N. 2/2016 - Processo Penale e Giustizia

PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
2-2016
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
Neuroscienze e processo penale
Neuroscience and criminal trial
Decreto di sequestro e rito camerale in cassazione non partecipato
New rules for the procedure on appeals against search and seizure orders
Problematiche sulla nuova disciplina delle misure cautelari
Cases law about new measures de libertate
Persona offesa e modalità di audizione protetta
Victim and protected modes
Profili processuali della riforma penale-tributaria
The choices of the latest tax offences’ reform and criminal procedure
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
Diretta da Adolfo Scalfati
2-2016
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
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Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore associato di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di
procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di procedura
penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’Unione europea, Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor
Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, professore associato di procedura penale,
Università di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro
Diddi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di
procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale,
Università di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo
– Antonio Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato – Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia
Ester Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato – Alessio Scarcella, magistrato – Giuseppe Tabasco, ricercatore di procedura penale, Università di
Napoli Federico II – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
V
Sommario
Editoriale | Editorial
FILIPPO RAFFAELE DINACCI
Neuroscienze e processo penale: il ragionamento probatorio tra chimica valutativa e logica razionale / Neuroscience and criminal trial: probatory reasoning between evaluation chemistry and rational logic
1
Scenari | Overviews
Novità legislative interne / National legislative news (ROSSELLA FONTI)
12
Novità sovranazionali / Supranational news (VALENTINA VASTA)
18
De jure condendo (GIOIA SAMBUCO)
21
Corti europee / European Courts (MARCELLO STELLIN)
23
Corte costituzionale (ANGELA PROCACCINO)
29
Sezioni Unite (ROSA GAIA GRASSIA)
32
Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI)
36
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
Mandato d’arresto europeo: la scadenza dei termini per produrre i documenti non incide
sull’efficacia della richiesta e non preclude un successivo giudizio di merito
Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 15 ottobre 2015, n. 41516 – Pres. Milo; Rel. Petruzzellis
39
Precisazioni in ordine al “giudicato” sulla consegna ed ultrattività del mandato di arresto europeo / Remarks on the judgement concerning the surrender and the continuing effect of
the European arrest warrant (LORENZO PULITO)
42
Forme non partecipate per il ricorso in Cassazione contro il decreto di sequestro
Corte di Cassazione, Sezioni unite, sentenza 30 dicembre 2015, n. 51207 – Pres. Santacroce;
Rel. Ramacci
52
Sindacato sul decreto di sequestro e rito camerale non partecipato: le Sezioni Unite mutano indirizzo / The Supreme Court of Cassation changes his mind: new rules for the procedure
on appeals against search and seizure orders (ENRICO MARIA MANCUSO)
60
Per la Cassazione è applicabile la nuova disciplina sulla motivazione differita alle ordinanze del riesame non ancora depositate
Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza 7 ottobre 2015, n. 40342 – Pres. Marasca; Rel.
Zaza
68
L’inefficacia della misura per intempestivo deposito della motivazione in sede di riesame:
un caso insolito di ius superveniens sull’“atto complesso” / The order directing the precautionary
measures must be considered subject to the law n. 47 of 2015 even when the new deadline to file the
grounds upon which the decision of re-examination relies has not expired any longer (ELISA ZERBINI)
70
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
VI
Il sequestro per equivalente sui beni dell’amministratore della società
Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 13 ottobre 2015, n. 40172 – Pres. Squassoni; Rel.
Di Nicola
78
Impossibilità di confiscare il profitto illecito conseguito dalla società e sequestro per equivalente sui beni degli amministratori / Inability of confiscation the company’s illegal profits and the
seizing of the CEO’s property the value of which corresponds to that of the company’s illegal profits
(LORENZO BELVINI)
81
Riesame: annullamento dell’ordinanza se la motivazione non presenta un contenuto dimostrativo autonomo
Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 12 ottobre 2015, n. 40978 – Pres. Conti; Rel. Di Stefano
86
Confini più netti tra annullamento e integrazione dell’ordinanza cautelare genetica / A
new balance between Court of re-examination’s overruling and amending powers over precautionary measures (MARIA VITTORIA PAPANTI-PELLETIER)
88
Particolare tenuità del fatto nel giudizio davanti al Giudice di pace e mancata comparizione della persona offesa
Corte di Cassazione, Sezioni Unite , sentenza 16 luglio 2015, n. 43264 – Pres. Santacroce;
Rel. Conti
96
L’improcedibilità per particolare tenuità del fatto nel procedimento davanti al Giudice
di pace: la mancata comparizione della persona offesa non ha il significato di opposizione / The “Giudice di pace” can state the unprosecutability ex Art. 34, p. 3, d.lgs. 274/00 even
when the victim doesn’t appear (MATILDE BRANCACCIO)
102
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
Ancora travagliate le vicende delle misure cautelari malgrado le modifiche normative /
Precautionary measures are still troubled despite the reforms (LUIGI GIORDANO/ANTONIO
PAGLIANO)
111
Profili processuali della riforma penale-tributaria / The questionable choices of the latest
tax offences’ reform in the light of criminal procedure law (ALESSANDRO DIDDI)
123
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
Persona offesa e modalità di audizione protetta: verso lo statuto del testimone vulnerabile
/ Victim and protected modes: towards the status of vulnerable witness (ADA FAMIGLIETTI)
142
Il contributo della giurisprudenza sovranazionale all’evoluzione del principio di pubblicità / The contribution of supranational law to the evolution of the tenet of judicial public hearing (VANIA MAFFEO)
150
Detenzione cautelare e stato di salute particolarmente grave: “letture” consolidate e recenti prospettive / Pre-trial detention and illness: prevailing interpretations and new clarifications (EVA MARIUCCI)
161
Indici | Index
Autori / Authors
170
Provvedimenti / Measures
171
Materie / Topics
172
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
1
Editoriale | Editorial
FILIPPO RAFFAELE DINACCI
Professore ordinario di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Bergamo
Neuroscienze e processo penale: il ragionamento probatorio
tra chimica valutativa e logica razionale
Neuroscience and criminal trial: probatory reasoning between
evaluation chemistry and rational logic
La problematicità del rapporto tra scienza e processo è destinata ad acuirsi con riferimento alle neuroscienze.
Queste, infatti, si caratterizzano per un campo di azione perfettamente sovrapponibile a quello dell’accertamento
penalistico, con conseguente difficoltà di provvedere a momenti di verifica falsificazionista. Ma, anche a prescindere dalla “scientificità” del metodo, la prospettiva neuroscientifica evidenzia momenti di “crisi” con l’ordinamento, avuto riguardo al limite di autodeterminazione tutelato dall’art. 188 c.p.p. Occorre, peraltro, tenere alta la guardia rispetto al pericolo che il sapere neuroscientifico si sostituisca a quello del giudice, dovendo lo stesso, sul piano del metodo, essere verificato attraverso l’attività confutazionista del contraddittorio. Solo così il giudice può
mantenere inalterata la sua funzione di giudizio e non procedere a indebite abdicazioni in favore di teorie scientiste
con “ritorni” di deriva neopositivistica.
The complexity of the connection between science and trial is destined to increase with reference to neuroscience,
characterized by a scope of application entirely superimposable to the one of criminal inspection, with the consequent difficulty to provide for falsificationist verification. Regardless of the “scientificity” of the method, the neuroscientific perspective could possibly stand in contrast with the judicial system, with reference to the limit of selfdetermination guaranteed by the article 188 of the Italian Code of Criminal Procedure. It is essential to avoid that
the neuroscientific knowledge replaces the one of the judge, for its method has to be verified through the falsificationist activity of the opposition. That’s the only way the judge can keep its judgement function unchanged without
having to proceed to undue abdications in favour of scientistic theories with some neopositivistic echoes.
I DIFFICILI EQUILIBRI TRA SCIENZA E PROCESSO
La progressiva espansione del “sapere scientifico” nel processo penale evidenzia le difficoltà del legislatore a tenere il passo dell’evoluzione delle conoscenze, con evidenti problematiche di adattamento della
regola processuale alla nuova scienza.
Se è vero che la disposizione dell’art. 189 c.p.p. costituisce una sorta di “adattatore automatico” 1,
preposto a gestire quelle situazioni probatorie derivanti da forme di conoscenza allora non possedute, è
anche vero che il tema della c.d. prova innominata va affrontato con cautela e, comunque, non sempre
soccorre nel “trattamento” del rapporto tra processo e scienza.
Basti pensare che la nuova scienza trova uno strumento di introduzione nel processo attraverso il
veicolo della prova tecnica; i dati conoscitivi da essa derivanti necessariamente risultano recuperabili
nei contenitori normativi della perizia, della consulenza tecnica di parte e, infine, degli accertamenti
tecnici irripetibili.
1
Cfr. la Relazione al progetto preliminare del nuovo c.p.p., Roma, 1988, p. 60.
EDITORIALE | NEUROSCIENZE E PROCESSO PENALE: IL RAGIONAMENTO PROBATORIO TRA CHIMICA VALUTATIVA E ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
2
Ed è con riferimento alla disciplina per essi dettata che va individuata la procedura da seguire per
una legittima conoscenza del giudice. Ma, seppure così non fosse, e cioè se i contenitori tipici del mezzo
probatorio non si prestassero a regolare processualmente i risultati del nuovo sapere scientifico, comunque occorrerebbe applicare la disciplina normativa di quel mezzo di prova o di ricerca della prova
che si pone, rispetto al caso concreto, in rapporto di similia ad similibus, ricorrendo in tal modo a quello
strumento di auto-integrazione dell’ordinamento giuridico costituito dall’analogia 2. Solo a fronte
dell’impossibilità di una tale operazione può ricorrersi alle regole di cui all’art. 189 c.p.p. 3.
Tuttavia, al di là delle tematiche relative al quomodo probatorio, che si pongono inevitabilmente rispetto ad un nuovo approdo scientifico, il pericolo maggiore che si avverte è quello di una marginalizzazione della prova dichiarativa a vantaggio della prova scientifica 4.
Anche quest’ultima deve rispettare le regole epistemologiche del processo, prima fra tutte quella del
contraddittorio. Ad ogni modo, il tema involge anche il momento valutativo; il sapere altamente specialistico deve essere reso accessibile al giudice, deve necessariamente subire, nel corso del processo, un’opera di decodifica che consenta una consapevole funzione di giudizio, che non può tradursi nella recezione di scelte altrove deliberate. Solo in tal modo si evita che la valutazione probatoria sia espropriata
in favore della scienza o dello scienziato. E ciò non solo per l’autonomia delle funzioni, ma anche perché l’attività di accertamento giudiziale si snoda su più esperimenti conoscitivi suddistinti in fatti primari e secondari che non si esauriscono nel risultato scientifico della prova 5.
In altre parole, l’indagine retrospettiva, con cui nel processo si tende a ricostruire un fatto del passato che non è più 6, investe un “contesto” più ampio, popolato da una molteplicità di temi di prova che,
attraverso il loro intersecarsi, costituiscono l’oggetto di quell’attività logico-razionale che presiede al
momento della decisione. E, sul punto, non può negarsi come la prova scientifica tessa “trappole valutative”, perché trasmette nella fase decisoria un’apparenza di assoluta obiettività da cui il giudice può
essere ingannato. Ciò tanto più ove si consideri che la prova scientifica introduce un procedimento sincopato tra “prova” e “proposizione da provare”.
Con riferimento a certi reati, la prova scientifica è così sovrapposta alla condotta costituente reato
al punto da determinare un «corto circuito che elimina la possibilità di contro-argomentazioni» 7.
Viene in questo modo ad eliminarsi ogni possibilità di confutazione e/o falsificazione 8, attraverso un
percorso che denota una deriva positivistica 9. La conclusione mina le caratteristiche argomentative
2
Sulla necessità di integrare e non destrutturare il modello tipico, cfr. T. Rafaraci, Ricognizione informale dell’imputato e
(pretesa) fungibilità delle forme probatorie, in Cass. pen., 1998, p. 1745. Tale prospettiva ha ricevuto l’avallo della Corte di Cassazione
che, con riferimento alla nuova tecnica di investigazione del Bloodstain Pattern Analysis (B.P.A.), ha ritenuto che la stessa non
costituisse una prova atipica, bensì una tecnica d’indagine riconducibile al genus della perizia, con la conseguenza che non è
invocabile l’applicazione dell’art. 189 c.p.p. Cfr. Cass., 21 maggio 2008, n. 31456, in Cass. pen., 2009, p. 1840.
3
Sul tema, sia consentito il rinvio a F.R. Dinacci, Le regole generali delle prove, in G. Spangher (a cura di), Procedura Penale, La
pratica del processo, I, Torino, 2015, p. 774.
4
Sull’argomento, con varietà di soluzioni, cfr. M. Bargis, Note in tema di prova scientifica nel processo penale, in Riv. dir. proc.,
2011, p. 47; L. Capraro, Primi casi clinici in tema di prova neuroscientifica, in Proc. pen. giust., 2012, 3, p. 95 s.; O. Di Giovine, Chi ha
paura delle neuroscienze?, in Arch. pen., 2011, p. 837 ss.; P. Ferrua, Neuroscienze e processo penale, in AA.VV., Diritto penale e
neuroetica, Padova, 2013, p. 260; A. Pagliano, La formazione e le nuove frontiere della valutazione della prova dichiarativa, Napoli, 2012,
p. 121; A. Scalfati, La deriva scientista dell’accertamento penale, in Proc. pen. giust., 2011, 5, p. 149 s.; P. Tonini, Dalla perizia ‘prova
neutra’ al contraddittorio sulla scienza, in Dir. pen. proc., 2011, p. 360.
5
Sul tema, cfr. la Relazione al progetto preliminare del nuovo c.p.p., cit., p. 124 ss., dove si precisa che i fatti secondari sono da
individuarsi in quelli non ricompresi nei fatti enunciati nell’imputazione da cui si può risalire a quelli ad essa riferibili.
6
Sull’argomento, si rimanda a G. Capograssi, Giudizio, processo, scienza e verità, in Opere, V, Milano, 1959, p. 59, ove si
puntualizza che il giudice e tutti gli altri soggetti del processo «si fermano a ripensare a quello che è già stato, a ritornare con
l’intelligenza, col sentimento, ad un momento della vita che è passata: a fermare ed a rivivere il già vissuto. Ma tutto questo
rivivere, che il giudice fa attraverso il rivivere degli altri, non è mai un vedere direttamente, non è mai la presenza. La presenza
è impossibile. È un rimpiazzare la presenza: qui è la magia. È un far essere presente quello che non è presente. E perciò è sempre
un procedere traverso segni, che significano, ma non sono la cosa significata».
7
Così, correttamente, P. Ferrua, Neuroscienze e processo penale, cit., p. 260.
8
Si pensi al test etilico nel reato di guida in stato di ebbrezza, ovvero agli accertamenti sui computer con riferimento ai reati
informatici.
9
Per una tale condivisibile conclusione, cfr. A. Scalfati, La deriva scientista dell’accertamento penale, cit., p. 145, dove si precisa
che «l’elogio della prova scientifica occulta un nuovo positivismo giudiziario, dove macchine infallibili e teorie rigorose hanno il
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
3
del processo, che possono essere salvaguardate soltanto se si prende contezza della “relatività” della
scienza: questa è tutt’altro che infallibile, anzi è un «cimitero di teorie errate» 10. Basti pensare che la
storia della scienza «è una disputa ininterrotta che ha mandato in frantumi una serie sconfinata di
teorie» 11.
LE NEUROSCIENZE
Le problematiche che caratterizzano i rapporti tra prova scientifica e processo si accentuano avuto riguardo alle cc.dd. neuroscienze, nella misura in cui le stesse hanno ad oggetto lo studio dei rapporti tra i
meccanismi cerebrali ed il comportamento umano. Quest’ultimo, però, nel tema processuale altro non è
che quella condotta che realizza il reato. Di conseguenza occorre prendere atto di come le neuroscienze
abbiano un campo di azione del tutto sovrapponibile all’oggetto dell’accertamento penalistico. La circostanza evidenzia come il risultato probatorio neuroscientifico si presti a sostituire le massime di esperienza. E, sul punto, si devono con fermezza richiamare esigenze di prudenza. Ciò, oltre che per l’incertezza
scientifica dei risultati, anche per l’influenza che sul risultato di prova neuroscientifica può determinare
l’operatore che la pone in essere 12. Si tratta di tecniche complesse, soggettive, nella realizzazione e nella
lettura dei risultati 13. Tale situazione si realizza altresì in sede di escussione dove anche chi interroga può
esercitare un’influenza sul dichiarante; situazione, questa, che risulta verificabile attraverso il contraddittorio e, in particolare, mediante la percezione diretta che ha il giudice della prova 14. Viceversa, nelle neuroscienze la verifica risulta più difficile e, comunque, non alla portata delle conoscenze giuridiche e di logica decisionale del giudice, con correlativo aumento del rischio di un esproprio valutativo della funzione
compito di fotografare tracce e desumere fatti, come nelle indagini condotte in laboratorio; sotto abiti meno rozzi, si vede l’eterno ritorno dell’idea che vorrebbe trasformare i protagonisti del processo in esperti dal camice bianco». In senso contrario
sembra porsi O. Di Giovine, Chi ha paura delle neuroscienze?, cit., p. 842, secondo cui, alla base della diffidenza, vi è anche «il
timore inconfessato che le neuroscienze possano in un prossimo futuro fornire evidenze tali da espropriare definitivamente il
giudice della valutazione della prova, per consegnarla tutta al perito, portando così al punto di zenit quella progressiva rivisitazione del gioco delle parti che l’ingresso della prova scientifica sta da tempo determinando all’interno del processo penale e
rinforzando il rischio di un diverso e surrettizio ritorno al sistema delle prove legali».
10
Così, K. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Roma, 2002, rist., p. 468.
11
In tal senso, v. F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2003, p. 445.
12
Sull’argomento dell’incidenza dell’operatore e sulla discrepanza delle letture, cfr. M.Z. Wu, M.D. McInnes, D. B.
Macdonald, A.Z. Kielar, S. Duigenan, CT in adults: systematic review and meta-analysis of interpretation discrepancy rates, in Radiology, 2014 Mar, 270(3):717-35. doi: 10.1148/radiol.13131114, dove si rileva l’incidenza sul risultato dell’indagine scientifica che
può avere la tecnica dell’operatore. In particolare, si precisa che «understanding the baseline discrepancy rate for interpretation of an
imaging examination is necessary for monitoring of radiologist skills (1-5). Published discrepancy rates vary widely (6-10). Discrepant
reports between initial and subsequent radiologist interpretations can be due to a variety of factors, including inadequate clinical information, poor imaging technique, perceptual and cognitive errors, and communication errors (11, 12)».
13
Avuto riguardo alla soggettività di letture delle tecniche radiodiagnostiche e neuroscientifiche, v. J. Löfgren, A. Loft,
V.A. Barbosa de Lima, K. Østerlind, E. von Benzon, L. Højgaard, Clinical importance of re-interpretation of PET/CT scanning in
patients referred to a tertiary care medical centre, in Clin. Physiol. Funct Imaging, 2015 Jul 25. doi: 10.1111/cpf.12278, nella misura
in cui si evidenzia che le discordanti interpretazioni hanno una frequenza del 19%; inoltre, in tali ipotesi, la “re-interpretazione” effettuata rispetto alla precedente ha un margine di correttezza dell’82% dei casi. In particolare si sottolinea: «Results
the interpretations were graded as ‘accordant’in 43 patients (48%9, ‘minor discordance’ in 30 patients (33%) and ‘major discordance’ in
17 patients (19%). In 11 (65%) of the 17 cases graded as ‘major discordance’, it was possible to determine which report that was most
correct. In 9 of these 11 cases (82%), the re-interpretation was most correct; in one case, the original report and in another case, both
interpretations were incorrect. Conclusions: Major discordant interpretations were frequent [19% (17 of 90 cases)]. In those cases
where follow-up could assess the validity, the re-interpretation at Rigshospitalet was most correct in 9 of 11 cases (82%), indicating that
there is a difference in expertise in interpreting PET/CT at a tertiary referral hospital compared to primary local hospitals».
14
Per un’impostazione diretta a riconoscere la costituzionalizzazione del principio di immutabilità, cfr. F. R. Dinacci,
Giurisdizione penale e giusto processo verso nuovi equilibri, Padova, 2003, p. 168. In sede giurisprudenziale, sia pure timidamente
nella direzione prospettata, cfr. Corte cost., 10 giugno 2010, n. 205, in Giur. cost., 2010, p. 2392, laddove si precisa che alla parte è
riconosciuto «il diritto all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere, e che tale diritto, almeno per quanto attiene
all’imputato, si raccorda anche alla garanzia prevista dall’art. 111 comma 3 Cost. nella parte in cui riconosce alla persona accusata di un
reato […] la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico […] e di attendere la
convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa».
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
4
giudicante che ridurrebbe l’organo giurisdizionale ad una mera “bocca della scienza” 15.
Al di là del paventato rischio di interferenze (recte, sostituzioni) del sapere scientifico sul momento
valutativo avente ad oggetto il realizzarsi di una vicenda umana del passato, occorre interrogarsi sulle
compatibilità di tale forma di accertamento probatorio con il contenuto dell’art. 188 c.p.p. In quella sede, nel prevedersi il divieto di utilizzare, anche con il consenso della persona interessata, «metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti», si è operata una scelta di etica probatoria 16 in cui si privilegia il “come” si perviene ad un risultato
conoscitivo in linea con la scelta di un sistema probatorio non onnivoro 17, governato da forme contenutistiche 18. Del resto, la regola introdotta con l’art. 188 c.p.p. risulta enfatizzata anche dall’opzione codicistica di non regolamentare solo i profili procedurali dell’acquisizione probatoria, bensì di “disciplinare” la funzionalità delle relative regole rispetto alla formazione del convincimento del giudice 19.
Se si sono previste forme dirette a normare il “come” dell’accertamento, queste esprimono un’esigenza ma, ancora prima, un dovere di legalità. In questa prospettiva la disciplina probatoria non è solo
posta a presidio di un tale obiettivo, ma individua i modi di produzione della verità 20, nel senso che le
regole introdotte vengono considerate in astratto dal legislatore le più idonee ad un accertamento giudiziale il più prossimo possibile ad un giudizio di verosimiglianza.
LA PROVA NEUROSCIENTIFICA, IMPUTABILITÀ E TRATTAMENTI “COATTI”
Nella consapevolezza di tale realtà si deve verificare, con riferimento alla prova neuroscientifica, l’eventuale esistenza a livello ordinamentale di divieti o limiti. Si è già visto come il tema della prova c.d.
innominata sia un finto problema, posto che l’atipicità riguarda l’assenza di una previsione; assenza che
non ricorre, in quanto il contenitore peritale o della consulenza tecnica risulta perfettamente idoneo a
disciplinare il caso. Certamente più problematica è la questione relativa a un possibile limite all’autodeterminazione della persona o alla possibile alterazione di ricordare e valutare i fatti. Qui, però, il tema deve essere analizzato non solo a seconda della tipologia di prova neuroscientifica, ma anche e soprattutto in base al quod demostrandum.
Infatti, in funzione del tipo di accertamento neuroscientifico, occorre valutare se sia possibile pervenirvi in modo coattivo; inoltre, un conto è l’utilizzo della prova in questione per stabilire la capacità di
intendere e di volere, cosa diversa è se quell’utilizzo sia finalizzato a valutare la capacità di ricordo del
teste che, in quanto tale, risulta direttamente incidente sulla produzione della c.d. verità.
Partendosi dal primo tema, non c’è dubbio che la sottoposizione di un soggetto alla tomografia
computerizzata (T.C.), alla tomografia ad emissioni di positroni (P.E.T.), alla risonanza magnetica
(R.M.) o ai test psicologici implichi un atto di volontà del soggetto che a tali esami deve essere sottoposto. La questione dell’assoggettamento coattivo della persona ad esami e a prelievi, in quanto involgente la disciplina della libertà personale, era stata fatta oggetto di un intervento del Giudice delle leggi,
che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, comma 2, c.p.p., ritenuto in contrasto con
la riserva di legge contemplata per la materia 21. La lacuna normativa è stata “colmata” dal legislatore
15
In tal modo, il momento valutativo della prova si ridurrebbe ad una mera tecnica di accertamento del tutto sganciata dal
valore che porta il dato conoscitivo. Sul tema, cfr. M. Massa, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, 1964,
p. 259.
16
Per una tale impostazione, sia consentito il rinvio a F.R. Dinacci, Il contraddittorio per la prova nel processo penale, Padova,
2012, p. 8.
17
Sull’argomento, si rinvia a E. Marzaduri, Appunti sulla riforma costituzionale del processo penale, in Scritti in onore di Antonio
Cristiani, Torino, 2001, p. 46.
18
Sul tema, per l’affermazione che il formalismo è un elemento inseparabile dalla libertà dell’individuo, cfr. Montesquieu,
De l’esprit des lois, I, XXIX, 1, Paris, p. 865.
19
In tale direzione, v. V. Grevi, Le prove, in G. Conso-A. Grevi-M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, Padova,
2012, p. 299.
20
Sul tema, si rinvia alle argomentazioni di G. De Luca, La cultura della prova e il nuovo processo penale, in Evoluzione e riforma
del diritto e della procedura penale. Studi in onore di Giuliano Vassalli, Milano, II, 1991, p. 19.
21
V. Corte cost., 9 luglio 1996, n. 238. In dottrina, sul tema, cfr. G. Varraso, Neuroscienze e consulenza “investigativa”, in A.
Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, Torino, 2014, p. 271; C. Conti-P. Tonini, Il diritto delle prove penali, Milano, 2013, p. 184.
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5
con l’introduzione degli artt. 224 bis e 359 bis c.p.p. 22, che prevedono espressamente, in talune ipotesi, la
possibilità di procedere ad esecuzione coattiva di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, tra i
quali gli «accertamenti medici».
La disciplina risulta strutturata, sia con riferimento agli atti che possono essere compiuti, sia avuto
riguardo alla modalità della loro esecuzione, con un evidente deficit di tipicità. Tuttavia, al di là di tale
connotato – che comunque palesa la permanenza di frizioni costituzionali – il problema è quello di stabilire se nella nozione di «accertamenti medici» possano rientrare le indagini neuroscientifiche.
Sul punto, al di là della genericità della locuzione, che lascia il dubbio sulla volontà del legislatore di
formulare un’ipotesi “aperta” proprio al fine di mantenere la norma adeguata anche a fronte di evoluzioni della scienza medica, il problema sta nell’oggetto dell’accertamento. Se esso riguarda la ricerca di
anomalie cerebrali, senza implicare atti di parola o di introspezioni mentali capaci di mettere a rischio
la libertà di autodeterminazione 23, non sembrano emergere incompatibilità di normativa.
La conclusione, però, va verificata con riferimento all’oggetto della dimostrazione giudiziaria. È necessario distinguere se il ricorso alle neuroscienze nel processo penale attenga al tema della capacità di
intendere o di volere ovvero a quello della ricostruzione del fatto.
Prendendosi le mosse dalla prima, occorre rilevare come il vizio di mente incida sia sul terreno sostanziale dell’imputabilità, sia sul diverso profilo contemplato dall’art. 70 c.p.p. relativo alla capacità di
partecipazione cosciente al processo. Qui le neuroscienze, affiancandosi ai tradizionali metodi di indagine e, comunque, non incidendo su una valutazione delle capacità mnestiche del soggetto, non paiono
evidenziare profili di incompatibilità di disciplina 24. Ad ogni modo, non bisogna dimenticare come
l’indagine scientifica documenti un fatto del presente. Di contro, il giudizio sull’imputabilità è riferito al
momento del fatto; in particolare, occorre appurare se la stessa si ponga in rapporto causale con
quest’ultimo 25. Ecco allora che necessita ricorrere ad un ragionamento induttivo che dal fatto noto
dell’attuale imputabilità o non imputabilità risalga al fatto ignoto oggetto di prova e, cioè, se al momento della condotta l’imputato agisca o meno con capacità di intendere e di volere. Tale percorso è tipico
del giudice che, sotto tale profilo, non vede il rischio di assoggettare la sua autonoma capacità di giudizio al diktat scientifico 26. Tuttavia, non può escludersi come anche l’accertamento sulla capacità di stare
in giudizio o sull’imputabilità possa condurre a riflessi dotati di una ricaduta sul merito della regiudicanda. Si faccia l’ipotesi che l’indagine neuroscientifica evidenzi anomalie che predispongono il soggetto ad atti di aggressività o a comportamenti antisociali. In queste evenienze, laddove il processo abbia
ad oggetto condotte di tale genere, si corre inevitabilmente il rischio che un accertamento finalizzato a
22
Si segnala come, a fronte di una sentenza della Corte costituzionale del 1996, il legislatore abbia inteso colmare la lacuna di
disciplina solo con la legge 30 giugno 2009, n. 85. Con riferimento alla problematica relativa all’esecuzione coattiva per la
realizzazione di esami neuroscientifici, cfr. C. Conti-P. Tonini, Il diritto delle prove penali, cit., p. 184.
23
Condivisibilmente, in questa direzione, P. Ferrua, Neuroscienze e processo penale, cit., p. 263. Sul tema in genere e con
particolare riferimento all’interrogatorio dell’imputato, cfr. O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento,
Milano, 2004, passim.
24
Si segnala come l’utilizzo delle neuroscienze dirette a verificare i profili di capacità di intendere e di volere dell’imputato
annoveri già una casistica giurisprudenziale. In quella sede è utile evidenziare come la prova neuroscientifica abbia trovato
ingresso nel processo attraverso lo schema catalogato della perizia e della consulenza tecnica. Cfr. App. Trieste, 18 settembre
2009, n. 5, in Riv. pen., 2010, p. 70; Trib. Como (g.i.p.), 20 maggio 2011, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 246; Trib. Venezia (g.i.p.), 24
gennaio 2013, ivi, 2013, p. 1905.
25
Sul punto, le Sezioni Unite hanno avuto modo di precisare che «ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente,
anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto
di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere,
escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del
quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale», cfr. Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, n. 9163, in Cass.
pen., 2005, p. 1851.
26
Il rischio che la funzione di giudizio venga abdicata in favore del responso scientifico si manifesta, in sede operativa, anche con riferimento alla formulazione dei quesiti peritali. Spesso e volentieri gli stessi chiedono al perito non lo stato della scienza, bensì la corrispondenza della situazione emergente dall’analisi scientifica alla definizione giuridico-normativa. Tale deprecabile prassi ha indotto all’elaborazione del punto 7 nel corso del Seminario sul tema «La Prova Scientifica nel Processo Penale»,
promosso dall’Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali (I.S.I.S.C.) il 15 giugno 2008, dove si precisa che «al fine di
preservare l’autonomia di valutazione del giudice, i quesiti vanno formulati in termini tali da non implicare definizioni o qualifiche giuridiche la cui cognizione deve essere riservata al giudice». Per una compiuta analisi di tali decisioni, cfr. A. Corda, Neuroscienze forensi e giustizia penale tra diritto e prova (disorientamenti giurisprudenziali e questioni aperte), in Arch. pen., 2014, 3, p. 17.
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verificare l’imputabilità o la capacità di stare in giudizio si trasformi in un elemento di colpevolezza. Di
qui, il prospettarsi di “ritorni”, sia pure inconsapevoli, a forme di “colpa d’autore” 27, con la possibilità
che “il criminale virtuale” sia convertito in “reale” per effetto della suggestione esercitata dalle relazioni
peritali 28.
I LIMITI DEL CONTRIBUTO ALLA RICOSTRUZIONE DEL FATTO
Con riferimento al contributo delle neuroscienze sul terreno della ricostruzione del fatto, vengono in
rilievo la risonanza magnetica cerebrale, in grado di decifrare la veridicità del racconto attraverso la
constatazione delle aree cerebrali attivate dalle menzogne; il brain finger printing, che risulterebbe capace di individuare impronte cerebrali sintomatiche di ricordi di dati eventi e l’implicit association test
(I.A.T.), praticato per valutare la conformità delle dichiarazioni al ricordo del narrante. Ora, indipendentemente dall’affidabilità scientifica di tali metodiche di accertamento, occorre comprendere se le
stesse, laddove utilizzate ai fini della ricostruzione del fatto e, più precisamente, per stabilire se il narrante dica il vero, risultino compatibili con la disciplina codicistica.
Al riguardo, con rifermento alla risonanza magnetica funzionale e al brain finger printing si è al cospetto di una dinamica di esame non dissimile da quella contemplata per verificare l’imputabilità.
In situazione diversa sembra porsi lo I.A.T. Esso si fonda su di una tecnica, costruita sui tempi di
reazione, che consiste nel chiedere al dichiarante di classificare come vere o false le domande che compaiono al computer 29. La metodica in esame si basa sulla considerazione secondo la quale il ricordo genuino consente rapidi tempi di reazione, mentre la falsificazione del ricordo richiede un maggiore tempo per la risposta a causa del “conflitto cognitivo” che il soggetto deve superare 30.
In particolare, l’“accertamento scientifico” in questione risulterebbe particolarmente attendibile posto che è stato stimato un margine di errore dell’8% rispetto al 35% della macchina della verità 31. Comunque, al di là della concludenza scientifica dei risultati dello I.A.T., quel che fa sorgere perplessità è
la possibilità di una verifica confutazionista rispetto a quanto affermato. In sede processuale l’attendibilità di un dichiarante può essere appurata con il controesame, metodica, questa, di difficile realizzazione avuto riguardo agli esiti dello I.A.T. In tal modo, il «tragitto della prova al fatto da provare diventa impermeabile alle contro-argomentazioni» 32. Né sul punto soccorre il fatto che la prova sarebbe disposta con il consenso del soggetto. Basti pensare che se alla prova vi si sottopone il testimone,
l’imputato è in sostanza obbligato a fare lo stesso. E ciò non solo perché in caso contrario si attribuirebbe alle dichiarazioni del testimone una sorta di fede privilegiata, ma anche perché la giurisprudenza, in
tema di rifiuto dell’imputato a sottoporsi ai prelievi per l’esame comparativo del DNA, ha ritenuto che
27
Sulla tematica in genere, si rimanda a H. Welsel, Persönlichkeit und Schuld, in ZStW, 1941, p. 428; G. Bettiol, Azione e
colpevolezza nelle teorie dei tipi di autore, in Riv. it., 1942, p. 5; E. Dolcini, La commisurazione della pena, Padova, 1979, p. 238. Da
ultimo, cfr. D. Fondaroli, Le nuove frontiere della colpa d’autore: l’orso “problematico”, in Arch. pen., 2014, 3, p. 1.
28
Così, P. Ferrua, Neuroscienze e processo penale, cit., p. 267. In quella sede l’Autore ritiene poter scongiurare il rischio che
l’indagine neuroscientifica sull’imputabilità trasmodi in prova sul merito attraverso la ricezione, de iure condendo, di un
“processo bifasico”, dove l’accertamento sulle capacità di intendere e di volere al momento della commissione del reato sia
successiva all’accertamento di colpevolezza. Sul punto, a prescindere da ogni ulteriore problematica, preme segnalare che la
proposta, ancorché acutamente formulata, non risulterebbe in grado di risolvere il problema con riferimento alla capacità di
partecipare coscientemente al processo, ponendosi tale requisito come accertamento pregiudiziale rispetto a qualsiasi questione
di merito.
29
Per un approfondimento delle modalità realizzative dell’implicit association test, cfr. A. Pagliano, La formazione e le nuove
frontiere della valutazione della prova dichiarativa, cit., p. 138. Sul metodo neuroscientifico, v. G. Sartori, How to accurately detect
authobiographical events, in Psychological Science, 2008, 19, p. 772.
30
Un’ipotesi meno approfondita dello I.A.T. è già stata individuata da B. Russel, Storia delle idee nel XIX secolo, Milano, 1969,
p. 139, dove si precisa: «Come ognuno sa, l’associazione offre un metodo per prendere in trappola i criminali. Voi state
interrogando, mettiamo, un uomo che sospettate abbia tagliato la gola alla moglie con un coltello. Voi dite una parola, ed egli
deve rispondere con la prima parola che gli viene in mente. Voi dite ‘gatto’ ed egli risponde ‘cane’; voi dite ‘politico’ ed egli dice
‘ladro’; voi dite ‘coltello’ ed egli ha un primo impulso a dire ‘gola’, ma sa che è meglio non dirlo, così, dopo lunga esitazione,
dice ‘forchetta’. La durata dell’esitazione mostra la sua resistenza».
31
Il dato statistico è ricavato da G. Sartori, How to accurately detect autobiographical events, in Psychological Science, cit., p. 780.
32
Così, P. Ferrua, Neuroscienze e processo penale, cit., p. 269.
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7
il «rifiuto ingiustificato al prelievo può essere liberamente valutato dal giudice come elemento di convincimento e
come riscontro individualizzante alla chiamata di correo» 33.
Tale modus operandi annulla la portata garantistica sottesa dalle previsioni degli artt. 63 e 64 c.p.p. e,
quel che più conta, è la circostanza che pone l’imputato di fronte ad una scelta obbligata. Infatti, lo
I.A.T. riscontra la corrispondenza delle risposte al ricordo, che potrebbe anche essere erroneo, non essendo da escludere che i fatti siano stati sin dall’inizio erroneamente percepiti, memorizzati e valutati 34.
Tuttavia, non pare controvertibile come l’assoggettamento allo I.A.T. del teste d’accusa crei comunque
un risultato probatorio con un più elevato margine di attendibilità. Divario, questo, che può essere colmato solo sottoponendosi alla stessa verifica scientifica 35.
La conclusione rileva ancora di più ove la si contestualizzi in quelle realtà processuali in cui la decisione viene adottata mettendo a confronto la dichiarazione del teste d’accusa con quella dell’imputato. Ed allora il tema preclusivo non va individuato nell’art. 188 c.p.p., laddove richiama una possibile alterazione nella capacità di ricordare e valutare i fatti, bensì nel punto in cui tutela la libertà di
autodeterminazione del soggetto 36. Al riguardo, non sembra colgano nel segno quelle critiche dirette
a negare il diritto di ingresso nel processo penale della prova neuroscientifica in quanto si risolve in
una introspezione mentale 37. Sembra sfuggire che lo I.A.T. altro non è che una forma di esame a cui
chi vi si assoggetta, se mente, probabilmente viene scoperto, ma, se può riconoscersi il diritto a mentire 38, certamente non può ritenersi che il diritto a mentire implichi anche il diritto a non essere scoperto. In ogni caso lo I.A.T. non sembra evidenziare un metodo di verifica che si discosti da quello
ordinario se non per la sua pretesa scientificità. La misurazione dei tempi di risposta non differisce
nel genere dall’analisi dei tratti prosodici del discorso e delle modalità linguistiche e comportamentali del dichiarante 39. Emerge, quindi, come il tratto paralinguistico dello I.A.T. non introduca un criterio di valutazione molto dissimile rispetto a quello ordinario e, dunque, non pare possibile rinvenire
in esso un elemento di preclusione sul piano normativo. Viceversa, i segnalati profili limitativi della
libertà di autodeterminazione del soggetto sembrano assumere sotto il profilo della logica probatoria
un’efficacia diretta.
