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COMITATO EUROPEO
DIREZIONE GENERALE
EDUCACIONE E CULTURA
ISBN 960-88505-0-9
Gli Akriti d’ Europa
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La commedia dell’arte nella sua dimensione europea
12/27/04
ACRINET
exo biblio IT.qxp
Esponente Responsabile del
Programma
- PRISMA - Centro di Studi per lo
Sviluppo
Responsabile della coordinazione
scientifica
- Accademia di Atene, Centro di
Ricerca del Folclore Greco
Soci del programma
- Ministero della cultura, Direzione
della Cultura Popolare
- Università dell' Europa
- Università I della Sorbona, Panteon
- Consiglio Superiore delle Ricerche
Scientifiche di Spagna, Istituto di
Filologia, Dipartimento di Studi
Bizantini e Neoellenici
- Istituto Ellenico di Studi Bizantini
e Postbizantini di Venezia
- Università di San Clemente di Ocrida
a Sofia, Dipartimento di Filologia
Slava, di Etnologia e di Letteratura
Bizantina.
La commedia dell’arte
nella sua dimensione
europea
Istituto Ellenico di Studi Bizantini
e Postbizantini di Venezia
In copertina:
Giandomenico Tiepolo,
Pulcinella innamorato, 1797.
Ca’ Rezzonico (Venezia).
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La commedia dell’ arte
nella sua dimensione
europea
Giornata di studio
Venerdì 14 novembre 2003
Istituto Ellenico di Studi Bizantini
e Postbizantini di Venezia
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La presente pubblicazione con il titolo generale Akriti d'Europa è stata realizzata
nell'ambito del programma interstatale ACRINET con il finanziamento da parte del
Comitato Europeo entro il più largo programma CULTURE 2000. L'edizione è
costituita complessivamente da 6 volumi, che contengono gli atti di nove incontri
scientifici e congressi attuati nei paesi partecipanti e rappresentano gran parte del
lavoro prodotto dal gruppo scientifico di ACRINET
A Volume I:
A Volume II:
A Volume III:
A Volume IV:
A Volume V:
A Volume VI:
Akriti d'Europa (Atene 2002 & 2004, Ioannina 2004, Karpathos
2004, Thessaloniki 2004)
Les Mythes et les legendes que partagent les peuples de l'Europe
(Parigi 2003)
Ressons èpics en les literatures i el folklore hispànic
(Barcellona 2003)
La commedia dell'arte nella sua dimensione europea (Venezia 2003)
Krali Marko, l'eroe-custode dei confini (Sofia 2004)
Heroes of the Frontiers in European Literature, History and
Ethnography: the contribution of ACRINET:
Il presente volume contiene gli atti dell'incontro scientifico organizzato
dall'Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini di Venezia tenutosi a
Venezia il 14 novembre 2003.
A Cura generale dell' edizione: Hélène Ahrweiler
A Cura del presente volume: Eirini Papadaki
A Coordinazione dell'edizione: PRISMA - Centro di Studi per lo Sviluppo
Edito dall'Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini di Venezia, 2004
ISBN: 960-88505-0-9
Copyright: ACRINET
Progetto, cura artistica e stampa del volume:
ABILITY Integrated Communication, e-mail: [email protected]
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CONTENTS
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...................... LA
RETE EUROPEA PER LA TRADIZIONE AKRITICA
"ACRINET"
Fuli Papagheorghiu
7
...................... PREMESSA
Prof. Chryssa Maltezou
Direttore dell'Istituto Ellenico
9
...................... "STRATHIOTTI
PALICARI": VENEZIA, LA DIFFESA DEL
DOMINIO E LA TRADIZIONE MILITARE BIZANTINA
Ennio Concina
21
...................... INTRODUZIONE
27
...................... LA
41
...................... GREEK
51
...................... "SON
87
...................... COMICI
95
...................... IL
DEL GREGHESCO NEL TEATRO
VENEZIANO E IL SUO TRAMONTO
Manlio Cortelazzo
COMMEDIA DELLE LINGUE SULLA SCENA
VENEZIANA DEL SECONDO CINQUECENTO
Piermario Vescovo
THEATRE PRACTICE AND COMMEDIA
DELL’ ARTE: A LATE RE-DISCOVERY
Platon Mavromoustakos
D’ ILLIRICA PATRIA, PATRIA FAMOSA AL MONDO":
SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL TEATRO GOLDONIANO E LA
DALMAZIA
Anna Scannapieco
E BUFFONI TRA ITALIA E BAVIERA
NEL XVI SECOLO
Daniele Vianello
MITO DELLA COMMEDIA DELL’ ARTE IN RUSSIA
DEL PRIMO NOVECENTO
Raissa Raskina
103 ................... TRACES OF THE COMMEDIA DELL’ ARTE IN MODERN
GREEK THEATRE (XVIII-XIX CENTURIES)
Walter Puchner
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LA RETE EUROPEA PER LA TRADIZIONE AKRITICA
"ACRINET"
L
a Rete Europea per la tradizione Akritica ACRINET, su iniziativa della quale
si attua la presente edizione, si è assunta il compito dello studio esauriente e
scientifico della tradizione akritica, come pure del simbolismo del fenomeno
dell'akrita, dell"estremità", del "confine", dell'"alterità", dell' "identità", della
"differenziazione" tanto in epoche più antiche, quanto nella società europea
contemporanea. L'attività della Rete è stata finanziata dal Comitato Europeo.
ACRINET cerca di evidenziare i valori della coesistenza pacifica di molteplici etnie e culture in campo europeo, entro l'attualità dei riferimenti dei canti e dei
testi akritici. In questa direzione si muove la ricerca della diacronicità, della
trasformazione e della sopravvivenza della tradizione akritica europea.
Ricercatori degli organismi che partecipano alla Rete applicano una metodologia
storica, filologica ed etnografica. Localizzano, studiano, analizzano e archiviano
testi e documentazioni scritte della tradizione akritica. Parallelamente esaminano
e trascrivono elementi della tradizione akritica sopravvissuti fino ad oggi in
manifestazioni popolari, spontanee e di gruppo.
ACRINET si occupa di una espressione dell'eredità culturale europea, che
mette in risalto quali valori la collaborazione, il reciproco rispetto e la mutua
comprensione tra differenti religioni, lingue, culture. Nel mezzo di critiche
evoluzioni internazionali, la tradizione akritica dà lezioni di convivenza pacifica
e di coesistenza, come si sono impresse nella sua forma orale e scritta.
Analizzando in tal modo il passato, ACRINET cerca di rintracciare e consolidare i dati comuni di un'identità europea, indispensabile nell'ambito di un raggiungimento europeo. Questo scopo hanno assolto gli organismi collaboranti con un
intenso e vario programma dell'attività, dando al vasto pubblico la possibilità di
conoscere la tradizione akritika con tangibili ed evidenti risultati.
La presente edizione degli atti degli incontri scientifici e dei congressi realizzati dalla Rete Europea per la tradizione akritica costituisce uno dei suoi più
importanti successi. Sono stati organizzati complessivamente dieci incontri
scientifici e due congressi, tutti con distinta partecipazione. Originali lavori
scientifici su vari temi della tradizione akritica europea sono stati presentati e
discussi in nove di queste riunioni, con la partecipazione di studiosi della maggior
parte dei paesi europei. Gli atti di questi incontri sono inclusi in sei volumi, cinque
dei quali corrispondono ai relativi paesi promotori (Grecia, Italia, Spagna,
Francia, Bulgaria) e un volume comprende i risultati generali della ricerca e i
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riassunti di tutte le comunicazioni, come "fascicolo di riferimento".
Parallelamente agli incontri scientifici si è inoltre organizzato un numero
rilevante di manifestazioni culturali, con la presenza di balli e canti ispirati alla
tradizione popolare akritica, di rappresentazioni folcloristiche e di frammenti
provenienti dalla tradizione erudita con epicentro gli akriti-eroi. Sulla base della
ricerca scientifica e della collezione di materiale originale ed erudito, che
documenta la comune tradizione akritica dell'Europa, è stata anche organizzata
una mostra itinerante sul tema "Gli Akriti d'Europa", presentata in Grecia, Francia
e Spagna, mentre esposizioni su tema particolare dedicate a tradizioni ed eroi
nazionali hanno avuto luogo in Italia e Bulgaria. L'esposizione greca, costituita da
64 panelli e da un importante numero di oggetti, dopo il giro in quattro città, è finita
a Paleochora in Creta, dove è stato fondato un Museo della Tradizione Akritica
Europea, sotto l'egida del Ministero della Cultura e dell'Accademia di Atene.
Gli esponenti, che con la loro collaborazione hanno contribuito mediante
instancabile lavoro, la loro specializzazione scientifica ed il loro entusiasmo, alla
materializzazione delle attività della Rete Europea per la tradizione Akritica,
provengono da cinque paesi europei e sono:
Esponente Responsabile del Programma
- PRISMA - Centro di Studi per lo Sviluppo
Responsabile della coordinazione scientifica
- Accademia di Atene, Centro di Ricerca del Folclore Greco
Soci del programma
- Ministero della Cultura, Direzione della Cultura Popolare
- Università dell' Europa
- Università I della Sorbona, Panteon
- Consiglio Superiore delle Ricerche Scientifiche di Spagna, Istituto di Filologia,
Dipartimento di Studi Bizantini e Neoellenici
- Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini di Venezia
- Università di San Clemente di Ocrida a Sofia, Dipartimento di Filologia Slava,
di Etnologia e di Letteratura Bizantina.
Desideriamo esprimere i nostri ringraziamenti alla Direzione Generale “Educazione e Cultura” del Comitato Europeo, che ha contribuito al finanziamento delle
attività di ACRINET nell'ambito del più largo programma CULTURE 2000 e ha
così concorso in modo decisivo alla realizzazione dell'importante lavoro, presentato nella presente edizione.
Fuli Papagheorghiu
Responsabile dell'Amministrazione Interstatale
e della Coordinazione del Programma ACRINET
Direttrice Generale del Centro di Studi per lo Sviluppo PRISMA
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PREMESSA
N
el novembre del 2003 l'Istituto Ellenico organizzò a Venezia un'incontro
scientifico dedicato a la commedia dell'arte, questa forma di rappresentazione teatrale, unica al mondo, che è nata e si è sviluppata in Italia nel corso
del Cinquecento e che ha avuto come origini le feste carnevalesche e le sacre
rappresentazioni. Inizialmente la commedia dell'arte o “commedia improvvisa” fu soprattutto un fatto popolare ma in seguito si perfezionò e si diffuse in
tutta l'Europa.
Nell'ambito del convegno si è parlato specificamente della commedia
dell'arte nella sua dimensione europea, non solo perché nei vari personaggi
presenti nella commedia erano compresi anche stradioti, ma soprattutto
perché tra le lingue che usavano i protagonisti c'era il cosiddetto dialetto
venetogreco, noto come greghesco (Manoli Blessi di Antonio Molino e La
Spagnolas di Andrea Calmo). Questo interessante idioma linguistico, che
fiorì a Venezia nel XVI secolo e passò nella “commedia dialettale”, si basava
su parole ed espressioni della vita quotidiana in bocca ai greci, che vivevano
e lavoravano a Venezia. La presenza di parole e frasi greche nei testi veneziani rivela, a parte la commistione di greci e veneziani, la profonda influenza
interculturale tra le due comunità nazionali.
Nell'incontro scientifico di Venezia parteciparono dieci studiosi (Ennio
Concina, Manlio Cortelazzo, Piermario Vescovo, Maria Ida Biggi, Platon
Mavromoustakos, Anna Scannapieco, Daniele Vianello, Raissa Raskina,
Walter Puchner, Spyros Evanghelatos), i quali esaminarono tanto l'influenza
della commedia dell'arte sul teatro greco, dalmata, bavarese e russo, quanto
anche il fenomeno dell'introduzione del greghesco nel teatro veneziano.
Prof. Chryssa Maltezou
Direttore dell'Istituto Ellenico
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“STRATHIOTI PALICARI”:
VENEZIA, LA DIFESA DEL DOMINIO
E LA TRADIZIONE MILITARE BIZANTINA
Ennio Concina
N
ella complessa, articolata serie di rapporti che si intrecciano tra Venezia e il
mondo greco in età rinascimentale appare in primo piano il ruolo militare
svolto dagli stradioti, sul quale sarebbe superfluo insistere.1 È importante rilevare, anzitutto, come si tratti di un ruolo consapevole ed esplicitamente rivendicato, com' è ben noto, fino dalle prime richieste, contrastate dal patriarca veneziano Antonio Contarini, di fondare una scuola e una chiesa intitolate al nome del
confalonier nostro santo Georgio, abbandonando San Biagio, inadeguata come
sito di identità (luogo a un tempo [di] diverse gente, lengue, voci et offizi greci e
latini, [sì che] si fa una confusion che passa quella di Babilonia). Richieste
fondate principalmente sul riconoscimento del notevole contributo militare già
dato sia nel corso delle guerre d'Italia, sia durante il durissimo conflitto con
Beyazid II conclusosi con gli accordi del 1503; presentate da chi rammenta di
essersi esposto a continua morte ma ha reputà cosa gloriosa sparzer el sangue ad
amplificazion dello stado nostro.2
In effetti, nella difesa come nell'espansione del Dominium fino dal secondo
Quattrocento Venezia aveva integrato - assai più di altre potenze - fra i propri
'strumenti' e le proprie arti della guerra il combattere 'alla maniera greca',
potremmo dire, (la definizione di homeni d’arme, como se dixela stratioti [sic] a
l’usanza griega risale già al 1451) che, intorno a un nucleo propriamente greco e
albanese cristiano aggregava il militar alla stratiotta (1496) o al costume di
stratioti di gente di varie etnie balcaniche (anche dalmati e croati), fino al
1 Per la documentazione di base rimandiamo principalmente a C. N. Sathas, Documents inédits
relatifs à l'Histoire de la Grèce au Moyen Age, Parigi 1988; F. Babinger, “Albanische Stradioten
in Dienste Venedigs in augehenden Mittelalter”, Studia Albanica 1 (1964), 95-105; quanto al
quadro dell'organizzazione militare veneziana in età rinascimentale principalmente a M. E.
Mallet, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989 e J. R. Hale, L'organizzazione
militare di Venezia nel '500, Roma 1990.
2 Le citazioni da Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia (in seguito B.M.V.), Cod. Marc. Ital. VII
526 (coll. 8196): Raccolta di quanto è occorso in ordine alla chiesa di San Giorgio de' Greci erreta
in questa città da motivi di sua errezione sino al presente, cioè dal 1470 sin 1720.
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temporaneo impiego di italiani alla stradiotta (1497)3 e a casi particolari di
appartenenti alla vecchia nobiltà coloniale veneta in Levante come i do da Cha
Zorzi di Negroponte fuziti da' Turchi, zentilhomeni nostri per il sangue, valenti
di spada e di lancia, imprigionati con la presa della città e ritornati a Venezia con
Giovanni Valaresso, dopo essere stati schiavi e soldati a Damasco. Risultano
documentari persino alcuni casi di turchi arruolati come stradioti: il Sanudo, che
vi accena già nelle Vite, ne ricorda ancora un esempio nel 1508.4
Sullo scorcio del Quattrocento, il flusso di uomini d'arme dal Levante verso
Venezia si accelera, documenta Girolamo Priuli: li stratiotti in grande quantità
capitavanno a Vinegia senza eser chiamati et questo perchè avevano intexo
quelli che fo ala guera de Italia et francexe esser doventati richi (1498).5
Dalle parole del diarista patrizio traspare forse un certo fastidio, non nuovo del
resto, negli ambienti cittadini, di fronte a varie ondate immigratorie. Ma è evidente come contemporaneamente la loro presenza in città e nel territorio del Dogado
vada stabilizzandosi, organizzata intorno a specifici siti di riferimento, sì da
‘appartenere’ precocemente allo spazio urbano e immediatamente circumurbano.
Già fra tardo Quattrocento e primissimo Cinquecento, infatti, questi tengono
le loro mostre - riviste, rassegne periodiche - al Lido, dove arrivano almeno dal
1484, e a Mestre (nello stato da terra a Manerba, San Bonifacio di Verona e
Sacile). E naturalmente hanno stabilito legami diretti con la chiesa di San
Biagio, nei pressi dell'arsenale in uso anche alla comunità greca per decreto del
Consiglio dei Dieci del 1498. Assai prima del ben noto cerimoniale di esequie
per Teodoro Paleologo (1532) - e un anno prima della richiesta ai Dieci per
l'istituzione formale della Scuola di San Nicolò della nazion Greca - Venezia
può assistere a rituali pubblici analoghi, come quello per Zorzi Malacassa di
Nauplia: portato a sepelir a la grecha a San Biasio, accompagnato dal suo
cavalo e da la lanza et capelo fino a la sepultura, dove, a la grecha, li fo facto
pianto et honorato assai (4 maggio 1497).6
Ma anche nella 'scena' urbana, nel quadro cioè di ritualità pubblica e di autocelebrazione simbolico-allegorica che la Venezia del Quattrocento rielabora, esalta
e codifica,7 l'ingresso degli stradioti appare contemporaneo. Di particolare
Locuzioni frequentemente ricorrenti in M. Sanudo, I Diarii, Venezia 1878-1902, passim. Quanto alla
citazione datata 1451: Archivio di Stato, Venezia ( in seguito IA.S.V., Senato Mar, reg. 4, cc.77v-78v.
4
Marchesino e Nicolò̀ Zorzi, figli di Giacomo da Negroponte, fratello di Antonio il Cavaliere,
signore di Caristo: Sanudo, I Diarii, op. cit., vol. 1, coll. 379, 1087, 1109; vol. 7, coll. 184, 269,
701. M.Sanudo, le vite dei dogi (1474-1494), Padova 2001-2, p. 420; vol. 2.
5
G. Priuli, I Diarii, a cura di A. Segre, vol. 1, Città di Castello 1913, p. 95.
6
Sanudo, I Diarii, op. cit., vol. 1, col. 497.
7
Si vedano principalmente: E. Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984;
Lina Urban, Processioni e feste dogali, Vicenza 1998.
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“STRATHIOTI PALICARI”: VENEZIA, LA DIFESA DEL DOMINIO E LA TRADIZIONE MILITARE BIZANTINA
importanza, da questo punto di vista, risultano le informazioni pervenuteci per la
festa della S e n s a, il fastoso cerimoniale solenne della desponsatio m a r i s, del
1497. Nei pressi del monastero di San Nicolò del Lido (dove si celebrava il rito
immediatamente successivo a quello centrale svolto nelle acque del porto: rito
d'incontro fra il doge con il patriarca e l'abate, custode delle reliquie di san Nicola
il Grande, san Nicola picolo e san Teodoro il Martire, oggetto di una ricognizione
ufficiale nel 1449),8 nei pressi dunque del monastero, sbarcati da arsili, gli
stradioti avevano organizzato una giostra, nella quale corer la lanza, mostrando
la velocità e gagliardia lhoro.9 Gli uomini dello stato da mar, insomma, venivano
in tal modo esplicitamente associati alla simbolica affermazione cerimoniale
della legittimità e della perennità dell' imperium maritimum della Repubblica.
Il loro impiego di parata, di demonstratione e di componente tutt'altro che
secondaria di scenografie pubbliche, d'altronde, non è certo isolato.
A questo proposito, due esemplificazioni possono risultare particolarmente
utili. Di significato apertamente politico è la sfilata dei settecento stradioti di
Bernardo Contarini per l'ingresso in Roma del febbraio 1496, ben visti da li
romani et...ben in ordine, sotto gli occhi del papa Alessandro VI in persona: unde
el Pontefice li volse veder intrar et per vederli andò in castel Sancto Anzolo con
la soa guardia et tutto quel castello se messe in arme per più magnificentia et
treseno più di 200 botte di bombarda.10 Esibizione manifesta, da parte veneziana,
non soltanto di capacità bellica, ma anche di 'potere in Oriente', si potrebbe dire
in estrema sintesi. Tanto più che le cerimonie allora si concludono con la celebrazione d'una messa e l'udienza, concessa al Contarini e ai suoi uomini dal
pontefice, al quale tutti i stratiotti... andono a basar li piedi: episodio che assai
probabilmente va inquadrato in un'immagine che Venezia intende dare di sè
come tramite di unificazione fra cattolicesimo romano e cristianità del Levante.
Di natura in parte diversa appare invece la partecipazione stradiota all'
accoglienza che Giorgio Corner, allora podestà a Brescia, riserva nel 1497 alla
sorella Caterina, già regina di Cipro, in visita alla città. Anche in questo caso si
assiste a una parata, di duecento cavalieri con bandiruole; ma anche un caro
tiumphal che viene allestito è trainato da 4 cavali leardi [grigi] da ducati 100
l'uno de pretio, quali sono de stradiotti, con corni in fronte a modo de lioncorni.11
Per di più, nel quadro dei festeggiamenti viene organizzata una giostra, alla
quale viene fatta partecipare appunto una squadra vestita alla stratiotta. Qui,
F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova 1758, pp.
58-59.
9
Sanudo, I diarii, op. cit., vol. 1, col. 497. Si veda anche lidem, le vite, op. cit., vol.2
10
Op. cit., col. 53 (20 febbraio 1496).
11
Op. cit., coll. 763-766.
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insomma, è senz'altro l'accezione scenica del militar alla stratiotta a prevalere
e ad essere sottolineata, con fini certo evocativi; 'costume di Levante' da un lato
come cornice conveniente offerta a colei che nel Levante era stata sovrana,
dall'altro come spettacolo di 'potenza sui popoli' esibito - fra le altre magn i f icenze - ai cittadini d'una città da terra attraverso gente da mar.
In definitiva, Venezia attinge in vari modi e 'integra' nelle proprie risorse
militari 'post-bizantine' in gran parte disponibili nei propri domini d'oltremare.
Ma il nostro obiettivo è anche di accertare se oltre al ricorso strumentale all'
ampio reclutamento di stradioti e al ricorso a questo anche a fini di immagine,
nel pragmatico umanesimo diffuso presso le élite politiche veneziane tra
Quattro e Cinquecento, vi siano prove di altri rapporti con la tradizione militare
bizantina, eventualmente con questi intrecciati a loro volta.
Ora, fino dalla metà circa del XV secolo, al conf litto fra imperi - quello
veneziano e quello ottomano - da parte veneta si accompagnano non soltanto
l'elaborazione ideologica del proprio mito di altera Roma, ma anche il perseguimento dell'obiettivo di recuperare i principi delle capacità belliche dell'antico.
Obiettivo al quale va applicandosi anche la ricerca erudita e certamente partecipato in modo diffuso. Basti pensare, a questo proposito, alle articolate richieste
di interventi per la difesa di Creta presentate a Venezia nel 1471 dai nobili di
Candia Matteo Muazzo e Nicolò Grimani, che nel preambolo - di elevato tono
culturale - richiamano la necessità di ricorrere al modello romano, alla capacità
di questo di azione in tempore belli, richiamandosi anche a citazioni di poeti, di
tragici, di storici e, attraverso Vegezio, alla trattatistica antica di arte militare.12
In questo contesto alcune precise circostanze ci sembrano di notevole
interesse:
- nei primi decenni immediatamente successivi alla caduta di Costantinopoli, a
Venezia si fa strada l'idea di attingere alle ondate di profughi balcanici
provocate dall'espansione ottomana per la difesa dei confini orientali della
Terraferma veneta, in particolare del Friuli;
- quando ancora non ci sono note discussioni sulla forma del corscivo um
romano secondo Polibio, viene messa a punto una seconda idea: quella di
creare, ai confini orientali della Terraferma, una città di fondazione di elevata
specializzazione funzionale, dal carattere cioè di castrum permanente in
funzione antiturca per lo sbarramento dei guadi dell'Isonzo;
12
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H. Noiret, Documents inédits pour servir à l’ histoire de la domination vénitienne en Crète de 1380 à
1485, tirés des archives de Venise, Parigi 1892, pp. 514-515 (11 ottobre 1471). La questione è
esaminata con maggiore ampiezza nel nostro “Tempo novo”. Venezia e il Quattrocento, in corso di
pubblicazione presso Marsilio Editori, Venezia.
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“STRATHIOTI PALICARI”: VENEZIA, LA DIFESA DEL DOMINIO E LA TRADIZIONE MILITARE BIZANTINA
- nel quadro di un ampio programma difensivo per il Friuli, predisposto fra il
1469 e il 1479, le due idee vengono combinate, decidendo di insediare nella
città-castrum cavallerie leggere reclutate fra i profughi balcanici, stabilizzandole anche mediante l'assegnazione di lotti di terreno agricolo nell'area
immediatamente circumurbana del nuovo centro: provvedimento non privo di
importanti precedenti, come le concessioni di 40 stremati di terreno incolto, 4
di vigna e di abitazioni in rovina disposte per il ripopolamento e la difesa di
Argos dopo l’invasione turca, riconfermate nel 1451 con una specifica delibera de terrenibus stratiotorum.
Nasce così l'unica città nuova del Quattrocento nello stato da terra di
Venezia, dal nome umanisticamente evocativo di Hemopolis (l'attuale
Gradisca) e viene disposto di popolarla a partire da un nucleo di 110 profughi
con le loro famiglie, i sopravvissuti fra i 350 che poco prima avevano partecipato alla difesa di Scutari presa dai turchi (febbraio 1479) di grande probità,
gagliardia, constantia, virilità e fede.13
Hemopolis: il nome è quello di Giovanni Emo, urbis conditor, luogotenente
della Patria del Friuli, legato fra l'altro a Marc'Antonio Coccio Sabellico, che gli
dedica un suo scritto sulle antichità aquileiesi. Ma alla definizione del programma generale e del progetto specifico hanno partecipato certamente alcuni tra i
principali politici-umanisti veneti, tra i quali Bernardo Giustinian, Candiano
Bollani e Zaccaria Barbaro. E qui si giunge al nodo della questione, poiché vi
sono da sottolineare alcune concomitanze personali e cronologiche di estrema
importanza per contribuire a spiegare la svolta accennata. Bernardo Giustinian,
infatti, stava procedendo a una codificazione dei percorsi di ritorno all'Antico
che, tra l'altro, a partire dagli ambienti del revival tolemaico con cui aveva
stabilito stretti contatti, lo aveva visto, come capo del Consiglio dei Dieci, tra i
promotori di un programma di rilevamento cartografico del Dominio in vera
pictura, destinato ad usi 'operativi'.14 Il Bollani era stato il più autorevole fra i tre
patrizi che avevano presentato in Senato il decreto relativo alla realizzazione
della porta magn a dell'arsenale, la prima architettura compiutamente rinasci-
A.S.V. Senato Mar, reg. 11, c. 22 r (8 maggio 1479); ibidem, Luogotenenza della Patria del Friuli, b.
272, reg. G; D. Malipiero, Annali Veneti dall’ anno 1457 al 1500, Firenze 1843: preso de dar a quei
de Scutari la terra de Gradisca in Friul sul Lisonzo e de divider el territorio arativo in 150 parti fra
l o r o; R. Corbellini, “Analisi storica della città”, in C. Visintini, Gradisca. Analisi della fortezza
veneta, Trieste 1985, pp. 14-21; E. Concina, “Il rinnovamento difensivo nei territori della Repubblica
di Venezia nella prima metà del Cinquecento. Modelli, dibattiti, scelte”, in Architettura militare nell’
Europa del XVI secolo, Atti del Convegno di studi (Firenze, 25-28 novembre 1986), a cura di C.
Cresti-A. Fara-Daniela Lamberini, Siena 1988, pp. 93-96. A.S.V., Senato Mar, reg. 4, 77v-78v
14
Rimandiamo al nostro “ 'In vera pictura': Venezia, le città del Dominio, il Mondo. 1459 'more
veneto'”, in La vita nei libri: edizioni illustrate a stampa del Quattro e Cinquecento dalla
Fondazione Giorgio Cini, catalogo della mostra, a cura di M. Zorzi, Venezia 2003, pp. 151-156.
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mentale edificata in Venezia.15 Quanto a Zaccaria Barbaro, il padre di lui, il
celebre Francesco (umanista, ma anche impegnato in congiunture militari:
difensore di Brescia, capitano a Treviso, provveditore in campo e altro, ma anche
luogotenente, appunto, della Patria del Friuli), oltre ad aver discusso con Flavio
Biondo sulle forme architettoniche delle 'magnificenze dell'antico' (ante 1454),
attraverso Antonio Panormita e lo stesso Biondo, fino dal 1451 aveva stabilito
il primo contatto esteso, potremmo dire, con la trattatistica militare greca antica
e bizantina, ottenendo in lettura una lunga, significativa serie di opere de re
bellica pertractantes: fra gli altri lo Strategikon di Maurizio, i precetti militari di
Niceforo II Fokas, i Taktikà di Leone VI, ma anche Eliano, Onosandros, Ateneo
De machinis et instrumentis bellicis con miniature, il De jaculis di Jerone, la
poliorcetica di Apollodoro e altri scritti fra cui vari anonimi. E proprio lo stesso
Zaccaria Barbaro, come savio agli Ordini, nel medesimo 1451 s’era accupato
della conferma delle proprietà degli stradioti di Argos.16
Certamente lo studio 'applicato' della storiografia e della trattatistica militare
antica ebbe a proseguire nel primissimo Cinquecento entro la cerchia di
Bartolomeo d'Alviano, capitano generale di Venezia (che, non va dimenticato, il
5 maggio 1515 sosteneva in Collegio l'urgenza di costruire una libreria dove
rendere consultabili le opere lasciate dal Bessarione)17 e del suo stretto collaboratore, il condottiero senese Baldassarre Scipioni. Sappiamo che il principale
'consulente' dello Scipioni nella stesura di epistole e di scritture in materia bellica
è allora Vettor Fausto, il futuro successore di Marco Musuro sulla cattedra di
greco della Scuola di San Marco, già da tempo in rapporto con Demetrio Doukas
e con il corfiota Giustino Decadio, e studioso, fra molto altro, di argomenti
teatrali (è del 1511 il suo De comoedia libellus) .18 Non disponiamo di dettagli
molto precisi sui temi dei conversari circa l'arte della guerra antica che si tengono
allora presso lo Scipioni e l'Alviano, come lo stesso Fausto testimonia. Certo è
però che la sua terza orazione ne evoca probabilmente alcuni degli argomenti.
Quello della guerra d'ingegn o, anzitutto: due sono gli animali - egli scrive - che
combattono con la testa, vale a dire il toro e l'uomo. Ma il primo lo fa con le corna,
il secondo usa il cervello. E fra gli strumenti dell'ingegno sono lo studio e
Rimandiamo al nostro L'Arsenale della Repubblica di Venezia. Tecniche e istituzioni dal medioevo
all'età moderna, Milano 1984, pp. 54-58.
16
B.M.V, Cod. Marc. Lat. 59 (coll. 4152); Antonii Beccatelli Siculi cognomento Panhormitae
Epistolarum Gallicarum libri quatuor; accedit etiam ejusdem Epistolarum Campanarum liber;
his praemittuntur epistolae sex ex cod. mss. nunc primum in lucem erutae, Napoli 1746, pp.
366-368; Fr. Barbaro, Epistolario, a cura di C. Griggio, Firenze 1999.
17
M. Zorzi, La Libreria di San Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei Dogi, Milano 1987,
pp. 98-99.
18
E. Concina, Navis. L'umanesimo sul mare (1470-1740), Torino 1990, pp. 26-182.
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l'insegn amento della storia. Il condottiere non ignarus litterarum saprà studiare
e riprendere le regole dei Lacedemoni quando si tratterà di ordinare uno schieramento per lo scontro frontale; se invece dovrà combattere una guerra di agguati e
di imboscate dovrà tener conto delle esperienze di Timoteo, di Ificrate e di Annibale.19
Dibattiti, discussioni di campo. Sullo sfondo, in questo stesso ambiente
dell'Alviano e dello Scipioni, sappiamo della presenza di un gruppo di capi
stradioti (Costantino Boccali, Repossi Busichio, Teodoro Manassi, Nicolò Rali,
e i Paleologi Costantino, Giovanni, Nicolò e Teodoro, oltre a numerosi altri);
ma, per ora almeno, non ci è possibile documentare una qualche loro partecipazione diretta ai conversari teorici.
Tuttavia, una linea assai precisa di rapporto fra armi e lettere risultava
stabilita. E questa avrebbe raggiunto coerenza sistematica nella cerchia di
Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, capitano generale di Venezia
dal 1523 al 1538, del suo rappresentante permanente a Venezia Giovan Jacopo
Leonardi (che ne prolunga gli interessi oltre la metà del XVI secolo) e del figlio
del primo, Guidubaldo II della Rovere.20 Cerchia di elevatissimo tono culturale
oltre che militarmente tecnico. Entro la quale, anzi, i programmi di renovatio,
l'esperienza diretta sul campo del militar a la stratiotta e lo studio della storia e
della trattatistica militari bizantine, oltre che di quelle romane, giungeranno a
incrociarsi in termini ben documentabili.
In sintesi, Francesco Maria della Rovere, oltre che come condottiero, è
riconosciuto per tutto il secolo come il massimo promotore del rinnovamento
dell'arte della guerra: delle tattiche e delle strategie, delle gerarchie decisionali,
del controllo militare del territorio, dei principi della fortificazione urbana.
Nell'ambito della tradizione familiare (i duchi d'Urbino infin dalle fasce sono
riputati i signori di quello stato capitani, perciochè egli nascono con autorità
grande con tutta Italia scrive nel 1547 Federico Badoer),21 Francesco Maria
secondo l'opinione generale dei contemporanei è colui che senza contradizione
alcuna ottenne il principato alli giorni suoi nell'arte della guerra.22
V. Fausto, Orationes quinque eius amicorum cura quam fieri potuit diligenter impressae,
Venezia 1551, ff. 48v-49v.
20
Si vedano principalmente: I Della Rovere. 1508-1631, catalogo della mostra, a cura di G. G.
Scorza, Pesaro 1981; T. Scalesse, “Introduzione” a G. G. Leonardi, Il libro delle fortificazioni
dei nostri tempi, Roma 1975; E. Concina, La macchina territoriale. La progettazione della
difesa nel Cinquecento Veneto, Roma-Bari 1983, pp. 15-62.
21
Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, vol. 2, Bari 1968 (ristampa
anastatica dell'ed. 1913), p. 180.
22
G. B. Leoni, Vita di Francesco Maria di Montefeltro della Rovere III Duca d'Urbino, Venezia
1605, p. 450. Quanto al tema di queste pagine, del resto, non va neppure trascurata la ben nota,
antica familiarità di Federico da Montefeltro con il Bessarione.
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Tralasciando la questione del suo determinante ruolo di supervisione generale
anche al programma di fortificazione dello stato da terra, esteso a valutazioni e
interventi relativi alla Dalmazia, a Corfù e a Creta (dove condiziona gli interventi
del Sanmicheli che è invitato a seguire gli ordini e rispetti che altre volte in sì fatte
cose gli sono stati da me mostrati) ,23 Francesco Maria della Rovere nel 1532
delinea al Gritti le linee strategiche dell'imminente confronto con i turchi. E in
quell'occasione ritorna una posizione concettuale fondamentale: la guerra
'moderna' di Venezia non può essere che guerra d'ingegn o, contrapposta all'
enorme capacità ottomana di mobilitare masse e risorse. La stessa che aveva
espresso Vettor Fausto e che, fra l'altro, affondava le sue radici nelle esposizioni trattatistico-teoriche antiche e bizantine (Strategikon di Maurikios,
Taktikà di Leone VI).24
E nel pensiero del duca una posizione risulta centrale: la guerra d'ingegn o
consiste tutt'altro che secondariamente nella reinterpretazione sistematica dei
principi dell'arte della guerra degli antichi alla luce della situazione tecnica e
politica contemporanea. Non per caso Pietro Aretino, uno dei suoi principali
interlocutori fra gli intellettuali contemporanei, dichiara appunto che quella del
della Rovere vada letta fondamentalmente come restitutio: che rende a la nostra
età la disciplina dell'antico Marte.25
Ora, alle attività sul campo di capitano generale, Francesco Maria della
Rovere, insieme con il Leonardi, accosta una sorta di 'seminario' permanente di
confronto fra 'pratica' contemporanea e lezioni della trattatistica de re militari e
della storiografia antica. Come prima l'Alviano e lo Scipioni si compiacque et
hebbe cognitione delle Historie antiche; sopra le quali era solito di sentire vari
discorsi...avendo deputato a questo particolare essercitio alcune hore del giorno,
e convocandosi in camera sua molti non solo leterati, ma soldati... In Venetia
spetialmente...la congregatione si faceva più formatamente e con magior concor so, solevano intervenire de' più gravi e sperimentati senatori della Repubblica.26
La cerchia dei partecipanti a siffatte congregationi è quanto mai sign i f i c a t iva: comprende, fra gli altri, Vettor Fausto, il grecista 'archiproto' del quale già
abbiamo detto, il matematico Nicolò Tartaglia che stava fondando gli studi di
B.M.V., Cod. Marc. Ital. VII 109 (coll. 7805), cc. 174v-176r: lettera a Giovan Jacopo Leonardi,
edita da ultimo in Concina, La macchina, op. cit., pp. 105-106.
24
Osservazione già di A. J. Toynbee: per la mentalità romano-orientale la guerra era un'attività
intellettuale e l'essenza dell'arte della guerra consisteva nel raggiungere gli obiettivi attraverso
un impiego massimo di acme intellettuale e un minimo di forza bruta (in A. J. Toynbee,
Costantino Porfirogenito e il suo mondo, trad. M. Stefanoni, Firenze 1987, p. 124).
25
P. Aretino, Lettere: Il primo e il secondo libro, a cura di F. Flora, Milano 1960, p. 288, lettera no
1 (13 novembre 1537).
26
Leoni, Vita, op. cit., p. 454.
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balistica, Michele Sanmicheli, ingegnere alle fortificazioni da terra e da mar.
Ma attraverso il Leonardi raggiunge il Palladio e il Genga, è in stretto contatto
con Daniele Barbaro che si accinge al commento a Vitruvio. E si allarga agli
ambienti aristocratici vicentini (a Giangiorgio Trissino, ai Thiene e altri) e
friulani (a Giulio Savorgnan, massimo esperto di progettazione fortificatoria
della seconda metà del XVI secolo).
Come si è appena notato, tra i diretti interlocutori del duca d'Urbino compare
colui che lo era stato, e per i medesimi temi, dell'Alviano e dello Scipioni: Vettor
Fausto, ormai titolare della cattedra di greco della Scuola di San Marco. Di
quest'ultimo, l'attività concretamente applicativa del ritorno filologico all'antico
nell'ambito della costruzione navale per la guerra marittima può essere
perfettamente sintetizzata con il giudizio dato di lui da Pietro Bembo: per la
qual cosa dico, che tutti i leterati huomini gli hanno ad avere un grande obligo.
Che non si potrà più dire a niun di loro, come per adietro si solea: va, et statti
nello scrittojo et nelle tue lettere, quando si ragionerà d'altro, che di libri et di
calamai.27
Parole che esprimono con grande efficacia un'attitudine culturale di fondo e
la sua ragione di collocarsi nell'ambiente del quale stiamo restituendo in breve
i contorni. In un siffatto contesto, tuttavia, è possibile documentare appunto
come anche l'esperienza del militar a la stratiotta sia certamente partecipe del
programma intellettuale roveresco di restitutio rei militaris. E ciò principalmente attraverso Mercurio Bua, che già nel 1526 risulta fra gli accompagnatori di
Francesco Maria della Rovere in sopralluogo a Legnago per la fortificazione
del luogo; ma che, soprattutto, è coinvolto nei dibattiti e nei ragionamenti
veneziani, intervenendo fra l'altro a una lunga discussione teorica del 22
febbraio 1537 sulla fortificazione delle città, preparatoria per la partenza per
Candia di Giovanni Moro come provveditore generale.28 Sicuramente anche
Niccolò Boccali, da Leontari in Morea, può essere inquadrato nel medesimo
gruppo, visto il suo ruolo di luogotenente del della Rovere; e non è improbabile
che lo stesso si possa dire per Costantino Arianiti, a lungo legato ai della
Rovere, e per Teodoro Manassi, che come il Bua nel 1524 era stato a Cassano
con il capitano generale.29
G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, vol.
