata di quella della scarpata continentale (di solito tra 1 e 40 gradi) e che si
estende dai 50 ai 5000 chilometri. Oltre queste distanze ha inizio la profondità degli
oceani, mentre le tre aree declivi appena descritte costituiscono quel che viene definito "margine continentale".
I poteri che lo Stato costiero esercita sulla piattaforma continentale sono ritenuti comunemente oggetto di "diritti sovrani", espressione sulla quale si raggiunse
un compromesso tra coloro che avrebbero voluto parlare tout-court di sovranità e
gli Stati che ritenevano preferibile sottolineare la natura meramente "funzionale" dei
poteri dello Stato costiero.
In forza dell'esistenza di questi diritti sovrani spetta esclusivamente allo Stato
costiero lo sfruttamento delle risorse naturali della piattaforma continentale. Non
pochi problemi pone l’individuazione dell'oggetto dello sfruttamento, dato che, mentre è certo che tra i minerali debbano includersi gli idrocarburi, è dubbio, per esempio, se tra le specie sedentarie debbano includersi anche i crostacei (come ha sostenuto la Francia). La questione comunque ha perso molta della sua importanza per il
venirsi a sovrapporre del regime della Zona Economica Esclusiva a quello della piattaforma continentale.
Lo Stato costiero è comunque tenuto al pagamento di contributi in denaro o
in natura per lo sfruttamento di risorse non viventi della piattaforma posta al di là
delle 200 miglia marine dalle linee di base. Tali contributi, che possono arrivare anche
fino al 7 per cento del valore o del volume della produzione vengono ripartiti fra gli
Stati parti secondo criteri di equità, tenuto conto degli interessi e dei bisogni dei Paesi
in via di sviluppo, in particolare di quelli meno avanzati o privi di litorale (art. 82).
Il problema della delimitazione della piattaforma continentale si pone quando
le coste di due o più Stati si fronteggiano o sono adiacenti. Esso ha dato origine a
una cospicua giurisprudenza e prassi in materia.
Numerose sono in verità le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia
(Caso della Piattaforma Continentale del Mare del Nord, 1969; Caso della Piattaforma Continentale del Mar Egeo - rimasto peraltro insoluto; Caso della Piattaforma
Continentale tra Tunisia e Libia; Caso del Golfo del Maine; Caso della Piattaforma
Continentale tra Libia e Malta), di tribunali arbitrali (Caso della Piattaforma Continentale tra Francia e Regno Unito; Caso dei confini tra Dubai e Sharjah, del 19 ottobre 1981; Caso della frontiera marittima tra Guinea e Guinea-Bissau; Caso della frontiera marittima fra Guinea-Bissau e Senegal) o di commissioni di conciliazione (Caso
della Piattaforma Continentale di Jan Mayen, fra Islanda e Norvegia).
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Dispone in materia l'articolo 6 della Convenzione del 1958 sulla Piattaforma
Continentale, prevedendo un'applicazione del criterio dell'equidistanza, ossia il tracciare una linea tutti i punti della quale siano equidistanti dai punti più vicini delle linee
di base o delle coste degli Stati. Tale metodo può però dar luogo a distorsioni nei casi
in cui la configurazione della costa o la presenza di isole alteri sensibilmente il tracciato della linea dell'equidistanza. Occorre quindi procedere alla ricerca di criteri più
flessibili e articolati.
Questo problema si pose già in occasione della controversia fra Danimarca e
Paesi Bassi da un lato e Repubblica Federale di Germania dall'altro per la delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord, deciso dalla Corte Internazionale di Giustizia con sentenza del 20 febbraio 1969. La Repubblica Federale di
Germania, che pure aveva firmato la Convenzione del 1958, non l'aveva però ratificata e non ne era quindi parte. Il contenuto dell'articolo 6 avrebbe potuto quindi
applicarsi alla controversia solo se si fosse potuto dimostrare che esso apparteneva
al diritto internazionale consuetudinario. Ma tale non fu l'opinione della Corte, che
decise che la delimitazione dovesse farsi secondo principi equitativi che fanno parte,
secondo la Corte Internazionale di Giustizia, del diritto internazionale positivo e le
decisioni che li applicano non sono quindi decisioni ex aequo et bono.
Tra i fattori da prendere in considerazione per procedere alla delimitazione la
Corte elencava:
1) la configurazione generale delle coste e la presenza di caratteristiche speciali
o inusuali;
2) la struttura fisica e geologica delle aree in questione e le loro risorse naturali;
3) la considerazione di una ragionevole proporzionalità fra le rispettive coste
e le porzioni di piattaforma continentale attribuite a ciascuna parte.
Questo metodo venne applicato anche dal tribunale arbitrale nel caso della
piattaforma continentale tra Francia e Regno Unito.
Esso venne successivamente perfezionato nelle decisioni della Corte sul Caso
Tunisia-Libia e della Camera della Corte nel Caso del Golfo del Maine, che rivelano
entrambe una tendenza a porre sempre più in ombra il criterio del naturale prolungamento a favore di altre considerazioni di natura equitativa.
Similmente dispone l'articolo 83 della Convenzione del 1982, prevedendo che
la delimitazione della piattaforma continentale tra Stati con coste opposte o adiacenti
sarà effettuata per via di accordo sulla base del diritto internazionale al fine di pervenire ad un'equa soluzione. Se tale accordo non verrà raggiunto entro un termine ragionevole, occorrerà far ricorso alle procedure di soluzione pacifica delle controversie previste dalla parte XV della Convenzione.
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Si tratta, senza dubbio di una formulazione assai insoddisfacente, come spesso
accade quando le profonde divergenze di interessi e di opinione fra gli Stati rendono
necessaria una formula di compromesso. In realtà, quel che andrebbe precisato è che
il raggiungimento di un'equa soluzione è oggi previsto dalla norma consuetudinaria
che si è venuta formando sotto la spinta della giurisprudenza che abbiamo brevemente richiamato. Anche se rimane dubbio, sul piano della teoria generale, cosa distingua una norma che prescrive una equa soluzione, senza, peraltro, precisare quale
sia la via per giungervi, e il ricorso a principi equitativi nella decisione ex aequo et bono.
ALTO MARE
La nozione di alto mare si affermò quando le pretese alla sovranità su vaste
estensioni di mare avanzate da diverse Potenze tra la fine del quindicesimo e il diciassettesimo secolo cedettero il passo all'idea che la sovranità statale potesse estendersi solo su una limitata fascia di mare adiacente alla costa. Così la secolare controversia tra le idee del mare clausum (Selden) e del mare liberum (Grozio), si concluse con
l'affermarsi dell'idea groziana della libertà dei mari oltre le acque territoriali. Una libertà semplicemente basata sull'assenza di sovranità statale e di portata generale, benché la libertà di navigazione ne rappresentasse la componente più importante.
Si dovette attendere la Convenzione di Ginevra sull'Alto Mare del 29 aprile
1958 per avere una codificazione del diritto consuetudinario in materia.
Tale codificazione appare tutt'ora valida, ma occorre por mente all'esistenza
di due recenti sviluppi. In primo luogo, l'estensione dell'alto mare si è notevolmente
ridotta, perché i poteri statali si sono estesi a zone di mare sempre più al largo delle
coste, come, ad esempio, è avvenuto per la Zona Economica Esclusiva. Secondariamente, l'affermarsi a motivo degli sviluppi tecnologici di nuove attività oltre alla pesca
e alla navigazione ha dato impulso alla formazione di altre norme giuridiche relative
alla disciplina di tali attività.
L'esercizio da parte dello Stato costiero di diritti sovrani sulla piattaforma continentale non pregiudica, ovviamente la natura di alto mare delle acque sovrastanti,
per quel che riguarda le acque sulla parte di piattaforma continentale oltre il limite
delle 200 miglia della Zona Economica Esclusiva.
Anche il fatto che il fondo del mare al di là delle aree sottoposte alla sovranità
statale sia stato proclamato patrimonio comune dell'umanità, non ha alcuna influenza
sul regime giuridico delle acque sovrastanti che rimane quello dell'alto mare (art.135
della Convenzione del 1982).
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L'art. 87 della Convenzione del 1982 elenca una serie di libertà dell'alto mare,
come la libertà di navigazione, sorvolo, posa di cavi e condotte, costruzione di isole
artificiali e altre installazioni, pesca e ricerca scientifica. Non si tratta di un elenco
tassativo.
L'essenza delle libertà dell'alto mare consiste nel fatto che nessuno Stato può
interferire con le navi di altri Stati che rimangono quindi pienamente sottoposte alla
sovranità e alla giurisdizione dello Stato della bandiera.
Tale libertà conosce due tipi di eccezioni: quelle rappresentate dalle regole che
permettono l'interferenza con le navi straniere e quelle che disciplinano lo svolgimento delle attività statali sull'alto mare. Alcune forme di interferenza con la libertà
dell'alto mare sono codificate nel diritto internazionale, come, ad esempio, il diritto
di visita, che consiste nel diritto di salire a bordo di una nave allo scopo di verificare
il suo diritto di inalberare la propria bandiera e i documenti (art.110 della Convenzione del 1982). Altre forme sono meno chiaramente disciplinate, come quelle della
cattura e dell'arresto.
Secondo il diritto internazionale generale tutti gli Stati possono esercitare il
diritto di visita su una nave straniera in alto mare quando essa sia dedita alla pirateria
o alla tratta degli schiavi. Secondo la Convenzione di Ginevra sull'Alto Mare a questi
casi si aggiunge quello in cui la nave che batte bandiera di uno Stato o che rifiuti di
mostrare la sua bandiera abbia in realtà la stessa nazionalità della nave che effettua la
visita (art.22). La Convenzione del 1982 aggiunge il caso delle navi senza nazionalità
(art.110.1. lett.d).
Nel caso di pirateria è ammessa anche la cattura della nave da parte delle autorità di qualunque Stato (art.105 della Convenzione del 1982). Per quel che riguarda
invece le navi dedite alla tratta degli schiavi, solo lo Stato di bandiera può esercitare
altri poteri oltre quello di visita. La Convenzione del 1982 aggiunge il caso delle navi
dedite al traffico di sostanze stupefacenti (art.108) e quello delle navi impegnate in
radiotrasmissioni pirata (art.109). In quest'ultimo caso, oltre al diritto di visita esiste
anche la possibilità di arrestare la nave e la ciurma sequestrando le apparecchiature.
Lo Stato costiero può poi, anche oltre il proprio mare territoriale, adottare
misure intese alla prevenzione di fenomeni di inquinamento da incidenti o alla limitazione dei danni che ne derivino. Tale norma, consolidatasi in occasione dell'incidente della Torrey Canyon del 1967 è codificata nella Convenzione di Bruxelles del
29 novembre 1969 e all'art. 221 della Convenzione del 1982.
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AREA INTERNAZIONALE DEL FONDO MARINO
Secondo la Convenzione del 1982, l'Area Internazionale del Fondo marino
(international sea-bed) comprende il fondo e il sottosuolo marini oltre i limiti del
mare sottoposto al controllo nazionale (art.1.1).
Secondo l'art.156 della medesima convenzione, l'Area è posta sotto il controllo di una Autorità internazionale dei fondi marini che opera per conto dell'umanità (art.137.2) titolare di tutti i diritti sulle risorse dell'Area a motivo dell'appartenenza dell'Area stessa al patrimonio comune dell'umanità (art.136).
Tale istituto è stato introdotto dalla Convenzione del 1982, della quale rappresenta uno dei tratti più innovativi, ma può vantare alle sue spalle una lunga evoluzione.
L'idea dell'internazionalizzazione di vaste estensioni d'acqua di interesse comune a più Stati può farsi risalire ai regimi internazionali dei fiumi già noti nel diciannovesimo secolo. A quell'epoca l'interesse comune degli Stati rivieraschi e degli Stati
comunque interessati alla navigazione su un determinato fiume portò alla costituzione di organizzazioni come, ad esempio, la Commissione europea del Danubio,
che avevano lo scopo di assicurare una gestione della navigazione nel comune interesse di questi Stati.
Fu con gli anni sessanta del ventesimo secolo, comunque, che l'idea di una
internazionalizzazione del fondo marino cominciò sempre più ad affermarsi. Possono ricordarsi, a tal proposito, i pionieristici interventi in seno all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite di Arvid Pardo, allora delegato maltese, in difesa del riconoscimento ai fondi marini della natura di patrimonio comune dell'umanità.
Nel 1967, con la risoluzione 2340(XXII) del 18 dicembre, l'Assemblea Generale prese per la prima volta posizione raccomandando l'uso pacifico del fondo marino. In particolare venivano vietati la militarizzazione e l'appropriazione dell'area e
veniva auspicata l'istituzione di un regime internazionale di amministrazione, regime
ribadito con la risoluzione 2749 (XXV) del 17 dicembre 1970.
Il fatto che l'Area venga definita come uno spazio marino che si estende al di
là dei limiti delle zone di mare soggette al controllo nazionale rende difficile fissarne
i confini.
Infatti, occorre ricordare, per quel che riguarda, ad esempio, la Zona Economica Esclusiva, che l'estensione dell'Area non dipende soltanto dall'ampiezza massima delle 200 miglia (art.57), ma anche dal fatto che uno Stato costiero abbia o meno
istituito una Zona Economica Esclusiva
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BAIE
Se le coste presentano profonde insenature (baie) si traccia una linea di base
retta tra i punti di entrata naturali che non può superare le 24 miglia di lunghezza.
Talvolta gli Stati “chiudono” anche baie di grande estensione, affermando di
poterlo fare sulla base di titoli storici, ossia di una sorta di diritto consuetudinario.
Ne nascono spesso controversie di non facile soluzione.
Un esempio di controversia ancora aperta in materia di baie storiche è quella
relativa al golfo della Sirte, chiuso dalla linea di base retta più lunga riscontrabile nella
pratica internazionale, lunga oltre 300 miglia, rivendicato dalla Libia nel 1973 quale
baia storica e vitale e contestato dagli Stati Uniti d’America.
Gli Stati costituiti interamente da uno o più arcipelaghi (ad esempio le Filippine) possono istituire delle linee di base arcipelagiche rette, unendo i punti estremi
delle isole. Per rendersi conto dell'importanza di tali disposizioni, deve porsi mente
al fatto che il tracciare un sistema di linee rette attorno a un arcipelago determina di
fatto l'inclusione di larghe porzioni di mare, con forte pregiudizio per la navigazione.
STRETTI
Problemi peculiari si pongono per gli stretti. Durante il diciannovesimo secolo,
la controversia sul diritto di passaggio delle navi da guerra attraverso il Bosforo e i
Dardanelli, gli stretti che collegano il mar Nero al Mediterraneo, ebbe tale importanza
da divenire nota semplicemente come "questione degli stretti".
Grande attenzione viene dedicata al problema degli stretti nella Convenzione
delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 che ad esso dedica
l'intera parte III.