Del resto, se l’indagine neuroscientifica si risolve in un limite di autodeterminazione per l’imputato,
con conseguente divieto legislativo 40, ne deriverà uguale preclusione anche con riferimento al testimone.
La conclusione scaturisce dalla consapevolezza che, laddove fosse consentito a soggetto diverso
dall’imputato la sottoposizione a controllo neuroscientifico di quanto dichiarato, si introdurrebbe nel
processo, come già anticipato, una sorta di prova a fede privilegiata che può essere contrastata solo
33
In tal senso, Cass., sez. I, 20 settembre 2002, n. 37108, in Cass. pen., 2004, p. 4166; Id., sez. VI, 2 novembre 1998, n. 1472, in
CED Cass., n. 213448.
34
Per un’impostazione consapevole del fatto che l’analisi della testimonianza rende inevitabile il richiamo al referente
psicologico, nel senso che il testimone, anche in buona fede, riferisce sempre e comunque una sua interpretazione del fatto, cfr.
G. Gulotta, Strumenti concettuali per agire nel nuovo processo penale. Metodologia giudiziaria, Milano, 1990, p. 118.
35
Il rilievo evidenzia le implicazioni esistenti tra il limite all’autodeterminazione ed il principio del nemo tenetur se detegere,
quando il limite in questione riguarda la posizione dell’imputato. Come correttamente affermato, se si ritenesse il preventivo
consenso dell’interessato sufficiente ad autorizzare la violazione della sua psiche, ciò «equivarrebbe ad un’indiretta coazione: se
la parte rifiuta d’assoggettarsi alla prova, come sottrarsi al sospetto d’una dissimulazione della verità? A questo punto il nemo
tenetur se detegere sarebbe seriamente compromesso» (F. Cordero, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano,
1973, p. 70). Sul punto, da ultimo, cfr. O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, cit., p. 34.
36
Al riguardo, cfr. I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, 1783, trad. it., Roma-Bari,
2002, pp. 208 ss.
37
Tra i tanti, cfr. G. Di Chiara, Il canto delle sirene: processo penale e modernità scientifico-tecnologica. Prova dichiarativa e
diagnostica della verità, in Criminalia, 2007, p. 19; G. Varraso, Neuroscienze e consulenza “investigativa”, cit., p. 264.
38
Conclusione, questa, ovviamente riferibile solo all’imputato e all’imputato di reato connesso ex art. 210 c.p.p.
39
Sull’argomento, si rinvia a P. Ferrua, Neuroscienze e processo penale, cit., p. 270.
40
L’inosservanza del divieto, attenendo ad un atto probatorio, è presidiata dalla sanzione generale dell’inutilizzabilità di cui
all’art. 191 c.p.p. In questa direzione, cfr. Cass., sez. I, 18 dicembre 2013, n. 4429, in Cass. pen., 2014, 11, 3844. Per completezza, si
rileva che una prova acquisita in violazione del principio di autodeterminazione, incidendo sulla libertà morale della persona,
inevitabilmente tocca i valori irrinunciabili della medesima. Il tema è coperto dalla c.d. prova incostituzionale che non può
trovare limiti applicativi in ragione del richiamo alla prova atipica. Sul punto, v. Corte cost., 26 novembre 1970, n. 175; Id., 4
aprile 1973, n. 34; Id., 26 febbraio 1993, n. 81; Id., 1 giugno 1998, n. 229, nonché, Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 16, in Cass. pen.,
2000, p. 3259; Id., sez. un., 23 febbraio 2000, n. 6, ivi, p. 2595; Id., sez. un., 27 marzo 1996, n. 5021, ivi, 1996, p. 3268.
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soggiacendo alla medesima verifica scientifica. Si tratta di un effetto naturale del più complesso “contesto” probatorio del processo. Questo, infatti, non vive i fatti dimostrativi in maniera “atomistica” ma,
anzi, in stretto collegamento tra di loro; collegamento che non consente di ignorare le interrelazioni fra
gli “elementi” di prova che si pongono in termini di confutazione o riscontro.
Ed è proprio la connessione esistente tra i diversi elementi conoscitivi che impone degli stessi una
trattazione normativa unitaria e indifferenziata, almeno con riferimento al momento della valutazione.
Come è agevole notare, la materia prescinde dalle tematiche sulla effettiva scientificità del metodo 41 e
coinvolge meccanismi che, a ben vedere, presidiano anche un’esigenza di eguaglianza processuale.
UN CASO EMBLEMATICO
I timori rappresentati trovano una diretta conferma in sede operativa nell’unico caso giudiziario in
cui si è applicata la verifica dello I.A.T. ai fini della ricostruzione del fatto. In quel contesto, a fronte di
dichiarazioni contrastanti tra il teste, persona offesa e imputato, si è deciso di procedere, attraverso il
test neuroscientifico, alla verifica delle dichiarazioni. Si tratta, quindi, di un’evenienza in cui la “confutazione scientista” si aggiunge al metodo epistemico del contraddittorio. Quest’ultimo, evidentemente,
aveva lasciato un’incertezza nel giudicante il quale, nell’analizzare dichiarazioni contrastanti, concludeva nel senso di non potersi «ricavare elementi certi né a favore dell’accusa né a sfavore della difesa» 42. Di
qui, il ricorso alla verifica scientifica praticato solo con riferimento alle dichiarazioni della persona offesa. L’esito positivo di tale procedura ha condotto ad un giudizio processuale di maggiore credibilità di
quanto riferito da quest’ultima. Al di là del risultato processuale non può farsi a meno di rilevare come,
a fronte di una situazione probatoria incerta, che per regola normativa avrebbe imposto un esito assolutorio, si è pervenuti ad una sentenza di condanna sulla base della valutazione di un elemento di prova
che, non in forza dei contenuti dichiarativi, assume un connotato privilegiato. E, nel momento in cui lo
I.A.T. si esperisce sulle affermazioni della persona offesa, svela una chiara matrice accusatoria diretta a
rimuovere quella situazione di incertezza conoscitiva in relazione a cui codificate regole di giudizio
avrebbero imposto l’assoluzione 43. Il caso esaminato consente di toccare con mano la forza del limite
all’autodeterminazione del dichiarante capace di definire la compatibilità della metodica di verifica
neuroscientifica.
41
Con la sentenza del 28 giugno 1993 – caso Daubert – la Corte Suprema Federale degli Stati Uniti ha indicato i criteri in
forza dei quali il giudice può attribuire il valore di prova ad una conoscenza scientifica. In quella sede, nella sostanza, si affida al
giudice il ruolo di custode del metodo, evidenziandosi gli indici valutativi di riferimento, che si sostanziano in: 1) Verificabilità
del metodo, secondo la quale una teoria può dirsi “scientifica” solo nella misura in cui può essere dimostrata mediante esperimenti; 2) Falsificabilità, secondo cui una teoria scientifica deve essere sottoposta a tentativi di falsificazione che, in ipotesi di
esito negativo, ne confermano l’attendibilità; 3) Sottoposizione al controllo della comunità scientifica: il metodo deve essere stato
inserito in riviste specializzate, così da poter essere verificato dalla comunità scientifica; 4) Conoscenza del tasso d’errore: è
necessario che il giudice sia a conoscenza, per ogni metodo proposto, di quali sia la percentuale di errore accertato; 5) Generale
accettazione: il giudice deve valutare se il metodo gode di una generale accettazione all’interno della comunità scientifica. La
Corte Suprema ha inoltre precisato che non si tratta di criteri tassativi, che non è necessaria la loro coesistenza e che il giudice
può utilizzarne anche diversi. Tali criteri sono sostanzialmente stati recepiti anche da Cass., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786,
in Cass. pen., 2011, p. 1679, dove si è affermato che «il giudice non può certamente assumere un ruolo passivo di fronte allo scenario del
sapere scientifico, ma deve svolgere un penetrante ruolo critico, divenendo (come è stato suggestivamente affermato) custode del metodo
scientifico».
42
Così, Trib. Cremona, (g.u.p.), 19 luglio 2011, in Riv. it. med. leg., 2012, 2, p. 748.
43
Emerge chiaramente come l’integrazione istruttoria ex officio tenda a rimuovere quella situazione che, secondo la specifica
regola di giudizio dell’«oltre ragionevole dubbio», avrebbe imposto un esito assolutorio. In tal modo, però, l’azione del giudice
sulla prova tende a colmare la lacuna probatoria dell’accusa la quale è gravata da un onere dimostrativo. Accade, così, che il
giudice, organo che il costituente pretende terzo e imparziale, entra nella “mischia probatoria”, in soccorso di quella parte che
non ha assolto il compito di sovvertire la presunzione di non colpevolezza. Ma, in tal modo, inevitabilmente prende posizione e
disperde quei connotati soggettivi che costituiscono la “condizione” del giusto processo. Sul tema, sia consentito il rinvio a F. R.
Dinacci, Giurisdizione penale e giusto processo verso nuovi equilibri, cit., p. 77.
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LA NECESSARIA “PREVALENZA” DI UNA VALUTAZIONE LOGICO-RAZIONALE
Peraltro, proprio con riferimento al quantum dimostrativo delle neuroscienze, deve rimarcarsi come
le stesse, fondandosi su una valenza statistica, abbiano un contenuto indiziario che, a ben vedere, si
fonda su una generalizzazione empirica ricavata induttivamente dall’esperienza comune e avulsa dal
fatto concreto da dimostrare. In altre parole, si è al cospetto del risultato di un’induzione in cui si desume, da ipotesi particolari, una regola generale per poi passare ad un ragionamento caratterizzato
dall’applicazione, al caso concreto, della regola conoscitiva ricavata. Tale realtà manifesta l’incertum
probatorio che sbiadisce nella misura in cui la regola dell’esperienza è sottoposta ad un processo di falsificazione dei casi contrari.
In sostanza, quel che preme evidenziare è che l’indagine neuroscientifica, ricavando empiricamente i suoi risultati, non è comunque portatrice di certezze ricostruttive, ma viene a costituire un fattore,
tra gli altri, che assume maggiore credibilità quando è assoggettato a verifica confutazionista. Il rilievo, si badi bene, è diverso da quello della “scientificità” del metodo; anche a volerlo dare per scontato, non va dimenticato che qui la scientificità si ricava da generalizzazioni esperienziali che, sebbene
rese più concrete da asserzioni generalmente accertate, comunque traggono fondamento da una base
statistica.
Il tema assume ancora più rilevanza ove si consideri che i risultati neuroscientifici, e dello I.A.T. in
particolare, non producono (recte, produrrebbero) una dimostrazione della corrispondenza di quanto
dichiarato al fatto storico da accertare; essi, infatti, si limitano a verificare la rispondenza del narrato al
ricordo del propalante. Ma quest’ultimo, come noto, inevitabilmente procede ad una rielaborazione del
fatto che riferisce; ogni soggetto è dotato di diversi processi mnestici dovuti all’attenzione, ai pregiudizi
sul tema, agli stereotipi generalizzati che possono condurre a descrivere un fatto percepito in buona fede in modo diverso da come realizzatosi 44.
Tali tematiche inerenti la psicologia della testimonianza, unitamente alla consapevolezza che le
indagini neuroscientifiche traggono origine da produzioni statistiche, vanno ad aggiungersi ai profili
di critica della concludenza probatoria della verifica neuroscientifica. Ad ogni modo, se è vero che il
giudice, con riferimento alla prova scientifica, si pone come “consumatore” 45 della stessa, non è controvertibile che esso debba comunque verificarne l’affidabilità e la sua adattabilità alla fattispecie. E,
nel caso delle neuroscienze, è anche da prendere in considerazione la possibilità che il soggetto, sottopostosi all’esame, risulti in grado di resistere alla verifica alterandone i risultati. In sostanza, nessuno può escludere la capacità umana di confondere la “verifica scientifica” di quanto dichiarato. Anzi,
la casistica ha già dimostrato che ciò può accadere 46. Ecco allora che l’autonomia del momento valutativo del giudice non solo riemerge ma dimostra come non possa mai essere accantonata in omaggio
a una deriva positivistica della valutazione delle prove. Questa, infatti, non è una mera “tecnica di
accertamento”, bensì un percorso logico-razionale diretto a ricavare dal dato il valore che veicola. Ciò
necessariamente postula la consapevolezza di un momento emozionale della funzione di giudizio.
Tuttavia, lo stesso è insopprimibile, come dimostrato dalla distinzione tra il momento della decisione
e quello della motivazione. Questo altro non è che l’atto di intelligenza postuma del giudice in cui si
esplicita, attraverso percorsi logico-razionali, il momento della decisione. Di qui, la necessità che il
controllo della correttezza di tale sentiero debba effettuarsi sulla motivazione. L’art. 192 c.p.p., prescrivendo che il giudice valuti la prova dando conto dei «risultati acquisiti» e dei «criteri adottati», lo
vincola ad un redde rationem.
Non deve peraltro sfuggire come una motivazione anche sui «criteri adottati» indichi un’esigenza
normativamente imposta di uniformità di valutazione della prova, oltre che del suo corretto giudizio,
che deve passare attraverso una verifica resistente a falsificazioni del metodo scientifico 47.
44
Sull’argomento, si rimanda all’indagine di A. Pagliano, La formazione e le nuove frontiere della valutazione della prova
dichiarativa, cit., p. 122.
45
Sul tema, v. F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale. Il nesso di condizionamento tra azione ed evento,
Milano, 1975, p. 153.
46
Cfr. L. Algeri, Neuroscienze e testimonianza della persona offesa, in Riv. it. med. leg., 2012, 3, p. 903, dove si relaziona in ordine
al risultato di esperimenti realizzati con il metodo I.A.T., in cui i soggetti hanno dimostrato la capacità di confondere il computer.
47
In tal senso, cfr., volendo, F.R. Dinacci, Le regole generali delle prove, cit., p. 807.
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Solo nel rispetto delle segnalate regole epistemologiche e della verifica logico-razionale del come tali
regole vengono utilizzate si riesce a non abdicare alla funzione di giudizio in favore della pretesa scientifica 48.
48
Sul tema, si richiamano le puntuali osservazioni di P. Ferrua, Prove, in AA.VV, Diritto processuale penale. Appunti per gli
studenti di psicologia, Torino, 2011, p. 77, dove si precisa che le ragioni di perplessità verso siffatte tecniche «derivano dalla
struttura stessa di queste prove nelle quali la persona, proprio nell’atto di parola che dovrebbe vederla come partecipe di un
processo comunicativo, degrada a mero oggetto di osservazione e di analisi. L’aspetto vagamente inquietante è che qui l’atto di
parola non venga più in rilievo come momento di dialogo e occasione di ascolto, ma sia analizzato e per così dire trattato
“chimicamente” allo scopo di estrarne informazioni alla stessa stregua con cui si effettua un esame ematologico o si ispeziona
un organo. Anche nella testimonianza, come si accennava, si osservano i tratti paralinguistici del discorso; ma lì assumono
rilevanza come elementi di riscontro di un dialogo che si svolge nel contraddittorio e in cui si parla per essere creduti. Qui,
invece, il rapporto si inverte perché non si risponde per essere ascoltati né per essere creduti; la parola non è più un mezzo
comunicativo, ma serve da elemento di informazione solo attraverso l’analisi dei tempi di reazione (o, in altre tecniche, delle
neuroimmagini). Nell’inevitabile bilancio tra costi e benefici forse l’antico e illustre metodo della cross-examination può ancora
riuscire vittorioso».
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Scenari
Overviews
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NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
NATIONAL LEGISLATIVE NEWS
di Rossella Fonti
DISPOSIZIONI PER LA FORMAZIONE DEL BILANCIO ANNUALE E PLURIENNALE DELLO STATO (LEGGE DI
STABILITÀ 2016)
(Legge 28 dicembre 2015, n. 208)
La c.d. legge di stabilità 2016, ossia la legge n. 208/2015 (in Gazz. Uff., 30 dicembre 2015, n. 302 entrata
in vigore il 1° gennaio 2016), apporta, tra le altre, significative modifiche alla disciplina dettata dalla
legge 24 marzo 2011, n. 89 (c.d. Legge Pinto), in tema di equa riparazione in caso di violazione della durata ragionevole del processo. Al dichiarato fine di razionalizzare i costi di tale riparazione, l’art. 1,
comma 777, legge n. 208/2015 prevede in ordine a tutti i giudizi interessati dalla legge Pinto alcune misure “restrittive”: riduzione dell’entità dell’indennizzo, introduzione di “rimedi preventivi” al cui esperimento viene subordinata l’ammissibilità della domanda di riparazione, rimodulazione delle cause/condizioni ostative al riconoscimento dell’indennizzo, nonché individuazione di situazioni in cui si
presume, fino a prova contraria, l’insussistenza del pregiudizio.
Con specifico riferimento al procedimento penale, il rimedio preventivo consiste nella proposizione
di un’istanza di accelerazione che l’imputato e le altre parti del processo devono depositare, personalmente o mediante procuratore speciale, almeno sei mesi prima che siano decorsi i termini di durata ragionevole del processo ex art. 2, comma 2-bis, legge n. 89/2011. La mancata attivazione di tale rimedio
determina l’inammissibilità della domanda di equa riparazione.
Nell’ambito delle situazioni per le quali è fissata una presunzione relativa di insussistenza del pregiudizio figura – in relazione al processo penale e limitatamente all’imputato – anche la dichiarazione
di intervenuta prescrizione, evidentemente sul presupposto che essa costituisca per l’imputato un vantaggio conseguito per effetto dell’irragionevole durata del processo.
Per ciò che concerne l’importo liquidabile a titolo di equa riparazione, si prevede che, di regola, la
somma di denaro sia non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di
anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. La somma liquidata
può essere incrementata fino al 20% per gli anni successivi al terzo e fino al 40% per gli anni successivi
al settimo, oppure diminuita fino al 20% quando le parti del processo sono più di 10 e fino al 40% se sono più di cinquanta.
Ulteriori modifiche riguardano l’individuazione del giudice competente: si abbandona il criterio di
determinazione della competenza di cui all’art. 11 c.p.p., stabilendo che il ricorso debba essere proposto
al presidente della Corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il
primo grado del processo presupposto. In ogni caso, non può essere designato quale giudice della riparazione quello del processo di cui si lamenta l’irragionevole durata. A proposito dell’erogazione
dell’indennizzo agli aventi diritto, è disposto che essa avviene nei limiti delle risorse disponibili nel relativo capitolo, ma è fatto salvo il ricorso al conto sospeso.
Viene introdotta una specifica disciplina in tema di modalità di pagamento, in base alla quale il creditore è tenuto a rilasciare all’amministrazione debitrice una dichiarazione, ai sensi degli artt. 46 e 47
d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445, attestante la mancata riscossione delle somme per il titolo, l’esercizio di
azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a versare, la modalità di riscossione prescelta, nonché a trasmettere la documentazione necessaria. Il
termine entro cui è prevista la corresponsione delle somme è fissato in sei mesi dalla data in cui sono
integralmente assolti gli obblighi sopra menzionati. Alla stregua della disciplina transitoria, nei processi
la cui durata al 31 ottobre 2016 ecceda i termini ragionevoli di cui all’articolo 2, comma 2-bis, legge n.
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89/2011 e in quelli assunti in decisione alla stessa data non si applicano le nuove previsioni in tema di
rimedi preventivi.
La legge di stabilità 2016 contiene, inoltre, alcune previsioni che riguardano il patrocinio a spese dello Stato. In particolare, è aggiunto all’art. 83 d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 il comma 3 bis, ai sensi del
quale il decreto di pagamento per onorari e spese spettanti al difensore, all’ausiliario del magistrato e al
consulente tecnico di parte è emesso dal giudice contestualmente alla pronuncia del provvedimento che
chiude la fase cui si riferisce la relativa richiesta. Infine, l’art. 1, comma 778, legge n. 208/2015 stabilisce
che i soggetti che vantano crediti per spese, diritti e onorari di avvocato, sorti ai sensi degli artt. 82 e ss.
d.p.r. n. 115/2002, in qualsiasi data maturati e non ancora saldati, sono ammessi alla compensazione
con quanto da essi dovuto per ogni imposta e tassa, compresa l’IVA, nonché al pagamento dei contributi previdenziali.
ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA 2012/29/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO, DEL 25 OTTOBRE 2012, CHE ISTITUISCE NORME MINIME IN MATERIA DI DIRITTI, ASSISTENZA E PROTEZIONE DELLE VITTIME DI REATO E CHE SOSTITUISCE LA DECISIONE QUADRO 2001/220/GAI
(Decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 di attuazione della Direttiva 2012/29/UE, che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI)
In attuazione della delega conferita al Governo con la legge 6 agosto 2013, n. 96, il d.lgs. n. 212/2015 (in
Gazz. Uff., 5 gennaio 2016, n. 3, entrato in vigore il 20 gennaio 2016) introduce disposizioni processuali
volte a conformare il diritto interno alle previsioni della Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Tale Direttiva – che sostituisce
la decisione quadro 2001/220/GAI – costituisce una delle più recenti e significative espressioni della
politica “vittimocentrica” perseguita dal legislatore europeo. Nel delineare lo standard minimale di tutela che gli Stati membri sono tenuti a garantire alle vittime dei reati, la Direttiva 2012/29/UE detta un
insieme di prescrizioni che investono i profili della partecipazione, compensazione, protezione, informazione e assistenza alle vittime.
Rispetto al complesso e articolato quadro normativo in questione, il d.lgs. n. 212/2015 risulta abbastanza scarno quanto a innovazioni apportate al codice di procedura penale. Nella Relazione che accompagna lo schema di decreto si giustifica la “snella natura” del provvedimento de quo sulla base del
rilievo che il diritto interno risulterebbe già sostanzialmente conforme – salve le disposizioni introdotte
– alle indicazioni della Direttiva. Si tratta di un giudizio eccessivamente generoso, posto che in relazione a diversi aspetti – quali, ad esempio, gli spazi riservati alla mediazione, i diritti di partecipazione al
procedimento, la presenza di servizi e/o sportelli destinati al supporto e al sostegno delle vittime – il
nostro sistema processuale appare piuttosto distante dal modello basico tratteggiato dalla Direttiva, la
cui piena attuazione avrebbe richiesto (e continua a richiedere) un intervento normativo ben più incisivo e pregnante di quello realizzato con il decreto in esame. In definitiva, il d.lgs. n. 212/2015 sembra
realizzare un’attuazione minimalista della Direttiva, limitandosi ad incidere solo sulle macroscopiche
divergenze e carenze riscontrate nel sistema interno.
Quanto alle innovazioni apportate, rilevano anzitutto le interpolazioni al testo dell’art. 90 c.p.p. nel
quale vengono inserite due aggiunte: la prima – il neo introdotto comma 2-bis – impone al giudice, in
caso di incertezza circa la minore età della persona offesa dal reato, di procedere ad apposito accertamento tecnico, sancendo peraltro che qualora il dubbio permanga anche a seguito di tale verifica, si
presume la minore età ai soli fini dell’applicazione delle norme processuali di tutela previste per i minori; la seconda – integrazione del comma 3 – estende anche alla persona legata alla vittima «da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente» i diritti e le facoltà riconosciuti ai prossimi congiunti
della persona offesa deceduta in conseguenza del reato.
Due distinti nuclei di nuove disposizioni concernono, rispettivamente, il diritto all’informazione e il
diritto di comprendere ed essere compresi, i quali, essendo volti a rendere la vittima consapevole dello
svolgimento del procedimento e delle prerogative che in esso può esercitare, risultano strumentali e
funzionali alla tutela dei diritti alla partecipazione, protezione e compensazione.
Al rafforzamento del diritto all’informazione si ricollega, anzitutto, il nuovo art. 90-bis c.p.p. che, nel
riprodurre pedissequamente le previsioni di cui all’art. 4 della Direttiva, elenca le informazioni che, sin da
primo contatto con l’autorità, devono essere fornite alla persona offesa, in una lingua ad essa comprensiSCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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bile. Più in dettaglio, si tratta di informazioni che attengono alle modalità di presentazione delle denunce
o querele e al ruolo e ai diritti accordati alla persona offesa nelle indagini e nel processo, anche nell’eventualità in cui risieda in uno Stato membro dell’Unione europea diverso da quello in cui è stato commesso
il reato; alle facoltà di ricevere informazioni sul corso del processo e di essere avvisata nel caso di richiesta
di archiviazione; alle facoltà di avvalersi della consulenza legale (anche a spese dello Stato) e dell’assistenza dell’interprete; alle eventuali misure di protezione; alle modalità di contestazione di eventuali violazioni dei propri diritti; alle modalità per ottenere il rimborso delle spese sostenute in relazione alla partecipazione al processo penale; alla possibilità di richiedere il risarcimento dei danni derivanti da reato;
alla possibilità che il procedimento sia definito con la remissione della querela o con la mediazione; alle
prerogative riconosciute alla persona offesa nei procedimenti in cui l’imputato richieda la sospensione del
processo con la messa alla prova o in quelli in cui è applicabile la causa di esclusione della punibilità per
particolare tenuità; alle autorità cui rivolgersi per ottenere informazioni sul procedimento e alle strutture
sanitarie presenti sul territorio, alle case famiglia, ai centri antiviolenza e alle case rifugio.
Al comparto dei diritti di informazione è, altresì, ascrivibile il neo introdotto art. 90-ter c.p.p. che, in
attuazione dell’art. 6, § 5, della Direttiva, prevede, nei procedimenti per delitti commessi con violenza
alla persona, la comunicazione alla persona offesa (che ne faccia richiesta) dei provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, nonché dell’evasione dell’imputato in stato
di custodia cautelare o del condannato e della volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della
misura di sicurezza detentiva, salvo che risulti il pericolo concreto di un danno per l’autore del reato.
Quanto alle disposizioni volte a potenziare il diritto della vittima di comprendere e di essere compresa nel processo penale, si segnala l’introduzione dell’art. 143-bis c.p.p., che, nel dettare una specifica
disciplina della nomina dell’interprete e del diritto alla traduzione, colma le evidenti lacune esibite dal
codice a proposito delle garanzie da accordare in caso di deficit linguistico della persona offesa. Più in
particolare, per un verso, è prevista la nomina gratuita dell’interprete quando occorre procedere all’audizione della persona offesa che non conosce la lingua italiana, nonché nei casi in cui la stessa intenda
partecipare all’udienza e abbia fatto richiesta di essere assistita dall’interprete, precisandosi che l’assistenza in questione può essere fornita, ove possibile e qualora ciò non determini un vulnus all’esercizio delle prerogative della persona offesa, anche mediante l’utilizzo delle tecnologie di comunicazione
a distanza. Per altro verso, è garantito alla persona offesa che non conosce la lingua italiana il diritto alla traduzione gratuita – in forma scritta o orale – di atti, o parti degli stessi, che contengono informazioni utili all’esercizio dei suoi diritti. A completamento di tale disciplina, l’art. 107-bis norme att. c.p.p. riconosce alla persona offesa non italoglotta il diritto di utilizzare una lingua a lei conosciuta in occasione
della presentazione di denuncia o querela e di ottenere – su richiesta – la traduzione dell’attestazione di
ricezione di tali atti.
Un altro più corposo insieme di previsioni del decreto è volto a soddisfare le esigenze di assistenza e
di protezione delle vittime particolarmente vulnerabili, al fine di scongiurare il rischio – particolarmente concreto per esse – della c.d. vittimizzazione secondaria in occasione e durante lo svolgimento del
processo penale. Profilo assolutamente centrale nella politica normativa europea, la tematica della particolare vulnerabilità viene affrontata dal decreto in esame in otto disposizioni che, nel recepire le previsioni degli artt. 22 e 23 della Direttiva, puntano a superare le lacune e le asimmetrie esibite dall’ordinamento interno, nel quale solo in tempi recenti ed in modo frammentario era stato apprestato un sistema di tutela/protezione. Al riguardo, una prima significativa novità è costituita dall’inserimento
dell’art. 90-quater c.p.p., in cui vengono delineati gli elementi che consentono di desumere la sussistenza della condizione di particolare vulnerabilità. In linea con le previsioni della Direttiva (art. 22) – che
richiede una valutazione individuale delle vittime per individuarne le specifiche esigenze di protezione, riservando solo ai minori una presunzione di vulnerabilità –, è previsto che la categoria de qua venga
individuata in base non solo al titolo di reato, ma anche all’età, allo stato di infermità o di deficienza
psichica e alle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Nella valutazione della condizione di
particolare vulnerabilità si deve tener conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con
odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, ed infine se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato.
Al cospetto di una vittima particolarmente vulnerabile si applicano speciali norme di tutela che ruotano intorno a tre profili-obiettivi: evitare il più possibile che la vittima entri in contatto con l’autore del
reato, assicurare che l’audizione venga svolta con modalità protette e che essa tendenzialmente non sia
destinata ad essere reiterata nel corso del processo. Più in particolare, nella fase delle indagini prelimiSCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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nari, le garanzie in questione sono racchiuse, anzitutto, nelle aggiunte apportate, con identica formulazione, agli artt. 351, comma 1-ter, e 362, comma-1 bis, c.p.p. nei quali si prevede, in primo luogo, che nel
corso delle assunzioni delle sommarie informazioni della polizia giudiziaria e delle informazioni del
pubblico ministero, ci si avvalga dell’ausilio di un esperto in psicologia; è prescritto, inoltre, che la persona offesa particolarmente vulnerabile non abbia contatti con la persona sottoposta ad indagini e non
sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni, salva l’assoluta necessità per le indagini. Altre
novità concernono la disciplina dell’incidente probatorio: da un lato, l’assunzione della testimonianza
della persona offesa particolarmente vulnerabile assurge ad autonomo caso di incidente probatorio (art.
392, comma 1-bis, c.p.p.); dall’altro lato, è stabilito espressamente (art. 398, comma 5-quater, c.p.p.) che a
tale audizione si applichino le previsioni dell’art. 498, comma 4-quater, c.p.p., così come riformulato dallo stesso decreto. Con riferimento a quest’ultima disposizione, le modifiche apportate si sostanziano,
essenzialmente, nell’eliminazione del richiamo a specifiche categorie di reati: in definitiva, ove si tratti
di persona offesa particolarmente vulnerabile e sempre che essa o il suo difensore ne facciano richiesta,
l’esame dovrà essere svolto con le modalità protette. A proposito dell’esame dibattimentale, un’altra significativa novità è rappresentata dall’ampliamento dell’operatività dei limiti alla (ri)assunzione di dichiarazioni ex art. 190-bis c.p.p.: qualora l’esame testimoniale richiesto riguardi una persona offesa in
condizione di particolare vulnerabilità, esso può essere ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle dichiarazioni già assunte (in incidente probatorio o in dibattimento o acquisite ai sensi dell’art. 238 c.p.p.), ovvero se il giudice o una delle parti lo ritengano necessario sulla
base di specifiche esigenze. In coerenza con la scelta di ridurre le occasioni di ripetizione dell’audizione
di tali categorie di vittime, si è interpolata la parte finale dell’art. 134 c.p.p., disponendo che, anche al di
fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilità, è in ogni caso consentita la riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni della persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità.
Ultima previsione introdotta dal decreto in esame è il neo introdotto art. 108-ter disp. att. c.p.p. che
impone ai procuratori generali presso le Corti d’appello – compulsati dai procuratori della Repubblica
– di inviare all’autorità giudiziaria competente le denunce/querele presentate da persone offese residenti o domiciliate in Italia per reati commessi in altri Stati dell’Unione Europea.
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI ABROGAZIONE DI REATI E INTRODUZIONE DI ILLECITI CON SANZIONI PECUNIARIE CIVILI, A NORMA DELL’ART. 2, COMMA 3, LEGGE 28 APRILE 2014, N. 67
(Decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7)
Il d.lgs. n. 7/2016 (in Gazz. Uff., 22 gennaio 2016, n. 17, in vigore dal 6 febbraio 2016) e il d.lgs. n. 8/2016
(rispetto al quale v. infra) attuano la delega conferita al governo dalla legge n. 67 del 2014, il cui art. 2,
commi 2 e 3, prevedeva un’ampia depenalizzazione (con trasformazione in illeciti amministrativi o in
illeciti civili) di numerosi reati previsti nel codice penale e nelle leggi speciali. Posto che la depenalizzazione apportata dai decreti in esame attiene a reati bagatellari, essa sembra destinata a favorire una decongestione del carico giudiziario penale, e non anche a realizzare una riduzione della popolazione carceraria.
Per ciò che riguarda il d.lgs. n. 7/2016, le novità introdotte si sostanziano nell’abrogazione di determinati reati (falsità in scrittura privata e in foglio firmato in bianco in caso di atto privato, ingiuria, sottrazione di cose comuni e appropriazione di cose smarrite, tesoro o cose avute per errore o caso fortuito), nell’eliminazione delle disposizioni che ad essi facevano riferimento, nella modifica degli articoli
concernenti i reati di danneggiamento (essenzialmente al fine di eliminare la repressione del danneggiamento non aggravato che era prevista nell’art. 635, comma 1, c.p.), nonché nell’introduzione degli
(inediti) “illeciti civili sottoposti a sanzione pecuniaria”, che costituisce il fulcro del provvedimento normativo in esame.
L’elemento caratterizzante la disciplina degli illeciti sottoposti a sanzione pecuniaria è la stretta interdipendenza con l’azione risarcitoria. Tale vincolo si manifesta non solo nel fatto che si tratta di fattispecie – sostanzialmente corrispondenti ai reati abrogati dal medesimo decreto – dalle quali scaturiscono sia obblighi risarcitori verso il privato danneggiato, sia (se dolosi) l’obbligo verso lo Stato al pagamento di una sanzione pecuniaria alla Cassa delle ammende, quanto (e soprattutto) nella circostanza
che la decisione in merito all’applicazione della sanzione pecuniaria è espressamente subordinata all’accoglimento della domanda risarcitoria. Detto in altri termini, solo là dove il danneggiato proponga
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l’azione risarcitoria e questa sia accolta, il medesimo giudice civile deciderà, al termine del giudizio di
danno e con l’osservanza delle disposizioni del processo civile, se applicare anche la sanzione civile.
Circa i criteri di commisurazione delle sanzioni pecuniarie civili (di cui vengono fissati i limiti minimi e massimi), il giudice dovrà tener conto della gravità della violazione, dell’arricchimento del soggetto responsabile, dell’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze
dell’illecito, della personalità dell’agente e delle sue condizioni economiche, nonché della reiterazione
dell’illecito. A quest’ultimo proposito, l’art. 6 d.lgs. n. 7/2016 precisa che si ha reiterazione nel caso in
cui l’illecito sottoposto a sanzione pecuniaria civile sia compiuto, da parte dello stesso soggetto, entro
quattro anni dalla commissione di un’altra violazione sottoposta a sanzione pecuniaria civile, che sia
della stessa indole e sia stata accertata con provvedimento esecutivo.
Quanto ad altri peculiari profili della disciplina, si segnalano specialmente il termine di prescrizione
quinquennale di cui all’art. 2947, comma 1, c.c. (richiamato dall’art. 3 d.lgs. n. 7/2016) e la previsione
secondo cui nel caso di concorso di persone, ciascuna di esse soggiace alla sanzione pecuniaria civile
stabilita per l’illecito in questione.
Termini e modalità per il pagamento della sanzione pecuniaria civile, nonché le forme per la riscossione dell’importo dovuto verranno stabiliti con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze, entro sei mesi dall’entrata in vigore del provvedimento de quo. È
comunque previsto che il giudice possa disporre un pagamento rateale (da due a otto rate con importo
non inferiore a 50 euro), il cui mancato assolvimento tempestivo anche di una sola rata determina il dovere di corrispondere il residuo in un’unica soluzione, e che il condannato possa estinguere, in qualsiasi
momento, la sanzione pecuniaria con un unico pagamento; non è ammessa alcuna forma di copertura
assicurativa per il pagamento della sanzione pecuniaria civile. È espressamente sancita, inoltre, la non
trasferibilità agli eredi dell’obbligo della sanzione pecuniaria.
In ordine ai profili intertemporali, l’art. 12 del decreto dispone che le sanzioni pecuniarie civili si applicano anche per i fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 7/2016, «salvo che il
procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili». Peraltro, qualora il giudicato di condanna concerna i reati abrogati, il giudice dell’esecuzione procederà a revocare –
nell’osservanza delle forme di cui all’art. 667, comma 4, c.p.p. (art. 12, comma 2, d.lgs. n. 7/2016) – la
sentenza o il decreto penale di condanna, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato
e adottando i provvedimenti conseguenti.
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI DEPENALIZZAZIONE, A NORMA DELL’ART. 2, COMMA 2, LEGGE 28 APRILE
2014, N. 67
(Decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8)
Il d.lgs. n. 8/2016 (in Gazz. Uff., 22 gennaio 2016, n. 17, in vigore dal 6 febbraio 2016) attua la delega conferita dalla legge n. 67/2014 in tema di depenalizzazione con contestuale trasformazione in illeciti amministrativi di numerosi reati previsti dal codice penale e dalle leggi speciali.
La depenalizzazione realizzata dal provvedimento in esame concerne, anzitutto, le violazioni per le
quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, incluse quelle che nelle ipotesi aggravate sono
punite con la pena detentiva, sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria (in tali casi è previsto che
le ipotesi aggravate diventino fattispecie autonome di reato). Numerose sono, peraltro, le deroghe a tale
previsione generale: la depenalizzazione dei reati puniti con la sola pena pecuniaria non si applica, infatti, alle violazioni previste dal t.u. in tema di immigrazione (sebbene la legge n. 67/2014 includesse
nella delega anche il reato di clandestinità) e da alcune leggi speciali elencate nell’allegato al decreto (si
tratta di quelle in materia di edilizia e urbanistica, di ambiente, territorio e paesaggio, di alimenti e bevande, di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, di sicurezza pubblica, di armi ed esplosivi, di elezioni
e finanziamento ai partiti e di proprietà intellettuale e industriale), nonché ai reati disciplinati dal codice penale, ad eccezione degli atti contrari alla pubblica decenza (tale reato, attribuito alla competenza
del giudice di pace, era punito, ai sensi dell’art. 52, comma 2, lett. a), d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, con la
sola sanzione dell’ammenda).