2, Venezia 1754, p. 459.
28
F. M. della Rovere, Discorsi militari, Ferrara 1583, ff. 14v-17v.
29
Quanto al Bua e all'Arianiti rimandiamo anche alle voci di H. J. Kissling e F. Babinger in
Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, rispettivamente vol. 14, 1972, pp. 747-748 e vol. 4,
1962, pp. 141-143. Per il Boccali, si veda anche E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, vol.
1, Venezia 1824, pp. 249-250.
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La diffusione delle discussioni, delle riflessioni, delle posizioni maturate
nell'ambiente del duca d'Urbino avvenne attraverso diversi canali che sarà
opportuno riepilogare brevemente. Circola in un primo momento attraverso
numerosi manoscritti, in parte raccolti postumi nel volume dei Discorsi Militari
di Francesco Maria della Rovere (Ferrara 1583). Vi contribuisce in maniera
determinante, poi, il Libro delle fortificazioni di Giovan Jacopo Leonardi rappresentante permanente del duca presso il governo veneto e fedele interprete
del punto di vista di quegli in materia di architettura militare: opera rimasta
allora inedita, ma ben conosciuta, annunciata da Daniele Barbaro come
complementare al suo commento a Vitruvio. Nel 1573, ancora, avveniva a
Venezia la pubblicazione da parte di Giovanni Franco, entro Gl'ordini della
militia romana tratti da Polibio in figure di rame, della ricostruzione grafica
d e l l 'Alloggiamento de' Romani cavato da Polibio da Francesco Maria Duca
d ' U r b i n o. Questione di grande importanza. Poiché va sottolineato come si
trattasse di uno fra i prodotti di una lunghissima serie di studi che aveva
occupato il duca-capitano, fino dall'impianto del suo accampamento secondo il
modello del castrum romano attuato a Cassano d'Adda, studiato e considerato
dall'arte militare rinascimentale come un classico, tanto che la pianta di
quest'ultimo veniva pubblicata dalla celebre Arte militare di Mario Savorgn a n
ancora nel 1599. E proprio questi interessi del capitano generale, come già
abbiamo segnalato, dovevano aver stimolato a nostro avviso la pubblicazione a
Venezia nel 1529 della prima edizione in greco e in latino del frammento del
sesto libro di Polibio De militia Romanorum et castrorum metatione curata da
Giano Lascaris. Di più, l'interpretazione data dal duca d'Urbino alla testimonianza di Polibio per la sua applicazione alla progettazione fortificatoria urbana
- così intendo io Polibio30 - era stata oggetto di un lungo confronto teorico disputa - tra questi e Alfonso I d'Este a Napoli alla presenza di Carlo V31 ed era
stata ripresa, sul piano concretamente operativo, per gli studi relativi alla difesa
della piana friulana e della Dalmazia.
Attorno al nucleo della cerchia di cui parliamo, frattanto, gli studi si allargano. Del 1546 è la pubblicazione da parte di Gabriel Giolito de' Ferrari nella
nostra lingua volgare per utilità pubblica dell'Ottimo Capitano Generale et del
suo ufficio di Onosandros; edizione che viene dedicata appunto a Giovan
Jacopo Leonardi e ancora una volta annuncia gli scritti di questi (ho voluto
Della Rovere, Discorsi militari, op. cit., ff. 22v-24r, con alcune correzioni di convenienza rispetto al testo del manoscritto conservato presso la Biblioteca del Museo Correr di Venezia, Cod.
Cicogna 2862, XIX, c. 10 r-v.
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Op. cit.
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anco inviarlo a persona, cui più si convenisse, scrive l'editore, e a tutto 'l mondo
ne fa chiarissimo testimonio l'universal concorso, che ogni dì si fa a lei da gli
huomini più intendenti et più valorosi; ma si spera anco che i celebratissimi
scritti suoi in cotal materia, quando appariranno in pubblico, ne debbano dare
intiera contezza, et por silentio a tutti gli altri, che dopo voi verranno) .32 E
ulteriori notevoli sviluppi vanno sottolineati.
Si è già accennato agli stretti legami tra Francesco Maria della Rovere, il
Leonardi e l'aristocrazia vicentina, in gran parte dedita al mestiere delle armi al
servizio della Repubblica di Venezia. E altri hanno sottolineato da tempo i
rapporti fra tale ambiente e gli interessi di Andrea Palladio alla scienza militare (i disegni illustrativi ai Commentari di Cesare editi nel 1574-75, gli studi e i
disegni perduti per l'interpretazione - una volta ancora - delle regole della
castrametatio a partire da Polibio).33 Frattanto, il vicentino Valerio Chiericati in stretto rapporto con il Palladio e direttamente seguace del Leonardi dal punto
di vista della teoria della fortificazione - come uomo d'arme è più volte
impegnato nello stato da mar: inviato da Venezia a Cipro (1560 e/o 1568),
inviato a Creta nel 1574 (dove muore nel 1576) su sollecitazione del provveditore Jacopo Foscarini per formar nuove compagnie [di fanti] per li contadi,
come aveva già fatto nel 1573 in Friuli, nel Trevigiano e nel Feltrino.34 Il principio del risvegliar l'antico Marte, l'antica disciplina militare che anch'egli riaffermerà nel suo trattato della Militia rimasto inedito è seguito alla lettera: si tratta
di rifarsi, reinterpretandoli, ai modelli della falange e della legione; si tratta, a
Creta, di descrivere, ordinare, armare et esercitare le genti atte alla guerra di
quell'isola, con le sue leggi et ordini militari antichi.35
Con le sue leggi et ordini militari antichi: e dunque riprendendo in conside-
Dedicatoria di Gabriele Giolito, che fra l’ altro si afferma “in debito” verso il Leonardi.
J. R. Hale, “Andrea Palladio, Polybius and Julius Caesar”, Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes 40 (1977), 245-246.
34
Rimandiamo principalmente a L. Puppi, Andrea Palladio, Milano 1973, pp. 281-283 e alla
biografia, ancora del Puppi, del Chiericati, in Dizionario Biografico, op. cit., vol. 24, Roma
1980, pp. 693-696; ma si veda anche L. Pezzolo, “Aspetti della struttura militare veneziana in
Levante fra Cinque e Seicento”, in Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia, 15701670, catalogo della mostra, Venezia 1986, pp. 86-96.
35
Dedicatoria di Filippo Pigafetta premessa a Documenti et avisi notabili di guerra ne' quali s'insegn a
distintamente tutta l'arte militare, non solo di formare gli esserciti et ogni apparecchiamento di
guerra, ma anco di ogni maniera di battaglia et ogni altra cognitione spettante ad informare un perfet to soldato et capitano, di Leone Imperatore. Ridotto dalla greca nella nostra lingua per M. Filippo
Pigafetta, con le annotationi del medesimo ne' loghi che n' hanno di mestieri, Venezia 1602. Sul
Pigafetta: A. Da Schio, “La vita e le opere di F. Pigafetta”, in F. Pigafetta, La descrizione del territo rio e del contado di Vicenza (1602-1603), a cura di A. Da Schio e F. Barbieri, Vicenza 1974, pp. 1214; G. Lucchetta, “Viaggiatori, geografi e racconti di viaggio dell'età barocca”, in Storia della cultura
veneta, Il Seicento, vol. 4/II, Vicenza 1984, pp. 201-250.
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razione l'arte militare del mondo bizantino. Che in effetti dovrà essere oggetto
di nuovo studio, partendo dai Taktikà di Leone VI (il trattato di Leone impera tore de gli apparecchi della guerra), la cui traduzione - al tempo che egli navigò
in Cipri, tra il 1560 e il 1568, appunto - viene affidata dal Chiericati al cugino
Filippo Pigafetta, uomo di scienza (questi pure in rapporto con Palladio per
Polibio) oltre che uomo d'arme.
Dopo la scomparsa dello stretto et amato parente, il Pigafetta rivedeva t u t t o
quel primo lavoro mio et raffrontandolo con altri testi greci, che dianzi non
hebbi. Collazionava il manoscritto di cui già in precedenza era in possesso con
altri appartenenti a Jacopo Contarini (intendente di tutte le belle cose, sia
architettura, pittura, scultura o strumenti bellici, armonici et matematici)36 ed a
Gian Vincenzo Pinelli. Si apprestava quindi ad approfondirne l'interpretazione
tenendo conto dello Strategikon attribuito a Maurizio e di Onosandros, ma
anche di autori come Giorgio Cedreno e Giovanni Zonara e degli Oracula
L e o n i s. E confrontava poi alcuni dettagli relativi ad armi e vestimenti con ciò
che hoggidì è rimasto, nel Levante, presso greci, albanesi e turchi. L'opera
sarebbe stata data alle stampe nel 1602, dedicata a Jacopo Alvise e Marc'
Antonio Corner. Dichiaratamente come riaffermazione della lunga attitudine
rinascimentale di adattare quei buonissimi ordini antichi all'ottime armi
moderne; e in aperta polemica con chi li avesse a ritenere hoggimai ranci et
invecchiati.37
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Dedicatoria di G. Porro in V. Scamozzi, Discorsi sopra le antichità di Roma, Venezia 1582.
Dedicatoria di Filippo Pigafetta premessa a Documenti et avisi, op. cit.
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INTRODUZIONE DEL GREGHESCO
NEL TEATRO VENEZIANO E IL SUO TRAMONTO
Manlio Cortelazzo
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i sa che con il nome di greghesco s'intende l'imitazione scherzosa ed
esasperata del veneziano, come si riteneva fosse parlato nel Cinquecento dai
numerosi greci convenuti a Venezia. Ormai è abbandonato, come fuorviante,
l'originario stradiotesco, probabilmente introdotto da Vittorio Rossi (una
letteratura, che vorremmo chiamare stradiotesca).
Parecchie furono le composizioni scritte in questo artificioso linguaggio, che
incontrò la sua maggior fortuna negli spettacoli teatrali a cominciare dalle
commedie di Andrea Calmo. Assegnato a personaggi diversi (uno stradioto, un
medico, un vecchio, una ruffiana), il modello fu subito ripreso nella C a p r a r i a e
nella Zingana del Giancarli (un vecchio) e nella Pace di Marin Negro (ancora un
vecchio).
Ma chi, in realtà, lo introdusse per primo nelle scene?
Anche se negli ultimi decenni abbiamo assistito alla fioritura di valenti
studiosi, che si sono attivamente interessati al teatro rinascimentale veneziano,
indagandone ogni aspetto, anche se da una parte, specie per opera di Louis
Coutelle, di Lucia Lazzerini e dei Kahane, conosciamo tutti i meccanismi, che
spiegano i vari tipi di interferenza greco-veneziana, dall'altra, per quanto
riguarda la genesi di questa invenzione letteraria, siamo ancora fermi al 1561,
quando Ludovico Dolce affermava nella dedica a Giacomo Contarini del
poemetto I fatti e le prodezze di Manoli Blessi stratioto di Antonio Molino,
detto il Burchiella, che fu proprio questi il primo, che le mutò [le commedie] in
più lingue. Nelle quali divenne cosd chiaro, che oltre alla comune lingua italia na, contraffacendo la greca e la bergamasca, passò in quelle cosd avanti, che egli
meritatamente si può chiamare il Roscio della nostra età. Mentre sulla contraffazione (non, quindi, riproduzione) del bergamasco possiamo porre in serio
dubbio le parole dell'amico affettuoso, tanti sono gli esempi di precoci esperienze del suo uso letterario (Corti nel 1974, Cortelazzo nel 1980, Paccagnella nel
1984), per il neogreco la questione è ancora sub iudice. Per ora si pue solo
sottoscrivere il prudente giudizio di Paolo Fabbri: Forse non fu il Molino
l'inventore di una tal miscela, ma certo la coltive con fortuna costante (p. 189).
Su questo autore e sulla sua opera (peraltro giuntaci sfortunatamente solo in
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MANLIO CORTELAZZO
parte: ignoriamo completamente le sue commedie, che pure sembra abbiano
riscosso un grande successo) hanno rivolto negli ultimi decenni la loro
attenzione diversi ricercatori, dal Fabbri alla Uberti, da Vincent a Vescovo, dal
compianto Panayotakis a Cortelazzo (con una timida ipotesi su una possibile
fonte dei Fatti), ma nessuno di loro ha rintracciato una sola prova che confermasse o smentisse tale primato.
Per questo ogni indizio, anche minimo, pue servire a gettare un barlume di
luce sull'oscuro problema.
E percie ancora una volta insistiamo su un testo, che avrebbe il vantaggio di
una data ante quem abbastanza precisa, anche se non riferito ad una rappresentazione teatrale.
Premettiamo che il greghesco è testimoniato nelle stampe a partire dal 1553,
anno dell'edizione delle Egloghe del Calmo. Non che a questo fatto si debba
attribuire un'importanza, che non ha, dal momento che la pubblicazione segue
di regola ed anche di molti anni, la recita, ma trovare qualche traccia di greghesco
di molto anteriore pue offrire una buona base di discussione e ricerca. Ora, in
una ricchissima raccolta, in parte ancora inedita, di testi letterari veneziani,
contenuti nel codice Marciano It. XI 66, è riportato un sonetto privo della
terzina finale con inserti gregheschi. Il tema è banale, un semplice fatto di
cronaca: un senatore, oppresso da copiose bevute, si addormenta in Senato,
suscitando l'ilarità dei presenti. Se si riuscisse a trovare un cenno all'episodio in
fonti cronachistiche (prima fra tutte i Diari di Marin Sanudo - attentissimo a
minuti fatterelli, come questo - che, giungendo fino al 1533, superano cronologicamente la data più recente attestata nel codice, che è il 6 ottobre 1530, anche
se contiene alcune poesie forse dell'Aretino attribuibili al 1531-32), potremmo
ricavarne certamente altri preziosi particolari sull'aneddoto e, forse, anche
sull'autore del sonetto.
Comunque, l'espediente di far parlare tanti forestieri nella loro lingua,
diciamo cosd, ‘reale’ deve avere avuto un certo successo. Lo deduciamo dal
messaggio pubblicitario sottinteso nei titoli delle commedie del Calmo a
stampa, dove questo particolare viene enfatizzato in vario modo. Dapprima con
l'esplicita dichiarazione della loro presenza: “Comedia del S. Scarpella
bergamasco, et altre diverse lingue de personaggi” (S p a gnolas2, 1551),
“Comedia… in diverse lingue ridotta” (Pozione, 1552), poi, ponendola seconda
fra i suoi pregi: “Comedia stupenda et ridiculosissima piena d'argutissimi moti,
et in varie lingue recitata” (R o d i a n a,1553), infine, riservandole il primo posto:
“Comedia… di varie lingue adornata, sotto bellissima inventione” (T r a v a g l i a,
1556).
E veniamo alla parte finale, che riguarda l'individuazione dell'ultima opera
teatrale a noi nota, in cui intervenga un personaggio che usa il greghesco.
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INTRODUZIONE DEL GRECHESCO NEL TEATRO VENEZIANO E IL SUO TRAMONTO
È comunemente accettato che la grande stagione del teatro veneto plurilinguistico si concluda con la Pace di Marin Negro, pubblicata per la prima volta
nel 1561. Ma per quanto riguarda la commedia con più linguaggi, fra cui il
veneziano storpiato ad arte dei Greci, dobbiamo spostare la data al 1562,
quando uscì a Venezia Il Sergio, scritto da Lodovico Fenarolo essendo quasi
fanciullo, e più tosto in poche ore, che in molti giorni. Sappiamo tanto poco di
questo autore da non conoscere con precisione nemmeno la sua patria: Brescia
o Verona? La commedia, ad ogni modo, è ambientata a Venezia e mostra
chiaramente la sua dipendenza dalle commedie del Calmo, a cominciare dalla
difesa, fondata sull'intenzione di rendere realistica la vicenda, dell'uso di lingue
e dialetti diversi (lasciando che altri prima di me l'hanno pur fatto, essendo la
comedia immitatione, e concorrendo in Venetia ov'ella è figurata, tante genti, e
c o sd varie nationi, ragionevolmente pue essere accaduto un caso d'una cosd
fatta imitatione).
Che il Coutelle si fermi alla Pace è giustificabile. Lo è meno per studiosi che
abbiamo ripreso il tema dopo il 1972, quando è uscito un nostro contributo su
documenti letterari in greghesco non ancora sfruttati, tra cui, appunto, le
battute di Alessandra grega, moglie di Sergio, tenuta vedova, e dopo il 1978,
quando uscd un'edizione della commedia a cura di Noemi Messora, non ineccepibile, ricca, comunque, di notevoli spunti e annotazioni.
Si potrà dire che, in fondo, la distanza fra le due commedie, un anno appena,
non è granché, ma pue diventare significativa, se consideriamo che alcuni
esperti critici hanno trovato indizi tali da proporre di retrodatare la rappresentazione della P a c e alla metà degli anni Cinquanta (Vescovo), più precisamente
al carnevale del 1553 (Padoan). Anche se, a onor del vero, il passo di un
monologo di un personaggio veneziano, oramai vecchio, farebbe anteporre la
recita del Sergio al 1558 (dal 1503 fin adesso che semo del 1558 el mondo è
pezorao nonanta per cento), coerente con il cordoglio, come di un lutto recente,
per la morte di Stefano Tiepolo (1557).
Gli elementi lessicali di base greca in questa commedia non sono molti e
almeno due non sono compresi nell'inventario stilato da Coutelle: ti orisis (‘chie
comandeu?’), da τί ïρίζεις; protogera (‘arrogante’), femminile di πρ ωτ όγερ ος,
senza contare pame apano (‘andemo del suso’), con due elementi separati, che
appartengono al citato glossario; vanno poi aggiunte alcune varianti non
accertate altrove, come naderfi ‘surenla’, michrià ‘picudgline’, sopa ‘tasè’,
scarsamente significative perché legate alle eventuali edizioni consultate.
Questi particolari ci portano, comunque, a ritenere che il Fenarolo abbia attinto
anche ad altre fonti a noi ign o t e .
La controprova si potrebbe avere esaminando i tratti fonetici e morfosintattici caratterizzanti la parte della greca (tra parentesi, anche il proverbio tute le
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greghe sé dolce de pieghe (I 6) sembra inedito). Ne segnaliamo un periodo, come
campione rappresentativo:
E surenla, naderfi, nol besogneu chie vui parlaro del mio belenza, perché
mi seu oramai vegnuo venchia dal tandj fastidij chie mi ho ambuo chie
staa [?] haveri perduo dio fie michrià picudgline e 'l mio mario; nol se
chiesti dolori d'amazzari aloghi, cavagli, no chi el mi (I 6).
Sulla scorta della serrata analisi della Lazzerini (allo studio della quale
rinviano i numeri delle pagine) non c'è dubbio che tutti i principali fenomeni del
mistilinguismo veneziano-greco erano già noti: la sonorizzazione della labiale,
dentale o velare sorda preceduta da nasale (p. 52): t a n d i; l'epentesi di nasale
(p. 53): surenla, belenza, venchia, ambuo; la palatalizzazione del gruppo -l j- (p.
61): picudgline, cavagli; la confluenza del che italiano e del καί greco (p. 61):
non solo c h i e, ma anche perché.
Per quanto riguarda le forme verbali si segnala l'estensione della seconda
persona singolare con pronome enclitico (p. 63): nol besogneu, mi seu; gli infiniti
in -a r o (p. 63): p a r l a r o.
Da questo lato, dunque, nulla che non sia già stato documentato.
Che la commedia del Fenarolo possa essere l'ultimo degli esempi teatrali, in
cui il greghesco abbia una sua parte, ci pare confermato dalla sua completa
estraneità all'ambiente, dove esso, con una completa sintonia degli
autori/attori, perfettamente uniti nell'impresa, è stato ampiamente sperimentato,
incontrando l'appagante accoglienza del pubblico. Marin Negro, tentando di
recuperarne l'atmosfera oramai perduta, nel prologo della Pace tesse l'elogio
(che pare funebre) dei grandi nomi di questo teatro, rievocando i tempi andati
(ci scusiamo per il ricordo di un passo citatissimo): le comedie oggidd sono
venute in tal conditione ch'ogni vil scioccarello ardisse d'imbrattare carte, e alle
sue goffarie dare titolo di comedie, e ogn'uno gli corre dietro, come vedete qui,
talché per questo io [parla l'ombra di Gigio Artemio] pienamente lodo il
piacevole, e pieno di soggetto, messer Antonio da Molino detto Burchiella, e il
famoso messer Andrea Calmo, e l'ingenioso e gentil messer Pietro d'Armano, se
s'hanno con honore di tal carico levati.
Niente di tutto cie nel Fenarolo (uno di questi scioccherelli?), che non ritiene
di aver debiti da pagare ai suoi predecessori, né di ricordare i suoi maestri,
almeno il Calmo, dal quale trasse tanti motivi e lo stesso suggerimento d'introdurre un personaggio greco.
La grande stagione del teatro con inserti gregheschi era oramai finita e
nell'epigono ne avvertiamo solo un'abile, ma scialba riproduzione.
A conclusione di questo rapido accenno all'estinzione di tale parlata, che,
per quanto artificiosa, aveva incontrato per qualche decennio il favore degli
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spettatori, possiamo chiarire che il suo impiego sulle scene è stato il primo a
cadere (salvo la scoperta futura di qualche altro testo fin qui sconosciuto);
toccherà poi alla poesia con le ultime prove del venerando Burchiella, che
mostrava di comporre ancora nel 1572, quando aveva settantasette anni,
accettando l'ipotesi del Fabbri, che sia nato intorno al 1495. Infine tocce alla
prosa extrateatrale che, in realtà, non aveva mai dato grande segno di vitalità
nella precedente letteratura greghesca, con una lunga novella - esempio
singolare, tardo e isolato - di Celio Malespini (la II 54 delle Duecento novelle
pubblicate a Venezia nel 1609), nella quale ha una larga parte un servitore
greco, che si esprime nel greghesco della tradizione soprattutto teatrale, ma
oramai tarda e sterile collazione di termini e locuzioni di accatto, non più intese
nel loro significato: Lucia Lazzerini, studiando le varie lezioni della locuzione
cach_ labernachi, risolta come κακc λαµπρή νά’ χης ‘che tu abbia la mala
pasqua’, ha dimostrato che questa espressione nel brano malespiniano si era
oramai ridotta a una “intrusione gratuita”, che nulla poteva più dire sul valore
greghesco della formula. Siamo all'ultimo atto di quella felice esperienza
letteraria.
BIBLIOGRAFIA DEGLI AUTORI CITATI
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- , La Pozione, Venezia 1552.
- , Rhodiana, Venezia 1553.
- , Le giocose moderne et facetissime Egloghe pastorali, Venezia 1553.
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- , “Esperienze ed esperimenti plurilinguistici”, in Storia della cultura veneta,
vol. 2, Vicenza 1980, pp. 183-213.
- , “ 'I fatti, e le prodezze di Manoli Blessi strathioto': titolo e nomi imitati o
parodiati?”, Quaderni veneti 29 (1999), 177-179.
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1.
Piermario Vescovo
Anzitutto una preliminare ripartizione del campo, nel rapporto tra l'argomento sul quale mi è stato chiesto di intervenire e il titolo che reca questo
incontro, dedicato alla dimensione europea della commedia dell'arte. Sul
secondo e generale fronte sono certamente tra coloro che parteggiano per un uso
ristretto della categoria di “commedia dell'arte”. Un uso che distingua, anzitutto,
dalla storia il mito del XIX e XX secolo - confusione che permetteva ad
Allardyce Nicoll di intendere in maniera tanto inattendibile quanto eloquente
commedia dell'arte come “commedia della bravura” - dal significato originario
dell'etichetta, o quantomeno, da quello acquisito nel suo emergere dal gergo delle
c o m p a gnie teatrali, a quanto sappiamo, verso la metà del XVIII secolo, dunque
nel suo identificare qualcosa che altre definizioni o categorie non bastavano a
definire.
Per la necessità prioritaria in campo storiografico di separare l'esperienza
reale delle compagnie professionali italiane dal mito retrospettivo di un teatro
delle maschere, dell'improvvisazione, del primato corporale e acrobatico, basti
rinviare al testo fondamentale di Ferdinando Taviani, Il segreto della Commedia
dell'arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVIII e XVIII secolo
(Firenze 1982: con ricca antologia di letteratura storica e critica a cura di Mirella
Schino). Altre ricerche, negli ultimi decenni, hanno cominciato a tracciare una
storia dell'esperienza delle compagnie professionali italiane tra la fine del XVI e
del XVIII secolo, fuori da un raggio semplicemente erudito, nell'ambito più
vasto della storia del teatro a statuto commerciale europeo (su questo fronte
ricorderò il libro, assai rilevante, di Siro Ferrone, Attori mercanti corsari. La
commedia dell'arte in Europa tra Cinque e Seicento, Torino 1993).
Per quel che riguarda, molto più modestamente, i miei interessi di studio in
questo settore, mi sono occupato circa un decennio fa soprattutto della questione del significato originale dell'etichetta, tra Goldoni, Baretti e Gozzi, che identifica nel linguaggio di mezzo Settecento non una categoria e nemmeno una
tradizione, ma a delle pièces particolarmente diffuse, come Il Convitato di pietra
o Pantalone mercante fallito. Nel suo apparire sempre al plurale - le commedie
dell'arte o anche, per sciogliere ogni dubbio, parallelamente le commedie del
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mestiere - il termine si riferisce non a un fenomeno ma a dei titoli, a pièces di
tradizione attoriale in quanto lungamente trattate, assorbite nel repertorio, e
“senza autore”; pièces rappresentate in ogni dove, nelle minime città di provincia
e nelle grandi capitali europee. [Uso la parola pièces per evitare l'eccessivo peso
letterario del termine “testi” e l'eccessiva immaterialità spettacolare del termine
“spettacoli”; resto risolutamente contrario - spero senza apparire pedante - alla
recente e inessenziale diffusione in italiano del termine “pezzo”, soprattutto per
superficiale e cattiva ricezione dal tedesco S t ü c k].
Alle prime attestazioni letterarie che ci risultano - per esempio ne Il teatro
comico di Carlo Goldoni (1750) o nell'Account of the manners and customs of
Italy di Giuseppe Baretti (1766) -, l'impiego di un termine tratto dal gergo degli
attori serve sempre a un riferimento al repertorio e alla tradizione. Impiego
polemico nel caso di Goldoni, nell'atto di teorizzare un teatro riformato, nelle
affermazioni che mette in bocca alla sua prima-donna:
Se facciamo le commedie dell'arte, vogliamo star bene. Il mondo è annoia to di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime, e gli
uditori sanno cosa deve dir l'Arlecchino, prima ch'egli apra la bocca. Per
me vi protesto, signor Orazio, che in pochissime commedie antiche
reciterò; sono invaghita del nuovo stile, e questo solo mi piace: dimani a
sera reciterò, perché, se la commedia non è di carattere, è almeno condot ta bene, e si sentono ben maneggiati gli affetti.
Impiego documentario nel caso di Baretti, al fine di dare notizia in una lingua
straniera e a un pubblico straniero e diverso - quello inglese - di un fatto caratterizzante un costume e una cultura:
commedie dell'arte: a cant name for those burlesque plays substituted to
the commedie antiche
Due passi, peraltro, che mostrano un'opposta polarizzazione di nuovo e
vecchio: per il riformatore Goldoni “vecchia” è la tradizione attoriale, mentre il
nuovo stile è quello della riappropriazione d'autore del testo drammatico; per
Baretti, al contrario, “vecchia” è la tradizione letteraria della drammaturgia
italiana dei secoli passati e “nuova”, perché più recente e perché caratterizzante,
l'esperienza del trattamento attoriale del testo offerta dal teatro di mestiere.
È evidente che queste definizioni - che pure si appoggiano all'uso tradizionale
e al plurale del termine - contengono un'idea di teatro che supera la mera
demarcazione offerta dall'etichetta d'uso. Per un esempio, davvero decisivo, di
svolgimento - e di una codificazione al singolare - il passo fondamentale mi
sembra spettare a Carlo Gozzi, che in una pagina del suo Ragionamento
ingenuo (1772) si riferisce non a una o più pièces di tradizione ma a un modo
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t r a d i z i onale di concepire, in generale, il testo drammatico, proprio alla tradizione attoriale italiana:
La commedia improvvisa, detta commedia dell'arte, fu sempre la più utile
alle comiche italiane compagnie. Da trecent'anni ella sussiste. Fu combat tuta in ogni tempo, e non perì mai. [...] La commedia dell'arte sussiste
nell'Italia, e nel suo vigore, ad onta delle persecuzioni assai più ridicole
della commedia dell'arte.
Più in là, al principio del XIX secolo, nella sua ultima opera-testamento - L a
più lunga lettera di risposta che sia stata scritta - il vecchio conte Gozzi riconoscerà lucidamente la morte ormai irreversibile di quella tradizione: I poeti non
hanno più necessità di urlare contro il genere comico alla sprovveduta. Quel
genere non è oggidì che uno scheletro senz'anima imputridito e schifo. Il rincaro
a forti tinte - nel paragone con la decomposizione corporea - è naturalmente un
passaggio essenziale per il tentativo di una resurrezione di quel corpo dalla
storia alla leggenda, dalla tradizione al mito. Già la generazione romantica
stava, infatti, raccogliendo dalle mani dell'ottuagenario quel lascito testamentario, che è anche l'atto di nascita - io credo - del mito della commedia dell'arte.
L'etichetta commedia dell'arte - definizione senza virgolette d'intonazione
gergale - è, dunque, in questa postfazione che Gozzi scrive per la seconda
edizione delle sue opere, all'inizio del nuovo secolo, un dato centrale e capace di
polarizzare intorno a sé il ventaglio dei sinonimi, delle definizioni nuove e
antiche. Ecco, dunque, in queste importantissime pagine - assai trascurate dalla
critica - un uso per lo più raddoppiato o rinterzato dagli aggettivi accessori, in
sfumature volta a volta diverse, nonché significative variazioni per sostituzione:
commedia improvvisa dell'arte italiana, commedia improvvisa italiana con le
maschere, farsa improvvisa dell'arte, farsa dell'arte all'improvviso, farsa dell'
arte italiana all'improvviso con le maschere, e così via. Questa perpetua sfaccettatura non avrebbe senso, naturalmente, senza la parallela insistenza sui tratti di
una definizione che scivola volentieri dalla storia (cioè dall'osservazione
puntuale dell'organizzazione del teatro professionale di un tempo) all'idealizzazione: hanno qui ruolo dominante i caratteri di una antichità leggendaria del
fenomeno, di una assoluta popolarità, di una ingenuità o innocenza prevalenti
anche nel trattamento di materia volentieri licenziosa e lubrica. Così la
commedia dell'arte assume i tratti di un “materiale, popolare, caricato, allegro e
innocente divertimento scenico”, da opporre al teatro della sottoletteratura e alla
cultura improntata al fanatismo e alla cupidigia che esso esprime. E qui, si
converrà, ci sono già tutti gli ingredienti delle plurime rinascite moderne.
Lo scivolamento semantico da una definizione del gergo dei comici - “pièces
particolarmente diffuse nel repertorio delle compagnie professionali italiane”
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(nel senso corporativo che la parola arte ha nell'italiano antico) - all'identificazione generale e retrospettiva di una cultura teatrale - la tradizione del teatro
professionale italiano di tradizione attoriale, col suo primato del ruolo-maschera e della recitazione all'improvviso tra la fine del XVI secolo e la fine del XVIII
secolo - e ancora alla mitizzazione di quell'esperienza nella sua perenne reinvenzione, dall'Ottocento romantico alle avanguardie del Novecento, fino alla per lo
più piatta routine dei nostri giorni, è un tracciato troppo ampio per pensare di
illustrarlo qui minimamente. Ci basta averlo richiamato, nello stesso modo in cui
si può additare una carta geografica di un territorio di grande estensione, all'atto di vedere come e in che modo possiamo cercare di reperire in questa superficie la regione o la provincia di cui dobbiamo qui occuparci.
2.
La prima tentazione - che manifesterebbe però un sussiego vicino all'incapacità di comprendere, tipica dello studioso “settoriale” - potrebbe essere
quella di respingere del tutto l'accostamento, giudicandolo non pertinente, tra
il teatro plurilinguistico di Andrea Calmo e compagni e la “commedia dell'arte”. Respingerlo anche in nome delle semplificazioni indebite che si sono
spesso operate confondendo un'esperienza precisa e limitata a una, spesso,
generica e indifferenziata. La cittadella della tradizione plurilinguistica
veneziana non si trova, ovviamente, nella carta geografica della “commedia
dell'arte”, per le semplici e concomitanti ragioni che questa tradizione precede
cronologicamente le prime documentate presenze di compagnie professionali, perché i suoi personaggi più importanti - come Andrea Calmo - non furono
comici di professione - nonostante le sciocchezze che ancora si leggono in
certa, spensierata, letteratura critica -, perché in questa tradizione, poniamo,
non recitavano donne e non si usavano, a quanto sappiamo, maschere, e per
il fatto che questa drammaturgia ci è testimoniata come una tradizione
spettacolare comunque stabilita sul primato del testo letterario.
Però, se è in sé corretto stabilire in questi termini un riconoscimento di
extraterritorialità, marcando storicamente territori e distanze, è altrettanto
importante comprendere perché è lecito ragionare su questo terreno - che
viene prima o poco prima - per avvicinare quello che comincia la sua lunga
estensione dopo, o poco dopo. Così come l'osservazione attenta della nascita
e dell'apparizione di un'etichetta nel linguaggio diffuso - quella di “commedie
dell'arte”, appunto - funziona un po' da definizione in articulo mortis di
un'esperienza bisecolare, nell'atto del suo superamento o del venir meno dei
suoi presupposti fondativi, così è importante, forse indispensabile, cercare di
comprendere - fuori da ogni facile prospettiva delle “origini” o delle “premesse”, sempre viziata da semplificazioni evoluzionistiche - i nessi culturali che
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stanno immediatamente al di qua di un'esperienza, quella del teatro italiano
a statuto commerciale, che si irradia potentemente nel giro di pochi decenni
nei numerosi piccoli stati che formavano l'Italia pre-unitaria e nei grandi
stati europei. L'argomento è di enorme estensione e non intendo, ancora una
volta, affrontarlo nello spazio di pochi minuti o poche pagine; mi limito
dunque a citare uno splendido passo - in un contributo, a propria volta, di
sintetica e generale illuminazione storica a largo raggio - che contiene alcune
delle cose che è essenziale sapere e ricordare e - per continuare il precedente
paragone cartografico - per disporre di una sorta di bussola storica che ci
indichi la giusta direzione di viaggio. Il passo è tratto dal fondamentale
saggio di Carlo Dionisotti, “La letteratura italiana nell'età del Concilio di
Trento” (nel volume Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967,
p. 248), che presenta l'eccezionale fase espansiva e associativa, e quindi le
sue chiusure, nel panorama della cultura italiana di metà Cinquecento:
Conseguentemente, e necessariamente, si aprivano fratture a taglio
netto, si instauravano definizioni e classificazioni esclusive, là dove
era stata una mediocre e confusa, e però anche fertile e cordiale concor dia discors vent'anni prima. Fra gli esempi che possono addursi di
questo generale processo, ricorderò quello che a prima vista pare più
lontano e che è invece caratteristico e di fondamentale importanza: il
distacco e precipitazione che in questi anni avviene, dalla letteratura
militante in un teatro di mestiere, letterariamente irresponsabile, della
commedia dell'arte, e per essa di vitali, se anche incomodi e inquietan ti, fermenti drammatici e satirici che a quella letteratura appartenevano.
La generazione di Andrea Calmo (nato nel 1510) è, dunque, quella
contrassegnata da questa fondamentale espansione e associazione della
cultura italiana e, insieme, dai primi segni di questa chiusura e precipitazione.
Questa generazione viene, anzitutto, al mondo e in esso muove i suoi primi
passi quando la stampa è divenuta già un'industria fiorente e ha rivoluzionato
le modalità di circolazione e di ricezione della letteratura, quando la lingua
italiana si mette a punto - da Venezia e dalla codificazione bembiana sul
toscano delle “corone” trecentesche - come lingua della comunicazione e della
letteratura, decretando la recessione in seconda posizione del latino
umanistico, già lingua che aveva imposto la cultura italiana all'Europa. Sul
fronte del teatro - dopo la generazione di Angelo Beolco detto il Ruzante,
tanto per fare un nome prossimo e vicino -, la riscoperta del modo drammatico
e dell'esperienza scenica, proprio in questi anni, segna quella necessaria
specializzazione e invenzione dei ruoli di scena e del compattamento della
figura dell'autore-attore senza cui sarebbero impensabili le associazioni
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corporative come avvio di un “mestiere del teatro”.
Riassumendo brevissimamente le direzioni di ricerca che mi hanno
impegnato nel corso soprattutto degli anni ottanta e della prima metà degli
anni novanta - parallelamente all'impegno editoriale sul fronte del teatro
plurilinguistico di Andrea Calmo - potrei dire di essermi concentrato, da una
parte, in un lavoro di ricerca documentaria e, insieme e conseguentemente, di
riduzione dalla storia di una tradizione alla storia di una compagnia (i miei
saggi sull'argomento sono rifusi e ripensati nel volume Da Ruzante a Calmo.
Tra “Signore Comedie” e “Onorandissime Stampe”, Padova 1996). La ricerca
documentaria - a partire dalla collocazione borghese di Andrea Calmo, figlio
di un tintore e a sua volta proprietario di una tintoria, membro del gruppo
dirigente della Scuola Grande di San Marco - ha permesso di ricostruire la
storia di una tradizione come, in sostanza, la storia di un gruppo accademico
dedito alla letteratura, al teatro e alla pratica scenica e alla musica e, dunque,
di ricondurre all'ambiente della Scuola dei Liquidi tutte le maggiori esperienze di punta della tradizione plurilinguistica veneziana e veneta di mezzo
Cinquecento, poiché a questo consesso appartennero e collaborarono - anche
sulla scena - accanto al Calmo, personalità come il veneziano Antonio da
Molin detto Burchiella (che Lodovico Dolce ricorda come il “primo” a “mutare
in più lingue” le commedie) e il rodigino Gigio Artemio Giancarli.
La storia della commedia plurilinguistica veneziana si riduce, di
conseguenza, dalla storia di una tradizione alla storia di una compagnia preprofessionale, dei suoi fondatori (Calmo, Molin, Giancarli) e dei loro
continuatori-imitatori (Negro, Fenarolo, ecc.). Così - per quanto riguarda il
motivo implicito di caratterizzazione in rapporto alla sede del presente
incontro - la storia del greghesco, cioè dell'invenzione teatrale e letteraria
forse più mirabile e caratterizzante della storia del plurilinguismo veneziano
del Cinquecento, è anzitutto la storia del registro inventato - sulla scena, sulla
pagina scritta, infine nell'ambito della scrittura musicale, tra gli anni '30 e gli
anni '70 del secolo - da uno dei fondatori dei Liquidi, quello a cui Andrea
Calmo in una delle sue Lettere si rivolge come il compagno fondamentale di
attività, il già ricordato Antonio da Molin, il Burchiella. Accanto alla specialità del Calmo nella parte del vecchio veneziano proto-Pantalone - e della sua
più ampia pratica, in prosa e in versi, di un bizzarro veneziano arcaico, di
remota e burlesca fondazione lagunare e isolana, irto di chiazze di latino
grosso e di linguaggio avvocatesco -, noi possiamo seguire quelle di Antonio
da Molin, impegnato nelle commedie di Calmo e Giancarli nei ruoli assortiti
dei personaggi che si esprimono in greghesco, e fuori, come autore del
rilevante poema I fatti e le prodezze di Manoli Blessi stratiotto, fino all'invenzione del genere musicale della “greghesca”.