L'estensione del mare territoriale a 12 miglia nautiche pone numerosi stretti
importanti per la navigazione internazionale sotto il regime del mare territoriale. Inoltre, i poteri previsti dalla Convenzione per gli Stati costieri in materia di stretti, limitano fortemente la libertà di movimento delle forze marittime e aeree delle grandi
potenze. Esse condizionarono quindi la loro accettazione della regola delle 12 miglia
al riconoscimento della piena libertà di transito negli stretti, modellata su quella esistente nel mare internazionale. Una soluzione di compromesso venne trovata nel
cosiddetto regime del "passaggio in transito", ossia un regime di libertà di navigazione
e di sorvolo che implichi che i sottomarini non devono passare in superficie (a differenza di quanto accade nel passaggio inoffensivo).
18
D’altronde, l'esistenza di una via alternativa fa cadere il diritto di passaggio in
transito attraverso gli stretti. Si tratta di un regime complessivamente equilibrato, che
non conosce però applicazione generale. Numerosi sono infatti gli accordi che, anche
in epoca recente, vengono stipulati dagli Stati per definire il regime giuridico degli
stretti. Per esempio, i governi dell'Indonesia, della Malaysia e di Singapore hanno
concluso vari accordi nei quali affermano che lo stretto di Malacca, la via più conveniente tra l'Oceano Pacifico e l'Indiano, non è uno stretto internazionale e che la
sicurezza della navigazione in esso è interamente rimessa alla loro responsabilità. Essi
accettano comunque un diritto di passaggio.
19
20
Adriana Di Noto
La disciplina italiana di salvaguardia del patrimonio sommerso
SOMMARIO: 1. La tutela dei beni culturali all’interno della nostra Carta costituzionale – 2. La Legge 23 ottobre 2009, n. 157 – 3. La legislazione italiana in materia di ritrovamenti – 4. L’azione di tutela dei beni culturali sommersi da parte
delle forze di polizia italiane – 5. Il progetto “Archeomar”.
1. La tutela dei beni culturali all’interno della nostra Carta Costituzionale
Il patrimonio culturale di un Paese rappresenta la testimonianza visibile e tangibile della storia di quella Nazione, nella sua evoluzione e nei cambiamenti che in
essa, sotto molteplici punti di vista, si sono susseguiti. Ciò che distingue un Paese da
un altro non è solo l’aspetto morfologico del suo territorio, ma la sua cultura, intesa
come sintesi dinamica dell’arte, del costume, della tradizione sociale e culturale di una
Nazione, che viene assunta a strumento mediante il quale si realizza la libera e completa formazione del cittadino 1.
L’interesse in Italia per la salvaguardia del patrimonio culturale discende dalla
coscienza di essere tra i Paesi occidentali uno dei più ricchi di testimonianze del passato artistico e storico di culture diverse che hanno sparpagliato durante i secoli, sia
nelle vicinanze delle coste sia nel mare territoriale che nella terra ferma, vestigia, palazzi o perfino intere città inabissate.
La competenza di salvaguardare e valorizzare il patrimonio artistico e storico
nazionale viene affidato alla Repubblica dall’articolo 9 della Costituzione 2.
L’importanza di questa norma si sviluppa sotto due profili: il primo profilo fa
capo all’inserimento della salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale tra i
principi fondamentali dell’ordinamento, l’altro profilo, prevede l’assegnazione di
questo compito alla Repubblica, sottolinea come tutti gli organismi ed enti pubblici
sono direttamente sollecitati nell’attuazione di tale principio di modo che, in qualsiasi
1
A. Papa, “Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale subacqueo nell’ordinamento italiano:
aspetti problematici e prospettive future”, in Rivista giuridica dell’edilizia, vol. 45, n° 4, 2002, pagg.
211-230.
2
L’articolo 9 della Costituzione dispone che: <<La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura
e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione>>.
21
ambito in cui essi operino, sono tenuti a prendere in adeguata considerazione lo
scopo principale della protezione e valorizzazione del patrimonio culturale nazionale.
La legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre del 2001, la quale ha riformato gli
articoli 117 e118 della Costituzione, ha reso ancora più lampante il coinvolgimento
degli altri enti pubblici e maggiormente delle regioni.
Il sistema originale previsto dalla Costituzione e dagli Statuti delle regioni ad
autonomia differenziata annunciava che il conferimento legislativo e di conseguenza
amministrativo in ambito di beni culturali fosse attribuita in via esclusiva allo Stato,
restando alle regioni la competenza in tema di musei e biblioteche di enti locali, con
la solo eccezione per le regioni a statuto speciale quali Sicilia e Trentino Alto Adige,
i cui statuti presumevano una competenza esclusiva in tema di beni culturali.
Gli articoli 116, 117 e 118 della Costituzione sono stati riformati dall’articolo 2
della Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre del 2001, la quale decreta che in materia
di protezione dell’ecosistema, ambiente e dei beni culturali ha competenza esclusiva
lo Stato, mentre per quel che concerne le competenze relative alla valorizzazione dei
beni culturali e ambientali e la promozione e l’organizzazione di attività culturali,
rientrano nella legislazione concorrente. L’articolo 116 della Costituzione statuisce
però che <<ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia>> nelle materie
individuate, tra l’altro, nel secondo comma alla lettera s) dell’articolo 117 della Costituzione possono essere assegnate direttamente alle regioni per mezzo di una legge
statale, benché accolta con una maggioranza rafforzata. Come conseguenza di tutto
ciò ne discende che finanche la materia relativa alla protezione dei beni culturali può
divenire oggetto di competenza legislativa esclusiva delle regioni a statuto ordinario.
Il nuovo articolo 118 della Costituzione al suo terzo comma stabilisce che la
legge statale disciplina forme di coordinamento tra Stato e Regioni nelle materie di
cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117, e regolamenta per di più
forme di intesa e coordinamento nella materia di tutela dei beni culturali.
Conseguentemente alla riforma costituzionale del 2001, le regioni hanno ottenuto un ruolo in maggior misura marcato perfino a livello internazionale e comunitario.
Nelle materie loro pertinenti e nei limiti fissati, il quinto comma dell’articolo
117 della Costituzione assegna alle regioni pure nel campo della protezione e valorizzazione dei beni culturali, l’opportunità di poter prendere parte operosamente alla
formazione degli atti normativi in campo comunitario e all’applicazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea.
22
La Legge 5 giugno del 2003 n. 131, <<Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3>> all’articolo 1, primo comma, sancisce un criterio generale secondo il quale: <<Costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell’articolo
17, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all’articolo 10 della Costituzione, da accordi
di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’articolo 11 della Costituzione,
dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali>>.
La suindicata legge agli articoli 5 e 6, decreta le norme di procedura da seguire
per l’applicazione del quinto comma dell’articolo 117 della Costituzione. Alle regioni
a statuto speciale e alle province autonome di Bolzano e Trento, oltre a ciò, è conferito il diritto di contribuire a comporre le delegazioni del Governo con perlomeno
un loro rappresentante.
Alle Regioni ed alle Province autonome di Bolzano e Trento, nell’ambito di
propria competenza legislativa, è assegnata la possibilità di dare direttamente attuazione ed esecuzione agli accordi internazionali ratificati, ovviamente dando una preventiva comunicazione al Ministero degli affari esteri ed alla Presidenza del Consiglio
dei ministri, ed è assegnata per di più la facoltà di stipulare con enti territoriali interni
ad altro Stato intese volte a sostenere il loro accrescimento economico, sociale e culturale e di stipulare con altri Stati accordi esecutivi ed applicativi di accordi internazionali regolarmente entrati in vigore, accordi aventi natura tecnico-amministrativa o
accordi aventi natura programmatica finalizzati a sostenere il loro sviluppo economico, sociale e culturale, nel rispetto della Costituzione, dei vincoli discendenti
dall’ordinamento comunitario, dagli obblighi internazionali e dalle linee e dagli indirizzi di politica estera italiana, ed inoltre, nelle materie di cui all’articolo 117, terzo
comma della Costituzione, dei principi fondamentali fissati dalle leggi dello Stato.
Gli articoli 5 e 6 conferiscono alle regioni stesse la facoltà di dare diretta attuazione, nei limiti, naturalmente, delle competenze, alla Convenzione UNESCO del
2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo. In base alle norme poco
prima richiamate, le regioni disporrebbero della facoltà di stipulare accordi bilaterali,
multilaterali o regionali con altri Stati parti della Convenzione, sempre in forma di
accordi esecutivi ed attuativi di natura tecnico-amministrativa, o accordi di natura
programmatica aventi lo scopo di appoggiare lo sviluppo economico, culturale e sociale, pure andando oltre i limiti dell’articolo 6 della Convenzione UNESCO sulla
protezione del patrimonio culturale subacqueo che siffatto diritto conferisce unicamente agli Stati parte.
23
2. La Legge 23 ottobre 2009, n. 157 di ratifica e adeguamento della
Convenzione UNESCO del 2001
L’8 aprile del 2010 è entrata in vigore in Italia la Convenzione UNESCO del
2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo per mezzo della legge di
ratifica, esecuzione e di adeguamento dell’ordinamento interno del 23 ottobre del
2009, n. 157 3. La legge, si compone di dodici articoli, include una sequenza di provvedimenti diretti all’effettiva applicazione dei principi sanciti dalla Convenzione del
2001 con lo scopo di assicurare un valido meccanismo di salvaguardia e valorizzazione delle ricchezze culturali site nei fondali italiani.
Antecedentemente all’entrata in vigore delle Legge 23 ottobre del 2009, n. 157,
in Italia, la protezione del patrimonio culturale sottomarino era regolamentata dall’articolo 94 del Codice dei beni culturali e paesaggistici, il quale era stata approvato
mediante decreto legislativo del 22 gennaio del 2004, n. 42. Siffatto articolo prevedeva l’applicazione della Convenzione UNESCO a tutti i beni culturali storici e archeologici scoperti nella zona di mare compresa tra le dodici e le ventiquattro miglia
marine. Quest’articolo se sotto un primo profilo richiamava in modo pregevole le
regole sancite dall’Allegato, sotto un altro profilo l’assenza della ratifica della Convenzione UNESCO e la trasmissione del regime di protezione ad un solo articolo
non assicuravano l’incremento di un sistema di protezione efficace in qualunque circostanza.
Queste lacune sono state colmate dalla Legge 23 ottobre del 2008, n. 157 di
ratifica della Convenzione del 2001, la quale agli articoli 1 4 e 2 5 ne prevede la piena
e completa esecuzione.
Nell’articolo 3 la legge illustra che nell’eventualità in cui la zona marina inclusa
tra le dodici e le ventiquattro miglia marine vada a coincidere con un’altra zona di
uno Stato diverso e nell’eventualità in cui non sia fino allora stato stipulato un accordo di delimitazione, le competenze dello Stato italiano non andranno al di là del
3
La legge di <<Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale
subacqueo, con Allegato, adottata a Parigi il 2 novembre 2001, e norme di adeguamento dell'ordinamento interno>>, è pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 262 del 10 novembre 2009.
4
L’articolo 1 dispone che <<Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare la Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, con Allegato, adottata a Parigi il 2 novembre 2001, di seguito denominata “Convenzione”>>.
5
L’articolo 2 dispone che <<Piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione, a decorrere dalla
data della sua entrata in vigore, in conformità a quanto disposto dall’articolo 27 della Convenzione
stessa>>.
24
limite della linea mediana 6 , così come fissato dall’articolo 1, terzo comma, della
Legge 8 febbraio 2006, n. 61.
Le operazioni sul patrimonio culturale sottomarino nelle zone di tutela ecologica, al di là delle ventiquattro miglia marine dalla linea di base del mare territoriale
italiano, sono regolamentate dagli articoli 9 e 10 della Convenzione UNESCO, le
quali concernono i rinvenimenti nella piattaforma continentale e nella zona economica esclusiva, e dalle regole sancite nell’Allegato della Convenzione medesima, questo è quanto dispone l’articolo 4 della legge. Va puntualizzato che, secondo la legge
61/2006, le zone di protezione ecologica sono quelle zone di mare, al di fuori del
limite esterno del mare territoriale italiano, all’interno delle quali l’Italia svolge la propria giurisdizione in ambito di salvaguardia e protezione dell’ambiente marino, incluso il patrimonio storico e archeologico sommerso.
Norme particolareggiate in ordine alle dichiarazioni di ritrovamento ad alle richieste di autorizzazione relative ad interventi sul patrimonio culturale sottomarino
nelle zone di protezione ecologica o sulla piattaforma continentale italiana sono sancite dall’articolo 5. Per quel che attiene le dichiarazioni di ritrovamento, ricordando
gli articoli 9 e 10 della Convenzione UNESCO, si dispone che chiunque rinvenga
oggetti imputabili al patrimonio culturale sommerso in siffatte zone ha il dovere di
farne denuncia entro e non oltre tre giorni. La comunicazione dell’avvenuto rinvenimento può essere trasmessa all’Autorità marittima più vicina, indifferentemente, o
con mezzi elettronici o per via radio.
Per quel che riguarda, piuttosto, le richieste di intervento sul patrimonio culturale sottomarino è indispensabile presentare, attraverso l’Autorità marittima, una specifica richiesta di autorizzazione, ai sensi della regola 9 dell’Allegato, al Ministero per
i beni e le attività culturali, allegata la descrizione del progetto, così come previsto
dalla regola 10 dell’Allegato. L’autorizzazione sarà concessa o negata entro il termine
di sessanta giorni dal Ministero per i beni culturali. Al Ministero degli affari esteri e,
nell’eventualità in cui attengano navi di Stato o da guerra, anche al Ministero della
difesa verranno inviate una copia delle richieste di autorizzazione o delle denunce.
Nell’ipotesi in cui il rinvenimento o la domanda di intervento vengano fatte da parte
di cittadini italiani o da parte del comandante di una nave battente bandiera italiana
e che l’oggetto classificabile come patrimonio culturale sottomarino si trovi sulla piattaforma continentale o nella zona economica esclusiva di un altro Stato parte della
Convenzione del 2001, la denuncia dovrà essere inviata, entro tre giorni dal ritrovamento, alla competente autorità consolare italiana. Questa autorità, dopo trasmetterà,
6
Per linea mediana si intende quella linea i cui punti sono equidistanti dai punti più vicini delle linee
di base del mare territoriale italiano e dell’altro stato interessato.
25
il più presto possibile, all’autorità competente dello Stato sulla cui piattaforma continentale o zona economica esclusiva sono programmate le attività o è avvenuto il
rinvenimento tutte le informazioni ricevute, la stessa trasmissione verrà fatta al Ministero degli affari esteri italiano. In tutti i casi le informazioni ricevute saranno comunicate pure al Direttore Generale dell’UNESCO. Alla fine, viene previsto che
nelle consultazioni presunte dall’articolo 10, terzo comma della Convenzione, il Ministero degli affari esteri rappresenterà l’Italia, in connessione con il Ministero per i
beni e le attività culturali e, se il bene in oggetto è una nave di Stato o da guerra, con
il Ministero della difesa.
L’articolo 6, in ordine al patrimonio culturale localizzato nell’Area internazionale dei fondali marini e nel pertinente sottosuolo, facendo rinvio all’Articolo 11,
primo comma della Convenzione UNESCO, sancisce che i cittadini italiani o il comandante di una nave battente bandiera italiana hanno l’obbligo di dichiarare entro
tre giorni la scoperta o la volontà di impegnarsi in interventi sul patrimonio culturale
sommerso localizzato in questa zona al Ministero degli affari esteri, perfino con
mezzi elettronici o via radio. Quest’ultimo Ministero darà comunicazione della denuncia mediante trasmissione al Ministero per i beni e le attività culturali e, se il bene
in oggetto è una nave da guerra o di Stato, al Ministero della difesa.