La depenalizzazione con contestuale trasformazione in illecito amministrativo investe, inoltre, anche
alcuni reati puniti con pene detentive, sole, congiunte o alternative a pene pecuniarie previsti da leggi
speciali (v., tra gli altri, il reato di omesso versamento di contributi di cui all’art. 2, comma 1-bis, legge
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12 settembre 1983, n. 463, conv. in legge 11 novembre 1983, n. 638) e dal codice penale; a quest’ultimo
proposito, le fattispecie sono quelle atti osceni ex art. 527, comma 1, c.p., pubblicazioni e spettacoli
osceni ex art. 528, commi 1 e 2, c.p., rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto ex art.
652 c.p., abuso della credulità popolare ex art. 661 c.p., rappresentazioni teatrali o cinematografiche
abusive ex art. 668 c.p.
Per gli illeciti amministrativi che sostituiscono i reati previsti da leggi speciali e puniti con la sola
pena pecuniaria la sanzione amministrativa è individuata sulla base di scaglioni corrispondenti ai diversi importi della pena pecuniaria che era prevista (art. 1, comma 5, d.lgs. n. 8/2016); per tutti gli altri
illeciti amministrativi la sanzione è invece stabilita di volta in volta (cfr. artt. 2 e 3 d.lgs. n. 8/2016). Per
alcuni illeciti amministrativi sono, inoltre, previste determinate sanzioni amministrative accessorie (sospensione della concessione, della licenza, dell’autorizzazione o di altro provvedimento amministrativo
che consente l’esercizio dell’attività), qualora sia stata accertata la reiterazione delle violazioni in questione.
Nel procedimento per l’applicazione delle sanzioni amministrative si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Alcune peculiarità si registrano a proposito della disciplina intertemporale. In proposito, l’art. 8,
comma 1, del decreto dispone – analogamente a quanto previsto nel d.lgs. n. 7/2016 – che le sostituzioni delle sanzioni penali con quelle amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 8/2016, «sempre che il procedimento penale non sia stato
definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili». Nell’eventualità in cui i procedimenti per i
reati depenalizzati siano stati definiti con provvedimento irrevocabile, spetterà al giudice dell’esecuzione – nell’osservanza delle forme di cui all’art. 667, comma 4, c.p.p. – revocare la sentenza o il decreto,
dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adottando i provvedimenti conseguenti
(art. 8, comma 2, d.lgs. n. 8/2016). In ogni caso, ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore del
decreto non potranno essere applicate sanzioni amministrative di importo superiore al massimo della
pena originariamente inflitta per il reato e neppure le sanzioni amministrative accessorie, salvo che
queste ultime sostituiscano corrispondenti pene accessorie (art. 8, comma 3, d.lgs. n. 8/2016).
A completamento della disciplina in questione, si prevede che, entro novanta giorni dall’entrata in
vigore del provvedimento, l’autorità giudiziaria procedente è tenuta a trasmettere all’autorità amministrativa competente – individuata ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 8/2016 – gli atti dei procedimenti penali
relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra
causa alla medesima data (art. 9, comma 1, d.lgs. n. 8/2016). Più in particolare, se l’azione penale non è
stata ancora esercitata alla trasmissione degli atti dovrà provvedere direttamente il pubblico ministero,
salvo che il reato risulti estinto per qualsiasi causa (in tale eventualità il p.m. dovrà invece richiedere
l’archiviazione e non si procederà alla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa). Qualora
l’azione penale sia stata esercitata, il giudice dovrà pronunciare, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., sentenza
inappellabile perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti
all’autorità amministrativa competente; nel caso di impugnazione avverso la sentenza di condanna, il
giudice, nel pronunciare la sentenza di proscioglimento, dovrà comunque decidere sull’impugnazione
ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Anche in
quest’ultimo caso, in forza delle previsioni dell’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 8/2016, sussiste il dovere di
trasmissione degli atti che viene meno – come si è già accennato – solo là dove il reato risulti prescritto
o estinto per altra causa.
L’autorità amministrativa alla quale sono trasmessi gli atti deve procedere a notificare gli estremi della violazione agli interessati entro 90 giorni (o 360 se occorre notificare l’atto all’estero). Entro 60 giorni
dall’avvenuta notifica, l’interessato è ammesso al pagamento in misura ridotta, pari alla metà della sanzione, oltre alle spese del procedimento; il pagamento determina l’estinzione del procedimento.
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Valentina Vasta
IL PROTOCOLLO ADDIZIONALE ALLA CONVENZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA PER LA PREVENZIONE DEL
TERRORISMO
Il Protocollo addizionale alla Convenzione per la prevenzione del terrorismo (STCE n. 196), elaborato
dal COD-CTE (Commettee on foreign Terrorism Fighters and Related Issue), su mandato del Comitato dei
Ministri, e sotto l’autorità del CODEXTER (Committee of Experts on Terrorism), è stato aperto alla firma il
22 ottobre 2015, a Riga.
Al 1° marzo 2016, sono 22 gli Stati firmatari: oltre all’Italia, anche l’Albania, il Belgio, la Bosnia e Erzegovina, la Bulgaria, l’Estonia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Grecia, l’Islanda, la Lettonia, il Lussemburgo, la Norvegia, i Paesi Bassi, la Polonia, la Slovenia, la Spagna (di cui si segnala
l’allegazione di una Dichiarazione del Ministro degli affari esteri), la Svezia, la Svizzera, la Turchia,
l’Ucraina; vi si aggiunge l’Unione europea.
La Convenzione per la prevenzione al terrorismo (Varsavia, 16 maggio 2005), mira ad accrescere
l’efficacia degli strumenti internazionali esistenti nell’ambito della lotta al terrorismo, e a consolidare la
cooperazione in materia di prevenzione a livello nazionale ed internazionale; è entrata in vigore sul
piano internazionale il 1° giugno 2007, ed è stata ratificata da 34 Paesi, ma non ancora dall’Italia (al riguardo, v. d.d.l. C. n. 3303 recante “Norme per il contrasto al terrorismo, nonché ratifica ed esecuzione: a) della
Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo, fatta a Varsavia il 16 maggio 2005; b) della Convenzione internazionale per la soppressione di atti di terrorismo nucleare, fatta a New York il 14 settembre
2005; c) del Protocollo di emendamento alla convenzione europea per la repressione del terrorismo, fatto a Strasburgo il 15 maggio 2003; d) della Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la
confisca dei proventi di reato, fatta a Varsavia il 16 maggio 2005”; in materia di contrasto al terrorismo, v. la
legge 17 aprile 2015, n. 43, in questa Rivista, 2015, n. 4, p. 14, e n. 3, p. 20).
Il Protocollo ha come obiettivo quello di rafforzare l’impegno alla prevenzione e repressione di ogni
forma di terrorismo, in particolare mira a contrastare il fenomeno crescente dei “foreign terrorist
fighters”.
Nel Rapporto esplicativo relativo al Protocollo (§ 5) si sottolinea che il fine principale è quello di integrare la Convenzione, con una serie di previsioni che riflettano ed attuino le prescrizioni della Risoluzione ONU 2178 (2014). Sullo sfondo del Protocollo alla Convenzione si pone, infatti, la citata Risoluzione ONU sulla minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale derivante dagli atti di terrorismo
(UNSCR 2178), adottata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 24 settembre
2014: essa, ha affrontato il tema dei “foreign terrorist fighters”, ponendo in luce la necessità di adottare
misure finalizzate al contenimento dei flussi di terroristi, soprattutto per gli Stati confinanti con zone di
conflitto armato. In base a quella Risoluzione, tutti gli Stati devono garantire una legislazione penale
idonea a prevenire e punire quegli individui che si recano in Stati diversi da quello di appartenenza con
lo scopo di attuare, pianificare, preparare atti terroristici, o che forniscono o ricevono finanziamenti o
“addestramento terroristico”, così come coloro che organizzano, oppure che offrono qualsiasi altro tipo
di contributo a tali attività.
Le Parti hanno, pertanto, convenuto nel Protocollo (art. 1), di integrare le disposizioni della Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo, attraverso la previsione di nuove figure di reato (artt. 2-6), così da rafforzare l’impegno nella prevenzione del terrorismo e dei suoi effetti
pregiudizievoli sul piano dei diritti umani, in particolare del diritto alla vita, sia con misure da adottare
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a livello nazionale, sia attraverso la cooperazione internazionale, nel rispetto delle intese multilaterali o
bilaterali vigenti fra gli Stati Parte.
In particolare, il Protocollo, da un lato, prescrive alle Parti di sanzionare alcune condotte di tipo preparatorio, che si pongono, cioè, allo “stadio iniziale” degli atti terroristici, senza che questi siano necessariamente portati a termine perché possano essere punite (artt. 2-6); dall’altro lato, mira a favorire la
cooperazione internazionale, attraverso la previsione dello scambio di informazioni (art. 7).
Gli artt. 2-6 vengono considerati nello stesso Rapporto esplicativo (§ 21), come il nucleo dell’intero Protocollo, perché descrivono cinque fattispecie criminose, rispetto alle quali s’impone alle Parti di adottare nel proprio ordinamento le misure necessarie per qualificare le condotte ivi contemplate come reato,
laddove siano commesse “unlawfully” e “intentionally”.
Il Protocollo, tuttavia, non fornisce alcuna definizione dei due requisiti, dell’illegittimità e dell’intenzionalità: secondo il Rapporto esplicativo (§§ 26-28), essi dovranno essere considerati e applicati nell’accezione loro riconosciuta nei singoli ordinamenti interni, ricavando, così, il loro significato direttamente dai contesti normativi nei quali vengono applicati.
Le Parti sono obbligate, in definitiva, a prevedere le condotte così come descritte negli artt. 2-6 del
Protocollo, come reati tipici e autonomi, nel caso in cui quelle stesse condotte, nelle rispettive legislazioni nazionali, non siano già previste e punite quali atti preparatori a reati di terrorismo, ovvero nella
forma del tentativo.
Queste sono le cinque fattispecie delineate nel Protocollo.
– Participating in association or group for the purpose of terrorism: la partecipazione alle attività di un’associazione o di un gruppo al fine di commettere o contribuire alla commissione di uno o più reati di terrorismo da parte dell’associazione o del gruppo stesso (art. 2).
– Receving training for terrorism: ricevere istruzioni, compresa l’acquisizione di conoscenze o competenze pratiche, per la fabbricazione o l’uso di esplosivi, armi da fuoco, o altre armi, sostanze nocive o
pericolose, oppure altre tecniche o metodi specifici, al fine di commettere o contribuire alla commissione di un reato di terrorismo (art. 3).
– Travelling abroad for the purpose of terrorism: viaggi all’estero, ossia in uno Stato diverso da quello di
cittadinanza o di residenza, al fine di commettere, contribuire o partecipare alla commissione di un reato di terrorismo, oppure di impartire o ricevere un addestramento a fini terroristici (art. 4). Rispetto a
tale fattispecie, il Protocollo ammette, altresì, che ciascuna Parte stabilisca le condizioni per l’introduzione della norma incriminatrice, imposte dai propri principi costituzionali, e in conformità agli stessi.
Le Parti dovranno, inoltre, adottare tutte le misure necessarie affinché il reato previsto dall’art. 4 sia
punito anche a titolo di tentativo.
– Funding travelling abroad for the purpose of terrorism: il finanziamento di viaggi all’estero a scopo di
terrorismo, consistente nel fornire o raccogliere, con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente,
fondi sapendo che saranno destinati, in tutto o in parte, a tale scopo (art. 5).
– Organising or otherwise facilitating travelling abroad for the purpose of terrorism: organizzazione o agevolazione di viaggi all’estero per fini terroristici (art. 6).
In attuazione della previsione contenuta al paragrafo operativo numero 3 della Risoluzione ONU
2178, l’art. 7 prevede che vengano adottate le misure necessarie per rafforzare lo scambio tempestivo tra
le Parti di qualsiasi tipo di informazione disponibile, relativa a persone che effettuano viaggi all’estero a
fini terroristici.
A tal fine, ciascuna Parte deve indicare un punto di contatto disponibile 24 ore su 24, sette giorni su
sette, o in alternativa scegliere di designare un punto di contatto già esistente. Una volta individuati, i
punti di contatto dovranno essere mantenuti e aggiornati dal Segretariato del Consiglio d’Europa.
Si prevede perciò una rete di punti per lo scambio di informazioni di polizia su persone sospettate di
aver commesso reati di terrorismo o di aver compiuto viaggi all’estero a fini terroristici.
L’art. 7, nel prevedere il rafforzamento dello scambio di informazioni tra le Parti, da un lato, fa salva
l’omologa previsione della Convenzione contenuta nell’art. 3, § 2, lett. a), per cui ciascuna Parte adotta
le misure necessarie per migliorare e sviluppare la cooperazione fra le autorità nazionali allo scopo di
prevenire i reati di terrorismo e i loro effetti pregiudizievoli attraverso anche lo scambio di informazioni; dall’altro lato, prescrive che il meccanismo sia attuato in conformità al diritto nazionale e agli obblighi internazionali vigenti, e pertanto gli Stati potranno imporre condizioni all’uso delle informazioni
scambiate tramite i punti di contatto (Rapporto esplicativo, § 66). Dovranno essere previste, altresì, celeri
procedure per lo scambio di informazioni.
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Il successivo art. 8 pone alcune condizioni e garanzie nell’applicazione delle disposizioni del Protocollo, in specie di quelle contenute negli artt. 2-6.
Nell’art. 8, oltre a ribadire, al § 1 che le Parti diano attuazione al presente Protocollo nel pieno rispetto dei diritti umani, in particolare del diritto alla libertà di circolazione, d’espressione, d’associazione e
di religione, così come sanciti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, e conformemente agli altri accordi internazionali, si sottolinea, al § 2, che le Parti dovranno rispettare il principio di proporzionalità, rispetto
alle finalità legittimamente perseguite e alla loro necessità in una società democratica, escludendo qualunque forma di arbitrarietà o di trattamento discriminatorio o razzista.
L’art. 9 detta regole di coordinamento tra il Protocollo e la Convenzione. È, infatti, previsto, sia che
le parole e le espressioni del Protocollo debbano essere interpretate ai sensi della Convenzione (§ 1), al
fine di garantire uniformità interpretativa tra le due fonti; sia che tutte le disposizioni della Convenzione, con l’unica eccezione dell’art. 9 (Ancillar offence), possano essere applicate nella misura in cui siano
compatibili con le disposizioni del relativo Protocollo addizionale (§ 2).
Il Protocollo è soggetto a ratifica, accettazione o approvazione, che risultano, però, precluse ove il
firmatario non abbia prima ratificato, accettato o approvato la Convenzione o non lo faccia contestualmente.
Qualora uno Stato, che non sia membro del Consiglio d’Europa e che non abbia partecipato alla negoziazione del Protocollo, decidesse comunque di adottarlo, potrà aderirvi, dopo la sua entrata in vigore, ove abbia già aderito alla Convenzione o vi aderisca contestualmente (art. 11).
Quanto alla data di entrata in vigore del Protocollo, questa è fatta coincidere con il primo giorno del
mese seguente alla scadenza del periodo di tre mesi immediatamente successivi al deposito di sei strumenti di ratifica, accettazione o approvazione, di cui almeno quattro provenienti da Stati membri del
Consiglio d’Europa (art. 10 § 2). Rispetto ai Firmatari che depositano, ratificano, accettano o approvano
il Protocollo, in un periodo successivo, per la sua entrata in vigore opererà lo stesso termine a partire
dalla data di deposito del relativo strumento di ratifica, accettazione o approvazione (art. 10 § 3). Termini analoghi sono previsti per l’entrata in vigore del Protocollo anche in caso di adesione (art. 11 § 2).
Ciascuna Parte, al momento della firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, accettazione, approvazione o adesione, può indicare l’ambito territoriale a cui si applicherà il Protocollo. In qualsiasi momento successivo, lo stesso potrà essere esteso a ogni altro territorio, mediante dichiarazione
inviata al Segretario generale del Consiglio d’Europa. È fatta salva la possibilità di ritirare ogni dichiarazione relativa all’ambito di applicazione territoriale del Protocollo, mediante notifica indirizzata al
Segretario generale del Consiglio d’Europa (art. 12).
Ogni Parte, in qualsiasi momento, può denunciare il Protocollo, ossia considerarne estinti gli effetti,
mediante notifica al Segretario generale del Consiglio d’Europa. Alla denuncia della Convenzione segue automaticamente la denuncia Protocollo addizionale (art. 13). Vi sono poi specifici obblighi di notificazione del Segretario generale del Consiglio d’Europa nei confronti delle Parti in riferimento alla firma, al deposito degli strumenti di ratifica, accettazione, approvazione o adesione, all’entrata in vigore,
ed ad ogni altro atto, dichiarazione, notifica o comunicazione concernenti il Protocollo (art. 14).
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DE JURE CONDENDO
di Gioia Sambuco
INTERCETTAZIONE DI COMUNICAZIONI INFORMATICHE O TELEMATICHE
Il 18 gennaio 2016 è stato assegnato alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati il d.d.l. C.
3470 – «Modifica all’articolo 266-bis del codice di procedura penale, in materia di intercettazione e di
comunicazioni informatiche o telematiche», d’iniziativa dell’on. Maria Gaetana Greco.
Come emerge dalla Relazione di accompagnamento, l’obiettivo della proposta, presentata alla Camera il 2 dicembre 2015, è di consentire alle Forze di polizia l’utilizzo di nuovi programmi informatici che
permettano l’accesso “da remoto” ai dati presenti in un sistema informatico, al fine di contrastare preventivamente i reati di terrorismo commessi mediante l’uso di tecnologie informatiche o telematiche.
Il d.d.l. in esame si pone in linea di continuità con il d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2015, n. 43 (emanato in seguito all’attacco terroristico avvenuto in Francia
nel gennaio 2015 alla sede del giornale satirico “Charlie Hebdo”), che ha provveduto a rafforzare la
normativa penale in materia di terrorismo internazionale, introducendo aggravanti di pena nel caso in
cui i reati di terrorismo, istigazione e apologia del terrorismo siano commessi tramite strumenti informatici e telematici. Proprio in forza del suddetto decreto, il legislatore ha introdotto l’obbligo per la Polizia postale e delle comunicazioni di tenere costantemente aggiornata una black-list dei siti internet utilizzati per la commissione di reati di terrorismo, prevedendo altresì in capo agli internet provider specifici obblighi di oscuramento dei siti nonché di rimozione dei contenuti illeciti, connessi a reati di terrorismo, pubblicati sulla rete.
L’attuale d.d.l., che si compone di un solo disposto normativo, compirebbe un ulteriore passo in
avanti rispetto alla normativa sopra menzionata, ampliandone la portata nella misura in cui sancisce
che l’intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrenti tra più sistemi (già disciplinata dall’art. 266-bis, comma 1, c.p.p.) sia consentita «anche attraverso l’impiego di strumenti o di programmi informatici per l’acquisizione da remoto delle comunicazioni
e dei dati presenti in un sistema informatico».
***
RELAZIONI AFFETTIVE TRA DETENUTI E FIGLI MINORENNI
Dal 3 novembre 2015 è all’esame della Commissione Giustizia della Camera l’interessante proposta di
legge C. 2876, d’iniziativa dell’on. Vanna Iori e altri, che comporta «Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n.
354, in materia di relazioni affettive tra i detenuti e i figli minorenni».
Il d.d.l. propone nuove misure per meglio rispondere alle esigenze dei detenuti di consentire di
mantenere rapporti con i familiari, tutelando in special modo il loro diritto alla genitorialità. Le disposizioni di cui si compone la proposta sono dunque precipuamente finalizzate al mantenimento o al ripristino proprio delle relazioni affettive dei detenuti e degli internati con i figli minori di età.
A tale fine, l’art. 1, modificando l’art. 28 legge 26 luglio 1975, n. 354, disciplina i colloqui dei genitori
detenuti con i figli minorenni, nonché le modalità di funzionamento degli appositi spazi aventi finalità
socio-educativa. In particolare, la responsabilità genitoriale viene incentivata tramite gli incontri con i
figli che il d.d.l. chiarisce debbano essere sempre garantiti (incipit dell’art. 1), salvo nel caso di maltrattamenti o abusi ovvero per comprovate ragioni a tutela dei minori stessi.
Il comma 2 del disposto normativo de quo, inoltre, per ridurre l’impatto del carcere sui minori figli di
genitori detenuti o internati, prevede la realizzazione – e consequenziale messa a disposizione – di spazi psico-pedagogici idonei realizzati all’interno degli istituti, quali aree di attesa per i colloqui e per gli
incontri medesimi. Figura chiave è l’operatore psico-pedagogico, la cui presenza quotidiana è garantita
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sub art. 1, comma 3: tale operatore, definito dalla proposta di legge educatore, svolge il compito di presa
in carico della famiglia, nonché di preparazione della stessa e in particolare del minore al colloquio con
il genitore detenuto.
Altro aspetto di novità sancito nel d.d.l. in discorso è quanto previsto nella parte finale dell’art. 1, secondo cui i colloqui dei minori con genitori detenuti devono essere concessi anche fuori dai limiti temporali stabiliti dall’art. 37, comma 8, del regolamento di cui al d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230. In particolare, si sancisce che la durata dei colloqui, regolata sulla base delle esigenze pedagogiche del minore, non
può comunque essere inferiore a un’ora, salvo che per volontà dei colloquianti o per la tutela del minore stesso, e può essere estesa anche a parte della giornata e alla consumazione di un pasto.
Il d.d.l. in commento si compone, infine di un ulteriore articolo (art. 2), rubricato «Rapporti con la famiglia e tutela della genitorialità», che, in sostituzione dell’art. 28 legge n. 354/1975, fissa i principi generali posti a tutela della genitorialità in carcere.
Apprezzabile è l’avvertita necessità di condensare in una proposta normativa l’indefettibile diritto,
anche dei detenuti, di mantenere le relazioni affettive con i propri figli e il proposito di rimuovere quelle difficoltà che per contro, spesso ne impediscono anche il reinserimento sociale. Invero, v’è da precisare che il d.d.l. C. 2876 muove proprio dalle esperienze-pilota di alcuni Istituti Penitenziari italiani (San
Vittore e Bollate), nei quali è già realtà lo «spazio giallo», così denominato dall’associazione Bambinisenzasbarre ONLUS.
***
SOSPENSIONE E DECADENZA DALL’ESERCIZIO DELLA RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Il 16 dicembre 2015 è stato assegnato alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati anche un ulteriore d.d.l. in tema di rapporti tra detenuti e figli minorenni, d’iniziativa dell’on. Rosanna Scopelliti, C.
3389 recante «Modifiche al codice civile e al codice di procedura penale, concernenti la sospensione e la decadenza
dall’esercizio della responsabilità genitoriale nei riguardi di soggetti appartenenti ad associazioni per delinquere».
La proposta di legge prospetta un rigido intervento normativo nel tentativo di tutelare i figli degli
appartenenti alle strutture familiari dell’organizzazione criminale, al fine di sottrarli a questi contesti
fortemente e negativamente condizionanti, dando loro la possibilità di riscattarsi con la scelta di una vita alternativa.
In sintesi, il d.d.l. in esame apporta modifiche agli artt. 288, 306 e 308 c.p.p. e novella altresì l’art. 330 c.c.
In particolare, all’art. 288 c.p.p. è aggiunto un ulteriore comma (2-bis), che prevede, per le fattispecie
delittuose di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p., contestualmente all’applicazione della custodia cautelare, anche la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale per l’intera durata della misura
cautelare coercitiva. Tale provvedimento è immediatamente comunicato, dal giudice che lo ha emesso,
al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni, che può richiedere la trasmissione
degli atti necessari per adottare le iniziative di cui all’art. 336, primo comma, c.c.
L’aggiunta del comma 2-bis all’art. 306 c.p.p. comporta che, nel caso di cui all’art. 288, comma 2-bis,
c.p.p., la perdita di efficacia della custodia cautelare debba essere immediatamente comunicata dal giudice a quo (che cioè ha emesso il provvedimento) al Presidente del tribunale per i minorenni; la previsione attribuisce a quest’ultimo la facoltà di richiedere la trasmissione degli atti necessari per valutare
l’adozione urgente, anche d’ufficio, dei provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio delineati
nell’art. 336, terzo comma, c.c.
Sempre nell’ambito del rito penale, completa la disciplina la previsione secondo la quale, nel caso si
proceda per uno dei delitti ex art. 51, comma 3-bis, c.p.p., la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale applicata contestualmente alla custodia cautelare ai sensi dell’art. 288, comma 2-bis, c.p.p. perde efficacia decorsi i termini previsti dall’art. 303 c.p.p. (art. 308, comma 2-bis, c.p.p.).
Rilevanti le modifiche che il d.d.l. in commento intende apportare anche sul piano strettamente civilistico: interpolando l’art. 330 c.c., il comma 4 dell’art. 1 della proposta di legge conia una nuova causa
di decadenza dalla responsabilità genitoriale, prevedendo che il giudice possa emettere siffatto provvedimento quando la violazione o l’omissione, anche parziale, dei doveri ad essa inerenti o l’abuso dei relativi poteri è ricollegabile all’appartenenza del genitore ad associazioni di tipo mafioso anche straniere,
o alla commissione, anche nella forma tentata, di delitti avvalendosi delle condizioni previste dall’art.
416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Marcello Stellin
EQUO PROCESSO – CONTROESAME – TESTI ASSENTI
(Corte e.d.u., Grande Camera, 15 dicembre 2015, Schatschaschwili, c. Germania)
Prosegue la riflessione dei Giudici di Strasburgo sull’utilizzo del contributo dei testi c.d. assenti ai fini
di una declaratoria di colpevolezza: con questa espressione si è soliti indicare coloro i quali, dopo essere
stati ascoltati in sede d’indagini, non vengono escussi in dibattimento in quanto morti, irreperibili, intimoriti o, magari, a causa della loro vulnerabilità (così, Corte e.d.u., 19 febbraio 2013, Gani c. Spagna, §
40, già pubblicata in questa Rivista, n. 3, 2013). Si tratta di una questione che involge lo studio d’uno
specifico aspetto del fair trial: tale è, infatti, il diritto dell’imputato a confrontarsi con quanti rendono dichiarazioni a carico [art. 6 § 3, lett. d), Cedu]. La pronuncia in commento aggiunge un ulteriore tassello
a quell’elaborazione criteriologica sottesa alla materia in esame, inaugurata con la sentenza Unterpertinger c. Austria (Corte e.d.u., 24 novembre 1986), e che, ad oggi – pur nella molteplicità delle sfumature
che caratterizzano la logica floue del procedimento strasburghese –, pareva essersi sostanzialmente assestata sui “nuovi approdi” cui la Grande Camera era giunta col noto arresto Al-Khawaja and Tahery c.
Regno Unito (Corte e.d.u., 15 dicembre 2011).
Si volga un rapido sguardo alla vicenda, che rivela alcune assonanze con il caso da ultimo menzionato.
Il ricorrente era stato tratto a giudizio con l’accusa di aver partecipato a due rapine, ai danni di due
coppie di prostitute: il primo episodio criminoso era stato commesso il 14 ottobre 2006, a Kassel, con
l’ausilio di un concorrente rimasto ignoto (§§ 12-13); il secondo – preceduto da un sopralluogo il giorno
prima (§ 15) – era avvenuto, invece, il 3 febbraio 2007 a Göttingen, con la partecipazione di una pluralità di correi. In quell’occasione, il ricorrente s’introduceva nell’appartamento di due prostitute d’origine
lettone – col pretesto di fruire delle loro prestazioni – assieme ad un complice. Quest’ultimo minacciava
le suddette con un coltello: una di loro, fuggita attraverso il balcone, veniva inseguita dal ricorrente che,
tuttavia, desisteva quasi subito dal proposito, a causa del sopraggiungere di alcuni passanti (§ 16). Il
correo rimasto sulla scena criminis – fattosi nel frattempo consegnare dall’altra vittima soldi e telefoni –
raggiungeva i complici che avevano intanto definito un luogo d’appuntamento (§ 17).
Le due donne riferivano l’episodio sia ad una vicina di casa (il mattino successivo), sia ad un’amica
presso la quale, temendo per la propria incolumità, esse s’erano trasferite dopo avere lasciato Göttingen
(§ 18). Quest’ultima – che si rivelava essere una delle persone offese dalla prima rapina, avvenuta a
Kassel – riferiva alla polizia quanto appreso de relato. Nei giorni successivi, le due donne venivano,
quindi, ripetutamente interrogate dalle forze dell’ordine (§ 19): avendo costoro manifestato l’intenzione
di fare presto ritorno al paese d’origine, l’autorità investigativa chiedeva al giudice istruttore di interrogare le vittime al fine di cristallizzare le loro dichiarazioni: siffatto espediente avrebbe, infatti, consentito l’utilizzo dei dicta nel successivo giudizio (§ 20). L’imputato – privo d’un difensore e tenuto ancora
all’oscuro delle indagini a suo carico, allo scopo di salvaguardare i risultati delle stesse – non veniva
posto nelle condizioni di partecipare in alcun modo all’incombente, in quanto il giudice – ritenendo
d’agire in conformità rispetto al dettato codicistico (art. 168c § 3 StPO) – temeva che la presenza di costui avrebbe potuto inficiare la deposizione, essendo le due donne ancora gravemente turbate per
l’accaduto (§ 21). Poco dopo l’udienza le dichiaranti tornavano in Lettonia (§ 22): detto proposito era
stato, peraltro, ribadito nel corso della deposizione (§ 21).
Durante il processo, la corte territoriale tentava invano di ottenere la presenza delle vittime. Alle interessate erano state offerte molteplici garanzie: una volta tornate in Germania esse avrebbero, infatti,
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ricevuto protezione, il rimborso di tutte le spese ed avrebbero potuto scegliere, altresì, le modalità (protette) attraverso cui rendere la propria testimonianza: ciononostante, costoro rifiutavano di comparire
innanzi alla corte, adducendo principalmente la persistenza, medicalmente documentata, dei traumi
cagionati dall’accaduto (§§ 23-24). Nemmeno la richiesta d’assistenza giudiziaria al paese d’origine andava a buon fine: i giudici lettoni – rilevato che le vittime ancora soffrivano di disturbi post traumatici e
temevano ritorsioni – erano, infatti, costretti a disdire l’udienza in video collegamento precedentemente
fissata (§§ 25-26). Non avendo l’autorità straniera preso in considerazione le ulteriori proposte di quella
tedesca, la corte regionale di Göttingen acquisiva, nonostante l’opposizione difensiva, le dichiarazioni
rese dalle vittime alla polizia ed al giudice istruttore (§§ 27-28).
Al termine del processo il ricorrente veniva ritenuto colpevole di concorso in entrambi gli episodi
criminosi oggetto d’addebito: per i fatti di Göttingen, i giudizi nazionali valutavano con particolare circospezione le dichiarazioni dei testi assenti, considerati la principale prova a carico (§ 32), dando conto
dell’omessa denuncia – dovuta al timore di future ritorsioni, oltre che di problemi con le forze dell’ordine –, di alcune veniali imprecisioni, nonché del mancato riconoscimento del ricorrente in foto, avendo
le vittime focalizzato maggiormente l’attenzione sul complice armato. Il giudizio di colpevolezza era
stato, inoltre, fondato su elementi ulteriori: tali erano le testimonianze de relato, collimanti con le dichiarazioni irripetibili, le intercettazioni, le localizzazioni geografiche ottenute attraverso i telefoni e i dispositivi GPS, l’ammissione da parte del ricorrente d’essersi recato presso l’appartamento delle due donne
nonché, infine, le analogie tra i due episodi criminosi (§§ 34-36).
Esperiti senza successo un appello innanzi alla Corte Federale di Giustizia (§ 47) ed una doglianza
avanti la Corte costituzionale (§ 57), l’odierno ricorrente adiva il Collegio strasburghese, lamentando di
non avere mai potuto esaminare le dichiaranti in alcuna fase procedimentale. In prima istanza la Corte,
applicati i c.d. Al-Khawaja criteria, non ravvisava violazione alcuna: l’assenza dei testi non era stata ritenuta addebitabile all’autorità; il contributo di costoro non era l’unica prova a carico, benché fosse stata
importante ai fini della decisione, ed erano, infine, annoverabili sufficienti fattori atti a compensare i deficit difensivi (§§ 67-72).
Su istanza del ricorrente, il caso veniva assegnato alla Grande Camera (cfr. l’art. 43 § 1 della Cedu).
Nella sua composizione allargata il Collegio muove da una ragionamento sull’art. 6 §§ 1 e 3, lett. d)
della Convenzione, richiamando i principi enucleati in seno al precedente Al-Khawaja (§§ 100-106). Occorre, infatti, rammentare che, in quella sede, la Corte aveva strutturato il vaglio di compatibilità del
procedimento penale rispetto ai suindicati parametri in tre fasi successive: il primo step attiene all’esame delle ragioni sottese al mancato ascolto del testimone; il secondo passaggio è, invece, dedicato a
sondare la decisività della prova spuria; l’ultimo accertamento mira, infine, alla ricerca di elementi, ivi
comprese significative “garanzie procedurali”, «suscettibili di compensare le difficoltà arrecate alla difesa a seguito dell’ammissione di dichiarazioni unilaterali, oltre che di assicurare la complessiva equità
del procedimento» (§ 107).
Chiamata all’ennesima applicazione dei predetti criteri, la Corte avverte l’esigenza di focalizzare
l’attenzione sul grado di cogenza di ciascuno e sulla relazione tra gli stessi (§ 110), finendo così per ridefinire, ancora una volta, i presupposti del suo agire.
Come si ricorderà, i Giudici di Strasburgo, nella pronuncia Al-Khawaja, avevano messo in discussione l’esistenza di una – precedentemente incontestata – automaticità tra il mancato rispetto della sole or
decisive rule e la complessiva iniquità processuale (si veda, infatti, il § 147 del suindicato precedente): anteriormente, i maggiori interrogativi di giudici e studiosi s’erano, infatti, concentrati principalmente sul
c.d. test di resistenza e sull’indeterminatezza sottesa alla nozione di prova decisiva. L’aggiunta di due
ulteriori momenti valutativi, formalizzati in quella sede, aveva inoltre moltiplicato le ambiguità già in
sé connaturate al modus procedendi della Corte europea. Come rammentato in questa sede, spesso, infatti, il Collegio – addebitata all’autorità giudiziaria la mancata escussione dibattimentale del teste a carico
– aveva arrestato la propria analisi già al primo step (Corte e.d.u., 11 luglio 2013, Rudnichenko c. Ucraina,
§ 109), anteponendo, semmai, una mera delibazione circa la non manifesta irrilevanza della prova spuria (cfr. Corte e.d.u., 16 ottobre 2014, Suldin c. Russia, § 58). In altri casi l’esame era stato, invece, portato
a termine nonostante il mancato rispetto del primo requisito (Corte e.d.u., 15 ottobre 2013, Şandru c.
Romania §§ 65-66, già pubblicata in questa Rivista, n. 1, 2014) (§ 113).
Viene dunque ora ribadita la tendenziale contrarietà di regole c.d. indiscriminate rispetto al consueto
approccio della Corte, fondato, invece, sull’analisi dell’overall fairness of the trial (§ 112). Similmente a
quanto già affermato in relazione alla sole or decisive rule, la Corte precisa, quindi, che l’assenza di un valiSCENARI | CORTI EUROPEE
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do motivo per rinunciare all’ascolto di un teste costituisce un fattore da soppesare nel corso della predetta
valutazione, ma è, tuttavia, insuscettibile di determinare ex se l’iniquità dell’intero procedimento (§ 113).
Un ulteriore interrogativo afferisce all’an dell’ultima verifica che, come rammenta la Grande Camera, era stata introdotta quale ausilio per controllare l’attendibilità di un contributo irripetibile di cui fosse stata accertata la decisività (§ 114). Il mancato superamento del test di resistenza non dev’essere, tuttavia, interpretato quale condicio sine qua non del successivo esame dei c.d. elementi compensativi: tale
analisi – unitamente alla valutazione del peso della prova spuria – costituisce, infatti, una componente
del vaglio della complessiva equità procedimentale e dovrà, pertanto, avere luogo anche laddove appaia incerta l’influenza effettivamente esercitata dalla dichiarazione unilaterale sul convincimento giudiziale (§§ 114-116): l’importanza di quanto riferito dal teste assente sarà, dunque, direttamente proporzionale a quella che i fattori di bilanciamento dovranno rivestire nel giudizio d’equità (§ 117).
Un’ulteriore precisazione teorica attiene all’ordine dei c.d. Al-Khawaja criteria: tale assetto sequenziale, dettato da ragioni logiche (§ 117), potrà essere, infatti, scompaginato ogniqualvolta l’approfondimento di una singola questione possa spiegare un’efficacia potenzialmente risolutiva nella soluzione
del caso (§ 118).
La Corte approfondisce, quindi, richiamando i propri arresti, ciascuno dei tre singoli passaggi in cui
si articola il test dell’equità (§§ 119 ss.). Vale forse la pena indugiare sulla riflessione giudiziale afferente
ai c.d. counterbalancing factors che, come emerge anche dalla pronuncia Al-Khawaja, devono «consentire
una valutazione equa e corretta dell’attendibilità della prova» non formata in contraddittorio (§ 125 della sentenza in esame e § 147 del precedente citato). Anche tale momento pare assumere, a sua volta, una
struttura tripartita (§ 145): la Grande Camera sembra, infatti, suddividere siffatti elementi compensativi
in tre distinte macrocategorie, afferenti, rispettivamente, all’attento approccio dei tribunali domestici
all’attendibilità dei dichiaranti assenti [incombenza che può essere agevolata dalla previa videoregistrazione dei dicta (cfr. Corte edu, 19 dicembre 2013, Rosin c. Estonia)], alla sussistenza di riscontri (corroborative evidence) atti a supportare quanto affermato in sede investigativa (§ 128), nonché alla presenza
di garanzie procedurali in grado di compensare i deficit difensivi cagionati dall’utilizzo di prove formate al di fuori del circuito contraddittoriale (§ 129). Sotto quest’ultimo profilo assume rilevanza in primis
la possibilità di porre domande al teste, se non nel corso del processo – ove i quesiti possono essere
formulati anche indirettamente (ad esempio per iscritto § 129) –, quantomeno nella fase investigativa,
soprattutto laddove si configuri il rischio d’un’irripetibilità futura (§ 130; cfr. la teoria della c.d. prognosi
postuma, elaborata dalla giurisprudenza nostrana con riferimento alla mancata richiesta d’incidente
probatorio: Cass., sez. II, 18 ottobre 2007, n. 43331). Deve, inoltre, aversi riguardo all’avvenuta opportunità dell’imputato di fornire la propria versione dell’accaduto e di contestare la credibilità delle prove a
carico (§ 129; cfr. il noto precedente Gani c. Spagna § 48). Un efficace esempio di tale analisi viene fornito dalla sentenza Brzuszczyński c. Polonia (Corte e.d.u., 17 settembre 2013, già pubblicata in questa Rivista, n. 1, 2014).