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LA COMMEDIA DELLE LINGUE SULLA SCENA VENEZIANA DEL SECONDO CINQUECENTO
Mentre Giancarli - pittore, letterato e attore, autore de La capraria e La
zingana - muore presumibilmente all'inizio degli anni cinquanta, Calmo e
Burchiella - insieme ad altri compagni di recite - risultano a questa data
essersi ritirati dalle scene. Non è questa la sede per percorrere, nemmeno per
grandi linee, la storia di questa esperienza e di ragionare sulle possibili cause
della fine della pratica attiva del teatro. Ma è certamente istruttivo che il
compito di invenzione e sperimentazione di questo gruppo e di questa generazione si arresti a questo punto, sulla soglia del principio dell'esperienza del
teatro di mestiere. La prima “commedia dell'arte” batterà non solo le piste dei
Liquidi, in un'imitazione spesso serrata, ne erediterà esperienze, strutture
comiche, repertorio e fondazione dei ruoli, ma riceverà tutto questo - come
abbiamo sentito nel passo sopra citato di Dionisotti - al seguito di una caduta
o di una precipitazione, di una divisione di saperi e ruoli, che rappresenta il
vero spartiacque tra la pluricompetenza di questi dilettanti e la determinazione di un mestiere, che è prima e piuttosto una chiusura e un depauperamento
- lo si ricordi, fuori dalle mitologie retrospettive - che un'investitura o un
ampliamento di esperienza.
3.
Tra il prima della fase espansiva e associativa e il d o p o della ripartizione
professionale molti fili potrebbero essere oggetto di analisi riavvicinata,
riconoscendo all'esperienza veneziana appena descritta il valore di un campo
privilegiato di osservazione. Elementi di continuità e discontinuità potrebbero
essere, in questa direzione, oggetto di applicazione non generica, proprio a
partire da una preliminare distinzione storica: il rapporto tra l'orizzonte
letterario-spettacolare e la riduzione a moduli di repertorio; l'invenzione di
specialità di scena e la pratica dei ruoli con la loro chiusura e codificazione
nella definizione di un organico di compagnia; il teatro riflesso nell'opera
letteraria (come mostrano le Lettere del Calmo o il poema di Molin-Manoli
Blessi) e la riduzione di quella letteratura a g e n e r i c i, a prontuari per battute e
situazioni sceniche da parte dei comici di mestiere; la pluricompetenza di un
gruppo scelto di uomini di spettacolo dilettanti e la determinazione, o chiusura, di tecniche professionali, e così via. In questa sede - anche per la comodità
di riprendere cose già scritte e per la specifica caratterizzazione di questo
incontro e della sua sede - proverò a soffermarmi brevemente sul fatto tra tutti
caratterizzante questa esperienza, la pratica del plurilinguismo comico, come
dato di rilevante differenza ma anche come elemento per tentare un'ulteriore
ripartizione del campo.
La restrizione della commedia plurilinguistica, nel senso più appropriato del
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termine, all'interno di una generale e larga caratterizzazione in senso parodistico ed espressivo del registro linguistico e dell'imitazione dei diversi linguaggi, come pure di una più o meno “organica” presenza dei dialetti sulla scena,
può essere forse descritta con un'opposizione che ho provato, per necessità
pratica di distinzione, a mettere in campo qualche anno fa, nelle ricerche sopra
ricordate. Si tratta, naturalmente, di una formula argomentativa, che sacrifica
la ricchezza e l'individualità della storia alla necessità di una descrizione
sintetica, che però, se ovviamente schematica e selettiva, non mi sembra falsa.
Si tratta della differenza di questo plurilinguismo, che chiamerei “connotativo”, all'interno della vastissima estensione di un plurilinguismo inteso come
risorsa essenzialmente “simulativa”.
La differente complessità che questa circoscritta stagione della sperimentazione comica veneziana pone consiste in una funzionalità meno ovvia e
scontata di quella che generalmente risulta dal quadro medio, prima e dopo, di
una secolare esperienza di imitazione, in proporzione deformata dalla finalità
comica, delle parlate “straniere”. Gli oggetti - anzitutto il greghesco, quindi lo
schiavonesco, ma anche le applicazioni al tedesco o all'arabo, che troviamo
come risorse particolari, probabilmente legate a singoli interpreti, in alcune
commedie di questo àmbito - sono dei linguaggi, certo artificiali, costruiti
come vere e proprie lingue comiche di scena, ma che presumono una attenta
osservazione e ricreazione delle lingue reali. I testi del Calmo e del Giancarli
che ci sono giunti - più in là della semplice risorsa del riso suscitato dalla
simulazione eterolinguistica - riescono infatti a realizzare quello che Manlio
Cortelazzo ha definito un comico dell'equivocità interlinguistica. Motore di
questo comico non è la semplice imitazione di alcuni tratti caratterizzanti una
lingua - procedimento che si applica spesso e ovunque - ma una meditazione
sull'interferenza del sistema linguistico primario dei personaggi fatti agire in
commedia sul sistema linguistico per essi secondario, che è invece la lingua
del pubblico; la lingua che essi, semplificata come una base di lingua franca,
tentano di parlare è quella su cui poggia la comunicazione (tanto di questi
personaggi con altri personaggi che di questi personaggi col pubblico). Parlanti
inevitabilmente goffi e maldestri, per l'ufficio comico loro riservato, i protagonisti e i comprimari alloglotti di queste commedie risultano sì comicamente
messi a malpartito dalle difficoltà della comunicazione, ma capaci di assicurare tuttavia agli altri personaggi e agli spettatori un livello sufficiente di
comprensione. Queste lingue sono, dunque, costruite anzitutto secondo una
caratterizzazione fonetica e morfologica a partire dall'interferenza delle
“lingue in contatto” nel parlar franco (secondo una sintassi e una grammatica
semplificate); secondariamente caratterizzate da non banali inserti alloglotti,
che comprendono le espressioni più comunemente diffuse e note ma anche
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inserti complessi; un sistema di autoglossa - che sulla scena sarà stato
ovviamente amplificato da un sistema mimico di relazione e traduzione - offre
infine una restituzione più o meno approssimativa - per quanto il personaggio
sa e può - nella lingua di chi ascolta.
Questa complessità è ovviamente estranea alla contraffazione che abbiamo
definito “simulativa”, che ha per lo più proporzioni brevi, che imita le risorse
meramente “coloristiche” delle altre lingue, addirittura prescindendo dal
contenuto semantico, o che distribuisce su una parlata altrimenti “normale”, o
storpiata entro termini del tutto convenzionali, una serie di tratti distintivi
come una patina comica. É nel quadro di risorse, appunto, eminentemente
simulative che rientra la tradizione buffonesca che precede - e che certo affianca - i tempi di Calmo e sodali, come poi la secolare tradizione delle caratterizzazioni linguistiche anche nella cosiddetta commedia dell'arte, in cui agirono
certo e la simulazione fonetica senza contenuto semantico - una direzione che
sembra testimoniata da quella che viene descritta già come una specialità
monologica dei buffoni veneziani: il vespro o brigata di voci - e la generica
caratterizzazione fonetica che traveste, come per esempio francesi, inglesi o
spagnole, le parlate di molti personaggi.
4.
Questa rapidissima descrizione sembrerà, al contrario dell'assunto iniziale,
voler seccamente opporre un uso “modulato” dei registri plurilinguistici - che si
esprime nella caratterizzazione di speciali lingue di scena e nel loro plurimo
scambio comico nel dialogo teatrale -a una comune risorsa delle lingue
“stroppiate”, che caratterizza in larga parte il teatro di tradizione attoriale italiana o, almeno, il suo versante più noto e visibile. In realtà l'opposizione ora messa
in campo - in nessun senso esclusiva - si potrebbe meglio intendere come riferibile alla densità di un procedimento: non si tratta, infatti, di stabilire l'estraneità
totale alla bisecolare storia del teatro comico italiano dei professionisti a un
plurilinguismo “modulato”, quanto la minorità di questa risorsa - elettiva,
invece, per l'esperienza della compagnia dei Liquidi - rispetto ai più diffusi
tracciati della “simulazione” linguistica.
Soprattutto la breve descrizione offerta nel paragrafo precedente intendeva
mettere in campo una questione più ampia, che è forse la vera questione del
nostro argomentare: quella della caratterizzazione linguistica che oppone un
prima e un dopo rispetto a una bisecolare tradizione del teatro italiano che per
comodità possiamo comprendere sotto il nome di commedia dell'arte, almeno nel
senso in cui una “commedia delle lingue” diventa patrimonio dell'organizzazione professionale della commedia.
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L'opposizione più ampia - e che davvero appare tra i tratti essenziali della
storia del teatro italiano - è quella tra monolinguismo e plurilinguismo, e che
riguarda anche, più generalmente, la difficoltà dell'impiego dell'italiano come
lingua del teatro e la plurima ricchezza delle letterature dialettali in rapporto alla
scena. La caratterizzazione in un ampio ventaglio di lingue distingue la tradizione italiana da altre tradizioni, anche e in particolare nel plurilinguismo riferito
all'assortimento delle parti fisse che caratterizza la “commedia dell'arte”. Come
la scelta monolinguismo/plurilinguismo (ovvero: caratterizzazione linguistica
non imitativa o imitativa dei personaggi) s'imponga agli snodi essenziali della
storia teatrale italiana - e grossomodo, potremmo dire, specialmente prima e
dopo la commedia dell'arte - vorrei mostrare riprendendo qui un'esemplificazione, di cui mi sono già servito in altra occasione, che coinvolge due scritture di
carattere apologetico: due testi composti a Venezia a difesa dai pregiudizi del
pubblico, di fronte a un medesimo problema, visto però da due prospettive
diverse, rese opposte dalla tradizione intercorsa, a distanza di due secoli.
All'autore del secondo testo - Carlo Goldoni - il primo non era senz'altro noto,
e il fatto di ripassare per le medesime argomentazioni, invertendole completamente di segno, può essere un indice per cercare di comprendere quanto accaduto tra l'una e l'altra testimonianza. Nel 1546, dovendo presentare al pubblico
veneziano Il Travaglia, Andrea Calmo ricorre alla penna di un'illustre difensore,
il teologo domenicano Sisto Medici. La difesa considera, dunque, anzitutto le
regioni degli avversari del plurilinguismo, presentandole come legittime:
So che li vostri generosi spiriti amano le comedie di subbietti arguti e
giocondi, ma però di casi facili da intender con parole cotidianamente
u s a t e, dove le persone da diverse patrie parlino nel nostro idioma in
modo che noi rallegriamo i spirti e faciamo solletico e gatuzole alle
orecchie del cuore.
Si tratta di una sintetica descrizione del principio monolinguistico, secondo
cui la lingua resta sempre quella del pubblico quale sia lo statuto linguistico dei
personaggi che agiscono in scena. Ma a questa convenzione viene subito opposto
un principio di inverosimiglianza, che riguarda non tanto le azioni uniformabili
nel segno convenzionale della lingua di chi ascolta - una commedia tutta di greci
o inglesi o francesi e che, quindi, parleranno uniformente in italiano - ma,
diciamo così, il differenziale linguistico che alcuni personaggi pongono rispetto
alla loro immediata estrazione dalla quotidianità, al luogo del contatto e dello
scambio, e quindi della confusione e della mescolanza, delle lingue. Il luogo dove
lo “straniero” deve esprimersi attraverso una lingua che non gli appartiene e che
spesso non domina:
Vorrebono costoro [i detrattori del plurilinguismo] che un greco o dalmati A 36
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no, parlando in italiano, favellasse con gli accenti e i modi toscani, il che
non è men fori dell'ordinario che se un bergamasco avesse a parlar in
fiorentino o un fiorentino in bergamasco.
È qui evidente che la scelta del plurilinguismo - anche appoggiandosi alla
reale esperienza della lingua franca - si pone pur sempre all'interno del nostro
idioma: qui lo scarto dalla semplice “simulazione”, che si accontenta di un effetto
coloristico e non consente la modulazione e lo scambio dialogico. Di conseguenza, la scelta di una risorsa più ampia non può che avvenire nella mescolanza
delle altre lingue con l'italiano.
I due modelli di “messa a fuoco” dello statuto linguistico della commedia che
qui Medici brevemente e acutamente descrive - monolinguismo azzerato sull'italiano d'uso e plurilinguismo come espressione di differenze dentro il registro
italiano - dovrebbero essere reciprocamente alternativi, ma in realtà, osservando
il campione reale della drammaturgia del Calmo qui coinvolto, non lo sono.
D'altra parte è evidente, a un'analisi più attenta, che solo uno statuto monolinguistico assoluto abolisce le differenze, mentre l'apertura del plurilinguismo non
può disdegnare non solo l'apertura del ventaglio alle lingue della realtà - che,
evidentemente, il teatro manipola sempre scenicamente - ma della stessa lingua
“artificiale”. E Calmo e compagni - che sembrano partire da un plurilinguismo
organico, dove ruoli e lingue rispondono all'estrazione dalla realtà (bullo di
quartiere che parla in gergo, stradioto che parla in greco, facchino che si esprime
in bergamasco, contadino che parla in pavano, e così via) - imbocca in seguito la
strada che non gli nega alcuna possibilità, tra babele della piazza veneziana
reale e lingua letteraria. Se La spagnolas è una commedia dove tutti i personaggi parlano una lingua diversa - greghesco, todesco, bergamasco, pavano,
veneziano eccetera -, opere di data successiva come la Rodiana e il Travaglia
mescolano personaggi che parlano il toscano letterario (pur essendo di bassa
estrazione sociale, come per esempio i servi) ad altri caratterizzati dalla differenziazione dei registri connotativi. Ciò non perché Calmo non si renda conto della
differenza dei piani, ma anzi, al contrario, perché le sue opere più complesse
sono definite non solo dal comico delle lingue in contatto ma dei modelli in
contatto, facendo reagire, e talora esplodere comicamente, le convenzioni della
commedia d'impianto letterario nell'orizzonte del genere che le riceve.
In fondo, si potrebbe osservare, l'alternanza in compresenza della scelta del
monolinguismo e del plurilinguismo, o meglio della caratterizzazione sociolinguistica e geolinguista, si mostra già operativa nei generi narrativi. Ci sono, per
esempio, alcune novelle del Decameron - tra l'altro, immenso serbatoio di
personaggi e trame per la commedia cinquecentesca - dove alcune piccole coloriture dialettali sono espressive di ambientazioni precise e “realistiche” (per
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esempio nella novella veneziana di frate Alberto, ricca di nomi, toponimi,
circostanze della vita cittadina reale), altre in cui la differenza di livello sociale
e di collocazione geografica dei personaggi sono espresse non dalla caratterizzazione linguistica ma dal livello stilistico della loro parlata: Peronella è napoletana, per esempio, non perché il suo discorso sia chiazzato di qualche napoletanismo, ma perché la scelta stilistica ne caratterizza una maggiore espressività.
Ciò che nella Rodiana e nel Travaglia - o nelle commedie di Giancarli esprime una compresenza di sistemi, tra personaggi che parlano un italiano
stilisticamente caratterizzato e personaggi che parlano lingue che ne caratterizzano il ruolo, è un sistema che si ritrova - semplificato e più rigidamente
organizzato nella determinazione di un organico chiuso di compagnia - nella
tradizione teatrale italiana dei professionisti. Anche qui le lingue caratterizzanti
le maschere e i tipi fissi - il veneziano di coloritura arcaica di Pantalone, lo
pseudo-bergamasco degli Zanni, il bolognese del Dottore, lo pseudo-spagnolo del
Capitano - convivono con la fisionomia linguistica e comportamentale generica
dei personaggi che parlano l'italiano, come gli innamorati, le servette e le mogli
dei “vecchi”.
Ma veniamo al secondo esempio. Rispondendo non solo alle critiche di
piazza ma a una commedia rivale - La scuola delle mogli di Pietro Chiari -, Carlo
Goldoni scriveva nel 1748 un Prologo apologetico alla sua Vedova scaltra. Un
interlocutore immaginario, in ruolo di critico, rinfaccia all'autore ciò che evidentemente gli rimproverava il pubblico: lo sproposito che nella sua commedia “un
inglese, un francese ed uno spagnolo parlano perfettamente italiano”. L'autore
afferma dapprima che ciò può darsi anche nella realtà, ma poi, più pertinentemente, dichiara che questi personaggi non parlano davvero nella commedia in
italiano ma le loro lingue tradotte in italiano, aggiungendo questa massima
riassuntiva: “la lingua non fa la commedia, ma il carattere”. Anche qui è chiaro come per la precedente affermazione del Medici - che la parte avversa, e la stessa
commedia plurilingue (perduta) del Chiari, non pretendevano certo che la
commedia fosse determinata esclusivamente dalla lingua e non dal carattere. La
rinuncia goldoniana a far “balbettare malamente” un italiano misto di lingue
straniere ai suoi personaggi, tocca ancora una volta, in un esempio limite perché il Goldoni più maturo userà spesso, al bisogno, coloriture linguistiche nei
suoi lavori a venire, nel teatro di parola e nel teatro per musica - il problema della
messa a fuoco linguistica e l'opposizione tra statuto monolinguistico e plurilinguistico. Mentre questa opposizione non ha senso in una commedia che prevede
un'uniforme ambientazione linguistica - tutti gli inglesi e i francesi e gli spagnoli
di una commedia ambientata rispettivamente in Inghilterra in Francia o in
Spagna possono parlare indistintamente in italiano - essa è necessariamente
sollevata in una commedia, come è La vedova scaltra, dove il personaggio si
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traveste e simula per esigenze di trama le lingue e i comportamenti dei suoi
assortiti spasimanti. Dunque, in essa:
... gli uditori si figurano di sentirli parlare [i personaggi] nelle loro materne
lingue, [...] che tutti parlino nel proprio loro linguaggio, in italiano tradotto;
e ciò per la più comoda intelligenza di chi l'ascolta, per non far scomparire
il personaggio con parole stroppiate, e per non mettere soverchiamente in
ridicolo le nazioni.
Così la Vedova non parla davvero in italiano, ma le varie lingue tradotte in
italiano:
Ella parla inglese, francese e spagnuolo, tradotto in italiano, come si
intende parlino i tre nazionali, e le ragioni cghe ho detto di loro, fanno per
la Vedova istessamente.
E in questa commedia, addirittura, il dialetto - la lingua materna - va pensato
tradotto in italiano: lo stesso veneziano si trova azzerato nello spazio bianco
della convenzione linguistica unificante. A differenza di quanto osservato per il
caso del Travaglia del Calmo - in realtà a cavallo tra due sistemi che dovrebbero
essere tra loro incompatibili -, la Vedova scaltra, con un'oltranza che Goldoni
non seguirà più nella sua carriera, prova ad applicare fino in fondo un modello,
perdendosi nelle contraddizioni di un sistema autoimpostosi e rigidamente
seguito, come accade non di rado nella storia.
5.
Tra i due esempi che abbiamo messo in campo - o meglio oltre un sistema
di libera pratica del plurilinguismo in una pretesa organica di corrispondenza
di lingue e di caratteri e al di qua di un rigido statuto di azzeramento della
lingua sul carattere - si snoda, dal punto di vista della composizione linguistica,
la compresenza di sistemi - ancorché ripartiti - che caratterizza l'esperienza
del teatro italiano di tradizione attoriale, tra la seconda metà del XVI e la fine
del XVIII secolo. In questa eredità linguistica e nella possibilità di fare proprie
altre lingue di comunicazione “veicolare” con altri pubblici - si pensi al rapportarsi al francese nella secolare esperienza della Comédie italienne come
lingua-base o seconda lingua della comunicazione col pubblico - sta indubitabilmente uno dei nessi essenziali, per tornare al nostro titolo, che caratterizzano la dimensione europea della commedia dell'arte.
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Platon Mavromoustakos
I
have to say right from the beginning that, as it often happens in a conference
orientated towards historical approaches or literary tradition, my paper is situated in the margins of the subject of this meeting organized by professor
Chryssa Maltezou and the Acrinet with this wonderful hosting of the Greek Institute of Venice. It is situated in the margins for an additional reason: my paper refers to acting and performance history rather than textual analysis and
furthermore it has to do with recent, contemporary, developments of theatre
practices instead of presenting events having happened long centuries ago.
I shall also say as an introductory note that tracing influences of theatre
practices from one country's theatre traditions to another country's theatre activities is rather an uneasy task since we have a huge lack of evidence. As you
know national archives give rather an insignificant space for theatrical documents, and the amount of narrative sources on theatre practice is quite rare in
most of the cases, and even if existing, the information given, if it is not dubious, it is not as much detailed as we would desire. This is much more evident
if we refer to Greek theatre, due to obvious historical reasons.
Still we have some rare references that make us believe that there might be
some important moments of encounters between Commedia dell'Arte actors
and practices within the Greek world mainly in the Ionian Islands to be added
to the influences retraced in the Cretan texts.1 Apart the much advertised tour
of Antonio Molin in Corfu and Crete during the 16th century and the performance of La Fanciulla in 1583,2 there are two more intriguing mentions of the
For a complete approach on the problems of theatre historiography in Greece and detailed
bibliographical evidence see W. Puchner, “Μεθ ο δ ολογ ικ οί πρ οβλη µ ατισ µ οί και ιστ ο ρ ικ ές
π ηγές για το ελληνικό θέ ατρο του 18ου και 19ου αιώνα. Προοπτικ ές και διαστά σ ει ς ,
περ ιπ τ ώ σ ει ς ", P a r a b a s i s 1 (1995), 11-112.
2
See N. Panayotakis, “^O Antonio Molino στcν Κέρκυρα, στcν Κρήτη καd στc Βενετ ί α” ,
Ariadni 5 (1989), 261-278, and idem, “Le prime rappresentazioni teatrali nella Grecia Moderna: Antonio Molino a Corfù e a Creta”, Thesaurismata 22 (1992), 245-360. See also St. Kaklamanis, “^H χρονολόγηση τοÜ Κατσούρµπου”, in ‰Eρευνες γιa τe πρόσωπο καd τcν âποχc τοÜ
Γεωργίου Χορτάτση, Iraclion 1993, pp. 35-37.
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involvement of Greeks with Commedia dell'Arte provided in quite dubious
sources for the 17th and 18th century consecutively.
The first reference is provided from a book written in 1929 by Pierre Louis
Duchartre mentioning a Greek Commedia dell'Arte group in Paris that has supposedly given performances of comedies, farces and ballets in 1624.3 This unverified information, to my knowledge up to now, having not left any trace in important research works concerning theatre activities in 17th century Parisian
theatre life might be something that needs to be explored. If more information on
the matter could be gathered it would be very interesting to discover such a group
of actors as it is concerning quite an early age of Greek theatre history.
The second information, also unverified, is provided by the Mémoirs of
Giacomo Casanova. Casanova in his chapters where he describes his life in
Corfu, most probably between 1745 and 1747,4 a period where the decadence
of the Commedia dell'Arte, as a very popular genre, was obvious in Italy and
the whole of Europe. It is true that we have concrete evidence for theatre activity in Corfu for the introduction of the opera in the year 1733 and much more
evidence for a continuous theatre life after 1770.5 Still there is no significant
evidence for theatre activities in Corfu during the 1740s. Casanova, in love
with the wife of an Venetian official, as usually desperately, in order to fulfil
her desire for theatre during the period of the carnival decided to travel to Italy
and bring a theatre group for her entertainment. Following his writings he arrived in Otranto where he found a Venetian group of actors. He says: It was a
pleasure for me to see a Venetian whom I knew, who was playing Pantalone,
three female actresses that could make people like them, one Policinella and
one Scaramucia, and the whole looked quite satisfying.6 Following the records
kept in the Archives of Corfu it is impossible to verify if an Italian group arrived in this island due to the Casanova ef f o r t .7 So we can still have a wishful
thinking that some day we might find some concrete evidence on this event.
After the 18th century we have no other mention of any Greek performance
that has to do with the Commedia dell'Arte groups or Commedia dell'Arte techniques. Furthermore if we find any evidence for that type of performances our
P. L. Duchartre, The Italian Comedy, New York 1966, p. 77.
J. Casanova de Seingalt, Mémoires. Histoire de ma vie, Paris 1993, chapter XIV, pp. 176-238.
5
On the matter see P. Mavromoustakos, “Το ιταλικό µελόδραµα στο θέατρο Σαν Τζιάκοµο της
Κέρκυρας (1733-1798)”, Parabasis 1 (1995), 147-191.
6
Je vis avec plaisir un Venitien que je connaisais et qui jouait Pantalon, trois actrices qui pouvaient
plaire, un Polichinelle, un Scaramouche, et le tout me parut assez passable (in Casanova,
Mémoires, op. cit., pp. 224-227).
7
On the matter see Puchner, “Μεθοδολογικοί προβληµατισµοί”, op. cit., 80; Mavromoustakos,
“Το ιταλικό µελόδραµα”, op. cit., 161.
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idea on Greek theatre practice history would not change. The Commedia dell'Arte never penetrated in a significant way Greek theatre practices but we can
only retrace some echoes of the characters in several of the Greek texts.
We have to wait until almost the end of the 20th century to find, in a
strange way, concrete interest for Commedia dell'Arte. It is quite funny to see
that this interest for Commedia dell'Arte is due to the revival of the interest
of Greek theatre practitioners for Carlo Goldoni, the writer to whom European history is indebted the great reform of the Commedia dell'Arte and the
final transformation of the genre.
The influence of Goldoni in Greek theatre is much more important dating from
the 18th century due mainly to translations of his plays and some quite early
performances of his opera librettos in the island of Corfu.8 Performing Goldoni in
the 19th century is relatively frequent9 and the same goes for the first years of the
20th century. But really frequent presentation of Carlo Goldoni's works by Greek
scenes is obvious within the last 35 years of the 20th century and this fact is
clearly illustrative of the Venetian author's growing popularity. It must be noted
that this recent trend in the repertoire choices of Greek theatrical companies is
the end product of a long-term speculation that can be detected in the European
scene from the start of the previous century. At the same time, we must also state
that the scenical approach in the Goldonian plays was determined from the initial questioning that characterized the first performances in our century. Furthermore we could say that this new approach of Goldoni's collective works was essentially determined by two different approaches, opposing at most, but also onesided (partial). On the one side we are in a position to detect a naturalistic approach (without doubt C. Stanislawski and the performance of Locandiera by the
Art Theatre of Moscow introduced this trend into the European scene); on the
other hand we can recognize an approach that is based on the image that the
20th century formed for the stylisation of the Commedia dell'Arte acting (the
emergence of which can be largely attributed to the director Max Reinhard and
the performance of Il servitore di due padroni in 1923). These two different approaches would come to determine Goldoni's treatment until recent times.10
See Mavromoustakos, “Το ιταλικό µελόδραµα”, op. cit., 165.
On Goldoni and his inf luence during the 19th century see D. Spathis, Ο διαφωτισµός και το
νε ο ελληνικό θέατρο, Thessalonica 1986, more specifically his paper “Gheorgios N. Sutsos
traduce/riadatta Guarini, Metastasio, Goldoni” delivered at the conference Testi letterari italiani
tradotti in greco (dal '500 ad oggi), ed. M. Vitti, Messina 1994, pp. 163-172 and Anna Tabaki, Η
νε ο ελληνική δραµατ ο υ ργία και οι δυτ ικές της επιδράσεις (18ος-19ος αι.). Μια συγκριτική
προσέγγιση, Athens 1993.
10
A clear and complete evaluation of tendencies in modern direction is provided by B. Dort in
“Pourquoi Goldoni ajourd'hui”, Théâtre Réel, Essais Critiques 1967-1970, Paris 1971, pp.78-91.
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A fresh outlook to his works came with the consecutive directions of Il
servitore di due padroni by Giorgio Strehler who provided the Italian and the
European public one of the most important performances of the century,
returning continuously to this play from 1947 to 1977.11 In many purposes this
play that derives most from the famous canovaccio of Luigi Riccoboni has been
an important link between the Commedia dell'Arte and modern scenic practices,
very much influenced by the work of Giorgio Strehler. His approach, it could be
said, is primarily based on the famous quote by Goldoni himself: The two books
on which I delved the most and which I will never regret using are World and
the Theatre.12 According to the rather conclusive - following a systematic study
of Strehler's performances - notion by Bernard Dort we must accept that
Strehler never ceases to explore this connection between World and Theatre - if
by audience we mean the description of daily activity which is dominated by
need and leads to an economic activity; and by theatre a game that is regulated
both by tradition and a series of events and which, in turn, reaches its conclusion within spending- two rather opposite notions that can become joined in a
third one, however ephemeral, that is festivity.13
We should also add that, for Goldoni, this speculation between life and
theatre corresponds to the social questioning of the relationship between the
middle class on the one side and the aristocratic upper class or the people, the
plebes, on the other: the first being moretheatrical, the latter nearer the lively.14
We must presume that within this environment - the new re-discovery of
Goldoni's plays by Greek scenes became a reality after the initial echoes of
Strehler's direction is often defined by the director's tendency of repeating the same plays, gradually altering the way in which he views the play. Without doubt, the most quite evident example of
the above is the frequent staging of the Servant of Two Masters, a play that has invariably determined both the career course and the reputation of Strehler himself. This particular play was first put
up on stage by Strehler in 1947. It stayed on stage over the course of the following two years
(1948-49). In 1952, a new version was introduced, which remained on the repertoire of the Piccolo
Teatro until 1956. A third version was introduced in 1963 which was performed up to 1968, with
a fourth version following in 1973; in 1977 a fifth version was presented which has remained in
production up to the present date. (All information with regard to Strehler's performances is
derived from the magazine of the Piccolo Teatro di Milano). For a more detailed approach see also:
Catherine Douël Dell'Agnola, “Cinq versions d' 'Arlequin'. Evolution de la scénographie”, in
Strehler, Paris 1989 [Les Voies de la création théâtrale 16], pp. 141-153.
12
This quote is derived from the prologue of the first collection of his comedies; Mario Barrato
was the first to point out its great importance for the further understanding of Goldoni's works.
An extract of Barrato's study (in Greek) has been published in the theatre magazine Theatrica
Tetradia 16, under the title “Ο µαθητευόµενος της πραγµατικότητας”,13-15.
13
See B. Dort, “Στρέλερ και Γκολντόνι”, Theatrica Tetradia 16, 17; idem, “Goldoni le bourgeois
contre Gozzi l'aristocrate”, Le Monde Dimanche, 20 February 1983, which deals with more
recent performances of Goldoni in France.
14
In Le Monde Dimanche, 20 February 1983.
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Strehler's directions sparked off renewed interest for the relation of Goldoni's
work and the Commedia dell'Arte in Greek theatre practice.
With respect to Goldoni's recent performance list, we must note that for some
time, his plays were absent from the Greek scene of the immediate post-war era.15
Being much more approached in an academic way it is almost normal that his
texts where more or less neglected by innovating theatre groups. We must also
postulate that a new interest in his plays has been brought due to certain
important performances in the last few decades.
The first performance to re-kindle interest for Goldoni was that of the Servitore
di due padroni (translation by Gerasimos Spatalas) - directed by Giorgos Lazanis
at the Veaki Theatre, the stage belonging to the famous Karolos Koun Art Theatre.16
After 1976, Goldoni starts to appear more frequently in Greek scenes - while
in the twenty years ever since that first staging other important significant
performances further renewed interest for this particular writer.17
Goldoni's works would continue to be presented not only by Athenian scenes
- but would also invariably constitute the basic core of the annual programme
of municipal theatres - from the mid-1980's onwards, Goldoni would become
frequently seen in Greek performance lists.18
Quite indicative of the limited interest registered by modern Greek theatre practitioners is the
repertoire of the National Theatre of Greece. From a first list of performances of Goldoni's works by
the National Theatre, it is rather evident that, despite the fact that his plays have always figured
prominently in the repertoire of some of the major theatrical companies, nevertheless, within a
wider perspective, Goldoni has had a relatively small presence. The National Theatre first performed a play of Goldoni in 1933, La locandiera directed by Photos Politis, its first director. Between
1933 and up to 2003 the Goldonian performances of the National Theatre have been the following:
Servitore di due padroni (Υπ η ρ έτης δύο κυρίων) directed by Dimitris Rondiris in 1937, Il ventaglio
(Η βεντά λ ι α ) directed by Takis Mouzenidis in 1941, again La locandiera directed by Costis
Michaelidis in 1950, Il burbero di buon cuore (O κα λόκαρδος γρινιάρης), and La bottega del caffè
(Το κα φ ε νείο) directed by Socrates Karantinos in 1951 and 1968 consecutively. Since that year
only L'impresario delle Smirne (Ο ιµπρεσ ά ρ ι ος της Σµύρνης) directed by Giorgos Remoundos was
played in 1993. (Information for these performances is provided by the chronological catalogue of
performances in the volume 60 Χρόνια Εθνικό Θέατρο 1932-1992, Athens 1992, pp. 207-220 and
the more recent catalogue compiled by Giorgina Kakoudaki annexed in 100 Χρόνια Εθνικ ό
Θέατρ ο, [Athens] 2000 and the annual survey Epilogos for the years 2001-2003).
16
Premiered in October 29, 1976 with sets and costumes of Damianos Zarifis included in the casting
several of the most important actors of the group such as Reni Pittaki (Beatrice), Giorgos Armenis
(Troufaldino), Vassilis Papavassileiou (Dottore), Andonis Theodorakopoulos (Florindo) et.al.
17
Among the performances of recent years it is worth singling out that of Le baruffe chiozzote
(Καυ γά δ ες στην Κιότζα) directed by Spyros A. Evangelatos at the National Theatre of Northern
Greece in 1980 and I rusteghi (Οι αγροίκοι) directed by Lefteris Voyatzis in 1983.
18
In the period between 1984-1986, the Municipal Regional Theatres (created in 1982 in several Greek
t o wns) frequently perform Goldoni's plays, as well as new companies created by actors and directors
belonging. Every Municipal and Regional Theatre in Greece has performed at least one play of
Goldoni. As for example of this practice we could mention the director Vassilis Papavassileiou who
has directed La bottega del caffè (Το καφενείο) in the Municipal Regional Theatre of Larissa in 1984
and La casa nova (Το καινούργιο σπίτι) in the theatre group he created in 1985.
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Fig. 1 and 2: Two characteristic moments of the Arlechino servitore di due padroni directed
by Giorgio Strehler. In the five versions of the performance the main role was played
by the actors Marcello Moretti (from 1947 to 1961) and Ferruccio Soleri
(from 1963 to 1977).
(Photographs published in the programme of the performance)
Fig. 3, 4 and 5: Arlechino servitore di due padroni at the Karolos Koun Art Theatre directed
by Giorgos Lazanis. The actor Giorgos Armenis in the main role.
(Karolos Koun Art Theatre Archive - Photo by D. Argyropoulos)
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Fig. 6: La Moscheta at the Karolos Koun Art Theatre directed by Giorgos Lazanis.
Fig. 7: I due gemelli veneziani at the Karolos Koun Art Theatre directed
by Mimis Kouyoumtzis.
(Karolos Koun Art Theatre Archive - Photo by D. Argyropoulos)
Although the works of Goldoni that we are aware of are only but a small
fraction of his prolific play-writing production, his impressive volume of
works, we must state that nowadays the Greek scene tends to run side by side
with that of the rest of Europe, at least with respect to the choice of plays
that are produced; at the same time, we must admit that acting by itself often
presents significant solutions for the further investigation of the relationship
of Goldoni's works to the previously existent Commedia dell'Arte. Within
this line of reasoning, one can add the effort to display the lesser known texts
by Goldoni, which are based on the forms of the Commedia dell'Arte and that
not only do they deviate from the established form of the self-improvising
scenario of the commedia's canovacci, but also attempt to introduce elements
of a more rational approach to theatre by following the great model that the
work Servitore di due padroni presented for both the writer and for the European
stage of the 20th century in general. Probably to this fact is also due a sudden
interest also for the play of Ruzzante La Moscheta that has been performed
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in the same context.19
We must also recognise that Goldoni always begins with the desire to use the
technique of Italian actors - trying to show (within the plot of each play) a new
fresh outlook for each single part. This, after all, constitutes the main theme
behind the writing of many of his plays. On this purpose The Venetian Twins (I
due gemelli veneziani) offers a significant example. It is an interesting coincidence that this play offers also the possibility to compare theatre practices in
Greece and the European scene of the last years of the twentieth century. The
play was performed by the Art Theatre of Karolos Koun in 1992 in a very
interesting performance in which we recognise echoes from Strehler's approach.20
According to the evidence at our disposal, this play was written in 1747 and
was performed at the Teatro di Sant'Angelo the following year.21 The Teatro di
Sant'Angelo, originally intended for opera performances was rented out to
Gaspare Gozzi for the theatrical season of 1747-8. With this programme, Gozzi
attempted to bring a revival into Italian comedy; however, his efforts failed and
the Medebach Company moved into the theatre, after its return to Venice in
1748. This theatre was added to the two other theatres of Italian comedy already
in existence in Venice - the Teatro di San Samuele and the Teatro di San Luca.
Only two actors could guarantee success to this recently arrived company in
Venice, which had to compete against extremely talented opponents that were
already well known in the Capitol, as Goldoni mentions in his Memoirs.22
These two actors were Teresa Mendebach (the wife of the manager of the
theatre company) and the Pantalone Cesare Darbes. The former quickly
established herself after assuming the leading role in the tragedy Griselda and
especially in the comedy The Worthy Woman (La buona moglie). The only
thing remaining was for the Pantalone Cesare Darbes to become established
in turn.
Two interesting performances have been produced. The first one in 1977, almost immediately
after the success of Arlechino, by the Karolos Koun Art Theatre and the second in 1982 directed
by Spyros Vrachoritis with his group in Volos.
20
Premiered in February 10, 1994 directed by Mimis Kouyoumtzis, one of the successors of
Karolos Koun in the direction of the Art Theatre with sets and costumes of Lili Pezanou, music
by Philippos Tsalachouris, the performance included in the casting several of the most important
actors of the group young generation.
21
The Venetian Twins are included in Bettinelli's first edition of Goldoni's comedies (1750) and in
that of Paperini in 1755; it is not included in Pasquali's edition (1751) which was published
while Goldoni was still alive. After its great success in Venice, this play was later performed in
Vienna (1751) where it was soon after published in translation (1752 and 1756). The above
information is derived from Anna Fonte's entry note that accompanies the publication of
Goldoni's works by the Bibliothéque de la Pleiade (pp. 1486-1487).
22
C. Goldoni, Mémoires de m. Goldoni pour servir à l'histoire de sa vie et a celle de son théâtre,
Paris 1992, p. 243.
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Goldoni thought that this marvellous actor could perform without wearing
a mask and still triumph on stage. For this reason, he wrote a comedy that was
only performed for one night, as it did not go down well with the audience.
To regain his confidence, the actor himself chose to perform in a comedy
while wearing a mask. This took place in the next performance, of the play
L'uomo prudente. However, Goldoni was still not willing to refrain from any
further attempts to establish the actor in parts that did not demand his face to
be uncovered. The theatrical company then introduced I due gemelli veneziani
that Goldoni had written for the same Pantalone in the summer of 1747 when
the Mendebach Company was still in Pisa. This play, first performed in Venice
in the autumn of 1748 and with 23 consecutive performances in the following
two years, proved to be a sterling success.