Secondo l’articolo7, che a sua volta fa rinvio al terzo comma, dell’articolo 18
della Convenzione UNESCO, il Ministero degli affari esteri informerà dell’avvenuta
confisca dei beni del patrimonio culturale sottomarino, recuperati secondo i modi
non contemplati dalla Convezione, al Direttore Generale dell’UNESCO e agli Stati
che possono dimostrare un legame con siffatti beni. Questa disposizione, con l’attuazione del principio di cooperazione internazionale, ha come scopo quello di impedire il traffico illegale di oggetti facenti parte del patrimonio culturale subacqueo e
vuole incoraggiare il processo di restituzione dei beni ai legittimi proprietari, anche
se non si interessa direttamente della questione.
Al Ministero dei beni e delle attività culturali la carica di autorità competente
per le operazioni contemplate dall’articolo 22 della Convenzione è attribuita dall’articolo 8. Le operazioni sono svolte in concomitanza con il Ministero della difesa nel
caso di navi di Stato o da guerra.
L’articolo 9 specifica che nella esposizione del progetto e nel programma di
documentazione, in più rispetto a quanto disciplinato dalle regole 10, 26 e 27 dell’Allegato, devono essere specificate le coordinate geografiche del sito, con la sua eventuale estensione o il posto in cui una scoperta è stata effettuata.
L’articolo 10 è consacrato alla esplicitazione di sanzioni particolarmente annunciate per il patrimonio culturale sottomarino, così come disciplinato dall’articolo 17
26
della Convenzione. È previsto che chiunque non dichiari la scoperta o la volontà di
svolgere un intervento sul patrimonio culturale sottomarino commette un reato punibile con l’arresto fino ad un anno ed al pagamento di un ammenda che può variare
a seconda della gravità da trecento a tremilanovantanove euro. Se la dichiarazione
avviene oltre il termine dei tre giorni previsti, si attua una sanzione pecuniaria che
varia dai duecentocinquanta ai duemilacinquecento euro. Chicchessia, invece, immetta o commerci nel territorio italiano beni del patrimonio culturale sommerso recuperati attraverso un intervento privo di autorizzazione è punibile con la reclusione
sino a due anni e con una multa che può andare da cinquanta a cinquecento euro.
L’articolo 11 concerne la copertura finanziaria e prevede che per l’applicazione
della medesima legge venga accordata una spesa di 13.455 euro annui, ad anni alterni,
a partire dal 2009. A questo onere si provvederà attraverso una corrispondente riduzione del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio 2009-2011,
nell’ambito del programma <<Fondi di riserva speciali>> della missione <<Fondi
da ripartire>> dello Stato di previsione del Ministero dell’economia e della finanza.
L’ultimo articolo, vale a dire l’articolo 12, ha stabilito che l’entrata in vigore di
questa legge sarebbe avvenuta il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale.
L’entrata in vigore della Convenzione UNESCO del 2001 in Italia e del suo
Allegato costituisce un importante passo avanti in ambito di salvaguardia del patrimonio culturale sottomarino. La peculiarità degli articoli contemplati dalla Convenzione e delle regole incluse nell’annesso Allegato danno origine ad un quadro normativo alquanto progredito, capace di assicurare un livello apprezzabile di protezione.
In conclusione si può affermare che l’entrata in vigore della Convenzione UNESCO del 2001 per mezzo della Legge 23 ottobre del 2009, n. 157 e la Previsione del
Progetto Archeomar costituiscono una tappa importantissima nell’ambito legislativo
italiano in ordine alla realizzazione della salvaguardia e della valorizzazione del patrimonio culturale sottomarino.
3. La legislazione italiana in materia di ritrovamenti
La mancanza, nell’ordinamento italiano, di una legge ad hoc di regolamentazione
del patrimonio culturale subacqueo non individua una mancanza di regolamentazione del settore, visto che ad esso si applicano certune specifiche disposizioni del
codice navale e, in quanto compatibili, le disposizioni del Testo Unico sui beni culturali, approvato con il decreto legislativo 29 ottobre del 1999 n. 490.
27
È, comunque, chiaro che l’assenza di una normativa nazionale ad hoc non permette né un’efficiente funzione di protezione, né un’appropriata attività di valorizzazione di beni e siti archeologici di importante interesse storico-culturale.
Un primo profili problematico concerne la mancanza di una determinazione di
tutto quello che è passibile di essere incluso nella nozione di patrimonio culturale
sottomarino.
La normativa vigente in Italia e attuabile al patrimonio culturale subacqueo è
costituita da certune disposizioni del Testo Unico, ed esattamente gli articoli che
vanno dall’85 al 90, i quali riprendono senza nessun tipo di modifiche la disciplina
prevista dalla legge ponte n. 1089 del 1939, e dagli articoli 510,511 e 513 del codice
navale, ai quali fa rinvio pure il codice civile, all’articolo 933. Per di più sono applicabili pure le Convenzioni internazionali in materia ratificate dall’Italia.
Il Capo V del Testo Unico disciplina la materia dei ritrovamenti e delle scoperte.
Nei confronti delle norme in ambito di cose ritrovate previste dagli articoli 972 e
seguenti del codice civile la disciplina prevista dal Testo Unico rappresenta una normativa speciale, ed è appunto per questo attuabile in via esclusiva ai beni culturali
come annunciato dall’ultimo comma dell’articolo 932 del codice civile.
Il primo comma dell’articolo 85 statuisce una riserva a favore dello Stato per lo
svolgimento di ricerche archeologiche o la realizzazione di opere aventi lo scopo di
ritrovare cose di interesse storico, artistico ed archeologico su tutto il territorio nazionale in forza della quale deve reputarsi illegale qualsiasi tipo di attività non autorizzata esercitata da privati in tema di ricerca archeologica. La disposizione non fa
alcun riferimento alle ricerche in mare; ciò nonostante la locuzione <<in qualunque
parte del territorio nazionale>> è stata regolarmente interpretata in senso estensivo,
permettendo, in questo modo, di comprendere nella disciplina ugualmente la ricerca
subacquea.
La riserva allo Stato di questo compito di ricerca ha come fine quello di salvaguardare il più possibile i beni culturali nella fase, particolare, del ritrovamento. È
competenza, pertanto, dell’amministrazione, nel momento in cui viene scoperto un
bene, decretare se esso possa acquisire la qualifica di culturale, ostacolarne la distruzione o il suo deterioramento, la perdita o la sottrazione furtiva, fare tutto quello che
possibile per far si che ne venga fatto l’uso più conforme alla sua natura e mettere a
disposizione tutti i mezzi possibili affinché i beni scoperti o rinvenuti possono essere
messi a disposizioni del maggior numero di persone.
L’attività di ricerca può essere svolta direttamente dallo Stato o in alternativa
può essere data in concessione ad enti o a privati. L’articolo 86 del Testo Unico,
difatti, afferma che il Ministero può dare in concessione ad enti e privati l’esecuzione
28
delle operazioni di ritrovamento, serbandosi la possibilità di individuare, sia nell’atto
della concessione, sia dopo nel corso dell’esecuzione dei lavori, le norme da rispettare
a secondo dell’ambito in cui si svolge la ricerca. I privati e gli enti concessionari,
appunto per questo, sono obbligati ad osservare le norme prescritte nell’atto di concessione e tutte le altre che l’amministrazione reputa di imporre. Nel caso in cui siffatte norme non vengano rispettate la concessione viene revocata. Un altro caso in
cui la concessione può essere revocata si verifica quando il Ministero decida di sostituirsi nell’esecuzione o nella prosecuzione delle opere.
Il Testo Unico, così come già previsto dalla legge ponte n. 1089 del 1939, regola
anche l’eventualità in cui i beni culturali vengano rinvenuti fortuitamente. Ai sensi
dell’articolo 87, in caso di ritrovamento fortuito, lo scopritore ha l’obbligo di farne
denunzia entro ventiquattro ore al Sindaco, al Sovrintendente oppure all’autorità di
pubblica sicurezza. In concordanza con i moderni principi dell’archeologia in materia
di conservazione, lo scopritore ha l’onere di occuparsi della conservazione degli oggetti ritrovati, lasciandoli nelle condizioni e nel luogo in cui sono stati trovati. Solo
nel caso che la permanenza nel luogo nel quale il bene è stato rinvenuto possa comprometterne la preservazione ne è autorizzata la rimozione e la consegna alle autorità
competenti.
Allo scopritore che ha rispettato gli obblighi fissati dall’articolo 87 ed al concessionario di cui all’articolo 86 consegue il diritto di ricevere un premio per il ritrovamento che non potrà essere d’importo superiore al quarto del valore delle cose ritrovate. La determinazione del valore delle cose ritrovate è realizzata in conformità con
quanto previsto dall’articolo 90 del Testo Unico 7.
Una problematica che affligge questi beni è quella attinente alla proprietà dei
beni conseguentemente al ritrovamento. L’articolo 88 del Testo Unico, in corrispondenza con quanto stabilito dall’articolo 826 del codice civile, asserisce il principio
della proprietà statale di tutti i beni di cui all’articolo 2 del medesimo Testo Unico da
qualunque persona e in qualunque modo rinvenuti e rispetta anche la destinazione
tra beni immobili che fanno parte del demanio pubblico in linea con quanto disposto
dall’articolo 822 del codice civile e beni mobili che appartengono al patrimonio indisponibile, in linea con quanto disposto dall’articolo 826 del codice civile.
7
Ai sensi dell’articolo 90 del Testo Unico << 1. Il Ministero provvede alla determinazione del
premio spettante agli aventi titolo a norma dell’articolo 89, previa stima delle cose ritrovate. A
richiesta degli aventi titolo che non accettano la stima del ministero, il valore delle cose ritrovate è
determinato da una commissione costituita da tre membri da nominarsi uno dal Ministero, l’altro
dal richiedente e il terzo dal presidente dal tribunale. Le spese della perizia sono anticipate da richiedente. 2. La determinazione della commissione è impugnabile in caso di errore o di manifesta
iniquità>>.
29
Allargando il raggio di applicazione di questa norma ai beni culturali rinvenuti
in mare, può affermarsi che essa trova indiscussa applicazione per quel che concerne
i beni archeologici, mobili ed immobili.
Anche i beni immobili, di interesse archeologico, una volta rinvenuti in mare,
appartengono allo Stato. Mentre i beni culturali mobili vengono a far parte del patrimonio indisponibile, i beni immobili sottomarini, quali le rovine di antichi porti o
città, entrano a far parte del demanio dello Stato, quantunque il mare non sia demaniale ma invece res communis omnium.
L’inclusione dei beni culturali sottomarini immobili nella categoria del demanio
implica che ad essi si attuano le limitazioni proprie di questa categoria, che sono:
l’inalienabilità, l’imprescrittibilità, al di là dell’eventualità, da parte dell’amministrazione di fare ricorso a forme di autotutela, catalogabili nei poteri c.d. di polizia demaniale.
La disciplina del Testo Unico in tema di ritrovamenti è ispirata dall’obiettivo
primario di assicurare allo Stato la proprietà dei beni ritrovati.
La disciplina dei ritrovamenti così come non appena esplicata, in relazione ai
beni culturali sommersi, è tuttavia complicata dal fatto che al ritrovamento dei relitti
in mare deve essere attuata la normativa speciale prevista dagli articoli 510, 511 e 513
del codice della navigazione. Veramente, queste fonti risultano di complessa integrazione, soprattutto per quanto concerne la scoperta fortuita di beni archeologici, ed è
dunque più appropriato parlare di parziale conflitto tra le fonti stesse, che sarà compito dell’interprete, caso per caso, risolvere. Il codice navale disciplina l’ipotesi generale del ritrovamento di relitti ed esclusivamente al secondo comma dell’articolo 512
contiene una disciplina particolarmente riferita ai beni culturali.
Queste norme sanciscono che, in caso di ritrovamento fortuito , lo scopritore
debba darne comunicazione entro tre giorni 8 all’autorità marittima più vicina e recapitare le cose ritrovate al proprietario se conosciuto altrimenti alla stessa autorità marittima a cui è stata fatta la comunicazione. Un diritto alla ricompensa appartiene per
diritto al ritrovatore che ha adempiuto gli obblighi suindicati.
A dispetto di quanto contemplato nel Testo Unico, che prescrive l’assegnazione
istantanea e diretta della proprietà del bene rinvenuto allo Stato, senza neppure che
venga vagliata la possibilità di un indagine circa l’appartenenza del bene culturale ad
un soggetto privato, per i beni culturali rinvenuti in mare, scartata in ogni caso l’attribuzione della proprietà al ritrovatore, la proprietà statale è prevista esclusivamente
8
I tre giorni vanno contati dal girono del ritrovamento e dell’approdo della nave nell’eventualità in
cui il ritrovamento si sia verificato nel corso della navigazione.
30
in via residuale allorché il proprietario non abbia adempiuto a quanto fissato dall’articolo 511.
Il problema riguardante la proprietà dei beni rinvenuti casualmente è senza ombra di dubbio il più complesso visto che si corre il pericolo di assoggettare a due
discipline diverse beni che esibiscono la medesima importanza a livello culturale e di
allontanarne certuni dal predominante interesse pubblico di protezione, valorizzazione e fruizione degli stessi unicamente a causa del luogo della loro scoperta.
Per porre fine a questo problema potrebbe essere utile fare ricorso alla distinzione fra res vacuae possessionis, vale a dire le cose abbandonate, e res vacuae dominii, vale
a dire le cose che per loro natura o per l’antichità della permanenza in mare non
presentino nessun proprietario. Nella prima ipotesi si presterebbe ad essere applicata
la disciplina del codice civile in materia di cose ritrovate e quella del codice della
navigazione; nella seconda ipotesi, nella quale dovrebbero inserirsi i beni che presentano carattere culturale, viceversa, si renderebbe applicabile solamente la disciplina
speciale. In questa direzione sembra pure essersi orientata la giurisprudenza in un
caso affrontato dalla Corte di Appello di Palermo con la sentenza n. 167 dell’8 febbraio del 1978.
4. L’azione di tutela dei beni culturali sommersi da parte delle forze
di polizia italiane
I nemici principali del patrimonio culturale e archeologico sottomarino sono
coloro che vengono chiamati relittari. I relittari sono sub che vanno alla ricerca di
relitti sommersi con lo scopo di recuperarne oggetti antichi più o meno preziosi per
collezionismo personale o per fini di lucro. Coloro sono l’equivalente in mare di coloro i quali sulla terraferma sono denominati i cosiddetti tombaroli, ovverosia quei
soggetti che vanno alla ricerca di antichità con lo scopo di trarne il valore economico
culturale. In ambedue i casi le attività svolte sono indubbiamente illecite.
