MODULO DI STORIA-ITALIANO ED ED. RELIGIOSA
EBREI E ANTISEMITISMO
TEMPO: Quattro settimane – 14 ore (10 ore di contenuti, 2 ore di verifica
e 2 ore per il dibattito con la compresenza dell’insegnante di religione).
INPUT: Presenza in aula di un alunno ebreo vittima di discriminazioni
DESTINATARI: IV Liceo Scientifico Tecnologico
SOMMARIO: U.D.1 - Ebrei e sviluppo del mondo moderno.
U.D.2 - Percorsi dell’emancipazione, integrazione e
assimilazione.
U.D.3 - Antisemitismo vecchio e nuovo.
U.D.4 - Organizzazioni ebraiche, la mobilitazione
antisemita e la nascita del sionismo.
MOTIVAZIONE: Il presente modulo nasce con l’intento di focalizzare
l’attenzione su una problematica storica fondamentale: il riconoscimento e
l’emancipazione di un popolo, quello ebraico, che ha subito una
discriminazione e una persecuzione plurisecolare.
FINALITA’: - Favorire nel discente la consapevolezza dell’importanza
della libertà di essere e di espressione.
- Accrescere il sentimento della tolleranza e
il rispetto delle diversità che siano esse religiose, politiche
economiche o sociali.
- Maturare la capacità di osservare e valutare la propria e
l’altrui condotta.
- Consolidare la coscienza storica.
- Sviluppare la consapevolezza che il cambiamento morale
e culturale nasce dalla capacità di problematizzare il
passato.
- Considerare il fatto che le conoscenze storiche sono
elaborate in conformità a fonti diverse che lo storico
seleziona e interpreta secondo modelli e riferimenti
ideologici.
OBIETTIVI DIDATTICI: - Imparare a leggere ed interpretare le fonti.
- Contestualizzare e periodizzare.
- Comunicare con chiarezza e proprietà di
linguaggio, attenendosi all’argomento e alle
modalità richieste dalla situazione.
- Comprendere, analizzare, spiegare e
rielaborare i principali concetti.
- Adoperare in modo adeguato il testo ed
eventuali carte geopolitiche.
OBIETTIVI EDUCATIVI: - frequentare regolarmente le lezioni.
- mostrarsi disponibile all’ascolto, al
confronto e alla collaborazione.
- Impegnarsi assiduamente nello studio.
- Intervenire correttamente nel dialogo per
chiedere chiarimenti, per offrire
contributi interpretativi e spunti per
l’approfondimento
e
per
la
problematizzazione.
- Acquisire una propria capacità di analisi,
sintesi e organizzazione dei contenuti.
PREREQUISITI: - Conoscenza degli eventi storici salienti fra 600 e
800.
- Capacità di stendere una mappa concettuale.
- Familiarità con i quesiti a risposta multipla e il
saggio breve a carattere argomentativi.
- Saper distinguere in un testo storiografico fatti e
interpretazioni.
- Utilizzare l’indice delle carte geografica e storiche.
- Riconoscere le legende delle carte storiche e
geografiche.
- Distinguere l’spetto sincronico e diacronico degli
eventi.
METODI: -
Lezione frontale.
Lettura e analisi dei testi.
Dibattiti.
Circle Time e Brainstormig.
STRUMENTI DIDATTICI: - Manuale.
- Documenti storiografici.
- Carte geopolitiche.
- Dizionario storico-filosofico.
- Film: Train de vie.
STRUMENTI DI VERIFICA: - Griglia comportamentale predisposta
dal docente.
- Test a risposta multipla.
- Saggio brave.
- Verifiche orali.
LETTURE STORIOGRAFICHE CONSIGLIATE:
Rousseau per la tolleranza e il dialogo da Professione di fede del vicario
savoiardo;
L’antisemitismo di Voltaire da Lettera del 21 luglio 1762;
Cattaneo contro le “interdizioni ebraiche” da Interdizioni israelitiche del
1835;
Marx sulla questione ebraica da La questione ebraica.
METODO - Lezione frontale con valore introduttivo.
I ragazzi disposti in situazione di apprendimento in Circle Time
passeranno allo studio degli argomenti con l’ausilio di un questionario.
Tale questionario sarà corretto in classe in un contesto interattivo, dando
spazio all’introspezione, alla riflessione e allo scambio di esperienze.
Il lavoro procederà con la creazione di una mappa concettuale personale,
utile all’esposizione orale dell’argomento e nella preparazione di un saggio
scritto in merito alla tematica che si è maggiormente evidenziata nel corso
della lezione.
UNITA’ DIDATTICA 1
EBREI E SVILUPPO DEL MONDO MODERNO
La questione dell’emancipazione, cioè della liberazione dai vincoli
giuridici che impedivano agli ebrei uguale cittadinanza, alla fine del
Settecento era nell’agenda politica dell’Occidente, sollecitata
dall’Illuminismo ebraico, ma soprattutto imposta dal ruolo conquistato
dagli ebrei entro il processo di modernizzazione. Il processo di
emancipazione ebbe però nei diversi paesi tempi più lenti o più rapidi.
Alla fine del XVII secolo vivevano in Europa 750.000 ebrei (solo in Italia
essi erano in 30.000). La loro presenza aveva una storia ormai lunga.
Stabilitisi lungo le sponde del Mediterraneo nel corso di una diaspora
commerciale nel 70 d. C., gli ebrei si erano lentamente diffusi prima in
Italia e in Spagna, poi lungo il corso del Reno, in tutto il Sacro Romano
Impero, in Boemia ed infine, in Inghilterra.
La loro identità etnica era fissata dalla tradizione religiosa, che
conservavano gelosamente, affidata alla Bibbia e al Talmùd. Il fulcro di
tale tradizione era dato dal monoteismo etico: una concezione della vita
che riconosceva come divina solo la legge morale e considerava sacrilegio
il tentativo di disporre della vita altrui nel proprio interesse.