Goldoni's request found its definite expression in the comedy The Venetian
T w i n s. The use of the motive of twins was very popular to the scenario writers
of the Commedia dell'Arte. Disguised faces that by the end of the play prove to
be brothers and sisters, lost children in shipwrecks are discovered after many
episodes full of misunderstandings which are based on the fact that the audience
is aware that each part is un-familiar with the other one during the course of
the misunderstanding, which is the most tried and trusted method in European
comedy.
We see it in the works of both Shakespeare and Regnard as well as many
other writers after Goldoni; without doubt its original inception belongs to
Plautus. The scenic presentation of two, sometimes four or even six identical
faces, with the misunderstandings that the simultaneous presence of so many
identical faces is capable of bringing about, gave theatrical action a inexorable
new find.23 Goldoni, just like Regnard did (in his own version of the Menaichmoi)
revives the old theme by bringing in contrast the natural likeness with the
tremendous difference in characters by juxtaposing the "happy, smart, pleasant"
character of one part to the "uncouth and dismal" character of the other. Cesare
Darbes, who lead both roles, would get a triumphal reception by the audience.
Aside from the potential that the likeness motive can offer to the development
23
It is possible to single out many scenarios for improvisation by actors of the Commedia
dell'Arte that not only reproduce the motive of similarity but also reproduce the essence of
Goldoni's work itself. It must be noted that the works that belong to the era before the I due
gemelli veneziani have served as the obvious pre-cursor to this play and have influenced the
writer to a much greater extent than any of the plays belonging to his contemporaries. For
example, from the scenarios of the Flaminio Scala, which was published for the first time in
1611, two such works can be distinguished: The Old Twins and The Twin Captains. See
Scenarios of the Commedia dell'Arte. Flaminio Scala's Il Teatro delle Favole Rappresentative,
transl. by H. F. Salerno, New York 1992.
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of a plot full of surprises, it can also present itself as a classic trick for selfimprovisation from actors of the Commedia dell'Arte that were used to playing
all parts wearing a mask and by following certain ploys that were easily
recognisable to the audience. In The Venetian Twins Goldoni took away these
tricks and determined a new use for each role, which although known previously,
are nevertheless presented through a new point of view that tends to subvert
any preconceived theatrical image that might be developed by contemporary
audiences. The request for the renewal of theatrical script is satisfied with
Goldoni's work; however this leads to the emergence of a new request which is
up to theatrical practice to satisfy.
We can assume that this request makes us return to the initial conflict: the
conflict between the free improvised acting of the Commedia dell'Arte and the
more reserved and self esteemed acting that characterises "serious" comedy.
For theatre practitioners today the balance leans towards improvisation and
t h e r efore we can assume that popular motives and acting traditions of
Commedia dell'Arte become a reason for the renewal of modern approaches to
comedy. Our contemporary idea of what the Commedia dell'Arte techniques
have been affects the work of the directors. Still a new question arises: are we
repeating a conflict between popular theatre forms and "serious" theatre more
than three centuries after the conflict of Goldoni and Gozzi? And if so where
are we referring to: the World or the Theatre? Still Commedia dell'Arte
remains the form that obliges us to remodel our vision towards theatre.
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«SON D’ ILLIRICA PATRIA, PATRIA FAMOSA
AL MONDO... »: SPUNTI DI RIFLESSIONE
SUL TEATRO GOLDONIANO E LA DALMAZIA*
Anna Scannapieco
È triste che spesso, per essere un buon patriota,
si sia il nemico del resto degli uomini.
(Voltaire, Dizionario filosofico, 1764)
D
a Stiepo Bruich da Pastrovicchio, mercanta de castradina, al capitan
Radovich di Cattaro, stirpe gloriosa, antica, / della sua patria amante, e della
gloria amica:1 sotto questo ideale titolo ben potrebbe raccogliersi e sintetizzarsi il
percorso tracciato dalle “frequentazioni” della Dalmazia esperite, nell'arco di un
trentennio e in modi disomogenei, dal teatro goldoniano. Scarne frequentazioni,
in verità, e tuttavia ben rappresentative di un'evoluzione più complessiva o - se
si preferisce, e con maggior cautela - della natura composita e complessa dell'operato drammaturgico goldoniano: nel loro stesso oscillare tra convenzione e
sperimentalismo, nel loro essere debitrici verso sedimentati codici spettacolari e
costituire ad un tempo sensibile riflesso di un ben distinto engagement culturale
e “politico”.2 Tanto più meritevoli di ricognizione e analisi, inoltre, in virtù del
* Il presente contributo è stato all'origine di una più ampia indagine, che ha condotto alla realizzazione dell'edizione critica della Dalmatina, nell'ambito dell'Edizione Nazionale delle Opere di
Carlo Goldoni (Venezia, Marsilio). D'ora in poi tutte le citazioni di questa tragicommedia - di
assoluta centralità nel disegno critico qui delineato - si intenderanno tratte da tale edizione,
indicata sinteticamente come Dalmatina, EN.
Salvo diversa avvertenza, le citazioni goldoniane si intendono tratte da C. Goldoni, Tutte le
o p e r e, a cura di G. Ortolani, 14 voll., Milano 1935-1956: al titolo dell'opera farà immediatamente seguito l'indicazione del volume e di pagina; nel caso di citazione dal corrispettivo maior
di questa edizione (40 voll., Venezia 1907-1960), le indicazioni saranno precedute dalla sigla
MV. Per quanto riguarda le citazioni a testo, esse sono desunte, rispettivamente, da La birba (X
1228) e da La dalmatina (EN, I.3.61-62).
2
Sull'oggettivo rilievo dell'engagement profuso dal commediografo veneziano nella discussione
spettacolare di tematiche di emergente interesse politico, cfr. il fondamentale contributo di G.
Cozzi, “Note su Carlo Goldoni, la società veneziana e il suo diritto”, Atti dell'Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti 137 (1978-1979), 141-157 (ora in idem, La società veneta e il suo
diritto. Saggi su questioni matrimoniali, giustizia penale, politica del diritto, sopravvivenza del
diritto veneto nell'Ottocento, Venezia 2000, pp. 3-17). Nell'ambito dell'Edizione Nazionale delle
Opere di Carlo Goldoni, hanno sinora messo a frutto e sviluppato tale prospettiva interpretativa
le edizioni critiche de L'uomo prudente (a cura di P. Vescovo, Venezia 1995), de Il padre di
famiglia e de La buona madre (entrambe a cura di Anna Scannapieco, Venezia 20022 e 2001).
1
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loro essere state oggetto di un'attenzione critica parziale o, soprattutto, aneddotica, concentrata sul monitoraggio della cordiale simpatia con cui il commediografo avrebbe guardato all'illirica patria piuttosto che impegnata a valutare
fisionomia e funzione dei vari momenti in cui la sua produzione inglobò motivi
alla Dalmazia variamente ispirati.
Numericamente esigui - come si accennava - questi momenti, e sarà bene
considerarli distintamente, nella successione che fu loro propria sulle scene
della Venezia settecentesca.
1. Il «mercanta de castradina»
L
a prima tessera documentaria ci riporta alla - per così dire - preistoria del
teatro goldoniano: si tratta de La birba, intermezzo per musica rappresentato al
Teatro San Samuele di Venezia nel carnevale 1734-1735. Come ebbe a raccontare
l'autore stesso - ben quarant'anni dopo, nella prefazione al tredicesimo tomo dell'
edizione Pasquali3 - il motivo ispiratore del vivacissimo intermezzo sarebbe
derivato dall'attenta e divertita osservazione di una delle più caratteristiche scene
cittadine: Trattenendomi di quando in quando nella piazza San Marco, in quella
parte che dicesi la Piazzetta, e veggendo ed attentamente osservando quella
p r o d igiosa quantità di vagabondi, che cantando, suonando o elemosinando,
vivono del soave mestier della birba, mi venne in mente di trar da coloro il sogget to di un intermezzo giocoso; e mi riuscì a maraviglia.4 Riattivando in realtà una
delle più antiche tradizioni spettacolari “spontanee” che la storia veneziana
Il tomo in questione venne pubblicato nel 1775. Per la ridefinizione cronologica dell'edizione
Pasquali, i frontespizi dei cui volumi recano tutti la stessa data convenzionale del 1761, cfr.
Anna Scannapieco, “Scrittoio, scena, torchio: per una mappa della produzione goldoniana”,
Problemi di critica goldoniana 7 (2000), 214-217.
4
I 720. Cfr. anche Mémoires I, capp. XXXV-XXXVI: j'avois calqué la petite piece sur les batteleurs
de la place Saint-Marc, dont j'avois bien étudié le langage, les ridicules, les charges et les tours
d'adresse. Les traits comiques que j'employois dans les intermedes étoient comme de la graine que
je semois dans mon champ pour y recueillir un jour des fruits mûrs et agréables. […] La Birba fit le
plus grand plaisir (I 162 e 164).
5
A Venezia, vivacissima città cosmopolita, d'afflusso internazionale, convenivano numerosi i
cantastorie, che a Rialto o in piazza San Marco intrattenevano per pochi soldi popolani e gentiluo mini. […] Di questo affollato concorso di gente d'ogni provenienza nazionale e sociale abbiamo
dovizia d'informazioni letterarie e iconografiche. Ci sono alcune eloquenti pagine di straordinaria
freschezza, che Tommaso Garzoni dedica all'attività di cerretani e cantimbanchi resoconto nel
migliore stile giornalistico su quante ciurmerie, industrie, inganni, spettacoli e “prove ridicolose” si
svolgevano quotidianamente a Venezia e sulle figure più rappresentative di quante scenette
all'aperto, senza copione e senza canovaccio, si recitavano a San Marco […]. A pubblico interna zionale lingue eterogenee […]. È naturale che ad un siffatto pubblico, predisposto ad ascoltare e
anche ad apprezzare le imitazioni linguistiche per quel che di sadico è nascosto in ogni parodia del
comportamento alieno, si rivolgessero i cantimbanchi (M. Cortelazzo, “Esperienze ed esperimenti
plurilinguistici”, in idem, Venezia, il Levante e il mare, Pisa 1989, pp. 34-35).
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SON D’ ILLIRICA PATRIA, FAMOSA AL MONDO:
SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL TEATRO GOLDONIANO E LA DALMAZIA
annoverava,5 Goldoni sceneggia in musica il variegato metamorfismo di
ciarlatani e cantimbanchi, assegnando ad una delle birbe - giusta un
collaudato anche se ormai obsoleto cliché - la parte del mercante schiavone.6
Nel gioco delle lingue e delle contraffazioni,7 la parlaura dalmatina - per
usare l'espressione di chi primo ne aveva dato consapevole codificazione
teatrale, Andrea Calmo - entra a contatto o si avvicenda con veneziano,
napoletano e bolognese, e con essa entra in scena la rappresentazione convenzionale come da relativa tradizione spettacolare, e nei modi che
vedremo - del relativo “tipo” sociale e umano. Rispetto al prototipo di linguaggio schiavonesco che si era venuto codificando nel Cinquecento veneziano,8
la lingua contraffatta dalla birba Cechina - il personaggio dell'intermezzo a
suo tempo interpretato da Zanetta Casanova - sembrerebbe piuttosto inclinare verso una generica connotazione di lingua franca (la dominante dell'infinito polifunzionale costituisce infatti la cifra più immediatamente percepibile
dell'impasto linguistico), e tuttavia non vi mancano caratterizzazioni fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali che più puntualmente rinviano ai
moduli che erano stati propri di quel prototipo: dal passaggio e> a in stara e
Possiamo fondatamente ritenere che i cantimbanca del XVI secolo usassero spesso trarre dal loro
repertorio la figura dello slavo, che divideva col tedesco, il greco, il bergamasco e il contadino
pavano, il favore, se così si può dire, della folla degli ascoltanti, molto divertiti, evidentemente,
delle parodie di atteggiamenti e di parlate di gruppi “estranei” non ancora assorbiti, per costumi e
lingua, nella comunità veneziana e, quindi, facilmente derisi come out-group; con l'avvertenza che
la “letteratura schiavonesca” - quel complesso, a dire il vero piuttosto modesto, di poesie e poemet ti popolari con riflessi nel teatro, scritti a Venezia nel corso del Cinquecento, ma attribuibili alla
prima metà del secolo, con la manifesta intenzione di rendere, a scopo “ridicoloso”, l'imperfetta
parlata veneziana degli Slavi (Schiavoni), che confluivano numerosi nella città dei Dogi per
ragioni di occupazione, di commercio e di milizia (op. cit., p. 46) - vede la sua fortuna legata alla
personalità dell'autore-attore che ne fu massimo promotore (Zuan Polo), e che tende pertanto ad
esaurirsi nel corso dello stesso secolo che ne aveva visto la fioritura (op. cit., pp. 50-51).
7
Si potrebbe considerare una varietà in minore di quella “commedia delle lingue sulla scena
veneziana” illustrato in questo stesso volume dal contributo di Piermario Vescovo, ferme restando le fondamentali distinzioni operate dallo studioso tra “plurilinguismo di modulazione” e
“plurilinguismo simulativo”, tra “comico di interferenza” e “comico impressivo-coloristico”:
distinzioni a cui pertanto senz'altro rinviamo, come a categorie d'analisi atte a interpretare anche
il fenomeno richiamato in questa sede.
8
Nella ricerca di elementi caratterizzanti il modo di parlare veneto da parte dei Dalmati del litorale (dei
Ragusei, solitamente), ricorrono, sì, all'immissione nel discorso cantato sulle piazze o recitato sulla
scena di alcune parole croate (poche e le più diffuse, certamente, e note comunemente anche a Venezia)
inserite in movenze morfosintattiche ritenute tipiche e, comunque, immediatamente riferibili per
allusione ad un insieme etnico-linguistico ben preciso, ma l'ordito e la trama del tessuto parlato
restavano nettamente veneziani e le chiazze spurie potevano fare spicco proprio perché in episodica
opposizione all'uniformità idiomatica generale (M. Cortelazzo, “Contributo della letteratura schiavonesca alla conoscenza del lessico veneziano”, in idem, Venezia, il Levante e il mare, op. cit., p. 173).
Una descrizione sistematica delle caratteristiche di tale linguaggio è in idem, “Il linguaggio schiavonesco nel Cinquecento veneziano”, Venezia, il levante e il mare, op. cit., pp. 125-165, in part. pp. 132-164).
6
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in mercanta, a quello e> i in forsi e mistier, o a quello o> a in f o r m a g g i a;
dall'omissione dell'articolo all'inversione dei costrutti ritenuti normali (parlar de
muggier mia), sino all'inserto di tessere lessicali o frastiche croate (l'immancabile dobro jutro gospsodine, “buongiorno signore”, che verrà ripescato anche nei
Mémoires9 per punteggiare caricaturalmente il resoconto di una losca vicenda
“ragusea”, su cui ci soffermeremo più avanti). Si tratta di un vero e proprio
unicum10 nel pur sterminato quanto differenziato corpus goldoniano, e in
quanto tale tanto più sorprende la sua mancata menzione nella letteratura
critica d'argomento.11 Al di là di tutto quello che vorrà far credere la retrospettiva “automitografia” dell'autore,12 esso documenta in termini molto suggestivi
i ben radicati legami (drammaturgici, oltre che linguistici) della prima produzione comica goldoniana con la tradizione dell'Arte e, nella fattispecie, con quegli
Per la citazione del relativo passo, cfr. infra, n. 31.
Niente a che fare con la parlata del levantino Isidoro - per l'esattezza, Caicchia Isidura - il
personaggio delle Donne de casa soa a cui si fa solitamente riferimento per documentare presunte
tracce di schiavonesco in Goldoni, a partire da una segnalazione di Isidoro Del Lungo (Florentia.
Uomini e cose del Quattrocento, Firenze 1897, p. 356). Cfr. ad esempio M. Zorič, Italia e Slavia.
Contributi sulle relazioni letterarie italo-jugoslave dall'Ariosto al D'Annunzio, Padova 1989, p. 91,
che ne parla come di un'annotazione realistica e scherzosa sugli effetti dei contatti linguistici ed
etnici nella Venezia cosmopolita del '700 e può essere riallacciato alla veneta “letteratura schiavo nesca” del primo '500. In realtà la parlata di Isidoro - come agevolmente rilevabile dall'analisi delle
sue relative occorrenze (cfr. Le donne de casa soa, I.9-10, II.11-12, IV.4-6, V.1-2 e 4-ultima in V
1210-1212, 1225-1227, 1247-1252, 1256-1261, 1262-1268) - è genericamente levantina (e non
a caso il personaggio stesso si dichiara di Corfù: cfr. V 1211), anche se dall'“etnocentrico” punto di
vista dei suoi interlocutori veneziani la percezione complessiva del personaggio sfuma frequentemente i propri contorni in una confusa identità greco-dalmata (cfr. V 1205: El barba che v'ho dito
veste alla levantina, / Che el par uno de quei che vende castradina; e V 1244: El sarà levantin, o pur
qualche schiaon, / De quei: Tasé vu can, e parla ti patron).
11
La parlata di Cechina-Stiepo Bruich è infatti sfuggita sia allo zelante scrutinamento degli italianisti di area slava sia all'acutezza d'analisi e d'interpretazione di un Gianfranco Folena: nessun riferimento a inserti schiavoneschi è infatti rintracciabile nella puntuale disamina del plurilinguismo del
Goldoni librettista comico realizzata dallo studioso (cfr., in formulazione sintetica, G. Folena,
“Goldoni librettista comico”, in idem, L'italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento,
Torino 1983, p. 323, n. 18: Il Calepinus septem linguarum del Goldoni librettista comico compren de, con l'italiano (“tosco” o “romano” o “lombardo”) e il veneziano (e gli inserti di bolognese e
napoletano come idioletti di maschere o di canterine), il francese, il tedesco e l'inglese (che di solito
fanno tutt'uno), la lingua franca levantina (con specificazioni turchesche o grechesche), il latino dei
medici […], dei notari […], dei pedanti […], con punte maccheroniche; per il mancato rilievo dello
schiavonesco nella Birba, cfr. anche i n f r a, n. 12); solo un cenno, relegato a margine e lasciato
criticamente inerte, nello studio in cui un'allieva di Folena, Nica Berlanda, è venuta sviluppando
l'analisi del linguaggio degli intermezzi (Nica Berlanda, “Il linguaggio del Goldoni dagli intermezzi
al 'Campiello' ”, Atti del il’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti 118 (1959-60), 270 n.).
12
Si riconsideri il modo in cui Goldoni presenterà la genesi della B i r b a tanto nelle Memorie italiane quanto nei Mémoires (cfr. le relative citazioni s u p r a, n. 4). La mistificante semplificazione
retrospettiva è stata acutamente rilevata da Folena: la scoperta goldoniana del dialetto, non più
come convenzione caratteristica e giocosa, […] si compie attraverso una serie di prove che hanno
il loro punto di riferimento […] nell'esperienza plurilinguistica e pluristilistica dell'improvviso e
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ascendenti per così dire indigeni e popolari che erano stati propri della
tradizione di piazza nella Venezia cinquecentesca: una tradizione che - come
appunto documentato dal nostro intermezzo - poteva avere ancora risonanza
nell'offerta teatrale settecentesca e rispetto a cui i successivi sviluppi
dell'itinerario artistico goldoniano sapranno prendere cospicue e non più
colmabili distanze.
Anche nella valutazione di questa tessera schiavonesca ben si potrà
sottoscrivere quanto già da tempo autorevolmente argomentato sul
plurilinguismo goldoniano - tanto caratteristico degli intermezzi (e, in parte,
della produzione giocosa) quanto progressivamente sempre più estraneo,
come residuo artificiale dell'improvviso, alle commedie -, cioè il suo non
rivestire funzione realistica, caratterizzante, ma soltanto ludica, il suo
inserirsi nella tradizione delle metamorfosi e dei travestimenti, ingrediente
comico puramente giocoso, vero e proprio lazzo mimico-verbale-musicale.13
E tuttavia un peculiare aspetto della tradizione spettacolare ed editoriale di
questo intermezzo consente di sfumare alquanto, nella valutazione dell'
inserto schiavonesco, la misura di quella dimensione assolutamente
"mimico-verbale-musicale" e di relativizzare quindi la portata della sua
immediata - in quanto solo convenzionale e giocosa - spendibilità spettacolare:
alludo alla circostanza per cui solo nei primi allestimenti - quelli veneziani, o
comunque di area veneta - figurò il ruolo e la parlaura di Cechina-Stiepo
Bruich, espunti sin dalla ripresa milanese del 1743 e poi per sempre rimossi
nella tradizione editoriale del testo.14 Una riprova - mi pare - evidentissima
del loro essere stati pensati interamente all'interno di quella variante spettacolare indigena di cui si diceva e che - senza nulla togliere al carattere
nella sua lenta e progressiva riduzione. Di questo itinerario Goldoni ha voluto cancellare le
tracce, con quel suo anacronistico ricercare nella sua esperienza passata le sue ragioni presenti.
Così egli ci presenta il dialetto di un intermezzo giovanile, la Birba, quasi negli stessi termini che
usa con ben diversa ragione per la lingua dei gondolieri nella prefazione della Putta onorata, che
è il primo effettivo manifesto del suo “realismo” linguistico […]. […] prospettiva non c'è bisogno di
dire quanto a posteriori, secondo una poetica maturata assai tardi: chi legge il Gondoliere, la
Pelarina e soprattutto la Birba, si trova davanti al linguaggio più stilizzato e convenzionale
dell'opera buffa; e nella Birba i tre personaggi parlano, oltre a un italiano appunto da melodram ma giocoso, ben tre dialetti canonici così dell'opera buffa come delle maschere, veneziano,
napoletano e bolognese, e quel veneziano non è diverso dagli altri (G. Folena, “Il linguaggio del
Goldoni dall'improvviso al concertato”, in idem, L'italiano in Europa, op. cit., p. 137).
13
Folena, “Goldoni librettista comico”, op. cit., pp. 314-315.
14
La redazione originaria - oltre che nella princeps Valvasense del 1735 - figura solo in un esemplare s.d. di Venezia-Bassano; l'allestimento milanese del 1743 - documentato dall'edizione Ghislandi
- elimina del tutto gli inserti relativi al personaggio Cechina-Stiepo e in tale versione il testo del
libretto sarà riprodotto nelle successive collettanee dei libretti goldoniani (vol. 4, Venezia (Tevernin)
1753; vol. 4, Torino (Olzati) 1757; vol. 8, Venezia (Savioli) 1770; vol. 41, Venezia (Zatta) 1794).
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comunque convenzionale e giocoso dell'ideazione - ne mette tuttavia in luce
il vincolante grado di radicamento socioambientale. Non esportabile
insomma, e nemmeno nella prospettiva puramente ludica e desemantizzata
del plurilinguismo dell'Arte e del melodramma giocoso - l'inserto schiavonesco, che solo una platea veneziana avrebbe potuto gustare nella sua mimesi
linguistica e rappresentativa. Che non si tratti solo della sopravvivenza
inerziale di un retaggio spettacolare ormai in via di estinzione - paradossalmente legato, peraltro, alla firma del futuro riformatore Carlo Goldoni - può
essere suggerito forse dalla puntualità di alcuni riferimenti, per certo non
interamente risolvibili nei modi propri di uno stereotipo spettacolare:
dall'ideazione onomastica di uno Stiepo Bruich alla precisa localizzazione
della sua origine, quella Pastrovicchio che era esotico limine dell'Albania
veneta, particolarmente famoso per la produzione della tanto familiare
castradina e di altre più o meno popolari specialità menzionate dal nostro
mercanta.15 Cesellature che innovano, rafforzandolo, il carattere convenzionale della rappresentazione, e ripropongono in agile e felice sintesi quelle che
rimarranno le coordinate fondamentali entro cui - anche nella progressiva
ascesa settecentesca e illuministica della cosiddetta dalmatologia - continuerà a muoversi la percezione e l'elaborazione letteraria degli Schiavoni: sicché
attraversando le pagine in cui un Carlo Gozzi o un Casanova o un Vallaresso
immortaleranno la “nazione” dalmata,16 tornerà familiare il ricordo del
goldoniano mercanta de castradina che per quanto inurbato nella capitale
Oltre alle convenzionali formaggia salada e botarga fumada, si riconsideri la menzione, meno
abusata, delle candella ma Cattarina, rinomate candele di Cattaro. Merita ricordare che
Pastrovicchio, nel distretto di Cattaro, occupava il litorale del contado di Budua fino al confine
turco di Antivari per lo spazio di 10 miglia marittime; tra i suoi maggiori prodotti, oltre olio,
vino e pesca, proprio la confezione delle carni salate e affumicate di castrato (cfr. V. Lago,
Memorie sulla Dalmazia, Venezia 1869, vol. 1, parte seconda, pp. X-XI), molto diffuse a
Venezia principalmente per la vendita che ne facevano appunto gli schiavoni negli stazi
disposti lungo la riva a loro intitolata.
16
Per una sintetica panoramica di tali scritti, cfr. Zorič, Italia e Slavia, op. cit., pp. 82-84 e 106112; per un'acuta problematizzazione delle modalità rappresentative in essi riscontrabili, cfr. L.
Wolff, Venice and the Slavs. The Discovery of Dalmatia in the Age of Enlightenment, Stanford
- California 2001, in part. pp. 29-40, 54-55 e 265-270.
17
Così nell'ideazione e nella realizzazione drammaturgica di un giovanissimo Carlo Gozzi,
apprendista militare a Zara che scopre e battezza in terra dalmata la sua futura vocazione
teatrale: Io fui in Dalmazia una servetta celebre in sul teatro, nella commedia improvvisa. […]
Bilanciando il genio de' miei ascoltatori e la nazione a cui doveva presentarmi, inventai un
genere di servetta non più veduta. […] Lasciai da un canto la favella toscana, che usano le
servette de' nostri teatri d'Italia, e perché aveva appresa la favella illirica soffribilmente,
m'apparecchiai ad esprimere i miei sentimenti ne' dialoghi e ne' soliloqui improvvisi col dialet to veneziano alterato e dalla pronunzia e da molti vocaboli illirici italianizzati, a tal modo che
il mio linguaggio era un gergone faceto (C. Gozzi, Memorie inutili, vol. 1, a cura di G. Prezzolini,
Bari 19342, pp. 78-79, dalla parte prima, capp. X-XI).
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conserva intatta, nel portamento e nel suo stesso "gergone faceto",17 la brutale
rozzezza delle origini, esibita sin dai canonici mustachi e poi dispiegata in
comportamenti variamente belluini, tanto nell'espressione dell'aggressività
(Mi ella strangolar / E ti, razza de puorco, sbudellar; Se cortelada / voler, mi
te la dar), quanto in quella - non meno grezza e grottesca - dell'affabilità (Se
ti star bon amigo, / Se ti star bona femena, / Co mi cantar, ballar. […] / Se ti no
ballar / Mi te sbusar. / Se ti no cantar / Mi te mazzar).18 Una ragione di più per
valutare in tutta la sua portata la trasmutazione che queste modalità rappresentative subiranno al termine del “viaggio goldoniano” attraverso la
Dalmazia: allorché - come già accennato, e come si avrà modo di considerare
meglio in seguito - il simpatico troglodita Stiepo Bruich da Pastrovicchio,
mercanta de castradina in una sorta di austero e non del tutto rassicurante
contrappasso, risorgerà sotto le spoglie del capitano Radovich di Cattaro,
leggendario alfiere della gloria illirica, paladino integerrimo del Leon generoso
che dolcemente impera.
2. La «vezzosa ragusea»
S
empre sul versante della produzione per musica ma ad una considerevolissima distanza temporale, si colloca la seconda delle nostre tessere
documentarie, costituita dalla protagonista eponima de La calamita de' cuori,
dramma giocoso andato in scena al San Samuele, su musica di Baldassarre
Galuppi, nel carnevale 1752-1753. Variante in minore di Mirandolina (con
cui nasce “ad un sol parto” in quello stesso carnevale),19 Bellarosa è una bella
che innamora, una dolce gradita / gentil calamita che attrae irresistibilmente
i corteggiatori. Ed è proprio sul disvelamento della ignota identità straniera di
questa vezzosa Ragusea, non meno che sulle sue arti seduttive, ad essere
giocato l'intero sviluppo del melodramma, correntemente giudicato tra i
migliori della produzione goldoniana. Il dato non è sfuggito agli studiosi (e
Anche in questo caso soccorre il ricordo di una delle tante descrizioni al vetriolo lasciateci da
Gozzi: Quelle fiere facinorose senza la menoma educazione, intendono d'esser suddite e vorreb bero conciliare però la sudditanza col poter rubare e assassinare a lor senno […]. Fui presente
alla rassegna di quella specie d'antropofaghi che fu data alla marina della città di Zara […]. Ad
ogni paio di que' lestrigoni rassegnati si dispensavano le paghe anticipate promesse, e quelli,
per mostrare della contentezza, abbaiavano una non so quale loro canzone, facevano de' strani
balletti presi per mano dinanzi all'E.S. e passavano nel naviglio (op. cit., pp. 68-70 [parte prima,
cap. IX]; i tondi sono miei).
19
La locandiera andò in scena al Sant'Angelo nel carnevale 1752-1753. La stretta contiguità
ideativa dei due personaggi fu puntualmente rilevata da Ortolani nella nota apposta all'editio
maior d e l l 'omnia (MV, XXVIII 627-628) ed è poi divenuto motivo topico della riflessione
critica.
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specie agli italianisti di area slava), propensi in genere a valutarlo nei termini
di un cordiale omaggio del cosmopolita Goldoni alla città dalmata, quando
non addirittura in quelli di uno specifico tributo rivolto all'amico raguseo
Stefano Sciugliaga.20 Ma è proprio lo sviluppo drammaturgico di quel motivo
(il nesso avvenenza-mistero, seduzione-natura ragusea) a scoraggiare simile
prospettiva interpretativa (peraltro già di per sé intrinsecamente inconsistente),21
dato che lo scioglimento della vicenda si incarica di contornare le lusinghe
della vezzosa ragusea con tratti giocosamente farseschi:22 che è quanto dire
È interessante notare che allo Sciugliaga il Goldoni non dedicò nessuna delle sue numerose
opere teatrali. […] Ma trovò, pare, un'altra maniera per onorarlo con un'opera: è da accettare
l'opinione, secondo cui l'autore volesse esprimere all'amico particolare attenzione con uno dei
suoi migliori melodrammi comici, La calamita de' cuori […] un elemento fondamentale della
sua struttura [la non accidentale connotazione ragusea della protagonista] è ispirato dal gentile
desiderio del commediografo di offrire una soddisfazione all'amico raguseo (F. Čale, “Stefano
Sciugliaga in Garmogliesi difensore del Goldoni”, Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia 2122 (1966), 201-257, in part. 220-222; analoghe considerazioni lo studioso ribadirà a più
riprese in successivi contributi: “Goldoni e gli stranieri: 'La vedova scaltra' e 'La calamita de'
cuori' ”, in Stimmen der Romania. Festschrift für W. Theodor Elwert zum 70 Geburtstag,
Wiesbaden 1980, pp. 151-157; idem, “La 'Dalmatina' di Goldoni tra patriottismo conformistico e cosmopolitismo illuministico”, Studi goldoniani 8 (1988), 171-184). Anche in questo caso,
come spesso accade in materia goldoniana, tale approccio interpretativo era stato già tracciato
dalle note dei curatori dell'omnia, e da quelle silenziosamente mutuato (cfr. MV, XXV 89, dalla
Nota storica di Edgardo Maddalena alla Dalmatina: forse col pensiero rivolto all'amico
[Sciugliaga], il Goldoni nella Calamita de' cuori, libretto per musica, fa dell'eroina Bellarosa
una “vezzosa ragusea” fiera della sua città).
Carattere il più saggio e il più prudente del mondo, suo vero amico ed interessato all'estremo per
i suoi vantaggi e per l'onor suo, era definito lo Sciugliaga da Goldoni in una lettera a Francesco
Vendramin dell'11 luglio 1763 (XIV 293). Già determinante presenza nel difficile periodo della
polemica con Chiari e, ancor più, nella complessa vertenza con l'editore Bettinelli (cfr. I.
Mattozzi, “Carlo Goldoni e la professione di scrittore”, Studi e problemi di critica testuale 4
(1972), 95-153, part. 122-127 e 145-153), lo Sciugliaga sarà figura centrale degli anni sessanta, nella sua qualità di rappresentante presso il Vendramin degli interessi dell'autore, da questi
autorizzato ad interventi anche di tipo compositivo sui testi (cfr. XIV 292-293 e 851).
Quand'anche si volesse ritenere che il sodalizio con il raguseo fosse già ben definito all'altezza
del 1752 (ma non si dispone di alcun dato documentario al riguardo), rimarrebbero comunque
oscure le ragioni per cui Goldoni avrebbe dovuto esprimere un tributo d'amicizia nei termini di
un dramma giocoso, e per di più attraverso la peculiare caratterizzazione di un personaggio che
- come vedremo - alla nazionalità ragusea attribuisce connotati farseschi. E non a caso forse,
nella citata analisi di Čale manca qualsiasi riferimento proprio a questa circostanza (per cui cfr.
infra, n. 22) e più in generale ricorrono fraintendimenti interpretativi visibilmente derivati da un
vero e proprio pre-giudizio valutativo (si considerino ad esempio le seguenti affermazioni: La
scoperta che Bellarosa è Ragusea […] risultando dal desiderio del Goldoni di compiacere con
lodi alla sua città natale confrontata con tante famose città italiane acquista un valore struttu rale ed una connotazione poetica tutt'altro che indifferenti; laddove ciascuna delle famose città
italiane rispetto a cui si affermerebbe la presunta primazia ragusea è evocata in chiave palesemente caricaturale: Firenze e Genova ad esempio per lo spirito parsimonioso dal taccagno
Pignone, Napoli e Brescia per la “braveria” dallo smargiasso Saracca ecc.).
21
Si veda quanto già segnalato nella precedente nota.
22
Allorché, nello snodo conclusivo della vicenda, la protagonista si accinge a soddisfare la
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con ciò che davvero mal si addirebbe ad un'intenzione celebrativa. Parrebbe
invece più verosimile ipotizzare che le scelte compositive del librettista Carlo
Goldoni vadano poste in relazione con i modi affatto peculiari con cui era
venutasi a Venezia definendo, nell'ambito di plurisecolari rapporti, la
percezione dell'elemento raguseo, in termini di ben perimetrata individualizzazione rispetto al complesso della comunità dalmata (distinzione al limite
riflessa sin nella toponomastica cittadina).23 Una percezione che per certo
molto aveva a che fare con la particolarissima fisionomia - morfologica,
storica e politica - della repubblica di Ragusa, 24 e che aveva non a caso
ricevuto precisi riscontri, vere e proprie tematizzazioni, nelle elaborazioni
letterarie di area veneta: dall'elezione di una fittizia identità autoriale (Ivan
Pauvolicchio da Ragusi) per il massimo promotore del linguaggio schiavonesco,
il Zuan Polo autore del Libero del Rado Stizuxo; ai personaggi e agli ambienti
curiosità degli astanti fornendo ulteriori elementi di conoscenza relativi alla propria identità, lo
spasimante che è riuscito ad essere eletto suo sposo le toglie precipitosamente la parola di bocca
temendo gli effetti di una rivelazione che si annuncia imbarazzante (e che come tale è immediatamente fatta risuonare nei commenti degli altri personaggi): BELLAROSA Nacqui in Ragusi, /
di nobile son figlia; / partita per piacer dal suol natio… GIACINTO Queste son cose ch'ho da
saper io. Bisogno ora non c'è / Ch'altri le sappia, e le direte a me. ARMIDORO Misero sventu rato! SARACCA Oh che veleno! (III.ultima, in XI 46).
23
La toponomastica cittadina ancora oggi distingue luoghi “ragusei” (la calle e il ponte ad essi
intitolati, nel sestiere di Dorsoduro) e luoghi “schiavoni” (primo tra tutti, la celebre riva ad essi
intitolata, che si protende per più di mezzo chilometro verso il sestiere di Castello e l'estremità
orientale della città).
24
Insieme a Venezia, Ragusa fu la maggiore repubblica marinara adriatica e rimase l'unica a poter
fronteggiare la Serenissima Dominante in termini di analogie strutturali: sorta anch'essa in isole
lagunari a seguito di movimenti migratori reattivi, sino all'annessione napoleonica nelle
Province Illiriche seppe salvaguardare la propria sostanziale autonomia rispetto alle pressioni
espansionistiche dei potenti domini limitrofi, nonché tutelare con fortuna i propri interessi
commerciali, fino a costituire - sotto quest'ultimo profilo e proprio nel Settecento - una vera e
propria spina nel fianco dell'Adriatico Impero della Serenissima. Per una panoramica complessiva, cfr. P. F. Palumbo, “La Repubblica di Ragusa nelle relazioni fra le due sponde adriatiche”,
Quaderni di Storia e Civiltà 7 (1988), 3-30; sulle ragioni che determinarono l'ascesa settecentesca di Ragusa, ai danni di Spalato, sino allora porto per antonomasia della Dalmazia (ragioni
sostanzialmente legate agli effetti della cattiva amministrazione veneziana che appunto ne
determinarono il declino), cfr. M. Berengo, “Problemi economico-sociali della Dalmazia veneta
alla fine del Settecento”, Rivista storica italiana 66, 4 (1954), 469-510 , in part. 497-498.
25
Per una rapida rassegna delle presenze ragusee in questi due autori, cfr. M. Zorič, Dalle due
sponde. Contributi sulle relazioni letterarie italo-croate, a cura di Rita Tolomeo, Roma 1999,
pp. 105-119. Anche nel caso di questo contributo si ha tuttavia la sensazione che la ricogn izione analitica sia spesso viziata da pre-giudizi interpretativi (cfr. ad esempio quanto si legge
op. cit., p. 113: Tutto ciò sta a dimostrare quanto, in Italia, fossero tenuti in considerazione sia
Ragusa che i ragusei, e contribuisce a farci capire i motivi per i quali questi personaggi, nell'am bito del teatro rinascimentale italiano, potessero essere rappresentati (basti pensare al messer
Proculo di Calmo ed al messer Biagio di Dolce) con simpatia ed in un contesto comico dai toni
moderati, come figure classiche di anziani, rese attuali da ben precise caratteristiche individuali
che li configurano quali precursori della maschera veneziana di Pantalone).
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del teatro di un Calmo o di un Dolce,25 al motivo topico dell'avvenenza
femminile, spesso peraltro “punita” negli esiti estremi delle sue virtù seduttive
da una dinamica fictional che sembra ritenere molto del risarcimento
compensatorio.26 Alla probabile esistenza di un vero e proprio filone r a g u s e o
nella letteratura veneziana andrebbe quindi ricondotta anche l'ideazione della
Bellarosa goldoniana, e l'interpretazione del suo tasso di originalità, o
comunque della specifica valenza culturale che la rivisitazione del motivo
assume nella drammaturgia del nostro autore, resta con ogni evidenza subordinata all'identificazione e alla valutazione storico-critica di quel filone.