Con riguardo all’archeologia sottomarina al giorno d’oggi un fenomeno di tal
genere è meglio conosciuto con l’espressione archeomafie. Le archeomafie sono organizzazioni criminali, o parti di esse, che agiscono con maniere di stampo mafioso
nel contesto degli scavi clandestini, del ladrocinio e del traffico illegale internazionale
di opere d’arte e di reperti archeologici subacquei. Siffatti traffici presumono in realtà,
una rete criminale ben organizzata che, dal livello locale al livello internazionale, agisce grazie all’appoggio e al supporto delle organizzazioni mafiose. Queste organizzazioni si giovano della difficoltà di esercitare un intenso controllo delle coste da parte
delle autorità nazionali per portare avanti dei veri e propri saccheggi di opere d’arte
e reperti giacenti sui fondali marini in particolar modo italiani. La ratio è che questi
31
beni fino al momento del loro rinvenimento sfuggono alla conoscenza e alle ricerche
perché non sono mai stati inventariati. Il termine è stato coniato in corrispondenza
con quello di ecomafie ed è stato adoperato anche dall’Osservatorio Internazionale
Archeomafie, un’organizzazione non governativa istituita in Italia nel 2004 per esaminare e far fronte a questo fenomeno.
L’espressione archeomafie, è dunque il frutto della coscienza che il saccheggio
di opere d’arte di reperti archeologici sia nei musei che negli scavi occulti sono il
primo di una lunga serie di passaggi che, per mezzo dei traffici internazionali, affida
questo patrimonio nelle mani di senza scrupoli collezionisti privati o di musei stranieri.
Da un po’ di anni si sta inesorabilmente assistendo ad una vera e propria corsa
al rinvenimento di beni sottomarini, non sempre portata avanti in maniera equilibrata
e nel rispetto dei principi universali di legalità.
Sono state persino concepite delle società private, da parte di Stati sprovvisti di
litorale, le quali hanno come scopo sociale preminente l’equipaggiamento di spedizioni marittime per il rinvenimento dal fondale marino di beni inabissati e rimasti per
centinaia di anni sui fondali marini. Quasi sempre queste società sono spinte dal solo
fine di lucro, tanto è vero che il bisogno di assicurare la protezione dei beni stessi
diviene inutile. Tutto questo accresce il fenomeno della circolazione sul mercato internazionale di opere d’arte e reperti archeologici, quasi sempre di derivazione illegale.
La rete internazionale di traffici illegali ha trascinato nei decenni passati un numero davvero importantissimo di reperti archeologici e opere d’arte dall’Italia a musei stranieri.
L’Italia ha da sempre conosciuto questo fenomeno del saccheggio di opere
d’arte, e nel 1974 il Ministero per i beni culturali ed ambientali, subentrato nella competenza in materia al Ministero della pubblica istruzione, al momento della sua costituzione, per rispondere alle sempre più crescenti necessità di attività specialistiche in
ordine alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio archeologico sommerso, ha
istituito, nel 1986, il Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (STAS), il quale
ha numerosi compiti.
La prima funzione assegnata alla nuova struttura tecnica centrale è quella delle
operazioni di emergenza in qualunque parte del territorio nazionale 9 su richiesta
delle Sovraintendenze territoriali alle quali prima erano assegnate in via esclusiva le
9
Tali operazioni d’urgenza non possono essere espletate nel territorio delle Regioni Sicilia e Valle
d’Aosta, e delle Provincie autonome di Bolzano e Trento, le quali hanno competenze esclusive in
materia.
32
relative competenze. Nello svolgimento di siffatto compito, il Servizio usufruisce del
regolare coinvolgimento del nucleo dell’Arma dei Carabinieri, di tutela del patrimonio artistico e dei nuclei subacquei, della Guardia di finanza (unità navali e nuclei di
sommozzatori), dei Vigili del Fuoco e della Polizia. In secondo luogo, il Servizio
diventa l’organo di programmazione ed esecuzione di progetti intersoprintendenziali
ed interregionali, il cui scopo è quello di impedire azioni di disturbo e deterioramento
del patrimonio archeologico sottomarino, servendosi, per il compimento di queste
due rilevanti funzioni, di centri tecnici specialistici che vengono creati nel tempo, in
corrispondenza dei più considerevoli siti archeologici sommersi, per la gestione dei
molteplici cantieri archeologici oramai operativi. Pur tuttavia, i suddetti centri non
hanno mai in concreto funzionato e si è privilegiato potenziare i nuclei formati
nell’ambito delle singole sovraintendenze per lo svolgimento dei compiti di cui si è
appena parlato.
Il Servizio viene identificato, in terzo luogo, come centro di assistenza tecnicologistica e di coordinamento delle attività subacquee operative in situ che fanno capo,
oltre che all’Amministrazione per i beni culturali pure ad altri organi dello Stato. In
ordine a quest’ultima competenza, di specifica importanza è la collaborazione creata
a cominciare dal 1989, con il Ministero della Marina Mercantile, per l’organizzazione
tra l’altro del concorso del personale militare delle Capitanerie di porto componenti
i nuclei per la protezione dei beni archeologici subacquei, della cui formazione deve
occuparsi il Ministero per i beni culturali in un appropriato registro, è compito del
Ministero della marina mercantile, oggi Ministero dei trasporti e della navigazione.
Come già anticipato pocanzi, un ruolo molto importante circa la protezione del
patrimonio culturale subacqueo viene assunto dalle Forze dell’Ordine; tra i vari corpi
un ruolo alquanto rilevante in ambito di archeologia subacquea viene svolto
dall’Arma dei Carabinieri, al cui interno esiste una speciale struttura preposta alla
salvaguardia dei beni paleontologici, archeologici, storici ed artistici nazionali, vale a
dire il Comando dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
Il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale ufficialmente fu costituito
nel 1992, ma già operava dal 1969 nella veste di reparto speciale dell’Arma con l’appellativo di Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico. Il Reparto si suddivide
in due settori: uno operativo 10 e uno di supporto logistico il cui motore è composto
dalla Sezione elaborazione dati, con una banca dati ritenuta tra le più qualificate a
livello internazionale. In tale banca dati convergono tutte le schede informative pertinenti ai furti denunciati in Italia alle Forze di Polizia, per di più comprende anche
10
Il settore operativo si compone di dodici nuclei, i quali sono collocati sul territorio nazionale.
33
le schede informative attinenti agli eventi delittuosi commessi all’estero e comunicati
dall’Interpol.
L’attività del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale è diretta alla
salvaguardia e all’impedimento, a livello nazionale ed internazionale, dei crimini contro il patrimonio culturale archeologico, storico ed artistico. I compiti che vengono
svolti riguardano: l’opposizione alle infrazioni delle norme che regolamentano la falsificazione; recupero dei beni d’arte illegalmente allontanati o esportati dal territorio
nazionale, ampliando le sue ricerche persino all’estero, ovviamente rispettando i limiti posti dalle Convenzioni e dalla cooperazione giuridica, come pure i limiti posti
dalle altre Forze di Polizia quali Interpol, New Scotland Yard, F.B.I., Customs Service; controlli amministrativi nel corso dello svolgimento di mostre e nei riguardi di
case d’asta, mercati antiquariali, restauratori ed altri operatori del settore; servizi precauzionali mediante il supporto di elicotteri ed unità navali dell’Arma, eseguiti in aree
archeologiche specialmente sensibili; collaborazione con il personale degli istituti servizi per l’archeologia sottomarina (STAS e SCRAS), ed inoltre con i funzionari delle
Soprintendenze archeologiche – Sezioni marine, nel corso di attività di recupero o
interventi su reperti individuati in acque territoriali; missioni internazionali all’interno
della MSU, in Kosovo e fino a qualche anno fa in Iraq. Per poter svolgere tutti questi
compiti il Comando si serve di supporti operativi all’avanguardia e di un sofisticato
archivio fotografico-descrittivo dei beni da ricercare.
Per quel che concerne in particolar modo l’attività di difesa del patrimonio culturale sommerso va rimarcato come durante questi anni è accresciuto sempre di più
l’interesse per l’archeologia subacquea tanto è vero che nuovi scavi sono stati effettuati, altri che segnavano l’inizio dell’archeologia subacquea mediante l’utilizzo di criteri scientifici sono stati ripresi e conclusi, arricchendo man mano quella mappa di
aree sottomarine che le varie Soprintendenze archeologiche competenti hanno potuto studiare in virtù della disponibilità di una maggiore ricchezza di dati. Naturalmente, la localizzazione di siffatti siti archeologici se da un lato ha concesso la possibilità di esaminare più a fondo la loro conoscenza storica, dall’altro lato ha implicato
l’attenzione del grande pubblico e tutto questo ha fatto ingrandire il problema della
loro salvaguardia. Appunto per questo, queste aree archeologiche come pure quelle
ancora non conosciute, sono bisognose sempre di più di protezione non soltanto dai
fenomeni naturali ma soprattutto da episodi di scavi clandestini, i quali sfortunatamente sono accertati solo a sottrazione avvenuta.
Per far fronte a queste situazioni la collaborazione dei Nuclei subacquei e delle
unità navali dei Carabinieri rappresenta l’interlocutore tecnico-scientifico più qualificato. Gli interventi eseguiti, circa milleduecento missioni in vent’anni e migliaia di
34
sopralluoghi, hanno attenuto effettivamente tutte le acque italiane e hanno permesso
di sperimentare, in virtù delle intese con l’Istituto ideografico della Marina Militare,
diverse tecniche di studio dei fondali. Per di più, nel maggio del 1998, è stata stipulata
una Convezione della durata di cinque anni, tacitamente rinnovabile, tra il Ministero
della difesa e quello dei beni culturali ed ambientali, per una collaborazione nell’attività di ricerca archeologica sul fondale del mare nelle aree subordinate alla giurisdizione nazionale, attraverso l’utilizzo di una nave della Marina Militare attrezzata a
laboratorio. L’azione di protezione del patrimonio subacqueo è inoltre garantita anche mediante la promozione di specifici convegni sui temi di attualità tecnica, nonché
attraverso mostre sui risultati di lavori svolti dalle diverse Soprintendenze.
Fenomeno di particolare interesse e alquanto preoccupante è quello relativo ai
saccheggiatori i quali senza scrupoli setacciano i fondali marini alla ricerca di ogni
tipo di bene archeologico. Al fine di contrapporre un’azione di contrasto a siffatta
attività illecita, riferita principalmente al fenomeno costiero, il Comando Carabinieri
Tutela Patrimonio Culturale, al di là di volgere i suoi sforzi nell’ostacolazione dei
traffici illeciti che di questi beni recuperati avvengono verso mercati sia internazionali
sia nazionali, attraverso rotte ben sperimentate, esercita da diversi anni una sistematica attività di prevenzione che vede coinvolti nelle Regioni della Sicilia, Veneto, Lazio, Emilia Romagna, Basilicata, Marche, Sardegna, Trentino Alto Adige e Puglia,
unità di motovedette ed elicotteri coordinate da funzionari delle Soprintendenze archeologiche competenti.
Questi servizi, che presumono ogni mese ricognizioni aeree ed inoltre anche
controlli a mezzi e persone che si trattengono in aree archeologiche marine e terrestri,
hanno fino ad ora permesso l’identificazione di un elevato numero di individui presenti, per motivi non sempre spiegati, nelle summenzionate aree vincolate.
5. Il progetto “Archeomar”
Il Mar Mediterraneo è un incommensurabile museo subacqueo in quanto in
esso si segnalano migliaia e migliaia di siti archeologici dalla preistoria alla modernità;
abitati, ville, peschiere, mulini, cave, ponti, strutture portuali e naturalmente relitti. I
mari conservano un notevole patrimonio archeologico subacqueo, la cui conoscenza
ed esatta localizzazione sono i primi elementi base per garantirne la salvaguardia e la
valorizzazione.
La tutela archeologica presuppone la conoscenza del territorio. Sebbene questa
affermazione può apparire alquanto scontata, l’Italia sino al 2002 non possedeva una
mappa dei propri siti sottomarini e l’autunno del 2002 ha quindi serbato un evento
imprevedibile per l’archeologia sottomarina italiana: i mari a partire dal 2002 avranno
35
la prima cartografia scientifica dei siti archeologici subacquei, operazione per la quale
è stato approvato il Progetto Archeomar.
Il Progetto Archeomar deriva dalla legge n. 264 dell’8 novembre del 2002, che
all’articolo 3 sancisce: <<Censimento dei beni archeologici sommersi nei fondali marini. È autorizzata la spesa di 3.751.825 euro per ciascuno degli anni 2003 e 2004 a
favore del Ministero per i beni e le attività culturali per la realizzazione del censimento
dei beni archeologici sommersi nei fondali marini delle coste delle Regioni Campania,
Basilicata, Puglia e Calabria>>.
La preminenza fissata dalla legge 264 è abbastanza chiara ed inequivocabile: la
necessità di compiere un censimento. Dato che ogni censimento, in base agli attuali
metodi topografici, ha come sede naturale di destinazione la cartografia archeologica,
il Progetto Archeomar è stato creato con questa specifica funzione pratica. Lo scopo
del Progetto è dunque quello di superare la scoperta fortuita puntando alla ricerca
programmata, mediante una metodologia interdisciplinare diretta a creare una moderna cartografia vettoriale e una banca dati.
Per il Progetto sono occupati due Servizi 11 della Direzione generale per i beni
archeologici con quindici unità, e le sei Soprintendenze per i beni archeologici di
Napoli e Caserta, di Pompei, di Salerno, Avellino e Benevento, della Calabria, della
Basilicata e della Puglia.
Per mezzo di una gara d’appalto i lavori sono stati commissionati all’Associazione Temporanea di Imprese (ATI) costituita dalla capomandataria Nautilus e da
altre imprese.
Per la costituzione di Archeomar 1, avente ad oggetto le aree della Basilicata,
Puglia, Calabria e Campania, sono stati previsti diciotto mesi, aventi inizio a cominciare dall’aprile del 2004, con di più di trecento giornate di ricerca nelle aree marine
delle quattro Regioni indicate.
Il Progetto Archeomar si compone di quattro fasi operative, ognuna delle quali
è indipendente ma propedeutica allo svolgimento delle susseguenti.
La prima fase concerne la raccolta dei dati informativi scaturiti da progetti vari
sviluppati antecedentemente: rilevamento dei reperti archeologici e di altri beni localizzati nel fondo marino antistante la costa calabra e Maratea; porti e approdi nell’antichità dalla preistoria all’alto medioevo; siti e relitti antichi sommersi nei mari italiani.
La raccolta per di più otterrà tutti i dati utili rintracciabili nelle sedi più disparate;
impegnate nel Progetto non saranno esclusivamente le differenti Soprintendenze impegnate ma pure altre Amministrazioni, come pure privati cittadini quali pescatori e
11
I Servizi occupati sono il II ed il III.
36
operatori di diving center. Per siffatta prima riorganizzazione è stata valutata una
<<scheda di sito archeologico subacqueo>>.
La seconda fase, più laboriosa, include rilevamenti ed esplorazioni sottomarine,
con l’ausilio di archeologi subacquei e navali e di sofisticate attrezzature. È stata predisposta una flotta, di non molti elementi, composta da tre navi oceanografiche, attrezzate con laboratori capaci di compiere analisi di geologia marina e apparecchiature per l’esplorazione strumentale. Oltre a ciò è stato utilizzato il mini sommergibile
di ultima generazione REMORA della Comex, permettendo agli archeologi di poter
esplorare fino a cinquecento metri di profondità.
