MODULO DI STORIA-ITALIANO ED ED. RELIGIOSA EBREI E ANTISEMITISMO TEMPO: Quattro settimane – 14 ore (10 ore di contenuti, 2 ore di verifica e 2 ore per il dibattito con la compresenza dell’insegnante di religione). INPUT: Presenza in aula di un alunno ebreo vittima di discriminazioni DESTINATARI: IV Liceo Scientifico Tecnologico SOMMARIO: U.D.1 - Ebrei e sviluppo del mondo moderno. U.D.2 - Percorsi dell’emancipazione, integrazione e assimilazione. U.D.3 - Antisemitismo vecchio e nuovo. U.D.4 - Organizzazioni ebraiche, la mobilitazione antisemita e la nascita del sionismo. MOTIVAZIONE: Il presente modulo nasce con l’intento di focalizzare l’attenzione su una problematica storica fondamentale: il riconoscimento e l’emancipazione di un popolo, quello ebraico, che ha subito una discriminazione e una persecuzione plurisecolare. FINALITA’: - Favorire nel discente la consapevolezza dell’importanza della libertà di essere e di espressione. - Accrescere il sentimento della tolleranza e il rispetto delle diversità che siano esse religiose, politiche economiche o sociali. - Maturare la capacità di osservare e valutare la propria e l’altrui condotta. - Consolidare la coscienza storica. - Sviluppare la consapevolezza che il cambiamento morale e culturale nasce dalla capacità di problematizzare il passato. - Considerare il fatto che le conoscenze storiche sono elaborate in conformità a fonti diverse che lo storico seleziona e interpreta secondo modelli e riferimenti ideologici. OBIETTIVI DIDATTICI: - Imparare a leggere ed interpretare le fonti. - Contestualizzare e periodizzare. - Comunicare con chiarezza e proprietà di linguaggio, attenendosi all’argomento e alle modalità richieste dalla situazione. - Comprendere, analizzare, spiegare e rielaborare i principali concetti. - Adoperare in modo adeguato il testo ed eventuali carte geopolitiche. OBIETTIVI EDUCATIVI: - frequentare regolarmente le lezioni. - mostrarsi disponibile all’ascolto, al confronto e alla collaborazione. - Impegnarsi assiduamente nello studio. - Intervenire correttamente nel dialogo per chiedere chiarimenti, per offrire contributi interpretativi e spunti per l’approfondimento e per la problematizzazione. - Acquisire una propria capacità di analisi, sintesi e organizzazione dei contenuti. PREREQUISITI: - Conoscenza degli eventi storici salienti fra 600 e 800. - Capacità di stendere una mappa concettuale. - Familiarità con i quesiti a risposta multipla e il saggio breve a carattere argomentativi. - Saper distinguere in un testo storiografico fatti e interpretazioni. - Utilizzare l’indice delle carte geografica e storiche. - Riconoscere le legende delle carte storiche e geografiche. - Distinguere l’spetto sincronico e diacronico degli eventi. METODI: - Lezione frontale. Lettura e analisi dei testi. Dibattiti. Circle Time e Brainstormig. STRUMENTI DIDATTICI: - Manuale. - Documenti storiografici. - Carte geopolitiche. - Dizionario storico-filosofico. - Film: Train de vie. STRUMENTI DI VERIFICA: - Griglia comportamentale predisposta dal docente. - Test a risposta multipla. - Saggio brave. - Verifiche orali. LETTURE STORIOGRAFICHE CONSIGLIATE: Rousseau per la tolleranza e il dialogo da Professione di fede del vicario savoiardo; L’antisemitismo di Voltaire da Lettera del 21 luglio 1762; Cattaneo contro le “interdizioni ebraiche” da Interdizioni israelitiche del 1835; Marx sulla questione ebraica da La questione ebraica. METODO - Lezione frontale con valore introduttivo. I ragazzi disposti in situazione di apprendimento in Circle Time passeranno allo studio degli argomenti con l’ausilio di un questionario. Tale questionario sarà corretto in classe in un contesto interattivo, dando spazio all’introspezione, alla riflessione e allo scambio di esperienze. Il lavoro procederà con la creazione di una mappa concettuale personale, utile all’esposizione orale dell’argomento e nella preparazione di un saggio scritto in merito alla tematica che si è maggiormente evidenziata nel corso della lezione. UNITA’ DIDATTICA 1 EBREI E SVILUPPO DEL MONDO MODERNO La questione dell’emancipazione, cioè della liberazione dai vincoli giuridici che impedivano agli ebrei uguale cittadinanza, alla fine del Settecento era nell’agenda politica dell’Occidente, sollecitata dall’Illuminismo ebraico, ma soprattutto imposta dal ruolo conquistato dagli ebrei entro il processo di modernizzazione. Il processo di emancipazione ebbe però nei diversi paesi tempi più lenti o più rapidi. Alla fine del XVII secolo vivevano in Europa 750.000 ebrei (solo in Italia essi erano in 30.000). La loro presenza aveva una storia ormai lunga. Stabilitisi lungo le sponde del Mediterraneo nel corso di una diaspora commerciale nel 70 d. C., gli ebrei si erano lentamente diffusi prima in Italia e in Spagna, poi lungo il corso del Reno, in tutto il Sacro Romano Impero, in Boemia ed infine, in Inghilterra. La loro identità etnica era fissata dalla tradizione religiosa, che conservavano gelosamente, affidata alla Bibbia e al Talmùd. Il fulcro di tale tradizione era dato dal monoteismo etico: una concezione della vita che riconosceva come divina solo la legge morale e considerava sacrilegio il tentativo di disporre della vita altrui nel proprio interesse. Collateralmente al monoteismo etico la cultura ebraica aveva conosciuto anche, a partire dal Medioevo, un filone mistico, la Qabbalàh, legato all’idea che la Bibbia fosse suscettibile di una lettura esoterica. Nelle province dove si erano insediati, gli ebrei vivevano inseriti in società non ebraiche: cristiane o islamiche. Ma si trovavano comunque in una condizione di inferiorità giuridica. Il diritto ecclesiastico consentiva la loro presenza, ma ne vietava il proselitismo, ne proibiva l’unione con i cristiani, imponeva che portassero sulle vesti un segno distintivo e un po’ per volta restrinse a tal punto le occupazioni loro concesse, da costringerli a specializzarsi nel prestito a interesse, vietato ai cristiani perché considerato come usura, ma decisivo per lo sviluppo economico, soprattutto dopo la rinascita commerciale dell’ XI secolo. Anche nei paesi islamici agli ebrei era negata la pienezza dei diritti ma essi poterono conservare le attività agricole e commerciali e l’ostilità della maggioranza religiosa nei loro confronti era meno sentita. I principali fermenti di rinnovamento religioso ( le Crociate, i Francescani e i Domenicani, i flagellanti etc.) che a più riprese avevano attraversato l’Europa chiedevano l’esclusione degli ebrei o addirittura promuovevano persecuzioni che attraverso i secoli avevano contato migliaia di vittime. Ebbero così inizio le espulsioni degli ebrei: prima dall’Inghilterra nel 1290, poi dalla Francia nel 1394, poi in numero massiccio dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1496 e nel corso del secolo successivo da tutti i domini spagnoli. La Chiesa a partire dal 1555 impose agli ebrei il ghetto. Gli ebrei ashkenaziti, cioè provenienti dalla Germania, si spostarono in Polonia e in Lituania dove tra il XIII e il XVII secolo furono bene accolti dai sovrani e dai nobili desiderosi di relegare loro la gestione delle proprietà terriere. Dalla metà del XVII secolo essi trovarono migliore accoglienza anche nel mondo tedesco dove alcuni furono “ebrei di corte” dei principi (finanzieri, ministri, diplomatici). Nel 1670 Federico Guglielmo, Grande elettore del Brandeburgo, invitò gli ebrei espulsi da Vienna nel suo stato, per svilupparne i commerci, e pose le basi della grande presenza economica degli ebrei a Berlino. Un gravissimo colpo all’ebraismo askenazita venne dalle persecuzioni scatenate dai cosacchi contro gli ebrei della Polonia tra il 1647 e il 1655. Gli altri ebrei, i sefarditi, cioè provenienti dalla penisola iberica, espulsi dai re cristiani, tra il XVI e il XVII secolo erano emigrati a piccoli gruppi nei centri mercantili interessati ad avvalersi dei loro servigi finanziari: Bordeaux, Amburgo, Anversa; oppure in luoghi dove il culto ebraico era consentito: nell’Impero ottomano e in alcune città franche come Livorno e Amsterdam. Da qui giunsero in America e a Londra, dove Cromwell non tenne conto dell’espulsione del 1290. I sefarditi erano imprenditori di frontiera che esercitavano un ruolo di primo piano nello sviluppo dell’economia coloniale. Nei secoli del basso Medioevo la finanza ebraica era diventata una realtà marginale, legata soprattutto al prestito su pegno agli indigenti delle città e alle anticipazioni sui raccolti nelle campagne, mentre il grande prestito ai nobili e ai principi era finito in mani cristiane. Ma l’età della formazione degli stati moderni e delle grandi guerre europee, e soprattutto la guerra dei Trent’Anni aveva visto un rilancio della finanza ebraica. La tradizionale specializzazione nel prestito aveva posto inoltre le premesse di un significativo vantaggio dei mercanti ebrei sui loro concorrenti cristiani. Gli ebrei erano più spregiudicati: ovunque i loro mercanti si affermavano vi erano nuove esigenze di consumo che venivano appagate mentre borghesie cristiane accumulavano risentimento. Nel Settecento la cultura ebraica conobbe sviluppi divergenti, in parte essi erano legati alla tradizione mistica. Il filone mistico aveva già vissuto un momento cruciale nel 1666 con il cabalista Shabbatai Zevi, il quale prima si era si era autoproclamato Messia e poi aveva abbandonato la fede dei padri per quella islamica creando sconforto e disperazione nell’intero mondo ebraico. In Polonia e in Ucraina, dove la fede sabbatiana era stata particolarmente forte, a metà del Settecento si diffuse un altro movimento mistico: il chassidismo, che alle attese escatologiche dei sabbatiani sostituiva un’intensa pratica quotidiana della pietà. Il fondatore fu il Besht (così nominato dalle iniziali del suo lungo appellativo). Figura centrale del chassidismo era lo tzaddìq, il “giusto”, una persona capace di fungere da catalizzatore della fede non in virtù della conoscenza ma di una straordinaria ispirazione e bontà. Questa trasposizione della santità della Legge alla persona favorì la proliferazione di sette e tempo dopo l’intero movimento fu condannato come eretico. La tendenza mistica non fu egemone e vantò personaggi come Spinoza, il quale plasmò un movimento di idee che guardava con simpatia ai Lumi e tentava di integrarli con le tradizioni ebraiche: la Haskalàh. Il maggiore esponente del movimento fu Moses Mendelssohn, il “Socrate di Berlino”, il quale raggiunse grande fama grazie alla pubblicazione del suo Fedone (1767), nel quale tentava di fornire dimostrazioni razionali sull’esistenza di Dio e sull’immortalità dell’anima. Egli divenne ben presto il campione europeo dell’emancipazione ebraica e gli fu chiesto di intervenire a favore degli ebrei minacciati di espulsione dalla Svizzera e in favore di quelli pesantemente discriminati in Alsazia e in Sassonia. Ancora più lontani dall’ebraismo internazionale furono i salotti di due sorelle di origine berlinese, Fanny e Cecilia Itzig, i quali, durante il Congresso di Vienna furono molto frequentati dalla diplomazia e divennero