3. Tra crimine e connivenza: il capitano raguseo e il diplomatico veneziano
E
ad una caratterizzazione ragusea riconduce anche la terza delle nostre
tessere documentarie: benché in questo caso essa può essere ascritta non
al confronto con una precisa convenzione letteraria ma all'originale
immissione nell'orizzonte compositivo di una specifica quanto singolare
26
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Si riconsideri quell'episodio della Lucerna (1625) di Francesco Pona relativo alla vicenda della
ragusea Ormonda, superlativo paradigma del prototipo povera-ma-bella, con tutto quello che ne
consegue (la fortuna fattami nascere in Ragusi fanciulla di bassissimi parenti, accordatasi con la
natura attese a colmarmi delle più eccellenti bellezze che da Elena in qua fossero state vedute in
creatura mortale): una bellezza ineffabile, e seduttiva in grado estremo, delle cui risorse
Ormonda saprà avvalersi presto e appieno. Rapita infatti dai consueti corsari, ancora fanciulla,
ne sa spegnere la ferocia conducendoli sino a morte nella contesa delle sue bellezze (la mia età
toccava allora il quindicesimo anno, e già sollevarsi gentilmente vedeansi nel seno mio le due
collinette di neve nelle quali Amore nutre i suoi fuochi. E tutta succosa il corpo nella svelta e
maestosa statura dava di me stessa uno spettacolo agli occhi, che non sapeano punto volgersi
altrove […]. E vagheggiandomi pure e ammirandomi quello e questo aspirando a possedermi, ecco
che, pretendendo ognuno, cominciano a contender tra loro; […] s'accende nel naviglio la più
orribile zuffa che possa la morte su la scena d'un marittimo teatro rappresentare); acquisita poi
nel serraglio di Maometto il Grande, riesce - attraverso una studiatissima arte seduttiva - a
incatenare in prigionia d'amore il gran sultano (aspirava a tiranneggiare il tiranno dell'Oriente
[…] E questa superba avidità mi insegnava artifici tali che non i baci e le lascivie premeditava, ma
quasi i sonni, le positure, i respiri. […] Gli studi […] non furno vani, perché, fatta con assidua
teorica discepola sopra i maestri, alla prima giacitura così soggiogai ogni sentimento di
Maomette ch'egli ebbe per meraviglia l'uscirmi vivo dalle braccia). Pur ritrovandosi all'apice del
potere e del piacere, l'infida e insaziabile Ormonda pensa bene di godersi le grazie di uno schiavo
r i n e g a t o: scoperta l'infedeltà della donna, Maometto la diede in potere di duecento ferocissimi
soldati, perché l'un dopo l'altro, stancandosi senza intermissione ne' suoi amplessi, la riducesse ro a morire. Cosa che puntualmente accade, nonostante le straordinarie risorse della famelica
Ormonda: Alle prime lance, confesso ch'io resi indomita: e già più di trenta di quei giovani
s'erano nella lotta resi per vinti che fresca ancora m'affrontava co' nuovi combattitori (Le citazioni
sono tratte da Fr. Pona, La lucerna, a cura di G. Fulco, Roma 1973, pp. 196-207).
Merita inoltre ricordare che il motivo della schiava ragusea ricorre frequentemente anche nei
repertori teatrali: e proprio con tale titolo poteva andare in scena nel 1758 al teatro San Luca di
Venezia una commedia nuova di Ferdinando degli Obizzi, estimatore e pubblico apologeta di
Goldoni.
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SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL TEATRO GOLDONIANO E LA DALMAZIA
esperienza autobiografica dell'autore; inoltre, come vedremo, la connotazione
ragusea del protagonista non inerisce in alcun modo la costituzione del testo
ma è interamente risolta in quello che potremmo a ragion veduta definire il
pre-testo dell'opera stessa. Si tratta dell'Impostore, commedia in prosa scritta
nella primavera del 1754 per le recite dei convittori di un Collegio di Gesuiti
(Bologna o Modena) e stampata in quello stesso anno nell'edizione Paperini
delle opere goldoniane. La commedia, in aderenza alle regole rappresentative
delle recite collegiali, non prevede parti femminili e non fu mai utilizzata nel
repertorio di comici professionisti (né dalla compagnia goldoniana del San
Luca né - a quanto mi consta - da altri complessi): su tale esclusione dal
circuito pubblico avrà sicuramente influito la sua particolare configurazione
drammaturgica (la mancata presenza di ruoli femminili doveva renderlo
inidoneo agli equilibri interpretativi delle compagnie - nonché, più in generale,
non rispondente all'orizzonte d'attesa del pubblico teatrale): ma è da ritenersi
altamente probabile anche l'incidenza di un ben meditato calcolo di natura
politica. La commedia infatti sceneggia la truffa perpetrata da un finto capitano
(sorta di variante aggiornata del miles gloriosus e sue successive evoluzioni
drammaturgiche)27 che, spacciandosi per ingaggiatore di milizie per conto di
una potenza straniera e promettendo cariche e lucrose mansioni, estorce
cospicue somme di denaro ai suoi creduli ospiti. In filigrana, e come l'autore
stesso dichiara sin dalla prefazione alla prima edizione della commedia, è
distinguibilissimo uno dei tanti episodi che costellarono la vita di quell'
avventuriere non sempre onorato che fu Carlo Goldoni prima di dedicarsi
professionalmente al teatro. Ma se l'identificazione dell'autore con uno dei
personaggi è resa trasparente sin dalla sua denominazione (che assume il
nome arcade di Goldoni, quel Polisseno [Fegeio] che ricorreva in bella vista
sui frontespizi delle prime edizioni delle sue opere)28 e viene poi dettagliatamente
Per l'ambientazione ragusea, il più calzante modello drammaturgico di riferimento potrebbe
essere il Capitano del Dolce: anche se il protagonista eponimo è in realtà di origine senese, egli
è comunque e non a caso proposto come prototipo di cittadino raguseo, soldataccio ottuso,
brutto e libidinoso, nonché pronto a involarsi le donne altrui. Anche Orazio Sbocchia, il capitano impostore della commedia goldoniana, ha i connotati del gloriosus che in realtà è sprovveduto e pavido, e del losco seduttore.
28
La veneziana Bettinelli (1750-1757) e la fiorentina Paperini (1753-1757), e molte delle ristampe “pirata” che da quelle derivarono (la bolognese San Tommaso, la napoletana Venaccia, la
pesarese Gavelli): cfr. Scannapieco, “Scrittoio, scena, torchio”, op. cit., 224-242. È probabile che
sull'origine della scelta onomastica abbia inciso una volontà tra l'autoironico e il narcisistico di
effigiare in commedia una delle considerazioni che saranno poi formulate nella prefazione al
vol. XVII Pasquali: un poeta comico lasciarsi gabbare da un Impostore! Cent'altri sono caduti
nella mia medesima rete ma io doveva cadervi meno degli altri. Io che aveva dipinto un Ludro
imbroglione nel Momolo Cortesan, un Trappola nel Prodigo, un Marcone scroccone di piazza
nella Bancarotta, mi sono lasciato gabbare, soverchiare, scroccare da un Frappatore! (I 755).
27
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dispiegata nel corredo esegetico che accompagna il testo a stampa, nulla né
nella caratterizzazione del personaggio protagonista, né nell'articolazione
della vicenda rappresentata, lascia trapelare alcunché della nazionalità
ragusea dell'impostore, e nemmeno dei reali contorni politici della sua
impostura. Su tali elementi si guarda bene dal fornire indicazioni anche la pur
loquace prefazione della commedia, e analogo “riserbo” ostenteranno poi le
più tardive Memorie italiane.29 Bisognerà non a caso aspettare i Mémoires una volta tanto non viziati da reticenze o confusioni - perché il racconto
autobiografico, finalmente affrancato da ogni censoria cautela, possa far
riaffiorare alcuni fondamentali quanto scabrosi elementi della vicenda. È
solo in questa occasione infatti che l'autore viene spiegando che il sedicente
capitano era appunto un raguseo (Je viens de faire la connoissance d'un
capitaine ragusien […]. Il est en correspondance avec les principales cours de
l'Europe; il a des commissions qui font trembler), e che la sua attività di
ingaggiatore era mirata alla costituzione di un reggimento de deux mille
esclavons; e che precisamente a tal fine avrebbe inteso avvalersi della
competenza di un Gian Paolo Goldoni, militare ben esperto di quelle deux
p r o v i n c e s, Dalmazia e Albania,30 da cui il ragusien avrebbe voluto appunto
attingere de beaux hommes per il suo reggimento. L'attività di reclutamento
doveva essere effettuata - non si manca infine di sottolineare - nella massima
segretezza, stante la conclamata illiceità politica di tutta l'operazione (ô ciel!
si le Gouvernement de Venise venoit à le pénétrer, nous serions perdus).31
La particolare vivacità con cui l'episodio viene riproposto nei Mémoires una delle pagine in cui la narrazione si dispiega in forme di teatralizzazione
particolarmente accattivante - è stata forse all'origine di un utilizzo critico
davvero curioso della fonte. Non si è mai ad esempio rilevato che la dovizia
29
30
31
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Come già accennato, l'episodio è infatti narrato nella prefazione al diciassettesimo tomo
Pasquali: cfr. I 753-755. Per la data di pubblicazione di questo tomo cfr. supra, n. 3
Come si ricorda nei Mémoires I, cap. XIX (I 87) il fratello dell'autore aveva condotto la sua
formazione militare a Zara (dove una ventina d'anni dopo avrebbe sperimentato il proprio
noviziato militare anche un Carlo Gozzi), sotto la tutela di un parente, Girolamo Visinoni, che
ricopriva la ragguardevole carica di capitano dei dragoni e aiutante maggiore del provveditore
generale di Dalmazia e Albania. In seguito era entrato a far parte dell'esercito del Duca di
Modena, da cui si era congedato tra la fine del 1741 e l'inizio del 1742, in cerca di più remunerativi ingaggi. Ed è proprio in questa congiuntura che si sarebbe dato l'incontro col sedicente
ingaggiatore raguseo. Pare peraltro che lo stesso Gian Paolo Goldoni già un paio d'anni prima,
a Venezia, si fosse direttamente compromesso in questioni di reclutamenti illeciti e fosse stato
in quanto tale tenuto sotto controllo dall'autorità giudiziaria (cfr. la documentazione allegata
nelle note a Mémoires I, cap. XLIV, in MV, XXXVII 299-300).
Tutte le citazioni sono tratte da Mémoires I, cap. XLIV. Merita riportare per esteso i passaggi
più significativi: Je viens de faire [parla Gian Paolo Goldoni] la connoissance d'un capitaine
ragusien, d'un homme…d'un homme comme il n'y en a pas. Il est en correspondance avec les
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del dettaglio narrativo - non certo risolvibile, come si è avuto modo di constatare, in esigenze di stilizzazione comica - si produca appunto solo ad un
mezzo secolo di distanza dagli eventi narrati; e, quel che più conta, con
pubblicazione realizzata in terra straniera: quella Parigi in cui l'ormai
anziano commediografo poteva ben sentirsi al riparo dalle conseguenze di
così imbarazzanti rivelazioni. La mancata percezione delle sostanziali novità
che la narrazione dei Mémoires propone rispetto a quelle precedenti è, a ben
vedere, causa ed effetto ad un tempo della singolare deformazione prospettica
con cui la critica ha sempre guardato all'episodio del raggiratore raguseo.
Gustato come scena di commedia, interamente risolto nella briosa comicità
delle sue macchiette e degli incresciosi ma pur sempre divertenti effetti di
un'impostura subita, l'episodio non è mai stato considerato per quello che è,
e per quello che gli stessi elementi informativi contenuti nella narrazione dei
Mémoires consentivano di conoscere e di valutare: l'espressione cioè di uno
dei reati a cui nel corso del Settecento il governo veneziano guardò con
allarme crescente - il grave disordine di attrappar sudditi ne' stati nostri per
servizio di altri sovrani - e a cui cercò di opporre una legislazione sempre più
vigile e repressiva. Il grave disordine, per di più, poteva assumere connotati
particolarmente molesti ed umilianti per una Serenissima Dominante costretta
a misurarsi - nei ripetuti quanto vani tentativi di debellarlo - con gli effetti
delle proprie insufficienze politiche: perché il dominio indiscusso degli
ingaggiatori clandestini rimase, lungo tutto il secolo, quella Dalmazia che se
aveva fornito - e continuava a fornire - il nerbo più qualificato e fedele dell'
esercito veneziano, era anche provincia in cui la sostanziale latitanza
amministrativa del governo aveva alimentato condizioni di povertà endemica:
quelle stesse che rendevano agevole per gli ingaggiatori clandestini delle
principales Cours de l'Europe; il a des commissions qui font trembler; il est chargé de faire des
recrues pour un nouveau Régiment de deux mille esclavons; mais, ô ciel! si le Gouvernement de
Venise venoit à le pénétrer, nous serions perdus. Mon frere… mon frere… J'ai lâché le mot, vous
connoissez l'importance de la discrétion. […] il s'agit d'une place de capitaine pour moi; j'ai servi
en Dalmatie, comme vous savez; mon ami le sait aussi […] vous serez l'auditeur, vous serez le
grand juge du Régiment. […] finit par mettre sous mes yeux les lettres-patentes, écrites en langue
Italienne, par lesquelles il étoit chargé de recruter deux mille hommes de nation Illirique, pour
un nouveau Régiment, au service de la Puissance dont il tenoit la commission. […] je lui
demandai d'abord par quel hasard nous serions assez heureux, mon frere et moi, pour intéres ser sa bienveillance en notre faveur. Monsieur votre frere, répondit-il, est un homme qui peut
être très-utile à mes intérêts. Il connoît la Dalmatie et l'Albanie, où il a servi, ce sont les deux
provinces qui peuvent fournir de beaux hommes pour mon Régiment. Je compte le munir de
lettres et d'argent, et l'envoyer y faire des recrues. - Mon frere se jette au col du ragusien. - Vous
verrez, vous verrez, mon ami; je vous emmenerai des dalmatiens, des albanois, des croates, des
morlaques, des turcs, des diables; laissez-moi faire, Gospodina, Gospodina, dobro jutro,
Gospodina (I 200-202).
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potenze straniere […] reclutare soldati in gran numero tra i contadini perenne mente assillati dalla fame.32
Per sradicare lo scandaloso e detestabile abuso di defraudare li pubblici stati
de' propri sudditi ed altresì de' soldati, il Consiglio dei Dieci sarebbe giunto a
comminare la pena di morte:33 il decreto, del 9 agosto 1754, veniva emanato
nello stesso anno in cui Goldoni componeva e pubblicava una commedia che
rammemorava - e al tempo stesso rimuoveva in chiave di sublimazione comica
- il proprio concorso in reato di così grave entità. Che la responsabilità penale
del sedicente capitano raguseo fosse in realtà circoscritta alla misura di un
raggiro, ha fatto perdere di vista che così non poteva essere per i soggetti da lui
raggirati: pronti ad impegnarsi nella corresponsabilità di quello che era
considerato un vero e proprio attentato istituzionale. La gustosa figurina del
poeta comico che si lascia gabbare da un Impostore34 ha posto in ombra che il
suo reale interprete era fra l'altro stato, all'epoca dei fatti, un Carlo Goldoni
console della repubblica genovese a Venezia, e in virtù della sua mansione
autorizzato alla frequentazione delle massime istituzioni cittadine35: e pronto
tuttavia, con discutibile pragmatismo, a porgere orecchio a chi gli offeriva
miglior destino, sostenendone gli illeciti disegni e ricevendone in cambio la
lucrosa carica (quindici zecchini il mese di certo, oltre i pingui avventizi che
porta seco l'impiego)36 di auditore di un reggimento composto con fraudolenta
sottrazione a li pubblici stati de' propri sudditi ed altresì de' soldati.
In questa prospettiva meglio si comprenderà come L'impostore fosse stato
commedia ideata e composta per circuiti privati, e come - anche dopo la stampa
- rimanesse escluso dai repertori delle compagnie professioniste; e parrà inoltre
Berengo, “Problemi economico-sociali della Dalmazia veneta”, op. cit., 492. Il passo citato rientra
nell'analisi di quel fenomeno migratorio che contrassegnò visibilmente la storia della Dalmazia
veneta nel sec. XVIII: una delle sue principali cause - l'aspetto del fenomeno che riesce più molesto
ed umiliante al governo - è ravvisata proprio nel fatto che gli ingaggiatori clandestini delle potenze
straniere non cessano mai di percorrere il paese, e riescono a reclutare soldati in gran numero tra i
contadini perennemente assillati dalla fame. Il premio d'ingaggio, un salario assicurato, e la libera zione dall'incubo della siccità e della carestia, sospingono così folte schiere di Dalmati nell'esercito
russo e, talora, anche in quelli imperiali e prussiani. […] Numerosissimi processi contro gli
“ingaggiatori esteri” in Dalmazia si conservano nell'archivio degli Inquisitori di Stato; nei periodi di
guerra, poi, si avevano delle vere e proprie leve abusive in tutta la provincia, specie al servizio russo
per combattere contro i Turchi. Sul tentativo del governo di debellare il fenomeno dei reclutamenti
clandestini attraverso una fitta rete di informatori, e sulle dimensioni particolarmente estese del
fenomeno in Dalmazia, cfr. P. Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 1994, pp. 495-507; sui
fenomeni migratori e sulle “diserzioni” di sudditi e soldati veneti in Dalmazia, con specifico riferimento al ruolo intermediario svolto da pericolosi concorrenti come Ragusa, cfr. il ricco materiale
documentario contenuto in F. M. Paladini, “Un caos che spaventa”. Poteri, territori e religioni di
frontiera nella Dalmazia della tarda età veneta, Venezia 2002, pp. 157-163.
33
Cfr. Preto, I servizi segreti di Venezia, op. cit., p. 502.
34
Cfr. s u p r a, n. 28.
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del tutto comprensibile che Goldoni non fosse mai tentato di “rimpastare” in
altre forme - come spesso il suo mestiere gli imponeva di fare - quella materia
tanto, di fatto, comicamente efficace quanto, in potenza, politicamente incandescente. E anche se gli elementi che a vario titolo fanno gravitare il baricentro
tematico della vicenda verso la Dalmazia - la caratterizzazione ragusea dell'
ufficiale impostore, il reclutamento clandestino da realizzarsi nei domini veneti
d'oltremare, la correità di veneziani anche istituzionalmente in vista - restavano
interamente conclusi nel pre-testo della commedia, di quegli elementi e delle
loro imbarazzanti implicazioni etico-politiche converrà ben ricordarsi all'atto
di valutare La dalmatina, quarta ed ultima tessera documentaria del nostro
excursus: opera composta per un pubblico veneziano, con cui, facendo vibrare
caldi accenti di amor patrio e tracciando la mitografia spettacolare della lealtà
politica e della virtù militare dei soldati illirici, il poeta di compagnia Carlo
Goldoni metteva a segno uno dei più clamorosi successi della sua produzione e
dell'intera offerta spettacolare veneziana del secondo Settecento.37
4. «Ho la mia patria in core, ho il mio Leone in petto…»: Radovich,
nascita di una leggenda
S
ulla Dalmatina - tragicommedia in martelliani andata in scena per la prima
volta al San Luca, nell'autunno del 1758 - non hanno mancato di riverberarsi gli effetti di quella deformazione prospettica con cui, come abbiamo visto,
si è per solito letto e interpretato L'impostore. Si è così finiti per incorrere in un
aneddotismo folclorico che rende ben poca giustizia alla complessità delle
tematiche in gioco (oltre che della stessa personalità dell'autore, svilito nel
Fui introdotto in Collegio avanti il Doge e li eccellentissimi Savi; distinzione non praticata cogl'al tri consoli, e che passerà in esempio a' miei successori: così, in una lettera del 14 gennaio 1741, il
neoconsole dava notizia del privilegio accordatogli (XIV 6).
36
Dalla prefazione alla commedia, V 520-521.
37
Per una valutazione dello straordinario riscontro ottenuto dalla nostra tragicommedia, cfr. i dati
documentari e la relativa interpretazione critica contenuti in Anna Scannapieco, “…gli erarii
vastissimi del Goldoniano repertorio. Per una storia della fortuna goldoniana tra Sette e
Ottocento”, Problemi di critica goldoniana 6 (1999), 143-238, in part. 167-177 e n. 52. A misurare il valore paradigmatico di tale riscontro anche dalla prospettiva della committenza, si riconsideri come il proprietario del San Luca - ad un anno di distanza dalla clamorosa accoglienza
tributata alla Dalmatina - poteva rammentare al suo poeta di compagnia che le comedie in presen te piacciono quando sono teatrali, e non di parole, o di solo carattere. Nulla più le dico, perché ella
ha veduto, che la sola Dalmatina ha avuto l'assenso del popolo; sicché la conseguenza è chiara
(lettera di Francesco Vendramin a Carlo Goldoni, s.d. [ma luglio 1759], in D. Mantovani, Carlo
Goldoni e il teatro di San Luca a Venezia. Carteggio inedito (1755-1765), Milano 1885 [rist.
anastatica con introduzione di N. Mangini, Venezia 1979], pp. 117-118). Per una più ampia
contestualizzazione del fenomeno qui discusso, cfr. il Commento e la Nota sulla fortuna in
Dalmatina, EN.
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cartoon del mite Goldoni che sa elaborare il trauma della truffa patita ad opera
del capitano raguseo e può quindi liberare in scena la sua “calda simpatia” per
le genti dalmate).38 E soprattutto, per conseguenza, non è mai stata rilevata la
scabrosa contraddizione tra il singolare difetto di amor patrio e il livido sfondo
politico-amministrativo che, sia pur in controluce, animavano il quadro della
commedia destinata a circuiti privati e - per converso - quella straordinaria
strategia del consenso e della “cooptazione identitaria” su cui, come vedremo,
si innerva la tessitura drammaturgica dell'opera ideata per catturare il pubblico teatrale veneziano.
Ben altre ipoteche interpretative hanno d'altronde gravato sulla ricezione della
D a l m a t i n a, l'opera in cui l'engagement politico dell'autore sembra essersi
espresso nei suoi termini più programmatici (e problematici). Infatti, per quanto
sostanzialmente ignorata dalla critica (fatte salve alcune occasionali annotazioni
in margine a quella produzione esotica nel cui indistinto novero viene correntemente inglobata),39 la tragicommedia ha conosciuto una stagione di fortuna
davvero inconsueta per un testo goldoniano: allorché, durante la conferenza di
Versailles e la connessa impresa di Fiume, la sua vischiosa materia rappresentativa calamitò l'improvviso interesse di studiosi e politici, italiani e slavi, andando
a costituire - come forse non è mai stato osservato40 - uno dei capitoli più interessanti delle pratiche di rifunzionalizzazione poste in opera per complessi storicoletterari italiani. In una temperie in cui l'irredentismo di matrice risorgimentale
Così ad esempio nel più recente contributo sulla tragicommedia: Goldoni avrebbe potuto avere un
atteggiamento più duro, magari censorio, nei confronti delle genti dalmate, se avesse lasciato
raffiorare e prevalere su altre considerazioni un ricordo che troviamo registrato nei Mémoires […]
Non era stato un episodio da poco […]. Tutto questo doveva essere stato rimosso dal Goldoni, nel
momento in cui si apprestava a scrivere la tragicommedia della Dalmatina […] se non altro
perché l'episodio del falso reclutatore di milizie durante il periodo del consolato goldoniano [ … ]
aveva già trovato una sua sublimazione giocosa teatrale, con probabile rasserenamento della
memoria, nella commedia L'impostore […]. Dopo quella rimozione o rasserenamento vengono a
trovare possibilità di spazio, per la Dalmatina, gli effetti di ben altre suggestioni (G. Da Pozzo,
“Coerenza e sperimentalità goldoniana nella 'Dalmatina' ”, La Rassegna della letteratura italia na 106, 1 (gennaio-giugno 2002), 17-18). Anche in questo caso, l'impostazione interpretativa era
già stata nettamente tracciata nelle note storiche dell'omnia (cfr. MV, XXV 89), e poi variamente rimodulata dalla critica successiva, anche se il particolare sembra sfuggire allo studio citato
(L'episodio [del raguseo profittatore della sua buona fede] non viene di solito ricordato dalla
critica, quando si parla della Dalmatina, forse perché si pensa che esso contraddica l'ammira zione per i sentimenti della protagonista dalmata della commedia) .
39
Per un'analisi ragionata della bibliografia critica d'argomento, cfr. D a l m a t i n a, EN.
40
Il fatto che Goldoni's ideology of Adriatic empire was explicitly inserted into the national confronta tion between Italians and Slavs over Dalmatia in 1919 è stato acutamente sottolineato da Wolff,
Venice and the Slavs, op. cit., p. 353, sulla scorta tuttavia dell'analisi di uno solo dei vari interventi
che si produssero sull'argomento nel fatidico biennio 1919-1920 (quello di Cesare Levi, per cui cfr.
infra, n. 46): in mancanza delle necessarie integrazioni documentarie, l'entità della manipolazione
ideologica della fonte letteraria non viene pertanto adeguatamente posta in luce. Una rassegna
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andava vieppiù metamorfizzandosi nell'aggressività imperialista del nazionalfascismo, quella tragicommedia che aveva infiammato le platee veneziane del
secondo Settecento veniva a fornire un contributo fondamentale all'invenzione di
un diritto esclusivo italiano sulla Dalmazia sulla base della cultura veneto-italia na.41 E andando a costituire un capitolo davvero singolare della critica goldoniana, di cui conviene rimeditare qualcuna delle più significative pagine:
La Dalmatina di Carlo Goldoni non va annoverata fra i capolavori del
grande commediografo. È un'opera piuttosto scialba, diluita in brutti martellia ni, con un intreccio melodrammatico ordito sopra un fondo d'ambiente orienta le da vecchia stampa, sul tipo di quelle varie Ircane e Persiane con le quali il
Goldoni indulgeva di quando in quando al gusto esotico e romanzesco del suo
tempo […]. Ma ciò che merita di essere notato, nella D a l m a t i n a, ciò che le
conferisce pregio e interesse, è l'apologia, che essa contiene, del popolo di
Dalmazia; è, oserei dire, il suo spirito adriatico, per il quale taluno potrebbe
ravvisare nella mediocre commedia del Goldoni un primo sia pur pallidissimo
s e gno di quella coscienza imperiale veneta che doveva un giorno trovare la sua
matura sfolgorante espressione nella tragica grandiosità, nelle sonore e pittore sche magnificenze della N a v e, vaticinio della vigilia italiana. […] Né i dalmati
possono ancor oggi desiderare un elogio più alto, più caloroso di quello che il
Goldoni tessé delle loro virtù native. Meglio giova ad essi riconoscersi nelle
immagini oneste e attraenti di Zandira e di Radovich anzi che nella figura
abbastanza puntuale degli interventi critici sulla Dalmatina, anche con specifico riferimento a quelli
di nostro interesse, è invece in Čale, “La 'Dalmatina' di Goldoni”, op. cit., 178-184, che si mostra
tuttavia insensibile alle loro implicazioni politico-culturali (su tale contributo cfr. anche infra, n. 52).
41
Dalla temperie risorgimentale a quella irredentista a quella nazionalfascista, la rifunzionalizza zione della tradizione italiana e quindi l'invenzione di un diritto esclusivo sulla Dalmazia sulla
base della cultura veneto-italiana e della tradizione giuridica comunale, come pure rispetto alla
storia geopolitica, passa per la manipolazione letteraria, per le ricerche antiquarie e la selezione
faziosa delle fonti storiche. Il culto per le vestigia del cosmo unitario dalmato-istrio-veneto e le
matrici culturali liberal-risorgimentali e irredentistiche sono stati reinterpretati in Italia dalla fine
degli venti e soprattutto nei trenta e nei primi quaranta in funzione delle esigenze del regime e della
competizione con il Reich e il regime ustasa, ma anche di influenze dell'antroposociologia tedesca
(Paladini, “Un caos che spaventa”, op. cit., p. 23).
42
Il riferimento è a Marko Kraljevic, il leggendario eroe epico in cui la poesia popolare serba e croata
aveva celebrato le gesta di un aiducco storicamente esistito (in epoca medievale l'aiducco era il
brigante di strada, che più tardi si trasformerà in protagonista delle insurrezioni e delle guerriglie
contro i turchi). L'ironia della sorte vuole che uno dei più famosi aiducchi settecenteschi,
Stanisalo Soçivizca, avesse come patronimico il nome del protagonista della Dalmatina goldoniana, Radovich. Del Soçivizca tracciò una celebre biografia Giovanni Lovrich nell'ambito della sua
polemica replica al Viaggio in Dalmazia (Venezia 1774) di Alberto Fortis (Osservazioni sopra
diversi pezzi del Viaggio in Dalmazia del signor abate Alberto Fortis, coll'aggiunta della vita di
Soçivizca, Venezia 1776), biografia che venne più volte pubblicata come romanzo a sé e da cui
venne anche ricavato un adattamento scenico (A. S. Sografi, Stanislao Soczivicza detto il
f o r m i d a b i l e:andato in scena per la prima volta al Sant'Angelo il 26 dicembre 1797).
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poderosa ma scostumata del mitico beone Craglievic Marko,42 assunto eroe
nazionale della Serbia dopo aver militato coi turchi oppressori della sua terra,
il quale nelle rapsodie illiriche appare sempre troppo pronto ad ammazzare le
donne che, come Rosanda, lo respingono, o che, come la Figlia del Re arabo, lo
annoiano; e sovente non ha difficoltà a portar via alle sue amanti anche i
quattrini. Il che può ammettersi forse tutto sommato, per un eroe balcanico, ma
deve necessariamente ripugnare a coloro che, affacciati alla riva del nostro
mare, respirano la civiltà e la moralità di un clima storico alquanto differente.43
Non era solo l'agguerrito e intemperante nazionalismo di un Giulio de Frenzi,
alias Luigi Federzoni (il futuro ministro delle Colonie e dell'Interno)44 a porre in
opera forme così vistose di strumentalizzazione ideologica, la cui sostanza
infatti traluce anche nella rara finezza critica di un Pietro Paolo Trompeo45 o
nella competenza di un Cesare Levi46 - nonché, “dall'altra sponda”, negli interessi politici dei goldonisti di area slava, pronti a ritenere doppiamente interessante
occuparsi di quest'opera proprio oggi, quando quel fanfarone di D'Annunzio si
G. de Frenzi [L. Federzoni], “'La Dalmatina' di Goldoni”, L'idea nazionale, 14 ottobre 1920.
Per un profilo sintetico ma puntuale del Federzoni, uomo politico e intellettuale di punta
dell'Italia primonovecentesca, si veda la voce redatta da A. Vittoria per il Dizionario Biografico
degli Italiani, vol. 45, Roma 1995, pp. 792-801.
45
La commedia vuol essere patetica: ma povera com'è di vero contenuto umano, co' suoi
personaggi privi di vita intima, essa è soltanto sentimentale, nel peggior significato della parola.
E non ci sarebbe altro a dire se da questa mediocre “comédie larmoyante” non si levasse su,
intera e schietta, la nobile immagine della Dalmazia veneta. Storica, dunque e non artistica è
l'importanza della Dalmatina, e tanto più oggi. […] Il fatto è che se Carlo Goldoni fu quella volta
mediocre autor comico fu per contro ottimo politico e diplomatico accorto, senza cessar per
questo d'esser uomo schietto e leale. Anzi la sua fine diplomazia s'esplicò appunto nel rappre sentar i dalmati quali erano e volevan essere: “nazione”, com'essi dicevano, e perciò non fusi co'
veneti, ma nella loro affettuosa fierezza a San Marco fedeli fino alla morte. […] Cosa sarà della
Dalmazia? La Conferenza ne disporrà secondo la lettera del patto di Londra? Verrà essa
attribuita alla Serbia? o a quella Confederazione Danubiana di cui si ritorna a parlare di tanto
in tanto? La vedremo unita alla Croazia in uno stato jugoslavo cattolico? O sarà dichiarata
autonoma, come domanda - faute de mieux - l'onorevole Federzoni? Comunque […] in questo,
credo, tutti gli italiani dovranno convenire: che nei nostri rapporti di convivenza o di vicinato
con le popolazioni slave dell'altra sponda è necessario, per l'affermarsi della nostra civiltà,
portare uno spirito che concilii la dignità nostra col rispetto dovuto ai parlanti altra lingua. E
gli slavi alla nostra civiltà dovranno prima o poi riavvicinarsi, riprendendo una gloriosa
tradizione più volte secolare. La finanza straniera non sarà così potente da distruggere ogni
traccia di questa tradizione. […] Non sarà stato inutile […] aver ricordato che i dalmati […] hanno
una gentile ambasciatrice accreditata presso le nostre lettere e un valido patrono in Carlo
Goldoni (P. P. Trompeo, “La Dalmatina”, Le vie del mare e dell'aria 18 (1919), 3-4 e 6).
46
Dall'esame sommario delle opere, nelle quali appaiono personaggi di teatro dei dalmati, si può
concludere che le buone qualità istintive della razza sono sempre messe nella luce migliore, e
cioè: ardimento, che non indietreggia dinanzi alle più perigliose imprese, generosità di
sentimenti, e nobiltà di carattere, e soprattutto amore alla patria ed orgoglio di essere associa ta alla secolare gloria di Venezia (C. Levi, “Dalmati sulle scene”, Il Marzocco, 11 maggio 1919).
47
R. M. Ivanovič, “Goldonijeva 'La dalmatina' ”, Hrvatska prosvjeta 7 (1920), 215, cit. in Čale, “La
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pavoneggia a Fiume.47
Il fatto che una tragicommedia in martelliani, capace di sorprendere e conquistare l'immaginario del pubblico teatrale nella Venezia del secondo Settecento,
ma anche di cadere poi in un rapido e irredimibile oblio (nonché di restare
completamente estranea alla pur vivace attenzione con cui l'area slava, e specificamente croata, alimentò la fortuna del teatro goldoniano)48 potesse essere
d'improvviso riesumata, e con tale dovizia di “eteronomi intenti”, ha naturalmente precise radici nella particolare fisionomia del testo stesso, forse il più politicamente esposto, come si accennava, di tutta la produzione goldoniana.
Centro gravitazionale della materia rappresentativa non è certo la dalmatina
Zandira, fatta schiava in Marocco e contesa da vari spasimanti (tra cui il
connazionale, nonché promesso sposo, Radovich, il greco Lisauro e i musulmani Ibraim e Alì), e strumentalmente eletta dall'autore a personaggio eponimo in
ossequio ai canoni della sua produzione “esotica” (che definisce rigorosamente
al femminile il baricentro del proprio orizzonte compositivo, dalle Ircane alle
Peruviane, dalle Selvagge alle Georgiane). A delineare con precisione l'argomento fu d'altra parte Goldoni stesso, allorché - nel varare la diffusione a stampa
della tragicommedia, di cinque anni successiva al suo esordio spettacolare - pose
in evidenza che si tratta in essa di una nazione fedele, e benemerita alla
Repubblica Serenissima; si tratta in qualche maniera del nome glorioso de'
veneziani, del valor de' schiavoni, e del rispetto che gli uni, e gli altri esigono
principalmente sul mare.49 Sono affermazioni ricorrenti nella dedica della
Dalmatina, non a caso l'unica tra tutte le “esotiche” a non ricercare legittimità e
'Dalmatina' di Goldoni”, op. cit., 182-183.
Al riguardo, cfr. i dati discussi nella “Nota sulla fortuna”, in Dalmatina, EN.
49
Dalla dedica della tragicommedia, edita per la prima volta nel vol. IX dell'edizione Pitteri (1763).
Cfr. anche M é m o i r e s, II, cap. XXXIV: Les vénitiens font le plus grand cas des dalmates, qui,
étant limitrophes du turc, défendent leurs biens, et garantissent en même temps le droits de leur
Souverains. C'est de cette nation que la République tire l'élite de ses troupes, et c'est parmi les
femmes de ce peuple courageux que je choisis l'héroïne de mon drame (I 390).
50
È stato già sottolineato come, a livello di prassi dedicatoria, il genere tragicomico sembra pref i g u rare, per lui [Goldoni], una specifica strategia di attenzione verso l'universo femminile (M. Pieri,
“Introduzione”, in C. Goldoni, La sposa persiana. Ircana in Julfa. Ircana in Ispaan, Venezia 1996
[C. Goldoni, Le opere, Edizione Nazionale], p. 82); né si è mancato di interpretare la dedica al
femminile, che caratterizza - esclusa la patriottica Dalmatina […] - tutte le restanti esotiche, come
chiave di lettura di determinate tipologie di personaggi femminili: femmes fortes che sembrano
rimandare, nell'immaginario goldoniano, a caratteri di esotismo (Ilaria Crotti, “Per un Goldoni
americano”, in Libro, Mondo, Teatro. Saggi goldoniani, Venezia 2000, p. 118). Per un più articolato inquadramento dell'attenzione con cui Goldoni cercò un patrocinio muliebre nella pubblicazione delle proprie opere (al di là della loro eventuale connotazione “esotica”), cfr. Anna
Scannapieco, “'Sotto il manto dell'autorevole protezione vostra…'. Carlo Goldoni e le nobilissime
dame veneziane”, in Luce di taglio: preziosi momenti di una nobildonna veneziana. Una giornata
di Faustina Savorgnan Rezzonico, a cura di F. Pedrocco, Milano 2002, pp. 112-115.
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patronage in un'interlocuzione femminile,50 ma nel neo-procuratore di San Marco
Gian Francesco Pisani, cioè - come Goldoni veniva significativamente sottolineando - in uno de' primi sostenitori del decoro, dell'onor della patria, il di cui zelo
ha tutto sagrificato al bene, allo splendore, alla tranquillità dell'Adratico Impero.51
Il nesso patriottismo-apologia dei dalmati (della loro fedeltà e valor militare) era
stato rilevato sin dai primi interventi critici sull'opera (e poi inerzialmente
echeggiato, con vario grado di pertinenza, nei contributi successivi):52 ma per
Dalla citata dedica della tragicommedia (il tondo è mio); la solenne proclamazione di GianFrancesco Pisani a procuratore di San Marco avvenne il 23 aprile 1763: nonostante la lontananza
parigina, Goldoni partecipò alle celebrazioni non solo consacrando al neoeletto la Dalmatina, ma
anche contribuendo alla realizzazione di una sontuosa raccolta di componimenti poetici (Venezia
1763; il contributo goldoniano - Per il solenne ingresso di Sua Eccellenza il signor Giovanni
Francesco Pisani alla sublime dignità di Procur. di San Marco Capitoli tre - si legge ora in XIII
882-898). Per una disamina delle intenzioni argomentative soggiacenti alla strategia celebrativa
della dedica al Pisani, cfr. il relativo commento in Dalmatina, EN.