Collateralmente al monoteismo etico la cultura ebraica aveva conosciuto
anche, a partire dal Medioevo, un filone mistico, la Qabbalàh, legato
all’idea che la Bibbia fosse suscettibile di una lettura esoterica.
Nelle province dove si erano insediati, gli ebrei vivevano inseriti in società
non ebraiche: cristiane o islamiche. Ma si trovavano comunque in una
condizione di inferiorità giuridica. Il diritto ecclesiastico consentiva la loro
presenza, ma ne vietava il proselitismo, ne proibiva l’unione con i cristiani,
imponeva che portassero sulle vesti un segno distintivo e un po’ per volta
restrinse a tal punto le occupazioni loro concesse, da costringerli a
specializzarsi nel prestito a interesse, vietato ai cristiani perché considerato
come usura, ma decisivo per lo sviluppo economico, soprattutto dopo la
rinascita commerciale dell’ XI secolo. Anche nei paesi islamici agli ebrei
era negata la pienezza dei diritti ma essi poterono conservare le attività
agricole e commerciali e l’ostilità della maggioranza religiosa nei loro
confronti era meno sentita. I principali fermenti di rinnovamento religioso
( le Crociate, i Francescani e i Domenicani, i flagellanti etc.) che a più
riprese avevano attraversato l’Europa chiedevano l’esclusione degli ebrei o
addirittura promuovevano persecuzioni che attraverso i secoli avevano
contato migliaia di vittime. Ebbero così inizio le espulsioni degli ebrei:
prima dall’Inghilterra nel 1290, poi dalla Francia nel 1394, poi in numero
massiccio dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1496 e nel corso del
secolo successivo da tutti i domini spagnoli. La Chiesa a partire dal 1555
impose agli ebrei il ghetto.
Gli ebrei ashkenaziti, cioè provenienti dalla Germania, si spostarono in
Polonia e in Lituania dove tra il XIII e il XVII secolo furono bene accolti
dai sovrani e dai nobili desiderosi di relegare loro la gestione delle
proprietà terriere. Dalla metà del XVII secolo essi trovarono migliore
accoglienza anche nel mondo tedesco dove alcuni furono “ebrei di corte”
dei principi (finanzieri, ministri, diplomatici). Nel 1670 Federico
Guglielmo, Grande elettore del Brandeburgo, invitò gli ebrei espulsi da
Vienna nel suo stato, per svilupparne i commerci, e pose le basi della
grande presenza economica degli ebrei a Berlino. Un gravissimo colpo
all’ebraismo askenazita venne dalle persecuzioni scatenate dai cosacchi
contro gli ebrei della Polonia tra il 1647 e il 1655. Gli altri ebrei, i
sefarditi, cioè provenienti dalla penisola iberica, espulsi dai re cristiani, tra
il XVI e il XVII secolo erano emigrati a piccoli gruppi nei centri
mercantili interessati ad avvalersi dei loro servigi finanziari: Bordeaux,
Amburgo, Anversa; oppure in luoghi dove il culto ebraico era consentito:
nell’Impero ottomano e in alcune città franche come Livorno e
Amsterdam. Da qui giunsero in America e a Londra, dove Cromwell non
tenne conto dell’espulsione del 1290. I sefarditi erano imprenditori di
frontiera che esercitavano un ruolo di primo piano nello sviluppo
dell’economia coloniale. Nei secoli del basso Medioevo la finanza ebraica
era diventata una realtà marginale, legata soprattutto al prestito su pegno
agli indigenti delle città e alle anticipazioni sui raccolti nelle campagne,
mentre il grande prestito ai nobili e ai principi era finito in mani cristiane.
Ma l’età della formazione degli stati moderni e delle grandi guerre
europee, e soprattutto la guerra dei Trent’Anni aveva visto un rilancio
della finanza ebraica. La tradizionale specializzazione nel prestito aveva
posto inoltre le premesse di un significativo vantaggio dei mercanti ebrei
sui loro concorrenti cristiani. Gli ebrei erano più spregiudicati: ovunque i
loro mercanti si affermavano vi erano nuove esigenze di consumo che
venivano appagate mentre borghesie cristiane accumulavano risentimento.
Nel Settecento la cultura ebraica conobbe sviluppi divergenti, in parte essi
erano legati alla tradizione mistica. Il filone mistico aveva già vissuto un
momento cruciale nel 1666 con il cabalista Shabbatai Zevi, il quale prima
si era si era autoproclamato Messia e poi aveva abbandonato la fede dei
padri per quella islamica creando sconforto e disperazione nell’intero
mondo ebraico. In Polonia e in Ucraina, dove la fede sabbatiana era stata
particolarmente forte, a metà del Settecento si diffuse un altro movimento
mistico: il chassidismo, che alle attese escatologiche dei sabbatiani
sostituiva un’intensa pratica quotidiana della pietà. Il fondatore fu il Besht
(così nominato dalle iniziali del suo lungo appellativo). Figura centrale del
chassidismo era lo tzaddìq, il “giusto”, una persona capace di fungere da
catalizzatore della fede non in virtù della conoscenza ma di una
straordinaria ispirazione e bontà. Questa trasposizione della santità della
Legge alla persona favorì la proliferazione di sette e tempo dopo l’intero
movimento fu condannato come eretico. La tendenza mistica non fu
egemone e vantò personaggi come Spinoza, il quale plasmò un movimento
di idee che guardava con simpatia ai Lumi e tentava di integrarli con le
tradizioni ebraiche: la Haskalàh. Il maggiore esponente del movimento fu
Moses Mendelssohn, il “Socrate di Berlino”, il quale raggiunse grande
fama grazie alla pubblicazione del suo Fedone (1767), nel quale tentava di
fornire dimostrazioni razionali sull’esistenza di Dio e sull’immortalità
dell’anima. Egli divenne ben presto il campione europeo
dell’emancipazione ebraica e gli fu chiesto di intervenire a favore degli
ebrei minacciati di espulsione dalla Svizzera e in favore di quelli
pesantemente discriminati in Alsazia e in Sassonia. Ancora più lontani
dall’ebraismo internazionale furono i salotti di due sorelle di origine
berlinese, Fanny e Cecilia Itzig, i quali, durante il Congresso di Vienna
furono molto frequentati dalla diplomazia e divennero il centro delle
iniziative per salvare l’emancipazione degli ebrei dalla repressione
reazionaria.