il centro delle iniziative per salvare l’emancipazione degli ebrei dalla repressione reazionaria. UNITA’ DIDATTICA 2 I PERCORSI DELL’EMANCIPAZIONE La “prima emancipazione” ebraica- la conquista sei-settecentesca di nuovi diritti legata all’ascesa sociale dei mercanti sefarditi e degli ebrei di corte ashkenaziti- si verificò senza distruggere il meccanismo sociale basato sulla convivenza di libertà disuguali. In Inghilterra, paese all’avanguardia nel promuovere il rinnovamento della condizione ebraica, l’emancipazione fu ispirata ad una sorta di pluralismo concertato: gli ebrei si inserirono nella vita sociale senza che venisse loro imposta una drastica rinuncia alle tradizioni, in un lento processo di concertazione con gli altri gruppi sociali. L’emancipazione fu un processo graduale che portò alla rimozione, una dopo l’altra, delle limitazioni che impedivano agli ebrei l’accesso a cariche e a professioni. L’abitudine alla concorrenza commerciale e la presenza di sette calviniste creavano un clima favorevole. I teorici britannici della laicità dello stato, come John Locke e John Toland erano stati i primi a sostenere che agli ebrei dovesse essere concessa l’uguaglianza dei diritti. E a differenza che nel resto d’ Europa l’antisemitismo aveva una tradizione quasi solo letteraria, legata alla figura di Shylock, l’ebreo spietato del Mercante di Venezia di Shakespeare. Nel 1753 un tentativo del Parlamento di proibire agli ebrei di possedere terre fu sventato da forti reazioni dell’intera società. Gli ebrei furono ammessi al foro nel 1833, alla carica di sceriffo nel 1835, alle cariche municipali nel 1845. Nel 1866 fu coronato il processo di emancipazione con l’abolizione della norma che imponeva ai titolari delle cariche pubbliche il giuramento secondo la formula anglicana. Secondo un modello simile si sviluppò il percorso di emancipazione degli ebrei americani. Nel 1654 inizia la loro vicenda, quando alcuni ebrei sfuggiti in Brasile all’Inquisizione si rifugiarono a New York. Solo un secolo più tardi si insediarono nelle altre colonie britanniche. Il nord America vantava una realtà insolitamente favorevole: la tolleranza era una tradizione del paese e nelle colonie convivevano una grande varietà di comunità religiose. Infine il forte dinamismo economico-sociale e l’assenza di consolidate tradizioni corporative impedivano il formarsi di un’ostilità borghese nei confronti dei commercianti ebrei. La libertà di culto fu sancita formalmente e in via generale dal primo emendamento alla Costituzione nel 1789. Nell’Europa continentale l’emancipazione prese invece, nel complesso una strada diversa. Nel Trattato sulla tolleranza universale (1686) il libertino Pierre Bayle aveva chiesto libertà per ogni culto. Nello Spirito delle leggi (1748), Charles de Secondat, barone di Montesquieu si era pronunciato a favore dell’emancipazione, pur condannando la chiusura degli ebrei e il loro fanatismo. J. Jacques Rosseau nella Professione di fede del vicario savoiardo (1762) sosteneva addirittura che la rivelazione ebraica fosse “più sicura” di quella cristiana. A partire dal 1775 negli ambienti illuminati di Francia aveva preso avvio una campagna a favore dell’emancipazione. Infatti, nel continente europeo il percorso dell’emancipazione fu, in una prima fase, graduale e ispirato al pluralismo concertato. Presto però il progetto ideologico illuminista di una cittadinanza organica fatta di individui uguali ebbe ripercussioni sull’emancipazione ebraica: si giunse ad una sorta di integralismo civico. Già nell’editto di tolleranza del 1781 l’imperatore Giuseppe II concedeva la cittadinanza agli ebrei dei domini asburgici, e nel 1787 impose loro addirittura cognomi tedeschi. La rivoluzione francese accelerò notevolmente il processo di emancipazione in tutto il continente, imponendo in modo radicale il progetto della cittadinanza organica. L’Assemblea Costituente con due decreti tra il 1790 e il 1791 estese l’emancipazione a tutti gli ebrei francesi. Le armate francesi imposero poi l’emancipazione in Belgio, in molti stati tedeschi, in Olanda e negli stati italiani. Ma la Rivoluzione non fu tutta dalla parte degli ebrei: essa lasciò anche libero sfogo al risentimento delle borghesie cristiane. Tra i cahiers des doleances, preparati per la convocazione degli Stati Generali, solo quelli della nobiltà favorivano l’emancipazione, quelli del clero e del terzo stato, invece, la ostacolavano. Iniziarono così nel 1789 in Alsazia persecuzioni antisemite. Durante il Terrore poi, in concomitanza con la campagna di scristianizzazione, fu lanciata anche una campagna di degiudaizzazione: alcuni giacobini erano a favore dell’espulsione degli ebrei, altri addirittura proponevano la “rigenerazione della ghigliottina”. Dentro e fuori la Francia il mondo ebraico non reagì sempre in modo positivo all’emancipazione. Reagirono con entusiasmo gli oppressi ebrei della Renania e d’Italia, che videro aprirsi le porte del ghetto, ma non fu così per gli ebrei in Olanda i quali vi si opposero in nome della tradizione di autogoverno. Tutta l’ambivalenza della ideologia rivoluzionaria si rivelò particolarmente nella politica ebraica di Napoleone che oscillava tra la scelta dell’esclusione e la scelta dell’assimilazione coatta. Dopo aver liberato dal ghetto gli ebrei italiani nel 1806 Napoleone decise di affrontare la questione ebraica in una prospettiva generale: convocò a Parigi i maggiori notabili ebrei per affrontare il nodo del rapporto tra la comunità ebraica e la società francese. In seguito