Almeno due notazioni sono doverose. Il compendio probatorio residuo rivela, in questa sede, una
duplice valenza: esso costituisce, da un lato, il fondamento del c.d. test di resistenza – finalizzato a stabilire il carattere determinante della dichiarazione unilaterale – e assume, d’altro canto, una veste anche
nella fase successiva, quale strumento funzionale al controllo delle inferenze ricavabili dal suddetto
contributo. Quanto alla valorizzazione del contraddittorio predibattimentale, occorre, invece, notare
che eventuali spazi dialettici realizzatisi nel corso dell’indagine parevano, secondo l’impostazione tradizionale, ex se suscettibili di fare venire meno il carattere untested della dichiarazione acquisita (si veda
la già citata pronuncia Rudnichenko, § 103): pur mantenendo il suo peculiare approccio olistico, la Corte
sembra, dunque, assestarsi verso un’impostazione sempre più adversary, ponendo l’accento tanto sui
motivi sottesi alla deroga del contraddittorio, quanto sul rispetto dell’immediatezza.
Giunta a ricondurre la fattispecie sub iudice ai principi qui enucleati, il Collegio rileva in primis come
la rinuncia al contraddittorio con le vittime di Göttingen non possa essere addebitata all’autorità giudiziaria tedesca: quest’ultima aveva, infatti, profuso uno sforzo significativo al fine di assicurare la presenza delle dichiaranti, ragion per cui erano ravvisabili fondati motivi legittimanti la lettura acquisitiva
delle dichiarazioni irripetibili (§§ 132-140).
Per quel che attiene, invece, alla decisività di tali dicta, la Grande Camera muove dalla valutazione
compiuta dalle corti nazionali: non essendo, tuttavia, evincibile da quelle sedi alcuna indicazione risolutiva in tal senso, i Giudici di Strasburgo propugnano una propria stima del peso probatorio dei contributi unilaterali, «alla luce delle conclusioni delle corti domestiche». Posto, dunque, l’accento sulSCENARI | CORTI EUROPEE
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l’idoneità dimostrativa del compendio probatorio residuo (§ 143), il Collegio propende per la valenza
determinante, ai fini della condanna, di quanto riferito in fase d’indagine: mentre, infatti, le vittime erano «gli unici testimoni oculari del reato in oggetto, le restanti prove a carico erano de relato [cfr. le dichiarazioni rese alla vicina di casa ed alla vittima dell’episodio pregresso], ovvero circostanziali [le localizzazioni avvenute tramite GPS, l’intercettazione da cui emergeva che l’imputato si era recato sul locus
commissi delicti (fatto peraltro ammesso nel corso del processo) e aveva saltato dal balcone per inseguire
una delle vittime], ma comunque insuscettibili di provare i fatti controversi [si vedano le prove afferenti
alla rapina avvenuta a Kassel]» (§§ 143-144).
Si giunge, pertanto, all’ultimo step, afferente all’esame dei counterbalancing factors. Valorizzata positivamente la meticolosa valutazione dei contributi irripetibili da parte delle corti domestiche – oltre alla
sussistenza di ulteriori elementi di prova – vengono, invece, acclarate numerose criticità in merito alla
sussistenza di misure procedurali atte a compensare la carenza del controesame. La Corte stigmatizza,
in particolare, il fatto che al ricorrente non fosse stata offerta la possibilità di rivolgere domande ai dichiaranti in fase investigativa, nonostante la legislazione nazionale ammettesse la presenza del difensore dell’imputato nel corso dell’udienza innanzi al giudice istruttore (§ 155): le modalità di ascolto dei
testi durante le indagini – chiosa, infatti, il Collegio – possono influenzare l’equità del procedimento
complessivo, soprattutto qualora l’esperimento istruttorio non possa essere ripetuto nel corso del giudizio (§ 156). Sotto questo profilo assume particolare significato la prevedibilità del rischio di dispersione probatoria: le autorità locali erano, infatti, consapevoli che le vittime erano intenzionate a rimpatriare, ma, ciononostante, non avevano assunto alcuna iniziativa finalizzata a salvaguardare il contraddittorio (§§ 157-160).
La Grande Camera propende, dunque, in conclusione, per la complessiva iniquità del procedimento
(§ 164). Siffatto esito è stato certamente influenzato dalla circostanza che l’imputato non fosse stato posto nelle condizioni di rivolgere domande ai testi, tramite difensore, nel corso della fase investigativa (§
163). Nessun altro tra i counterbalancing factors annoverabili nel caso di specie – principalmente il residuo compendio dimostrativo (§ 162) e la possibilità per il ricorrente d’instaurare una forma di contraddittorio sull’elemento di prova (§ 163) – è apparso, infatti, suscettibile di compensare la mancata escussione dibattimentale dei dichiaranti (§ 162).
DIRITTO ALLA VITA – COLPA MEDICA – EFFETTIVITÀ DELLE INDAGINI
(Corte e.d.u., 15 dicembre 2015, Lopes De Sousa Fernandes c. Portogallo)
La pronuncia in esame attesta l’applicazione dell’art. 2 Cedu – che prescrive la tutela del diritto alla vita
– con riferimento ad un’ipotesi di decesso verificatasi in ambito ospedaliero. Si tratta di una tematica
che differisce parzialmente da quella relativa alla morte cagionata dall’azione di membri delle forze
dell’ordine: quest’ultimo contesto – che ha visto anche l’Italia assumere il ruolo di convenuto [cfr. Corte
e.d.u., 29 marzo 2011, Alikaj c. Italia, ex art. 2 § 2, lett. b)] – costituisce, infatti, uno dei terreni d’elezione
della norma in commento; accanto ad esso si staglia, inoltre, la problematica dei deficit di tutela dei cittadini innanzi ai rischi – di cui l’apparato statale avrebbe dovuto avere contezza – cagionati dalla condotta di terzi (sul punto, Corte e.d.u., 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia). Con riguardo ai summenzionati
ambiti, la Corte ha elaborato una fitta rete di principi. Similmente a quanto emerge con riferimento
all’art. 3 della Convezione (cfr. Corte e.d.u., 24 giugno 2014, Alberti c. Italia), l’art. 2 presenta un duplice
portato, sostanziale e procedurale: il primo profilo implica l’obbligo per gli Stati di predisporre un apparato sanzionatorio volto a reprimere efficacemente i delitti contro la vita, nonché un novero di misure, da adottare concretamente, idonee a prevenire tale categoria di crimini (cfr. anche Corte e.d.u.,
Grande Camera, 28 ottobre 1998, Osman c. Regno Unito); il secondo richiede, invece, che l’autorità, a
prescindere dalla qualifica soggettiva del reo, si attivi prontamente innanzi ad una notitia criminis, conducendo indagini effettive, indipendenti e complete (cfr. anche Corte e.d.u., 11 dicembre 2012, Gina Ionescu c. Romania).
Nel caso Lopes De Sousa Fernandes la ricorrente asseriva, invece, che la morte del proprio marito fosse
stata riconducibile, in ultima analisi, ad un’infezione nosocomiale e ad alcuni episodi di malpractice medica: il paziente, a seguito ad un intervento di polipectomia nasale, avrebbe infatti contratto il batterio
della meningite; la patologia, inizialmente misconosciuta, sarebbe stata curata, in ritardo, con una dose
di farmaci talmente massiccia da cagionare al degente delle complicanze gastrointestinali. L’uomo era
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stato comunque dimesso dall’ospedale, secondo la prospettazione della ricorrente in tempi prematuri:
alcuni giorni dopo, tuttavia, egli veniva ricoverato presso una differente struttura, ove i medici lo sottoponevano ad un intervento chirurgico, avendo diagnosticato una perforazione intestinale; l’operazione sarebbe stata, comunque, tardiva rispetto alla scoperta del male, dato che il paziente decedeva nonostante l’intervento (§§ 98-99). A detta della ricorrente, i sanitari non avrebbero, quindi, posto in essere
quanto in loro potere allo scopo di tutelare la vita del marito (§ 100).
Nel ravvisare, seppure non all’unanimità, la violazione dell’art. 2 sotto il profilo materiale, la Corte
afferma che l’obbligo positivo di tutela della vita – e dell’integrità fisica (§ 114) – dei consociati si applica anche in materia di sanità: lo Stato deve, infatti, disporre un «quadro normativo finalizzato ad imporre agli ospedali (pubblici e privati) la predisposizione di tutti quei presidi atti a salvaguardare la vita dei loro pazienti», anche con riferimento alle conseguenze pregiudizievoli degli interventi chirurgici
(§§ 106-107). Pur richiamando l’orientamento di cui al precedente Byrzykowski c. Polonia (Corte e.d.u.,
27 giugno 2006, § 104) – secondo il quale il mero errore del medico non può fondare la responsabilità di
uno stato che abbia adempiuto all’obbligo di assicurare un alto livello di competenza del personale e a
garantire l’incolumità del paziente (§ 108) – i Giudici affermano che, al fine d’indagare in ordine alla
violazione in esame, occorre accertare se l’autorità abbia posto in essere tutto quello ch’era necessario
nel caso di specie, avendo riguardo anche all’avvenuta somministrazione delle terapie adeguate (§ 110).
Esaminati gli atti di causa, la Corte rileva che – nonostante le argomentazioni della ricorrente fossero
state respinte in tutte le sedi interne cui ella aveva fatto ricorso: ministero della salute (§§ 29-48), ordine
dei medici (§ § 49-55), procedimento penale (§§ 57-64) e amministrativo (§§ 65-74) (§ 112) – l’ispezione
condotta dal ministero della sanità aveva ritenuto premature le dimissioni del paziente (§ 111); l’ordine
dei medici aveva, inoltre, messo in dubbio la tempestività della diagnosi di meningite, annoverata tra le
possibili complicanze d’un intervento di polipectomia nasale (§§ 113): detta ultima circostanza, secondo
il Collegio – lungi dal fare “speculazioni” in ordine alle possibilità di sopravvivenza del paziente in caso di diagnosi tempestiva – è sufficiente ad attestare un difetto organizzativo tra i diversi servizi ospedalieri e a fondare la responsabilità dello Stato convenuto (§ 114).
È interessante soffermarsi brevemente sulla dissenting opinion. I giudici Sajo’ e Tsotsoria rilevano
l’inizio d’un nuovo corso all’interno della giurisprudenza europea: nel caso in esame, afferente alla negligenza dei sanitari, la Corte «sembra imporre un obbligo concernente la qualità delle prestazioni da
erogare»; quest’ipotesi differisce, tuttavia, da alcuni precedenti, richiamati in questa sede (Corte e.d.u.,
27 gennaio 2015, Asiye Genç, c. Turchia), che riguardano, invece, il mancato accesso al trattamento medico tout court. Il Collegio rischia, dunque, di virare verso una tutela del diritto sociale alla salute, obiettivo estraneo alle finalità sue proprie. La malpractice medica – affermano i giudici dissenzienti – non è,
infatti, assimilabile alle condotte colpose dei pubblici agenti, fattispecie, quest’ultima, che impone già di
per sé un attento scrutinio, in quanto l’art. 2 della Convenzione attiene al nocumento intenzionale del
bene della vita; il caso in esame non può, tuttavia, nemmeno essere accomunato, d’altro canto, alle problematiche sottese all’assistenza medica delle persone detenute.
Parimenti vulnerato, a detta dei giudici europei, è il versante procedurale dell’art. 2 della Convenzione: la norma in commento impone, infatti, che, in caso di decesso di una persona affidata alle cure dei
sanitari, l’apparato giudiziario sia in grado di acclarare «non soltanto le cause della morte, ma anche
ogni eventuale profilo di responsabilità» del personale: emerge, dunque, anche in questa sede, il canone
della completezza delle indagini. Anche la tempestività dell’accertamento è, del resto, fondamentale, in
quanto permette alle istituzioni ed ai sanitari di «prevenire errori simili» nel futuro (§ 125). Rilevato,
dunque, che il sistema giudiziario portoghese astrattamente corrisponde ai requisiti di cui all’art. 2 (§§
128-130), la Corte sottolinea come, nel caso di specie, solo l’ordine dei medici si sia attivato prontamente
innanzi alle doglianze della ricorrente. Le lungaggini degli accertamenti ministeriali hanno fatto sì che
l’interessata si rivolgesse alle autorità penali ed amministrative solamente trascorsi alcuni anni dal decesso: il ritardo nell’ascolto dei sanitari ha certamente compromesso l’attendibilità dei loro contributi (§
133). Quanto al procedimento penale, la cui instaurazione non è resa obbligatoria dalla Convenzione in
caso di decesso accidentale, potendosi ricorrere anche al risarcimento civile o alla sanzione disciplinare
(così Corte e.d.u., 17 gennaio 2002, Calvelli e Ciglio c. Italia, § 51), i Giudici ritengono che la complessità
del caso non sia suscettibile di giustificare una durata di oltre sei anni (§ 134); lo stesso dicasi per quello
innanzi all’autorità amministrativa, protrattosi per oltre nove anni (§ 135). La Corte rileva, infine, alcune
carenze in ordine agli accertamenti compiuti nelle quattro sedi adite dalla ricorrente: in nessuna occasione è stata fatta luce in modo approfondito sull’esistenza di un «nesso causale diretto tra le differenti maSCENARI | CORTI EUROPEE
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lattie» (§ 142) che avevano colpito il paziente; nemmeno si è ritenuto d’indagare sul rispetto del consenso
informato per quel che attiene al possibile sviluppo della meningite quale conseguenza post-operatoria,
circostanza che avrebbe potuto fondare un ulteriore profilo di responsabilità dello stato (§ 143).
DIVIETO DI TORTURA – OBBLIGO DI REPRESSIONE EFFETTIVA
(Corte e.d.u., 3 novembre 2015, Myumyum c. Bulgaria)
Similmente a quanto accaduto nella vicenda Cestaro c. Italia (Corte e.d.u., 7 aprile 2015) la Corte europea ha censurato, nel caso di specie, le carenze del sistema penale di uno Stato membro rivelatosi incapace di fornire un’adeguata risposta sanzionatoria a condotte sussumibili nell’alveo dell’art. 3 della
Convenzione, norma che proibisce, in termini assoluti (§ 58), la pratica della tortura e dei trattamenti
inumani o degradanti.
Soffermandosi soprattutto sul versante procedurale della disposizione in commento, i Giudici di
Strasburgo rammentano l’obbligo per gli Stati membri di condurre indagini effettive, suscettibili di
pervenire alla ricostruzione del fatto ed all’identificazione dei colpevoli (§ 65; cfr., da ultimo, anche Corte e.d.u., Grande Camera, 28 settembre 2015, Bouyid c. Belgio, già pubblicata in questa Rivista, n. 1,
2016). Qualora i risultati delle indagini consentano, poi, l’esercizio dell’azione penale, l’efficacia dell’art.
3 si estende oltre la fase investigativa, venendo così ad incidere non soltanto nell’ambito del dibattimento (§ 66), ma anche sulla sanzione imponibile in caso di declaratoria di colpevolezza (§ 67). Sotto
questo profilo, la Corte europea – benché incapace di sostituirsi alle giurisdizioni nazionali nel vaglio
della responsabilità e nel calibro della pena – ha il potere di stigmatizzare le ipotesi di «sproporzione
manifesta tra la gravità del fatto e la punizione irrogata» (§ 67). Il Collegio esige, infatti, un atteggiamento assai rigoroso da parte degli Stati, soprattutto laddove un reato astrattamente riconducibile
all’art. 3 venga addebitato ad un pubblico agente: costui, chiosa il Collegio, «dev’essere sospeso dal
proprio ufficio nel corso delle indagini, o del processo, e rimosso in caso di condanna». Non sembra esserci, inoltre, alcuna possibilità di accedere a provvedimenti lato sensu clemenziali: giova, infatti, rammentare che – ferma la tendenziale imprescrittibilità dei fatti in esame – i Giudici strasburghesi si sono
spinti sino a censurare l’avvenuta applicazione di un istituto per certi versi assimilabile alla sospensione condizionale della pena (Corte e.d.u., 20 gennaio 2015, Ateşoğlu c. Turchia).
Nella vicenda in esame – ove tre agenti di polizia erano stati accusati di avere torturato, anche con
l’elettricità, un soggetto sospettato di furto, allo scopo d’indurlo a confessare – erano state compiute indagini rapide ed efficaci (§ 72); i fatti contestati erano stati ricondotti, tuttavia, sotto fattispecie di diritto
sostanziale per le quali erano stabilite pene di modesta entità, circostanza che – essendo gli imputati incensurati – aveva consentito la degradazione del reato ad illecito amministrativo, punito unicamente
con sanzione pecuniaria per un ammontare pari, nel caso di specie, a poche mensilità di stipendio degli
imputati (§ 73). Il procedimento e la condanna non avevano nemmeno sortito alcun effetto preclusivo
per quel che attiene all’esercizio dei pubblici poteri da parte di costoro (§ 71): l’unica conseguenza sotto
il profilo disciplinare era, infatti, consistita nell’impossibilità – per due dei tre imputati, limitatamente
ad un periodo di tre anni – di accedere a concorsi finalizzati ad ottenere avanzamenti di carriera (§ 22).
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CORTE COSTITUZIONALE
di Angela Procaccino
LA CONTINUAZIONE E IL CUMULO GIURIDICO DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE: LA
ANCORA UNA VOLTA LA QUESTIONE AL LEGISLATORE
CORTE RIMANDA
(C. cost., ord. 17 dicembre 2015, n. 270)
La Corte costituzionale dichiara (ordinanza n. 270/2015) la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
Il tribunale rimettente, nell’ambito di un procedimento per l’irrogazione di sanzioni amministrative
per trasporto di rifiuti speciali non pericolosi (artt. 193, comma 1, lett. b), e 258, comma 4, d.l. 3 aprile
2006, n. 152), aveva invocato l’irragionevole disparità di trattamento derivante dal fatto che il regime
della continuazione e del conseguente cumulo giuridico delle sanzioni amministrative – corrispondente
a quello previsto per le pene dall’art. 81, comma 2, c.p. – può applicarsi alle sole violazioni delle leggi in
materia di previdenza e assistenza obbligatoria, (in virtù della modifica dell’art. 8, comma 2, legge 2
novembre 1981, n. 689, ad opera dell’art. 1-sexies d.l. 2 dicembre 1985, n. 688, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, legge 31 gennaio 1986, n. 11) dovendosi, per le altre tipologie di sanzioni amministrative, applicare, invece, il diverso regime del cumulo materiale. La decisione, pur concludendo
per la manifesta inammissibilità della questione, si segnala per la folta schiera di precedenti, sintomo,
verosimilmente, della permanenza di una questione comunque irrisolta all’interno dell’ordinamento.
Già con le ordinanze n. 23/1995 e n. 468/1989 la Corte era stata chiamata ad esprimersi su medesime
questioni, ed aveva emesso, in entrambi i casi, decisioni di inammissibilità, sul presupposto che la pretesa estensione mediante intervento additivo fosse impedita dalla «necessaria discrezionalità del legislatore nel configurare il concorso tra violazioni omogenee o anche tra violazioni eterogenee nonché (e
soprattutto) nel predisporre un’idonea disciplina organizzativa in ordine all’accertamento ed alla contestazione della continuazione».
Pure, assai più di recente, il Consiglio di Stato (in relazione allo scrutinio di legittimità costituzionale
degli artt. 117 e 183 del d.l. 7 settembre 2005, n. 209, c.d. Codice delle assicurazioni private), aveva sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale, poi decisa dalla Corte con ordinanza, n. 36
del 12 marzo 2015, dichiarativa ancora una volta, di manifesta inammissibilità. Utile in questa sede ricordare come, in quell’occasione, la Corte avesse sottolineato l’omessa considerazione e applicazione,
da parte del Collegio rimettente, della disciplina pure prevista dall’art. 327 del suddetto codice delle assicurazioni, il quale, al comma 1, configura una ipotesi di “illecito seriale”, costituito da “più violazioni
della stessa disposizione del codice, o delle norme di attuazione, per le quali sia prevista l’applicazione
di sanzioni amministrative pecuniarie, attraverso una pluralità di azioni od omissioni la cui reiterazione sia dipesa dalla medesima disfunzione dell’organizzazione dell’impresa o dell’intermediario”. Per
queste ipotesi di concorso materiale – qualora vi si affianchi la tempestiva adozione di misure correttive
indicate dall’istituto di vigilanza – la disposizione in questione prevede un particolare trattamento sanzionatorio, consistente in “un’unica sanzione amministrativa pecuniaria, sostitutiva di quelle derivanti
dalle violazioni della medesima disposizione, che sarà determinata in misura non inferiore ad euro cinquantamila e non superiore ad euro cinquecentomila”. Proprio la presenza di tale norma “specializzante” veniva quindi interpretata dalla Corte come un argomento che depone(va) circa l’assenza di un
principio di generale applicabilità della disciplina della continuazione nell’ambito delle sanzioni amministrative.
La problematicità e la frammentarietà della materia in parola emerge peraltro, ancora una volta, dalle
motivazioni dell’ultima delle ordinanze di rimessione, che ha dato luogo alla decisione attualmente segnalata. Da un lato il giudice rimettente punta a illustrare le ragioni dell’esistenza del suddetto principio
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di comune applicabilità della continuazione. Per far ciò richiama l’art. 12 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n.
472 («Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma
dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662»), relativo alle sanzioni amministrative per
violazione di norme tributarie, che ha sostituito il regime del cumulo materiale con quello, più favorevole, del cumulo giuridico delle sanzioni per il concorso di violazioni. Così facendo, tuttavia, lascia emergere come sia proprio la stessa fonte legislativa ad esser causa di tale frammentarietà e, al contempo, sottolinea pure come sia la fonte legislativa a dover essere l’unica via (o quantomeno quella preferibile) per
risolvere dubbi e confusioni. Cosicché, ancora una volta, la Corte, nel dichiarare manifestamente inammissibile la questione, ribadisce che un intervento come quello invocato dal rimettente deve ritenersi ad
essa precluso: l’applicazione della continuazione alla generalità delle leggi repressive, come istituto di
mitigazione delle sanzioni, non costituirebbe, infatti, una soluzione costituzionalmente obbligata; e, come noto, proprio l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate (così come già chiarito nelle ordinanze n. 280/1999; n. 23/1995; n. 468/1989) impone di rinviare ancora una volta il problema al legislatore, che rimane dunque l’unico titolare della discrezionalità necessaria a configurare il trattamento sanzionatorio per il concorso tra plurime violazioni nell’ambito del sistema delle sanzioni di carattere amministrativo.
LE INFERMITÀ GRAVI E IRREVERSIBILI TRA PRETESA PUNITIVA, CONSAPEVOLE PARTECIPAZIONE ED ECONOMIA PROCESSUALE
(C. cost., ord. 14 gennaio 2016, n. 4)
La Corte dichiara (ordinanza n. 4/2016) la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 150 e 159, comma 1, c.p.p.
In tale pronuncia il giudice di legittimità delle leggi torna ad occuparsi del delicato tema
dell’incapacità a partecipare al processo degli imputati affetti da infermità grave ed irreversibile. Il Tribunale ordinario di Cagliari aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 159 c.p. (in
riferimento agli artt. 3, 24, comma 2, 111, comma 1, e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 6 Cedu)
“nella parte in cui prevede la sospensione del corso della prescrizione anche in presenza delle condizioni di cui agli artt. 71 e 72 c.p.p., laddove sia accertata l’incapacità di partecipare coscientemente al
procedimento dell’imputato per effetto di una patologia irreversibile e non suscettibile di miglioramenti” e, contestualmente, in riferimento agli artt. 3 e 27, comma 1, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 150 c.p., “nella parte in cui non prevede l’assoluta ed irreversibile incapacità di intendere [e] di volere sopravvenuta al fatto derivante da una lesione cerebrale ingravescente quale causa di
estinzione del reato”. La decisione, pur conclusasi con un esito di manifesta inammissibilità, merita, tuttavia, di esser segnalata.
Occorre ricordare come, già nell’ordinanza n. 23/2013, la Corte si fosse occupata dell’anomalia insita
nelle norme riguardanti da un lato la sospensione della prescrizione estintiva dei reati (art. 159, comma
1, c.p.) e dall’altro la sospensione del processo per incapacità dell’imputato (artt. 71 e 72 c.p.p.), mettendo proprio in rilievo come l’accertamento dell’irreversibilità dell’infermità mentale sopravvenuta al fatto, tale da precludere la cosciente partecipazione al giudizio dell’interessato, costituisca in pratica una
situazione di imprescrittibilità del reato, non risolvibile né da parte del giudice né da parte dell’imputato.
Proprio la tendenziale perennità della condizione di giudicabile dell’imputato, dovuta all’effetto, a
sua volta sospensivo, sulla prescrizione, presentava, ad avviso della Corte, il carattere dell’irragionevolezza, stante l’evidente conflitto con la ratio posta a base, rispettivamente, della prescrizione dei reati e
della sospensione del processo, e cioè, da un lato l’affievolimento progressivo dell’interesse della comunità alla punizione del comportamento penalmente illecito e il “diritto all’oblio” dei cittadini (quando il reato non sia così grave da escludere tale tutela) e dall’altro, il diritto di difesa, che esige la possibilità di una cosciente partecipazione dell’imputato al procedimento.
Nonostante tale aperta denuncia di irragionevolezza, la medesima Corte, tuttavia, ritenne contestualmente di non poter risolvere la questione, giacché valutò che non fosse “ravvisabile nella fattispecie una conclusione costituzionalmente obbligata dell’anomalia descritta” posto che “le possibilità di
intervento normativo sono difatti molteplici in ordine alle modalità procedurali configurabili. Si potrebbe ad esempio – tra le numerose soluzioni ipotizzabili – introdurre il rimedio radicale della proSCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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nuncia di una sentenza che, a seguito di prognosi di irreversibilità dell’infermità mentale dell’imputato,
dichiari l’impromovibilità o improcedibilità dell’azione, con possibilità di revoca nel caso in cui, prima
della maturazione dei termini prescrizionali, tale prognosi fosse smentita. Si potrebbe, con più gradualità, prevedere invece il compimento di un dato numero di accertamenti ai sensi dell’art. 72 c.p.p., ovvero
la decorrenza di una data frazione del termine prescrizionale, prima della declaratoria di cui all’art. 129
c.p.p.”.
Si trattava, sempre nel ragionamento di quella Corte, di scelte equivalenti quanto al risultato finale,
(e cioè il superamento della rilevata incongruenza), ma affatto diverse quanto all’iter da seguire per definire la situazione sostanziale e processuale dell’imputato, nei cui confronti sia stata accertata l’irreversibile incapacità di partecipare in modo cosciente al procedimento. A ognuna di queste scelte, difatti,
corrispondono valutazioni discrezionali che, inerendo al rapporto tra mezzi e fine, dovrebbero rimanere appannaggio del legislatore. Fu proprio sulla scorta di tali considerazioni, difatti, che venne dichiarata allora l’inammissibilità della questione sollevata e, tuttavia, nell’ambito del medesimo provvedimento venne espressamente affermata l’intollerabilità di un ulteriore “eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia”.
Non colmata la lacuna legislativa, dunque, il collegio veniva nuovamente chiamato a pronunciarsi:
in effetti con sentenza n. 45/2015, veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 159 c.p., “nella
parte in cui, ove lo stato mentale dell’imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e questo venga sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando è accertato
che tale stato è irreversibile”.
Naturalmente, anche in quella sede la Corte si premurava di sottolineare nuovamente l’importanza
di una specifica e pronta definizione del problema dell’imputato irreversibilmente incapace, addirittura
attraverso il richiamo – in sostanza una richiesta di accelerazione – del d.d.l. n. 2067, allora all’esame
della Camera (e attualmente all’esame della Commissione giustizia del Senato) che all’art. 10 prevede
un’ipotesi di art. 72-bis, c.p.p., che recherebbe un caso di “definizione del procedimento per incapacità
irreversibile dell’imputato”.
L’irragionevolezza di una protrazione sine die della prescrizione, veniva, peraltro, rilevata anche
tramite il confronto con il quarto comma dell’art. 159 c.p., aggiunto dall’art. 12, comma 2, legge 28 aprile 2014, n. 67 («Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili»), il quale, nel caso di sospensione del procedimento nei confronti degli imputati irreperibili, di cui
all’art. 420-quater c.p.p., ha posto un limite alla sospensione del corso della prescrizione, stabilendo che
la sua durata “non può superare i termini previsti dal secondo comma dell’articolo 161” c.p., prevedendo cioè che, una volta maturato tale termine, la sospensione debba cessare anche se dovese perdurare l’irreperibilità e la correlativa sospensione del procedimento.
La decisione segnalata, allora, costituisce l’ulteriore e ultimo capitolo del “dialogo istituzionale” tra
Corte e Parlamento e contiene, nelle pieghe della motivazione, un ulteriore spunto degno di nota. Difatti, nell’ordinanza n. 4/2016, se per un verso la Corte ha ritenuto – proprio perché nel frattempo era stata
pronunciata la detta declaratoria di incostituzionalità, con la sentenza n. 45/2015 – che la questione di
legittimità dell’art. 159 c.p. risultasse, di per sé, manifestamente inammissibile (sulla scorta del consolidato orientamento per cui le questioni concernenti norme medio tempore dichiarate illegittime sono manifestamente inammissibili), per un altro ha affermato espressamente che, qualora si fosse accolta la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 150 c.p., la questione di legittimità costituzionale dell’art.
159 c.p., sarebbe diventata priva di rilevanza.
In buona sostanza, posto che il tallone d’Achille dell’ordinanza di rimessione era rappresentato, per
espressa dichiarazione della Corte, dalla prospettazione ancipite (vale a dire alternativa, invece che subordinata) delle due soluzioni ad opera del giudice rimettente, ci si chiede quale sarebbe stato l’esito
ove il quesito si fosse focalizzato in via principale sulla disposizione di cui all’art. 150 c.p. Ciò vale a dire che, probabilmente, bene farebbe il legislatore a considerare tale accorto self-restraint della Corte quale ulteriore, e forse ultimo, monito che, in caso di ulteriore inerzia, ben potrebbe portare in futuro la
Corte stessa a interventi più incisivi, presumibilmente, anche tramite una pronuncia additiva in grado
di equiparare alla morte del reo la sopravvenuta ed irreversibile grave incapacità dello stesso.
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SEZIONI UNITE
di Rosa Gaia Grassia
ILLEGALITÀ DELLA PENA: È ESCLUSA LA RILEVABILITÀ D’UFFICIO SE IL RICORSO PER CASSAZIONE È INAMMISSIBILE
(Cass., sez. un., 3 dicembre 2015, n. 47766)
Chiamate a pronunciarsi sulla rilevabilità, in sede di giudizio di cassazione ed in presenza di un ricorso
inammissibile, dell’illegalità della pena determinata ab origine dall’applicazione di una sanzione contraria alla disciplina normativa vigente al momento di consumazione del reato, le Sezioni Unite hanno
confermato l’impossibilità, per il giudice di legittimità, di agire d’ufficio sulla pena illegittima, così come sostenuto da giurisprudenza prevalente. In altri termini, dunque, se il ricorso è inammissibile perché presentato fuori termine, l’illegalità della pena potrà essere dedotta in fase di esecuzione, ma non
rilevata d’ufficio dal giudice di Cassazione.
In particolare, due sono gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità nel tempo affermatisi sul
punto – a causa del cui contrasto la V Sezione della Corte di cassazione ha, nel caso affrontato, rimesso
la questione alle Sezioni Unite –: il primo (Cass., sez. V, 9 luglio 2004, n. 36293 e Cass., sez. II, 8 luglio
2013, n. 44667) esclude la rilevabilità in oggetto, sulla scorta dell’impossibilità di formare un valido
rapporto di impugnazione in presenza di una qualsiasi causa di inammissibilità, adducendo come
esempio l’inammissibilità del ricorso, che impedisce la declaratoria di prescrizione intervenuta successivamente alla sentenza di secondo grado ma prima dell’udienza di legittimità, sicché non sarebbe possibile esercitare il potere di cognizione ad quem anche delle questioni rilevabili d’ufficio – come, nel caso
di specie, la violazione del principio di legalità della pena –, in virtù della prevalenza della declaratoria
di inammissibilità; il secondo (Cass., sez. V, 27 aprile 2012, n. 24128 e Cass., sez. V, 13 giugno 2014, n.
46122), invece, ben più recente, richiamando il principio di legalità di cui all’art. 1 c.p.p. e la funzione
costituzionale della pena di cui all’art. 27 c.p.p., sostiene che l’inammissibilità del ricorso non rechi impedimenti al giudice di legittimità nel procedere all’annullamento necessario della sentenza impugnata,
qualora sia stata irrogata una pena illegale.
Peraltro, proprio seguendo tale esposto secondo orientamento, nel non lontano passato, la Suprema
corte (Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821) ha affermato, in ossequio sia all’evoluzione interpretativa dei principi della Cedu che alla giusta interpretazione della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost., la non applicabilità di una sanzione penale rivelatasi illegittima in termini
convenzionali e costituzionali successivamente al giudicato.
Ciò nonostante, nella sentenza in esame, la stessa Corte, nelle proprie motivazioni, si attesta su una
diversa e recentissima pronuncia delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 26 febbraio 2015, n. 33040), attinente alla simile questione della rilevabilità d’ufficio, per i giudici di legittimità, della nullità sopravvenuta
della sentenza, in conseguenza dell’illegalità della pena determinata da dichiarazione di illegittimità
costituzionale, anche in caso di inammissibilità del ricorso.
Orbene, in tale occasione – basata sulla diversa valorizzazione dell’ambito applicativo dell’art. 609,
comma 2, c.p.p., ai sensi del quale la Corte di cassazione può decidere le questioni rilevabili d’ufficio in
ogni stato e grado del processo, oltre a quelle non precedentemente dedotte per impossibilità oggettiva
–, la Corte stessa ha sostenuto l’inidoneità del ricorso per cassazione affetto ab origine da inammissibilità
all’instaurazione del rapporto di impugnazione, con la conseguente impossibilità di esercizio dei poteri
officiosi per il giudice, inclusa la possibilità di rilevare d’ufficio le cause di non punibilità ex art. 129
c.p.p. Peraltro, sempre come sostenuto nella medesima pronuncia, eccezione a tale principio è rappresentata solo dal caso in cui l’impugnazione inammissibile non condizioni l’accertamento del giudice,
ipotesi nella quale la cognizione del giudice stesso cade sull’accertamento dell’abolitio criminis o della
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dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice oggetto dell’imputazione.
In essa, infatti, testualmente si legge che “nel giudizio di cassazione l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo”.
E dunque, proprio sulla scia di tale posizione giurisprudenziale, cui nella sentenza in oggetto si fa
appunto espresso riferimento, le Sezioni Unite hanno ribadito che solo detto ricorso tardivamente proposto costituisce una deroga alla prevalenza del rilievo dell’illegalità della pena sul giudicato sostanziale, atteso che, in tal caso, l’impugnazione è fin dall’origine inidonea all’instaurazione di un valido rapporto processuale, poiché il giudicato sostanziale è già stato trasformato in giudicato formale dal decorso del termine derivante dalla mancata proposizione dell’impugnazione, ragion per cui il giudice non
può che limitarsi a verificare il decorso del termine e a prenderne atto.
Pertanto, la declaratoria di inammissibilità si risolve nella mera constatazione dell’ormai formato giudicato sostanziale fin dall’insorgenza della causa stessa di inammissibilità, concretizzatosi poi alla scadenza dei termini per proporre l’impugnazione.
Al riguardo, la Corte ha altresì addotto un’interpretazione dell’art. 648, comma 2, c.p.p., in base alla
quale quando il suddetto termine per proporre impugnazione è inutilmente decorso, la sentenza è irrevocabile, a prescindere dall’esito del relativo giudizio.
In conclusione, quindi, con tale pronuncia, la giurisprudenza di legittimità ha riaffermato la natura
dirimente dell’inammissibilità contrassegnata dall’inosservanza del termine per impugnare, destinata
comunque a prevalere anche in caso di illegalità ab origine della pena, sicché ne discende il principio di
diritto secondo cui “in presenza di ricorso inammissibile perché presentato fuori termine non è rilevabile d’ufficio, in sede di legittimità, l’illegalità della pena”.
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ CONCERNENTE MISURE CAUTELARI REALI: È SUFFICIENTE IL CONTRADDITTORIO
CARTOLARE
(Cass., sez. un., 30 dicembre 2015, n. 51207)
Con la sentenza in oggetto, la Suprema corte si è pronunciata in merito alla questione attinente alle
forme del rito camerale da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto avverso ordinanze del tribunale del riesame o dell’appello cautelare che avessero deliberato in materia di sequestro preventivo –
ai sensi degli artt. 322, 322-bis, 324 e 325 c.p.p. –, ossia se esse debbano essere quelle non partecipate,
previste dall’art. 611 c.p.p., o quelle partecipate, di cui al 127 c.p.p.
Nello specifico, per il giudizio di cassazione la regola generale è posta dal suddetto art. 611 c.p.p.
(così come da ultimo sostenuto da Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848), ai sensi del quale, quando
il ricorso non è proposto contro un provvedimento emesso nel dibattimento, o contro una sentenza deliberata ex art. 442 c.p.p., il rito ordinario dinanzi alla Corte di cassazione è quello camerale con il solo
contraddittorio scritto, che, per i suoi ritmi temporali, costituisce comunque un valido espletamento del
diritto di difesa delle parti.
Ne deriva, dunque, che il rito camerale partecipato, con la possibilità di intervento orale delle parti,
disciplinato dal precedente art. 127 c.p.p., rappresenta solo un’eccezione, che deve essere espressamente prevista nel caso specifico dal legislatore, e ciò appare in linea con l’alto tasso di tecnicismo che caratterizza proprio il giudizio di cassazione.
Orbene, secondo il descritto quadro procedurale, se non è diversamente stabilito, e in deroga a
quanto disposto dal succitato art. 127 c.p.p., la Corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore
generale e sulle memorie delle altre parti, senza l’intervento dei difensori; dette parti, peraltro, possono
presentare, fino a quindici giorni prima, motivi nuovi e memorie, e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica.
Tanto premesso, si evidenzia che il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti in materia di misure cautelari, disciplinato dall’art. 325 c.p.p., secondo un risalente orientamento delle Sezioni Unite (Cass,
sez. un., 26 aprile 1990, n. 4 e Cass, sez. un., 6 novembre 1992, n. 14), deve essere invece trattato con il rito
camerale partecipato, e dunque con le forme di cui all’art. 127 c.p.p., in virtù del richiamo effettuato dal
comma 3 di tale art. 325 c.p.p. ai commi 3 e 4 dell’art. 311 c.p.p., i quali, con il riferimento alla “discussione”, delineerebbero un modello procedimentale incompatibile con quello di cui all’art. 611 c.p.p.