La terza fase consiste nell’interpretazione finale dei dati, alla schedatura e
all’eventuale nuova documentazione. I risultati sono stati inseriti in un database territoriale integrato, organizzato su una piattaforma informatica GIS (Sistema Informativo Territoriale), vantaggioso finanche per la realizzazione di piani di protezione.
La quarta, ed ultima fase, è stata consacrata alla formazione e all’aggiornamento
del personale del Ministero e degli organi di protezione e vigilanza presenti sul territorio 12.
Cartografie generali e di dettaglio sono state create, chartplotter con GPS satellitare differenziale o comunque compatibili con GPS e software di navigazione delle
Forze dell’Ordine; in più sarà pubblicato materiale sia in forma scientifica, e diffuso
tramite dèpliant, supporti digitali CD-ROM, poster, e con la programmazione di convegni regionali ed internazionali.
Il Progetto Archeomar presuppone un sistema scientifico il cui intento è quello
di realizzare una carta archeologica subacquea nazionale in ordine a tutte le acque
italiane: mari, laghi, fiumi, lagune ed ipogei. I risultati sono stati conseguiti grazie
all’utilizzo di una metodologia interdisciplinare che ha previsto non unicamente la
partecipazione di archeologi subacquei esperti nei vari settori ambientali volta per
volta esaminati ma altresì di archeologi navali, di geomorfologi, di archivisti e storici
e di esperti in storia militare. Tutto questo ha richiesto per le lavorazioni di Archeomar 1 l’interessamento di diverse Università.
I risultati ottenuti sono di gran lunga importanti: gli oltre centoventi esperti che
hanno cooperato per circa due anni, le banche dati di più di quaranta istituzioni, le
trecentoventidue giornate di indagini in mare e gli oltre trecentosessanta chilometri
di fondale marino perlustrato con metodi strumentali e con centosettantasei immersioni, i centoventinove segnalatori fra studiosi locali e subacquei hanno fornito seicentoventotto schede documentali, che di conseguenza hanno permesso di compiere
12
Ci si riferisce al personale dei Nuclei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, alle Capitanerie di
Porto e alla Guardia di Finanza-Unità Navali.
37
la schedatura di duecentottantasette siti archeologici subacquei ripartiti lungo i litorali
di Calabria, Campania, Basilicata e Puglia fra la battigia e i quattrocento metri di profondità.
Il materiale ricavato è stato per intero organizzato in un GIS.
I duecentottantasette siti identificati e georeferenziati includono una tipologia
ben precisa: quarantasette strutture, sessantacinque insiemi di reperti, centodiciannove relitti navali, sedici relitti aerei, quaranta reperti singoli di grande importanza e
dimensione. Se numerosissimi siti sono stati posizionati grazie a dati già conosciuti,
cento nuovi siti sono stati scoperti in virtù delle indagini del Progetto Archeomar. La
mappatura del patrimonio sottomarino di Puglia, Basilicata, Campania e Calabria evidenzia due ordini di problemi: la salvaguardia e la valorizzazione. Per quel che riguarda la salvaguardia, il Progetto Archeomar ha previsto la fornitura a Carabinieri,
Guardia di Finanza, Polizia e Capitanerie di Porto di SD-card compatibili con gli
strumenti di navigazioni in uso nelle stesse Forze dell’Ordine. In tal maniera le Forze
dell’Ordine sono messe in condizioni di intervenire in tempo reale nell’eventualità in
cui vi sia un ingresso non autorizzato in aree archeologiche sottomarine: il metodo,
maggiormente perfezionabile, dovrebbe assicurare una sicurezza maggiore finanche
a distanza. Ciò nondimeno, salvaguardia e valorizzazione hanno un valido alleato
nelle Aree Marine Protette (AMP) e in tutte le zone costiere in ogni caso oggetto di
tutela ambientale.
Successivamente alla buona riuscita del Progetto Archeomar 1, a cominciare dal
luglio del 2009 ha avuto inizio un nuovo Progetto, Archeomar 2, il cui fine è quello
di inventariare, localizzare e documentare i siti subacquei lungo le coste e gli arcipelaghi delle Regioni della Toscana e del Lazio, con il proposito di ingrandire la banca
del censimento cominciata nelle quattro regioni del sud Italia.
Archeomar 2 ha avuto il pregio di ampliare la Carta Archeologica delle Acque
Italiane tanto da arrivare ad includere circa il 50% delle acque marine, grazie ad un
brillante lavoro che negli anni a seguire potrebbe estendersi anche alle coste di altri
Paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo.
Negli anni che vanno dal 2009 al 2010 è stato indispensabile il coinvolgimento
di sessantacinque professionisti, tra i quali archeologi subacquei, archeologi navali,
geofisici, storici, sommozzatori, informatici, marittimi, grafici, ingegneri, tecnici e fotografi. Sono state consultate più di cinquanta banche dati, archivi pubblici e privati,
archivi museali, biblioteche, dipartimenti universitari sia italiani che esteri, sono state
impiegate due navi oceanografiche per l’esecuzione di cinquantacinque giornate operative di indagine a mare, la perlustrazione di più di duecentotrenta chilometri di
38
fondale marino con side scan sonar e multibeam, il compimento di più di sessanta perlustrazioni ROV e di immersioni con il minisommergibile hanno consentito la documentazione diretta di trenta siti archeologici presso le acque delle due regioni, al di là
della schedatura di settecentosettantanove siti.
Gli obiettivi raggiunti da Archeomar 2 sono stati:
- la realizzazione della schedatura di trenta siti archeologici subacquei lungo le
coste delle due regioni;
- la scoperta di quindici siti inediti e fino ad ora conosciuti, a profondità comprese tra i cinquanta e i seicento metri;
- la fornitura al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e alle Soprintendenze
per i Beni Archeologici delle regioni Lazio e Toscana un sistema GIS aggiornato dei
siti archeologici sommersi (settecentosettantanove schede documentali, centodiciotto filmati, ottocentoquindici immagini, duecentoventi immagini side scan sonar, rilievi batimetrici ed analisi sub bottom profiler);
- fornire strumenti di tutela alle Forze dell’Ordine;
- realizzare un atlante fotografico e cartografico dei siti sommersi presenti lungo
le coste di Lazio e Toscana13
13
Siffatto elenco è consultabile presso: <<http://www.archeomar.it/archeomar/index.php?option=com_content&view=article&id=23&Itemid=67&lang=it>> [Ultimo accesso: 24/10/2015].
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40
Valentina Di Liberto
IL PASSAGGIO DELLE NAVI ATTRAVERSO GLI STRETTI UTILIZZATI PER LA NAVIGAZIONE INTERNAZIONALE.
1. Il Regime giuridico degli stretti
Il passaggio delle navi attraverso gli stretti utilizzati per la navigazione internazionale, vale a dire (quelle contrazioni di mare tra due terre emerse di larghezza variabile, che costituiscono una naturale via di passaggio tra due parti più vaste di mare),
storicamente era disciplinato dalla regola di libertà di transito.
Limitare o chiudere il passaggio da parte degli Stati che esercitano la giurisdizione sugli stretti, comporterebbe un diniego della libertà di comunicazione via mare,
con evidenti ripercussioni per le relazioni pacifiche tra gli Stati.
Tuttavia è evidente come gli Stati costieri di stretti si trovano spesso a dover
fronteggiare situazioni critiche per l’ambiente marino e costiero, a causa dell’alta densità di traffico marittimo e dall’alto rischio d’incidenti tra navi, o spesso dalla difficoltà
di navigazione resa dalle caratteristiche geofisiche di queste vie d’acqua.
E’ il caso degli stretti del Mar Nero o di Magellano, dove anche una modesta
quantità di petrolio persa da una nave a seguito di un incidente, può causare effetti
dannosi non solo per l’ambiente marino, ma anche alle coste e alle comunità ivi stanziate.1
Si ricordi, per esempio i danni all’ambiente marino provocati dalla fuoriuscita
di circa due mila tonnellate di petrolio dalla petroliera greca “Patmos” nello stretto
di Messina nel marzo del 1958.
La commissione di periti incaricata di valutare i danni, accertò un consistente
diminuzione della concentrazione di plancton normalmente sospeso nell’acqua, con
conseguente diminuzione della fauna ittica presente solitamente in queste acque.2
Rilevante appare anche l’incidente del 9 agosto 1974 alla superpetroliera “Metula”, incagliatasi nello stretto di Magellano per il danno ambientale causato alle coste
dello stretto.
Circa sessanta mila tonnellate di petrolio fuoriuscite dalla nave, andarono a
1
Per gli effetti e le conseguenze provocate dall’immistione d’idrocarburi in mare, si veda SCHACHTER, SERWER, Marine Pollution Problems and Remedies, in AJIL, 1971, p. 90 s;
2
MERIALDI, La sentenza sulla quantificazione del danno all’ambiente nel caso Patmos, 1994, p.
35 ss.
41
depositarsi sulla costa dello stretto cileno per circa cinquanta chilometri.3
Inoltre alcuni stretti non sono solamente importanti vie di navigazione, ma
sono un indispensabile fonte di ricchezza per gli Stati costieri.
Ad esempio lo stretto di Malacca e Singapore, in cui le ricche acque di risorse
naturali, sono un’importante fonte alimentare per la popolazione malese.
Occorre infine tenere presente che le rotte presenti negli stretti utilizzati per
la navigazione internazionale non sono importanti solo per il commercio internazionale, ma sono rilevanti anche per gli interessi strategico-militari degli Stati navigazionisti.
A fronte di tali problematiche, negli ultimi decenni tra gli Stati utilizzatori e
Sati costieri sono sorti una moltitudine di conflitti, tale che si è reso necessario un
intervento legislativo al fine di bilanciare i vari interessi contrapposti, e al riguardo è
fondamentale il tentativo normativo previsto attraverso la “Costituzione per gli
oceani”, adottata il 10 dicembre del 1982 a Montego Bay.4
In particolare la Convenzione dedica l’intera parte III all’utilizzo degli stretti
per la navigazione internazionale, in cui è stata sancita l’estensione a 12 m. n. del
mare territoriale e un nuovo regime di navigazione per gli stretti, in altre parole il
cosiddetto “passaggio in transito”; con l’eccezione per taluni tipi di stretti dell’applicazione del regime del passaggio inoffensivo ma con caratteristica di “non sospendibile”.
L’istituto del passaggio in transito è così più garantista per gli Stati utilizzatori
degli stretti, poiché fa obbligo agli Sati costieri di non impedire, ne ostacolare la libera
navigazione di tutte le navi, sia militari sia commerciali, e sancisce inoltre e seppur
implicitamente il diritto dei sottomarini di navigare in immersione.
Unico limite per gli Sati utilizzatori degli stretti è di astenersi da mettere in
pericolo la sicurezza e l’ordine pubblico degli Sati costieri, rispettando pertanto le
misure adottate da questi, per proteggere l’ambiente marino e la sicurezza della navigazione in queste acque.
2. Stretti in cui la navigazione è disciplinata dal passaggio in transito: diritti e doveri dello stato utilizzatore.
La parte III della Convenzione di Montego Bay distingue due categorie di
stretti: gli stretti in cui si applica il regime di passaggio in transito, e gli stretti in cui
3
Per i danni ambientali causati all’ecosistema della regione colpita dall’incidente della petroliera
Metula, si veda il rapporto finale di HARM, VLCC “Metula” Oil spill, December 1974, p. 173 ss.
4
KOH, A Constitution for the Oceans in NORDQUIST; A Commentary vol. I Dordrecht, Boston, London, 1985, p. 10 ss.
42
tale regime non si applica.
Ai sensi dell’articolo trentasette, il regime in transito si applica a tutti gli stretti
che sono utilizzati per la navigazione internazionale e collegano aree di alto mare o
di zona economica esclusiva.
La Convenzione utilizza due criteri: uno funzionale e uno geografico.
Perciò in questa categoria di stretti rientrano vie d’acqua rilevanti per la navigazione commerciale e militare, poiché costituiscono l’unica rotta per raggiungere
determinati mari.
Ne sono un esempio, lo stretto di Gibilterra, Hormuz, Malacca e Singapore.
L’articolo 38 paragrafo 1, prevede che il diritto di passaggio in transito non può essere
impedito, purché il transito sia continuo e rapido. Infatti, le navi devono astenersi da
qualsiasi minaccia o uso della forza contro la sovranità e l’integrità dello Stato costiero; uniformandosi così anche alle norme e pratiche internazionali generalmente
accettate e a quelle concernenti la prevenzione dell’inquinamento marino da navi.
Inoltre un’altra differenza indicativa tra passaggio inoffensivo e in transito,
consiste nel fatto che negli stretti in cui si applica quest’ultimo, i sommergibili possono navigare in immersione.5
In alcuni casi la navigazione in immersione sarebbe richiesta per ragioni di
sicurezza, come nel caso dei sommergibili a propulsione nucleare, in altri invece sono
decisive le condizioni fisiche e morfologiche degli stretti. Ad esempio nel caso di
vaste zone dello stretto di Malacca, la navigazione in immersione è in pratica impossibile o molto pericolosa, e quindi la sicurezza della navigazione può in questi casi
essere meglio garantita solo con una navigazione in superficie.
Per quanto concerne invece, l’assetto giuridico che disciplina il passaggio in
transito negli stretti, sembrerebbe l’istituto prevalere sui poteri coercitivi dello Stato
costiero.6Infatti, a tal proposito è assente una disposizione, in base alla quale lo Stato
costiero può adottare le misure necessarie per impedire nel suo mare territoriale ogni
passaggio che non sia offensivo.
Tuttavia nel silenzio della parte III in merito ai poteri coercitivi dello Stato
costiero assume rilevanza l’articolo 233 della Convenzione di Montego Bay, unica
norma a protezione dell’ambiente marino degli stretti, e quindi con possibilità per lo
Stato costiero di adottare tutte le misure necessarie, qualora una nave straniera abbia
5
Poiché negli stretti non sottoposti al regime di passaggio in transito si applica il passaggio inoffensivo non sospendibile (art.45), i sottomarini devono navigare in superficie.
BURKE, Submerged Passage through Straits, 1976, p. 219 ss.
6
Come osservato da EL MOR, The Regime of Passage in Straits Used for International Navigation in the Light of the Third U. N. Conference on the Law of the Sea, in REgDI , 1981, p. 60.
43
violato le leggi in tali materie.
3. L’Arctic Article: L’articolo 234 della Convenzione Di Montego
Bay.
Poteri specifici sono previsti per gli Stati costieri ai fini della protezione delle
aree coperte da ghiacci.
“L’Arctic article”7 Riconosce agli Stati costieri il diritto di adottare leggi e regolamenti per la prevenzione, riduzione e controllo dell’inquinamento marino causato da navi, qualora tali acque siano per la maggior parte dell’anno ricoperte da
ghiacci.
In tali aree rientrano la rotta del Mare del nord e il Passaggio di nord-ovest.