52
Cfr. Maddalena, Nota storica alla Dalmatina, op. cit., in part. pp. 90-91 e idem, La “Dalmatina” del
G o l d o n i, Roma 1927 (estratto dalla Nuova Antologia, 16 luglio 1927). A riprova di quanto si
s e gnalava a testo sulla varia pertinenza con cui tale motivo è stato modulato nei contributi critici
successivi, cfr. ad esempio come per Francesco Del Beccaro sia evidente che La Dalmatina rappre senta un atto sincero d’ amor patrio in un momento in cui la Serenissima aveva bisogno del consenso e dell’ appoggio morale di tutti i suoi figli. […] pensò di dedicarla a Gian Francesco Pisani, procura tore di San Marco, del quale sottolinea - dopo accenni alle giustificate apprensioni del momento l’ “eroico, costante amore” per la patria veneziana (F. Del Beccaro, “L’ esperienza ‘esotica’ del
Goldoni”, Studi goldoniani 5 (1979), 90; sono evidenziate in tondo le affermazioni del tutto destituite
di fondamento storico o documentario); o come per Giovanni Da Pozzo sia possibile sottolineare che
mentre l’ eroe dalmata Radovich è il personaggio che menziona più volte la patria, riflesso forse del
debito veneziano verso i combattenti schiavoni; […] mai invece quel sostantivo viene pronunciato da
Argenide, punita forse come personaggio, in qualche modo, per il fatto di essere figlia di un greco,
gente alla quale da parte veneziana, e non solo da quella, veniva assegnata un’ idea di fede mancata
(Da Pozzo, “Coerenza e sperimentalità goldoniana nella ‘Dalmatina’ ”, op. cit., 28): trascurando del
tutto che il termine ‘patria’ risuona anche nelle vibranti performances di Canadir, cioè quel padre di
Argenide chiamato in causa dallo stesso studioso (cfr. inoltre i n f r a, n. 91). Il nesso patriottismoapologia dei dalmati è discusso anche in Čale, “La ‘Dalmatina’ di Goldoni”, op. cit., incline a ritenere
che si esageri quando il trionfo teatrale della Dalmatina si mette in relazione con le lodi dell’ autore
indirizzate alle virtù eccezionali dei dalmati e con la loro devozione al Leone (p. 171), e pronto invece
a esaminare quel nesso nella prospettiva delle due categorie interpretative del conformismo patriot tico e del cosmopolitismo illuministico: alla prima andrebbe ascritto il tendenzioso corredo autoesegetico della dedica e la manciata di versi strumentalmente distribuiti nella tessitura drammaturgica
a glorificazione della patria, e precisamente del suo espansionismo politico e militare - fatto che
contraddice, confesseranno tutti, alla sua [di Goldoni] mentalità democratica e popolare (p. 172); alla
seconda andrebbe ricondotta invece la ragione sostanziale del successo della pièce (le sue radici
ispirative […] vanno collegate, invece, all’ unico tra i motivi di umanità goldoniana in esso presenti, all’
amicizia e alla stima reale per la gente oltre l’ Adriatico, sentimento sincero il quale, però, […] a Goldoni
non era comodo esprimere a Venezia senza contaminarlo con quello della patria, p. 173). L’ idea di
fondo è che mentre l’ acclamazione alla potenza del conquistatore-padrone temibile ma giusto suona
come un cliché retorico, i versi di lode al carattere dei dalmati riflettono la simpatia più volte dimo strata dall’ autore alla gente d’ oltre mare (p. 176): che è modo, come ognuno ben vede, per proiettare
sull’ effettivo cosmopolitismo goldoniano, un conformismo patriottico di “altra sponda”. Sul rapporto tra cosmopolitismo e patriottismo nella cultura europea illuministica e nella tessitura ideologica
della tragicommedia goldoniana, mi permetto di rinviare all’ “Introduzione” alla Dalmatina, EN.
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rimanere circoscritto in se stesso, e come risolto nella constatazione di
un'evidenza. Che quel nesso invece evidente affatto non fosse - e che, a rigore,
i suoi stessi costituenti fossero tutt'altro che prevedibili - possiamo oggi ben
riconoscere, alla luce delle più recenti acquisizioni storiografiche; allo stesso
Goldoni, del resto, non era sfuggito di aver innovato in profondità, e di aver
violato con quella sua opera un ben definito orizzonte d'attesa, se nella
prefazione alla commedia poteva ricordare come gli schiavoni […] fedelissimi
sudditi della Repubblica Serenissima di Venezia, quando intesero annunciare
una donna illirica sulle scene, temevano qualche tratto di licenza poetica sul
carattere assai rispettabile della nazione.53 Era lo stesso orizzonte d'attesa al
cui consolidamento, come abbiamo visto, non aveva mancato di contribuire,
con La birba, anche e proprio il futuro autore della Dalmatina, e che sul limitare del secolo - in anni di ormai imperante “morlaccomania”54 - avrebbe ricevuto
un poderoso omaggio retrospettivo nella narrazione delle Memorie inutili:
allorché un Carlo Gozzi consapevole della propria “inattualità” e proprio per
questo risoluto a ristabilire “verità” non più à la page,55 dedicherà alla
Dalmazia, e in special modo alle d a l m a t i n e, alcune delle sue più sarcastiche e
sprezzanti pagine. È il Gozzi che scopre ventenne e ottuagenario rammemora
la natura libidinosissima delle femmine dalmate (i legislatori che conobbero
essere impossibile in que' paesi il frenare la furia della libidine, hanno stabilita
una tariffa sulla deflorazione d'una vergine morlacca poco maggiore della paga
che vien data da un vizioso liberale a Venezia ad una mercantessa da peccati
pian terreno), la loro barbarica e repulsiva bellezza (nella Dalmazia ci sono
“L’ autore a chi legge”, op. cit.
Dal Viaggio in Dalmazia di Fortis (e in particolare dal suo celebre e pluritradotto capitolo dedicato
ai Costumi de’ Morlacchi) al romanzo di Giustina Wynne Rosenberg (Les Morlaques, Venezia
1788) al saggio di Giulio Bajamonti sul “Morlacchismo d’ Omero” (in Nuovo giornale enciclopedico
d’ Italia, marzo 1797) la “morlaccomania” settecentesca si espresse in un crescendo che non
mancherà di fruttificare anche nel secolo successivo. Sulle radici storico-culturali del fenomeno,
e sulla sua fenomenologia settecentesca, cfr. le fondamentali pagine di F. Venturi, Settecento
riformatore, vol. 5, L’ Italia dei lumi, t. 2, La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990, pp.
347-424; per le elaborazioni letterarie e ideologiche del tema, cfr. anche Zorič, Italia e Slavia, op.
c i t ., pp. 94-105 e, soprattutto, Wolff, Venice and the Slavs, op. cit., passim.
55
Nell’ introdurre i capitoli delle sue memorie “dalmatiche”, Gozzi sentiva non a caso l’ esigenza
di misurarsi con il punto di vista espresso (e ormai imposto) dal Viaggio in Dalmazia di Fortis,
chiamandolo esplicitamente in causa e in qualche modo ridimensionandone l’ attendibilità
documentaria. Si consideri almeno la conclusione del lungo excursus: Questa narrazione […]
potrebbe anche destare il sospetto ch’io abbia voluto porre in disegno di cattivo ritratto i popoli
de’ villaggi della Dalmazia. Convien sofferire qualche mia osservazione […] (Gozzi, Memorie
inutili, op. cit., pp. 68-70, la citazione a p. 70; per avere un “assaggio” delle osservazioni che
venivano proposte dopo il passo citato, cfr. quanto di seguito menzionato a testo). Gli eventi
narrati nelle Memorie inutili relativi alle esperienze fatte in Dalmazia fanno riferimento al
periodo 1741-1744 (e sono distribuiti tra p. I, capp. IV- XIV, e p. II, capp. XLVII-XLVIII).
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delle belle femmine, che pendono, la maggior parte, alla robustezza maschile,
e tra le morlacche de' villaggi que' Pigmaleoni che volessero consumare qualche
staio di sabbia nel ripulirle, avrebbero de' bei simulacri animati), la loro “ontologica” e mercenaria sensualità (Le donne illiriche sono meno fedeli in amore delle
donne italiane; […] accecate e sforzate dal loro temperamento ardente, dall'effetto
del clima, dalla lor povertà, e sedotte facilmente dalla lor credulità a mancare di
fede);56 il Gozzi che a Zara vive la sua educazione sentimentale con varie corsare
di Venere57 e che sperimenta il proprio noviziato teatrale ideando e interpretando
la “sua” dalmatina, quella Luce buffoncella servetta che è degna antitesi dell'eroica Zandira goldoniana.58 Eppure, accenti che nella bocca sensuale e mendace di
una delle varie femmine dalmate gozziane avrebbe potuto suscitare solo le più
grevi risate - Amor sull'alme impera, / Ma un'illirica donna usa a parlar sincera59
- inaugurarono, nella nuova rappresentazione goldoniana, la modulazione di
un'inedita struttura di atteggiamento e di riferimento.60 Davvero imponente
insomma la trasmutazione prospettica che dovette prodursi in quell' autunno del
1758 nel veneziano teatro di San Luca, allorché l'appassionata Caterina
Bresciani61 entrava in scena scandendo con fierezza:
Op. cit., pp. 71-72 (dalla parte prima, cap. IX).
Op. cit., p. 92 (p. I, cap. XII): la memorabile definizione è riservata alla “dalmatina” che domina nei
capitoli zaratini della prima parte, Tonina (una delle più belle giovanotte popolane che vedesse
occhio umano […]. Ella aveva di molti spasimanti, e le sue cattiverie, i suoi nascondigli e l’ esca
che sapeva dare a parecchi merlotti, diveniva cosa materiale e da poche lire, e nondimeno ella
sapeva venderla de’ zecchini, op. cit., p. 89); meritevoli di una citazione integrale sarebbero i capitoli
della seconda parte che recuperano in analessi il noviziato erotico dell’ autore: una narrazione che
- come ha efficacemente sintetizzato Larry Wolff - demonstrated an imperial pattern of seduction,
coercion, and exploitation (Wolff, Venice and the Slavs, op. cit., p. 36). Sarà opportuno naturalmente sottolineare che dietro il rabbioso conservatorismo, il plateale approccio “imperialista” di
un Carlo Gozzi si esprime comunque una capacità diagnostica delle miserie e delle condizioni di
sfruttamento coloniale in cui versava la Dalmazia settecentesca che è invece programmaticamente
estranea alle sublimate (e sublimanti) rappresentazioni goldoniane: ma le implicazioni di tale
tema sono senz’ altro meritevoli di separata e distesa trattazione.
58
I miei scorci muliebri dalmatini; le mie malizie in sugli aneddoti noti de’ miei compagni e della città,
esposte con arti decenti e con delicatezza; i miei rimproveri; la mia ostentata castità; i miei riflessi,
i miei lamenti, fecero tanto ridere il provveditore generale e tutti gli ascoltatori, che mi fu accordata
universalmente la vittoria di poter essere considerata la più valente e buffoncella servetta che sia
comparsa in sui teatri (Gozzi, Memorie inutili, op. cit., pp. 78-79 (parte prima, cap. XI).
59
Dalmatina, EN, I.6.35-36.
60
Per la definizione di tale categoria critica, d'obbligo il riferimento alla produzione di Edward W.
Said (in particolare Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Milano 1999 e Cultura e
imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma 1998).
61
Lo stesso autore, nella prefazione alla commedia, riconosceva all'interprete un ruolo essenziale
nel clamoroso riscontro spettacolare dell'opera: la valorosa signora Catterina Bresciani ha
sostenuto con tanto spirito, e verità il carattere della dalmatina, che ha meritato gli applausi di
tutti, e specialmente degli schiavoni (dall' “Autore a chi legge”, in Dalmatina, EN. Sulla Bresciani,
cfr. ivi il relativo commento).
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Il ver dalla mia voce solo sperar tu puoi,
non san le oneste donne mentir coi labbri suoi;
sia di me, di mia sorte quello che il ciel dispone,
Amo più della vita l'onor di mia nazione. […]
pria di negar la patria, perder saprei la vita. […]
ho nelle vene un sangue noto, e famoso al mondo.
Sangue d'illustri eroi, d'eterna gloria erede
che alla sua vita istessa sa preferir la fede;
che più d'ogni grandezza ama il natio splendore,
che la fortezza ispira e il militar valore.62
Va da sé che dietro simile capacità di trasmutare orizzonti d'attesa (la
pièce, come già ricordato, segnò i vertici del successo goldoniano a Venezia)63
non può esserci solo l'incidenza di una presunta suggestione letteraria (quelle
Amazones della Du Boccage non a caso richiamate solo in un tardivo e tattico
- quanto peraltro generico e, per così dire, passe-partout - omaggio del “Molière
italiano” alla Sapho Parisienne) , 64 e tanto meno le ipotetiche sollecitazioni
indotte dalla concorrente offerta teatrale di un Pietro Chiari, che proprio in
Dalmatina, EN, I.3.19-22, 28, 30-34.
Travolgimento e modifica che, giusta le fondamentali indicazioni di Hans Robert Jauss, si
producono attraverso la negazione di esperienze familiari o la presa di coscienza di esperien ze che giungono ad espressione per la prima volta (H. R. Jauss, “Storia della letteratura come
provocazione nei confronti della scienza della letteratura”, in Storia della letteratura come
p r o v o c a z i o n e, a cura di P. Cresto-Dina, Torino 1999, pp. 166-225, la citazione a p. 197). Sullo
straordinario riscontro spettacolare dell'opera, cfr. quanto segnalato s u p r a, n. 37; si consideri
inoltre la testimonianza dello stesso autore: La mia Dalmatina è una di quelle commedie che
in Venezia principalmente mi hanno fatto il maggior onore. Ho veduto il popolo interessato ad
accoglierla, e farle festa (dalla dedica al Pisani, op. cit., in D a l m a t i n a,EN).
64
J'avois lu les Amazones de Madame du Boccage: j'imaginai une piece à-peu-près du même genre;
mais elle avoit choisi les héroïnes du Termodonte pour sujet d'une tragédie, et je pris une femme
courageuse et sensible de la Dalmatie pour le sujet d'une tragi-comédie, que j'intitulai la Dalmatina
(Mémoires II, cap. XXXIV, in I 390; in questo stesso luogo ricorre anche la definizione, citata a
testo, della Du Boccage come Sapho Parisienne). Merita sottolineare che solo nei Mémoires (e
dunque in un contesto particolarmente favorevole a tale tipo di dichiarazioni) l'autore esplicitò il
presunto modello, per la Dalmatina, del dramma della Du Boccage, mentre nessun riferimento a
possibili fonti presenta la sede più deputata al riconoscimento della genealogia letteraria del testo,
cioè la prefazione dell'opera (spazio appunto spesso utilizzato dall'autoesegesi goldoniana; per
limitarsi ad un esempio tratto dalla produzione “esotica”, si veda come la prefazione della
Peruviana - in IX 743-744 - istruisca il lettore sui rapporti genetici che legano la pièce al romanzo
di Madame de Graffigny). La critica non ha mancato di rilevare l'insussistenza e la pretestuosità
della tardiva indicazione dell'autore: Chiunque abbia la pazienza di leggere quei due drammi (e non
so per quale dei due ce ne voglia di più!) vedrà che nel lavoro del Goldoni non c'è proprio nulla del
francese, e che la è stata soltanto una cortesia del Goldoni verso la Du Bocage, da lui conosciuta di
persona [ … ] l'asserire di doverle la Dalmatina (cfr. recensione di E. Maddalena a C. Rabany, Carlo
Goldoni. Le théâtre et la vie en Italie au XVIII siècle, Parigi 1896, in Ateneo veneto, anno 20, 1
(aprile-maggio 1897), 271; cfr. anche idem, “Noterelle goldoniane. 'La Dalmatina' ”, Il Dalmata,
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quel torno di tempo avrebbe collaudato il trionfante riscontro spettacolare del
nesso patriottismo-virtù muliebre.65 A perseguire soltanto l'individuazione di
possibili fonti o suggestioni compositive, andrà semmai riconosciuta, ancora
una volta, al nostro autore la capacità di utilizzare e far risuonare convenzioni
rappresentative che si andavano codificando in altri ambiti, come quella che
prevedeva, nel riconoscimento complessivo del genio militare proprio delle
genti dalmate, la peculiare virtù, animosa e guerriera, delle loro donne,
sperimentate amazzoni della contemporaneità: come andava raccontando, con
ricchezza di riferimenti, quel repertorio del Salmon che Goldoni stava mettendo
così ampiamente a frutto proprio nella sua produzione esotica,66 e come
avrebbe puntualmente ribadito la dalmatologia di area illirica all'indomani del
Viaggio in Dalmazia di Alberto Fortis.67
Zara 8 agosto 1891, nº 73: di fatto i due drammi non hanno nulla di comune, né per il contenuto né
per gli episodi, e si piglierebbe un granchio a voler riguardare questo come fonte di quello). Un labile
legame potrebbe tutt'al più essere riconosciuto nella figura dell'amante, conteso fra due donne punto del resto onde muove già la Sposa persiana - e in quel tanto di ardimentoso e di guerresco
ch'è nel linguaggio e negli atti della protagonista Zandira che dalla violenza del corsaro si difende
con la scure (idem, La “Dalmatina” del Goldoni, op. cit., p. 4). La figura dell'amante conteso - nella
Dalmatina rappresentato dal greco Lisauro - documenta d'altronde un legame della tragicommedia
goldoniana con un romanzo di Barthélemy Marmont du Hautchamp (Rethima ou la Belle
Georgienne, 1735-36), che, come è stato persuasivamente argomentato, influenza il plot narrativo
di ben tre “esotiche” goldoniane (Dalmatina, Bella selvaggia e Bella giorgiana): nello specifico della
Dalmatina, tale possibile legame è riconoscibile nel fatto che la protagonista destinata, all'inizio
della vicenda al serraglio del Gran Serraglio della Porta Ottomana con altre fanciulle georgiane a
titolo di tributo, viene salvata durante il viaggio per mare e affidata ad un greco, Brigandini, che
promette di farla educare e di sposarla e che poi invece si rivela un perverso (Del Beccaro,
“L'esperienza 'esotica' del Goldoni”, op. cit., 96-97). Sorprende pertanto che al rapporto con il
dramma della Du Boccage sia tornato a prestare attenzione - e nella totale indifferenza a quanto
posto sinora in luce dalla letteratura critica d'argomento - il più recente contributo sulla Dalmatina
(Da Pozzo, “Coerenza e sperimentalità goldoniana nella 'Dalmatina' ”, op. cit., 19-21).
65
Cfr. G. Ortolani, “Patria e libertà nei teatri veneziani del Settecento”, Gazzetta di Venezia, 2 gennaio
1926. L’ opera del Chiari chiamata in causa è Cordova liberata dai Mori (andata in scena al Sant’
Angelo nello stesso autunno 1758 in cui al San Luca trionfava La dalmatina). Per un’ analisi del
rapporto tra le due pièces, cfr. comunque infra.
66
L'utilizzo del repertorio del Salmon per la cosiddetta “trilogia persiana” è oggi puntualmente
ricostruito in Pieri, “Commento”, in Goldoni, La sposa persiana, op. cit.; mentre ne hanno
illustrato il rapporto con La bella georgiana i contributi di N. K. Orlòvskaja, “'La bella
Georgiana' di Carlo Goldoni”, Trudy tbilisskog gosudarstvennogo universiteta 101 (1962), 8196 e N. Kaucisvili, “A proposito della 'Bella georgiana' del Goldoni”, Studi goldoniani 1 (1968),
135-142..
Mai rilevate invece, e nemmeno ipotizzate, le suggestioni che, anche in riferimento alla
Dalmatina, Goldoni avrebbe potuto ricavare dal repertorio del Salmon. Esse figuravano nella parte
seconda del t. XX, Che comprende la città di Venezia, il Dogado, il trivigiano, il bellunese, il feltrino,
il Friuli, l'Istria, la Dalmazia e Levante veneto (edito nel 1751). Giova considerarne una possibile
campionatura: a) sulle virtù militari dei dalmati e la loro fedeltà alla Serenissima: Il mare tuttavia
in molti luoghi supplisce a' mancamenti della terra colle abbondanti pescagioni […]: fonte da cui
traggono in gran parte i suoi abitatori la sussistenza, congiungendolo a quello, che lor somministra
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Ma anche ammessa l'esistenza di un terreno di cultura da cui potrebbe
aver tratto alimento lo scarto prodotto dalla Dalmatina rispetto allo standard
rappresentativo di riferimento letterario, resta indubbio che il decisivo salto
di qualità viene da Goldoni autonomamente guadagnato con il suo porre in
scena i nuovi interessi amministrativi, politici, ideologici che il ceto dirigente
marciano andava proiettando sulla sua primogenita provincia.68 Non a caso, il
consueto protagonismo muliebre proprio della produzione esotica resta, in
questa singolare p i è c e, decisamente in penombra, e comunque - dalla prima
all'ultima apparizione in scena - interamente risolto nell' appassionata
rappresentazione di un meditato progetto politico di integrazione, pacificazione
e autocelebrazione:
Della Dalmazia in seno ho il mio natal sortito,
l'arte militare, cui siccome genti animose, robuste, e frugali pajono dalla natura istessa inclinati. Le
migliori truppe di marina della Repubblica si traggono per lo più da questa provincia: né in verun
tempo hanno dato segni di viltà o di timore; tutta la nazione Dalmatina generalmente si pregia di
singolare fedeltà verso il suo Principe, e di marzial valore, e nelle recenti guerre della Repubblica ne
ha copiose testimonianze. b) Sullo specifico del valore bellico nella popolazione di Cattaro, a cui
appartiene il goldoniano Radovich: oltre alle moderne fortificazioni, e un grosso presidio, la piazza
[di Cattaro] siccome frontiera è guernita di buone artiglierie, di magazzini, e d'altri militari attreccj;
e i suoi abitanti possono computarsi come altrettanti buoni e animosi soldati. c) Sulla fierezza
muliebre: [nei dintorni di Zara, a Selve o Silba, 600 ab.] la campagna, non gran fatto feconda di
biade e vino, è coltivata dalle femmine, le quali in oltre sono tanto animose e gagliarde, che
occorrendo, sarebbono sufficientissime a guardare la villa dagl'insulti dei corsari; [durante gli
assedi turchi di Sebenico, 1539 e 1569] ritentatane da essi [turchi] la espugnazione, ne riportarono
tanto maggior confusione e vergogna quanto che usciti già dalla città in partita contra il nimico
quasi tutti gli uomini, le sole femmine, rinnovando gli antichi esempi di Salona si difesero con tal
vigore, che giunto l'ultimo soccorso, furono costretti i turchi a levare il campo, ed andarsene; dicesi
che [Salona, città vicino Spalato, un tempo nobile e vasta, sede degli antichi Re dell'Illiria] assedia ta da' Romani a' tempi di Augusto, fosse gagliardamente difesa dalle femmine, che uscite valorosa mente di notte posero il fuoco al campo Romano, e lo costrinsero a ritirarsi. E in vero le donne del
paese de' giorni nostri non lasciano dubitare della verità del racconto, robuste e animose come sono
(T. Salmon, Lo stato presente di tutti i paesi, e popoli del mondo naturale, politico e morale. Con
nuove osservazioni, e correzioni degli antichi e moderni viaggiatori [1725-1738], vol. XX, p. II, Che
comprende la città di Venezia, il Dogado, il trivigiano, il bellunese, il feltrino, il Friuli, l'Istria, la
Dalmazia e Levante veneto, Venezia 1751, pp. 301, 326, 327, 331-332, 409, 445-446. Sulla larga
diffusione negli ambienti intellettuali della città, nonché sugli errori dell'opera, cfr. P. Preto, Venezia
e i turchi, Firenze 1975, pp. 411-412 e relativa bibliografia ivi citata).
67
Per un Pietro Nutrizio Grisogono, ad esempio, le donne al par delle lacedemoni, riguardano con
disprezzo i bisogni a quali la natura non le ha assoggettate e sono instancabili più che gli uomini
alla fatica e alla sofferenza (P. N. Grisogono, Riflessioni sopra lo stato presente della Dalmazia,
Firenze 1775, cit. in Venturi, Settecento riformatore, vol. 5, t. 2, cit., p. 349). Sul valore bellico delle
donne dalmate si vedano le esemplificazioni documentarie prodotte in A. Berlam, “Le milizie
dalmatiche della Serenissima ossia i fedeli Schiavoni”, La Rivista dalmatica 59 (1988), 4, 311.
68
È la sintomatica espressione con cui veniva designando la Dalmazia Marco Foscarini nell'orazione
pronunciata al Maggior Consiglio il 17 dicembre del 1747 (Degli inquisitori da spedirsi nella
Dalmazia, ora in E. Morpurgo, Marco Foscarini e Venezia nel secolo XVIII, Firenze 1880, pp. 195235; la citazione a p. 231). Sul valore politico e culturale di tale orazione, cfr. infra, n. 84.
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dove l'Adriatico mare bagna pietoso il lito.
Dove goder concede felicitade intera
il Leon generoso, che dolcemente impera.
Sì, quel Leone invitto che i popoli governa
Con saper, con giustizia, e la clemenza alterna.
Che sa premiar il merto, che sa punir l'audace,
che nel suo vasto impero fa rifiorir la pace.
L'almo Leon temuto, cui della fede il zelo
caro agli uomini rende, e lo protegge il cielo.
[…]
sai che non sa mentire chi nata è dalmatina.
Questo costume antico nel nostro ciel si ammira,
nuovo zel, nuova fede chi vi comanda inspira;
e per mare, e per terra siete alla gloria nati,
oh dell'Adriatico impero popoli fortunati.69
Già riconosciute, durante il “secolo di ferro”, non meno theatri famosi de
publici gloriosi trionfi, che antemurali della patria e della libertà,70 dopo
Passarowitz le province di Dalmazia e Albania diventano il nuovo baricentro
dello stato da mar, come significativamente testimonia anche l'evoluzione
semantica dello stesso termine oltremarino (che appunto nel Settecento tende
a sostituire l'elemento slavo al referente originario, greco-mediterraneo).71 Ed è
proprio la nazione oltramarina, che seppe con tanto vigore […] reprimere l'orgo glio di Musulmani,72 sono proprio il valore militare e la lealtà politica degli
La dalmatina, I.3.35-44 (sono versi che la protagonista pronuncia durante la sua prima comparsa
in scena) e V.ultima.76-80, in Dalmatina, EN.
70
Così il provveditore generale di Dalmazia e Albania Antonio Priuli nella sua relazione consuntiva
del marzo 1670, in Commissiones et relationes venetae, vol. 8 (annorum 1620-1680), a cura di
G. Novak, Zagabria 1977 [Monumenta spectantia historiam Slavorum meridionalium 51], p. 15.
71
Cfr. P. Del Negro, “La politica militare di Venezia e lo stato da mar nel Sei-Settecento”, Studi
Veneziani n.s. 39 (2000), 120: Se nel Tre-Quattrocento erano i greci di Cipro e delle altre isole del
Mediterraneo orientale ad essere designati quali oltramarini, fin dal Cinquecento tale etichetta
era stata estesa a tutti coloro che erano di lingua greca e in seguito anche a coloro che parlava no lingue diverse dal greco, ma che erano di rito greco. Infine, a partire dagli anni a cavallo tra
Sei e Settecento si era gradualmente imposta l'identificazione degli oltramarini anche, se non
soprattutto con gli schiavoni, in larga maggioranza croati, della Dalmazia. Un fenomeno questo,
dello spostamento del baricentro militare all'interno dello stato da mar dai greci agli slavi, che si
può ricondurre, in parte, alla significativa ristrutturazione territoriale dei domini veneziani, che
aveva visto sul fronte della Grecia perdite significative come quella di Candia oppure conquiste
effimere come quella della Morea e al contrario una costante, ancorché relativamente parsimo niosa, dilatazione dei possedimenti veneziani in Dalmazia a spese degli Ottomani.
72
Così nell’ espressione di un Morosini, cit. in E. Concina, Le trionfanti et invittissime armate
venete. Le milizie della Serenissima dal XVIº al XVIIIº secolo, Venezia 1972, p. 31.
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schiavoni di Dalmazia - nella variante paradigmatica di un capitano di
Cattaro73 - a costringere la protagonista Zandira in una posizione, per così dire,
ancillare. Come ricorda l'autore stesso, se il nucleo più interessato del pubblico
era costituito da quegli schiavoni che in teatro andavano a truppe co' loro
spadoni a vedere la loro compatriota, il loro entusiasmo era poi tutto per l'onora to Radovich, allora quando vantavasi di portare gelosamente Il suo Leone in
petto. Questo - continua l'autore, in toni inconsuetamente vibranti - è quel Leone
glorioso che gelosamente in petto anch'io custodisco, che mi ha animato a
scrivere questa commedia, che mi ha ispirato i tratti, e i sentimenti che hanno
formato il maggior piacere della commedia.74 Che non si tratti di un'occasionale
sussulto d'amor patrio, magari confezionato a posteriori, e che l'investimento
ideologico giocato sulla Dalmatina avesse invece radici profonde, e in profondità capaci di risuonare, è comprovato dal fatto che a questa sua particolare
“esotica” un Goldoni ormai parigino sarebbe ritornato per trarne una nuova
versione, L'esclave généreuse ou La générosité de Camille.75 Anche in questo
caso, il titolo poneva in ombra il vero cuore ideativo della commedia, che era
invece - come nella redazione originaria - interamente calibrato sull'amor di
patria:
Di quest'opera mia tratto ho il soggetto
Dalla mia Dalmatina, a voi ben nota,
Che in Vinegia produsse ottimo effetto.
E al nome Vinizan ligia e divota
La Musa mia, vuol che a Parigi ancora
Sulle pubbliche Scene onor riscuota.
Ho la cara mia Patria in mente ognora,
E i Padroni, e gli Amici, e i Protettori,
Da non confondere con “cappelletti” o “albanesi”, gli schiavoni di Dalmazia conobbero una loro
propria regolarizzazione istituzionale durante la guerra di Candia; in precedenza le milizie
irregolari dalmate, preesistenti, ausiliarie da secoli delle armate venete, erano valorose bensì,
ma indisciplinate e dedite al saccheggio […], dopo le esperienze fatte nella lunga guerra di
Candia, si formarono i primi reggimenti regolari di schiavoni, in cui primeggiavano i bocchesi,
che ebbero agio di distinguersi nelle guerre che ebbero luogo precipuamente fra il 1684 e il
1718, nelle armate di Cappello, di Cornaro, di Dolfin, di Grimani e di Mocenigo, perfezionan dosi sempre più sino alla caduta della Repubblica (Berlam, “Le milizie dalmatiche”, op. cit.,
312-313). Anche Radovich è un “bocchese” (Cattaro è il suol nativo del mio consorte eletto […]
prole de' Radovicci, stirpe gloriosa, antica, I.3.55 e 61): le Bocche di Cattaro (apertura di un
diramato golfo che intacca profondamente la costa all'estremità meridionale della Dalmazia)
furono teatro di guerre lunghe e logoranti, nelle quali i bocchesi a fianco dei veneziani compirono prodigi di valore celebrati da tutta l'Europa.
74
Dalla prefazione alla “commedia”, in Dalmatina, EN.
75
Per la natura dell’ opera e i suoi tempi di composizione, cfr. Scannapieco, “Scrittoio, scena, torchio”,
op. cit., 190-191.
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E il loro amor, che anche lontan mi onora. […]
E sapete quant'amo e quanto ambisco
Far vedere ai Patroni, anche in distanza,
Che d'amor per la Patria io mi nutrisco.76
L 'amor per la patria - uno degli ideali più celebrati, dalla pubblicazione dello
Spirito delle leggi, nell'Europa settecentesca77 - aveva dunque indotto Goldoni a
trasformare in materia rappresentativa quella nazione dalmata che era unico
sostegno dell'assoluta padronanza del Golfo,78 combinando il “domestico
esotismo” delle milizie schiavone - restituite, nella distanza teatrale, a tutto lo
splendore coreografico che era loro proprio 79 - assieme con i modi propri di
un'opera teatrale, fondata sul vero, lavorata sul verisimile:80 sicché anche
l'elemento ideativo che più potrebbe sembrar concorrere ad una dissolvenza
esotica della vicenda narrata - l'ambientazione barbaresca81 - si rivela in realtà
perfettamente aderente alle caratteristiche che furono proprie della politica
estera marciana nel secondo Settecento.82 Il fatto che nella messa in scena di
Per il solenne ingresso di Sua Eccellenza il signor Giovanni Francesco Pisani, op. cit., in XIII 892.
Cfr. M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Roma-Bari
1995, in part. pp. 63-92.
78
Così Giorgio Morosini in un rapporto al Senato del 1673, cit. in Berlam, “Le milizie dalmatiche”, op. cit., 305.
79
Gli schiavoni costituivano, fra le altre cose, la più appariscente nota di colore dell'esercito veneto
settecentesco e in quanto tali erano utilizzati come la più scelta guardia d'onore dei pubblici rappre sentanti (Concina, Le trionfanti et invittissime armate venete, op. cit., p. 32). La loro è una uniforme
di barbarico splendore che ben si addice, nel Settecento, agli ormai tramontati sogni veneziani, e che
le documentazioni iconorafiche consentono di descrivere in dettaglio: l'ufficiale indossava una
velada di panno, naturalmente cremisi [colore prescritto dal 1724], foderata di “taffettà blu”,
impreziosita di gallonatura d'oro, bottoniere ed asole dorate, paramani di panno bleu gallonati
anch'essi; camisiola ancora turchina, cintura d'oro, lunghi calzoni attillati, stivaletti ed al fianco la
larga schiavona dal fodero di pelle nera luccicante di fornimenti anch'essi dorati. Come copricapo il
colbacco, il “berrettone” della terminologia veneta, di pelo d'orso bruno e panno rosso (op. cit., p. 37).
80
Così viene definita la tragicommedia nella dedica al Pisani, op. cit.
81
La scena è in Marocco, a Tetuan; ad un’ ambientazione barbaresca era non a caso stato legato
il presumibile esordio della produzione esotica goldoniana: cfr. Anna Scannapieco, “Alla ricerca
di un Goldoni perduto: ‘Osmano re di Tunisi’ ”, Quaderni Veneti 20 (dicembre 1994), 9-56.
82
La strategia politico-militare adottata dalla Serenissima a partire dalla guerra di Candia prevedeva
una neutralità più che mai disarmata in terraferma e una mobilitazione in armi a Venezia e nelle
sue retrovie marittime, lo stato da mar, i domini dai quali, tra l'altro, la Repubblica sperava di poter
trarre le truppe necessarie alla protezione della città lagunare. […] Da una parte uno stato da terra
neutrale, dall'altra uno stato da mar base di una politica militare attiva: ecco, in estrema sintesi, la
contraddizione di fondo della strategia della Serenissima (cfr. Del Negro, La politica militare di
Venezia, op. cit., p. 117). Sullo stato da mar era dunque proiettata l'esigenza di ridefinire e salvaguardare l'identità dello stato marciano, con l'avvertenza che mentre nel '600 gli scenari di guerra erano
stati Candia, Dalmazia, Albania veneziana (litorale montenegrino), Morea, Egeo e sue isole, isole
Ionie e costa greca prospiciente; nel secondo Settecento essi risultano dislocati nel Mediterraneo
occidentale, dove la Serenissima fronteggia quei barbareschi (i corsari musulmani che avevano le
loro basi a Tripoli, Tunisi e Algeri) di cui è preciso riflesso nella Dalmatina. Non è quindi condivisi76
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così cogenti interessi della contemporaneità convergano collaudati clichés della
tradizione letteraria e della convenzione spettacolare (l'avvenente donna illirica fatta schiava dai corsari e contesa da più amanti, il pirotecnico dispiegarsi di
scene belliche ecc.), lungi dallo stemperarlo, restituisce piena evidenza allo
spessore ideologico di un'ideazione drammaturgica attraverso cui Goldoni si
rende davvero tempestivo e militante interprete della scena politica veneziana:
quella stessa in cui la nazione dalmata - da semplice serbatoio di energie militari - aveva progressivamente assunto un ruolo di primo piano, man mano che la
Serenissima Dominante aveva dovuto proiettare proprio su di essa il valore
ideale di quel “Regno” capace di giustificarne il prestigio crollato con la sconfit ta del progetto d'espansione in Grecia.83 Nel nome della Dalmazia si era non a
caso scandito l'esordio del pensiero politico di Marco Foscarini, con
quell'orazione del dicembre 1747 in cui oggi si riconosce unanimemente l'avvio
del moto riformatore dalmata, uno dei più vigorosi e indubbiamente uno dei più
bile la pur suggestiva interpretazione data al riguardo da Larry Wolff, secondo cui la dislocazione
nel Marocco musulmano della vicenda con protagonista l'eroina dalmata sarebbe stata funzionale
all'orientalizzazione della Dalmazia, a sua volta resa necessaria dall'esigenza di porre in scena t h e
formulation of an ideology of Adriatic empire (cfr. Wolff, Venice and the Slavs, op. cit., pp. 25-27).
83
Paladini, “Un caos che spaventa”, op. cit., p. 14. Com'è noto, la perdita della Morea (1718) aveva
segnato una profonda cesura ideologica nella politica veneziana e in particolare nelle sue
prospettive mediterranee. Già il futuro doge Carlo Ruzzini, all'epoca delle trattative ministro
plenipotenziario veneto, aveva potuto vedere alcuni preziosi vantaggi nei nuovi acquisti
dalmatici (la cosiddetta “linea Mocenigo”) connessi alla perdita della Morea: da una parte [il
contraccambio] avrebbe comunque potuto accentuare una vocazione continentale per lo stato
da mar, nella prospettiva dell'apertura commerciale sui Balcani e soprattutto nella speranza di
poter produrre sulle stesse regioni oltremarine quanto bastasse alla loro autosufficienza.
Dall'altra, esso offriva comunque una base per la riorganizzazione dei rapporti tra potenze
concorrenti sul quadrante balcanico: una base per garantire gli spazi e i tempi della neutralità e
del raccoglimento di Venezia, che sullo scacchiere adriatico-orientale conviveva da secoli con
un continuo stato di guerra e di guerriglia (cfr. op. cit., pp. 25-27).
84
Venturi, Settecento riformatore, vol. 5, t. 2, op. cit., p. 424. Nella sua orazione Foscarini sosteneva
appassionatamente la necessità di un energico intervento in Dalmazia (la primogenita provincia
era stata abbandonata allo sfruttamento di funzionari che accentravano nelle proprie mani poteri
militari, giudiziari, amministrativi e fiscali); formulava una vibrante denuncia del fiscalismo,
delineando una viva “rappresentazione” della comun desolazion che i depredatori delle provincie
avevano portato tra i Morlacchi e inchiodando in una dettagliata analisi gli errori e le colpe
commesse nella politica agraria, nella pastorizia, nelle finanze. Foscarini ottiene l'invio degli
“inquisitori”, ma i risultati furono molto scarsi: il problema della Dalmazia non poteva essere
seriamente affrontato su un piano puramente politico […]. Anche là, la via di una tentata riforma
passava attraverso le trasformazioni economiche, agricole, fondiarie. La legge del 1755 verrà ad
inaugurare una nuova fase anche in questo secolare problema dei rapporti di Venezia con il
dominio (F. Venturi, Settecento riformatore, vol. 1, Da Muratori a Beccaria (1730-1764), Torino
1969, pp. 285-287). Inoltre, come è stato osservato, l'orazione di Foscarini costituì un momento
propulsivo nell'elaborazione di una politica di ricolonizzazione e di integrazione nel Dominio
marciano dei territori dalmato-albanesi (Paladini, “Un caos che spaventa”, op. cit., p. 69); l'investimento politico che, a partire da quell'orazione, il governo marciano espresse nei confronti della
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originali tra i molti che […] erano andati sviluppandosi nelle province venete
negli ultimi decenni del Settecento;84ed appena tre anni prima della Dalmatina
era stata varata quella legge Grimani85 che costituiva il primo punto d'approdo
del processo di radicale ripensamento politico dell'identità marciana avviato
dall'orazione di Foscarini.
Certo si può ben dubitare che la tragicommedia goldoniana partecipi
effettivamente di un movimento riformistico le cui principali caratteristiche
erano e sarebbero state una capacità eccezionale di analisi della società in cui
era stato chiamato ad operare così come un impegno particolarmente vigoroso
nell'affrontare i problemi morali e politici che nascevano dall'incontro e dalla
convivenza di popolazioni tanto diverse di mentalità, di lingua, di vita.86 E si può
anzi a ragion veduta sospettare che la teatralizzazione delle virtù illiriche fosse
funzionale ad una esigenza - se non consapevole, certamente stringente - di
sublimare le inquietanti smagliature che, come già accennato, proprio nel corso
del Settecento erano andate sempre più distintamente delineandosi nella
“primogenita provincia”.87 Una solidarietà d'intenti, quella tra Dominante e
province illiriche, variamente compromessa, se nel corso di due secoli il funzio-
sua “primogenita provincia” fece sì che lungo i cinque decenni che portarono a Campoformido
[1747-1797] s'avvicendarono diversi tentativi […] di reimpostare gli assetti proprietari e societari,
di sostenere un'economia stagnante e di volgere le attività periferiche alle esigenze del centro, di
colonizzare terre ritenute spopolate e decisamente disastrate da due secoli di guerriglia, di pacifi care territori e comunità travagliati da acerba conflittualità rurale e interconfessionale, di render
certa la proprietà lungo una frontiera aperta e permeabile. Le progettualità venete furono condizio nate da contrastanti esigenze interne ma anche da quelle della “competizione” internazionale. Esse
furono influenzate dalla pressione del modello asburgico, dalle riforme e dalla rinnovata vitalità
del Litorale austriaco e di Trieste - senz'altro -, ma soprattutto dall'esperienza di militarizzazione
dei territori liminari croati (op. cit., p. 15). Dal nostro punto di vista, è senz'altro da sottolineare con
Larry Wolff che gli interessi politici espressi da Foscarini nel '47, nonostante il suo conservatorismo, encouraged a younger generation of Venetians to think critically about their institutions, and
by making Dalmatia a serious subject for reformers, he put that province prominently on the
agenda of the Enlightenment in Venice (Wolff, Venice and the Slavs, op. cit., p. 41).