alle risposte dei notabili, Napoleone (nutrendo vaghe ambizioni messianiche e deciso a sfruttare la tutela sull’ebraismo mondiale), convocò un’assemblea di rappresentanti dell’ebraismo d’Europa che chiamò Gran Sinedrio, a cui affidò il compito di riformare la Legge ebraica, con l’intento di integrare gli ebrei assimilandoli alla società circostante. All’appello, per ragioni politiche e militari, risposero solo gli ebrei d’Italia e di Francia e il Gran Sinedrio ebbe scarse conseguenze sull’avvenire degli ebrei d’Europa; esso sortì però l’effetto indiretto di diffondere negli ambienti cattolici sia l’idea di una mobilitazione ebraica mondiale in chiave anticristiana e sia l’idea una collaborazione semita alla congiura massonica, che per molti era alle origini della rivoluzione. In Germania l’emancipazione venne concessa sotto la pressione internazionale della Francia e in seguito alle iniziative diplomatiche di alcuni ebrei di corte. In Prussia fu il movimento riformatore ad ottenere l’emancipazione con un editto nel 1812: con esso era garantita l’uguaglianza giuridica ma non l’accesso degli ebrei alle cariche pubbliche. In Russia la politica ebraica dello zar oscillò tra l’ideale illuministico dell’emancipazione e il principio di assorbimento coatto. Nel Settecento, dopo l’assorbimento della Polonia, l’Impero russo aveva inglobato metà degli ebrei d’Europa. Già Paolo I aveva deciso di attuare un progetto di integrazione degli ebrei, ma la sua morte ne impedì la realizzazione. Alessandro I riprese il progetto nel 1804, ma gli ebrei dovettero pagare il miglioramento della loro posizione giuridica con la rinuncia alle tradizioni e alle preesistenti forme di autogoverno. Scomparso dalla scena politica Napoleone, l’emancipazione in Francia fu completata da Luigi XVIII; con la rivoluzione di luglio poi, nel 1830, fu approvata una legge che parificava i rapporti dello stato con l’ebraismo ai rapporti con le due confessioni cristiane. Nel 1846 fu raggiunta l’uguaglianza assoluta grazie alle iniziative dell’avvocato ebreo Alfred Crèmieux. Purtroppo l’età post-napoleonica fu teatro in Germania e in Prussia di violente manifestazioni antisemite: ricomparve e si diffuse rapidamente l’accusa di omicidio rituale. Già durante il Medioevo le persecuzioni antisemite erano state accompagnate dall’accusa mossa agli ebrei di rapire e uccidere bambini cristiani per utilizzarne il sangue nei riti pasquali; gli stessi governi cominciarono così a limitare l’uguaglianza. Nel 1840 Federico Guglielmo IV pensò di ripristinare l’obbligo di residenza nel ghetto. Del resto in tutta l’Europa centrale si conobbero nel 1848-49 esplosioni antisemite ancora più gravi di quelle avvenute trent’anni prima. Solo lo sviluppo oggettivo del processo di modernizzazione e la nuova importanza economica conseguita dalla finanza ebraica imposero ancora una volta ai governi tedeschi l’esigenza di emancipare gli ebrei. In Prussia l’emancipazione, operata da Otto Von Bismarck, fu frutto della tradizionale alleanza tra ebrei e aristocrazia, e giungerà definitivamente nel 1869. In Italia alla sconfitta di Napoleone solo il ducato di Parma e il Granducato di Toscana lasciarono in vigore la legislazione di ispirazione francese. Nel 1814 lo Stato Pontificio di Pio VII ripristinò il ghetto, l’Inquisizione e le prediche coatte. Sarà solo il movimento risorgimentale a rilanciare con decisione l’emancipazione ebraica: un ruolo di primo piano fu svolto in particolare da Carlo Cattaneo che nelle sue Interdizioni israelitiche ( 1837) ricostruì la storia delle discriminazioni contro gli ebrei e invocò la loro liberazione. La rivoluzione del 1848 restituì agli ebrei l’uguaglianza ma la sua sconfitta la lasciò esistere solo nel regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II. Infine, furono le vittorie piemontesi a ristabilire definitivamente l’emancipazione nelle province via via annesse al Regno d’Italia; a Roma, dunque solo nel 1870. Le vicende della Russia furono completamente diverse da quelle dell’occidente: lo zar Alessandro I divenne il paladino della restaurazione della società cristiana e dovette accantonare il progetto di integrazione e di occidentalizzazione degli ebrei; nonostante ciò egli riservò loro attenzioni particolari che si espressero sia in interventi diplomatici in loro difesa, che nella presentazione di un grandioso progetto di emancipazione generale degli ebrei d’Europa che presentò al congresso di Aix –la Chapelle nel 1818 alle altre potenze europee. Ma le potenze rappresentate al congresso lo rigettarono e l’imperatore finì con l’accantonare anche ogni ipotesi di emancipazione limitata al proprio impero. Con lo zar Nicola II la situazione per gli ebrei si aggravò notevolmente: nel 1835 furono costretti a risiedere solo entro una zona delimitata, lungo una fascia che correva ai confini occidentali dell’Impero, dal Baltico al Mar Nero. Fu imposta loro una coscrizione obbligatoria venticinquennale, l’allontanamento dalle famiglie a otto anni per la preparazione militare, la russificazione e il battesimo forzato, nonché tasse più pesanti. Si registrarono in quel periodo molti suicidi di massa. Con l’illuminato sovrano Alessandro II le discriminazioni furono leggermente attenuate, ma la situazione degli ebrei di Russia restò sicuramente più gravosa rispetto a quella dei correligionari occidentali. UNITA’ DIDATTICA 3 ANTISEMITISMO VECCHIO E NUOVO Nel corso del Settecento l’antisemitismo aveva subito un profondo processo di rielaborazione, nel corso del quale molti nuovi