Tuttavia se pur gli Sati costieri, abbiano maggiore autonomia e discrezionalità
nel disciplinare la navigazione presso gli stretti con presenza di ghiacciai, lo stesso
articolo 234 della Convenzione di Montego Bay pone l’accento come l’adozione di
tali provvedimenti, sia subordinata al rispetto di tre specifiche condizioni:
 La navigazione deve essere ostacolata o messa in pericolo da condizioni climatiche particolarmente rigide e dalla presenza di ghiacci per la maggior parte
dell’anno.
 Le leggi e i regolamenti nazionali non devono essere discriminanti, dovendosi
applicare quindi a tutte le navi.
 La loro adozione deve essere basata sulla documentazione scientifica più affidabile di cui si disponga.
4. Stretti in cui si applica il passaggio innoffensivo non sospendibile.
Secondo la Convenzione di Montego Bay, il regime giuridico di passaggio in
transito non si applica:
 Agli stretti in cui si applica il passaggio inoffensivo non sospendibile. Ovvero
quegli stretti formati da un’isola appartenente a uno Stato e dal suo territorio
di terraferma, qualora al largo dell’isola sia presente una rotta attraverso l’alto
mare, di convenienza comparabile dal punto di vista della navigazione e delle
sue caratteristiche idrografiche.
Infatti, la ratio della norma è di permettere alla comunità internazionale (qualora
esista una rotta alternativa), di avere libertà di navigazione.
 La lettera b dell’articolo 45 paragrafo 1, prevede la seconda tipologia di stretti
esclusi dal passaggio, considerati di “minore rilevanza”, (collegano una zona
7
JHONSTON, Arctic Ocean Issues in the 1980, Honolulu, 1982, p. 12.
44
di alto mare di uno Stato con il mare territoriale di altro Stato). A questi stretti
si applica il diritto di passaggio inoffensivo non sospendibile.
 Stretti nei quali il passaggio è totalmente o parzialmente regolato da convenzioni che siano in vigore da lungo tempo e riguardino espressamente tali stretti.
Sebbene la Convenzione di Montego Bay non ne faccia menzione di trattati
tipici, la prassi dimostra come le norme previste nei trattati di lunga data siano
generalmente osservate da tutti gli Stati utilizzatori. Un caso è la Convenzione
di Montreux, in cui la generale accettazione della sua disciplina è resa dal fatto
che annualmente tutti gli Stati utilizzatori comunicano alle autorità turche i
dazi e le informazioni riguardanti le navi battenti, le loro bandiere transitanti
negli stretti, così come richiesto dalla suddetta Convenzione.8
5. Lo Stretto di Gibilterra: la posizione di Spagna e Marocco in
merito alla navigazione nello stretto.
Lo stretto di Gibilterra, unica via di collegamento naturale tra l’Atlantico e il
Mediterraneo, separa la costa spagnola e britannica (con l’enclave di Gibilterra), dalla
costa marocchina e spagnola (con l’enclave di Ceuta), collegando le zone economiche
esclusive del Marocco e della Spagna.9
La navigazione è regolata dal passaggio in transito, perché sia Marocco, sia
Spagna sono parti alla Convenzione di Montego Bay.10
Ed entrambi gli Stati hanno fissato a 12 m. n. l’estensione del mare territoriale,
facendo rientrare le acque dello stretto nella loro giurisdizione.11
La navigazione in queste acque è resa difficile nella parte orientale dello Stretto,
a causa di venti che possono raggiungere una velocità di cinquanta nodi, e le stesse
correnti marine possono costituire un ostacolo per la navigazione, a causa dell’incontro tra la corrente atlantica superficiale e calda, e la corrente mediterranea più profonda e fredda.
Nonostante le suddette caratteristiche fisiche dello stretto, esso rappresenta
una delle rotte marine più importanti per la navigazione, infatti, vi transitano ogni
giorno in queste acque da 140 a 200 navi.
8
ROZAKIS, The Turkish Straits, Dordrechy, Boston, Lancaster, 1987, p. 135.
Il Marocco ha dichiarato la zona economica esclusiva con legge nel 1981, sia nell’oceano Atlantico sia nel Mediterraneo.
10
Il Marocco ha ratificato la Convenzione di Montego Bay il 31 maggio 2007 mentre la Spagna
l’ha ratificata il 15 gennaio 1997.
11
Il Marocco ha esteso il mare territoriale a 12 m. n. con legge nel 1973.
9
45
Così, nonostante la ratifica della Convenzione di Montego Bay da parte del
Marocco e della Spagna, sembra difficile sostenere che nello stretto di Gibilterra la
navigazione sia regolata dal passaggio in transito.
Poiché la legislazione del Marocco non distingue tra la navigazione nelle acque
territoriali e passaggio nello stretto di Gibilterra, ma riconosce nella prassi come
unico principio giuridico, la regola del passaggio inoffensivo.
La posizione della Spagna invece non appare del tutto chiara, perché si costata
nella prassi per quanto concerne il passaggio dei sommergibili, l’applicazione del
principio del passaggio in transito e quindi probabilmente anche per le navi.
Detto ciò, si può desumere, che la Spagna abbia accettato il passaggio in transito.
6. Lo Stretto di Hormuz: La Posizione dell’Iran e dell’Oman in
merito alla navigazione nello stretto.
Lo stretto di Hormuz mette in comunicazione la zona economica dell’Iran con
quella dell’Oman e rientra nella categoria di stretti in cui vige il passaggio in transito.
L’Oman è parte della Convenzione di Montego Bay, avendola ratificata il 17
agosto del 1989 e l’Iran l’ha firmata ma, non ratificata.12
Attraverso questo braccio di mare, transita circa l’ottantotto per cento del petrolio prodotto dagli Stati del Golfo ed è evidente come un’eventuale chiusura delle
acque dello stretto alla navigazione internazionale da parte degli Stati costieri provocherebbe un’interruzione dei rifornimenti energetici, verso gli Stati importatori, con
gravi conseguenze economiche per le economie occidentali, e rilevanti ripercussioni
nelle relazioni internazionali.
Detto questo, è indicativo come la Convenzione di Montego Bay cerchi di
bilanciare tali assetti d’interessi contrapposti, con l’evidente limite della mancata ratifica da parte dell’Iran.
Infatti, se pur le posizioni di Iran e Oman circa la navigazione nello stretto di
Hormuz sembrano simili, di fatto entrambi gli Stati rivendicano il controllo esclusivo
del traffico transitante in queste acque e subordinano il passaggio delle navi straniere,
e di quelle da guerra, a un’autorizzazione preventiva.
La posizione dell’Oman dal punto di vista giuridico, essendo parte della Convenzione di Montego Bay, è quella di aver accettato il regime del passaggio in transito
negli stretti;
12
Multilateral Treaties Deposited with the secretary-General- Status as at 1 april2009, Vol. III, p.
442 s.
46
di conseguenza l’intenzione di subordinare il passaggio delle navi militari nelle
sue acque territoriali a una preventiva autorizzazione, non è conforme alla disciplina
convenzionale.
La posizione dell’Iran al contrario, nel corso degli anni è sempre stata coerente,
perché non ha mai ratificato la Convenzione ed ha sempre respinto la tesi che vede
il passaggio in transito avere assunto un valore consuetudinario.
In particolare, il governo iraniano ha più volte obiettato agli Stati Uniti, che
sostengono il carattere consuetudinario del passaggio in transito, che tale regime giuridico non è menzionato nella Convenzione di Ginevra sul mare territoriale del
1958.13 E nonostante oggi sia riconosciuto, generalmente, il valore consuetudinario
di tale regime di navigazione, la posizione dell’Iran non è cambiata.14
Terminando, nonostante gli “ostacoli” posti alla navigazione nello stretto
dall’Iran di fatto la questione è risolta nella prassi, perché, di fatto, le rotte marittime
più facilmente navigabili passano attraverso le acque dell’Oman.
7. Stretti in cui non si applica il passaggio in transito.
Per quanto riguarda gli stretti cui non si applica il regime giuridico del passaggio in transito, possiamo distinguere i seguenti casi:
a)
STRETTI IN CUI LA NAVIGAZIONE È REGOLATA DA
CONVENZIONI DI LUNGA DATA: LO STRETTO DI MAGELLANO.
Lo stretto di Magellano separa la Terra del Fuoco dal continente sudamericano e collega l’oceano Atlantico con il Pacifico.
La navigazione è resa difficoltà dalla presenza di forti correnti marine,
precipitazioni piovose difficilmente prevedibili, scogli e bassi fondali lungo il
percorso.
I punti più difficili della navigazione nello stretto sono: La Primera e la
Secunda Angostura, in cui le acque adiacenti alle rive presentano fondali molto
bassi, e in particolare le coste dello stretto sono addentrate e frastagliate.15
13
Si veda, ad esempio la nota diplomatica inviata dal governo italiano al Dipartimento di Stato
degli Stati Uniti il 7 luglio 1988, UN Doc. 20525, 15 March 1989. P. 4.
14
Monitoring Ships a Routing Task, nove January 2008.
15
Per una descrizione delle caratteristiche geografiche dello stretto di Magellano si veda BRUEL,
op. cit. nota 1, p. 200 ss;
47
Per quanto concerne il regime giuridico che regola la navigazione nello
stretto di Magellano, si applica la Convenzione di lunga data del 1881.16
Il trattato in particolare prevede all’articolo V la neutralizzazione perpetua dello stretto e la libera navigazione per tutte le navi, costituendo pertanto una sorta di compromesso politico, che verte sullo “scambio” dello
stretto di Magellano con la Patagonia: per cui il Cile estendeva il proprio controllo su una fascia ristretta di territorio della Patagonia a nord dello Stretto e
sulle isole e sui canali a sud di esso, mentre la sovranità argentina fu riconosciuta sulla maggior parte orientale della Terra del Fuoco.
Il trattato del 1881 non pone però fine alla controversia tra Argentina e
Cile circa la sovranità sullo stretto di Magellano, perché non prevedeva quale
Stato, avrebbe controllato la zona di mare adiacente all’entrata orientale dello
stretto. La questione diventa particolarmente delicata intorno al 1970, ed è
definita solo con il Trattato di pace del 1984,17in cui si confermava la sovranità
del Cile sullo stretto di Magellano.
Lo stretto inoltre, non è stato esente da gravi danni all’ambiente marino,
basti pensare all’incidente del 9 agosto del 1974 della superpetroliera “Metula”,
proveniente dall’Arabia Saudita e diretta in Cile. Circa sessanta mila tonnellate
di petrolio andarono a depositarsi su tratti della costa settentrionale e meridionale dello stretto per circa cinquanta chilometri.18
Dall’incidente il Cile capì l’estrema fragilità di navigazione in queste acque, avvertendo così l’esigenza di adottare misure idonee a proteggere l’ambiente marino, come il pilotaggio obbligatorio e la notifica preventiva per entrare nello stretto.
Infatti, nel 1976, il Governo cileno ha introdotto il sistema del CHILREP, ossia un sistema di notificazione del traffico marittimo; e con decreto n.
339/1985 un servizio di pilotaggio obbligatorio per tutte le navi che transitano
nello stretto.
Tale provvedimento prevede che le navi devono seguire la rotta prevista
nel decreto, indicare ai porti di destinazione determinate informazioni per la
16
Si veda la versione in lingua inglese del Trattato del 1881 in MORRIS, The Strait of Magellan,
Boston, London, 1989, p. 205 ss.
17
Si veda il testo dell’Accordo di Montevideo in ILM, 1985, p. 5.
18
Pochi giorni dopo l’incidente, la Guardia Costiera statunitense inviò sul luogo dell’incidente
Roy Harm, consulente scientifico dell’U. S. National Strike Force, per coadiuvare il governo cileno nell’affrontare l’emergenza ambientale.
48
navigazione e inoltre sono previsti obblighi finanziari a carico del proprietario
della nave che richiede il servizio di pilotaggio.19
Così con la normativa del 1985, i piloti hanno un ruolo chiave per la
sicurezza della navigazione, poiché tutte le navi in transito nello stretto hanno
l’obbligo di servirsi del servizio.
Ultimo aspetto rilevante ai fini della navigazione nelle acque dello
stretto di Magellano è il principio di “neutralizzazione”, previsto dall’articolo
V del trattato del 1881 tra Argentina e Cile.
La disposizione in esame prevede il divieto di costruire sulle coste fortificazioni o avamposti militari, ma il Cile assumendo l’impegno a mantenere
aperto lo stretto al traffico internazionale, sarebbe legittimato a tenere proprie
forze militari nello stretto per impedire il passaggio di navi di Stati in guerra o
per evitare lo svolgersi di operazioni belliche.20
Perciò, lo “status di stretto neutralizzato”, non comporta la sua demilitarizzazione, ma la presenza di forze armate nello stretto sarebbe strumentale
a mantenere aperta alla navigazione internazionale queste acque.
8. Stretti formati da un’isola appartenente a uno Stato e dalla sua
parte continentale se al lago dell’isola esiste una rotta alternativa.
a)
LO STRETTO DI MESSINA.
Lo stretto di Messina rientra nella categoria di stretti previsti dall’articolo trentotto p. uno della Convenzione di Montego Bay, essendo formato da un’isola di uno
Stato e dalla sua parte continentale.
Esso, collega l’alto mare del mar Tirreno con quello del mare Ionio.
Nello stretto non sono presenti bassi fondali, ma particolare attenzione deve
essere prestato all’andamento delle correnti marine e da intensi fenomeni nebbiosi.21
Per quanto riguarda il regime giuridico applicato allo stretto ai fini della navigazione internazionale, è quello previsto ai sensi dell’articolo quarantacinque par. 1
lett. A della Convenzione di Montego Bay, cioè il regime giuridico del passaggio inoffensivo non sospendibile.
19
Come norma generale, il servizio di pilotaggio deve essere eseguito da due piloti; è svolto da un
solo pilota quando il servizio di pilotaggio non si protrae per più di otto ore: art. 41.
20
BAXTER, Passage of ships through International waterways in time of war, in BYBIL, 1954,
P. 201.
21
Comando generale del corpo della capitaneria di porto, VTS Stretto di Messina, 2009, p.4.
49
Inoltre a seguito dell’incidente della petroliera “Patmos”, nel 1985 tra il tratto
di mare tra Messina e Villa San Giovanni, in cui a seguito della collisione della petroliera fuoriuscirono circa due mila tonnellate di petrolio, con ingenti danni ambientali,
il governo italiano adottò con decreto delle misure restrittive per il transito di determinate categorie di navi in queste acque.
In particolare il decreto prevede: un dispositivo di separazione del traffico marittimo; l’obbligo di pilotaggio per le navi mercantili di stazza lorda uguale o superiore
alle quindici mila tonnellate, e per quelle adibite al trasporto di prodotti petroliferi il
limite è delle sei mila tonnellate;
Un sistema di notificazione obbligatorio per tutte le navi mercantili che intendono transitare in queste acque; e infine l’introduzione, mediante l’articolo sei, del
divieto di passaggio in questo braccio di mare per le navi che trasportano carichi
pericolosi.
I primi tre punti del decreto non pongano particolari problemi circa la loro
compatibilità con la disciplina convenzionale sul diritto del mare.