UNITA’ DIDATTICA 2
I PERCORSI DELL’EMANCIPAZIONE
La “prima emancipazione” ebraica- la conquista sei-settecentesca di nuovi
diritti legata all’ascesa sociale dei mercanti sefarditi e degli ebrei di corte
ashkenaziti- si verificò senza distruggere il meccanismo sociale basato
sulla convivenza di libertà disuguali. In Inghilterra, paese all’avanguardia
nel promuovere il rinnovamento della condizione ebraica, l’emancipazione
fu ispirata ad una sorta di pluralismo concertato: gli ebrei si inserirono
nella vita sociale senza che venisse loro imposta una drastica rinuncia alle
tradizioni, in un lento processo di concertazione con gli altri gruppi sociali.
L’emancipazione fu un processo graduale che portò alla rimozione, una
dopo l’altra, delle limitazioni che impedivano agli ebrei l’accesso a cariche
e a professioni. L’abitudine alla concorrenza commerciale e la presenza di
sette calviniste creavano un clima favorevole. I teorici britannici della
laicità dello stato, come John Locke e John Toland erano stati i primi a
sostenere che agli ebrei dovesse essere concessa l’uguaglianza dei diritti.
E a differenza che nel resto d’ Europa l’antisemitismo aveva una
tradizione quasi solo letteraria, legata alla figura di Shylock, l’ebreo
spietato del Mercante di Venezia di Shakespeare. Nel 1753 un tentativo del
Parlamento di proibire agli ebrei di possedere terre fu sventato da forti
reazioni dell’intera società. Gli ebrei furono ammessi al foro nel 1833, alla
carica di sceriffo nel 1835, alle cariche municipali nel 1845. Nel 1866 fu
coronato il processo di emancipazione con l’abolizione della norma che
imponeva ai titolari delle cariche pubbliche il giuramento secondo la
formula anglicana.
Secondo un modello simile si sviluppò il percorso di emancipazione degli
ebrei americani. Nel 1654 inizia la loro vicenda, quando alcuni ebrei
sfuggiti in Brasile all’Inquisizione si rifugiarono a New York. Solo un
secolo più tardi si insediarono nelle altre colonie britanniche. Il nord
America vantava una realtà insolitamente favorevole: la tolleranza era una
tradizione del paese e nelle colonie convivevano una grande varietà di
comunità religiose. Infine il forte dinamismo economico-sociale e
l’assenza di consolidate tradizioni corporative impedivano il formarsi di
un’ostilità borghese nei confronti dei commercianti ebrei. La libertà di
culto fu sancita formalmente e in via generale dal primo emendamento alla
Costituzione nel 1789.
Nell’Europa continentale l’emancipazione prese invece, nel complesso una
strada diversa. Nel Trattato sulla tolleranza universale (1686) il libertino
Pierre Bayle aveva chiesto libertà per ogni culto. Nello Spirito delle leggi
(1748), Charles de Secondat, barone di Montesquieu si era pronunciato a
favore dell’emancipazione, pur condannando la chiusura degli ebrei e il
loro fanatismo. J. Jacques Rosseau nella Professione di fede del vicario
savoiardo (1762) sosteneva addirittura che la rivelazione ebraica fosse
“più sicura” di quella cristiana. A partire dal 1775 negli ambienti illuminati
di Francia aveva preso avvio una campagna a favore dell’emancipazione.
Infatti, nel continente europeo il percorso dell’emancipazione fu, in una
prima fase, graduale e ispirato al pluralismo concertato. Presto però il
progetto ideologico illuminista di una cittadinanza organica fatta di
individui uguali ebbe ripercussioni sull’emancipazione ebraica: si giunse
ad una sorta di integralismo civico.
Già nell’editto di tolleranza del 1781 l’imperatore Giuseppe II concedeva
la cittadinanza agli ebrei dei domini asburgici, e nel 1787 impose loro
addirittura cognomi tedeschi. La rivoluzione francese accelerò
notevolmente il processo di emancipazione in tutto il continente,
imponendo in modo radicale il progetto della cittadinanza organica.
L’Assemblea Costituente con due decreti tra il 1790 e il 1791 estese
l’emancipazione a tutti gli ebrei francesi. Le armate francesi imposero poi
l’emancipazione in Belgio, in molti stati tedeschi, in Olanda e negli stati
italiani.
Ma la Rivoluzione non fu tutta dalla parte degli ebrei: essa lasciò anche
libero sfogo al risentimento delle borghesie cristiane. Tra i cahiers des
doleances, preparati per la convocazione degli Stati Generali, solo quelli
della nobiltà favorivano l’emancipazione, quelli del clero e del terzo stato,
invece, la ostacolavano. Iniziarono così nel 1789 in Alsazia persecuzioni
antisemite. Durante il Terrore poi, in concomitanza con la campagna di
scristianizzazione, fu lanciata anche una campagna di degiudaizzazione:
alcuni giacobini erano a favore dell’espulsione degli ebrei, altri addirittura
proponevano la “rigenerazione della ghigliottina”.
Dentro e fuori la Francia il mondo ebraico non reagì sempre in modo
positivo all’emancipazione. Reagirono con entusiasmo gli oppressi ebrei
della Renania e d’Italia, che videro aprirsi le porte del ghetto, ma non fu
così per gli ebrei in Olanda i quali vi si opposero in nome della tradizione
di autogoverno. Tutta l’ambivalenza della ideologia rivoluzionaria si rivelò
particolarmente nella politica ebraica di Napoleone che oscillava tra la
scelta dell’esclusione e la scelta dell’assimilazione coatta.