e vecchi spunti antiebraici si erano andati combinando e rafforzando reciprocamente in vario modo. Nell’antichità ellenistica c’era un antisemitismo basato sulla condanna della separatezza e del monoteismo degli ebrei. Il cristianesimo aveva condannato il loro ritualismo ed aveva imputato all’intero popolo ebraico la colpa del deicidio. Infine, l’antigiudaismo cristiano si era spesso unito con l’ostilità contadina e borghese per i prestatori e i concorrenti liberi dai vincoli corporativi. Comunque, in sostanza, gli attacchi antiebraici avevano avuto sempre una base religiosa. Fu solo l’illuminismo a porre le fondamenta di un nuovo potente antisemitismo, estraneo ai presupposti della religione. Non tutta la cultura illuminata fu infatti favorevole agli ebrei. Le prime avvisaglie comparvero in Inghilterra. Non tutti i deisti britannici avevano apprezzato l’apertura di Toland, loro padre fondatore, vagheggiando piuttosto, il ritorno ad una “religione naturale”, conforme alla ragione, libera da dogmi incomprensibili e da rituali superstiziosi. La maggior parte dei deisti vedeva nell’ebraismo la prima deviazione del puro culto naturale e la matrice della corruzione successiva. Verso la metà del Settecento, però, la propaganda deista scomparve dall’Inghilterra, ma i motivi polemici che essa aveva suscitato furono raccolti da figure eminenti della cultura illuminata continentale e dal nome più rappresentativo di essa, Voltaire che fu antigiudaico ancora più intensamente di quanto fosse anticristiano. Nella voce Ebrei del suo Dizionario filosofico (1756), aveva presentato il popolo ebraico come un relitto dell’antichità, ignorante, superstizioso, incomprensibilmente attaccato a tradizioni prive di senso. Voltaire accusava gli ebrei di essere capaci solo di calcolo, non di pensiero, e di “essere plagiati in tutto”. Credeva fermamente che gli ebrei praticassero i sacrifici umani dei quali il popolino cristiano li accusava; li escludeva dal diritto di tolleranza e considerava naturale la loro degradazione. Il fervore antisemitico degli ultimi quindici anni della sua vita fu tale che all’epoca della dominazione hitleriana della Francia, uno storico servile poté comporre con i suoi testi antiebraici un’antologia di ben 250 pagine. Agli occhi degli illuministi, che riconoscevano in Voltaire il loro profeta, la modernità doveva passare per la fusione di ogni residuo delle vecchie tradizioni nel crogiolo di una nuova cultura. La modernità comportava l’obbligo di essere moderni. Così, nella nuova società illuminata non poteva esserci posto per i retrogradi che insistevano a perpetuare riti vecchi di millenni. Se una parte della cultura illuminata aveva chiesto l’esclusione degli ebrei a causa della loro estraneità alla civiltà moderna, una parte della cultura rivoluzionaria ne chiese l’esclusione a causa dell’estraneità al corpo sovrano della nazione. Il fronte della democrazia rivoluzionaria e nazionale si colorava di antisemitismo. Il grande filosofo Johann Gottlieb Fichte, che si era convertito al giacobinismo e aveva sviluppato la democrazia in una forma di socialismo nazionale, considerava gli ebrei una razza ostile al genere umano e proclamò che la loro presenza- quasi “uno stato nello stato”- era di impedimento alla lotta nazionale di liberazione. Scriveva: “Vedo un solo modo per difendermi da loro: conquistare per loro la Terra promessa e spedirceli tutti”; “possiamo dar loro dei diritti civili a una sola condizione: tagliar la testa a tutti loro la stessa notte e dargliene una nuova che non contenga una sola idea ebraica”. Il giovane Hegel, poi, entusiasta della rivoluzione come Fichte, mescolando nei suoi scritti teologici l’antisemitismo modernista di Voltaire con quello cristiano di Lutero, interpretava la tradizione ebraica come legge di un popolo schiavo e la vedeva perciò indelebilmente segnata dalla passività, dal timore, dal servilismo, dall’incapacità di afferrare la presenza del divino nell’uomo; su di lui influiva poi l’opinione di Kant che riteneva gli ebrei stessi un popolo sostanzialmente privo di religione e perciò incapace di autentica spiritualità, materialista, non a caso dedito all’usura. Il sogno di una nuova possibile comunità organica, vagheggiato dal nazionalismo tedesco, sviluppò fortemente le potenzialità razziste che nel nazionalismo giacobino comparivano appena con sfumature. Sulla scorta di Fichte, per il nazionalismo tedesco la missione del popolo di Germania era legata alla superiorità del loro sangue. E non a caso proprio nell’ambito di tale nazionalismo si videro le prime avvisaglie della saldatura tra antisemitismo e pensiero razzista, che in precedenza avevano avuto vicende sostanzialmente separate. Con le sue potenzialità antisemite, del resto, l’organicismo sociale costituì un momento d’intesa fra la cultura rivoluzionaria d’impronta illuministica e il movimento romantico. La volontà di un radicale rinnovamento del mondo sembrava incapace di conciliarsi con la moltitudine di differenze che la modernità aveva prodotto, incrinando la coesione della società cristiana del Medioevo. Nei romantici l’organicismo sociale assunse spesso le forme della nostalgia per il Medioevo e del cristianesimo di ritorno, forme che sollecitarono a loro volta ulteriori suggestioni antisemite. In Prussia Schlegel finì per convertirsi al cattolicesimo, e riappropriandosi dell’antigiudaismo cristiano, reclamò il ripristino dell’Iquisizione. In realtà, se si considera la valenza che assunsero riguardo alla questione ebraica il culto