Invece il divieto di passaggio in transito nello stretto è stato oggetto di critiche,
da parte degli Stati Uniti.
In effetti, il divieto è obiettivamente contrario al passaggio inoffensivo non
sospendibile previsto dall’articolo quarantacinque della Convenzione di Montego
Bay.
E, una parte della dottrina ritiene che il presupposto giuridico che giustifica
l’adozione del divieto introdotto dal governo italiano, sarebbe individuato nello
“stato di necessità”.22
Infatti, tale conclusione è confermata dal preambolo dei due decreti, dove si
rileva l’esigenza di intervenire urgentemente per adottare misure idonee a garantire
la sicurezza della navigazione, dopo i fatti avvenuti a seguito dell’incidente della petroliera Patmos.
Dal punto di vista della prassi si rileva una certa acquiescenza al divieto di
passaggio nello stretto di Messina da parte degli Stati utilizzatori; probabilmente perché questi ultimi ritengono la presenza del canale di Sicilia come una valida rotta
alternativa.
Resta comunque il fatto, che dopo l’adozione della normativa del 1985, non si
sono verificati gravi incidenti tra navi nello stretto, ritenendo così che tale dato di
22
MIGLIORINO La sospensione della navigazione nello stretto di Messina e il diritto internazionale, in Trasporti, 1985, p. 39-59.
50
fatto appare come “sanare”, in un certo modo, la contrarietà della legge italiana,
all’ordinamento internazionale.23
23
Come osservato da Scovazzi, Management Regimes and Responsibility for International Straits,
in MP, 1995, p. 150.
51
52
Simona Granieri
Recenti iniziative assunte dalla magistratura italiana in materia di
contrasto al traffico illecito di migranti. Problemi di giurisdizione
1.
I fatti: un tentativo di ricostruzione.
Risale al 12 settembre 2013 il primo sequestro effettuato in acque internazionali dalla Guardia di Finanza, su provvedimento emesso d’urgenza dalla Procura Distrettuale, di un’imbarcazione di 30 metri utilizzata come “nave madre” impiegata nel
traffico di clandestini, con contestuale fermo dei 15 componenti dell'equipaggio1. Si
tratta di un provvedimento che si inserisce nell’ambito delle attività di indagine relative al tragico sbarco del 10 agosto dello stesso anno, quando sei migranti sono stati
ritrovati morti sulla spiaggia della Playa di Catania.
Nei mesi di settembre e ottobre 2013, a seguito di comunicazioni dei pattugliatori di Frontex sulla presenza in alto mare di imbarcazioni “madre” cariche di persone e con al traino unità “figlie” più piccole sulle quali avviene il trasbordo dei migranti, la Guardia di Finanza è intervenuta sulle navi madre, adottando, all’esito delle
attività di ispezione, provvedimenti di sequestro; a ciò ha fatto seguito, da parte della
magistratura italiana, l’instaurazione di procedimenti penali a carico dei membri
dell’equipaggio.
Tali iniziative assunte dalla magistratura italiana nei confronti di soggetti accusati di essere coinvolti negli sbarchi via mare di immigrati clandestini sulle coste italiane fanno emergere in modo dirompente la necessità di individuare se e in che limiti
sussista la giurisdizione italiana in acque internazionali2.
È preoccupante, a tal proposito, che la Convenzione di Montego Bay – testo
normativo di riferimento obbligato nella materia del diritto del mare e unanimemente
considerato come trattato di codificazione del diritto internazionale consuetudinario
– non contenga disposizioni che espressamente possano consentire ad uno Stato di
1
Si veda http://catania.livesicilia.it/2013/09/12/dda-sequestrata-la-nave-madre-degli-sbarchiclandestini_258491/
2
Si veda U. LEANZA, F. GRAZIANI, «Poteri di enforcement e jurisdiction in materia di traffico di
migranti via mare: aspetti operativi nell’attività di contrasto», in La comunità internazionale, 2014, p.
163.
53
esercitare la propria giurisdizione nei confronti di navi straniere sospettate di trasportare immigrati clandestini in alto mare3. Il principio della libertà dell’alto mare e della
sua libera navigazione4 non conosce, cioè, eccezioni giustificate in funzione del contrasto al traffico di migranti, come rilevato da M. Carta5.
Alla fine degli anni Novanta la comunità internazionale, prendendo coscienza
della insufficienza della UNCLOS nella lotta al traffico di migranti e della circostanza
per cui la tipologia di traffico in questione costituisce una fattispecie criminale a carattere transnazionale6, ha dunque avviato l’iter per la stipula di un accordo multilaterale ad hoc, la “Convenzione di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale” del novembre 20007 con i relativi Protocolli, tra cui il “Protocollo addizionale
alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale
per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria”8,
La seconda parte del Protocollo sullo smuggling of migrants è espressamente dedicata al traffico di migranti via mare, prevedendo la possibilità di effettuare il blocco,
3
La Convenzione di Montego Bay, dopo aver ribadito all’art. 110 il principio del divieto generale
di visita in alto mare da parte di una nave da guerra su di una nave straniera, nell’enumerare le
eccezioni a tale regola non vi annovera il traffico di migranti, ma solo ipotesi come la pirateria, la
tratta di schiavi o l’effettuazione di trasmissioni non autorizzate; associando, tra l’altro, a ciascuna
delle eccezioni in questioni misure di contrasto proporzionalmente incisive rispetto al disvalore
percepito negli anni del suo concepimento.
Principio sancito dall’art. 87 della Convenzione di Montego Bay.
M. CARTA, «Misure di contrasto al traffico di migranti via mare», in Il contrasto al traffico dei migranti nel
diritto internazionale, comunitario e interno, G. PALMISANO (a cura di), Milano, 2008.
6
con implicazioni che vanno al di là della capacità dei singoli Stati, ‘obbligati’ dunque ad unire le proprie forza
per l’adozione di misure preventive e repressive comuni.
A tal proposito si veda anche L. FEHÉR, «International Efforts Against Trafficking in Human Beings», in Acta
Juridica Hungarica, 2000, p.181, cit “Following the changing mentality, the efforts to find a common definition,
concerning trafficking in human beings, focusing on the issue to harmonise the national and international legal
measures, legal instruments aiming at combacting traffic in human beings, we are witnessing an important segment of the process towards internationalitation and europeanization of criminal law and criminal justice”.
Ancora, P. GIORDANO, «Intralcio alla giustizia: solo un lifting», in Guida al Diritto. Il Sole 24 Ore, n.17, 2006,
p. 64: “Da tali incessanti trasformazioni, nasce la necessità di una risposta concertata tra gli Stati, e l’approntamento di strumenti di diritto penale sostanziale e processuale quanto più comuni e armonizzati, pur in presenza di
forti di forti diversità culturali e diverse tradizioni giuridiche”.
7
United Nations, Convention against Transnational Organized Crime, General Assembly resolution 55/25, 15
November 2000. Entrata in vigore il 29 settembre 2003, la Convenzione è ormai vincolante anche per l’Italia, dal
giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, dell’ordine di esecuzione contenuto nella legge n.
146 del 16 marzo 2006.
8
Quanto alla specificità dei protocolli aggiuntivi alla Convenzione di Palermo, G. Michelini e G. Polimeni evidenziano come attraverso la specifica disciplina in questione la comunità internazionale ha inteso costituire “strumenti opzionali alla Convenzione principale, per coprire aree di intervento che richiedevano specificità e che non
potevano essere appropriatamente affrontate nel corpo della Convenzione, secondo l’accordo che ogni strumento
normativo doveva affrontare specifiche tematiche e preoccupazioni della comunità internazionale”. Cit. G. MICHELINI e G. POLIMENI, «Il fenomeno della criminalità transnazionale e la Convenzione delle Nazioni Unite»,
in E. ROSI (a cura di), Criminalità organizzata transnazionale e sistema penale italiano, Wolters Kluewer Italia,
2007.
4
5
54
l’abbordaggio e la visita del natante sospetto. E tuttavia, come rilevato da S. Trevisanut9, il Protocollo di Palermo si allinea al diritto internazionale esistente mantenendo
integra la competenza esclusiva dello Stato della bandiera sulla propria flotta.
Tale strumento, in definitiva, pur contribuendo indubbiamente ad incentivare
gli Stati alla comunicazione e cooperazione, non crea un quadro normativo sufficiente a gestire tutti gli aspetti dell’immigrazione irregolare via mare, con conseguente
sforzo – da parte della magistratura – di colmare un siffatto vulnus normativo.
Come dichiarato dall’ex Procuratore della Repubblica di Catania G. Salvi 10, la
Procura distrettuale di Catania, particolarmente attiva in materia di contrasto all’immigrazione irregolare via mare stante la posizione geografica rivestita, si è trovata di
fronte alla presenza di un nuovo modus operandi da parte delle organizzazioni criminali
che gestiscono il traffico dei migranti, quello che utilizza il ‘sistema della nave madre
e nave figlia’: si tratta di un sistema che prevede una imbarcazione in ferro di 15/20
metri (generalmente un peschereccio) carica di migranti, che traina un’imbarcazione
più piccola, a volte in legno, in alto mare sino ad arrivare in un punto utile per la
richiesta di aiuto. A questo punto i migranti vengono trasbordati sull’imbarcazione
più piccola e lasciati alla deriva mentre la nave madre si allontana e fa rientro nel
Paese di partenza.
Due sono le ipotesi che in concreto possono realizzarsi.
La prima, come descritto da U. Leanza ed F. Graziani11, si ha quando le imbarcazioni minori, sulle quali sono stati trasferiti i migranti, abbiano fatto il loro ingresso nella zona contigua o nel mare territoriale o nelle acque interne dello Stato
italiano. In questo caso, di facile risoluzione, le unità militari o in servizio intergovernativo possono procedere non solo al fermo e alla cattura delle suddette imbarcazioni
ma della stessa nave madre, anche qualora essa si trovi in alto mare e a prescindere
dal fatto che sia o meno sprovvista di bandiera. L’esercizio di poteri coercitivi in alto
mare è giustificato, infatti, dall’effettivo contatto, o genuine link, tra lo Stato costiero
e la nave madre, la quale pur sostando al di fuori delle acque territoriali impiega proprie imbarcazioni per violare il diritto dello stato rivierasco12. Non appena il natante
9
S. TREVISANUT, Immigrazione irregolare via mare. Diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, 2012.
10
G. SALVI, «From refoulement to Mare Nostrum. The fight against the smuggling of migrants by sea:
legal problems and practical solutions», The Hague, December 12, 2014.
11
U. LEANZA, F. GRAZIANI, «Poteri di enforcement e jurisdiction in materia di traffico di migranti
via mare: aspetti operativi nell’attività di contrasto», in La comunità internazionale, 2014, p. 179.
12
È la cosiddetta presenza costruttiva ‘intensiva’, prevista anche dall’art. 111 par. 4 UNCLOS:
“L'inseguimento non si considera iniziato se non dopo che la nave che insegue abbia raggiunto con
ogni mezzo disponibile la certezza che la nave inseguita o una delle sue lance o altre imbarcazioni,
55
più piccolo entra nella zona contigua, si può ritenere sussistente la giurisdizione italiana e si può procedere all’esercizio dei poteri coercitivi penali sul medesimo natante
e sulla nave madre.
Di gran lunga maggiori complicazioni sorgono con riferimento alla seconda
ipotesi, quella in cui – dopo il trasbordo di migranti dalla nave madre al natante più
piccolo – quest’ultimo si trovi ancora, al pari della nave madre, in acque internazionali. Il link tra Stato costiero e navi madri è qui, a prima vista, assente.
La tesi che si vuole dimostrare, tuttavia, è ben diversa. Sulla base delle considerazioni che verranno svolte, si giunge alla conclusione che, se la nave minore sulla
quale sono stati imbarcati i clandestini è inequivocabilmente diretta verso la costa, lo
Stato costiero è autorizzato a prendere tutte le misure necessarie per impedire che
tale attività illegale sia portata a compimento – esercitando poteri di enforcement e jurisdiction – al fine di prevenire la violazione delle proprie leggi.
Divergenti sono state le ricostruzioni messe a punto dalle competenti autorità
giudiziarie catanesi.
In taluni casi, i giudici hanno convalidato la tesi della Procura, circa l’esistenza
della giurisdizione italiana e i poteri coercitivi in materia penale. Secondo la Procura
di Catania, infatti, si può ritenere che il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina si consumi in Italia ai sensi dell’art. 6 c. 2 c.p.13 perché le navi italiane che
hanno soccorso in alto mare i migranti sono state costrette a questa condotta dalle
organizzazioni di trafficanti che, consapevolmente, danno origine a questa situazione
di pericolo per poi chiedere soccorso alle navi italiane; per tale motivo le organizzazioni stesse dovrebbero rispondere della condotta, in astratto criminosa, di chi accompagna i migranti in Italia (art. 54 c.3 c.p. che regola lo stato di necessità determinato dall’altrui minaccia) 14.
che lavorino congiuntamente alla nave inseguita utilizzata come nave madre, si trovino all'interno
del mare territoriale, della zona contigua, della zona economica esclusiva o al di sopra della piattaforma continentale. L'inseguimento può cominciare solo dopo che l'ordine di arresto sia stato
emesso con un segnale visivo o sonoro, a distanza adeguata perché venga ricevuto dalla nave straniera”.
13
Art. 6 c.p. “Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana.
Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l'azione o l'omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l'evento che è la conseguenza
dell'azione od omissione”.
14
Certo, sostiene ancora la Procura, tutto troverebbe facile soluzione con una modifica normativa,
con l’inserimento cioè nell’elenco dell’art. 7 c.p. anche del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina quando la meta di destinazione è l’Italia.
56
Sempre secondo la tesi della Procura catanese, è possibile ritenere che l’associazione finalizzata a favorire l’immigrazione clandestina possa essere considerata
un’organizzazione transnazionale che commette reati anche in Italia o comunque con
effetti sostanziali in Italia, radicando così la giurisdizione italiana sulla base di quanto
previsto dalla Conferenza di Palermo sul crimine transnazionale e dall’art. 7 n.5 c.p.15.
Tra i primi casi in cui i giudici hanno convalidato la tesi della Procura, si annoverano due ordinanze del Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) presso il Tribunale di Catania, convalidate dal Tribunale del Riesame di Catania (Quinta Sezione
Penale in sede di riesame) con decisioni del 07/10/2013 e del 20/02/2014.
In altri due casi, l’indirizzo seguito dal Tribunale di Catania è stato di segno
opposto, rilevandosi la mancanza di giurisdizione per fatti commessi oltre il limite
delle acque territoriali nazionali16.
Queste ultime decisioni sono state, peraltro, impugnate dalla Procura della Repubblica dinanzi alla Corte di Cassazione, che ha riconosciuto la sussistenza della
giurisdizione dello Stato italiano avallando l’orientamento positivo del Tribunale della
Libertà di cui sopra, e avviando così una stagione nuova in materia di contrasto al
traffico di migranti.
2.
Le ordinanze del Tribunale di Catania in sede di riesame ex art.
309 c.p.p.
Le decisioni del Tribunale del Riesame di Catania del 07/10/2013 e del
20/02/2014 sopra menzionate costituiscono una assoluta novità nel panorama giurisprudenziale nazionale.