Dopo aver liberato dal ghetto gli ebrei italiani nel 1806 Napoleone decise
di affrontare la questione ebraica in una prospettiva generale: convocò a
Parigi i maggiori notabili ebrei per affrontare il nodo del rapporto tra la
comunità ebraica e la società francese. In seguito alle risposte dei notabili,
Napoleone (nutrendo vaghe ambizioni messianiche e deciso a sfruttare la
tutela sull’ebraismo mondiale), convocò un’assemblea di rappresentanti
dell’ebraismo d’Europa che chiamò Gran Sinedrio, a cui affidò il compito
di riformare la Legge ebraica, con l’intento di integrare gli ebrei
assimilandoli alla società circostante. All’appello, per ragioni politiche e
militari, risposero solo gli ebrei d’Italia e di Francia e il Gran Sinedrio
ebbe scarse conseguenze sull’avvenire degli ebrei d’Europa; esso sortì
però l’effetto indiretto di diffondere negli ambienti cattolici sia l’idea di
una mobilitazione ebraica mondiale in chiave anticristiana e sia l’idea una
collaborazione semita alla congiura massonica, che per molti era alle
origini della rivoluzione.
In Germania l’emancipazione venne concessa sotto la pressione
internazionale della Francia e in seguito alle iniziative diplomatiche di
alcuni ebrei di corte. In Prussia fu il movimento riformatore ad ottenere
l’emancipazione con un editto nel 1812: con esso era garantita
l’uguaglianza giuridica ma non l’accesso degli ebrei alle cariche
pubbliche.
In Russia la politica ebraica dello zar oscillò tra l’ideale illuministico
dell’emancipazione e il principio di assorbimento coatto. Nel Settecento,
dopo l’assorbimento della Polonia, l’Impero russo aveva inglobato metà
degli ebrei d’Europa. Già Paolo I aveva deciso di attuare un progetto di
integrazione degli ebrei, ma la sua morte ne impedì la realizzazione.
Alessandro I riprese il progetto nel 1804, ma gli ebrei dovettero pagare il
miglioramento della loro posizione giuridica con la rinuncia alle tradizioni
e alle preesistenti forme di autogoverno.
Scomparso dalla scena politica Napoleone, l’emancipazione in Francia fu
completata da Luigi XVIII; con la rivoluzione di luglio poi, nel 1830, fu
approvata una legge che parificava i rapporti dello stato con l’ebraismo ai
rapporti con le due confessioni cristiane. Nel 1846 fu raggiunta
l’uguaglianza assoluta grazie alle iniziative dell’avvocato ebreo Alfred
Crèmieux.
Purtroppo l’età post-napoleonica fu teatro in Germania e in Prussia di
violente manifestazioni antisemite: ricomparve e si diffuse rapidamente
l’accusa di omicidio rituale. Già durante il Medioevo le persecuzioni
antisemite erano state accompagnate dall’accusa mossa agli ebrei di rapire
e uccidere bambini cristiani per utilizzarne il sangue nei riti pasquali; gli
stessi governi cominciarono così a limitare l’uguaglianza. Nel 1840
Federico Guglielmo IV pensò di ripristinare l’obbligo di residenza nel
ghetto.
Del resto in tutta l’Europa centrale si conobbero nel 1848-49 esplosioni
antisemite ancora più gravi di quelle avvenute trent’anni prima.
Solo lo sviluppo oggettivo del processo di modernizzazione e la nuova
importanza economica conseguita dalla finanza ebraica imposero ancora
una volta ai governi tedeschi l’esigenza di emancipare gli ebrei. In Prussia
l’emancipazione, operata da Otto Von Bismarck, fu frutto della
tradizionale alleanza tra ebrei e aristocrazia, e giungerà definitivamente nel
1869.
In Italia alla sconfitta di Napoleone solo il ducato di Parma e il
Granducato di Toscana lasciarono in vigore la legislazione di ispirazione
francese. Nel 1814 lo Stato Pontificio di Pio VII ripristinò il ghetto,
l’Inquisizione e le prediche coatte. Sarà solo il movimento risorgimentale a
rilanciare con decisione l’emancipazione ebraica: un ruolo di primo piano
fu svolto in particolare da Carlo Cattaneo che nelle sue Interdizioni
israelitiche ( 1837) ricostruì la storia delle discriminazioni contro gli ebrei
e invocò la loro liberazione. La rivoluzione del 1848 restituì agli ebrei
l’uguaglianza ma la sua sconfitta la lasciò esistere solo nel regno di
Sardegna di Vittorio Emanuele II. Infine, furono le vittorie piemontesi a
ristabilire definitivamente l’emancipazione nelle province via via annesse
al Regno d’Italia; a Roma, dunque solo nel 1870.
Le vicende della Russia furono completamente diverse da quelle
dell’occidente: lo zar Alessandro I divenne il paladino della restaurazione
della società cristiana e dovette accantonare il progetto di integrazione e di
occidentalizzazione degli ebrei; nonostante ciò egli riservò loro attenzioni
particolari che si espressero sia in interventi diplomatici in loro difesa, che
nella presentazione di un grandioso progetto di emancipazione generale
degli ebrei d’Europa che presentò al congresso di Aix –la Chapelle nel
1818 alle altre potenze europee. Ma le potenze rappresentate al congresso
lo rigettarono e l’imperatore finì con l’accantonare anche ogni ipotesi di
emancipazione limitata al proprio impero. Con lo zar Nicola II la
situazione per gli ebrei si aggravò notevolmente: nel 1835 furono costretti
a risiedere solo entro una zona delimitata, lungo una fascia che correva ai
confini occidentali dell’Impero, dal Baltico al Mar Nero. Fu imposta loro
una coscrizione obbligatoria venticinquennale, l’allontanamento dalle
famiglie a otto anni per la preparazione militare, la russificazione e il
battesimo forzato, nonché tasse più pesanti. Si registrarono in quel periodo
molti suicidi di massa. Con l’illuminato sovrano Alessandro II le
discriminazioni furono leggermente attenuate, ma la situazione degli ebrei
di Russia restò sicuramente più gravosa rispetto a quella dei correligionari
occidentali.