integralista della modernità, il principio della sovranità popolare, il nazionalismo, lo scientismo, il razzismo, i nuovi miti nati dal rinnovamento della cultura occidentale, non sorprende che le principali correnti ideologiche dell’Ottocento abbiano avuto coloriture antisemite più o meno intense. In gran parte sotto l’impressione della potenza della finanza ebraica, la sinistra socialista, almeno fino alla fine del secolo, riprese in generale l’atteggiamento antiebraico della sinistra giacobina e considerò gli ebrei come una genia di rapaci sfruttatori. Comunque l’antisemitismo di matrice illuminista fu sviluppato anche in altri ambienti progressisti. Come gli atteggiamenti antisemiti giacobini ebbero seguito all’interno del socialismo francese, la polemica antiebraica dei philosophes ateo-materialisti trovò una eco nell’ambiente della sinistra hegeliana. Un ruolo cruciale in questo ambito lo ebbe Karl Marx (malgrado le sue origini ebraiche): con lui infatti, l’antisemitismo ateo finì per incontrare l’antisemitismo dei socialisti francesi, lasciando inoltre tracce persistenti nell’atteggiamento del movimento socialista internazionale. Marx, ne La questione ebraica (1844), sosteneva che l’emancipazione degli ebrei non solo dovesse passare per la loro emancipazione dal giudaismo, ma addirittura per “l’emancipazione dell’umanità dal giudaismo”, che per Marx era lo spirito stesso della società borghese, il nuovo mondo dominato dal mercato, dalla concorrenza e dal profitto. Il fondamento pratico dello spirito ebraico risiederebbe infatti, a suo avviso, nell’egoismo e il vero dio ebraico sarebbe il danaro, “essenza del lavoro fatta estranea all’uomo”. Era vano dunque, per Marx, proporsi di sopprimere la religione, finché non fosse capovolta l’intera organizzazione della società. L’accostamento tra spirito ebraico e società borghese torna infatti, in molte sue opere successive. Ne Il capitale (1867) i capitalisti sono “giudei intimamente circoncisi”. E un viscerale fastidio per gli ebrei emerge da decine di lettere nelle quali Marx fa uso di argomenti antisemiti per denigrare gli avversari politici. Lo sviluppo poi, dell’interpretazione razziale della storia che emerse a metà Ottocento fu una notevole sintesi di scientismo illuminista e suggestioni romantiche. Proprio un intellettuale e statista di origini ebraiche come Benjamin Disraeli dette un primo contributo essenziale all’idea che la storia fosse in fondo lotta di razze. Disraeli andava fierissimo del proprio retaggio, ma convertito appena diciassettenne alla fede anglicana, tendeva a interpretarlo non in chiave religiosa, bensì razziale, tanto da proporre nei suoi scritti una visione della storia basata sul ruolo e sui conflitti delle razze. Nella concezione di Disraeli gli ebrei sono una “aristocrazia della natura”, la razza superiore vera protagonista dello sviluppo di tutta la civiltà moderna, che ha tenuto le fila dei più importanti movimenti intellettuali e politici europei. Nel quadro di una interpretazione razziale della storia si sviluppò il motivo del complotto ebraico mondiale. Esso affiorò nel 1868 con il romanzo di Goedsche, Biarritz. Nel romanzo si parlava della manovra ordita segretamente dai capi degli ebrei di tutti i paesi per la conquista del mondo. Strumenti dell’infernale disegno sarebbero stati il controllo del debito pubblico, la rovina della piccola borghesia attraverso la concorrenza spietata, la direzione politica delle masse operaie, l’annientamento del cristianesimo attraverso la separazione dello stato dalla Chiesa, la diffusione del libero pensiero e la manipolazione della stampa periodica. In chiave fantastica l’opera presentava timori che avevano la loro origine nell’interpretazione della Rivoluzione come complotto, ma erano stati rilanciati dal grande successo ottocentesco della finanza ebraica. Sarebbe stata la matrice del più letto opuscolo antisemita del Novecento, I protocolli dei savi anziani di Sion, redatto dalla polizia politica zarista a scopo agitatorio, diffuso in occasione della Rivoluzione russa del 1905, e giunto in Occidente dopo la Rivoluzione bolscevica del 1917. In Germania portavoce dell’antisemitismo fu lo scrittore e musicista Wagner, egli dopo un’ iniziale simpatia, considerava gli ebrei come dominatori della degenerata società moderna. L’asserito dominio ebraico era per lui al tempo stesso sintomo e causa della decadenza morale dell’Occidente. A suo avviso, l’inaridirsi dello spirito, si manifestava, specificatamente in campo musicale, nella perdita del valore sacrale della musica e nella corruzione mercantile che la stava riducendo a mero intrattenimento borghese. L’odio antiebraico di Wagner andò crescendo negli anni, assumendo toni sempre più razzisti e apocalittici. Riteneva che fosse il sangue ebraico in quanto tale, la potenza corruttrice del mondo moderno e disperava della possibilità di salvare la civiltà germanica. Non si deve dimenticare, infine, che tutti questi spunti antisemiti elaborati dagli intellettuali si riflettevano nel senso comune e si condensavano in un’immagine dell’ebreo largamente diffusa: lo stereotipo dell’ebreo nervoso, gesticolante, infido, avaro, avido di potere, egoista, dominato da passioni sessuali incontrollate, ma anche effeminato, privo di sentimento, di valori e di spiritualità. UNITA’ DIDATTICA 4 LE ORGANIZZAZIONI EBRAICHE, LA MOBILITAZIONE ANTISEMITA E LA NASCITA DEL SIONISMO Le resistenze al processo di emancipazione e le sacche di arretratezza rappresentate da paesi come la Russia e lo Stato