85
Sulla legge agraria intitolata al suo promotore (Francesco Grimani, provveditore generale in
Dalmazia e Albania) e promulgata nel luglio del 1755, cfr. Berengo, “Problemi economicosociali della Dalmazia veneta”, op. cit., pp. 474-477 e Paladini, “Un caos che spaventa”, op. cit.,
pp. 131-141 e passim.
86
Venturi, Settecento riformatore, vol. 5, t. 2, op. cit., p. 424.
87
Per i fenomeni dei movimenti migratori e del reclutamento clandestino, cfr. s u p r a, n. 32. Cfr.
inoltre Concina, Le trionfanti et invittissime armate venete, op. cit., p. 40, che analizza la decadenza
settecentesca delle milizie schiavone, ricordando la crescente difficoltà degli arruolamenti e la
dilagante mancanza di disciplina; lo studioso non manca peraltro di rimarcare come proprio dal
nucleo militare dalmata, pur irrimediabilmente sfoltito nei ranghi, si sarebbe poi espresso l’
unico atto di difesa della Serenissima agonizzante. Per una disamina dei dati documentari e
storiografici relativi a tale circostanza, che sembra per tanti aspetti ricavare il suo fondamento
mitopoietico proprio dalla tragicommedia goldoniana, mi permetto di rinviare all’ “Introduzione”
e al “Commento” di Dalmatina, EN.
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nario preposto dalla Serenissima al governo della Dalmazia poteva essersi
trasformato da un Messia ad un orgoglioso esarca, un superbo Lucifero, la più
ferale d'una banda d'arpie divoratrici.88
Sarebbe tuttavia alquanto riduttivo arrendersi alla conclusione che Goldoni si
sia limitato a partecipare - e sia pure con acuta tempestività - alla costituzione di
una moderna ideologia dell'impero, promossa, e con strumentazioni illuministiche perseguita, da uno stato in via di estinzione.89 Non collimano infatti con il
d i s e gno complessivo tracciato da un simile quadro interpretativo - non molto
diverso nella sostanza da quello, altrettanto compattamente pre-giudicante, di un
Federzoni - alcune fondamentali sfumature che caratterizzano in profondità la
pièce goldoniana. Sono precisamente queste “sfumature” - in realtà, veri e propri
elementi strutturali - a restituire in appropriato focus analitico il patriottismo
messo in scena dalla nostra tragicommedia, e quella rivisitazione della Dalmazia
che per suo tramite si esprime: prima fra tutte, quella per cui il complesso dispositivo identitario azionato nella trama narrativa dello spettacolo non si regge affatto
- come pure dovrebbe, ad esser “buoni patrioti” nell'accezione paventata da
Voltaire - su alcuna forma di stigmatizzazione contrastiva dell'alterità. L'edificazione scenica delle virtù di un Radovich - e dietro di esse, in un complesso gioco
di specchi, di quelle del Leon generoso che dolcemente impera90 - non si realizza
È quanto si legge ne Lo Squitinio del Generalato di Dalmazia, una critica serrata delle istituzioni
veneziane redatta negli anni quaranta del Settecento, per cui cfr. Paladini, “Un caos che spaven t a ”, op. cit., pp. 42-50. In tale scritto, che giungeva a formulare la minaccia esplicita di rescissione
della sudditanza, riprendendo […] topoi classici della letteratura dell' “antimito”, l'immagine
d'equità che legittimava da secoli la dominazione veneta viene capovolta […] in un fosco quadro
d'oppressione (op. cit., pp. 44 e 46). La celebrazione dell'ottimale contemperanza di rigore e
clemenza che avrebbe connotato - secondo la “letteratura del mito” - il buongoverno della
Serenissima risuona invece a chiare note nella partitura drammaturgica della tragicommedia
goldoniana (cfr. il Commento a Dalmatina, I.3, EN).
89
È la tesi, peraltro argomentata con grande finezza d'analisi, del più volte citato Larry Wolff: The
province [Dalmazia e Albania] became the focus for Venice's final fantasies of imperial
resurgence, as the gondola of state glided toward political annihilation at the century's end. […]
Dalmatia was Venice's America, though small in size and close at hand, just across the Adriatic,
replete with savage tribes and civilizing missions; the Venetian Enlightenment fashioned a richly
elaborated ideology of empire upon the province's slender territorial base. Nel concentrarsi su
questi interessi dalmatici la cultura illuministica veneziana contribued culturally to an agenda
of imperial concerns: the political coherence of the Adriatic empire, the economic development
and even exploitation of provincial resources, the cultivation of the patriotic loyalty of the Slavs
to the Venetian Republic of San Marco, and the disciplinary administration of the Morlacchi in
the name of civilisation (Wolff, Venice and the Slavs, op. cit., pp. 5-8).
90
Nella definizione mitografica che, nella parte conclusiva della pièce, la protagonista traccia del
cor magnanimo dei valorosi, la fisionomia dell'eroe illirico a cui lei sta pensando (il promesso
sposo Radovich) è chiaramente disegnata sulla filigrana di quell'eroe militare di estrazione
patrizia di cui, fra gli altri, avevano già fornito paradigmatica interpretazione vari membri della
famiglia del dedicatario della tragicommedia, Gian Francesco Pisani: cfr. il commento a V.5.7594 in Dalmatina, EN.
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attraverso il complementare abbassamento di un antimodello: tale non può
essere certo considerato - come un po' incautamente è stato pur fatto - la rappresentanza greca, a cui anzi gli equilibri narrativi e la modellizzazione drammaturgica riservano ampi spazi di risarcimento e di innalzamento etico-politico;91
ma nemmeno quella del “barbaro” musulmano, canonicamente deputata a
interpretare la polarità negativa della dialettica identitaria. Se infatti il corsaro
Alì non è nulla più di un accessorio spettacolare, vero e proprio riempitivo
scenografico che minimamente incide sul tessuto ideologico della rappresentazione,92 il sensale Marmut è soggetto a finale esclusione solo nella sua qualità di
“mercante disonorato”:
Sono i tuoi pari, indegno,
per cui barbaro è detto degli Affricani il regno.
Pochi corsar feroci, pochi sensali avari,
che vendon l'altrui sangue per merci, o per danari,
bastano a screditare l'onor di questi lidi,
fan che da noi si credono della barbarie i nidi.
Uomini siam noi pure, abbiam ragione in petto,
sentiam d'umanitade, proviam tenero affetto.
Frequenti in ogni terra si trovano gli eroi,
e trovansi per tutto i vili pari tuoi.93
L'aurea sentenza è non a caso pronunciata da Ibraim, l'alcaide o sia
governatore di Tetuan. L'engagement profuso dall'autore nell'elaborazione
drammaturgica del testo fa sì che forti tensioni innovative attraversino anche
la costituzione di questo personaggio, che secondo una canonica gerarchia
dei ruoli dovrebbe interpretare la polarità antagonista del virtuoso Radovich.
Lungi dall'assolvere tale prevedibile funzione, Ibraim è il vero centro gravita-
Sui modi in cui la critica ha valutato la caratterizzazione dell'elemento greco si veda quanto
documentato e discusso nell' “Introduzione” e nel “Commento” di D a l m a t i n a, EN: la sostanziale
uniformità e continuità dell'approccio interpretativo sono inversamente proporzionali alla sua
sussistenza critica, come consentono di constatare - oltre che le stesse dichiarazioni dell'autore
- la centralità e la complessità drammaturgiche del personaggio di Lisauro (per certo non risolvibile
in una rappresentazione manichea del “greco mendace”), nonché la stessa varietà con cui è
modulata la declinazione drammaturgica della rappresentanza greca (accanto a Lisauro, agiscono
- e con connotazioni inequivocabilmente positive - il padre Canadir, assennato interprete dell'
onore e del patriottismo, e la sposa abbandonata Argenide, capace di esprimere virtù concorrenziali
a quelle della protagonista Zandira); d'altronde, come sinteticamente scandisce Radovich, Grecia
è patria onorata, madre d'eccelsi eroi (Dalmatina, EN, IV.6.55).
92
Il corsaro Alì figura complessivamente in solo cinque scene (delle complessive 51), peraltro
concentrate nelle “espansioni” spettacolari della pièce (tre scene del secondo atto e due del quarto):
per una più completa definizione critica del personaggio, cfr. il relativo commento in Dalmatina, EN.
93
La dalmatina V.1.57b-66, op. cit.
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zionale della progettualità politica “messa in scena” dalla D a l m a t i n a: è alla
definizione eminentemente positiva di tale personaggio - drammaturgicamente più influente dei coprotagonisti Radovich e Zandira94 - che la strategia
compositiva dedica minuta e diffusa attenzione, richiamandone con
un'insistenza programmatica (propagandistica, verrebbe da dire) la razionalità e la saggezza, l'equilibrio e l'equità;95 facendone un interprete a tal punto
persuasivo (e illuministico) della virtù politica da sollecitare un conclusivo
omaggio della “controparte” Radovich:
Ibraim generoso, alle natie contrade
noi promettiamo il vanto recar di tua pietade,
narrando a chi vi crede barbari ed inumani,
che la virtude impera ancor fra gli Affricani.96
L'edificazione spettacolare delle virtù illiriche e la connessa teatralizzazione del patriottismo vanno insomma di pari passo con l'affermazione
perentoria e netta dell'estensione sovranazionale dei valori e delle virtù: che
d'onestà le leggi sono nell'uom le prime / che dappertutto il cielo, e la natura
imprime.97
E varrà la pena di rimarcare che anche - se non soprattutto - su questo fronte
La dalmatina veniva a violare e rimodificare l'orizzonte d'attesa del pubblico
contemporaneo. Per rendersene persuasi - e per restituire maggiore concretezza
alla passione culturale e politica di un Carlo Goldoni - converrà riconsiderare
Se uniforme è la distribuzione dei tre personaggi nello sviluppo della trama (Ibraim è assente solo
nell'atto quarto, Radovich e Zandira nel terzo), diverso è il grado della loro frequenza in scena
(di contro alle 18 presenze di Ibraim, Zandira e Radovich ne contano rispettivamente 16 e 13).
95
Se ne consideri la seguente campionatura (ma per un quadro più completo cfr. Dalmatina, EN):
Ed io ch’ esser mi vanto giusto governatore (I.1.18); benché in Affrica nato, la tirannia ho in
orrore (I.3.98); [a Zandira] ti amo, è ver, lo ridico, ma la ragion mi appaga ( I . 3 . 1 3 0 ); [ad Alì]
punir poss’ io l’ orgoglio d’ un’ anima sì ardita. / Ma all’ amor, all’ etade, al tuo valor perdono, /
sai che le stragi abborro, sai che crudel non sono. / Cangia lo stil protervo, il tuo dover compren di (II.7.40-43); Proteggo i monsulmani, ma vuo’ nella mia sede / che di Maometto i servi non
manchino di fede (II.13.5-6); [ad Argenide] Frena il duol furibondo. Cangia le voci insane, / sei
nell’ Affrica, è vero, ma non fra tigri ircane. / Lisauro è in libertade; ma ancor fra noi risiede /
dove punir si suole chi manca altrui di fede (III.11.23-26); Pria che si rende Argenide agli avidi
mercanti, / di renderle giustizia vuo’ procurare innanti: / del pubblico interesse si aspetta a me
la cura, / ma ho pietà degli schiavi per legge di natura. / So che se alcun de’ nostri degli Europei
va in mano, / trova dai cuor pietosi un trattamento umano. / Ed io serbo nell’ alma questo
pensiero impresso, / uso quella pietade che piaceria a me stesso (V.1.49-56). Altrettanto significativo il riconoscimento che viene dagli altri personaggi: [Zandira:] La virtù, la giustizia regna
per tutto il mondo: / gradisco i doni tuoi (I.3.99-100); [il greco Canadir, sull’ amministrazione
della giustizia espressa da Ibraim:] Non te lo dissi, o figlia, veglia de’ numi il zelo (III.11.31).
Cfr. inoltre la successiva citazione a testo.
96
Op. cit., V.ultima.29-32.
97
Op. cit., II.6.25-26.
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quale fosse lo standard della proposta spettacolare coeva, e osservare dunque
da vicino che cosa, ad esempio, facesse accorrere il pubblico veneziano nel
concorrente teatro di Sant'Angelo, in quello stesso autunno 1758 in cui scattava la “provocazione” della Dalmatina. Qui, un Pietro Chiari pronto a dare
puntuale risposta alle aspettative della platea, ammannisce una Cordova
liberata dai Mori, poi significativamente rinominata L'Amore della Patria. La
p i è c e, proprio perché commisurata agli occhi del volgo e dunque calibrata
sull'obiettivo di un sicuro riuscimento, fece dello strepito per dieci sere
continue.98 L'“analogon” strutturale dell'Ibraim goldoniano è qui il moro Tariffo,
governatore di Cordova per il re di Marocco, la cui fisionomia complessiva può
essere così sintetizzata e stigmatizzata dal corrispettivo di Radovich, il goto
Adalgiso:
Sempre tu sei tiranno. […]
Dove son l'opre illustri degli anni tuoi più saggi?
Eccole in due parole: sangue, rovine, e straggi.
Saccheggiate provincie, dilapidati erari;
svergognate famiglie, e profanati altari.
Barbaro, inorridisci da' pie' fino alle chiome
Di tue regali imprese solo al sentirne il nome.99
Ed è al trattamento drammaturgico del perverso Tariffo che l'estro
fantastico di un Chiari può dedicare le sue più “originali” risorse, come in
maniera esemplare documenta l'espansione di un nucleo narrativo libero che
assorbe l'intera scena iniziale del secondo atto con la rappresentazione - a
metà tra grottesco e noir - del sadismo di Tariffo:
MARIEMA Cedon già l'ombre il loco alla nascente aurora,
e le spagnuole ancelle non son partite ancora?
TARIFFO
Partiranno a momenti. Pronti color già sono,
c'hanno da trarle in Affrica ad Almanzorre in dono.
Prima però che vadano dove nissuna andrebbe,
da lor vuo' uno spettacolo ch'altri giammai non ebbe.
MARIEMA Qual spettacolo è questo, che vuoi di lor si faccia?
TARIFFO
Come di tante fiere farne vuo' qui una caccia.
L’ Amore della Patria, o sia Cordova liberata dai Mori; perocché con quest’ ultimo titolo più
popolare fu ella prodotta la prima volta su’ teatri di Venezia nell’ autunno dell’ anno 1758 e vi
fece dello strepito per dieci sere continue. Io medesimo non la giudico molto regolare nelle sue
parti; ma a diferenza d’ altri non pochi l’ ho sempre giudicata agli occhi del volgo, che non
esamina le cose sì per minuto, d’ un sicuro riuscimento (P. Chiari, “Osservazioni sopra le
Commedie del Tomo presente”, in Commedie in versi, vol. 7, Venezia 1760, p. 3).
99
Op. cit., atto IV, scena 5, p. 61.
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A tal fin le ho raccolte in questo bosco oscuro,
cui dal parco reale solo divide un muro.
Custodito è l'ingresso; e quando il tempo io veda,
farò che s'abbandoni a' cacciator la preda.
Che bel vedere, figliuola, queste spagnuole ancelle
correr fuggendo intorno come smarrite agnelle!
Che bel vedere i Mori, cui trattener non posso,
come affamati lupi loro scagliarsi addosso!
Qual mescolanza insolita d'orrore, e di diletto!
Quelle da sé scacciarli, stringerle questi al petto.
Di qua sospiri, e pianti di chi freme, e s'uccide.
Di là vezzi, e lusinghe di chi le abbraccia, e ride.
Quando tutte sian dome, e siam paghi anche noi,
Vadan allora l'Affrica a popolar d'eroi.100
Altra umanità andava in scena, in quello stesso autunno 1758, al San Luca,
la rappresentazione di altri valori - civili culturali politici - sorprendeva il pubblico e ne conquistava un plauso destinato a rendersi ben più persuaso e duraturo
di quello che poteva essere stato tributato al successo concorrente della stagione.
Sul respiro cosmopolita del patriottismo goldoniano - e sulla sua distinta
matrice illuministica, come sulle sue stesse ambivalenze - sarà utile allora
tornare distesamente a ragionare: al nostro excursus basterà concludersi nel
considerare che la sua formulazione più articolata e piena - quella consegn a t a
appunto alla Dalmatina - fosse passata attraverso un atto, sino ad allora inedito,
di ri-conoscenza per la “virtù” illirica. È quanto basta per non attardarsi nel
rimpianto del simpatico Stiepo Bruich da Pastrovicchio, mercanta de castradina,
e per intravedere le consistenti risorse racchiuse - oltre l'irrisolta ambiguità che
gli è propria - nel capitano Radovich di Cattaro, virtuoso alfiere del Leon
generoso che dolcemente impera.
100
Op. cit., atto II, scena 1, pp. 22-23.
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Daniele Vianello
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uesto intervento muove dall'esigenza di affiancare alle teorie tradizionali
su comici e buffoni rinascimentali una visione più articolata, attestante la
compresenza di esperienze che non cedono il posto le une alle altre, ma
convivono in una reciproca confluenza di vecchio e nuovo. L'analisi offre il
confronto di due versanti relativamente vicini, se non contigui: da un lato le
vicende dei comici e buffoni veneziani della prima metà del Cinquecento (con
particolare riferimento all'attività poliedrica di Zuan Polo e Domenico
Tajacalze); dall'altro la diffusione della buffoneria e degli spettacoli dei comici
italiani (e relativi stereotipi) nella Baviera della seconda metà del secolo.1
Non esistono studi complessivamente dedicati alla buffoneria; genere che
comprende fenomeni tra loro molto diversi. La storia dei buffoni, articolata su
fonti fragili e poco esaustive, si presenta per lo più parziale e riflessa. I buffoni
restano complessivamente confinati nella produzione culturale cosiddetta
“minore”, passandovi in modo quasi inosservato, fatta eccezione per poche
figure di cui si posseggono informazioni significative. Rare e lacunose carte
d'archivio rendono difficilmente ricostruibile la fisionomia di una moltitudine
di comparse, le cui esibizioni, tecniche e repertori trovano fugaci accenni nelle
commedie, negli epistolari, nella novellistica, tra le pieghe di cronache minute.
Le classificazioni convenzionali fanno della buffoneria un fenomeno
cortigiano o da pubblica piazza, tipico dei “secoli senza teatro”, premessa ad
altri “compimenti” (lo spettacolo professionale dei comici dell'arte, il circo),
che dovrebbero esaurirne il significato storico. Indubbie contiguità ed
analogie tra le esibizioni dei comici dell'arte e quelle dei buffoni rinascimentali hanno favorito facili assimilazioni. Il mestiere saldamente radicato
nell'arte della parola e nell'improvvisazione (nonché nelle abilità gestuali ed
acrobatiche), i tentativi di appropriazione di materiali culturali disparati
(biblici, classici, colti e popolari), il continuo bricolage di esperienze proprie
1
L'argomento è oggetto di un volume, di prossima pubblicazione (Bulzoni ed., 2004). Parte del
lavoro sui buffoni veneziani è già pubblicata in D. Vianello, “Tra inferno e paradiso: il 'limbo' dei
buffoni”, Biblioteca Teatrale 49-51 (1999), 13-80.
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ed altrui, l'oralità che connota il processo di formazione e trasmissione del
sapere buffonesco, sono tutti elementi che ricordano da vicino i meccanismi
persuasivi e il commercio di parole tipici dei ciarlatani e dei comici dell'arte.
Come per le compagnie a statuto professionale, si delinea il profilo di un
mestiere il cui protagonista (per lo più solitario), si propone come manager di
se stesso, attento ad esportare e vendere i propri testi e spettacoli. Difficile
stabilire a priori il prezzo della sua arte (relativo anche al variabile successo
delle esibizioni), in un mercato regolato dalle leggi della domanda e dell'offerta, nonché della concorrenza. Anche per quest'ordine di ragioni il buffone
rinascimentale, così come i comici dell'arte, tende a non restare ancorato ad
una singola realtà. Il tema del viaggio si rivela connotativo non solo in quanto
espressione di uno stile di vita e di una pratica effettiva, ma in quanto
espediente retorico, luogo ricorrente sia nella produzione letteraria buffonesca che in quella dei comici.
Se questi ed altri elementi avvicinano il mondo dei comici a quello dei
buffoni rinascimentali, giustificando scontate sovrapposizioni, notevoli
restano le differenze. Un approccio esclusivamente evoluzionistico rischia di
sacrificare i fecondi non univoci rapporti che s'instaurarono tra il versante
delle forme compiute e canonizzate e la ricchezza di pratiche spettacolari
ritenute “minori”, che pur caratterizzano per molti aspetti il teatro rinascimentale italiano. Esempi significativi testimoniano il ricco scambio dialettico tra buffoneria e commedia dell'arte.2 Tra Cinque e Seicento l'esigenza di
una sicura nobilitazione sembra imporsi all'intera categoria. Eppure, a ben
vedere, i tentativi di "salvare" il mestiere elevandolo ad arte non fanno che
rimarcare la distanza tra "l'onesto comico" ed il "vile buffone". Non è un caso
che i comici dell'arte vogliano liberarsi dallo stereotipato binomio buffone-
2
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In area diversa rispetto a quella qui analizzata ed in tempi non sospettabili di sopravvivenza
dell'antico, si pensi agli interventi buffoneschi di Tristano Martinelli nelle commedie di
Giambattista Andreini. Analogamente, la particolarissima commedia Li buffoni di Margherita
Costa è opera di fusione e di forti contaminazioni tra i due versanti. Dedicata al buffone
Bernardino Ricci, in arte Tedeschino, essa è introdotta da un prologo in cui la disputa tra
Buffoneria e Commedia ben evidenzia storiche divergenze ed autonomia dei rispettivi ambiti. Altro
esempio significativo per una possibile revisione della storia della buffoneria è il trattato di
Bernardino Ricci, intitolato Il Tedeschino ovvero Difesa dell'Arte del Cavalier del Piacere. La
qualifica di “Cavalier del Piacere” rispecchia una lunga tradizione di analoghe investiture. Buffoni,
assurti al grado di cavaliere, popolano epoche e corti diverse; nel Cinquecento e nel Seicento essi
sembrano utilizzare il titolo per nobilitare il proprio mestiere. La ragionata apologia del Ricci, colto
esponente della buffoneria seicentesca, sottolineando la convenevolezza ed il decoro quali
atteggiamenti morali propri del buffone, si costruisce sulle pretese origini antiche e colte della
buffoneria, con il preciso intento di contrapporsi alla praticata “difesa” dell'arte comica (a riguardo
si veda B. Ricci, Il Tedeschino overo Difesa dell'Arte del Cavalier del Piacere. Con l'epistolario e
altri documenti, a cura di T. Megale, Firenze 1995, con particolare riferimento alle pp. 16-18).
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cortigiana, dal discredito che accomuna mestieri centrati sull'uso e l'abuso
del corpo. L'attore della commedia a statuto professionale prende le distanze
dall'infamante mestiere del buffone; l'attrice tenta di riscattarsi, dissociando
la propria immagine da quella della cortigiana.
Il buffone, tanto quello antico quanto quello medioevale e moderno, frequenta dimore patrizie e rappresentanti del potere, ma resta sostanzialmente legato
alla sfera dell'immondo e dell'osceno. La sua funzione mediatrice tra classi
superiori e inferiori, tra cultura alta e cultura subalterna, tra mondo clericale e
mondo popolare resta insostituibile. Il frequente scambio di tecniche oratorie e
persuasive tra frati e buffoni rinascimentali elude e confonde i confini tra sacro
e profano. In questa contaminazione delle forme, il miracoloso convive con il
demoniaco, il normale con il grottesco ed il caricaturale, il naturale con il
soprannaturale, le visioni divine con quelle sataniche. Il prete-buffone recita la
sua messa-spettacolo con l'abilità dell'istrione; allo stesso modo, il buffone-prete
si esibisce come diabolico maestro del rovesciamento, della contraffazione e
della parodia. Come il diavolo (suo parente stretto) il buffone deve saper cambiare abito, camuffarsi, utilizzare i linguaggi di arti diverse, parlando diversi dialetti.
Il topos buffonesco del “mondo alla rovescia” emerge anche nelle ricorrenti
immagini utopiche del paese di Cuccagna, provenienti dall'universo irreale dei
s o gn i, delle v i s i o n i, dei l a m e n t i, dei viaggi nell'al di là.3 Il mondo della povertà
e della fame, cui appartengono i buffoni, gli acrobati, i ciarlatani, i suonatori e
gli istrioni, si contrappone a quello della ricchezza e dell'abbondanza.
L'utopico paese dell'eccesso alimentare, miraggio di una realtà diversa,
esprime l'aspirazione diffusa ad un irraggiungibile benessere di cui la letteratura
buffonesca si fa portavoce. È dunque innanzitutto il mondo dell'indigenza quello
che si esprime in questo genere di immagini, di testi e spettacoli trasgressivi,
grotteschi, caricaturali, radicati nel corporale contraffatto e deformato. È proprio
qui, nelle più basse zone della fisicità gastrica ed escrementale, che si alimenta
lo stretto binomio riso-oscenità, di cui il buffone si fa interprete per eccellenza.
La fisionomia del buffone-ruffiano, dedito al gioco, grottesco parassita di
corte, volgare artefice di lazzi erotico-scatologici, abile acrobata dalle infinite
capriole verbali e fisico-circensi, si fissa nei testi, nell'iconografia e nell'imma-
3
Si vedano ad esempio [s.a.], Una historia bellissima…, [Venezia 1513 ca], oggetto di un prezioso
studio di V. Rossi (Novelle dell'altro mondo, Bologna 1929); [s.a.], Il Lamento di Domenego Taglia
c a l z e, [Venezia 1513], che ha trovato debita attenzione in un saggio di Paola Ancillotto e Luigina
Berti (“Il lamento del buffone Tagliacalze”, Filologia Veneta 1 (1988), 227-258); A. Caravia, Il
Sogno dil Caravia, Venezia 1541, ristampato recentemente da Elena Benini-Clementi (Riforma
religiosa e poesia popolare a Venezia nel Cinquecento. Alessandro Caravia, Firenze 2000). A
proposito cfr. R. Guarino, Teatro e Mutamenti. Rinascimento e spettacolo a Venezia, Bologna
1995, pp. 185-232; e Vianello, “Tra inferno e paradiso: il 'limbo' dei buffoni”, op. cit., 13-80.
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ginario collettivo europeo, connotando negativamente il significato stesso del
termine. Tale profilo, riemergendo da molteplici stratificazioni, giunge sino a
noi in un incessante processo di metamorfosi, come testimoniato da dipinti e
da pagine letterarie ed operistiche (si pensi a Le roi s'amuse di Hugo, al
Rigoletto di Verdi e a Pagliacci di Leoncavallo, ai “ritratti degli artisti da
saltimbanco” di Rouault, di Lautrec, di Picasso, di Klee, di Chagall, oggetto
del celebre saggio di Starobinski).4
Quest'immagine negativa è quella ricorrente anche nella storiografia otto e
novecentesca; mentre studi più recenti propongono l'interpretazione del buffone
quale figura protoprofessionale, le cui esibizioni sarebbero anticipazioni
embrionali delle forme compiute dei comici di mestiere. Parallelamente, la
fortuna europea della commedia dell'arte tra Ottocento e Novecento, vale a
dire la sua immagine mitica, ha dato grandissima popolarità all'antico teatro
"all'italiana", spesso ignorando o reinventando i dati storici di partenza.
Ricostruzioni più o meno libere hanno proiettato nel passato esperienze
tipiche della cultura e del teatro moderno. Il mito costruito su alcuni stereotipi
(le maschere, l'improvvisazione, le origini buffonesche) rischia di sovrapporsi
alla realtà storica, sacrificando la ricchezza degli elementi costitutivi e la
dialettica degli scambi culturali.
G
razie alle loro abilità - la recitazione intimamente legata all'improvvisazione
e alla competenza letteraria "canterina"; il travestimento, il plurilinguismo e
la contraffazione di voci del “recitar dietro cortina”; la musica, il canto, la danza
e le tecniche acrobatiche - i comici e i buffoni veneziani escono dal chiuso delle
cortigianerie e divengono figure pubbliche, tramite tra strati sociali diversi e tra
questi e il potere, facendosi “araldi della città”, legati tanto al palazzo e alla festa
privata, quanto alla strada e alla piazza; tanto alle “corti” e ai “porteghi” delle
case patrizie, quanto alle taverne e ai bagni pubblici. Le loro abilità viaggiano,
esportando “tecniche” e “repertori” oltre i confini circoscritti della corte e della
città, in un fecondo movimento di scambi e contrapposizioni all'organica costituzione delle compagnie a statuto professionale. Non è un caso, pertanto, che le
stesse tecniche e le stesse esibizioni dei buffoni del primo Cinquecento siano
rintracciabili, parallelamente agli spettacoli dei comici dell'arte, nella Baviera
della seconda metà del secolo.
Alcune notizie delineano, se pur con fratture e approssimazioni, quanto
rapidamente gli spettacoli di comici e buffoni italiani e il gusto per le masche-
4
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J. Starobinski, Ritratto dell’ artista da saltimbanco, Torino 1991.
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re della commedia all'italiana fossero diventati una moda nella vicina
Baviera.5 Questa regione, situata al centro dello scacchiere riformistico e
tuttavia non sfiorata dalla “peste” luterana, costituì anche per la sua cattolicità un terreno particolarmente favorevole alla circolazione della nostra
cultura rinascimentale. Un sorprendente reticolo di scambi sembra, infatti,
collegare ed assimilare l'attività di comici, buffoni, musicisti e pittori italiani
alla sfera del divertimento cortigiano locale. La presenza nelle corti d'oltralpe
di multicompetenti artisti italiani fu in gran parte possibile grazie ai legami
matrimoniali che gli Asburgo ed altre casate cattoliche bavaresi avevano
stretto con le più importanti famiglie italiane ed ai ripetuti soggiorni nel
nostro paese di personalità inf luenti e versatili come il celebre musicista
fiammingo Orlando di Lasso.
La circolazione degli attori italiani e la persistenza oltralpe di alcune forme
spettacolari comico-buffonesche quali il “recitar dietro cortina”, ampiamente
testimoniate nei Diarii di Marin Sanudo, ne I ragionamenti di Pietro Aretino
ed in altri documenti del primo Cinquecento veneziano, trovano conferma
nelle Lettere di Orlando di Lasso (1574).6 Finora non utilizzate dagli storici
del teatro, esse raccontano del viaggio intrapreso dal noto musicista in Italia
per conto del duca Guglielmo V di Baviera, al fine di reperire e reclutare alla
corte di Landshut alcuni musicisti e commedianti italiani.
I Dialoghi di Massimo Troiano (1568-1569) - riportati sempre in maniera
frammentaria là dove narrano degli spettacoli “all'improvvisa” realizzati da
attori e buffoni italiani e dagli stessi musicisti Orlando di Lasso e Massimo
Troiano - raccontano dettagliatamente i cinque giorni di festeggiamenti
organizzati dai due musicisti per le nozze di Guglielmo V di Baviera con
Renata di Lorena.7 Le esibizioni e gli spettacoli buffoneschi descritti nelle
Lettere di Orlando di Lasso e nei Dialoghi di Massimo Troiano testimoniano
Cfr. K. Trautmann, “Italienische Schauspieler am bayerischen Hof”, Jahrbuch für Münchner
Geschichte 1 (1889), 259-430.
6
P. Aretino, Le sei giornate, a cura di G. Aquilecchia, Roma-Bari 1980, p. 46; per le Lettere di
Lasso cfr. H. Leuchtmann, Orlando di Lasso, Briefe, Wiesbaden 1977, pp. 66-67 lettera nº 7, p.
70 lettera nº 8. Sull'argomento, ed in particolare sul “recitar dietro cortina” in quanto incarnazione significativa dello specifico spettacolare e dello statuto monologico tipico della contraffazione buffonesca, si veda Vianello, “Tra inferno e paradiso, il 'limbo' dei buffoni”, op. cit., 17-33.
7
I Dialoghi compaiono in due edizioni, una monacense del 1568 ed una veneziana del 1569,
edizioni che non differiscono molto tra loro: M. Troiano, Discorsi delli triomfi, giostre, apparati, e
delle cose più notabili fatte nelle sontuose nozze dell'Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Duca
G u g l i e l m o, Monaco 1568; idem, Dialoghi di Massimo Troiano: ne' quali si narrano le cose più
notabili fatte nelle nozze dello Illustriss. & Eccell. Prencipe Guglielmo, Venezia 1569. L'edizione
veneziana è stata ristampata in Germania da H. Leuchtmann (a cura di), Die Münchner
Fürstenhochzeit von 1568... Deutsche Übertragen, mit Nachwort, Anmerkungen und Register
Versehen, Monaco 1980.
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la persistenza di tecniche e repertori in tempi e luoghi diversi, parallela all'
affermarsi degli spettacoli complessi e compiuti dei comici dell'arte.
I documenti iconografici ed i cicli di affreschi di area tedesca, di cui il più
celebre rimane la Narrentreppe ('Scala dei buffoni') del castello di Trausnitz a
Landshut, nei pressi di Monaco, richiedono un'analisi e una lettura unitaria,
che li colleghi agli altri documenti. Queste immagini, pur confermando
l'attendibilità delle notizie contenute nei documenti letterari, non ritraggono
particolari di commedie realmente rappresentate, ma sarebbero l'espressione
più generale dell'ormai diffuso immaginario comico modulato sulle classiche
scene delle esibizioni buffonesche e su quelle delle maschere italiane. Comici
e buffoni varcano i confini dell'Italia; parallelamente, gli stereotipi legati ai
loro spettacoli vengono fissati, divulgati e moltiplicati nelle incisioni, nei
quadri e negli affreschi.8
Prendendo le distanze dagli storici che hanno voluto cogliere corrispondenze reali tra le immagini della Scala dei Buffoni e scene e personaggi della
celebre commedia del 1568 descritta nei Dialoghi di Massimo Troiano, vorrei
evidenziare l'inconsistenza di quei legami, indicando alcuni possibili significati da attribuire all'intero ciclo di affreschi. Da un lato, le allegorie (figure
r eferenziali del duca, garante del buon governo del paese, finora trascurate
dagli storici) rivelano il valore programmatico degli affreschi; dall'altro, le
maschere italiane rimandano indirettamente all'immagine di un mecenate
sostenitore dei divertimenti cortigiani.9 Esse vanno, pertanto, colte in relazione al più ampio progetto di renovatio in chiave italiano-rinascimentale del
castello, mentre la loro teatralità risulta essenzialmente riflessa.
L'esibizione di vis comica degli Zanni e dei Pantaloni presenti nella scala
(legata ai movimenti artificialmente dilatati e alla prestanza fisica dei corpi
Sulla Narrentreppe si vedano, tra gli altri, F. Mastropasqua, “Lo spettacolo del Recueil Fossard”,
in F. Mastropasqua - C. Molinari, Ruzante e Arlecchino: tre saggi sul teatro popolare del
Cinquecento, Parma [1970] [Quaderni di Ricerca dello Studio Parmense 2], pp. 91-125; F.
Rauhut, “La commedia dell'arte italiana in Baviera: teatro, pittura, musica, scultura”, in Studi
sul teatro veneto fra rinascimento ed età barocca, a cura di Maria T. Muraro, Firenze 1971
[Civiltà veneziana, Studi 24], pp. 241-271; Caterina Limentani Virdis, “Committenza, teatro,
pittura a Landshut nella seconda metà del Cinquecento”, Filologia Veneta 1 (1988), 259-278,
in part. 261; M. A. Katritzky, “Orlando di Lasso and the commedia dell'arte”, in Orlando di
Lasso in der Musikgeschichte, Monaco 1996, pp. 133-155, in part. p. 137. A. Leik, Frühe
Darstellungen der Commedia dell'arte: eine Theaterform als Bildmotiv, Neuried 1996, pp. 40-77.
Si tratta di voci più o meno omogenee che, sulla base di una gratuita interpretazione di notizie
e singoli episodi, considerano il ciclo come registrazione visiva dello spettacolo del 1568
descritto nei Dialoghi di Massimo Troiano, sottolineando somiglianze dirette tra alcune scene
della celebre commedia ed altrettante immagini presenti nella scala, e rilevando in entrambi una
chiara allusione alle nozze di Guglielmo V e Renata di Lorena.
9
Cfr. le immagini della scala qui riportate.
8
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COMICI E BUFFONI TRA ITALIA E BAVIERA NEL XVI SECOLO
atletici) farebbe pensare ad attori celati sotto i costumi, sebbene, a mio parere,
le immagini propongano generici interpreti nei panni di personaggi. 10 Allo
stesso modo, i gruppi di figure affrescati sono chiaramente modulati sui topoi
delle scene comico-buffonesche, acquisite e rielaborate dalla commedia
all'italiana (con particolare riferimento ai contrasti, alle lotte, alle serenate,
agli intrighi, alle messaggerie ruffianesche, ai giochi d'azzardo e ai lazzi
acrobatici); e non possono, pertanto, essere interpretati come puntuali descrizioni di una specifica commedia realmente rappresentata. Le posture di Dame
e Capitani, di Zanni e Pantaloni che animano le pareti e i soffitti del castello
esprimono atteggiamenti comici riscontrabili anche nella realtà extra-teatrale
delle maschere; dunque rinviano anche ad altre esperienze (danze in maschera e travestimenti carnevaleschi). È l'insieme di tutti questi elementi a stratificarsi nell'immaginario comico collettivo, fissato e diffuso attraverso la
moda decorativa tardo-rinascimentale in maniera a u t o n o m a, parallela e
svincolata dagli spettacoli stessi.
Tenendo conto della problematicità d'analisi insita in molti altri documenti iconografici, vorrei sottolineare la felice indeterminatezza di quelle
immagini, piuttosto che individuare semplicistiche corrispondenze. Parlare di
precisi legami tra figure dipinte e loro referenti spettacolari diventa possibile
solo dopo aver individuato distanze effettive (in questo caso, tra l'insieme dei
diversi fenomeni spesso arbitrariamente classificati sotto la “mitica” etichetta comune di “commedia dell'arte” e l'iconografia ad essa legata). Il valore
documentario di molte immagini legate alle maschere italiane andrebbe
pertanto rivisto, tenendo presente che la pittura di genere (cui per lo più esse
appartengono) non mira a riprodurre fedelmente una realtà particolare, ma
propone essenzialmente meta-realtà. Come tale, difficilmente può essere
utilizzata per fornire attendibili notizie sui comici e le loro esibizioni. Lo
spessore spettacolare attribuito a quelle immagini risulta così ridimensionato; mentre sembra auspicabile che sia le fonti iconografiche e letterarie
indicate, sia la documentata pluricompetenza di artisti, musicisti, gioiellieri,
comici e buffoni italiani in area tedesca possano venire complessivamente
considerate in un'ottica multidisciplinare che colga il carattere liminale e
poliedrico, spesso sfuggente e trasgressivo dei fenomeni qui visitati.