UNITA’ DIDATTICA 3
ANTISEMITISMO VECCHIO E NUOVO
Nel corso del Settecento l’antisemitismo aveva subito un profondo
processo di rielaborazione, nel corso del quale molti nuovi e vecchi spunti
antiebraici si erano andati combinando e rafforzando reciprocamente in
vario modo. Nell’antichità ellenistica c’era un antisemitismo basato sulla
condanna della separatezza e del monoteismo degli ebrei. Il cristianesimo
aveva condannato il loro ritualismo ed aveva imputato all’intero popolo
ebraico la colpa del deicidio. Infine, l’antigiudaismo cristiano si era spesso
unito con l’ostilità contadina e borghese per i prestatori e i concorrenti
liberi dai vincoli corporativi. Comunque, in sostanza, gli attacchi
antiebraici avevano avuto sempre una base religiosa. Fu solo l’illuminismo
a porre le fondamenta di un nuovo potente antisemitismo, estraneo ai
presupposti della religione. Non tutta la cultura illuminata fu infatti
favorevole agli ebrei.
Le prime avvisaglie comparvero in Inghilterra. Non tutti i deisti britannici
avevano apprezzato l’apertura di Toland, loro padre fondatore,
vagheggiando piuttosto, il ritorno ad una “religione naturale”, conforme
alla ragione, libera da dogmi incomprensibili e da rituali superstiziosi.
La maggior parte dei deisti vedeva nell’ebraismo la prima deviazione del
puro culto naturale e la matrice della corruzione successiva.
Verso la metà del Settecento, però, la propaganda deista scomparve
dall’Inghilterra, ma i motivi polemici che essa aveva suscitato furono
raccolti da figure eminenti della cultura illuminata continentale e dal nome
più rappresentativo di essa, Voltaire che fu antigiudaico ancora più
intensamente di quanto fosse anticristiano.
Nella voce Ebrei del suo Dizionario filosofico (1756), aveva presentato il
popolo ebraico come un relitto dell’antichità, ignorante, superstizioso,
incomprensibilmente attaccato a tradizioni prive di senso.
Voltaire accusava gli ebrei di essere capaci solo di calcolo, non di
pensiero, e di “essere plagiati in tutto”. Credeva fermamente che gli ebrei
praticassero i sacrifici umani dei quali il popolino cristiano li accusava; li
escludeva dal diritto di tolleranza e considerava naturale la loro
degradazione.
Il fervore antisemitico degli ultimi quindici anni della sua vita fu tale che
all’epoca della dominazione hitleriana della Francia, uno storico servile
poté comporre con i suoi testi antiebraici un’antologia di ben 250 pagine.
Agli occhi degli illuministi, che riconoscevano in Voltaire il loro profeta,
la modernità doveva passare per la fusione di ogni residuo delle vecchie
tradizioni nel crogiolo di una nuova cultura. La modernità comportava
l’obbligo di essere moderni. Così, nella nuova società illuminata non
poteva esserci posto per i retrogradi che insistevano a perpetuare riti
vecchi di millenni. Se una parte della cultura illuminata aveva chiesto
l’esclusione degli ebrei a causa della loro estraneità alla civiltà moderna,
una parte della cultura rivoluzionaria ne chiese l’esclusione a causa
dell’estraneità al corpo sovrano della nazione.
Il fronte della democrazia rivoluzionaria e nazionale si colorava di
antisemitismo. Il grande filosofo Johann Gottlieb Fichte, che si era
convertito al giacobinismo e aveva sviluppato la democrazia in una forma
di socialismo nazionale, considerava gli ebrei una razza ostile al genere
umano e proclamò che la loro presenza- quasi “uno stato nello stato”- era
di impedimento alla lotta nazionale di liberazione.
Scriveva: “Vedo un solo modo per difendermi da loro: conquistare per loro
la Terra promessa e spedirceli tutti”; “possiamo dar loro dei diritti civili a
una sola condizione: tagliar la testa a tutti loro la stessa notte e dargliene
una nuova che non contenga una sola idea ebraica”.
Il giovane Hegel, poi, entusiasta della rivoluzione come Fichte,
mescolando nei suoi scritti teologici l’antisemitismo modernista di
Voltaire con quello cristiano di Lutero, interpretava la tradizione ebraica
come legge di un popolo schiavo e la vedeva perciò indelebilmente
segnata dalla passività, dal timore, dal servilismo, dall’incapacità di
afferrare la presenza del divino nell’uomo; su di lui influiva poi l’opinione
di Kant che riteneva gli ebrei stessi un popolo sostanzialmente privo di
religione e perciò incapace di autentica spiritualità, materialista, non a caso
dedito all’usura. Il sogno di una nuova possibile comunità organica,
vagheggiato dal nazionalismo tedesco, sviluppò fortemente le potenzialità
razziste che nel nazionalismo giacobino comparivano appena con
sfumature. Sulla scorta di Fichte, per il nazionalismo tedesco la missione
del popolo di Germania era legata alla superiorità del loro sangue. E non a
caso proprio nell’ambito di tale nazionalismo si videro le prime avvisaglie
della saldatura tra antisemitismo e pensiero razzista, che in precedenza
avevano avuto vicende sostanzialmente separate.
Con le sue potenzialità antisemite, del resto, l’organicismo sociale costituì
un momento d’intesa fra la cultura rivoluzionaria d’impronta illuministica
e il movimento romantico.
La volontà di un radicale rinnovamento del mondo sembrava incapace di
conciliarsi con la moltitudine di differenze che la modernità aveva
prodotto, incrinando la coesione della società cristiana del Medioevo. Nei
romantici l’organicismo sociale assunse spesso le forme della nostalgia per
il Medioevo e del cristianesimo di ritorno, forme che sollecitarono a loro
volta ulteriori suggestioni antisemite. In Prussia Schlegel finì per
convertirsi al cattolicesimo, e riappropriandosi dell’antigiudaismo
cristiano, reclamò il ripristino dell’Iquisizione. In realtà, se si considera la
valenza che assunsero riguardo alla questione ebraica il culto integralista
della modernità, il principio della sovranità popolare, il nazionalismo, lo
scientismo, il razzismo, i nuovi miti nati dal rinnovamento della cultura
occidentale, non sorprende che le principali correnti ideologiche
dell’Ottocento abbiano avuto coloriture antisemite più o meno intense.