pontificio, a metà dell’Ottocento, erano motivo di costante preoccupazione per le comunità ebraiche di tutto il mondo e sollecitavano la loro solidarietà. La spinta decisiva alla creazione di un coordinamento internazionale dell’iniziativa ebraica- che gli antisemiti immaginavano operasse in segreto da sempre- venne da alcuni episodi singoli di persecuzione che impressionarono tutta l’Europa. Tra di essi il caso di Damasco, dove, nel 1840, la scomparsa di un frate cappuccino francese aveva dato luogo all’accusa di omicidio rituale contro gli ebrei. Di essa aveva approfittato il console francese, che con l’appoggio del capo del suo governo, aveva creato una trama politica per assicurare l’influenza della Francia nella regione. Con l’avallo del primo ministro britannico si mosse sir Moses Montefiore, straordinaria figura di finanziere ebreo che aveva lasciato gli affari per dedicarsi alla difesa dei correligionari discriminati. Postosi alla testa di una delegazione internazionale, Montefiore prese contatti col governatore della Siria e riuscì a garantire la correttezza dell’inchiesta e gli ebrei accusati vennero scagionati. Montefiore approfittò poi, del lungo viaggio di ritorno per visitare molte comunità e interessarsi dei loro problemi. Non riuscì ad ottenere però, una ventina di anni più tardi, che venisse rimandato a casa il piccolo Edgardo Mortasa, sottratto ai genitori ebrei dalle autorità pontificie nella Bologna del 1858, dopo essere stato battezzato segretamente da una domestica cristiana: un caso clamoroso che suscitò le proteste dei maggiori giornali europei, e richiamò interventi anche di Cavour, Napoleone III e Francesco Giuseppe. Lo sdegno suscitato portò alla fondazione nel 1860 dell’ Alleanza Israelita Universale, che, attiva soprattutto col concorso delle comunità francesi, si collegò presto con analoghe organizzazioni sorte sul suo modello in altri paesi. Il motto dell’ Alleanza Israelita Universale era: “tutti gli ebrei sono garantiti uno dell’altro”. E, da allora, divenne il centro che coordinò l’iniziativa internazionale per il riconoscimento dei diritti degli ebrei e al suo interno le opposte tendenze degli ortodossi e dei riformati seppero trovare un’intesa. Davanti agli ebrei d’Europa, però, si profilava una minaccia che non poteva essere omologata al tradizionale disconoscimento di diritti. Nasceva infatti dai conflitti ideologici e sociali della stessa società dell’emancipazione: gli ultimi decenni del secolo mostravano che il nuovo antisemitismo tendeva a trasformarsi in un potente fattore di mobilitazione politica di massa. A catalizzare tale trasformazione furono soprattutto i fatti di Russia. La guerra con l’Impero ottomano del 1877 e l’opposizione che i russi avevano incontrato nell’Inghilterra di Disraeli avevano già determinato un’atmosfera di esaltazione nazionalistica. Quando nel 1881, lo zar Alessandro II fu assassinato dai terroristi dell’organizzazione Libertà del popolo, a partire dall’Ucraina e dalla Russia meridionale si scatenò un’ondata di pogrom (dal russo “devastare”) contro gli ebrei, che durò fino al 1884 e causò molte centinaia di morti. I pogrom non erano un fenomeno nuovo. Era però la prima volta che essi venivano consapevolmente usati come strumento di governo: i sobillatori dei pogrom del 1881, infatti, facevano parte della Santa Legione, un’organizzazione segreta controterrorista, creata da alcuni granduchi e ufficiali della guardia, allo scopo di dirottare il disagio dei russi su obiettivi che non compromettessero la solidità dell’autocrazia. Il nuovo zar Alesando III era convinto che queste manovre fossero opera dei rivoluzionari che del resto si dedicavano effettivamente alla propaganda antiebraica. Con Nicola II la normativa sugli ebrei si fece più aspra. Egli amministrò la questione ebraica non più attraverso leggi, bensì attraverso variabili regolamenti provvisori; introdusse gravi restrizioni all’accesso degli ebrei all’istruzione superiore; e limitò le possibilità d’ingresso nella carriera pubblica, nell’avvocatura e nell’insegnamento. Si comprende dunque perché i partiti di opposizione, dai liberali ai socialisti, reclutassero molti giovani ebrei e la loro percentuale tra i condannati politici raggiungesse nel 1902-1904 il 29%. Dal partito socialista ebraico si sviluppò la stessa organizzazione della socialdemocrazia russa. Anche i pogrom ripresero: di nuovo nel 1903 decine di ebrei furono assassinati. E l’antisemitismo continuò a servire quale strumento di governo. Altri pogrom seguirono la Rivoluzione del 1905. L’acme delle persecuzioni fu toccato però, durante la guerra civile scoppiata dopo la Rivoluzione d’ottobre, nel 1919. Per effetto di questa tragica sequenza di eventi, molti ebrei russi lasciarono l’Impero zarista per l’America. Tra il 1881 e il 1914, due milioni di ebrei russi raggiunsero gli USA, mentre 750.000 ebrei venivano dal resto d’Europa. La sola New York contava, nel 1910, più di un milione di abitanti ebrei. La fisionomia dell’ebraismo d’America cambiò radicalmente. Gli immigrati dall’Europa orientale si inserirono rapidamente nel settore dell’abbigliamento, nella stampa e nell’editoria, con il “New York Times” e numerose case editrici. Nei decenni successivi essi avrebbero creato il musical di Broadway e l’industria cinematografica di Hollywood. Altri ebrei russi si riversarono nelle città dell’Europa centrale e occidentale. Gli eventi russi e la nuova diaspora ebraica, con le tensioni sociali che innescava, accelerarono la mobilitazione antisemita in