Tale posizione appare peraltro in linea con il prevalente orientamento della giurisprudenza comuniSCENARI | SEZIONI UNITE
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taria, che, considerando il carattere afflittivo dell’ablazione reale, imporrebbe un’ampia applicazione
della partecipazione, della comunicazione e della contrapposizione dialettica (Corte e.d.u., 29 ottobre
2013, Vardara c. Italia, e Corte e.d.u., 20 ottobre 2009, Sud Fondi c. Italia).
Ciò nonostante, a giudizio della VI Sezione della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso
in esame, la mancata previsione dell’esplicito rinvio anche al comma 5 dell’art. 311 c.p.p. --- unica norma
che impone esplicitamente l’osservanza delle forme di cui all’art. 127 c.p.p. per la trattazione del ricorso
avverso le misure cautelari personali --- avrebbe dovuto assumere un rilievo oggettivo tale da rendere
impossibile attribuirlo ad una scarsa qualità del dettato legislativo, così da ritenere invece tale omissione coerente con un’esplicita scelta contraria, quale quella di rendere applicabile l’ordinario contraddittorio scritto al ricorso per il sequestro.
Peraltro, sempre a parere della suddetta sezione remittente, l’integrale contenuto del comma 4 dell’art. 311 c.p.p. parrebbe assumere senso solo alla luce del successivo comma 5, che, associando il rito di
cui all’art. 127 c.p.p. al termine di trenta giorni per la trattazione, legittima la proposizione dei motivi
nuovi fino all’udienza, e ciò introdurrebbe altresì un’eccezione alla disciplina di cui allo stesso art. 127,
comma 2, c.p.p., dichiarata, da detto comma 5 (contenente la sola esplicita deroga all’art. 311 c.p.p.),
applicabile per i soli ricorsi in tema di cautela personale.
Tuttavia, essendo tale posizione del tutto contraria all’indirizzo consolidato, e potendo ad essa seguire
incertezze applicative, si è preferito devolvere la questione alle Sezioni Unite.
Queste ultime, dunque, hanno preliminarmente ricostruito la normativa regolatrice della materia,
soffermandosi in particolare sul comma 4 dell’art. 311 c.p.p., laddove prevede la possibilità di enunciare nuovi motivi dinanzi alla Corte di Cassazione, prima dell’inizio della “discussione”: termine, questo,
che già di per sé riconduce ad una trattazione orale, e che pertanto giustifica il mancato espresso richiamo al comma 5 del medesimo articolo, che impone esplicitamente l’osservanza delle forme di cui
all’art. 127 c.p.p.
Il Collegio ha poi evidenziato la natura di norma speciale dell’art. 611 c.p.p. rispetto a quella di norma generale dell’art. 127 c.p.p., nonché il fatto che lo stesso art. 611 c.p.p. rappresenta la mera attuazione della previsione di cui all’art. 2, Direttiva 89, della legge delega per l’emanazione del nuovo codice
di procedura penale, e di quella di cui all’art. 2, Direttiva 95, della medesima legge, contenente l’indicazione del «diritto delle parti di svolgere le conclusioni davanti alla Corte di Cassazione», e ancora
che, peraltro, il rito camerale cui esso fa riferimento costituisce una forma specifica e generale per la sede di legittimità, derogatoria rispetto alla forma prevista in via generale per la sede di merito, la cui peculiarità consiste nella modalità attuativa del principio del contraddittorio, cartolare e non partecipato.
Con una simile analisi, quindi, le Sezioni Unite si discostano dalla posizione che in passato avevano
assunto (nelle summenzionate pronunce degli anni ‘90), seppur dinanzi ad un quadro normativo immutato, e al contempo si attestano invece su un più recente orientamento (Cass., sez. un., 18 ottobre
2012, n. 41694), che, con riferimento al procedimento per la trattazione in camera di consiglio non partecipata, in sede di legittimità, dei ricorsi in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione, ha ritenuto
tale modalità di realizzazione del contraddittorio non ostacolata dalla giurisprudenza della Corte e.d.u.,
la quale, affermando la necessità di offrire al soggetto interessato quanto meno la possibilità di richiedere una trattazione in pubblica udienza, non si riferisce al giudizio innanzi alla Corte di Cassazione.
Peraltro, la Suprema Corte ha poi ricordato le conclusioni cui è pervenuta la Corte costituzionale
nella sentenza n. 80/2011, la quale ha desunto, proprio dalla giurisprudenza della Corte e.d.u., «il principio secondo il quale, in riferimento al giudizio di legittimità, la pubblicità della udienza non rappresenta un corollario necessario e inderogabile del diritto alla pubblicità del processo garantito dall’art. 6,
§ 1, della Cedu».
D’altronde, come si legge in motivazione, anche le sezioni semplici hanno, sotto diversi profili, analizzato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 611 c.p.p., ricavandone comunque la piena legittimità della procedura camerale in esso contenuta, anche alla luce della normativa convenzionale e costituzionale, tramite la non fraintendibile distinzione tra giudizio di merito e giudizio di legittimità.
Invero, come precisato dallo stesso art. 611 c.p.p., la specialità della procedura camerale non partecipata
nel giudizio di cassazione opera «se non è diversamente stabilito», e pure gli artt. 325, comma 3, e 311,
commi 3 e 4, che esso richiama, non dispongono nulla di diverso rispetto a quanto nello stesso indicato,
diversamente da quanto avviene nel comma 5 dell’art. 311 c.p.p., laddove l’osservanza delle forme previste dall’art. 127 c.p.p. è invece specificatamente prevista.
Da ciò, dunque, si deduce la non irrilevanza dell’assenza di un richiamo anche al comma 5 dell’art.
311 da parte dell’art. 325 c.p.p., atteso che essa rappresenta la mancanza di quell’espressa previsione di
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un diverso rito camerale che l’art. 611 c.p.p. chiaramente richiede con l’individuazione dei casi in cui
non si procede nella forma non partecipata.
Nelle conclusioni, il Collegio ha infine sottolineato che il ricorso al rito camerale non partecipato non
comporta rilevanti conseguenze sulla celere definizione dei processi, atteso, anzitutto, che il maggior
termine di trenta giorni previsto dall’art. 610, comma 5, c.p.p., rispetto a quello stabilito dall’art. 127
c.p.p., può essere comunque ridotto a richiesta delle parti, secondo quanto disposto dall’art. 169 norme
att. c.p.p., e che, peraltro, per l’individuazione della data di udienza, ex art. 611 c.p.p., non è necessario
attendere che sia licenziata la requisitoria scritta, giacché la sua mancanza non impedisce la trattazione
del ricorso.
Con tali motivazioni, quindi, la Suprema Corte ha risposto al quesito al suo esame posto, affermando che il rito da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 325 c.p.p. deve svolgersi nel rispetto delle forme previste dall’art. 611 c.p.p., e non di quelle di cui invece all’art. 127 c.p.p.
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Paola Corvi
L’IMPUGNABILITÀ DELL’ORDINANZA DI RIGETTO DELLA ISTANZA DI SOSPENSIONE CON MESSA ALLA PROVA
(Cass., sez. II, 13 novembre 2015, n. 45338)
La sentenza in esame chiarisce quali siano le soluzioni previste a favore dell’imputato nel caso in cui il
giudice abbia rigettato l’istanza di messa alla prova formulata nel corso dell’udienza preliminare, stabilendo che l’imputato può impugnare immediatamente la decisione con ricorso per cassazione ovvero
può riproporre la richiesta nel giudizio, prima dell’apertura del dibattimento. Si esclude viceversa che
l’imputato abbia la facoltà di reiterare la richiesta prima della conclusione dell’udienza preliminare,
poiché l’istanza di sospensione con messa alla prova può essere proposta una sola volta nell’ampio
termine di cui all’art. 464-bis, comma 2 c.p.p. e riproposta, una volta che il giudice abbia deciso negativamente, solo nel successivo giudizio.
In tale provvedimento la Corte di Cassazione segue l’orientamento secondo il quale l’ordinanza di
rigetto dell’istanza di sospensione con messa alla prova è autonomamente impugnabile dall’imputato
con ricorso per cassazione: depone in tal senso il tenore letterale dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p.,
che include nella disciplina dell’autonoma ricorribilità qualsiasi provvedimento decisorio, senza distinguere tra ordinanze di sospensione del procedimento e ordinanze di rigetto, (Cass., sez. VI, 10 settembre 2015, n. 36687; Cass., sez. II, 19 maggio 2015, n. 20602; Cass., sez. V, 4 giugno 2015, n. 24011). Il dato
testuale sottrae dunque il provvedimento, con cui il giudice decide sull’istanza di messa alla prova, alla
previsione generale di cui all’art. 586 c.p.p., con la conseguenza che la reiterazione dell’istanza dà luogo
alla possibile riproposizione dell’impugnazione dell’ordinanza di rigetto: in questa prospettiva, escludere la reiterazione dell’istanza di messa alla prova prima della conclusione dell’udienza preliminare
non solo è conforme al dato normativo, ma consente di evitare plurime reiterazioni di istanze con correlative impugnazioni delle eventuali ordinanze di rigetto, che non farebbero altro che paralizzare il processo con il rischio di creare inestricabili problemi processuali (Cass., sez. II, 13 novembre 2015, n.
45338).
Tale interpretazione dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p., seppure ritenuta tendenzialmente maggioritaria (Cass., sez. VI, 10 settembre 2015, n.36687), non è tuttavia unanimemente condivisa nella giurisprudenza di legittimità.
In altre recenti decisioni della Corte di Cassazione si afferma, nel caso di specie, l’applicabilità dell’art. 586 c.p.p., secondo cui, quando non è diversamente stabilito, le ordinanze emesse nel corso del dibattimento o degli atti preliminari possono essere impugnate, a pena di inammissibilità, solo unitamente alla sentenza. Conseguentemente l’ordinanza con la quale il giudice del dibattimento rigetta l’istanza
di sospensione del processo per la messa alla prova dell’imputato è impugnabile solo unitamente alla
sentenza e le due impugnazioni saranno valutate congiuntamente dal giudice (Cass., sez. V, 12 ottobre
2015, n. 41033; Cass., sez. II, 8 ottobre 2015, n. 40397; Cass., sez. V, 17 giugno 2015, n. 25566; Cass., sez.
V, 6 febbraio 2015, n. 5673; Cass., sez. V, 6 febbraio 2015, n. 5656).
Secondo questo orientamento, infatti, l’impugnazione diretta e immediata della decisione sull’istanza
di messa alla prova, prevista dall’art. 464-quater, comma 7, c.p.p., ha ad oggetto esclusivamente il provvedimento con il quale, in accoglimento dell’istanza dell’imputato, il giudice abbia disposto la sospensione del procedimento con messa alla prova, poiché solo in tal caso alle parti non sarebbe altrimenti
consentito alcun rimedio avverso la decisione assunta. Il fatto che la legittimazione a ricorrere per cassazione sia attribuita anche all’imputato non deve far ritenere che la norma in oggetto si riferisca anche al
provvedimento di rigetto della richiesta, posto che l’imputato può avere interesse ad impugnare anche il
provvedimento di accoglimento con il quale siano state imposte prescrizioni considerate troppo gravose
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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o comunque eccentriche rispetto al contenuto del programma di trattamento proposto, così come la valutazione in esso compiuta circa l’assenza delle condizioni per una pronunzia ex art. 129 c.p.p.
Il tenore letterale dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p., che menziona genericamente l’ordinanza che
decide sull’istanza di messa alla prova, non è dirimente atteso che tale riferimento deve essere letto alla
luce del complessivo contenuto dei commi precedenti, i quali disciplinano l’oggetto e gli effetti del
provvedimento di accoglimento, mentre il provvedimento di reiezione viene menzionato solo nel successivo comma 9 ed all’esclusivo fine di prevedere la facoltà di riproposizione della richiesta.
Inoltre, secondo questo indirizzo, in una visione sistematica, la ricorribilità immediata del solo
provvedimento di rigetto senza la contestuale previsione del potere del giudice di sospendere il procedimento in attesa della decisione della Cassazione sul ricorso, apparirebbe scelta irragionevole. Sempre
a sostegno di questa tesi, si è sottolineato come l’analoga disciplina dell’istituto della messa alla prova
del minore, dopo qualche incertezza iniziale, sia stata oramai interpretata in maniera consolidata dalla
giurisprudenza di legittimità nel senso della ricorribilità immediata dei soli provvedimenti applicativi
della misura (tra le altre, Cass., sez. IV, del 18 giugno 2002, n. 34169, Cass., sez. I, 31 maggio 1995, n.
2429 in cui si sottolinea come l’autonoma impugnabilità dell’ordinanza reiettiva della richiesta di sospensione non avrebbe apprezzabili effetti pratici ai fini dell’obiettivo di ridurre al minimo il contatto
fra il minorenne e il processo penale, posto che quest’ultimo, anche in pendenza dell’impugnazione,
non potrebbe che proseguire).
Una lettura condivisa dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p. sarebbe auspicabile, in considerazione della sanzione di inammissibilità che colpisce l’impugnazione ritenuta intempestiva.
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
Avanguardie in giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LA LORO APPLICABILITÀ
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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Mandato d’arresto europeo: la scadenza dei termini per
produrre i documenti non incide sull’efficacia della richiesta
e non preclude un successivo giudizio di merito
CORTE DI
ZELLIS
CASSAZIONE, SEZIONE VI, SENTENZA 15 OTTOBRE 2015, N. 41516 – PRES. MILO; REL. PETRUZ-
Nella procedura del mandato di arresto europeo il precedente rigetto dell’istanza determinato da ragioni procedurali, sia pure passato in giudicato, non è preclusivo di un successivo giudizio di merito e non determina alcuna perenzione dell’azione, ma solo la perdita di efficacia della misura cautelare eventualmente applicata. La preclusione
può sopraggiungere solo in presenza di una riscontrata rinuncia dell’autorità richiedente all’esecuzione del mandato, in mancanza della quale, per la ripresa del procedimento, non è necessaria una nuova richiesta da parte dell’autorità straniera, non potendo trovare applicazione l’art. 707 c.p.p. in ragione della differenza strutturale tra la procedura estradizionale e quella in esame.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 09/09/2015, ha disposto la consegna di (Omissis)
all’autorità giudiziaria della Repubblica Ceca – Tribunale circoscrizionale Praga 8 – che ne aveva fatto
richiesta con atto dell’11/11/2014, per la celebrazione di un procedimento penale a suo carico per i reati
di falso e truffa ed ha contestualmente previsto che, in applicazione dell’art. 19 lett. c) l. 22 aprile 2005 n.
69, nell’ipotesi di condanna, (Omissis) venga consegnato all’autorità italiana per l’espiazione della pena.
2.1. La difesa di (Omissis) deduce nel suo ricorso violazione della disposizione di cui all’art. 707 cod.
proc. pen.
Si osserva in fatto che la medesima Corte territoriale aveva già pronunciato il rigetto della richiesta
di consegna con sentenza divenuta definitiva il 07/07/2015, a causa della reiterata mancanza di trasmissione da parte dell’autorità richiedente dei provvedimenti interni a sostegno del mandato di arresto
europeo, e della scadenza del termine fissato e successivamente prorogato, per la loro trasmissione. La
situazione descritta, secondo l’esponente, preclude l’accoglimento della richiesta alla ricezione degli
atti intervenuta in epoca successiva a tale data, in conseguenza della mancata emissione di un nuovo
mandato di arresto europeo, in conformità a quanto previsto dall’art. 707 cod. proc. pen. che impone,
per l’accoglimento dell’istanza in condizioni sopravvenute analoghe a quelle verificatesi nel caso concreto, la nuova emissione della richiesta di estradizione.
Si contesta l’autonomia del procedimento in esame rispetto a quello estradizionale posta immotivatamente dalla Corte di merito a sostegno della propria decisione, determinazione contrastata dal richiamo contenuto nell’art. 39 l. n. 69 del 2005 alle disposizioni del codice procedurale, a cui si ritiene
che debba correlarsi la cogenza nella fattispecie della disposizione dettata in terna di estradizione.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge in relazione all’art. 19 lett. c) l. n. 69 del
2005, nella parte in cui la pronuncia impugnata ha disposto la consegna dell’interessato allo Stato italiano solo ai fini dell’esecuzione della pena, e non a seguito della sua audizione nel procedimento, come
testualmente previsto dalla disposizione invocata.
3.1. Ha proposto ricorso il P.g. presso la Corte d’appello di Bologna, che ha contestato la decisione di
consegna, nella parte in cui ha previsto l’espiazione dell’eventuale pena in Italia, assumendo che le
condizioni di fatto accertate nel procedimento escludessero l’estremo della residenza e del radicamento
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MANDATO D’ARRESTO EUROPEO: LA SCADENZA DEI TERMINI ...
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in Italia del richiedente, unica condizione che legittima l’applicazione di tale disposizione alla persona
che non possegga la cittadinanza dello Stato richiesto.
Si chiede conseguentemente l’annullamento di tale capo della pronuncia, o in subordine, l’annullamento della sentenza sul punto, con rinvio per nuovo esame al riguardo, stante la mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione in proposito.
3.2. Con memoria depositata il 12/10/2015 la difesa del ricorrente si oppone all’accoglimento del ricorso del P.g. evidenziando le condizioni di fatto che, secondo la sua prospettazione, legittimano l’accertato radicamento del (Omissis) nel territorio nazionale, in situazione che consente l’apposizione sul
provvedimento di consegna delle garanzie richieste allo Stato membro di emissione previste dall’art. 19
lett. c) l. n. 69 del 2005.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto dalla difesa è infondato, mentre deve trovare accoglimento quello del P.g.
2. L’eccezione procedurale riguardante la mancanza di un autonomo provvedimento di attivazione
del procedimento successivo al giudicato sulla richiesta di arresto dell’interessato, che si ritiene ostativa
alla reintroduzione del procedimento di consegna, non può trovare accoglimento.
Alla luce dei principi che disciplinano la materia si deve infatti ritenere che nella procedura del
mandato di arresto europeo l’emissione di una sentenza che, per motivi estranei ai requisiti strutturali
della richiesta ed a valutazioni di merito, non ne disponga l’esecuzione, non esclude l’efficacia giuridica
del provvedimento, che permane quale istanza di consegna, pur a seguito della pronuncia di rigetto,
venendo meno solo la sua idoneità a consentire l’emissione di un provvedimento restrittivo sulla base
dei medesimi presupposti.
Giova ricordare in argomento che il favor sulla collaborazione delle autorità giudiziarie tra gli Stati al
quale è improntato il sistema è stato di recente ribadito con sentenza della Corte di giustizia europea
(C-237/15), che ha richiamato l’inesistenza di un obbligo dello Stato richiesto di porre in libertà
l’arrestato, sia pure alla scadenza dei termini previsti dall’art. 17 della decisione quadro 2002/584/GAI
del Consiglio del 13 giugno 2002, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio
del 26 febbraio 2009, conclusione improntata alla necessità che il procedimento permetta nel concreto la
collaborazione tra gli Stati.
Nello stesso senso si rileva che, in forza del contesto in cui si colloca l’articolo 15, paragrafo 1, della
decisione quadro 2002/584/GAI, oltre che sulla base della giurisprudenza costante della Corte di giustizia europea in argomento, risulta che il principio del riconoscimento reciproco, che costituisce la "pietra angolare" della cooperazione giudiziaria, implica, a norma dell’articolo 1, paragrafo 2, della decisione quadro, che gli Stati membri siano tenuti in linea di principio a dar corso a un mandato d’arresto europeo e che questi ultimi possano rifiutarsi di eseguire tale mandato soltanto nei casi espressi di non
esecuzione di cui agli articoli 3, 4 e 4 bis della decisione quadro e subordinare l’esecutorietà alle sole
condizioni definite all’articolo 5 della medesima disposizione, circostanza che ha condotto ad escludere
che la decisione quadro debba essere interpretata nel senso che, dopo la scadenza del termini di cui
all’articolo 17 della stessa disposizione, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione non possa più adottare la
decisione sull’esecuzione del mandato d’arresto europeo, e ad escludere che lo Stato membro di esecuzione non sia più tenuto a proseguire il procedimento di esecuzione di detto mandato.
Tale interpretazione è implicitamente confermata anche dalla pronuncia di questa Corte (Sez. U, n.
4614 del 30/01/2007, Ramoci, Rv. 235348), ove si chiarisce che i termini per la trasmissione degli atti
non sono posti a presidio dell’efficacia della richiesta, ma hanno natura ordinatoria e funzione di accelerazione interna per la definizione del procedimento e di limite alla discrezionalità dell’autorità italiana sull’entità della durata del giudizio.
Ne consegue che, pur nella possibilità di disporre la liberazione dell’interessato a causa di ritardi
nella procedura, per la scarsa collaborazione dello Stato richiedente, e pur essendo riconosciuto che, per
esigenze di giustizia interna, il procedimento possa chiudersi con un rigetto dell’istanza, ove i documenti non pervengano nel termine concesso all’autorità richiedente (S.U. cit.), tale decisione non possa
ritenersi preclusiva di un successivo giudizio di merito, preclusione che può sopraggiungere solo in
presenza di una riscontrata rinuncia dell’autorità richiedente all’esecuzione del mandato.
Tale ultima evenienza non ricorre nella fattispecie in quanto anche alla scadenza del termine di cui
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MANDATO D’ARRESTO EUROPEO: LA SCADENZA DEI TERMINI ...
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all’art. 17 l. n. 69/2005, in attuazione della legge quadro, non può considerarsi intervenuta alcuna perenzione dell’azione, ma solo la perdita di efficacia della misura (principio pacifico; per tutte da ultimo
Sez. F, n. 35525 del 07/08/2014, Brindusescu, Rv. 261744).
3. Ciò premesso in linea teorica, nel concreto deve verificarsi se la pronuncia in rito della Corte
d’appello di Bologna del 26/06/2015, intervenuta nella specie, abbia fatto venir meno l’efficacia della
richiesta di consegna; la risposta non può che essere negativa, non solo in quanto, a fronte dell’invio
degli atti a sostegno del mandato, la precedente istanza risulta possedere tutti i requisiti per la sua piena valutazione, ma anche perché proprio tale invio, e la mancata revoca del mandato di arresto europeo
emesso in precedenza, attestano la persistente volontà dell’autorità richiedente all’esecuzione del provvedimento.
Alla luce della ricostruzione svolta risulta corretta la determinazione della Corte territoriale che ha
ritenuto non ostativo il precedente rigetto, sia pure passato in giudicato, per la natura procedurale della
decisione, e non ha considerato necessaria alla ripresa del procedimento la formulazione di una nuova
richiesta da parte dell’autorità straniera. Pur mancando nel provvedimento una giustificazione espressa
la decisione si sostiene in ragione della differente natura dei procedimenti, atteso che solo l’avvio della
procedura estradizionale prevede l’espressione di una volontà politica di persistenza dell’interesse alla
collaborazione, mentre nel caso che ci occupa, sulla base dei principi fondamentali posti a base della
comunicazione diretta degli organi giudiziari degli Stati europei, deve intendersi persistente l’efficacia
della richiesta di consegna, ove non revocata; peraltro nel caso di specie, in ragione dell’intervento medio tempore di una pronuncia interna che attestava la mancanza di documentazione integrativa e non
poneva in dubbio la validità del mandato di arresto europeo, l’attivazione dell’autorità richiedente, sia
pur tardiva, non consente di connettere il silenzio alle richieste di integrazione ad una revoca implicita,
stante la correlazione di quanto inviato al contenuto del provvedimento posto a base della procedura.
Così superato il problema formale della carenza di un nuovo mandato, in ragione della differenza
strutturale tra la procedura estradizionale e quella in esame, l’applicazione dell’art. 707 cod. proc. pen.
al caso di specie, consentita attraverso la disposizione di chiusura contenuta nell’art. 39 l. n. 69 del 2005,
oltre che i principi generali, escludono la possibilità di una seconda pronuncia sui medesimi presupposti, mentre, come già chiarito, tale condizione di fatto è inesistente poiché, a fronte del permanere del
mandato di arresto europeo, ad esso è sopraggiunta la documentazione relativa al provvedimento di
cattura interno che illustra le condizioni legittimanti dell’istanza, documento che costituisce presupposto necessario e sufficiente, ove argomentato sui gravi indizi e sui presupposti legittimanti la misura, a
permettere la consegna.
Le condizioni di fatto descritte consentono di ravvisare gli estremi che legittimano l’emissione del
provvedimento di consegna, risultando verificata la presenza di una domanda efficace, fondata su elementi che non hanno costituito oggetto di precedente valutazione.
4. Tale interpretazione, che esclude l’effetto preclusivo di pronunce in rito ove le situazioni ostative
vengano superate, è stata già condivisa da questa Corte proprio in materia di estradizione (Sez. 6, n.
8812 del 25/02/2011, Baillu, Rv. 249640), circostanza che ulteriormente confronta sull’applicabilità del
medesimo principio nella procedura che ci occupa, alla luce dei più radicati principi di obbligatoria collaborazione che collegano gli Stati dell’Unione, richiamati nella pronuncia della Corte di giustizia europea cui si è fatto riferimento.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MANDATO D’ARRESTO EUROPEO: LA SCADENZA DEI TERMINI ...
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LORENZO PULITO
Dottore di ricerca in Diritto processuale penale – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” (Sede di Taranto)
Precisazioni in ordine al “giudicato” sulla consegna
ed ultrattività del mandato di arresto europeo
Remarks on the judgement concerning the surrender
and the continuing effect of the European arrest warrant
L’emissione di una sentenza definitiva che, per motivi estranei ai requisiti strutturali della richiesta ed a valutazioni
di merito, non ne disponga l’esecuzione, non esclude l’efficacia giuridica del mandato di arresto, ove non espressamente revocato, e non è ostativa alla ripresa del procedimento, pur in assenza di una nuova richiesta.
An arrest warrant maintains its full legal effect even in the absence of a final judgment ordering its enforcement,
for reasons not related to the structural requirements of the request and for a trial on merits, provided that the arrest warrant was not be expressively revoked. The issuance of such a judgment does not impede the resumption
of the proceedings, notwithstanding the absence of a new request.
PREMESSE STORICHE
L’idea di fondo che ha ispirato la decisione quadro istitutiva del mandato di arresto europeo, racchiusa sinteticamente nel principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie 1, si è arricchita, nel corso degli oltre dieci anni di esperienza dello strumento, di numerose declinazioni pratiche, che
ne hanno di volta in volta inverato la portata innovativa.
Quella in esame ha chiarito che l’emissione di una sentenza definitiva che, per motivi estranei ai requisiti strutturali della richiesta ed a valutazioni di merito, non ne disponga l’esecuzione, non esclude
l’efficacia giuridica del mandato di arresto, ove non espressamente revocato, e non è ostativa alla ripresa del procedimento, pur in assenza di una nuova richiesta, diversamente da quanto previsto nel sistema estradizionale.
Per meglio apprezzare la decisione appare utile richiamare il contesto storico-politico in cui è sorto
l’istituto in argomento, figlio delle rinsaldate prospettive di rafforzamento della cooperazione tra gli Stati membri dell’Unione europea nel settore penale introdotte dal Trattato di Amsterdam, che ha rilanciato,
tra i nuovi obiettivi dell’azione dell’Unione europea, il raggiungimento di uno «spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima» 2.
Una tappa davvero decisiva nel processo di attuazione delle disposizioni del Trattato di Amsterdam sullo «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» è costituita dal Consiglio europeo di Tampere 3 del1
Per un’analisi sulle origini ed i contenuti del principio di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie si rimanda a G.
Daraio, I «provvedimenti provvisori» e il «sequestro di beni», in L. Kalb (a cura di), Mandato di arresto europeo e procedure di consegna,
Milano, 2005, p. 339 ss.
2
Secondo quanto sancito dal c.d. «Piano d’azione di Vienna» (adottato dal Consiglio giustizia e affari interni del 3 dicembre
1998, in Gazz.Uff.CE, 23 gennaio 1999, C 19, e volto ad attuare nel modo migliore le disposizioni del Trattato di Amsterdam
concernenti lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia) queste tre nozioni, libertà, sicurezza e giustizia, vanno considerate strettamente legate tra loro, in quanto «la libertà perde fortemente di significato se essa non può essere vissuta in un ambiente sicuro
e senza un sistema giudiziario che riscuota la fiducia dei cittadini dell’Unione e delle persone che vi risiedono».
3
Sul Consiglio di Tampere e sulle prospettive dallo stesso dischiuse per la realizzazione dello spazio giudiziario europeo, v., per
tutti, L. Salazar, La costruzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia dopo il Consiglio europeo di Tampere, in Cass. pen., 2000, p. 1114 ss.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRECISAZIONI IN ORDINE AL“GIUDICATO” SULLA CONSEGNA ED ULTRATTIVITÀ ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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l’ottobre 1999, nel quale si indicava quale fattore decisivo per una maggiore integrazione europea
l’applicazione del «principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie», oggi “costituzionalizzato” negli artt. 67, § 4, e 81, § 1, T.F.U.E., la cui prima concretizzazione è rappresentata dal
mandato di arresto europeo.
Muovendo, infatti, dalla consapevolezza che uno spazio «autentico» di giustizia non è tale se i cittadini non si possono rivolgere «ai tribunali e alle autorità» degli Stati membri con la stessa facilità con
cui si rivolgono a quelli del loro Paese, e se i criminali possono «sfruttare le differenze tra i sistemi giudiziari degli Stati membri» (punto 5 delle Conclusioni, nonché punti 28 ss.), i Capi di Stato e di governo
europei riuniti a Tampere giunsero ad auspicare che quel principio diventasse «il fondamento della cooperazione giudiziaria» in materia civile come in quella penale, in modo che il rispetto e l’esecuzione
delle decisioni giudiziarie, in condizioni di reciprocità, salvaguardassero «al tempo stesso la sicurezza
giuridica di base per i cittadini in genere e per gli operatori economici» (punto 33, nonché punto 5 delle
Conclusioni).
In definitiva, com’è stato osservato, «se […] l’obiettivo di realizzare uno spazio di libertà, sicurezza e
giustizia è comune a tutti gli Stati membri, comune deve essere anche l’interesse alla prevenzione dei
reati e alla punizione dei colpevoli. Allora, sullo sfondo non può che esserci uno spazio di giustizia europeo dove la libera circolazione di persone e di beni voglia dire anche circolazione delle decisioni giudiziarie dei vari Stati, senza mediazioni governative e senza particolari filtri e verifiche di legittimità,
sulla base di principi di civiltà giuridica e di istituti e fattispecie penali che, all’interno dell’Unione, non
conoscono consistenti divaricazioni» 4.
La fiducia reciproca tra gli Stati, basata sull’affidamento che ciascuno dei sistemi processuali all’interno dell’Unione assicura, pur nella diversità, le garanzie di un «giusto processo», fungendo pertanto
da collante, ha reso realizzabile il proclamato obiettivo della sostituzione del sistema multilaterale di estradizione, creato sulla base della Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, con un
sistema semplificato di consegna tra autorità giudiziarie di persone ricercate per fini di giustizia.
IL SUPERAMENTO DEL MODELLO ESTRADIZIONALE
L’affermazione del principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie, che il Consiglio europeo di Tampere, per la prima volta, ha definito come «pietra angolare» della nuova cooperazione giudiziaria in Europa, nacque dalla constatazione circa l’insufficienza del modello convenzionale, in
vigore tra gli Stati membri dell’Unione europea 5, il quale presentava lo svantaggio di essere complesso
e lento e, pertanto, potenzialmente idoneo ad eludere l’esercizio dell’azione penale o la esecuzione della
pena, con pregiudizio dei valori di sicurezza e giustizia.
L’obiettivo di realizzare una cooperazione giudiziaria sempre più rapida ed incisiva fu avvertito
come non più rinviabile alla luce della dimensione «transnazionale», se non addirittura «globale», assunta dalla criminalità organizzata, sia per l’ampiezza dei mercati illeciti gestiti, sia per gli strumenti a
tal fine utilizzati 6.
È il mandato di arresto europeo, raccogliendo le istanze tese ad «eliminare la complessità e i potenziali ritardi inerenti alla disciplina attuale in materia di estradizione» 7, a compiere l’auspicato salto di
qualità nei rapporti di cooperazione interstatuale in ambito europeo e, pur rispondendo alle stesse finalità dell’estradizione, a presentare aspetti procedurali inediti.
Basti dire che, secondo l’impianto della decisione quadro del Consiglio europeo, la procedura di
consegna, «a differenza dell’estradizione, si svolge pressoché interamente al livello delle autorità giurisdizionali degli Stati membri, nel rispetto di termini molto brevi, derogando o parzialmente limitando
4
Così E. Selvaggi, Il mandato di arresto europeo alla prova dei fatti, in Cass. pen., 2002, p. 2979.
5
Per una compiuta analisi delle problematiche concernenti i principali settori della cooperazione giudiziaria in materia penale
tra Stati dell’Unione europea, v. G. De Amicis, Problemi e prospettive della cooperazione giudiziaria penale in ambito europeo: forme e
modelli di collaborazione alla luce del Titolo VI del Trattato di Amsterdam, in Giur. di Merito, 2002, p. 290 ss.
6
Su questi aspetti v. M. Panebianco, L’approvazione parlamentare del mandato d’arresto europeo, in M. Pedrazzi (a cura di), Mandato d’arresto europeo e garanzie della persona, Milano, 2004, p. 191 ss.
7
Così il considerando n. 5 del Preambolo della decisione quadro.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRECISAZIONI IN ORDINE AL“GIUDICATO” SULLA CONSEGNA ED ULTRATTIVITÀ ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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l’operare di principi universalmente applicati in materia estradizionale, quali quelli della doppia incriminazione e di specialità» 8.
Da questi profili essenziali del nuovo istituto non si è discostato il legislatore italiano, allorché ha dato attuazione alla decisione quadro sul mandato d’arresto europeo con la legge 22 aprile 2005, n. 69.
La procedura di consegna, infatti, è stata semplificata, accelerata e «giurisdizionalizzata», nel senso
che è stata ricondotta nell’ambito dei rapporti tra autorità giudiziarie e non più tra autorità governative.
L’«autorità centrale» prevista dalla decisione quadro (considerando n. 9 e art. 7), che i conditores della legge n. 69/2005 – dopo un travagliato e altalenante confronto in sede parlamentare – hanno ritenuto di dover designare (individuandola nel ministro della giustizia), ha un ruolo meramente ausiliario,
limitato all’assistenza pratica ed amministrativa in favore delle autorità giudiziarie «territoriali» (quella
italiana e, a seconda che si tratti di procedura «passiva» o «attiva», quella dello Stato richiedente la consegna o dello Stato di rifugio della persona ricercata), le quali intessono rapporti diretti, ai fini della decisione in ordine all’esecuzione del mandato d’arresto europeo.
Il sistema normativo tradizionale in materia di estradizione – che continua a trovare applicazione nei
rapporti con i Paesi non facenti parte dell’Unione europea, i quali non sono interessati dal mandato
d’arresto europeo – realizza, invece, un modello «misto» di competenze, distribuite tra il ministro della
giustizia e l’autorità giudiziaria, individuata nella Corte d’appello: mentre al primo spetta la competenza esclusiva per l’emanazione del decreto di estradizione e l’impulso in ordine all’adozione di provvedimenti limitativi della libertà personale, alla seconda è affidata la fase giurisdizionale del procedimento (fatto salvo il caso in cui il soggetto sia stato consenziente alla consegna) 9.
Con l’introduzione del mandato d’arresto scompare – nei rapporti tra gli Stati membri dell’Unione
europea – il filtro politico: le autorità giudiziarie europee vengono ora direttamente investite del compito di relazionare tra di loro, senza la mediazione dei governi nazionali; ciò, nella prospettiva di conseguire vantaggi in punto di rapidità e di semplificazione della procedura, ma anche per evitare che
l’istituto del mandato d’arresto si presti a fungere – come non di rado è accaduto per l’estradizione – da
strumento di contrattazione politica e di concessione di favori reciproci fra Stati, superando il concetto
tradizionale di assistenza giudiziaria, intesa come aiuto fornito da uno Stato ad un altro in condizioni di
reciprocità.
Così sinteticamente delineato il contesto in cui è maturato e si è sviluppato il nuovo strumento di
cooperazione, diventa più agevole comprendere le ragioni poste a fondamento delle soluzioni adottate
dalla Suprema Corte nel caso in esame.
L’INFLUENZA SULL’EFFICACIA GIURIDICA DEL MANDATO DI ARRESTO DEL DECORSO DEI TERMINI PER LA
TRASMISSIONE DELLE INFORMAZIONI INTEGRATIVE E PER LA DECISIONE SULLA CONSEGNA
La questione di diritto sottoposta all’esame dei giudici di legittimità è consistita nel rispondere al
quesito se ed in quali termini la precedente decisione di rigetto della richiesta di consegna da parte di
uno Stato membro, passata in giudicato, conseguente alla mancata trasmissione dei documenti da parte
dell’autorità richiedente entro il termine a tal fine concesso, sia da ritenersi di ostacolo alla ripresa del
procedimento, nonché se debba ritenersi necessaria per la sua riapertura una nuova richiesta oppure
persistente l’efficacia di quella originariamente formulata, ove non espressamente revocata.
Era accaduto, in punto di fatto, che un cittadino della Repubblica ceca si era opposto alla consegna
alle autorità giudiziarie del proprio Paese ai fini dello svolgimento del processo penale a suo carico. La
Così M. Pedrazzi, Considerazioni introduttive, in M. Pedrazzi (a cura di), Mandato d’arresto europeo e garanzie della persona,
cit., p. 2.
8
9
In argomento, v., tra gli altri, L. Achiluzzi, Estradizione, in M.G. Aimonetto (a cura di), Rapporti intergiurisdizionali, Torino, 2002,
p. 173 ss.; G. Catelani, I rapporti internazionali in materia penale, Milano, 1995, p. 22 ss.; G.A. De Francesco, Estradizione, in Ns. Dig. it.
App., III, 1982, p. 573 ss.; V. Del Tufo, Estradizione (dir. internaz.), in Enc. giur., XIII, Roma, 1989, p. 3 ss.; G. Di Chiara, Rapporti
giurisdizionali con autorità straniere, in Enc. dir., II Agg., Milano, 1998, p. 861 ss.; P. Laszloczky, Rapporti giurisdizionali con autorità
straniere, in Dig. pen., XI, Torino, 1996, p. 23 ss.; M.R. Marchetti, L’estradizione: profili processuali e principio di specialità, Padova,
1990, p. 41 ss.; M. L. Padelletti, Estradizione e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz., 1996, p. 656; F. Pocar, Patto
internazionale sui diritti civili e politici ed estradizione, in AA.VV., Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione, Padova, 2003, p. 79 ss.; T.