In gran parte sotto l’impressione della potenza della finanza ebraica, la
sinistra socialista, almeno fino alla fine del secolo, riprese in generale
l’atteggiamento antiebraico della sinistra giacobina e considerò gli ebrei
come una genia di rapaci sfruttatori.
Comunque l’antisemitismo di matrice illuminista fu sviluppato anche in
altri ambienti progressisti. Come gli atteggiamenti antisemiti giacobini
ebbero seguito all’interno del socialismo francese, la polemica antiebraica
dei philosophes ateo-materialisti trovò una eco nell’ambiente della sinistra
hegeliana. Un ruolo cruciale in questo ambito lo ebbe Karl Marx
(malgrado le sue origini ebraiche): con lui infatti, l’antisemitismo ateo finì
per incontrare l’antisemitismo dei socialisti francesi, lasciando inoltre
tracce persistenti nell’atteggiamento del movimento socialista
internazionale. Marx, ne La questione ebraica (1844), sosteneva che
l’emancipazione degli ebrei non solo dovesse passare per la loro
emancipazione dal giudaismo, ma addirittura per “l’emancipazione
dell’umanità dal giudaismo”, che per Marx era lo spirito stesso della
società borghese, il nuovo mondo dominato dal mercato, dalla concorrenza
e dal profitto. Il fondamento pratico dello spirito ebraico risiederebbe
infatti, a suo avviso, nell’egoismo e il vero dio ebraico sarebbe il danaro,
“essenza del lavoro fatta estranea all’uomo”.
Era vano dunque, per Marx, proporsi di sopprimere la religione, finché
non fosse capovolta l’intera organizzazione della società. L’accostamento
tra spirito ebraico e società borghese torna infatti, in molte sue opere
successive. Ne Il capitale (1867) i capitalisti sono “giudei intimamente
circoncisi”. E un viscerale fastidio per gli ebrei emerge da decine di lettere
nelle quali Marx fa uso di argomenti antisemiti per denigrare gli avversari
politici. Lo sviluppo poi, dell’interpretazione razziale della storia che
emerse a metà Ottocento fu una notevole sintesi di scientismo illuminista e
suggestioni romantiche. Proprio un intellettuale e statista di origini
ebraiche come Benjamin Disraeli dette un primo contributo essenziale
all’idea che la storia fosse in fondo lotta di razze. Disraeli andava
fierissimo del proprio retaggio, ma convertito appena diciassettenne alla
fede anglicana, tendeva a interpretarlo non in chiave religiosa, bensì
razziale, tanto da proporre nei suoi scritti una visione della storia basata sul
ruolo e sui conflitti delle razze.
Nella concezione di Disraeli gli ebrei sono una “aristocrazia della natura”,
la razza superiore vera protagonista dello sviluppo di tutta la civiltà
moderna, che ha tenuto le fila dei più importanti movimenti intellettuali e
politici europei. Nel quadro di una interpretazione razziale della storia si
sviluppò il motivo del complotto ebraico mondiale.
Esso affiorò nel 1868 con il romanzo di Goedsche, Biarritz.
Nel romanzo si parlava della manovra ordita segretamente dai capi degli
ebrei di tutti i paesi per la conquista del mondo. Strumenti dell’infernale
disegno sarebbero stati il controllo del debito pubblico, la rovina della
piccola borghesia attraverso la concorrenza spietata, la direzione politica
delle masse operaie, l’annientamento del cristianesimo attraverso la
separazione dello stato dalla Chiesa, la diffusione del libero pensiero e la
manipolazione della stampa periodica. In chiave fantastica l’opera
presentava timori che avevano la loro origine nell’interpretazione della
Rivoluzione come complotto, ma erano stati rilanciati dal grande successo
ottocentesco della finanza ebraica. Sarebbe stata la matrice del più letto
opuscolo antisemita del Novecento, I protocolli dei savi anziani di Sion,
redatto dalla polizia politica zarista a scopo agitatorio, diffuso in occasione
della Rivoluzione russa del 1905, e giunto in Occidente dopo la
Rivoluzione bolscevica del 1917.
In Germania portavoce dell’antisemitismo fu lo scrittore e musicista
Wagner, egli dopo un’ iniziale simpatia, considerava gli ebrei come
dominatori della degenerata società moderna. L’asserito dominio ebraico
era per lui al tempo stesso sintomo e causa della decadenza morale
dell’Occidente. A suo avviso, l’inaridirsi dello spirito, si manifestava,
specificatamente in campo musicale, nella perdita del valore sacrale della
musica e nella corruzione mercantile che la stava riducendo a mero
intrattenimento borghese. L’odio antiebraico di Wagner andò crescendo
negli anni, assumendo toni sempre più razzisti e apocalittici. Riteneva che
fosse il sangue ebraico in quanto tale, la potenza corruttrice del mondo
moderno e disperava della possibilità di salvare la civiltà germanica.
Non si deve dimenticare, infine, che tutti questi spunti antisemiti elaborati
dagli intellettuali si riflettevano nel senso comune e si condensavano in
un’immagine dell’ebreo largamente diffusa: lo stereotipo dell’ebreo
nervoso, gesticolante, infido, avaro, avido di potere, egoista, dominato da
passioni sessuali incontrollate, ma anche effeminato, privo di sentimento,
di valori e di spiritualità.
UNITA’ DIDATTICA 4
LE ORGANIZZAZIONI EBRAICHE, LA MOBILITAZIONE ANTISEMITA
E LA NASCITA DEL SIONISMO
Le resistenze al processo di emancipazione e le sacche di arretratezza
rappresentate da paesi come la Russia e lo Stato pontificio, a metà
dell’Ottocento, erano motivo di costante preoccupazione per le comunità
ebraiche di tutto il mondo e sollecitavano la loro solidarietà.