Il Tribunale della Libertà catanese si è trovato in entrambi i casi di fronte ad
ordinanze del GIP, rispettivamente del 16 settembre 2013 e del 4 febbraio 2014, con
15
È punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero
taluno dei seguenti reati:
1) delitti contro la personalità dello Stato;
2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto;
3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in
carte di pubblico credito italiano;
4) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i
doveri inerenti alle loro funzioni;
5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono
l’applicabilità della legge penale italiana.
16
Vedi ordinanza n. 1551 del 17 settembre 2013, con la quale il Tribunale di Catania, sezione per
il riesame, ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP il 29 agosto
2013; e ordinanza n. 1683 del 12/10/2013, sempre del Tribunale di Catania, sezione per il riesame.
57
cui era stata disposta l’applicazione della misura custodiale in carcere ritenendo sussistente a carico dei ricorrenti gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di partecipazione ad una associazione finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravato.
I nodi che ha dovuto sciogliere il Tribunale, rilevanti ai fini del nostro discorso,
sono due: l’esistenza della giurisdizione italiana e la legittimazione dello Stato italiano
a esercitare, nelle vicende in questione, poteri di coercizione personale (arresto) e
reale (sequestro della nave madre) in acque internazionali, ambito nel quale è avvenuta la scoperta della nave posta in sequestro e dell’equipaggio condotto nel territorio
dello Stato e lì tratto in arresto.
Quanto al primo profilo, relativo alla sussistenza della giurisdizione italiana, i
giudici muovono da una ricostruzione unitaria dei ‘diversi insiemi collettivi’ rilevati,
i quali “lungi dall’operare alla stregua di compartimenti stagni, tra loro autonomi e
non comunicanti, interagivano e si mantenevano in costante raccordo reciproco, con
la consapevolezza di cooperare all’attuazione di un progetto delittuoso e di speculazione lucrativa unitario e organico. […] Ciò avvalora la conclusione che si tratti di
attività illecita necessariamente organizzata secondo procedure e metodi sperimentali
e seriali, rivolti alla consumazione di plurimi delitti di illecito favoreggiamento
dell’immigrazione illegale e capillare predisposizione di uomini, mezzi e capitali, con
una intensificazione delle attività di illecito afflusso di migranti in epoca recente, in
parallelo allo stato di disagio e turbolenza interna attraversato dai Paesi di precipua
provenienza dei migranti. E allora, la conduzione della nave madre per il corso principale della traversata, fino a quando sostanzialmente la stessa naviga nell’alveo delle
acque internazionali, e il successivo pianificato trasbordo dei migranti nell’ultimo
tratto di viaggio (lo ‘scarico’, come cinicamente indicato nella ricostruita conversazione tra i trafficanti stessi), non rappresentano altro che tasselli di una catena più
articolata e strutturata. Tale procedura deve ragionevolmente ritenersi essa stessa
frutto di un disegno volto a preservare il peschereccio principale (‘nave madre’) e il
suo più nutrito e professionale equipaggio da possibili attività di captazione investigativa ad opera delle Forze dell’Ordine dei Paesi europei rivieraschi, e quindi a tenerlo
al riparo dall’esercizio della giurisdizione dei suddetti Paesi, tra i quali l’Italia”17.
Valutata la sussistenza della gravità indiziaria con riguardo a entrambi i delitti
contestati, può essere sciolto in senso positivo il nodo relativo alla giurisdizione. “Ai
fini della giurisdizione italiana, ai sensi dell’art. 6 c.p., […] è necessario che l’azione o
l’omissione che costituisce il reato sia avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello
17
Cit. Decisione del Tribunale di Catania in sede di riesame ex art. 309 c.p.p. del 07/10/2013.
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Stato ovvero è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato l’evento che è
conseguenza dell’azione od omissione. Ora, la circostanza che l’attività di trasporto
dei migranti a bordo della nave madre si sia arrestata in acque internazionali dapprima
per il volontario e pianificato trasbordo del suo carico umano sulla nave figlia e poi
in virtù dell’intervento di soccorso prestato dalle forze italiane, autrici di fatto della
restante attività di trasporto fino alle acque nazionali e del procurato ingresso nello
Stato di una moltitudine di cittadini extracomunitari, non recide affatto il collegamento con il territorio dello Stato, e dunque non impedisce il riconoscimento della
giurisdizione italiana”18.
Viene rilevata, in definitiva, l’impossibilità di frazionare la sequenze procedimentali all’interno delle quali si inseriscono le condotte dei ricorrenti, stante la inscindibile unitarietà di tali sequenze stesse, così partorite nella mente delle relative
organizzazioni criminali transnazionali.
Venendo adesso al secondo profilo, relativo alla legittimazione dello Stato italiano a esercitare, nelle vicende in questione, poteri di coercizione personale (arresto)
e reale (sequestro della nave madre) in acque internazionali, viene in entrambe le
decisioni fatto rimando alla Convenzione di Montego Bay, la quale all’art. 110 c. 1
richiama “gli atti di ingerenza in alto mare che derivino da poteri conferiti dai Trattati”.
Nel novero dei trattati internazionali va iscritto indubbiamente il Protocollo
relativo allo smuggling of migrants del 2000, il quale all’art. 8 par. 7 dispone: “Uno Stato
Parte che ha ragionevoli motivi per sospettare che una nave è coinvolta nel traffico
di migranti via mare e che questa è senza nazionalità, o può essere assimilata ad una
nave senza nazionalità, può fermare e ispezionare la nave. Se il sospetto è confermato
da prove, detto Stato Parte prende misure opportune, conformemente al relativo
diritto interno ed internazionale”. E allora, continuano i giudici, “il richiamo al diritto
interno e internazionale può contribuire proprio a identificare le misure appropriate
da adottare, tra le quali appunto il sequestro del natante con la relativa conduzione
coatta al porto dello Stato e l’arresto dell’equipaggio, una volta approdato nel territorio dello Stato.
In tal senso, l’art. 9-bis del Decreto Lgs. 286/1998 prevede che la nave italiana
in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una
nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto
illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti
18
Cit. Decisione del Tribunale di Catania in sede di riesame ex art. 309 c.p.p. del 20/02/2014.
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elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla, conducendo la stessa in un porto dello Stato, ove è evidente che, sussistendo la giurisdizione, possano essere esercitati i previsti poteri coercitivi cautelari
sui probabili autori dei fatti. Ai sensi dell’art. 9-quater i medesimi poteri di cui al
comma 9-bis possono essere esercitati al di fuori delle acque territoriali, oltre che da
parte delle navi della Marina militare, anche da parte delle navi in servizio di polizia,
nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto internazionale o da accordi bilaterali o multilaterali (nella specie proprio il Protocollo di Palermo), se la nave batte la bandiera
nazionale o anche quella di altro Stato, ovvero si tratti di una nave senza bandiera o
con bandiera di convenienza. Le relative “modalità operative” di intervento – e solo
queste – sono stabilite con Decreto interministeriale (nella specie adottato con Decreto del 14.7.2003). […]
Ma, soprattutto, preme sottolineare che il complesso del Protocollo internazionale sul Traffico di Migranti va interpretato alla luce delle sue finalità (come indicate nel Preambolo e nell’art. 4 – Ambito di applicazione), ovvero la prevenzione, la
indagine e il perseguimento giudiziario di quei crimini su base transazionale che implicano un coinvolgimento delle organizzazioni criminali su base transnazionale, con ciò suggellandosi sul
piano del diritto internazionale pattizio il rilievo assunto nella comunità internazionale dalla salvaguardia di vite umane da un fenomeno criminale di sfruttamento a
scopo di lucro del bisogno di migrare e di massiccia esposizione a pericolo di queste,
soprattutto in contesti già intrinsecamente pericolosi come l’alto mare (preso in considerazione dalla Parte II del Protocollo).
Ed allora, una lettura sistematica e coordinata delle norme del diritto internazionale pattizio, orientata al principio di diritto internazionale generale di salvaguardia dei diritti umani fondamentali e, dunque, funzionale a dare significato all’art. 8, par.
7 del Protocollo impone di ritenere che uniche contromisure efficaci al fine di contrastare un’attività organizzata – quale quella già allora in corso di riscontro da parte
dell’Autorità Giudiziaria dello Stato, dedita a un massiccio e seriale traffico internazionale di migranti e adusa a mettere spregiudicatamente a repentaglio la vita di intere
moltitudini di persone – non possano che essere anche quelle consistenti nel bloccare
i mezzi strumentali e le compagini soggettive attraverso le quali il suddetto “traffico”
si concreta, in virtù di strumenti coercitivi contemplati, come detto, dal diritto interno
e dal diritto internazionale (dirottamento, fermo e arresto). Anche sotto tale profilo,
pertanto, tenuto altresì conto di tale strumento pattizio, pienamente legittimi devono
ritenersi i poteri di coercizione esercitati dallo Stato”19.
19
Cit. Decisione del Tribunale di Catania in sede di riesame ex art. 309 c.p.p. del 07/10/2013.
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3.
L’avallo della Suprema Corte di Cassazione: le sentenze del 28
febbraio 2014, 11 marzo 2014 e 23 maggio 2014.
L’orientamento appena delineato ha ricevuto, nei primi mesi del 2014, l’avallo
da parte della Suprema Corte di Cassazione, che ha confermato così le intuizioni della
Procura e dei Giudici del Tribunale del Riesame di Catania.
Nella sentenza 28 febbraio – 27 marzo 2014, n. 14510 della Corte di Cassazione, caso H. H. sul ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Catania avverso l’ordinanza n. 1683/2013 del Tribunale della Libertà di Catania del
12 ottobre 201320, si afferma: “Si deve preliminarmente rilevare, onde correttamente
inquadrare giuridicamente la concatenazione degli atti integranti la condotta in contestazione, che nella gestione di questo squallido traffico di esseri umani è stato accertato, con alto margine di affidabilità, la serialità del coinvolgimento di una nave
madre proveniente da paesi dell’area nord africana che mentre attraversa le acque
internazionali viene affiancata da più piccole imbarcazioni, senza bandiera, cui viene
rimessa, nella pianificazione complessiva, la realizzazione del risultato (sbarco sulle
coste italiane) non prima che venga operato il trasbordo dei migranti e che venga
lanciata la richiesta di aiuto, più che giustificata in ragione delle condizioni del natante
e delle condizioni del mare. Tale procedura non può che apparire come il frutto di
un accorto disegno, rivolto a preservare il natante principale ed il suo equipaggio da
possibili attività di captazione investigativa ad opera delle forze dell’ordine dei paesi
Europei, tenendolo al riparo dall’esercizio della giurisdizione nei paesi di approdo,
con ciò aumentando in modo esponenziale il rischio fatto correre ai trasportati (in
ragione dell’insicurezza dei mezzi navali utilizzati per affrontare un mare molto impegnativo, nella seconda parte del viaggio in acque territoriali), rischio opportunamente strumentalizzato, per provocare l’intervento dei servizi di soccorso in mare
degli stati Europei costieri ed in particolare dell’Italia, in osservanza di una strategia
criminale mirante a fare apparire lo sbarco come il risultato dell’ultimo segmento di
attività, riconducibile all’opera dei soccorritori, scriminata dallo stato di necessità”.
E ancora: “Ciò detto, questa Corte ritiene che possano essere affermati i seguenti principi. La giurisdizione dello stato italiano va riconosciuta, laddove in ipotesi
di traffico di migranti dalle coste africane alla Sicilia, questi siano abbandonati in mare
in acque extraterritoriali su natanti del tutto inadeguati, onde provocare l’intervento
del soccorso in mare e far sì che i trasportati siano accompagnati nel tratto di acque
territoriali dalle navi dei soccorritori, operanti sotto la copertura della scriminante
dello stato di necessità, poiché l’azione di messa in grave pericolo per le persone,
20
I sezione Penale, Presidente Giordano – Relatore Caprioglio.
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integrante lo stato di necessità, è direttamente riconducibile ai trafficanti per averlo
provocato e si lega, senza soluzione di continuità, al primo segmento della condotta
commessa in acque extraterritoriali, venendo così a ricadere nella previsione dell’art.
6 c.p. L’azione dei soccorritori (che di fatto consente ai migranti di giungere nel nostro territorio è da ritenere ai sensi dell’art. 54 comma 3 c.p., in termini di azione
dell’autore mediato, operante in ossequio alle leggi del mare, in uno stato di necessità
provocato e strumentalizzato dai trafficanti e quindi a loro del tutto riconducibile e
quindi sanzionabile nel nostro Stato, ancorché materialmente questi abbiano operato
solo in ambito extraterritoriale.
Quanto poi al profilo della giurisdizione dello stato italiano in relazione al reato
di associazione a delinquere ravvisabile in capo ai trafficanti di migranti clandestini,
operante sul territorio libico e su quello italiano, avente ad oggetto proprio l’organizzazione di trasporti di uomini sulla costa italiana in spregio alle normativa vigente ed
in particolare dell’art. 12 d.lgs. 286/1998, la giurisdizione italiana va ancora affermata,
seppure sotto un’altra angolazione. Infatti, come correttamente argomentato dal Pm
ricorrente, trattasi di associazione transnazionale, la cui attività ricade sotto la previsione dell’art. 7 n 5 c.p., in forza dell’art. 15 c. 2 lett. c), che rinvia all’art. 5 paragrafo
1 della Convenzione delle Nazioni Unite, contro la criminalità organizzata transnazionale, sottoscritta a Palermo il 12-15.12.2000, ratificata dall’Italia con legge 146 del
2006. Si ha infatti riguardo ad associazione criminale organizzata in nord Africa, ma
diretta a produrre effetti in Italia, per la commissione di reati in materia di immigrazione e quindi ricadente nella previsione – come detto – dell’art. 15 c. 2 lett. c) della
suddetta Convenzione. L’art. 3 della I. 146/2006 del resto nel definire il “reato transnazionale” fa riferimento proprio al reato commesso da gruppo criminale organizzato che sia commesso in uno stato, ma che ne dispieghi gli effetti in un altro”.
Ad analoghe conclusioni, ancora, è giunta la Corte di Cassazione nel caso H.
A. dell’11 marzo 2014, su ricorso anche stavolta del Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Catania avverso l’ordinanza n. 1551/2013 del Tribunale della
Libertà di Catania del 17 settembre 2013. E ancora, nel caso H. H. A. S. del 23
maggio 2014, su ricorso dell’imputato avverso l’ordinanza del Tribunale della Libertà
di Catania del 7 ottobre 2013.
Con un successivo arresto, infine, la Suprema Corte ha avuto modo di sviluppare ulteriormente le soluzioni prospettate nella sentenza n. 14510 del 2014, ritenendo di poter affermare la sussistenza della giurisdizione italiana non solo in ordine
al delitto di cui all’art. 12 del testo unico sull’immigrazione, ma anche con riferimento
agli ulteriori reati contestati, quello di naufragio e quello di omicidio, «in forza della
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loro stretta connessione con quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina come si è visto parzialmente commesso in territorio italiano, sia pure per il tramite dell’intervento dei soccorritori» (cfr. Cass. n. 3345 del 2015).
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