Trevisson Lupacchini, La nuova disciplina codicistica dell’estradizione in rapporto ai principi costituzionali, in Giust. pen., III, 1992, p. 214;
D. Vigoni, Estradizione e cittadinanza, in Indice pen., 1984, p. 163.
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Corte di appello di Bologna aveva dato il via libera alla consegna con sentenza del 9 settembre 2015,
condizionandola alla riconsegna all’Italia per l’espiazione della pena. In realtà, secondo il destinatario
del provvedimento, poiché la richiesta era stata già respinta con decisione del 7 luglio 2015 perché non
era stata fornita la documentazione necessaria, in analogia con l’art. 707 c.p.p., che detta norma in materia di estradizione imponendo la nuova emissione della richiesta, la consegna non poteva essere effettuata.
La tesi viene respinta dalla Suprema Corte con motivazione la cui premessa è rappresentata dalla ricognizione del consolidato orientamento, condiviso da dottrina e giurisprudenza, per cui il mandato di
arresto preserva integra la sua efficacia giuridica nonostante il superamento dei tempi imposti dalla decisione quadro e dalla legge di adeguamento per la decisione sulla consegna; pertanto, l’inosservanza
del limite temporale fissato dal legislatore non produce effetti sulla richiesta di consegna, accoglibile
anche tardivamente, avendo rilevanza piuttosto sull’efficacia della misura cautelare eventualmente
applicata 10.
La fase decisoria sulla richiesta di consegna prende avvio subito dopo la ricezione dell’euromandato, nel caso in cui al soggetto non debba essere applicata alcuna misura cautelare, ovvero subito dopo
l’audizione del ricercato, nel caso in cui questi venga sottoposto a limitazione di libertà (anche in ipotesi
di misura applicata a seguito di convalida dell’arresto). È, infatti, in questo momento che il presidente
della Corte fissa l’udienza durante la quale il collegio procederà alla valutazione del mandato e dei suoi
allegati e all’esito della quale, dopo aver sentito le parti, emetterà la decisione di accoglimento o rigetto
della richiesta di consegna.
Fuori dall’ipotesi di consenso alla consegna 11, secondo l’art. 17, comma 2, legge n. 69/2005, «la decisione deve essere emessa entro il termine di sessanta giorni dall’esecuzione della misura cautelare di
cui agli artt. 9 e 13. Ove, per cause di forza maggiore, sia ravvisata l’impossibilità di rispettare tali termini, il presidente della Corte di appello informa dei motivi il Ministro della giustizia, che ne dà comunicazione allo Stato richiedente, anche tramite l’Eurojust. In questo caso i termini possono essere prorogati di trenta giorni».
L’ininfluenza dei ritardi sull’efficacia del mandato è ribadita anche da pronunce che hanno affrontato il problema dell’allungamento dei tempi per la decisione dovuti alla necessità di integrare il compendio informativo del mandato di arresto.
Accanto alla possibilità che l’euromandato ricevuto dalla Corte d’appello non contenga, per un’omissione dell’autorità giudiziaria emittente, alcune necessarie informazioni, ovvero quelle che ab origine
devono essere contenute nel mandato di arresto, vi è quella in cui la Corte «non ritenga sufficienti ai fini della decisione la documentazione e le informazioni trasmesse dallo Stato membro di emissione» 12: il
collegio 13, sia direttamente sia per il tramite dell’autorità centrale, potrà richiedere le informazioni necessarie o integrative occorrenti stabilendo, a tal fine, un termine – decorrente, per la giurisprudenza,
dalla data di ricezione della richiesta da parte dell’autorità giudiziaria di emissione – che non può essere superiore ai trenta giorni ed il cui spirare infruttuosamente sembra determinare, prima facie, il rigetto
della richiesta di consegna 14.
Da un lato il legislatore ha previsto che «se l’autorità giudiziaria dello Stato membro di emissione
10
G. Della Monica, Il mandato di arresto europeo: a) la procedura passiva di consegna, in G. Spangher (diretto da), Trattato di
procedura penale, VI, L. Kalb (a cura di), Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, Torino, 2009, p. 497.
11
Su cui A. Chelo, Il mandato di arresto europeo, Padova, 2010, p. 206 ss.
12
Si tratta, secondo la dottrina, di «un autonomo potere di accertamento e di integrazione delle informazioni necessarie ai
fini della decisione sulla consegna»: così, G. Picciotto, Contenuti del provvedimento straniero, profili di competenza e attività
d’impulso alla procedura di esecuzione, in G. Pansini-A. Scalfati (a cura di), Il mandato d’arresto europeo, Napoli, 2005, p. 49.
13
Cass., sez. VI, 8 luglio 2009, n. 28909, in CED Cass., n. 244284, ha precisato che la competenza spetterebbe esclusivamente al
collegio.
14
In dottrina, per questa conclusione, v. A. Bellucci, La verifica sul contenuto del mandato di arresto e sui documenti allegati ai fini
dell’esame della richiesta di consegna, in L. Kalb (a cura di), Mandato di arresto europeo e procedure di consegna, cit., p. 281; G. Picciotto, Contenuti del provvedimento straniero, profili di competenza e attività d’impulso alla procedura di esecuzione, cit., p. 49; A. Scalfati,
Mandato d’arresto: contenuti dell’atto e esercizio del potere coattivo nello stato di esecuzione, in E. Rozo Acuña (a cura di), Il mandato di
arresto europeo e l’estradizione: profili costituzionali, penali, processuali ed internazionali, Padova, 2004, p. 231; G. Iuzzolino, La decisione sull’esecuzione del mandato d’arresto europeo, in M. Bargis-E. Selvaggi (a cura di), Mandato di arresto europeo. Dall’estradizione alla
procedura di consegna, Torino, 2005, p. 272; A. Famiglietti, Il procedimento passivo di consegna, in G. Pansini-A. Scalfati (a cura di),
Il mandato d’arresto europeo, cit., p. 64; D. Battista-G. Frigo, Cautele particolari se il soggetto è minore, in Guida dir., 2005, 19, p. 94.
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non dà corso alla richiesta, si applica il comma 6 dell’art. 6», secondo il quale «la Corte d’appello respinge la richiesta» 15; dall’altro, la giurisprudenza ha ritenuto che il termine stabilito dall’art. 16 sia di
natura ordinatoria 16, affermando che, qualora esso sia spirato senza che le in formazioni siano state ricevute, non sussiste l’obbligo di rigetto della richiesta 17, potendo comunque la Corte decidere per il
suo accoglimento “allo stato degli atti” 18 o sulla base di un’acquisizione aliunde 19.
Il ritardo nell’invio della documentazione non costituirebbe causa ostativa alla valutazione ed alla
successiva consegna 20.
Oltre alle «informazioni integrative occorrenti», che potranno avere come oggetto, in generale, le
cause ostative alla consegna, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nel caso di euromandato processuale, il rispetto delle regole dell’equo processo, le circostanze che possano condurre ad affermare la
natura di reato politico o l’esistenza di persecuzioni o discriminazioni nei confronti del ricercato 21, purché siano preesistenti ovvero già nella disponibilità dell’autorità giudiziaria emittente 22, l’art. 6, comma
5, disciplina la diversa ipotesi in cui a mancare siano gli allegati, attribuendo la competenza funzionale
per la richiesta al presidente della Corte di appello (ovvero ad un suo delegato), che la dovrà inoltrare
per l’esclusivo tramite del Ministro della Giustizia.
Le esigenze di celerità, sottese al procedimento di consegna, nel caso in cui ricorra l’evenienza di cui
all’art. 6, comma 5, risultano affievolite, dal momento che rispetto ad essa manca la previsione espressa
di un termine per la ricezione dei documenti, pur se è stabilito che il Ministro debba informare l’autorità giudiziaria di emissione che «la ricezione del provvedimento e della documentazione costituisce
condizione necessaria per l’esame della richiesta da parte della Corte di appello» 23.
Infine, con riferimento al potere attribuito al collegio consistente, altresì, nel disporre «ogni ulteriore
accertamento» ritenuto necessario ai fini della decisione, da intendersi in senso restrittivo per evitare
ingerenze nelle sfere di competenza degli altri ordinamenti, il legislatore non ha indicato la fissazione
di alcun termine per l’adempimento da parte dell’autorità giudiziaria straniera né ha, in caso di mancata ricezione, previsto il rigetto della richiesta di consegna.
15
Secondo A. Bellucci, La verifica sul contenuto del mandato di arresto e sui documenti allegati ai fini dell’esame della richiesta di
consegna, cit., p. 281, l’atteggiamento inerte dell’autorità giudiziaria emittente appare sanzionato con il rigetto della domanda,
richiedendosi, comunque, un «esame sul merito del petitum»; ritiene, invece, trattarsi di una decisione di natura «meramente
processuale», determinata dalla impossibilità di «affrontare il merito della domanda», G. Picciotto, Contenuti del provvedimento
straniero, profili di competenza e attività d’impulso alla procedura di esecuzione, cit., p. 51.
16
Tra le numerose sentenze che hanno affermato la natura ordinatoria del termine, non influente sulla consegna del ricercato, v. Cass., sez. fer., 28 agosto 2007, n. 33633, in CED Cass., n. 237054; Cass., sez. VI, 28 marzo 2008, n. 13463, in CED Cass., n.
239425.
17
Si è affermato che qualora le informazioni integrative non pervengano nel termine fissato, ai sensi dell’art. 16, comma 1,
legge n. 69/2005, l’autorità giudiziaria italiana è legittimata a decidere allo stato degli atti, non essendo obbligata a respingere la
richiesta di consegna, ove non risultino mancanti gli elementi cartolari richiesti a pena di inammissibilità (Cass., sez. VI, 26 ottobre 2007, n. 40412, in CED Cass., n. 237427, fattispecie nella quale non erano stati inviati nel termine fissato la relazione sui fatti
addebitati alla persona e la copia del provvedimento restrittivo della libertà personale).
18
Cass., sez. un., 30 gennaio 2007, n. 4614, in Cass. pen., 2007, p. 1911. Scettica la dottrina, come E. Aprile, Note a margine della
prima pronuncia delle Sezioni unite sulla disciplina del mandato di arresto europeo, in Cass. pen., 2007, p. 1948 ss., il quale la ha definita
«una forzatura interpretativa».
19
Attraverso il contributo conoscitivo addotto dalle parti, ad esempio tramite il deposito di memorie: v., in dottrina, A. Scalfati, La procedura passiva di consegna, in Dir. pen. proc., 2005, p. 954.
20
Cass., sez. VI, 19 giugno 2008, n. 25829, in CED Cass., n. 240327.
21
D. Battista-G. Frigo, Cautele particolari se il soggetto è minore, cit., p. 94, peraltro, includono, nel silenzio della legge, anche
eventuali informazioni relative alle «esigenze cautelari» nel caso di euromandato con finalità processuali.
22
Cass., sez. fer., 13 settembre 2005, n. 33642, in Foro it., II, 2005, p. 497, relativamente ad un caso in cui era stata richiesta
dall’interessato l’effettuazione, da parte delle autorità inglesi, di una perizia chimica sul materiale sequestrato.
23
Sicché, si è detto, «si deve ritenere che il tempo per ricevere la documentazione di cui all’art. 6, comma 4, coincida comunque con la data dell’udienza, considerando che anche qui, come per la mancata ricezione delle informative richieste, la conseguenza è data dal rigetto della domanda di consegna» (v. A. Famiglietti, La relazione allegata al mandato di arresto europeo nella procedura passiva di consegna, in Cass. pen., 2007, p. 3375).
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EFFETTO LIMITATAMENTE PRECLUSIVO DEL DINIEGO ALLA CONSEGNA DETTATO DA “ESIGENZE DI GIUSTIZIA INTERNA”
Il riconoscimento della perdurante efficacia del mandato di arresto nonostante il superamento dei
termini per la integrazione delle informazioni e, soprattutto, per la decisione sulla consegna corrisponde ad un principio che rientra nell’aquis comunitario, tanto da essere stato recentemente ribadito dalla
Corte di Giustizia europea 24, con decisione del 16 luglio 2015 resa nella causa C-237/15 PPU, Lanigan,
allorquando è tornata a pronunciarsi – su rinvio della High Court of Ireland – sull’interpretazione della
decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato d’arresto europeo e le procedure di consegna tra Stati
membri.
Con il proprio rinvio pregiudiziale il giudice irlandese aveva chiesto alla Corte di Lussemburgo quali fossero gli effetti discendenti dalla violazione dei termini di cui all’art. 17 della menzionata decisione
quadro, tanto con riferimento alla decisione sulla consegna, quanto con riferimento alla libertà del ricercato.
La Corte di giustizia, richiamando numerosi suoi precedenti, ha ribadito la centralità dell’obbligo di
eseguire il mandato di arresto, considerata l’assenza di indicazioni contrarie nella decisione quadro e la
finalità che essa persegue, ovvero quella di accelerare e semplificare i procedimenti di consegna di imputati/condannati.
La stessa primazia per il favor executionis permea la decisione della Suprema Corte qui annotata,
pronunziata in un caso in cui era stata reiteratamente omessa – alla scadenza del termine fissato e successivamente prorogato – la trasmissione, da parte dell’autorità richiedente, dei provvedimenti interni a
sostegno del mandato di arresto, cui era conseguita la decisione (negativa) sulla richiesta, dettata dalla
necessità di definire il procedimento per esigenze interne.
L’inosservanza dei suddetti termini, in definitiva, era stata “attestata” da una sentenza rispetto alla quale il primo problema è consistito nell’escluderne la valenza preclusiva di un successivo giudizio di merito,
trattandosi di una decisione «estranea ai requisiti strutturali della richiesta ed a valutazioni di merito».
Invero, il concetto di ne bis in idem (ed ancor più quello – più “debole” – di preclusione allo stato degli atti) ha tendenzialmente riferimento all’effettivo apprezzamento in fatto e in diritto della richiesta e
non alle decisioni che definiscono la procedura in relazione ad aspetti meramente procedurali che impediscono l’esame del merito 25, conclusione sostenibile alla luce del sistema processuale nazionale, laddove l’art. 649 c.p.p. – norma generale specifica sul tema del giudicato – fa espressamente salvi i casi in
cui sopravviene la condizione di procedibilità la cui mancanza aveva determinato la chiusura del giudizio per gli stessi fatti 26.
Del resto, già in materia estradizionale, ambito nel quale sono meno radicati i principi di obbligatoria collaborazione che invece collegano gli Stati dell’Unione, lo stesso art. 707 c.p.p., che il ricorrente
aveva richiamato in quanto applicabile attraverso la disposizione di chiusura contenuta nell’art. 39 legge n. 69/2005 e che «preclude la pronunzia di una successiva sentenza favorevole a seguito di un’ulteriore domanda presentata per i medesimi fatti dallo stesso stato, salvo che la medesima sia fondata su
elementi che non siano stati già valutati dall’autorità giudiziaria», è stato interpretato nel senso di attribuire alla sentenza contraria alla sollecitata estradizione un’efficacia limitatamente preclusiva e ciò, evidentemente, alla stregua della peculiarità dell’oggetto della verifica devoluta all’autorità giudiziaria,
comunque non tendente all’accertamento della penale responsabilità rispetto a un determinato fatto
reato 27. Trattasi, in altri termini, di un giudizio allo “stato degli atti” che non inibisce affatto una nuova
proposizione di una domanda fondata su elementi non valutati dall’autorità giudiziaria 28.
24
Per una sintetica panoramica delle pronunce della Corte di giustizia in materia di m.a.e. si rinvia a M. Bargis, Libertà
personale e consegna, in R.E. Kostoris (a cura di), Manuale di procedura penale europea, Milano, 2014, pp. 267-272 e 289.
25
In materia di giudicato cautelare Cass., sez. VI, 27 ottobre 2010, in CED Cass., n. 248804.
26
Sul giudicato cautelare, le altre forme di giudicato “allo stato degli atti” e le eccezioni al divieto di un secondo giudizio R.
Normando, Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in G. Spangher (diretto da), Trattato di Procedura penale, VI, L. Kalb (a
cura di), Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, cit., p. 8 ss.
27
P. Dell’Anno, L’Estradizione: A) Per l’estero, in G. Spangher (diretto da), Trattato di Procedura penale, VI, L. Kalb (a cura di),
Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, cit., p. 589.
28
G. Catelani, I rapporti internazionali in materia penale, cit., p. 214, qualifica il provvedimento quale sentenza a irrevocabilità
temporanea, da assimilare alla sentenza di cui all’art. 425 c.p.p. (per lo meno nella vigenza della disciplina dell’udienza
preliminare anteriore alla riforma del 2001).
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Il cosiddetto “giudicato estradizionale”, infatti, attiene alla sola deliberazione sul merito della richiesta, con la conseguenza che la pronuncia di una successiva sentenza favorevole all’estradizione non è
preclusa, a seguito di un’ulteriore domanda presentata dallo stesso Stato per i medesimi fatti a norma
dell’art. 707 c.p.p., quando la precedente decisione abbia definito questioni in rito o di natura pregiudiziale, senza deliberare sul merito della richiesta 29.
In conclusione, la Suprema Corte annovera tra gli obblighi di cooperazione sottesi al mandato di arresto europeo anche il dovere dello Stato richiesto di fornire una decisione di merito in ordine alla consegna.
RICHIESTA DI CONSEGNA “UNA TANTUM” (SE NON REVOCATA)
Chiarito il primo aspetto, legato al difetto di preclusività della decisione di rigetto per ragioni “formali”, il secondo passaggio è consistito nel chiarire se, dopo il diniego di una richiesta per motivi in rito, per addivenire ad una successiva decisione di merito occorra una nuova istanza, come richiesto dall’art. 707 c.p.p., oppure se possa considerarsi l’ultrattività di quella rigettata nei termini di cui innanzi.
La Corte, per escludere l’applicabilità della norma codistica sotto questo profilo, ne individua la ratio
sottolineando la valenza politica posseduta dall’istanza nel procedimento estradizionale e ritenendo
che ivi la sua reiterazione si imponga al fine di saggiare il persistente interesse statuale verso la consegna del ricercato.
Il superamento del modello estradizionale ad opera del mandato di arresto europeo ha, secondo
quanto già esposto in precedenza, giurisdizionalizzato la procedura di consegna, semplificandola e velocizzandola.
Ed allora, da un lato, non si pone alcuna necessità di verificare l’immanenza della volontà di ottenere la consegna del ricercato, essendo la relativa richiesta espressione di un provvedimento di matrice
esclusivamente giudiziaria; dall’altro lato, l’intento di «eliminare le complessità ed i potenziali ritardi»
propri della procedura estradizionale, creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia comune, attraverso uno strumento di contrasto al crimine internazionale più efficace dell’estradizione 30 sarebbe
frustrato se il mancato rispetto di termini (assai brevi) obbligasse alla ripetizione dell’intera procedura
di consegna ab initio, come è proprio di quel sistema che la decisione quadro sul mandato di arresto europeo ha inteso superare.
Anche nella rievocata decisione della Corte di giustizia europea (punto 40) si trova un inciso che
sembra avallare questa impostazione. Per la Corte di giustizia le autorità nazionali sono tenute a proseguire il procedimento di esecuzione del mandato anche dopo la scadenza dei termini fissati dall’art. 17,
giacché una diversa interpretazione dell’art. 15, § 1, della decisione quadro, costringerebbe lo Stato
emittente ad emettere un secondo mandato di arresto e comprometterebbe l’obiettivo primario di accelerazione e di semplificazione della cooperazione giudiziaria che tale decisione persegue.
Quando il mandato di arresto costituisce una “domanda efficace”, cioè sia stato correttamente emesso
e non sia mancante dei requisiti necessari, la sua valenza permane, al pari del dovere dello Stato che
deve fornire una decisione di merito in ordine alla richiesta, una volta che sia messa in grado di farlo
con la sopravvenuta trasmissione delle informazioni opportune ad illustrazione delle condizioni legittimanti dell’istanza, non rilevando a tal fine né la scadenza dei termini per la decisione, violazione che
ha riflessi soltanto sulla vicenda cautelare, né tampoco il fatto che, per esigenze di giustizia interna, il
procedimento sia stato formalmente definito con una sentenza di rigetto in rito.
Se ne desume che soltanto una decisione che abbia respinto la consegna per mancanza dei requisiti
strutturali minimi del mandato o per ragioni di merito determini l’inefficacia della domanda, con la
conseguente necessità di una nuova richiesta da parte dello Stato emittente, salva l’ulteriore ipotesi che
sia proprio quest’ultimo a rinunziare all’istanza.
Riguardo alle concrete modalità richieste affinché possa ritenersi effettuata la revoca del mandato di
arresto, la Suprema Corte pone quale requisito essenziale quello dell’inequivocabilità dell’atto abdicati29
Cass., sez. VI, 22 settembre 2009, n. 39944, in CED Cass., n. 244875; Cass., sez. VI, 4 marzo 2011, n. 8812, in CED. Cass., n.
249640.
30
A. Ragozzino, La consegna della persona ricercata, in M. Bargis-E. Selvaggi (a cura di), Mandato d’Arresto Europeo. Dall’estradizione alla procedura di consegna, cit., p. 341-342.
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vo, carattere sintomatico che non sarebbe possibile ravvisare, neppure implicitamente, allorquando l’autorità richiedente, che abbia emesso un mandato di arresto regolarmente munito dei requisiti strutturali
necessari, resti silente sulle richieste di integrazione o ritardi nella loro trasmissione: la scarsa collaborazione, infatti, non risulta essere univocamente conciliabile con l’emissione di una “domanda efficace”.
LA NECESSITÀ DI GARANTIRE I DIRITTI INVIOLABILI DELLA PERSONA RICHIESTA IN CONSEGNA
Sebbene le soluzioni adottate siano aderenti allo spirito cooperativo sotteso allo strumento europeo,
occorrerà sempre garantire il diritto di difesa ed i diritti inviolabili e fondamentali della persona ricercata: la semplificazione delle procedure, in nome di pretese ragioni di efficienza, non può essere perseguita
a scapito delle garanzie individuali.
Il percorso verso lo spazio giudiziario unico, in ambito europeo, non può, insomma, non avere come
valore di riferimento «il rispetto dei diritti fondamentali quali garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, con particolare riferimento all’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) ed all’art. 6 (diritto ad un processo equo), unitamente ai Protocolli aggiuntivi alla Convenzione», nonché, per quanto riguarda l’Italia, «il rispetto dei
principi e delle regole contenuti nella Costituzione attinenti al giusto processo (art. 111), alla tutela della libertà personale (art. 13), del diritto di difesa (art. 24), del principio di uguaglianza (art. 3) e della responsabilità personale (art. 27)» 31.
Secondo la legge di attuazione la violazione dei termini di cui agli artt. 14 e 17, pur non determinando l’inefficacia del mandato 32, comporta, ex art. 21, che «la persona ricercata [sia] posta immediatamente in libertà». Dubbi sono ingenerati semmai dal fatto che il termine di sessanta giorni venga fatto decorrere «dall’esecuzione della misura cautelare di cui agli articoli 9 e 13», locuzione evocativa della sola
custodia cautelare, per cui non è chiaro se il termine per la decisione assuma natura ordinatoria nei confronti di soggetti ai quali sia applicata una diversa misura coercitiva, oppure se la parola esecuzione sia
stata adoperata in senso atecnico, sicché la “sanzione” per la violazione del predetto termine comporterà l’inefficacia di qualsiasi misura cautelare 33.
Se la Cassazione ha sviluppato le conseguenze argomentative della sentenza della Corte di giustizia
sotto il profilo del superamento dei termini, estendendole al caso in cui sia stata emessa una sentenza di
diniego alla consegna per ragioni “formali”, è di contro apparsa condivisibilmente più “cauta” su quelle riguardanti le vicende cautelari.
In relazione alle quali i Giudici di Lussemburgo avevano affermato, invece, come la decisione quadro non imponga che, scaduti i termini stabiliti dall’art. 17, la persona detenuta ai fini della consegna
sia rilasciata, pur non dovendosi mai pregiudicare il rispetto dei diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali, in particolare il diritto alla libertà e alla sicurezza, che impongono che la custodia di una
persona in circostanze come quella di specie non possa oltrepassare una durata “ragionevole” 34, raccomandandosi tuttavia che, qualora il giudice a quo procedesse alla liberazione del consegnando, disponga di ogni misura necessaria ad evitare che il ricercato si dia alla fuga, assicurando il permanere
delle condizioni sostanziali necessarie alla sua effettiva consegna, fino a quando non sia adottata una
decisione definitiva sulla sua consegna.
In effetti, quanto alle esigenze di tutela della libertà personale in caso di ritardi nella consegna, il si31
Così M. Panebianco, L’approvazione parlamentare del mandato d’arresto europeo, in M. Pedrazzi (a cura di), Mandato d’arresto
europeo e garanzie della persona, cit., p. 204.
32
Cass., sez. VI, 3 maggio 2007, n. 17632, Guida dir., 2007, p. 54; Cass., sez. VI, 15 gennaio 2008, n. 2450, in CED Cass., n.
238133; Cass., sez. fer., 11 settembre 2008, n. 35290, in CED Cass., n. 240721. In dottrina, M.R. Marchetti, sub art. 21, in A. GiardaG. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Milano, 2010, p. 7358.
33
Per G. Della Monica, Il mandato di arresto europeo, cit., p. 497, il rigore della norma, che obbliga la Corte a porre “immediatamente in libertà” l’interessato, non consente di ipotizzare alternative, come la sostituzione della misura con altra meno
gravosa, in ragione della ritenuta persistenza del pericolo di fuga.
34
La Corte di Giustizia europea indica, quali parametri per valutare la ragionevolezza, l’eventuale inerzia delle autorità dello Stato di emissione e di quello di esecuzione, il “contributo” del ricercato alla durata del procedimento, nonché la pena cui si
espone il ricercato o la pena inflittagli, l’esistenza di un rischio di fuga e la circostanza che il ricercato sia stato detenuto per un
periodo la cui durata totale ecceda significativamente i termini previsti dalla decisione quadro per l’adozione della decisione
sull’esecuzione del m.a.e.
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stema nazionale è fermo nell’assicurarle tramite l’estinzione della sola misura custodiale (oppure, in alternativa, degli arresti domiciliari 35), senza richiedere anche la caducazione dell’intera procedura diretta ad eseguire il mandato d’arresto europeo. Di conseguenza, si potrà avere una consegna del ricercato
senza che sia in corso d’applicazione una misura custodiale; si avrà cioè, un ostacolo solo pratico, inidoneo ad assumere rilievo giuridico 36.
L’ultrattività del mandato potrebbe indurre a ritenere che, una volta pervenute le informazioni aggiuntive, si possa ripristinare una cautela, come accade per l’ipotesi della perdita di efficacia della custodia cautelare emessa a seguito della convalida in caso di omessa trasmissione, nel termine di dieci giorni,
del mandato di arresto o della segnalazione della persona nel SIS effettuata dall’autorità competente 37.
Il problema si pone sia perché la questione è dibattuta 38, sia perché effettivamente la Corte di giustizia sembra aver interpretato la violazione dei termini di consegna come non ostativa al mantenimento
in custodia della persona ricercata in attesa della decisione di merito 39.
Sembra doversi dare risposta negativa al quesito riguardante la reiterabilità del provvedimento di
custodia cautelare, precedentemente estintosi per il decorso dei termini di cui all’art. 21, legge n.
69/2005: deve ritenersi che la misura de qua non possa esser riapplicata 40, per il motivo che sono ormai
decorsi i termini di durata massima 41.
Secondo il regime codicistico, applicabile, ove compatibile, anche alla procedura di esecuzione del
mandato di arresto europeo ex artt. 9, comma 5 e 39, comma 1, legge n. 69/2005, così come interpretato
dalla giurisprudenza assolutamente prevalente, in materia cautelare vale il principio per cui “ciò che
non è espressamente vietato, è consentito” 42.
I termini di cui all’art. 17, comma 2, legge n. 69/2005, sono stati considerati quali “termini di custodia cautelare”, funzionali all’accertamento demandato alla corte d’appello e finalizzati a garantire
l’eseguibilità del provvedimento di consegna eventualmente conseguente alla pronuncia, rispetto ai
quali è analogicamente applicabile l’art. 307 c.p.p., che vieta il ripristino della custodia cautelare al di
fuori delle specifiche ipotesi ivi espressamente previste, conclusione che discende dalla necessità di rispettare i fondamentali principi costituzionali, quali la presunzione di non colpevolezza e l’inviolabilità
della libertà personale, oltre che convenzionali, quali il diritto di ogni persona arrestata o detenuta per
ragioni cautelari ad essere giudicata in un tempo congruo o, in mancanza, ad essere liberata durante il corso
del procedimento (art. 5, § 3, Cedu) 43.
Chiarito questo aspetto, si pone il problema di stabilire le concrete modalità per la “riapertura” del
35
A. Scalfati, Misure coercitive in attesa della pronuncia, in G. Pansini-A. Scalfati (a cura di), Il Mandato d’Arresto Europeo, cit., p. 89.
36
A. Ragozzino, La consegna della persona ricercata, cit., p. 345.
37
A. Chelo, Il mandato di arresto europeo, cit., p. 155, precisa che spirato il termine «in assenza della ricezione della
segnalazione nel S.I.S. o dell’euromandato, l’arrestato deve essere immediatamente rimesso in libertà; potrà, eventualmente,
essere nuovamente privato della libertà personale solo qualora pervenga l’euromandato ed in forza di un’ordinanza cautelare
emessa ai sensi dell’art. 9 della legge di recepimento».
38
Sia pur con specifico riferimento all’inosservanza dei termini per l’esecuzione del mandato di arresto europeo, si v. M.T.
M. Rubera, L’inosservanza dei termini per l’esecuzione del mandato d’arresto europeo, in Dir. pen. proc., 2009, p. 377 ss.
39
Secondo Cass., sez. fer., 7 agosto 2014, n. 35525, in CED Cass., n. 261744, la decisione che accoglie la richiesta di consegna legittima
la reiterata applicazione della misura restrittiva della libertà personale nel caso di riconosciuta sussistenza del pericolo di fuga.
40
In dottrina, M.T.M. Rubera, L’inosservanza dei termini per l’esecuzione del mandato d’arresto europeo, cit., p. 381, sostiene,
condivisibilmente, che in tal caso la misura non possa essere reiterata. In giurisprudenza, Cass., sez. VI, 4 novembre 2014, n.
46165, in Giur. it., 2014, 12, p. 2656, secondo cui «In tema di mandato d’arresto europeo, qualora la decisione sulla richiesta di
consegna non intervenga entro il termine di sessanta giorni dall’esecuzione della misura cautelare, quest’ultima perde efficacia e
non può essere rinnovata, a nulla rilevando il fatto che, dopo la scadenza del predetto termine, la Corte d’appello abbia fatto
richiesta di informazioni integrative».
41
C. Scaccianoce, In tema di mandato di arresto europeo e custodia cautelare: termini e preclusioni, in Arch. pen. (web), 2015, 1, p. 5.
42
Cass., sez. un., 1 luglio 1992, n. 11, in CED Cass., n. 191182 e 191183, annotata da M. Vessichelli, Sull’inefficacia per tardività
della decisione sulla richiesta di riesame, in Cass. pen., 1992, p. 2990 ss.
43
M.T.M. Rubera, L’inosservanza dei termini per l’esecuzione del mandato d’arresto europeo, cit., p. 385 ss. Contra, G. Vitari, sub art.
17, in M. Chiavario-G. De Francesco-D. Manzione-E. Marzaduri (diretto da), Il mandato di arresto europeo. Commento alla legge 22
aprile 2005 n. 69, Torino, 2006, p. 340 ss., secondo il quale i termini previsti dagli artt. 14 e 17 non possono essere ritenuti “massimi” della custodia cautelare, essendo invece termini con funzione acceleratoria della procedura, al pari di quello di cui all’art.
302 c.p.p. nel caso di mancato tempestivo interrogatorio di garanzia; pertanto, nel caso di decorrenza degli stessi la misura può
essere ripristinata, sempre che permangano le relative, necessarie, condizioni.
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procedimento di consegna, già definito con sentenza irrevocabile, una volta che dovessero sopravvenire
i documenti e le informazioni aggiuntive.
Da questo punto di vista appare ineludibile l’instaurazione del contraddittorio tra le parti, sicché, in
virtù dei principi affermati dalla giurisprudenza in esame, viene a determinarsi una nuova ipotesi di
avvio del giudizio sulla consegna.
Di regola, l’atto propulsivo del procedimento per la decisione sulla consegna si colloca nel momento
immediatamente successivo alla decisione sull’applicazione dell’eventuale misura coercitiva.
Pertanto, poiché l’applicazione della cautela può avvenire sia in via preventiva – nel caso di trasmissione dell’euromandato all’autorità centrale o direttamente all’autorità giudiziaria – sia all’esito del
procedimento di convalida dell’arresto – in caso di inserimento della segnalazione nel SIS – due diverse
disposizioni della legge di recepimento disciplinano l’avvio della fase decisoria che sono, rispettivamente, l’art. 10, comma 4, e l’art. 13, comma 2, che prevede che, salvo il caso in cui l’arrestato sia posto
immediatamente in libertà, si procede alla convalida dell’arresto provvedendo con ordinanza ai sensi
degli artt. 9 e 10.
L’art. 10, comma 4, stabilisce che il presidente provvede a fissare con decreto – nel termine di venti
giorni dall’esecuzione del provvedimento cautelare – l’udienza in camera di consiglio per la pronuncia
sulla richiesta di consegna. Il decreto è comunicato al Procuratore generale e notificato all’interessato e
al suo difensore almeno otto giorni prima della data di udienza 44, per consentire loro di prendere visione ed estrarre copia della documentazione.
A nostro giudizio la “riapertura” del procedimento dovrebbe seguire lo stesso andamento dell’ipotesi in cui la misura non venga ab origine applicata in quanto la Corte d’appello non ritenga necessaria l’adozione di alcuna forma di cautela, sia a seguito della ricezione dell’euromandato per le vie “ordinarie” che a seguito dell’arresto eseguito dalla polizia giudiziaria.
Si è ritenuto, infatti, che – nonostante il testo dell’art. 10, comma 4, legge di recepimento indichi la
decorrenza del termine di venti giorni, entro il quale l’udienza dovrà svolgersi, «dall’esecuzione della
misura coercitiva» – tale disposizione sia applicabile anche in caso di mancata adozione della misura
cautelare, rilevando, però, il termine ordinatorio in essa contenuto, nel solo caso in cui sul soggetto gravi una limitazione della libertà personale 45.
In conclusione, se il soggetto è libero perché la misura eventualmente applicata ha cessato di essere
efficace per il decorso dei termini di cui all’art. 17 legge n. 69/2005, una volta che gli atti a completamento della richiesta di mandato di arresto dovessero essere ricevuti successivamente alla pronunzia
estintiva, l’udienza sarà fissata comunque con decreto ai sensi dell’art. 10, comma 4, ma anche in tal caso, come quello riguardante il ricercato che non sia mai stato interessato da alcuna forma di cautela,
sembrerebbe non operante il termine entro il quale essa si dovrà tenere 46 né quello per la (nuova) decisione sulla consegna, ferma restando la necessità di salvaguardare il diritto della persona sottoposta alla procedura di consegna – pur se libera – ad un provvedimento decisorio che intervenga in tempi certi
e ragionevoli, considerata la rilevanza, specie sul piano personale, degli effetti derivanti dalla eventuale
esecuzione del mandato di arresto 47.
44
L’omesso avviso all’interessato e al suo difensore della fissazione dell’udienza camerale è causa di nullità assoluta della decisione eventualmente resa (Cass., sez. VI, 11 maggio 2006, n. 16195, in CED Cass., n. 234127). Tuttavia, qualora l’interessato abbia
nominato due difensori e risulti avvisato soltanto uno di essi, si verifica una nullità a regime intermedio, sanata sia dalla mancata deduzione della stessa nel termine indicato dall’art. 180 c.p.p. sia dalla presenza in udienza del codifensore che non abbia eccepito
l’omesso avviso al collega (Cass., sez. VI, 8 maggio 2008, n. 18726, in CED Cass., n. 239722). Anche l’inosservanza del termine dilatorio determina una nullità generale a regime intermedio, che va rimossa – laddove non operi l’art. 183 c.p.p. – con il rinvio
dell’udienza e la rinnovazione dell’avviso. Sul punto, F. Lo Voi, Il procedimento davanti alla corte di appello e i provvedimenti de libertate, in
M. Bargis-E. Selvaggi (a cura di), Mandato di arresto europeo Dall’estradizione alla procedura di consegna, cit., p. 244, e M. Murone, La
decisione sulla consegna: contenuti, dinamica e vicende, in G. Pansini-A. Scalfati (a cura di), Il mandato d’arresto europeo, cit., p. 103.
45
A. Chelo, Il mandato di arresto europeo, cit., p. 184.
46
È opportuno ricordare, in ogni caso, che il termine di venti giorni previsto dalla disposizione e decorrente dall’esecuzione
della misura è un termine di natura ordinatoria, il cui superamento non determina alcuna conseguenza in relazione al procedimento. Da segnalare, peraltro, che in dottrina si è ritenuto che in tal caso il dies a quo per il computo del termine in questione possa essere individuato nel momento in cui la Corte si pronuncia negativamente per l’applicazione della misura cautelare, A. Scalfati, La
procedura passiva di consegna, cit., p. 953.
47
Così, testualmente, G. Della Monica, Il mandato di arresto europeo, cit., p. 498.
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Forme non partecipate per il ricorso in Cassazione
contro il decreto di sequestro
CORTE DI CASSAZIONE,
REL. RAMACCI
SEZIONI UNITE, SENTENZA 30 DICEMBRE 2015, N. 51207 – PRES. SANTACROCE;
In caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 325 c.p.p., deve osservarsi la procedura di cui all’art.
611 c.p.p.
[Omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Tribunale di Napoli, con ordinanza dell’8 maggio 2015 ha confermato il decreto di sequestro
probatorio eseguito nei confronti di M.G. ed T.O. e concernente armi da fuoco, detenute legittimamente
ma conservate in un armadio blindato trovato aperto all’atto dell’accesso di polizia, armi bianche e munizioni, nonché marijuana, conservata in diversi involucri rinvenuti in più luoghi, ipotizzandosi, nei loro confronti, i reati di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 20, art. 697 c.p. e D.P.R. 309 del 1990, art. 73.