La spinta decisiva alla creazione di un coordinamento internazionale
dell’iniziativa ebraica- che gli antisemiti immaginavano operasse in
segreto da sempre- venne da alcuni episodi singoli di persecuzione che
impressionarono tutta l’Europa. Tra di essi il caso di Damasco, dove, nel
1840, la scomparsa di un frate cappuccino francese aveva dato luogo
all’accusa di omicidio rituale contro gli ebrei. Di essa aveva approfittato il
console francese, che con l’appoggio del capo del suo governo, aveva
creato una trama politica per assicurare l’influenza della Francia nella
regione. Con l’avallo del primo ministro britannico si mosse sir Moses
Montefiore, straordinaria figura di finanziere ebreo che aveva lasciato gli
affari per dedicarsi alla difesa dei correligionari discriminati.
Postosi alla testa di una delegazione internazionale, Montefiore prese
contatti col governatore della Siria e riuscì a garantire la correttezza
dell’inchiesta e gli ebrei accusati vennero scagionati. Montefiore approfittò
poi, del lungo viaggio di ritorno per visitare molte comunità e interessarsi
dei loro problemi. Non riuscì ad ottenere però, una ventina di anni più
tardi, che venisse rimandato a casa il piccolo Edgardo Mortasa, sottratto ai
genitori ebrei dalle autorità pontificie nella Bologna del 1858, dopo essere
stato battezzato segretamente da una domestica cristiana: un caso
clamoroso che suscitò le proteste dei maggiori giornali europei, e richiamò
interventi anche di Cavour, Napoleone III e Francesco Giuseppe.
Lo sdegno suscitato portò alla fondazione nel 1860 dell’ Alleanza Israelita
Universale, che, attiva soprattutto col concorso delle comunità francesi, si
collegò presto con analoghe organizzazioni sorte sul suo modello in altri
paesi. Il motto dell’ Alleanza Israelita Universale era: “tutti gli ebrei sono
garantiti uno dell’altro”. E, da allora, divenne il centro che coordinò
l’iniziativa internazionale per il riconoscimento dei diritti degli ebrei e al
suo interno le opposte tendenze degli ortodossi e dei riformati seppero
trovare un’intesa.
Davanti agli ebrei d’Europa, però, si profilava una minaccia che non
poteva essere omologata al tradizionale disconoscimento di diritti.
Nasceva infatti dai conflitti ideologici e sociali della stessa società
dell’emancipazione: gli ultimi decenni del secolo mostravano che il nuovo
antisemitismo tendeva a trasformarsi in un potente fattore di mobilitazione
politica di massa.
A catalizzare tale trasformazione furono soprattutto i fatti di Russia.
La guerra con l’Impero ottomano del 1877 e l’opposizione che i russi
avevano incontrato nell’Inghilterra di Disraeli avevano già determinato
un’atmosfera di esaltazione nazionalistica. Quando nel 1881, lo zar
Alessandro II fu assassinato dai terroristi dell’organizzazione Libertà del
popolo, a partire dall’Ucraina e dalla Russia meridionale si scatenò
un’ondata di pogrom (dal russo “devastare”) contro gli ebrei, che durò fino
al 1884 e causò molte centinaia di morti. I pogrom non erano un fenomeno
nuovo. Era però la prima volta che essi venivano consapevolmente usati
come strumento di governo: i sobillatori dei pogrom del 1881, infatti,
facevano parte della Santa Legione, un’organizzazione segreta controterrorista, creata da alcuni granduchi e ufficiali della guardia, allo scopo di
dirottare il disagio dei russi su obiettivi che non compromettessero la
solidità dell’autocrazia. Il nuovo zar Alesando III era convinto che queste
manovre fossero opera dei rivoluzionari che del resto si dedicavano
effettivamente alla propaganda antiebraica.
Con Nicola II la normativa sugli ebrei si fece più aspra. Egli amministrò la
questione ebraica non più attraverso leggi, bensì attraverso variabili
regolamenti provvisori; introdusse gravi restrizioni all’accesso degli ebrei
all’istruzione superiore; e limitò le possibilità d’ingresso nella carriera
pubblica, nell’avvocatura e nell’insegnamento.
Si comprende dunque perché i partiti di opposizione, dai liberali ai
socialisti, reclutassero molti giovani ebrei e la loro percentuale tra i
condannati politici raggiungesse nel 1902-1904 il 29%. Dal partito
socialista ebraico si sviluppò la stessa organizzazione della
socialdemocrazia russa. Anche i pogrom ripresero: di nuovo nel 1903
decine di ebrei furono assassinati. E l’antisemitismo continuò a servire
quale strumento di governo. Altri pogrom seguirono la Rivoluzione del
1905. L’acme delle persecuzioni fu toccato però, durante la guerra civile
scoppiata dopo la Rivoluzione d’ottobre, nel 1919.
Per effetto di questa tragica sequenza di eventi, molti ebrei russi lasciarono
l’Impero zarista per l’America.
Tra il 1881 e il 1914, due milioni di ebrei russi raggiunsero gli USA,
mentre 750.000 ebrei venivano dal resto d’Europa. La sola New York
contava, nel 1910, più di un milione di abitanti ebrei. La fisionomia
dell’ebraismo d’America cambiò radicalmente. Gli immigrati dall’Europa
orientale si inserirono rapidamente nel settore dell’abbigliamento, nella
stampa e nell’editoria, con il “New York Times” e numerose case editrici.
Nei decenni successivi essi avrebbero creato il musical di Broadway e
l’industria cinematografica di Hollywood.
Altri ebrei russi si riversarono nelle città dell’Europa centrale e
occidentale. Gli eventi russi e la nuova diaspora ebraica, con le tensioni
sociali che innescava, accelerarono la mobilitazione antisemita in Europa.