Europa. Assente in Gran Bretagna, negli ultimi vent’anni del secolo questa fu un fenomeno allarmante nel mondo tedesco. Nel 1873 ci fu una violenta crisi che interruppe la grande prosperità economica dei venticinque anni precedenti; in quel momento usciva La vittoria dell’ebraismo sul germanesimo di Marr, che attribuiva la fragilità del sistema economico alla spregiudicatezza dei finanzieri ebrei e preconizzava il trionfo imminente di un “cesarismo ebraico” destinato a cancellare la civiltà tedesca. Il successo del libro convinse Marr a trasformare la propaganda ideologica in agitazione politica, fondando nel 1879 la Lega antisemita. Più tardi, a partire dal 1880, la rivista dei Gesuiti “Civiltà Cattolica” intraprese una serie di campagne antisemite concentrate sulle accuse di omicidio rituale, che toccarono il vertice negli ultimi anni del secolo durante l’affare Dreyfus, ma che si protassero fino alla Seconda Guerra Mondiale. In Francia i primi periodici antisemiti comparvero negli anni Ottanta. Il salto fu determinato dal best-seller francese del giornalista Drumont La Francia ebrea (1886), che ebbe un enorme successo. Il volume tentava una cronaca della Francia repubblicana e dei suoi scandali finanziari, offendo la chiave interpretativa del dominio economico ebraico. Per Drumont, da sempre l’ebreo “mercante,cupido, intrigante,sottile, perfido” ha tentato di ridurre in schiavitù l’ariano “entusiasta, eroico,cavalleresco,franco fiducioso fino all’ingenuità”. In seguito, il 15 ottobre 1894 esplose il caso Dreyfus. Questi, primo ufficiale ebreo a servire presso lo Stato Maggiore, fu arrestato con l’accusa di alto tradimento. Sulla base di un appunto compromettente che si diceva fosse scritto di suo pugno, il capitano era sospettato di aver passato documenti riservati alla Germania. La notizia dell’arresto si diffuse due settimane più tardi. I maggiori giornali francesi iniziarono una campagna che accusava gli ebrei di Francia di essere solidali con “il traditore”. Lo stesso ministro della guerra assicurò che la colpa di Dreyfus era certa, così fu condannato alla deportazione presso l’isola del Diavolo. Il 5 gennaio 1895 Dreyfus venne degradato mentre la folla gridava: “a morte gli ebrei”. In realtà Dreyfus era del tutto innocente come lo si dimostrò più tardi, ma il fatto che fosse ebreo e alsaziano lo rendeva il candidato ideale per catalizzare i sentimenti di frustrazione della Francia umiliata a Sedan. Per un decennio l’ “affare Dreyfus” sarebbe stato al centro della vita politica, tanto che anche Ẻmile Zola denuncerà le responsabilità dello Stato Maggiore e la montatura politica. Nel 1899 i fautori di Dreyfus ottennero la revisione del processo e il condannato potè tornare il Francia per essere ascoltato soltanto dai giudici. Malgrado la confessione del vero colpevole, i giudici riconobbero l’ex ufficiale ebreo colpevole, pur riconoscendolgi le circostanze attenuanti. Successivamente in cambio dell’impegno di non proseguire la battaglia giudiziaria, il governo fece in modo di concedere la grazia a Dreyfus. Per effetto dell’affare Dreyfus, il mondo ebraico entrava nella stagione del sionismo. Movimento politico per la creazione di uno stato nazionale ebraico in Palestina, il sionismo aveva avuto come antesignano Moses Hess, pensatore vicino alla sinistra hegeliana, primo importante esponente del socialismo in Germania e maestro di Engels. Esule a Parigi, si era avvicinato all’idea che la lotta di classe non fosse che la manifestazione di una più profonda lotta di razze ed aveva proposto il programma della creazione di uno stato ebraico in Palestina, come solo mezzo per proteggere gli ebrei dalle persecuzioni e per liberarli dalle loro superstizioni. Altro ispiratore del sionismo era stato il medico Leon Pinsker, ebreo polacco che l’esperienze dei pgrom aveva convertito dall’ideale di assimilazione al nazionalismo ebraico. A diffondere l’idea sionista però, fu il romanzo di Eliot Daniel Deronda edito a puntate nel 1875, con un grosso successo. Vi furono anche iniziative concrete d’insediamento. Pinsker nel 1883 entrò a far parte degli Amici di Sion, organizzazione di studenti ebrei di San Pietroburgo, ed iniziò la raccolta di fondi che doveva portare ai primi nuovi insediamenti agricoli ebraici in Palestina. Ma l’uomo che trasformò il sionismo da idea in effettivo movimento politico fu il giornalista ebreo ungherese Herlz. Inizialmente anch’egli credeva nell’assimilazione, ma poi pubblicò nel 1896 Lo Stato degli ebrei, in cui, distaccandosi dalle iniziative dei filantropi e collegandosi alla prospettiva di Hess e di Pinsker, sosteneva che l’antisemitismo era risultato ormai un dato non modificabile dei paesi di tradizione cristiana, che la questione ebraica doveva essere intesa come questione nazionale e che l’obiettivo degli ebrei doveva essere la costituzione di uno stato sovrano. L’opera fu duramente contestata da parte degli ambienti ortodossi preoccupati che gli ebrei potessero confondere la Sion celeste e Sion terrestre, ma in Europa orientale suscitò grandi entusiasmi, tanto da avere ottanta edizioni in diciotto lingue. Nel 1897 Herzl riunì a Basilea un Congresso sionista, durante il quale fu esposta per la prima volta la bandiera con la stella di David. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale gli ebrei in Palestina erano già passati da 24.000 a 85.000. Era stato così gettato il seme che dopo la Seconda Guerra Mondiale e la tragedia della Shoàh, avrebbe generato lo stato di Israele. Di Flora Ruocco e Alessandra Tango