2. Avverso tale pronuncia i predetti hanno proposto ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo il difetto di motivazione e la violazione dell’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e
c bis) e comma 2 ter, in relazione alla questione, sollevata in sede di riesame e concernente la mancanza
di sigilli “nello scatolo di cartone ed all’interno delle buste contenenti il materiale sequestrato”, nonché
la mancanza di motivazione del decreto di convalida, in considerazione della riferita comprovata presenza in sede di accertamento tecnico, di un quantitativo di sostanza presunta stupefacente superiore a
quello descritto nel verbale di sequestro.
Deducono altresì la violazione di legge in relazione al contenuto di due verbali di sequestro (redatti
uno alle ore 14,30 e l’altro alle 17,30, quest’ultimo relativo a sostanza stupefacente) dai quali risulterebbe la prosecuzione illecita dell’attività di ricerca, anche in assenza del difensore, presente solo all’accertamento tecnico effettuato in data 11 giugno 2015.
3. Il ricorso è stato assegnato alla Sesta Sezione penale, la quale, all’udienza del 15 settembre 2015, ha
proceduto con rito camerale non partecipato, ai sensi dell’art. 611 c.p.p..
4. In vista della predetta udienza, nelle sue conclusioni scritte, il Procuratore generale aveva formulato richiesta di fissazione di udienza camerale secondo il disposto dell’art. 127 c.p.p., richiamando, a
tale proposito, le conclusioni cui era pervenuta una precedente decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n.
14 del 06/11/1992, dep. 1993, Lucchetta, Rv. 192206), ritenute condivisibili nonostante quanto rilevato
in successive pronunce (Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, Rv. 253289; Sez. U, n. 9857 del 30/
10/2008, dep. 2009, Manesi, Rv. 242291) e considerate anche le indicazioni della Corte EDU, atteso il carattere, ritenuto afflittivo, dell’ablazione reale, sostanzialmente affine alle misure sanzionatorie, che
giustificherebbe un’ampia applicazione della partecipazione, della comunicazione e della contrapposizione dialettica.
In subordine, il Procuratore generale richiedeva la rimessione degli atti alle Sezioni Unite.
5. La Sesta Sezione ha accolto tale ultima sollecitazione e, premessa una diffusa disamina dei precedenti giurisprudenziali e delle disposizioni richiamate, ha ritenuto necessaria una rivisitazione del precedente, consolidato, indirizzo interpretativo.
Si osserva, che l’assenza di un espresso richiamo, da parte dell’art. 325 c.p.p., comma 3, dell’art. 311
c.p.p., comma 5, che è l’unico ad imporre l’osservanza delle forme dell’art. 127 c.p.p., per la trattazione
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del ricorso avverso le misure cautelari, avrebbe un oggettivo rilievo che non può essere attribuito, come
affermato nelle precedenti pronunce delle Sezioni Unite (n. 14 del 1993, cit., e Sez. U, n. 4 del 26/04/
1990, Serio), alla scarsa qualità del dettato legislativo, risultando invece coerente con la diversa scelta, esplicitata dal mancato richiamo, di rendere applicabile al ricorso, consentito per la sola violazione di
legge, il contraddittorio scritto, pieno e discrezionale.
È stata conseguentemente pronunciata ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite sul punto relativo
alla procedura camerale da seguire a seguito di ricorso proposto a norma dell’art. 325 c.p.p..
6. Il Primo Presidente, con decreto del 28 settembre 2015, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite,
fissando per la data odierna la relativa udienza camerale di trattazione in camera di consiglio ai sensi
dell’art. 611 c.p.p.
7. La Procura generale ha chiesto che sia riconosciuta la necessità del rito camerale partecipato ai
sensi dell’art. 127 c.p.p., escludendosi la possibilità di ricorrere a quello disciplinato dall’art. 611 c.p.p.
Richiamati i contenuti della precedente requisitoria, nonché la giurisprudenza comunitaria e costituzionale, l’Ufficio requirente ha rilevato che, nel seguire le argomentazioni prospettate nella criticata ordinanza di rimessione, si recherebbe un intollerabile vulnus al diritto al contraddittorio difensivo, alla
ragionevole durata dei processi ed all’efficiente organizzazione degli uffici giudiziari.
Motivi della decisione
1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente: “Se il
rito da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 325 c.p.p., deve svolgersi nel
rispetto delle forme previste dall’art. 611 o di quelle previste dall’art. 127 c.p.p.”.
2. Va preliminarmente ricordato che, con l’art. 611 c.p.p., il quale presenta corrispondenze con l’art.
531 del previgente codice di rito, è stata data attuazione all’art. 2, direttiva 89, della legge – delega per
l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (L. 16 febbraio 1987, n. 81).
Nell’attuale formulazione, l’art. 611 c.p.p., così recita: “Oltre che nei casi particolarmente previsti
dalla legge, la corte procede in camera di consiglio quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma dell’art.
442. Se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall’art. 127, la corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie delle altre parti senza intervento dei difensori. Fino a quindici giorni prima dell’udienza, tutte le parti possono presentare motivi nuovi e memorie e, fino a cinque giorni prima, possono presentare memorie di replica”.
Va peraltro considerata, nella lettura della disposizione codicistica in esame, anche la direttiva 95
contenuta nella Legge Delega n. 81 del 1987, art. 2, concernente il “diritto delle parti di svolgere le conclusioni davanti alla Corte di cassazione”, rispetto alla quale la dottrina ha posto in rilevo le differenze
rispetto alla precedente Legge Delega del 1974 (L. 3 aprile 1974, n. 108) che, nella direttiva n. 77, si riferiva, invece, alla “necessità delle conclusioni della difesa nel dibattimento davanti alla Cassazione”, osservando come la diversa formulazione possa ritenersi indicativa dell’intento di semplificare i mezzi di
impugnazione mediante l’eliminazione di interventi e presenze non assolutamente necessari, considerando anche la peculiarità del giudizio di legittimità, la quale ben consente la possibilità di affidare i
motivi di ricorso ad un atto scritto, senza l’obbligatorietà della illustrazione ed esposizione orale.
La tipicità del giudizio di cassazione giustifica, pertanto, la scelta del rito da parte del legislatore, il
quale, tuttavia, ha comunque lasciato inalterato il ricorso all’oralità del procedimento camerale laddove
lo richiedano la posizione processuale dei soggetti coinvolti e l’oggetto del giudizio, con la conseguenza
che il procedimento nella forma non partecipata ai sensi dell’art. 611 c.p.p., in deroga a quanto previsto
dall’art. 127 c.p.p., costituisce una regola nel giudizio di cassazione, operante salvo che sia diversamente stabilito (lo si è recentemente ricordato, in tema di rescissione del giudicato di cui all’art. 625 ter
c.p.p., in Sez. U, n. 36848 del 17/07/2014, Burba, par. 6 del Considerato in diritto).
3. Ciò posto, va preso in considerazione il sistema delle impugnazioni in materia di sequestro, iniziando dal sottolineare come, con riferimento al sequestro probatorio, l’art. 257 c.p.p., comma 1, stabilisca che contro il decreto che lo dispone possano proporre richiesta di riesame, anche nel merito, a norma dell’art. 324 c.p.p., l’imputato, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che
avrebbe diritto alla loro restituzione.
Analoga previsione è contenuta nell’art. 322 c.p.p., comma 1, riguardo al sequestro preventivo, che
contempla anche il difensore dell’imputato tra i soggetti che possono presentare richiesta di riesame.
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Sempre in tema di sequestro preventivo, l’art. 322-bis c.p.p., abilita i medesimi soggetti, al di fuori
dei casi previsti dall’art. 322, a proporre appello contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo
e contro il decreto di revoca del sequestro emesso dal pubblico ministero.
3.1. Invece, con riferimento al procedimento per la restituzione delle cose sequestrate, l’art. 263
c.p.p., comma 5, stabilisce che, contro il decreto del pubblico ministero che dispone la restituzione o respinge la relativa richiesta, gli interessati possono proporre opposizione, sulla quale il giudice provvede
a norma dell’art. 127.
In questa ipotesi, avverso l’ordinanza emessa dal giudice, secondo quanto affermato dalle Sezioni
Unite, a conferma di un orientamento giurisprudenziale decisamente maggioritario, può essere proposto ricorso per cassazione (Sez. U, n. 7946 del 31/01/2008, Eboli, Rv. 238507), che va deciso in camera di
consiglio, con le forme del rito non partecipato di cui all’art. 611 c.p.p., (Sez. U, n. 9857 del 30/10/2008,
dep. 2009, Manesi, Rv. 242291).
3.2. L’art. 325 c.p.p., specifica poi, al comma 1: “Contro le ordinanze emesse a norma degli art. 322
bis e 324, il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre ricorso per cassazione per
violazione di legge”.
Va a tale proposito ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, nella nozione di “violazione di legge”, per la quale soltanto può essere proposto ricorso per cassazione in ragione della espressa previsione del citato comma 1, rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma
non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui dell’art. 606 c.p.p., lett. e), (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692; Sez. U, n. 25933 del 29/05/2008, Malgioglio, non massimata sul punto; Sez. U, n. 5876
del 28/01/2004, Bevilacqua, Rv. 226710).
Il successivo comma 2 così dispone: “Entro il termine previsto dell’articolo 324, comma 1, contro il
decreto di sequestro emesso dal giudice può essere proposto direttamente ricorso per cassazione.
La proposizione del ricorso rende inammissibile la richiesta di riesame”.
Al comma 3 si prevede l’applicazione delle disposizioni dell’art. 311 c.p.p., commi 3 e 4.
Il primo dei commi richiamati stabilisce che il ricorso va presentato nella cancelleria del giudice che
ha emesso la decisione, ovvero, nel caso previsto dal comma 2, in quella del giudice che ha emesso
l’ordinanza. Il giudice cura che sia dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente la quale,
entro il giorno successivo, trasmette gli atti alla corte di cassazione.
Il comma 4 specifica che, nei casi previsti dai commi 1 e 2, i motivi devono essere enunciati contestualmente al ricorso, sebbene il ricorrente abbia facoltà di enunciare nuovi motivi davanti alla corte di
cassazione, prima dell’inizio della discussione.
Inoltre, il successivo comma 5, non richiamato dall’art. 325, ma di interesse per la soluzione della
questione in esame, prevede che la corte di cassazione decida entro trenta giorni dalla ricezione degli
atti, osservando le forme previste dall’art. 127.
4. I contenuti delle richiamate disposizioni e, segnatamente, quello dell’art. 311 c.p.p., comma 4, nella parte in cui prevede la possibilità di enunciare nuovi motivi davanti alla corte di cassazione, prima
dell’inizio della “discussione”, ha orientato le precedenti decisioni delle Sezioni Unite, inducendo a ritenere superabile, in ragione di tale specifico riferimento, il mancato espresso richiamo al comma 5 del
medesimo articolo, che impone l’osservanza delle forme di cui all’art. 127.
In particolare, nella sentenza Serio (n. 4 del 1990, cit.) si è affermato che il richiamo dell’art. 311
c.p.p., comma 4, rende impossibile la trattazione scritta, in quanto la disposizione prevede una “discussione”, necessariamente orale e la possibilità di enunciare motivi nuovi prima del suo inizio, delineando così un modulo procedimentale ritenuto incompatibile con quello dell’art. 611 c.p.p., che è basato
unicamente su atti scritti e consente alle parti di presentare motivi nuovi fino a quindici giorni prima
dell’udienza camerale.
Tale evenienza, dunque, sarebbe indicativa della sussistenza di uno di quei casi in cui, secondo l’art.
611, “è diversamente stabilito” e, risultando inapplicabili le forme del procedimento camerale speciale,
non possono che essere adottate quelle generali dell’art. 127 c.p.p., nonostante l’assenza, nell’art. 325
c.p.p., di un rinvio al comma 5 dell’art. 311.
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La mancanza del rinvio avrebbe tuttavia, quale conseguenza, l’inapplicabilità, ai ricorsi in materia di
sequestro, del termine di trenta giorni dalla ricezione degli atti, fissato dell’art. 311, comma 5, entro il
quale deve intervenire la decisione della corte di cassazione.
La sentenza Serio ha conseguentemente ritenuto che l’art. 325 c.p.p., comma 3, abbia parificato i ricorsi in materia di misure cautelari reali a quelli in materia di misure cautelari personali per quanto
concerne le forme di trattazione, non estendendo però ai primi il termine di trenta giorni per la decisione, che ha considerato giustificato, nel suo rigore, solo per le misure di natura personale.
Le considerazioni svolte nella sentenza Serio sono state pienamente ribadite dalla successiva sentenza Lucchetta (n. 14 del 1993, cit.), la quale, nel respingere nuovamente la diversa soluzione interpretativa, prospettata nell’ordinanza di rimessione sulla base del mancato espresso richiamo dell’art. 311
c.p.p., comma 5, da parte dell’art. 325, ha rilevato la superfluità di tale rinvio in presenza del riferimento alla “discussione”, contenuto l’art. 311, nel comma 4 che presuppone, necessariamente, la forma orale del procedimento.
Sulla base di tale assunto, viene negata anche la fondatezza della tesi (ora nuovamente prospettata
nell’ordinanza di rimessione), che il rinvio potrebbe operare soltanto per la parte applicabile e, cioè,
quella riguardante la possibilità di enunciare nuovi motivi e non anche per la discussione orale, perché
vi osterebbe l’inequivoco tenore letterale delle norme e, inoltre, perché, venendo eliminata la discussione, sarebbe vanificato il termine stabilito per la presentazione di nuovi motivi, individuato, appunto,
nell’inizio della discussione, privando di efficacia la norma stessa.
Infine, la sentenza Lucchetta rileva che, accedendo alla contraria soluzione della questione, la mancanza della discussione comporterebbe l’impossibilità, per il pubblico ministero, di controdedurre ai
nuovi motivi enunciati dalla controparte.
5. È il caso di segnalare che, in una successiva, isolata, pronuncia (Sez. 1^, n. 3259 del 02/05/2000,
Selini, Rv. 216755) si è affermato che le forme camerali di cui all’art. 127 c.p.p., in sede di ricorso per
cassazione in procedimenti riguardanti i sequestri, vanno osservate soltanto per quelli proposti dalle
parti processuali legittimate a richiedere il riesame del provvedimento di sequestro e che concretamente abbiano partecipato al relativo procedimento, mentre nei casi inerenti all’istanza di restituzione della
cosa in sequestro, formulata da soggetto non intervenuto nella procedura di riesame, va osservato il rito
camerale non partecipato e con solo contraddittorio scritto tra le parti.
6. Ritiene il Collegio che le argomentazioni sviluppate nelle richiamate pronunce Serio e Lucchetta,
entrambe ormai risalenti nel tempo, vadano oggi riviste, pur in presenza di un quadro normativo immutato, alla luce dei contributi interpretativi offerti da successivi interventi delle Sezioni Unite, dando
pure conto di quanto rilevato dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale richiamata anche
nella requisitoria della Procura generale.
7. Si è già ricordato in precedenza che, con riferimento al ricorso per cassazione contro l’ordinanza
emessa dal g.i.p. a norma dell’art. 263 c.p.p., comma 5, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 9857 del 2008, dep.
2009, Manesi, cit.) hanno individuato, quale rito da seguire, quello non partecipato di cui all’art. 611 c.p.p.
Richiamando le argomentazioni svolte in altra pronuncia (Sez. U, n. 26156 del 28/05/2003, Di Filippo, Rv. 224612), secondo la quale il modello camerale tipico previsto per le decisioni della corte di cassazione dall’art. 611 c.p.p., “su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento”, diverge dal modello camerale tipico delineato dall’art. 127 c.p.p., per le fasi procedimentali di merito, la sentenza Manesi ha posto in evidenza: la natura di norma speciale dell’art. 611 c.p.p., rispetto alla norma
generale dettata dall’art. 127 c.p.p.; il fatto che l’art. 611 c.p.p., costituisce attuazione della previsione
contenuta all’art. 2, direttiva 89, della legge-delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, nonché della previsione di cui all’art. 2, direttiva 95, della medesima legge contenente l’indicazione del “diritto delle parti di svolgere le conclusioni davanti alla Corte di Cassazione”, di cui pure si è
detto in precedenza; che il rito camerale di cassazione previsto dall’art. 611 c.p.p., costituisce una forma
specifica e generale per la sede di legittimità, derogatoria rispetto alla forma prevista in via generale per
la sede di merito, la cui peculiarità consiste nella modalità attuativa del principio del contraddittorio
(cartolare e non partecipato).
Da tale enunciato la decisione trae la conclusione che “la disciplina speciale, dettata per il rito camerale
in cassazione, costituisce già di per sé deroga alla disciplina generale; il mero richiamo all’art. 127 riferito
al procedimento incidentale di merito, se può valere a definire l’ambito di ricorribilità del provvedimento
del giudice di merito, non può essere esteso meccanicamente alla procedura da seguire nella successiva
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fase di legittimità, la quale, ‘se non è diversamente stabilito’, è regolata da una specifica forma”.
Si è anche osservato come il rito camerale di cassazione sia previsto per materie che incidono su diritti soggettivi o posizioni di rilevanza anche costituzionale, per i quali il contraddittorio cartolare costituisce valido espletamento del diritto defensionale delle parti.
Ancor più recentemente, si è affermato (Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, Rv. 253289), con riferimento al procedimento per la trattazione in camera di consiglio non partecipata, in sede di legittimità, dei ricorsi in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione, che essa non trova ostacolo nella sentenza 10 aprile 2012 della Corte EDU, nel caso Lorenzetti c. Italia, perché tale pronuncia, nell’affermare
la necessità che al soggetto interessato possa, quanto meno, essere offerta la possibilità di richiedere una
trattazione in pubblica udienza, non si riferisce al giudizio innanzi alla Corte di cassazione.
In tale occasione, sia pure con riferimento al ben diverso tema dell’alternativa tra rito camerale non
partecipato e udienza pubblica, le Sezioni Unite hanno condiviso le conclusioni cui è pervenuta la Corte
costituzionale nella sentenza n. 80 del 2011 nel desumere, dalla giurisprudenza della Corte EDU, “il
principio secondo il quale, in riferimento al giudizio di legittimità, la pubblicità della udienza non rappresenta un corollario necessario e inderogabile del diritto alla pubblicità del processo garantito
dall’art. 6, 1, della CEDU, quanto meno con riferimento alla tematica dei procedimenti speciali che vengono qui in discorso. In senso reciproco, d’altra parte, ed a corroborare un simile assunto, sta la circostanza che, ove si sia verificata una violazione dell’art. 6, 1, della CEDU, nei gradi di merito, la eventuale trattazione del ricorso per cassazione in udienza pubblica non varrebbe – come pure puntualizzato
dalla citata sentenza n. 80 del 2011 – a rimuovere e ‘sanare’ quella violazione, dal momento che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha più volte precisato che lo svolgimento pubblico del giudizio di
impugnazione che sia a cognizione limitata, come nel caso in cui il relativo sindacato sia circoscritto ai
soli motivi di diritto, non compensa la mancanza di pubblicità del giudizio anteriore, ‘proprio perché
sfuggono all’esame del giudice di legittimità gli aspetti in rapporto ai quali l’esigenza di pubblicità delle udienze è più avvertita, quali l’assunzione delle prove, l’esame dei fatti e l’apprezzamento della proporzionalità tra fatto e sanzione’”.
8. Anche le sezioni semplici penali hanno, in più occasioni, preso in esame questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 611 c.p.p., sollevate sotto diversi profili.
Una prima valutazione è stata effettuata dalla Prima Sezione, la quale ha rilevato la manifesta infondatezza, con riferimento all’art. 24 Cost., della questione, prospettata riguardo alla parte in cui l’art. 611
c.p.p., derogando a quanto stabilito dall’art. 127, prevede il rito camerale non partecipato, osservando
che il diritto di difesa è comunque garantito dalla facoltà di presentare memorie a sostegno del ricorso e
non deve necessariamente esplicarsi con la presenza della parte all’udienza camerale (Sez. 1^, n. 5161
del 14/12/1992, dep. 1993, Micci, Rv. 193075).
A conclusioni analoghe è successivamente pervenuta la Terza Sezione penale in relazione alle sentenze di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., osservando che l’art. 24 Cost. tutela il diritto
di difesa in quanto tale e non una sua particolare modalità di esercizio, quale la difesa orale davanti al
giudice (Sez. 3^, n. 3093 del 27/09/1995, Caporale, Rv. 202808; conf. Sez. 5^, n. 32728 del 13/06/2001,
Canalicchio, Rv. 219344). Nello stesso senso, con riferimento all’ormai abrogato comma 2 dell’art. 611
c.p.p., (la cui disciplina è stata peraltro trasfusa nell’art. 610 c.p.p.), v. Sez. 1^, n. 5379 del 29/09/2000,
Srebot, Rv. 217613 e Sez. 5, n. 4118 del 17/11/2000, dep. 2001, Manfredi, Rv. 217937).
Con riferimento all’art. 76 Cost. è stata, poi, ritenuta manifestamente infondata altra questione, sollevata ipotizzando l’eccesso di delega rispetto ai criteri direttivi contenuti nella L. n. 81 del 1987, art. 2 e,
in particolare, rispetto alle direttive n. 2 (non essendo assicurata la trattazione orale del ricorso), n. 3
(non essendo realizzata la partecipazione della difesa su basi di parità rispetto all’accusa) e n. 89 (non
essendo previste adeguate garanzie di difesa).
Si è rilevato che l’esigenza di assicurare l’oralità del processo non solo non è imposta in via assoluta,
ma attiene alla formazione della prova e non alle modalità di esercizio della difesa in sede di discussione dibattimentale; che il procedimento camerale in cassazione non attribuisce alcun privilegio all’accusa, essendo esclusa in esso la presenza non solo del difensore ma anche del pubblico ministero e, infine,
che il diritto di difesa è adeguatamente assicurato dalla facoltà del difensore di presentare memorie e
memorie di replica (Sez. 6^, n. 4679 del 27/11/1997, dep. 1998, Testa, Rv. 209780; conf. Sez. 1^, n. 4775
del 05/10/1998, dep. 1999, De Filippis, Rv. 212287).
È stata poi rilevata, con riferimento alla trattazione dell’istanza di ricusazione, la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale riferita alla mancata ammissione del difensore alla diAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | FORME NON PARTECIPATE PER IL RICORSO CONTRO IL DECRETO DI SEQUESTRO
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scussione orale sia nel corso della procedura di ricusazione che in sede di ricorso per cassazione, secondo quanto prescritto nell’art. 127 c.p.p..
Si è osservato, a tale proposito, che il legislatore ordinario, in ossequio all’art. 24 Cost., è tenuto a garantire, in ogni stato e grado dei procedimenti giudiziari, l’esplicazione del diritto di difesa, sebbene le
modalità attraverso le quali questo diritto trova attuazione nelle specifiche e singole procedure possono
essere stabilite di volta in volta dalla legge e la sua concreta esplicazione può essere, conseguentemente,
adeguata e adattata alla natura della materia trattata, alle esigenze di celerità o anche di massima semplificazione che il legislatore intenda perseguire, purché non lo faccia in maniera del tutto arbitraria ed
irragionevole e tale da vanificare il diritto costituzionalmente garantito, sicché il contraddittorio scritto,
specie quando ponga le parti in situazione di assoluta parità, non si pone in contrasto con l’art. 24 Cost.,
(così, Sez. 4^, n. 1003 del 31/03/1999, Sette, Rv.214772).
9. Per ciò che riguarda, invece, la compatibilità dell’art. 611 c.p.p., con i principi della CEDU, la piena legittimità della procedura camerale non partecipata è stata riconosciuta con riferimento ai ricorsi
avverso i provvedimenti in materia di misure di prevenzione, in quanto la garanzia del contraddittorio
orale in tale materia è riferita, dalla Corte EDU (sent. 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza e. Italia), al
giudizio di merito (Sez. 1, n. 8990 del 13/02/2008, Ambrogio, Rv. 239515; conf. Sez. 6^, n. 2269 del
15/12/2009, dep. 2010, Del Vento, Rv. 245706; Sez. 1^, n. 14010 del 26/02/2008, Cucurachi, Rv. 240137;
Sez. 1^, n. 11279 del 26/02/2008, Magnisi, Rv. 239046; Sez. 1^, n. 13569 del 04/02/2009, Falsone,
Rv.243552; Sez. 5^, n. 35371 del 20/06/2013, Scinardo, Rv. 255765).
In tema di esecuzione è stata poi ritenuta la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 611 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’intervento orale delle parti, osservandosi
che tale procedimento camerale non è in contrasto con i principi del contraddittorio e della parità delle
parti caratterizzanti il “giusto processo” a norma dell’art. 111 Cost., comma 2, poiché assicura il contraddittorio cartolare tra le parti, poste su un piano di parità attraverso la possibilità di presentare memorie e memorie di replica e ricordando come la Corte EDU, nel ribadire la rilevanza della pubblicità
dell’udienza dei procedimenti che possono incidere sui diritti fondamentali del cittadino, abbia previsto cause legittime di deroga in ragione della natura della questione trattata connotata da alto tecnicismo (Corte EDU, Sez. 2^, 18 maggio 2010, Udorovic c. Italia), la quale è destinata alla verifica della sussistenza dei presupposti per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, già stabilito in sentenze
irrevocabili, secondo la regola del cumulo giuridico previsto in ipotesi di reato continuato, in luogo del
cumulo materiale delle pene (così, Sez. 1^, n. 42160 del 10/10/2012, De Stefano, Rv. 253812).
Ad analoghe conclusioni si è pervenuti, infine, con riferimento ai ricorsi in materia di riparazione
per l’ingiusta detenzione (Sez. 4^, n. 10547 del 13/02/2014, Troci, Rv. 259218).
10. Dalla sommaria disamina delle richiamate pronunce emerge, dunque, chiaramente la piena legittimità della procedura camerale disciplinata dall’art. 611 c.p.p., anche alla luce della normativa convenzionale e costituzionale, attraverso la non equivocabile distinzione tra il giudizio di merito e quello di
legittimità, di cui si è appena detto, cosicché una soluzione interpretativa diversa da quella prospettata
nelle sentenze Serio e Lucchetta sarebbe priva delle negative conseguenze prospettate nella requisitoria
della Procura generale, che peraltro, come si è avuto occasione di notare, investono non il tema
dell’alternativa tra procedura in camera di consiglio partecipata e quella non partecipata, che qui solo
interessa, ma quello ben diverso dell’alternativa tra procedura camerale e udienza pubblica.
11. Ponendo nuovamente l’attenzione sui contenuti delle disposizioni codicistiche in esame, va osservato come rilevi, in primo luogo, la specialità della procedura camerale non partecipata nel giudizio
di cassazione, che opera “se non è diversamente stabilito”, come precisa l’art. 611 c.p.p.
La formula utilizzata sembra riferirsi ad una espressa indicazione della differente procedura applicabile, precludendo, così, la possibilità di interpretazioni sostanzialmente fondate su deduzioni di natura implicita, quali quelle prospettate nelle sentenze Serio e Lucchetta.
In altre parole, l’art. 325, comma 3, e l’art. 311, commi 3 e 4, in esso richiamato, non stabiliscono alcunché di diverso rispetto a quanto indicato dall’art. 611 c.p.p., diversamente da quanto è da dire con
riferimento dell’art. 311, comma 5, laddove l’osservanza delle forme previste dall’art. 127 c.p.p., è invece specificatamente effettuata.
Va inoltre rilevato che l’art. 311 c.p.p., riguarda il ricorso per cassazione avverso provvedimenti in
materia di misure coercitive, sicché la sua complessiva conformazione è chiaramente calibrata con specifico riferimento ad esse, ed il richiamo alla “discussione”, presente nel comma 4, non può ritenersi deAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | FORME NON PARTECIPATE PER IL RICORSO CONTRO IL DECRETO DI SEQUESTRO
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terminante ai fini della individuazione del rito, così come non può ritenersi che la sua mera presenza
sia significativa di una diversa previsione da parte del legislatore, il quale avrebbe, così, “diversamente
stabilito” rispetto all’art. 611 c.p.p..
Da ciò consegue che l’assenza di un richiamo anche dell’art. 311, comma 5, da parte dell’art. 325
c.p.p., non è affatto irrilevante, venendo a mancare quella espressa previsione di un diverso rito camerale che l’art. 611 chiaramente richiede nell’individuare i casi in cui non si procede nella forma non partecipata.
Considerando, dunque, l’art. 311 c.p.p., nel suo complesso, perde rilievo anche la ulteriore osservazione, presente nella sentenza Serio, secondo la quale il mancato richiamo al comma 5, produce comunque concrete conseguenze, rendendo inapplicabile, in tema di sequestri, l’obbligo di decidere il ricorso entro trenta giorni dalla ricezione degli atti.
Tale ultima affermazione, significativamente oggetto di critica nei commenti alla decisione, mostra
una evidente debolezza argomentativa, forzando la lettera della legge in un tortuoso percorso, seguendo il quale si sarebbe inteso perseguire il medesimo risultato che si sarebbe potuto ottenere attraverso il
semplice richiamo dell’art. 311 c.p.p., comma 5, ovvero disciplinandosi del tutto autonomamente il ricorso per cassazione avverso le ordinanze in materia di sequestro, senza alcun richiamo ad altre disposizioni.
Una lettura organica dell’art. 311 c.p.p., rende peraltro condivisibili le osservazioni svolte nell’ordinanza di rimessione, laddove si osserva che la prevista possibilità di presentazione di motivi nuovi fino
all’udienza può essere compresa solo se correlata alla necessità di fissare l’udienza medesima nei trenta
giorni dalla ricezione degli atti, come disposto dal comma 5, considerando che i tempi ristretti giustificano la possibilità di introdurre argomenti nuovi a sostegno dei motivi già proposti e la conseguente
deroga dell’art. 127 c.p.p., comma 2.
Nel valutare, dunque, l’ambito di operatività dell’art. 325 c.p.p., comma 2, in relazione all’art. 311
c.p.p., richiamati commi 3 e 4, non può prescindersi dal considerare che quest’ultimo è strutturato in relazione alle misure cautelari personali e dal fatto che il contenuto del comma 5 non può essere ignorato.
Solo attribuendo rilievo alla circostanza che soltanto tale comma contiene un richiamo espresso
all’art. 127 c.p.p., e considerandone i contenuti, che lo saldano perfettamente ai commi precedenti, può
pervenirsi ad una interpretazione coerente, giungendo così alla conclusione, prospettata nell’ordinanza
di rimessione, secondo la quale il richiamo, operato dall’art. 325 c.p.p., comma 3, dell’art. 311, comma 4,
va riferito esclusivamente all’obbligo di enunciazione contestuale dei motivi di ricorso; precisazione a
ben vedere per nulla superflua, essendo giustificata dalla necessità di affermare esplicitamente che la
presentazione di una dichiarazione di impugnazione autonoma rispetto ai motivi, consentita nella fase
del merito nella materia qui considerata, non è consentita nel giudizio di cassazione.
La diversa disciplina del rito camerale relativo alla trattazione del ricorso per cassazione regolato
dall’art. 325 c.p.p., trova, peraltro, ulteriore giustificazione, in linea generale, nella sostanziale differenza tra il regime cautelare personale e quello reale (messo in evidenza da Sez. U, n. 26268 del 17/06/
2013, Rv. 255582, Cavalli), che legittima opzioni procedurali diversificate e, in particolare, nel fatto che
il ricorso per cassazione ex art. 325 c.p.p., è ammesso solamente per violazione di legge; evenienza,
quest’ultima, che da ben ragione dell’opzione del legislatore verso un rito camerale non partecipato, il
quale assicura comunque la pienezza del contraddittorio tra le parti.
Va peraltro osservato che, diversamente da quanto rilevato dalla Procura generale nelle sue conclusioni, il ricorso al rito camerale non partecipato non determina rilevanti conseguenze sulla celere definizione
dei processi, considerato, in primo luogo, che il maggior termine di trenta giorni di cui all’art. 610 c.p.p.,
comma 5, rispetto a quello stabilito dall’art. 127 c.p.p., può essere comunque ridotto a richiesta delle parti,
secondo quanto disposto dall’art. 169 disp. att. c.p.p.; e, in secondo luogo, che per l’individuazione della
data della udienza ex art. 611 c.p.p., diversamente da quanto sostenuto nella requisitoria, non è affatto necessario attendere che sia licenziata la requisitoria scritta, l’assenza della quale non impedisce comunque
la trattazione del ricorso (v. Sez. 1, n. 4355 del 19/11/1991, dep. 1992, Chlllè, Rv.188823).
12. Al quesito posto in apertura della presenta parte motiva, vale a dire “se il rito da seguire in caso
di ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 325 c.p.p., deve svolgersi nel rispetto delle forme
previste dall’art. 611 o di quelle previste dall’art. 127 c.p.p.”, si deve pertanto rispondere che “deve osservarsi la procedura di cui all’art. 611 c.p.p.”.
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13. Venendo ora all’esame dei motivi di ricorso, deve rilevarsi la manifesta infondatezza degli stessi.
Lamentano, in particolare, i ricorrenti che il Tribunale non avrebbe fornito risposta su una specifica
deduzione, concernente la insufficienza o mera apparenza della motivazione del provvedimento di
convalida di perquisizione e sequestro effettuata dal pubblico ministero nella parte concernente le modalità di custodia delle cose apprese dalla polizia giudiziaria.
14. Va a tale proposito rilevato che, secondo quanto già osservato dalla giurisprudenza di legittimità
(Sez. 6^, n. 25383 del 27/05/2010, Galluzzi, Rv. 247825; Sez. 6^, n. 6166 del 14/03/1995, Sanfilippo, Rv.
201824), le modalità di custodia delle cose sequestrate, descritte negli artt. 259 e 260 c.p.p., costituiscono
prescrizioni meramente indicative che, da un lato, sono derogabili per ragioni di impossibilità o di opportunità, e, dall’altro, non sono astrattamente contestabili, salvo il caso in cui vengano specificamente
dedotti inconvenienti sostanziali attinenti ad ipotesi concrete di alterazione, modificazione o sostituzione dei reperti.
Il provvedimento di convalida, presente in atti, contiene l’espressa indicazione, da parte del Pubblico ministero procedente, della conferma delle modalità di custodia dei reperti e costituisce motivazione
certamente adeguata in difetto di specifiche esigenze tali da imporre particolari modalità di conservazione delle cose sequestrate.
Il Tribunale, inoltre, ha espressamente affermato che nessuna censura poteva essere mossa al provvedimento impugnato sotto il profilo motivazionale, così implicitamente fornendo risposta a tutte le
doglianze formulate, sul punto, dalla difesa.
Quanto alle deduzioni ulteriori poste a sostegno del motivo di ricorso e concernenti il diverso peso
dello stupefacente riscontrato in sede di accertamento tecnico rispetto a quello constatato all’atto del
sequestro, va rilevato che trattasi di questione di fatto che non può essere prospettata in sede di legittimità.
Per ciò che concerne, infine, la censura concernente l’indicazione di diversi orari nei verbali di sequestro, dalla semplice disamina degli stessi emerge chiaramente che la polizia giudiziaria ha dato atto
della data e dell’ora di redazione di ciascuno di essi (rispettivamente, 27 marzo 2015 ore 17,30 e 27 marzo 2015 ore 14,30), precisando, in entrambi i verbali, di aver proceduto al sequestro alle precedenti ore
12,30, all’esito di perquisizione.
15. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro mille.
P.Q.M.
Dichiara i ricorsi inammissibili e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2015
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ENRICO MARIA MANCUSO
Ricercatore confermato di Diritto processuale penale – Università Cattolica del S.C., Milano
Sindacato sul decreto di sequestro e rito camerale
non partecipato: le Sezioni Unite mutano indirizzo
The Supreme Court of Cassation changes his mind: new rules
for the procedure on appeals against search and seizure orders
Le Sezioni Unite, mutando un indirizzo dalle stesse espresso nei primi anni ‘90 del secolo scorso, hanno affermato il
principio di diritto secondo cui in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 325 c.p.p., avverso il sequestro probatorio o in materia di cautele reali, il rito camerale deve seguire le forme non partecipate di cui all’art.
611 c.p.p., e non quelle tipiche previste dall’art. 127 c.p.p. che prevedono la partecipazione e l’intervento delle parti.
The Joint Divisions of the Italian Supreme Court of Cassation – overturning a long-standing case-law – ruled that
after an appeal concerning the legitimacy of a search and seizure order, pursuant to Section 325 ICPC the procedure to be followed before the Court of Cassation is the one provided for by Section 611 ICPC, without the attendance of the parties or the possible release of closing arguments.
LA VICENDA GIUDIZIARIA IN ESAME
La pronuncia in esame trae origine da un provvedimento di sequestro probatorio di armi da fuoco (legittimamente detenute, ma rinvenute in un armadio blindato aperto), armi bianche, cartucce e sostanza
stupefacente avverso il quale – in seguito all’infruttuosa proposizione del riesame – gli imputati adivano la Suprema corte per dedurre la violazione dell’art. 292, commi 2, lett. c e c-bis, e 2-ter c.p.p., in virtù
della mancata apposizione di sigilli all’atto della apprensione delle res sottoposte a vincolo e del difetto
di motivazione del provvedimento di convalida.
Ricevuto il ricorso, esso era assegnato alla sesta sezione penale che, all’udienza del 15 settembre 2015,
celebrava il rito camerale non partecipato ai sensi dell’art. 611 c.p.p. In vista dell’udienza, la Procura generale formulava conclusioni scritte, rilevando l’opportunità di ottenere un rinvio e la nuova convocazione
di un’udienza nel corso della quale instaurare un contraddittorio orale, ai sensi dell’art. 127 c.p.p., ed all’uopo invocando gli approdi reputati ormai consolidati della medesima Corte; in subordine, il rappresentante del Pubblico ministero formulava istanza di rimessione degli atti alle Sezioni Unite.
Con ordinanza resa all’esito della camera di consiglio, la sezione adita accedeva a quest’ultima richiesta e rimetteva la questione di diritto al supremo consesso nomofilattico, reputando utile e necessaria «una rivisitazione del precedente, consolidato, indirizzo interpretativo» 1.
LA QUESTIONE SOTTOPOSTA AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE
L’esigenza di sottoporre il ricorso al vaglio delle Sezioni Unite dipende, per il rimettente, dall’esistenza di un consolidato insegnamento della Corte – risalente agli anni ‘90 e uniformemente seguito –
che esige la fissazione di un’udienza camerale partecipata, ai sensi dell’art. 127 c.p.p., in seno alla quale
1
Così, Cass., sez. VI, ord. 15 settembre 2015, in Dir. pen. contemporaneo, 22 ottobre 2015, 5, con nota di I. Manca, Sequestro
preventivo e ricorso per cassazione: quale rito camerale applicabile?