Assente in Gran Bretagna, negli ultimi vent’anni del secolo questa fu un
fenomeno allarmante nel mondo tedesco.
Nel 1873 ci fu una violenta crisi che interruppe la grande prosperità
economica dei venticinque anni precedenti; in quel momento usciva La
vittoria dell’ebraismo sul germanesimo di Marr, che attribuiva la fragilità
del sistema economico alla spregiudicatezza dei finanzieri ebrei e
preconizzava il trionfo imminente di un “cesarismo ebraico” destinato a
cancellare la civiltà tedesca. Il successo del libro convinse Marr a
trasformare la propaganda ideologica in agitazione politica, fondando nel
1879 la Lega antisemita.
Più tardi, a partire dal 1880, la rivista dei Gesuiti “Civiltà Cattolica”
intraprese una serie di campagne antisemite concentrate sulle accuse di
omicidio rituale, che toccarono il vertice negli ultimi anni del secolo
durante l’affare Dreyfus, ma che si protassero fino alla Seconda Guerra
Mondiale. In Francia i primi periodici antisemiti comparvero negli anni
Ottanta. Il salto fu determinato dal best-seller francese del giornalista
Drumont La Francia ebrea (1886), che ebbe un enorme successo.
Il volume tentava una cronaca della Francia repubblicana e dei suoi
scandali finanziari, offendo la chiave interpretativa del dominio economico
ebraico. Per Drumont, da sempre l’ebreo “mercante,cupido,
intrigante,sottile, perfido” ha tentato di ridurre in schiavitù l’ariano
“entusiasta, eroico,cavalleresco,franco fiducioso fino all’ingenuità”.
In seguito, il 15 ottobre 1894 esplose il caso Dreyfus. Questi, primo
ufficiale ebreo a servire presso lo Stato Maggiore, fu arrestato con l’accusa
di alto tradimento. Sulla base di un appunto compromettente che si diceva
fosse scritto di suo pugno, il capitano era sospettato di aver passato
documenti riservati alla Germania. La notizia dell’arresto si diffuse due
settimane più tardi. I maggiori giornali francesi iniziarono una campagna
che accusava gli ebrei di Francia di essere solidali con “il traditore”. Lo
stesso ministro della guerra assicurò che la colpa di Dreyfus era certa, così
fu condannato alla deportazione presso l’isola del Diavolo. Il 5 gennaio
1895 Dreyfus venne degradato mentre la folla gridava: “a morte gli ebrei”.
In realtà Dreyfus era del tutto innocente come lo si dimostrò più tardi, ma
il fatto che fosse ebreo e alsaziano lo rendeva il candidato ideale per
catalizzare i sentimenti di frustrazione della Francia umiliata a Sedan. Per
un decennio l’ “affare Dreyfus” sarebbe stato al centro della vita politica,
tanto che anche Ẻmile Zola denuncerà le responsabilità dello Stato
Maggiore e la montatura politica. Nel 1899 i fautori di Dreyfus ottennero
la revisione del processo e il condannato potè tornare il Francia per essere
ascoltato soltanto dai giudici. Malgrado la confessione del vero colpevole,
i giudici riconobbero l’ex ufficiale ebreo colpevole, pur riconoscendolgi le
circostanze attenuanti. Successivamente in cambio dell’impegno di non
proseguire la battaglia giudiziaria, il governo fece in modo di concedere la
grazia a Dreyfus.
Per effetto dell’affare Dreyfus, il mondo ebraico entrava nella stagione del
sionismo. Movimento politico per la creazione di uno stato nazionale
ebraico in Palestina, il sionismo aveva avuto come antesignano Moses
Hess, pensatore vicino alla sinistra hegeliana, primo importante esponente
del socialismo in Germania e maestro di Engels.
Esule a Parigi, si era avvicinato all’idea che la lotta di classe non fosse che
la manifestazione di una più profonda lotta di razze ed aveva proposto il
programma della creazione di uno stato ebraico in Palestina, come solo
mezzo per proteggere gli ebrei dalle persecuzioni e per liberarli dalle loro
superstizioni. Altro ispiratore del sionismo era stato il medico Leon
Pinsker, ebreo polacco che l’esperienze dei pgrom aveva convertito
dall’ideale di assimilazione al nazionalismo ebraico.
A diffondere l’idea sionista però, fu il romanzo di Eliot Daniel Deronda
edito a puntate nel 1875, con un grosso successo.
Vi furono anche iniziative concrete d’insediamento. Pinsker nel 1883 entrò
a far parte degli Amici di Sion, organizzazione di studenti ebrei di San
Pietroburgo, ed iniziò la raccolta di fondi che doveva portare ai primi
nuovi insediamenti agricoli ebraici in Palestina.
Ma l’uomo che trasformò il sionismo da idea in effettivo movimento
politico fu il giornalista ebreo ungherese Herlz.
Inizialmente anch’egli credeva nell’assimilazione, ma poi pubblicò nel
1896 Lo Stato degli ebrei, in cui, distaccandosi dalle iniziative dei
filantropi e collegandosi alla prospettiva di Hess e di Pinsker, sosteneva
che l’antisemitismo era risultato ormai un dato non modificabile dei paesi
di tradizione cristiana, che la questione ebraica doveva essere intesa come
questione nazionale e che l’obiettivo degli ebrei doveva essere la
costituzione di uno stato sovrano. L’opera fu duramente contestata da parte
degli ambienti ortodossi preoccupati che gli ebrei potessero confondere la
Sion celeste e Sion terrestre, ma in Europa orientale suscitò grandi
entusiasmi, tanto da avere ottanta edizioni in diciotto lingue.
Nel 1897 Herzl riunì a Basilea un Congresso sionista, durante il quale fu
esposta per la prima volta la bandiera con la stella di David.
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale gli ebrei in Palestina erano già
passati da 24.000 a 85.000.
Era stato così gettato il seme che dopo la Seconda Guerra Mondiale e la
tragedia della Shoàh, avrebbe generato lo stato di Israele.
Di Flora Ruocco e Alessandra Tango