L'analisi proposta addita l'opportunità di ulteriori approfondimenti.
10
Ad esempio, la postura dei Pantalone presenti nella scala non è quella di vecchi, ma di giovani
dal fisico atletico. Sulla controversa questione della fisicità nella rappresentazione sono note e
discusse le proposte di Taviani relative alle attitudini delle figure del Recueil Fossard. Cfr. F.
Taviani, “Un vivo contrasto. Seminario su attrici e attori nella Commedia dell'Arte”, Teatro e
Storia 1 (1986), 26-75, in part. 48.
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DANIELE VIANELLO
Alcuni spunti, degni di ulteriori indagini, sono tuttavia già stati indicati. Ciò
che emerge è la necessità di tener distinti gli spettacoli dei cosi detti comici
dell'arte da quelli buffoneschi e dal più vasto fenomeno d'irradiazione
europea di motivi tipici della cultura italiana del Rinascimento.
Scene comico-buffonesche ed immagini allegoriche da “La Scala dei Buffoni” del
Castello di Trausnitz
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IL MITO DELLA COMMEDIA DELL’ ARTE
IN RUSSIA DEL PRIMO NOVECENTO
Raissa Raskina
N
ei primi tre decenni del '900 in Russia si osserva un singolare processo di
ricezione del “mito” della commedia dell'arte. La Russia del periodo della
sua rinascenza culturale d'inizio secolo, passato ormai alla storia come “l'età
d'argento”, si è rivelata un terreno straordinariamente fertile per accogliere il
ricco immaginario poetico ed iconografico prodotto intorno alla commedia
dell'arte, assimilando una serie di luoghi comuni ad essa legati. Nelle opere
poetiche, pittoriche e teatrali dei simbolisti russi, mediate dal romanticismo
tedesco e dal simbolismo francese, le maschere alludono ad un mondo di
fantasia grottesca e di poetica evasione. Passati nelle mani degli artisti “colti”,
i personaggi di Pierrot e di Arlecchino diventano un tema letterario,
impregnato spesso di ironia funebre, un luogo comune poetico ed una parte
nel ballo in maschera,1 al punto da smarrire definitivamente qualsiasi legame
con i loro progenitori in carne ed ossa, vale a dire i comici delle prime
compagnie professionali italiane. Ma ciò che contraddistingue la “variante
russa” legata al mito del “teatro delle maschere” è proprio la ricerca senza
precedenti che fu avviata nell'ambito teatrale sul piano pratico e teorico, volta
allo studio della commedia dell'arte, che agli occhi dei suoi primi esploratori
si presentava come un “genere”, un sistema teatrale unitario. Il risultato di
questo confronto contribuì ad alimentare ulteriormente il “mito” preesistente,
inaugurando la sua lunga ed articolata stagione novecentesca.
Non è difficile scorgere, nel panorama teatrale russo d'inizio secolo,
alcune premesse necessarie perché la nascente regia volgesse il suo sguardo
verso quell'affascinante fonte di invenzioni che era (e che rimane) il mito
della commedia dell'arte. La scena sperimentale russa, come è noto, era
impegnata nei primi anni del secolo in una “campagna” per la cosiddetta
“riteatralizzazione del teatro”, ovvero, per la liberazione del teatro dalla
tirannia del naturalismo, nonché dall'ingiustificata centralità del testo
letterario. Questo processo fu accompagnato da un'intensa riflessione sulle
origini del teatro e sui tratti distintivi, costitutivi dell'arte teatrale rispetto ad
1
J. Starobinski, Ritratto dell’ artista da saltimbanco, a cura di C. Bologna, Torino 1984, p. 51.
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RAISSA RASKINS
altre forme e linguaggi espressivi. A guidare questa sorta di “crociata” alla
riconquista della “teatralità” perduta sono due esponenti di primo piano della
vita teatrale pietroburghese: Nikolaj Evreinov e Vsevolod Mejerchol'd. A
partire dal 1907 entrambi i registi s'incamminano nella comune direzione del
cosiddetto “tradizionalismo” teatrale. Antagonisti per molti versi, ma convinti oppositori del naturalismo scenico, essi giungono alla conclusione che la
natura “autentica” del teatro vada ricercata nelle epoche del passato, nelle
quali lo spettacolo aveva con la realtà un legame di tipo non mimetico.
Tale idea muoveva dalla presa di coscienza di quanto la cultura teatrale
russa fosse profondamente radicata nella tradizione del realismo. L'affermazione del teatro nazionale russo, accompagnata dalla comparsa di una scuola
attoriale e di un repertorio locale, avviene verso la metà del XIX secolo,
momento che coincide con il trionfo del realismo. Essendo, dunque, il
realismo, la prima forma di un teatro nazionale, esso viene percepito come
l'essenza stessa del teatro russo e la sua unica tradizione. Essendo rimasta
rilegata ai margini dei processi storici evolutivi che hanno caratterizzato il
teatro europeo, la cultura teatrale russa non porta nel proprio codice genetico
né il teatro medievale con i suoi tipici drammi liturgici, né il teatro rinascimentale, facendo esperienza del teatro barocco solo “per importazione”.
È sintomatica dunque la comparsa nel 1907 a San Pietroburgo dell'Antico
teatro di Evreinov, ideato per allestire una serie di cicli di spettacoli volti a
ricostruire nella maniera più fedele possibile le caratteristiche teatrali delle
epoche di maggior fioritura dell'arte drammatica: la Grecia antica, il medioevo, la commedia dell'arte, il siglo de oro spagnolo, l'età di Shakespeare e l'età
di Molière. In quelle epoche, secondo Evreinov, nel teatro alloggiava ancora
lo spirito di un'autentica teatralità. Di quel progetto iniziale l'Antico teatro
realizzò solo il ciclo medievale e spagnolo, mentre il ciclo sulla commedia
dell'arte, in programma per la stagione del 1914/1915, fu annullato per lo
scoppio della guerra.
L'incontro di Evreinov con la commedia dell'arte è dunque un incontro
mancato. Non ci è dato di sapere come il regista avrebbe risolto il problema di
una ricostruzione fedele, secondo il suo metodo “artistico-ricostruttivo”, di
una realtà storica dai confini così labili, di cui Miklasevskij ha fornito la sua
discrezione. A giudicare dai cicli realizzati, possiamo affermare solamente
che al centro dell'attenzione di Evreinov erano innanzitutto gli aspetti formali
legati alla messa in scena ed al rapporto del pubblico con lo spettacolo;
mentre il problema dell'attore e dell'interpretazione rimaneva pressoché fuori
dai suoi interessi. È difficile dunque immaginare come, ad esempio, sarebbe
stato risolto il problema dell'improvvisazione, del plurilinguismo, dell'uso
delle maschere, della “drammaturgia d'attore”.
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Konstantin Miklasevskij, attore e regista, stretto collaboratore di Evreinov
all'Antico teatro, in occasione della preparazione del ciclo dedicato alla
commedia dell'arte, compie una serie di ricerche (per le quali si reca in Italia,
a Roma e a Firenze da Luigi Rasi), raccolte nella sua monografia La
Commedia dell'Arte o il teatro dei commedianti italiani nei secoli XVI, XVII
e XVIII, data in stampa nel 1914, ma che vide la luce solamente nel 1917.2
Questo intervallo, durante il quale la monografia giacque inedita sugli scaffali
della redazione, coincide con l'attività della rivista teatrale L'amore delle tre
melarance [Ljubov' k trem apel'sinam], diretta dal Dottor Dappertutto, alias
Mejerchol'd. Alcuni articoli di Miklasevskij sulla commedia dell'arte appaiono su questa rivista, il cui titolo gozziano tradisce l'intento programmatico
degli editori di promuovere la tradizione della “commedia all'italiana”.
In quegli anni Vsevolod Mejerchol'd incentra la propria attività di ricerca
intorno alla commedia dell'arte. Ma l'oggetto su cui focalizzano la propria
attenzione Miklasevskij e Mejerchol'd sembra sfuggire ad una definizione
comune. Mentre il primo persegue appassionatamente lo scopo di delineare il
volto concreto, storico, seppur mutevole, della realtà dei comici professionisti
italiani, cercando di attingere alle fonti documentarie di prima mano, l'altro
fa riferimento ad un ipotetico stile teatrale dai confini storici e cronologici
imprecisati. A differenza di Evreinov, Mejerchol'd non approda alla
commedia dell'arte con l'intento di proporne una ricostruzione scenica; vuole
invece cogliere quei principi universali che, secondo lui, contraddistinguono
l'autentica teatralità in qualsiasi epoca. Alcune idee esposte da Miklasevskij
coincidono in parte con il concetto astorico mejerchol'diano, fungendo in
certa misura, da supporto e da stimolo.
È presente, di fatto, nell'esposizione di Miklasevskij una dicotomia interna
tra l'immagine della commedia dell'arte “pura”, “autentica” (ideale, aggiungiamo noi) e la commedia dell'arte degenerata, “contaminata”, tradita nella sua
stessa essenza. Miklasevskij vuole dimostrare come in realtà la storia di
questo teatro sia una parabola in cui la “vera” commedia dell'arte (che coincide col breve periodo della sua maggior fioritura, indicato dallo studioso tra la
metà del '500 e la metà del '600) smarrisce gradualmente quegli attributi
fondamentali che ne fanno l'esempio di un'arte perfettamente conforme alle
leggi della teatralità. Comprendere quei principi e separarli dalle incrostazioni “nocive” può aiutare il teatro odierno a ritrovare la propria vera natura.
Miklasevskij eredita l'idea romantica della commedia dell'arte di un teatro
2
In Italia è uscita presso Marsilio Editori nel 1981 la traduzione della prima parte della monografia
di Miklasevskij a cura di Carla Solivetti
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popolare, nato sotto una spinta di quell'irrefrenabile “istinto di teatralità” di
cui parla Evreinov. Il “baraccone del popolino” [narodnyj balagan], come egli
definisce la commedia all'italiana, possiede origini “basse” e viene “contaminato” nel corso del suo sviluppo dalla cultura “alta”, finendo quasi per
paradosso tra le mura dei ricchi palazzi, per tornare, prima di scomparire, là
da dove era inizialmente venuto: vale a dire nei baracconi da fiera e nelle
piazze. Ciò che distingue l'“autentica commedia dell'arte” dalle sue degenerazioni tardive è quell'elemento vitale, dinamico e dissacratorio, che successivamente si trova minacciato dalla graduale fusione dell'arte popolare con la
cultura letteraria. Miklasevskij indica il tratto fondamentale, distintivo della
commedia dell'arte proprio nella sua autonomia dalla letteratura drammatica.
A caratterizzare dunque questa forma teatrale è il modo di produrre lo spettacolo in assenza di un'unica volontà d'autore.3 L'autentica teatralità non
conosce, secondo Miklasevskij, l'“assurdo diritto d'autore”, i soggetti utilizzati dai comici sono universali, interscambiabili, collettivi e non individuali. In
questo senso l'improvvisazione, basata sulla specializzazione degli attori per
“tipi fissi”, è tratto distintivo solo dell'“autentica” commedia dell'arte. Nel
'700 il teatro all'italiana è sempre meno improvvisato, si appiglia ai trucchi
scenici, alle infinite trasformazioni scenografiche. In tal senso - prosegue lo
studioso russo - è sintomatica l'impresa del “geniale Gozzi”, in quanto
guidata dalla volontà di un unico autore (il Gozzi “letterato”), e che pertanto
ha ormai poco a che vedere con la “vera” commedia dell'arte.
Contrariamente alle opinioni comuni - sostiene Miklasevskij - la commedia
dell'arte è priva di un canone teatrale preventivo: ubbidendo alle logiche del
mercato, essa ha come unico scopo quello di “divertire al massimo con un
minimo di spese”. Si tratta quindi di un'entità dinamica, in continua evoluzione, che assembla materiali disparati propri ed altrui.
Miklasevskij evidenzia l'aspetto prettamente professionale delle compagn i e
dei comici italiani. Egli definisce la commedia dell'arte come la prima significativa scuola attoriale, sottolineando l'elevato grado di conoscenze tecniche
degli attori. Affrontando la questione della recitazione dei comici, solitamente evitata negli studi sull'argomento, egli indica nell'espressività corporea,
nell'elemento acrobatico, nel grottesco e nella buffonata le colonne portanti
dell'arte dei comici italiani; mentre al dialogo, all'elemento letterario e alla
declamazione riserva una funzione ornamentale, paragonando questi ultimi
3
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La monografia inizia con questa definizione: Gli elementi essenziali che servono a definire la
commedia dell'arte sono la creazione collettiva degli attori che elaborano in comune il testo
dello spettacolo e l'assenza di un autore singolo della pièce (K. Miklasevskij, La commedia
dell'arte, trad. di Carla Solivetti, Venezia 1981, p. 9).
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ad un affresco rispetto al muro portante, costituito dall'azione.
La maschera e l'espressività corporea, attributi essenziali della commedia
dell'arte, sono per Miklasevskij elementi puramente teatrali. Facendo un
confronto con l'attore contemporaneo, Miklasevskij nota quanto il teatro si
sia sempre più allontanato dall'autentica teatralità. Nel discorso di Miklasevskij
sulla commedia dell'arte vengono dunque contrapposti, da un lato, una serie
di elementi “propri del teatro”, in grado di conferirgli una linfa vitale, e, d'altro
lato, quei principi che portano il teatro sulla strada errata, innaturale. La
produzione collettiva del testo, vale a dire una drammaturgia di tipo consuntivo, viene contrapposta alla volontà individuale del singolo autore; così
come l'improvvisazione viene contrapposta alla letterarietà; l'espressione
corporea e l'elemento acrobatico alla mimica facciale; l'erotismo alla retorica
e moralismo; la logica del mercato all'osservazione del canone classicista;
l'Arlecchino servo dai tratti demoniaci all'Arlecchino tenero amante delle
pantomime francesi; il teatro genuino e popolare dei “baracconi” ad un teatro
“artificiale”, privo di legame organico con la comunità.
Nel suo saggio concettuale del 1912, intitolato Baraccone da fiera
[Balagan] Mejerchol'd traccia un nuovo percorso da seguire sulla strada verso
la riforma teatrale. Il regista sembra prendere definitivamente le distanze da
una visione dell'arte drammatica di matrice simbolista (dominante all'epoca
nell'ambiente modernista), la quale, sulle orme di Nitzsche, indica l'origine
del teatro all'interno del tempio ed evoca la rinascita di un'arte religiosa in
senso lato. Come sostiene Mejerchol'd, il mistero e la liturgia sono per la loro
stessa natura esattamente agli antipodi del teatro. Il mistero, per definizione,
deve rimanere precluso all'occhio profano dello spettatore. Il teatro per
Mejerchol'd affonda le proprie radici nel Balagan, nel Baraccone da fiera, la
cui legge fondamentale è la finzione professionale degli attori, in altre parole,
il gioco. Alla valenza ontologica dell'azione drammatica professata dai
teorici del simbolismo teatrale, al “teatro che non sa mentire” della scuola
stanislavskijana, Mejerchol'd contrappone un teatro inteso e percepito dagli
spettatori esclusivamente come “gioco”, al punto che se lo spettatore si
abbandona troppo all'illusione, l'attore cerca al più presto con una battuta
inattesa, oppure un lungo “a parte” di ricordare che egli assiste solamente ad
un gioco.4 Al centro di questo B a r a c c o n e, sinonimo di pura teatralità, sta il
suo padrone assoluto, l'unico vero artista e demiurgo: l'attore, dotato di corpo
atletico ed animo privo di ogni sorta d'intellettualismo paralizzante.
Il Baraccone cosmico trova agli occhi di Mejerchol'd il suo corrispettivo
4
V. Mejerchol'd, Stat'i. Pis'ma. Reci. Besedy, 2 voll., Mosca 1968, in part. vol. 1, p. 215.
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reale proprio nella commedia dell'arte. Con la commedia dell'arte Mejerchol'd
non fa riferimento ad una precisa realtà storica, quanto piuttosto ad una “età
d'oro”, in cui nel teatro regnava autentica teatralità, cristallizzatasi nello stile
specifico del “teatro delle maschere”. Il regista russo ritiene che lo studio di
quel teatro, dei suoi elementi costitutivi (la maschera, l'improvvisazione, il
gesto e il movimento) possa rivelare una serie di leggi universali e necessarie
al teatro per salvarlo dalla crisi contemporanea.
La commedia dell'arte appare agli occhi di Mejerchol'd innanzitutto come
il teatro dei “cabotin”, dei professionisti, per eccellenza. L'improvvisazione sostiene - era possibile esclusivamente grazie alla sofisticata tecnica dei
comici. Mejerchol'd potrebbe sicuramente fare proprie le parole di Goethe
citate da Georg Fuchs nel suo Rivoluzione del Teatro: Vorrei che la scena
fosse altrettanto stretta quanto la corda del funambolo: questo farebbe
passare la voglia alla gente non esperta di fare il mestiere non suo.5
Solidale con Fuchs e Gordon Craig, Mejerchol'd vede nell'attore il fulcro
dell'arte drammatica, e, allo stesso tempo, il suo principale ostacolo. Non
esiste l'arte senza la forma: per essere forma l'attore deve avere una tecnica
rigorosa, alla stregua degli attori del teatro No o Kabuki. Il problema della
formazione professionale dell'attore, per Mejerchol'd, non si limita dunque al
potenziamento della sua abilità fisica: si tratta di fornire all'attore un metalinguaggio universale di recitazione, un codice, pari a quello del teatro
giapponese. Scrutando nel passato del teatro occidentale, Mejerchol'd identifica proprio nella commedia dell'arte un tale sistema di recitazione codificato. Quando, nel 1913, gli si presenta finalmente la possibilità di avere un
proprio studio sperimentale, di cui già da tempo teorizza la necessità per la
formazione del “nuovo attore”, Mejerchol'd non ha dubbi ad inserire nel
programma un “corso di commedia dell'arte”. A condurre il corso è un suo
collaboratore Vladimir Solov'ev, le cui conoscenze in materia sono teoriche
ed astratte, oltre che limitate dalla scarsità dei fonti a sua disposizione.
Èproprio Solovev a sostenere che la commedia dell'arte costituisce un
sistema teatrale super-codificato. Dallo studio degli scenari dei comici e delle
stampe di Callot, egli deduce l'esistenza di alcune “leggi” relative al movimento scenico degli attori e alla loro disposizione nello spazio. Tuttavia, i risultati più interessanti di quelle ricerche sono da ricercare nella cosiddetta
“biomeccanica” di Mejerchol'd, che verrà messa a punto all'inizio degli anni
5
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G. Fuchs, Revoljucija teatra, San Pietroburgo 1911, p. 174. Fuchs, i cui saggi ebbero indubbia
inf luenza sul regista russo, riporta qui le parole del protagonista del romanzo di Goethe La
vocazione teatrale di Wilchelm Meister.
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'20. La biomeccanica, infatti, costituisce proprio il tentativo di trovare un
meta-linguaggio espressivo per l'attore e trae molti spunti dal lavoro
sperimentale di Solov'ev.
L'interesse di Mejerchol'd si concentra anche sullo studio della pantomima. Essa rappresenta la punta estrema del teatro d'azione e d'attore,
totalmente libero dal testo letterario. L'esperimento con pantomime improvvisate sulla base di un soggetto, di un canovaccio, porterà il regista russo a delle
scoperte significative per tutta la sua futura pratica artistica, soprattutto
nell'ambito della drammaturgia. Il punto cruciale, realizza Mejerchol'd, non è
sbarazzarsi dalla letteratura teatrale tout court, ma saper distinguere un testo
autenticamente teatrale da un testo di natura letteraria, che per lo più ignora
le leggi della scena. Il testo autenticamente teatrale, sostiene Mejerchol'd, è
tale se contiene uno scheletro di azioni, un “soggetto” appunto, che può essere
espresso attraverso la pantomima. Questo soggetto a cui un testo teatrale
dovrebbe essere riconducibile viene chiamato “soggetto da baraccone”
[balagannyj sjuzet]. Il segreto più prezioso che la commedia dell'arte rivela a
Mejerchol'd consiste nel comprendere che i comici usavano solo soggetti
propriamente teatrali, e che in ogni epoca favorevole il teatro torna ad utilizzarli. Questa tesi trova ai suoi occhi la conferma in tutta la grande drammaturgia, da Shakespeare a Tirso de Molina, a Molière. Ed è per questo motivo
che, secondo il regista, né il dramma psicologico alla Strindberg, né il dramma
simbolista, né le pièce di Cechov possono essere considerati teatrali: la
battaglia per ri-teatralizzare il teatro diventa la battaglia contro l'ingiustificata occupazione del teatro da parte dei letterati. A proposito è interessante
l'analisi della drammaturgia russa compiuta da Mejerchol'd, che lo porta a
“riabilitare” come “teatrali” i grandi autori russi, tradizionalmente classificati come realisti. In questa luce, ad esempio, Mejerchol'd dimostra che Puskin
utilizza nella sua piccola tragedia Il convitato di pietra un classico
“balagannyj sjuzet”, soggetto da baraccone: il Don Giovanni, utilizzato anche
dai comici dell'arte. Il testo di Puskin obbedisce quindi alle leggi della teatralità, e può essere affrontato con i mezzi del “teatro convenzionale”. Accanto a
Puskin, Mejerchol'd considera appartenenti al novero degli autori propriamente teatrali Lermontov, Gogol', Ostrovskij, Suchovo-Kobylin. Non è un
caso se, negli anni successivi, Mejerchol'd metterà in scena i loro testi.
Rimane il fatto che, nonostante l'attività di difesa e di propaganda della
commedia dell'arte, Mejerchol'd non ha mai realizzato nessuno spettacolo
compiuto ad essa direttamente ispirato. Pur considerando Gozzi l'autore
drammatico ideale, in quanto i suoi testi lasciano ampi spazi al gioco dell'attore, nessuna delle sue fiabe, compresa la programmatica L'amore delle tre
m e l a r a n c e, fu mai messa in scena. Potremmo concludere che i risultati più
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rilevanti raggiunti da Mejerchol'd sono da ricercare sul piano della tecnica
dell'attore, e non della poetica o della cifra stilistica. Come è noto, molte idee
mejerchol'diane riceveranno invece una loro realizzazione compiuta nello
spettacolo tratto dalla fiaba teatrale di Gozzi Turandot, messo in scena nel
1922 da Evgenij Vachtangov.
A Vsevolod Mejerchol'd spetta sicuramente il primato di aver introdotto lo
studio della commedia dell'arte nella pratica di formazione dell'attore. In un
articolo del 1930 egli dirà: Conosco bene l'antico teatro italiano, perché sulle
sue tradizioni, insieme a quelle del teatro giapponese, ho studiato.6 Lo stile
che il regista maturerà negli Venti ingloba in maniera organica proprio quei
principi messi in luce negli anni di fervida sperimentazione intorno al mito
della commedia dell'arte.
6
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Mejerchol’d, Stat’i. Pis’ma. Reci. Besedy, op. cit., vol. 2, p. 197.
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TRACES OF THE COMMEDIA DELL’
ARTE IN MODERN GREEK THEATRE
IN THE 18th & 19th CENTURY
Walter Puchner
T
here is no direct evidence for performances of the Italian Commedia
dell'Arte in Greek-speaking areas of the Balkan peninsula and the Eastern
Mediterranean. If we take into account the great delay in the arrival of Italian
opera in Greece, 1733 in Corfu, with the starting-point of 1594 (the first opera
in Italy ) ,1 the cultivation of the improvised theatre genre of Commedia
dell'Arte in Venetian Crete in the l7th century (up to 1669, the fall of Candia)
is not very plausible.2 If we compare it with the evolution of scenic space and
set in Italian theatre, there are some possibilities of influence.3 In fact there is
no real evidence and no major probability of the existence of Commedia
dell’Arte performances on the island of Candia: 1. the mention by Andrea
Cornaro of some of the comic characters of Commedia dell’Arte, found by
Panayotakis,4 is in the end doubtful if it has to be linked with Crete;5 2. the
evidence in the Discorsi Accademici of Santo Zeno in 1657, found by Alfred
Vincent, which documents knowledge of Commedia dell’Arte, is of a merely
theoretical nature,6 because most probably it refers just to Italy ;7 3. The
W. Puchner, “O ρόλος της µουσικής στο Kρητικό θέατρο”, in idem, Mελετήµατα θεάτρου. Tο
Kρητικό θέατρο, Athens 1991, pp. 179-210.
2
In fact there are musical elements in the intermedia and the baroque tragedy Z e n o n, but no
theatrical play is conceived as a libretto for musical composition.
3
See W. Puchner, “Scenic space in Cretan theatre”, Mandatoforos 21 (1983), 43-57 and in Greek
in the cited volume Puchner, Mελετήµατα θεάτρου, op. cit., pp. 153-178.
4
N. Panayotakis, “‰Eρευναι âν Bενετί÷α”, Thesaurismata 5 (1968), 45-118, esp. 62, plate H'.
5
N. Panayotakis, “Nέες ε¨δήσεις γιa τe Kρητικe Θέατρο”, in Kρητικe θέατρο. Mελέτες, Athens
1998, pp. 141-168, esp. p. 147.
6
A. Vincent, “Commedia dell’ Arte in Crete? The evidence of Santo Zeno”, Thesaurismata 24
(1994), 263-273.
7
One of the academic discourses at the end of the manuscript (written before 1640), which replies
to questions, asks, if the god of love, Eros, were to perform comedy, what part would he play. The
possibilities which are discussed are all stereotypic comic roles of Commedia dell’Arte (Capitano,
Dottore Gratiano, Trappolino; the Italian text in Vincent, “Commedia dell'Arte”, op. cit., 271273). That means that the delivering of or reading of this discourse presupposes familiarity with
the comic figures of Commedia dell’Arte, but it does not prove actual performance of that genre in
Crete. Anyway, Santo's description of Trappolino seems to be based on eyewitness of a performance, not just reading of scenarios. Vincent comes to the conclusion that it seems unlikely to
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observation of Linos Politis and Alfred Vincent that the Cretan comedy is
linked to Commedia Erudita and not to Commedia dell’Arte seems to be right:
there is no trace of using masks or half-masks, the words of the dialogue are
not improvised but written down, and the Cretan towns of the 17th century
were not able to guarantee the survival of a professional troupe of 13-15
members (at the end of every comedy the whole troupe passed over the stage
and said some words of epilogue, so that we know how many actors were used
for the performance).8
The case of the Ionian Islands is different;9 here some theatre activity can be
traced in the 16th and 17th century.10 But indirect evidence for performances of
Commedia dell’Arte professional troupes and performances of the stereotype
comic characters of the genre is available only for the 18th century. There is a
series of indirect proofs for a contact of the Ionian Islands with Commedia
dell’Arte: in chronological order: 1. the comic scenes at the end of the tragedy
Iphigenia by Petros Katsaitis (1720); 2. a report of Casanova in his Memoirs
that he hired a Commedia dell’Arte troupe in Otranto and brought the actors as
impresario to the island for a whole season (c. 1745); 3. the linear structure of
the comedy The Comedy of the Pseudodoctors by Savoyas Rusmelis (1745); 4.
the comedy Chasis by Dimitris Guzelis (1795), as well; 5. the existence of folk
theatre played with masks in Zante and Kefalonia ('homilies'), which can be
documented from the second half of the 19th century.
postulate performances of professional theatre companies in Crete because of the long sea voyage
and the comparatively small population of the Cretan towns. It is easier to think of amateur
troupes, former students of the University of Padua, merchants who had lived in Venice, profes sional soldiers, government officials appointed from Venice, and so on (270), or also young
members of the Academy. But one difficulty remains: the miming and declamation of the
different Italian dialects, which is characteristic for Commedia dell’Arte comic types. Conclusion:
For the moment, then, the source or sources of Santo's knowledge must remain an open question.
On the whole, though, it seems most probable that he and his audience had actually seen perfor mances of Commedia dell'Arte (271). Insofar as we have no hard evidence for such performances
in Crete at that time, it should be assumed that his experience was somewhere in Italy.
8
G. Chortatsis, Kατζούρµπος. Kωµωδία, ed. L. Politis, Iraclion 1964, p. µ ζ '; M. A. Foscolo,
Φορτουνάτος, ed. A. Vincent, Iraclio 1980, p. µζ'; W. Puchner, “Θεατρολογικά προβλήµατα στ ό
Kρητικό καί ^Eφτανησιακό θέ ατρο (1550-1750)”, in idem, E é ρ ωπαϊκc Θεατρολογία. ≠Eνδεκα
Mελετή µ ατα, Athens 1984, pp. 139-157, esp. p. 151. The older opinion of M. Lamberts, “Der literarische Charakter der Kretischen Dramen Σ τά θης und Γύπαρις”, Byzantinische Zeitschrift 41
(1941), 319-339), that the plays of the Cretan theatre were acted with masks, today is considered to
be wrong. For the recent bibliography see Literature and Society in Renaissance Crete, ed. D. Holton,
Cambridge 1991 (and in Greek 1996).
9
And also the comparable islands of Dalmatia and the town of Dubrovnik/Ragusa, where traces
of an impact of Commedia dell’Arte can also be seen before the 17th century (Puchner,
Mελετήµατα θεάτρου, op. cit., p. 500).
10
N. M. Panayotakis, “Le prime rappresentazioni teatrali nella Grecia Moderna: Antonio Molino a
Corfù e a Creta”, Thesaurismata 22 (1992), 345-360.
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TRACES OF THE COMMEDIA DELL’ ARTE
IN MODERN GREEK THEATRE IN THE 18th & 19th CENTURY
Ad 1: some of the figures of the three comic scenes at the end of Iphigenia
are mainly senseless contaminations of comic types of the Commedia dell’Arte
(of Covielo, Scappino, Truffaldino), others are connected with the comedies of
Molière (Sganarelle, Pourceaugn a c ) ;11 without recapitulating the whole discussion how Lixuri or Argostoli in 1720 can be connected with Paris 50 years
before, we can say that this is some indirect proof of a contact with Commedia
dell’Arte (this is also evident in the linear and loosely linked structure of
independent episodes).12
Ad 2: Jean Jacques Casanova (de Seingalt, 1725-1798) writes in his
Mémoires or Histoire de ma vie, which gives an itinerary of his adventurous
life from 1734-1774, that he also visited Corfu, where he hired as an impresario a troupe of Commedia dell’Arte actors from Otranto (a Pantalone, three
women actors, a Polichinelle, and a Scaramuccio, 20 actors in all, with a book
of repertoire and six big boxes with baggage), which gave performances during
the carnival of 1745 on the island.13 According to the new opinions in research into Casanova, the multifarious episodes of his Mémoires do not seem to be
altogether imaginary as was thought before. The episode of Corfu could very
well be true, in the light of the possibilities of the context of the other indirect
evidence we have for the case.14
Ad 3: The linear structure of episodes, loosely linked together, as is characteristic of the Commedia dell’Arte c a n e v a s i, can be found in the comedy The
Comedy of Pseudodoctors by Savoyas Rusmelis in 1745.15 Although the comic
figure of the dottore in the Italian tradition is usually a lawyer, the figure of
the false doctor arguing in Latin and curing with obscure and rough methods
is not unknown, in Cretan comedy and the Greek theatre of the time.16
Ad 4: The same holds good for the comedy Chasis by Dimitrios Gouzelis,
W. Puchner, “O Πέτρος Kατσαΐτης και το Kρητικό θέατρο”, in idem, Mελετήµατα θεάτρου,
op. cit., pp. 261-324, esp. pp. 298ff.
12
W. Puchner, “ M ολ ι έρ ος και Kατσαΐτης. Iχν ηλ α σ ί ες σε µια θαµπή συ σχέτ ιση ”, Porfyras 104
(2002), 167- 181.
13
This episode has been translated into Greek and published in Tachydromos 1105 - 1112 (1975).
It is also the factual basis for a comedy of Dionysios Romas, Casanova in Corfu (1978).
14
W. Puchner, “Mεθοδολογικοί προβληµατισµοί και ιστορικές πηγές για το ελληνικό θέατρο
του 18ου και 19ου αιώνα” in idem, ∆ραµατουργικές αναζητήσεις, Athens 1995, pp. 141-344,
esp. pp. 278ff.
15
Critical edition by Glykeria Protopapa-Bubulidu in: Σαβόγιας Pούσµελης, Athens 1971, pp. 3794. See also Th. Grammatas, Νεοελληνικό θέατρο. Iστορία - δραµατουργία, Athens 1987, pp.
27ff.
16
See W. Puchner, “H µορφή του γιατρού στην πρώιµη νεοελληνική δραµατουργία”, in idem,
∆ιάλογοι και διαλογισµοί, Athens 2000, pp. 93-118.
17
D. Gouzelis, O Xάσης, το τζάκωµα και το φτιάσιµον, ed. Z. Synodinos, Athens 1997.
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(1790, 1795) where the independence of the episodes is really striking.17 The
play is just a conglomeration of different scenes, edited by chance, around the
central figure of the b r a v o. So it is not strange that there are different variations
of the play.18
Ad 5: In the opinion of many scholars, this play is linked to the folk theatre,
of the 'homilies' in the islands of Zante and Cefalonia, which has a similar
structure, is played with a half mask and a singing declamation during
Carnival time, but the texts are not improvised but written down. Nevertheless
the repertoire of this folk theatre is not only comic: versions of Erotokritos,19
Erophile and the Sacrifice of Abraham of the Cretan literature of the
Renaissance are played, together with dramatizations of popular readings of
the 19th century.20 The term 'milima' for a small scene can be found for the first
time in the Eugena legend play in 1646 by Teodoro Montselese from the island
of Zante.21 Besides the influences of Commedia dell’Arte, we can assume also
customary origin of the plays in the framework of the carnival-disguises and
dialogues.22 Anyway, one of the adaptations of the melodramatic provincial
play The Lover of the Shepherdess by Dimitris Coromilas (1891) gives some
evidence of the survival of the comic spirit, of Commedia dell’Arte in Zante
folk theatre: in the sentimental plot a A r l e c c h i n o-like figure is introduced, who
comments in many soliloquies on the plot and speaks the dialect of the island.23
All the specific indications, together with the cultural context of the Ionian
Islands in the 18th century, form a slight and delicate basis of evidence that
there was at least the knowledge of Commedia dell’Arte, if real performances
cannot be proved. The mechanisms of the visiting of Italian opera troupes were
established only in the last decades of the 18th century.
There are also some indications of influence of plays by Venetian comedywriters influenced by Commedia dell’Arte, such as Gozzi and Goldoni. It is
Glykeria Protopapa-Bubulidu, “A
\ νέ κδ ο τ οςZακυνθινc κωµωδία τοÜ ∆ιον. Λουκίσα”, Parnassos
7 (1965), 255-276.
19
W. Puchner, “Zum Ritterspiel in griechischer Tradition”, Byzantinische Zeitschrift 91 (1998),
435-470.
20
W. Puchner, “Kretische Renaissance- und Barockdramatik in Volksaufführungen auf den Sieben
Inseln”, Osterreichische Zeitschrift für Volkskunde 30, 79 (1976), 232-242.
21
T. Montselese, Eéγένα, ed. M. Vitti, Napoli 1965, p. 31.
22
M. G. Meraklis, “Το πρόβλημα της προέλευσης των ομιλιών”, Philologika 5 (1981), 34-38. For
further bibliography see also W. Puchner, Το λαϊκό θέατρο στην Ελλάδα και τα Βαλκάν ι α,
Athens 1989, pp. 181 -185.
23
M. A. Alexiadis, ^O A
\ γαπ ητ ικeς τÉς Bοσκοπούλας. ‰Aγνω στη Zακυνθινc “^Oµιλία” τοÜ \Aλέκου
ΓελαδÄ. Συµβολc στcν öρευνα τοÜ ζακυνθινοÜ λαϊκοÜ θεάτρου, Athens 1990.
24
P. Mavromustakos, “Tο ιταλικό µελόδραµα στο θέατρο Σαν Tζιάκοµο της Kέρκυρας (17331798)”, Parabasis 1 (1995), 147-192, esp. 163.
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TRACES OF THE COMMEDIA DELL’ ARTE
IN MODERN GREEK THEATRE IN THE 18th & 19th CENTURY
quite possible that in 1771 a libretto of Carlo Gozzi, I1 matrimonio per
i n g a n n o, was played as dramma per musica at San Giacomo in Corfu.24 The
same holds good for 1773, when two libretti of drammi giocosi per musica by
Carlo Goldoni possibly were played in the same theatre: Il mercato di
Malmantile and Le cascine.25 Sure evidence exists for the performance of the
dramma giocoso per musica La conversazione in 1774.26 Some of the earlier
plays of Goldoni had some certain influence on Phanariot comedy writers,
such as Georgios Sutsos. In his Πονήµατά τινα δραµατ ικά published in
Vienna in 1805, two of the four plays have early plays of Goldoni as models:
Aυλικός ο πεφωτισµένος the intermezzo in verse I1 disinganno in corte, and
Πατρίς των τρελών the comedy Arcifanfaro re dei matti.27 But this is rather an
exception. The literary reception of Goldoni in Greece at this time gave
emphasis to the moral and didactic plays in the framework of the
Enlightenment.
So on entering the 19th century there is not much ground for the reception
of Commedia dell’Arte in Greece, with the exception of the folk tradition of the
Ionian Islands. The suggestion of some sort of influence of the Commedia
dell’Arte on Greek shadow theatre is just guesswork and based on structural
similarities of the stereotype framework of comic figures and situations.
Op. cit., 164f.
Op. cit., 165f.
27
G. N. Sutsos, \Aλεξανδροβόδας ï àσυνείδητος. Kωµωδία συντεθεÖσα âν öτει÷ αψπε‹: 1785, ed.
D. Spathis, Athens 1995, pp. 274ff.
25
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INDICE DEGLI AUTORI
Ennio Concina
Professore di Storia dell'arte bizantina, Università Ca' Foscari di Venezia
Manlio Cortelazzo
Professore emerito di Dialettologia italiana, Università di Padova
Piermario Vescovo
Docente di Letteratura teatrale italiana, Università Ca' Foscari di Venezia
Platon Mavromoustakos
Professore di Studi teatrali, Università di Atene
Anna Scannapieco
Docente di Lingua italiana e Storia della critica, Università Ca' Foscari di
Venezia
Daniele Vianello
Docente di Storia del teatro, Università La Sapienza di Roma
Raissa Raskina
Dottore di ricerca in Storia del teatro e dello spettacolo, Università
La Sapienza di Roma
Walter Puchner
Professore di Studi teatrali, Università di Atene
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COMITATO EUROPEO
DIREZIONE GENERALE
EDUCACIONE E CULTURA
ISBN 960-88505-0-9
Gli Akriti d’ Europa
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La commedia dell’arte nella sua dimensione europea
12/27/04
ACRINET
exo biblio IT.qxp
Esponente Responsabile del
Programma
- PRISMA - Centro di Studi per lo
Sviluppo
Responsabile della coordinazione
scientifica
- Accademia di Atene, Centro di
Ricerca del Folclore Greco
Soci del programma
- Ministero della cultura, Direzione
della Cultura Popolare
- Università dell' Europa
- Università I della Sorbona, Panteon
- Consiglio Superiore delle Ricerche
Scientifiche di Spagna, Istituto di
Filologia, Dipartimento di Studi
Bizantini e Neoellenici
- Istituto Ellenico di Studi Bizantini
e Postbizantini di Venezia
- Università di San Clemente di Ocrida
a Sofia, Dipartimento di Filologia
Slava, di Etnologia e di Letteratura
Bizantina.
La commedia dell’arte
nella sua dimensione
europea
Istituto Ellenico di Studi Bizantini
e Postbizantini di Venezia
In copertina:
Giandomenico Tiepolo,
Pulcinella innamorato, 1797.
Ca’ Rezzonico (Venezia).