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SINDACATO SUL DECRETO DI SEQUESTRO E RITO CAMERALE NON PARTECIPATO
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si possa instaurare un contraddittorio sui denunciati vizi di legittimità del provvedimento che dispone
il sequestro (sia esso cautelare o probatorio). In particolare, secondo l’orientamento messo in discussione, il ricorso per cassazione proposto ex art. 325 c.p.p. avverso le ordinanze del tribunale del riesame o
dell’appello cautelare in materia di sequestro preventivo (ma il discorso non muta in caso di sequestro
probatorio) deve esser trattato con il rito camerale partecipato tipico, e non nelle forme descritte dalla
lex specialis di cui all’art. 611 c.p.p.: norma, si riconosce, che pure detta un modello unitario per il sindacato di legittimità innanzi la Cassazione di tutti i provvedimenti non emessi in udienza pubblica 2.
Il rito camerale ex art. 127 c.p.p. con intervento delle parti e possibilità di fornire un contributo orale
costituirebbe, in altri termini, l’eccezione per il giudizio di legittimità: in quanto tale, esso deve essere
espressamente previsto dal legislatore, come accade nel caso delle cautele personali, ai sensi dell’art.
311, comma 5, c.p.p.
Proprio da un’esegesi estensiva della previsione da ultimo citata, la Corte di cassazione a sezioni
unite aveva nel passato desunto uno statuto partecipato del procedimento riguardante le cautele reali,
sottolineando come la mancata menzione del modello tipico potesse essere rimediata in via esegetica 3.
Nel ragionamento estensivo operato più di due decenni orsono, la Corte rilevava come il rinvio operato dall’art. 325, comma 3, c.p.p. ai soli commi 3 e 4 dell’art. 311 c.p.p. – e non anche al comma 5, che a
sua volta esplicitamente richiama l’art. 127 c.p.p. 4 – non dovesse considerarsi ostativo a una interpretazione volta a uniformare i regimi procedurali prescritti per le cautele personali e per quelle reali. In particolare, sottolineavano le Sezioni Unite, il solo richiamo del comma quarto dell’art. 311 c.p.p., che consente la proposizione di motivi nuovi davanti alla Cassazione prima dell’inizio della discussione 5, è di
per sé risolutivo, poiché «prevedendo una discussione (necessariamente orale) e la possibilità di enunciare motivi nuovi prima del suo inizio, delinea un modulo procedimentale incompatibile con quello
dell’art. 611 c.p.p., che è basato unicamente su atti scritti e facultizza le parti a presentare motivi nuovi
fino a quindici giorni prima dell’udienza camerale» 6.
Il mancato richiamo al comma 5 dell’art. 311 c.p.p., nella lettura prospettata, non sarebbe ad ogni modo privo di conseguenze, poiché comporterebbe l’inoperatività del termine di trenta giorni, decorrente
dalla ricezioni degli atti, ivi contemplato per stabilire un dies ad quem circa la decisione del ricorso 7.
La soluzione originariamente fornita dalle Sezioni Unite, in altri termini, reputava irrilevante la
mancanza di un richiamo esplicito alla disciplina dell’art. 127 c.p.p., perseguendo il medesimo risultato
in chiave estensiva e secondo l’argomento sistematico, poiché – si affermava – l’esistenza di un’evidente
discrasia può e deve essere rimediata per non andare contro la volontà del legislatore, pur non espressa
nei lavori preparatori al codice del 1988 8.
L’art. 325 c.p.p., allora, avrebbe definito una disciplina soltanto in parte autonoma quanto alle modalità e alle forme del rito in cassazione avverso i provvedimenti di sequestro, che non avrebbe potuto
prescindere dall’integrazione con il modello contiguo disegnato per le misure personali. L’idea di aval2
Con la sola eccezione delle sentenze deliberate a norma dell’art. 442 c.p.p.; così, Cass., sez. VI, ord. 15 settembre 2015, cit., 2.
3
Il riferimento è a Cass., sez. un., 26 aprile 1990, in Cass. pen., 1990, II, p. 192 ss., su cui v. R. Pavese, Sulla forma di trattazione
del procedimento camerale su ricorso per cassazione in tema di sequestro preventivo, in Foro it., 1991, II, p. 461 ss.; nonché a sez. un., 6
novembre 1992, in Cass. pen., 1993, p. 1380 ss. Per un commento a quest’ultima decisione, cfr. G. De Roberto, Un nuovo intervento
delle Sezioni unite sulla procedura da seguire nel giudizio per cassazione in materia di sequestri, in Giust. pen., 1993, III, p. 585 ss.
4
Secondo N. Galantini, sub art. 325, in Commentario del nuovo Codice di procedura penale, diretto da E. Amodio, O. Dominioni,
III, 2, 1990, p. 295, l’assenza di un rinvio sarebbe dovuta a una svista del legislatore.
5
La facoltà di enunciare nuovi motivi in limine al dibattimento di cassazione è comunque circoscritta ai punti del
provvedimento che abbiano formato oggetto di preventiva devoluzione, con conseguente inammissibilità dei temi nuovi che da
tali primi motivi esulino; in giurisprudenza, ex multis, Cass., sez. I, 15 gennaio 2013, in CED Cass., n. 254485.
6
Cass., sez. un., 26 aprile 1990, cit., p. 194.
7
In dottrina, prospettava la possibile lettura – pur criticamente – Galantini, sub art. 325, cit., p. 295. Aderivano a tale
soluzione P. Balducci, Il sequestro preventivo nel processo penale, Milano, 1991, pp. 273-274; R. Bausardo, Misure cautelari reali, in M.
Chiavario-E. Marzaduri (a cura di), Libertà e cautele nel processo penale, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale,
Torino, 1996, p. 347. Contra, P. Gualtieri, sub art. 325, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato,
Milano, 2010, pp. 2964-2965; D. Vigoni, Ricorso per cassazione, in A. Scalfati (a cura di), Prove e misure cautelari, II, t. 2 (Trattato di
procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2009, p. 614, che sottolineava come la scelta normativa faccia sorgere dubbi sulla
tempestività di intervento della Corte di cassazione, «specie nel caso in cui, come nel ricorso per saltum, l’impugnazione di
legittimità si ponga quale alternativa al riesame».
8
Così, ancora, Cass., sez. VI, ord. 15 settembre 2015, cit.
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lare un rinvio monco, che ammetta la proposizione di motivi ulteriori, esplicativi di quelli già formulati
con il gravame, ma non la discussione orale veniva considerata dalle stesse Sezioni Unite insostenibile
e, per certi aspetti, lesiva della parità delle armi tra difesa e accusa, determinando l’«impossibilità per il
p.m. di controdedurre ai motivi nuovi enunciati dalla controparte» 9.
L’ordinanza di rimessione degli atti per il nuovo intervento di nomofilassi critica alle fondamenta
questo percorso argomentativo, evidenziandone le debolezze sotto un duplice angolo prospettico: da
un lato, afferma la sezione sesta, non è dato comprendere la ragione per cui la giurisprudenza consolidata superi il dato testuale, che all’evidenza omette di richiamare il modello camerale partecipato nel
costruire il sistema di rinvii recettizi; dall’altro, proprio nella ricostruzione del sistema di riferimento si
opera una frammentazione indebita di precetti, così «introducendo un criterio di approccio ermeneutico
obiettivamente opinabile» 10.
La scelta del rito partecipato è mutuata – in chiave estensiva – dal quinto comma dell’art. 311 c.p.p.,
“trascinato” dall’esigenza di dar senso alla nuova proposizione dei motivi in limine al dibattimento. Ciò,
tuttavia, non importerebbe l’integrale recepimento delle regole ivi descritte: sarebbe escluso, in particolare, proprio il termine di trenta giorni, «giustificato nel suo rigore solo per le misure di natura personale» 11. Circostanza, questa, che finisce con l’indebolire l’apparato giustificativo della soluzione patrocinata dalla giurisprudenza più risalente, in quanto espressiva di una sorta di ibridazione tra modelli certo non voluta dal legislatore.
La possibilità di presentare i motivi nuovi fino all’udienza, a ben considerare, trova una sua chiara
giustificazione soltanto «in relazione alla necessità di fissare l’udienza nei trenta giorni dal pervenimento del fascicolo [ai sensi dell’art. 311, comma 5, c.p.p.], in un contesto nel quale i tempi ravvicinati possono rendere i cinque giorni previsti dall’art. 127 troppo comprimenti un’efficace possibilità di introdurre argomenti nuovi» 12. È la brevità dei tempi, allora, a imporre la proposizione di motivi a sostegno
del devolutum nella chiara prospettiva del rito partecipato.
Di contro, proprio l’adozione del modello non partecipato, con termini d’interlocuzione e replica
scritta anteriori all’udienza (artt. 610, comma 5 e 611, comma 1, c.p.p.) pensati proprio per rendere effettivo il contraddittorio cartolare, non porrebbe analoghe esigenze. Si tratta, semmai, di modelli alternativi, costruiti in maniera coerente rispetto alla portata dei valori in gioco e adottati secondo parametri di
discrezionalità legislativa.
LA POSIZIONE ‘GARANTISTA’ DELLA PROCURA GENERALE
La rimessione del quesito al supremo collegio di legittimità era, dunque, motivata non tanto dall’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, quanto dall’esigenza di validare un drastico mutamento di rotta nel sindacato delle cautele reali e dei sequestri probatori: verifica condotta sostanzialmente sin dalla fondazione del nuovo processo secondo parametri consolidati e mai più sottoposti a
una rivisitazione.
Anche in quest’ottica va intesa la presa di posizione della Procura generale, espressa nella requisitoria scritta depositata in vista dell’udienza del 17 dicembre 2015. In essa si riprendono, invero, le soluzioni già prospettate dall’Ufficio requirente in occasione dell’udienza fissata avanti la sesta sezione, ove
era stata formulata un’istanza di fissazione di nuova udienza partecipata, in luogo del rito camerale ai
sensi dell’art. 611 c.p.p.: è la strada della camera di consiglio a contraddittorio orale a convincere
l’accusa.
Si osserva, in particolare, come l’esistenza di un «arresto giurisprudenziale mai più messo in discussione» 13 si giustifichi in virtù di plurimi elementi, di natura storica, testuale e sistematica, di spessore e
significato tale da sconsigliare l’adozione del modello di segno opposto.
In primis, le ricorrenti modifiche legislative in materia cautelare, succedutesi nel corso degli anni,
non hanno mai inciso sul quadro normativo descritto dal combinato disposto degli artt. 311 e 325 c.p.p.,
9
Cass., sez. un., 6 novembre 1992, cit.
10
Cass., sez. VI, ord. 15 settembre 2015, cit.
11
Cass., sez. un., 26 aprile 1990, cit.
12
Cass., sez. VI, ord. 15 settembre 2015, cit.
13
Requisitoria scritta depositata dalla Procura generale per l’udienza del 17 dicembre 2015, inedita, 1-2.
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così dimostrando la non necessità di un chiarimento rispetto al delicato equilibrio dei rinvii interni al
codice di rito.
In secondo luogo, gli interventi operati in diverse occasioni dalla Corte di cassazione sulla portata
applicativa dell’art. 611 c.p.p. «o non hanno riaffrontato la questione, pur avendo avuto l’occasione di
farvi cenno sotto il profilo sistematico (…) o l’hanno affrontata in maniera non del tutto convincente» 14.
Il pubblico ministero fa espresso riferimento all’indirizzo ermeneutico, sugellato da una pronuncia delle Sezioni Unite, concernente il rito da adottare in caso di impugnazione del provvedimento di diniego
della istanza di restituzione delle cose sequestrate, a norma dell’art. 263, comma 5, c.p.p. Secondo tale
orientamento, il ricorso per cassazione va deciso in camera di consiglio con le forme del rito non partecipato, non essendovi ragioni di ordine testuale, sistematico o costituzionale tali da dovere affermare
che la materia della restituzione dei beni in sequestro chiesta da chi reputi di averne diritto si sottragga
al meccanismo procedurale dettato dall’art. 611 c.p.p. 15.
L’indirizzo richiamato si fonda sulla considerazione di base che individua nel rito a contraddittorio
cartolare la «forma specifica e generale per la sede di legittimità», derogabile solo se sia diversamente
stabilito in forza di una specifica e tassativa riconduzione della materia al modello paradigmatico di cui
all’art. 127 c.p.p. 16: soluzione, peraltro, adottata anche per il sindacato in materia esecutiva, di riparazione per l’ingiusta detenzione, di misure di prevenzione e nel procedimento di sorveglianza.
A sostegno delle più ampie garanzie del contraddittorio orale, la Procura generale evoca la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha riconosciuto natura sanzionatoria alle ablazioni reali 17 e le più recenti pronunce della Corte di Strasburgo 18 e della Corte costituzionale 19 che hanno imposto in alcuni contesti giurisdizionali la garanzia della pubblicità dell’udienza, al fine di consentire un controllo esterno delle garanzie dell’equo processo. A ben riflettere, ma lo si vedrà meglio oltre,
la riconduzione del tema alla natura del sindacato e la conseguente ricerca di estensione delle garanzie
di partecipazione personale dell’accusato a quelle della pubblicità non convincono, risolvendosi in argomenti apodittici che perdono di mira le vere ragioni giustificatrici della scelta del possibile revirement.
LA SOLUZIONE AL QUESITO: IL RITO CAMERALE NON PARTECIPATO
Le Sezioni Unite accolgono l’esegesi più restrittiva delle disposizioni sottoposte a scrutinio, affermando la sufficienza del rito a contraddittorio cartolare senza l’intervento delle parti. È la tipicità del
giudizio di cassazione a giustificare la scelta legislativa, ferma restando la possibilità di derogare al
modello cartolare quando lo richiedano «la posizione processuale dei soggetti coinvolti e l’oggetto del
giudizio»: in questo risiede la portata concreta della clausola derogatoria d’apertura dell’art. 611 c.p.p.,
che esige tipicità e stretta legalità 20.
14
Cfr., ancora, Requisitoria scritta, cit., 2. Il riferimento è, anzitutto, a Cass., sez. un., 18 ottobre 2012, in CED Cass., n. 253289,
secondo cui «il procedimento per la trattazione in sede di legittimità dei ricorsi in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione è
quello camerale non partecipato», non ostando a ciò la sentenza 10 aprile 2012 della Corte europea per i diritti dell’uomo, nel caso
Lorenzetti c. Italia, in quanto tale pronuncia, nell’affermare la necessità che al soggetto interessato possa quanto meno essere offerta la
possibilità di richiedere una trattazione in pubblica udienza, non si riferisce al giudizio innanzi alla Corte di Cassazione.
15
Cass., sez. un., 30 ottobre 2008, in Cass. pen., 2009, 3326 ss., con nota di A. Scarcella, Motivi deducibili nel ricorso per cassazione
contro l’ordinanza di rigetto ex art. 263, comma 5, c.p.p., ed individuazione del rito camerale applicabile.
16
Cass., sez. un., 30 ottobre 2008, cit., che sul punto riprende la sistemazione della materia operata da Cass., sez. un., 28
maggio 2003, in Cass. pen., 2003, p. 2978 ss., con nota di S. Ciampi, La garanzia e la disciplina del controllo giurisdizionale sulla
richiesta di revoca o sostituzione delle misure cautelari disposte a fini di estradizione. Secondo A. Scarcella, Motivi deducibili nel ricorso
per cassazione contro l’ordinanza di rigetto ex art. 263, comma 5, c.p.p., ed individuazione del rito camerale applicabile, cit., la soluzione
più ragionevole da adottare, anche alla luce dei precedenti approdi delle Sezioni Unite nei casi Serio e Lucchetta avrebbe
dovuto essere quella del rito «partecipato con contraddittorio orale e non meramente cartolare invece contemplato dall’art. 611
c.p.p.». Conclusione che appariva implicita in altri precedenti arresti della Corte: cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 31 gennaio
2008, in CED Cass., n. 238507.
17
Il riferimento è a Corte e.d.u., 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia.
18
Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, tra tante, Corte e.d.u., 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia, resa in
materia di misure di prevenzione; Corte e.d.u., 10 aprile 2012, Lorenzetti c. Italia, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione.
19
Corte cost., sent. 15 giugno 2015, n. 109, in Giur. cost., 2015, p. 867 ss., con nota di Sorrentino, La Corte e i suoi precedenti:
overrulling o continuità?
20
Sul punto, si menziona Cass., sez. un., 17 luglio 2014, in CED Cass., n. 259991.
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La Corte procede a una complessiva ricostruzione del sistema e degli orientamenti pregressi, soffermandosi, in particolar modo, sull’assenza di un esplicito rinvio alla disciplina camerale ordinaria di
cui all’art. 127 c.p.p. Facendo leva proprio sulla più recente giurisprudenza in materia di restituzione
delle cose sequestrate, a norma dell’art. 263, comma 5, c.p.p., opera la “rivoluzione copernicana”, ribadendo il rapporto regola/eccezione nel sindacato di legittimità in camera di consiglio. Se il regime descritto dall’art. 611 c.p.p. è già di per sé derogatorio rispetto alla disciplina generale, esso costituisce per
il giudizio di cassazione la normale forma di instaurazione del contraddittorio per un «valido espletamento del diritto defensionale delle parti».
La prerogativa di cui all’art. 24 Cost., per le Sezioni Unite, è pienamente garantita dalla facoltà di
presentare memorie a sostegno del ricorso: diritto che può essere esercitato sino a quindici giorni prima
della data fissata per l’udienza, con ulteriore possibilità di depositare scritti di replica secondo un criterio di parità. La difesa, in questa prospettiva ermeneutica, è tutelata in quanto tale e non secondo la peculiare forma di esercizio in cui si risolve. La scelta di favorire lo scambio di memorie in vece del confronto dialettico non determina un inevitabile pregiudizio all’esplicazione delle prerogative delle parti,
poiché l’oralità non esaurisce ogni possibile forma di esplicazione del contraddittorio 21.
La natura della materia trattata, le esigenze di celerità o la massima semplificazione del procedimento possono convincere il legislatore dell’opportunità di modulare diversamente le facoltà di intervento 22, pur non intaccando la condizione essenziale di parità delle armi che discende dalle garanzie minime dell’equo processo. Esistono ambiti nei quali l’esplicazione delle garanzie difensive non può prescindere dall’oralità, come nel caso della formazione della prova sui temi della colpevolezza: ma è proprio l’oggetto dell’attività giurisdizionale a esigere pienezza di forme e il diretto coinvolgimento dei
protagonisti della vicenda processuale 23.
Le Sezioni Unite valorizzano il distinguo tra giudizio sul merito dei fatti di causa e sindacato di legittimità, limitando al primo ambito le garanzie scaturenti dal momento dialettico connotato dall’intervento e la parola delle parti. Soltanto l’esigenza di un confronto sui temi d’accusa, quando si debba vincere
la presunzione di innocenza dell’accusato, esige la pienezza delle forme partecipative e, in generale, la
pubblicità dell’udienza; ove il contraddittorio, di contro, si focalizzi in via esclusiva sulla corretta applicazione della legge, la natura tecnica del dialogo può esser fronteggiata mediante strumenti (paritari)
che attingono al solo compendio della difesa tecnica.
Ciò rilevato, nel serrato argomentare della Corte, più attento alla definizione delle garanzie minime
che non alle ripercussioni della scelta ermeneutica sulle concrete modalità di esercizio del diritto difensivo, non è mai preso seriamente in considerazione il tema dell’effettiva adeguatezza del rito non partecipato a far fronte allo scrutinio di legittimità delle cautele reali e, particolarmente, del sequestro preventivo, la cui portata afflittiva è a volte molto simile a quella espressa da talune misure personali.
Il costrutto normativo, si osserva in sentenza, è chiaro: ubi lex dixit voluit. Il mancato richiamo, esplicito o per rinvio, alla disciplina della camera di consiglio partecipata nel corpo dell’art. 325 c.p.p. «non è
affatto irrilevante» e il sistema di specialità descritto dalla disciplina dell’art. 611 c.p.p. deve essere letto
coerentemente. In particolare, osservano i giudici, il mero riferimento alla “discussione” contenuto nel
comma 4 dell’art. 311 «non può ritenersi determinante ai fini della individuazione del rito, così come non
può ritenersi che la sua mera presenza sia significativa di una diversa previsione da parte del legislatore». Né, si aggiunge, l’omessa menzione del comma quinto della medesima norma produce la limitata
conseguenza di rendere inoperante il termine dei trenta giorni ivi previsto ai fini della decisione: sarebbe
un «percorso tortuoso» nella esegesi complessiva, di fatto utilizzato per creare una disciplina ad hoc.
Nel pensiero della Corte, è la «sostanziale differenza» tra cautele personali e cautele reali a giustificare i due diversi riti camerali avanti la Suprema corte: richiamando un noto precedente 24, le Sezioni
21
Cass., sez. V, 13 giugno 2001, in CED Cass., n. 219344; sez. III, 27 settembre 1995, in CED Cass., n. 202808. Sul principio di
oralità, nell’ampia letteratura, M. Deganello, voce Oralità (principio della), in Dig. pen., IX, Torino, 1995, p. 15 ss.
22
In materia, le Sezioni Unite richiamano Cass., sez. IV, 31 marzo 1999, in CED Cass., n. 214772.
23
Nella giurisprudenza di legittimità, v. Cass., sez. VI, 27 novembre 1997, in CED Cass., n. 209780, secondo la quale
l’esigenza di assicurare l’oralità del processo «non solo non è imposta in via assoluta, ma attiene alla formazione della prova e
non alle modalità di esercizio della difesa»; inoltre, prosegue la Corte, «il procedimento camerale in cassazione non attribuisce
alcun privilegio all’accusa, essendo esclusa in esso la presenza non solo del difensore, ma anche del pubblico ministero».
24
Cass., sez. un., 28 marzo 2013, in Cass. pen., 2013, p. 4338 ss., con nota di M.E. Gamberini, Le Sezioni unite sulle conseguenze
dell’omessa trasmissione al tribunale del riesame nel termine di cinque giorni degli atti posti a fondamento della misura reale.
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Unite patrocinano l’adozione di «opzioni procedurali diversificate», definendo uno standard minimo del
contraddittorio difensivo in caso di impugnazione sui sequestri e lasciando alle sole cautele personali
un – pur contenuto – ambito partecipativo.
Per fondare questo doppio binario procedurale, la Corte suggerisce una lettura unitaria dei commi 3, 4
e 5 dell’art. 311 c.p.p.: l’esegesi congiunta di tali previsioni correla in maniera inequivoca la proposizione di ulteriori motivi alla scelta di un termine relativamente breve per la celebrazione dell’udienza, poiché «i tempi ristretti giustificano la possibilità di introdurre argomenti nuovi a sostegno dei motivi già
proposti e la conseguente deroga al comma 2 dell’art. 127». Il richiamo operato dall’art. 325 al comma
quarto dell’art. 311 c.p.p., allora, si giustifica proprio in ragione della natura necessariamente devolutiva del gravame di legittimità, che esige – pena l’inammissibilità – la formulazione di motivi riferiti a
capi e punti ed espressivi delle lamentate violazioni di legge 25.
D’altro canto, concludono le Sezioni Unite, il ricorso al rito camerale non partecipato assicura la pienezza del contraddittorio tra le parti processuali 26 e non determina conseguenze sulla ragionevole durata del giudizio, sia perché il termine a difesa di cui all’art. 610, comma 5, c.p.p. può essere ridotto su
richiesta di parte, sia per la possibilità di procedere alla celebrazione dell’udienza ancorché la Procura
non abbia depositato la requisitoria scritta. La parità, cioè, non esige l’iniziativa concreta dell’Ufficio del
pubblico ministero, che per scelta processuale può decidere di non rassegnare alcuna conclusione in vista dell’udienza, sottraendosi allo scambio di scritti, senza però impedire alla difesa di rappresentare le
proprie ragioni al collegio 27.
La soluzione scelta, al di là della plausibile fondatezza formale, sostenuta mediante il ricorso ad argomenti letterali e sistematici, ottiene il risultato non scritto di relegare su un piano di minor valore lo
scrutinio delle misure patrimoniali, sovente caratterizzate da un elevato gradiente di complessità tecnico-giuridica.
A fronte di un diverso regime procedurale partecipato in materia di cautele personali, le Sezioni Unite
accettano l’idea di una sostanziale e paradossale generalizzazione dei provvedimenti destinati a imporre
un vincolo di indisponibilità sui beni. Il rito camerale di cui all’art. 611 c.p.p., per effetto della pronuncia
in commento, è di fatto destinato a operare sia in materia di sequestro probatorio, sia in materia di cautele
reali, disposte vuoi nell’ambito di un procedimento a carico della persona fisica, vuoi in seno alla verifica
della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, per il disposto dell’art. 52, comma 2, d.lgs. 8
giugno 2001, n. 231, che richiama proprio l’art. 325 c.p.p. In altri termini, la scelta di giocare al ribasso, reputando sufficiente un contesto cartolare privo di dialettica dibattimentale, è destinata a ripercuotersi su
un ampio catalogo di provvedimenti, non di rado coinvolgenti valori e beni di rilievo costituzionale (qual
è il diritto all’iniziativa economica protetto ex art. 41 Cost.) che esigono un corretto bilanciamento 28.
L’adozione di una lettura rigorosa avrebbe, allora, meritato una puntuale definizione dei confini
d’operatività o, quantomeno, la coraggiosa presa d’atto della necessità di un intervento legislativo in
materia che non ignori l’evoluzione del sistema e la crescente rilevanza che le misure patrimoniali – di
frequente anticipate mediante il sequestro anche in forma equivalente – hanno assunto nella dinamica
del processo.
25
Le Sezioni Unite confermano, in obiter, che il ricorso per cassazione presentato ai sensi dell’art. 325 c.p.p. è ammesso per le
sole violazioni di legge e non anche per il sindacato della motivazione. Nella giurisprudenza di legittimità, tra tante, Cass., sez.
un., 29 maggio 2008, in Cass. pen., 2009, p. 1110 ss.; Cass., sez. VI, 10 gennaio 2013, in CED Cass., n. 254893; sez. III, ord. 6 ottobre
2011, in CED Cass., n. 251616; sez. V, 13 ottobre 2009, in CED Cass., n. 245093.
26
In termini, Cass., sez. I, 14 dicembre 1992, in CED Cass., n. 193075, che ha dichiarato manifestamente infondata una
questione di legittimità costituzionale dell’art. 611 c.p.p. in riferimento all’art. 24 Cost. nella parte in cui prevede che la Corte di
cassazione decida in camera di consiglio senza l’intervento dei difensori, «in quanto il diritto di difesa è garantito dalla facoltà
di presentare memorie a sostegno del ricorso e non necessariamente deve esplicarsi con la presenza della parte all’udienza
camerale». In senso conforme, Cass., sez. III, 27 settembre 1995, in CED Cass., n. 202808; sez. VI, 27 novembre 1997, cit.; sez. I, 29
settembre 2000, in CED Cass., n. 217613.
27
In senso critico rispetto alla pronuncia, G. Spangher, L’udienza non partecipata per il ricorso cautelare reale in Cassazione: una
soluzione non pienamente persuasiva, in Il Penalista, 8 gennaio 2016, per il quale se «la Corte supera – con una certa disinvoltura –
la possibile mancanza di contraddittorio (scritto) con la parte pubblica, il discorso appare più complesso nel caso in cui i motivi
nuovi siano prodotti dalla procura generale e si leda il contraddittorio della difesa».
28
Si consenta, al riguardo, un rinvio alla esemplare pronuncia resa dalla Consulta nel noto caso “Ilva”: Corte cost., sent. 9
maggio 2013, n. 85, in Giur. cost., 2013, p. 1424 ss., con nota di D. Pulitanò, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima
legge ILVA.
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UNA LETTURA NON CONTRASTANTE CON LA GIURISPRUDENZA SOVRANAZIONALE
In più occasioni, sia nell’ordinanza di rimessione che nella requisitoria scritta si fa riferimento alla
necessità di verificare la conformità del rito camerale non partecipato rispetto alle fonti sovranazionali,
avuto riguardo ai requisiti del processo equo desumibili dalla Corte e.d.u.
In particolare, proprio la Procura generale – nel sostenere l’esigenza di una partecipazione ampia al
contraddittorio – riconduce la patente lesione dei diritti fondamentali delle parti alla garanzia convenzionale della pubblicità dei procedimenti giudiziari, richiamando numerosi precedenti consolidatisi in
ambiti finitimi e sottolineando come la «pubblicità delle procedure giudiziarie tutel[i] le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta», che si sottrae al controllo del pubblico. Essa, in altri termini, è un valore essenziale per conservare la fiducia dei consociati nei giudici, così contribuendo
al fair trial.
A rafforzare l’argomento, sono richiamati alcuni precedenti della Corte costituzionale, che ha analogamente esteso le forme della pubblica udienza a procedimenti camerali in executivis o in materia di misure patrimoniali, affermando la natura coessenziale del valore per un ordinamento che si dica democratico 29.
Le Sezioni Unite non raccolgono la provocazione, per certi versi non conferente rispetto al tema oggetto di scrutinio, limitandosi a ribadire come in ogni caso la giurisprudenza delle Corti, sovranazionale o interna, non riguardi per sé il dibattimento innanzi la Cassazione, bensì il giudizio sul merito della
regiudicanda.
Al riguardo, merita osservare come il riferimento all’esigenza di garantire la pubblicità (e il controllo
del pubblico) sia capitolo ulteriormente diverso rispetto a quello riguardante l’imprescindibile oralità e
la partecipazione fisica delle parti al contraddittorio d’udienza, benché celebrata in assenza del pubblico.
Il discorso concernente la tutela dei diritti fondamentali dell’accusato nel rito camerale va articolato
su due differenti piani di riflessione.
Secondo una prima prospettiva, attenta al ruolo e alla parità delle parti, la definizione delle modalità
del rito incide sulle forme argomentative che accusa e difesa sono tenute ad approntare e sottoporre al
giudice. Nell’ottica del destinatario del provvedimento impugnato, questo dato tocca primariamente le
forme di esercizio della difesa tecnica innanzi la giurisdizione.
Un secondo ambito di ragionamento concerne l’intervento personale dell’accusato nel procedimento, esemplare espressione dell’autodifesa, anche al fine di prendere la parola ed esser sentito dal giudice
(ex art. 127, comma 3, c.p.p.): il diritto di presenziare alle udienze deve essere considerato intangibile
ogniqualvolta si debba discutere della «consistenza fattuale dell’imputazione» 30.
Ambito ulteriormente diverso, che non tocca direttamente l’oggetto del sindacato nomofilattico cui
le Sezioni Unite erano chiamate, è quello concernente il diritto a godere di un’udienza pubblica, il cui
contenuto sia controllabile da chiunque vi abbia interesse: contesto di contraddittorio che comprende e
rende necessaria, a fortiori, anche la possibilità di una partecipazione attiva dell’accusato e l’ampia facoltà di esplicazione delle prerogative di difesa tecnica e personale.
In più occasioni, la Corte e.d.u. – ben distinguendo i piani – ha riconosciuto come le procedure di
impugnazione dedicate esclusivamente a punti di diritto, e non di fatto, «possono soddisfare le esigenze dell’articolo 6 [Cedu] anche se la corte d’appello o di cassazione non hanno dato al ricorrente
la facoltà di esprimersi personalmente dinanzi a esse, purché vi sia stata una pubblica udienza in
primo grado», dovendosi non più accertare i fatti, ma «interpretare le norme giuridiche controverse» 31.
La partecipazione, allora, è elemento da valutare in relazione all’oggetto del procedimento, nel senso
che il diritto a comparire dipende dalle peculiarità dello stesso e «dal modo in cui gli interessi della di29
V., sempre, Corte cost., sent. 15 giugno 2015, n. 109, cit.; nonché Corte cost., sent. 5 giugno 2015, n. 97, in Giur. cost., 2015,
p. 813 ss.; sent. 21 maggio 2014, n. 135, in Giur. cost., 2014, p. 2256 ss., con nota di R. Adorno, Pubblicità delle udienze penali e procedimento di sicurezza; sent. 12 marzo 2010, n. 93, in Giur. cost., 2010, p. 1053 ss., con nota di A. Gaito e S. Furfaro, Consensi e dissensi sul ruolo e sulla funzione della pubblicità delle udienze penali.
30
G. Ubertis, Sistema di procedura penale. I. Principi generali, Torino, 2013, p. 156.
31
Corte e.d.u., Grande camera, 18 ottobre 2006, Hermi c. Italia, § 51. Analogamente, Corte e.d.u., 19 dicembre 1989, Kamasinski c. Austria, § 106; Corte e.d.u., 26 maggio 1988, Ektabani c. Svezia, § 31; Corte e.d.u., 2 marzo 1987, Monnell e Morris c. Regno
unito, § 58.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SINDACATO SUL DECRETO DI SEQUESTRO E RITO CAMERALE NON PARTECIPATO
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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fesa sono stati esposti e tutelati dinnanzi alla giurisdizione» del gravame, tenuto conto della rilevanza
della posta in gioco per l’interessato 32.
Per i giudici di Strasburgo, quando a essere adita sia la Corte di cassazione o un diverso giudice
chiamato a valutare la semplice osservanza della legge, non v’è la necessità stringente di garantire
all’accusato l’ultima parola, poiché costui nulla potrebbe aggiungere al dibattito tecnico sulle violazioni
dedotte: una lettura che imponga tale presenza si risolverebbe in un approccio formalista alle garanzie
del giusto processo legale desumili dall’art. 6 Cedu 33.
In sintesi, dall’analisi della giurisprudenza sovranazionale si evince come il diritto ad esser presenti
non implichi necessariamente la pubblicità 34: mentre la pubblicità esige inevitabilmente la partecipazione 35; e d’altro canto, la tutela delle garanzie minime dell’equo processo, pur in caso di udienza celebrata a porte chiuse, non impone la fisica presenza di accusa e difesa né, tantomeno, l’intervento personale dell’accusato quando la struttura del giudizio di gravame e la natura delle questioni trattate non
implichino una rivisitazione dei fatti posti alla base della contestazione e la parità delle parti possa essere ugualmente salvaguardata 36.
La scelta delle Sezioni Unite appare in linea con le garanzie minime espresse dalla Corte di Strasburgo; altro è, certo, domandarsi se non sia utile e opportuna una declinazione più ampia del diritto di
difesa nel giudizio di legittimità, che possa tener conto dell’oggetto del sindacato e, particolarmente,
della crescente afflittività delle cautele reali, non di rado riguardanti ingenti cespiti patrimoniali essenziali all’esercizio dell’impresa. Il combinato disposto degli artt. 24 e 111, comma 2, Cost., come interpretati dalla Corte costituzionale, concede questo agio di discrezionalità.
CONCLUSIONI
Il cambio di orizzonte imposto dalle Sezioni Unite, alla ricerca di uno statuto partecipativo uniforme
del giudizio di legittimità celebrato in camera di consiglio, segnala un’apprezzabile attenzione alla nomofilassi, rimarcando l’inopportunità di esegesi estensive che risultino prive di un sostegno normativo
certo. Il risultato che si ottiene è tuttavia quello di comprimere la garanzia della difesa, costretta a rimettersi allo scambio di memorie sui temi oggetto del contraddittorio tecnico su cui si fondano i motivi.
Una soluzione, quella fornita, che era con forza avversata anche dalla Procura generale, su cui sovente grava l’oneroso compito di predisporre la requisitoria scritta in vista dell’udienza, particolarmente quando le questioni giuridiche da vagliare risultino particolarmente complesse e meritevoli di un
approfondimento rispetto agli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi negli anni.
È il segno di un tempo di crisi: la Corte “assediata” dai molti ricorsi accetta ben volentieri soluzioni
che permettano udienze più snelle e prive di relazione orale e della discussione delle parti. Non è detto
che questo faciliti il compito del collegio giudicante, che nella migliore delle ipotesi dovrà dar conto dei
temi, d’accusa e di difesa, espressi nelle note difensive.
La soluzione è basata sui medesimi argomenti sistematici e testuali che, per oltre vent’anni, avevano
consentito una lettura opposta, più incline all’oralità che alla scrittura: un dato interessante in tempi di
riforme del processo, che fa riflettere sul peso delle esigenze efficientiste o di semplice “sopravvivenza”
della giurisdizione.
32
Ancora, Corte e.d.u., Grande camera, 18 ottobre 2006, Hermi c. Italia, §§ 52-54, che conclude (§ 54): «quando la giurisdizione d’appello deve esaminare una causa in fatto e in diritto e procedere a una valutazione globale della colpevolezza o dell’innocenza, essa non può deliberare al riguardo senza esaminare direttamente gli elementi di prova presentati di persona dall’imputato che desidera dimostrare di non aver commesso l’atto che costituisce presumibilmente reato»; conf., Corte e.d.u., 6 luglio
2004, Dondarini c. San Marino.
33
Corte e.d.u., 8 luglio 2003, Fontaine e Bertin c. Francia, § 53; conf. Corte e.d.u., 14 dicembre 2004, Nesme c. Francia, § 30. Ma
v., più di recente, Corte e.d.u., 10 aprile 2012, Lorenzetti c. Italia, § 32.
34
Corte e.d.u., 10 aprile 2012, Lorenzetti c. Italia, §§ 30-32, sempre che «la specificità della materia non esiga il controllo del
pubblico»; Corte e.d.u., 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia, §§ 33-35, che ha affermato la violazione dell’art. 6 CEDU in
mancanza di un meccanismo domestico che consenta al prevenuto di chiedere che l’udienza per l’applicazione di misure di
prevenzione sia celebrata pubblicamente e non in camera di consiglio.
35
Ancora, Corte e.d.u., Grande camera, 18 ottobre 2006, Hermi c. Italia, § 52.
36
Di recente, Corte e.d.u., 4 dicembre 2014, Lonić c. Croazia, §§ 90-93.
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Per la Cassazione è applicabile la nuova disciplina sulla
motivazione differita alle ordinanze del riesame non ancora
depositate
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE V, SENTENZA 7 OTTOBRE 2015, N. 40342 – PRES. MARASCA; REL. ZAZA
È applicabile la nuova disciplina di cui all’art. 309, comma 10, c.p.p., come modificato dall’art. 11 legge 16 aprile 2015,
n. 47, all’ordinanza del Tribunale del riesame il cui dispositivo sia deliberato e depositato precedentemente alla entrata in vigore della legge – 8 maggio 2015 – se a quella data il termine per il deposito della motivazione non sia ancora
decorso. (Fattispecie in cui la Corte ha dichiarato l’inefficacia della misura cautelare per la quale la motivazione
dell’ordinanza del riesame era stata depositata oltre il termine previsto dal novellato art. 309, comma 10, c.p.p.).
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento impugnato veniva rigettata l’istanza di declaratoria di inefficacia della misura
cautelare degli arresti domiciliari, applicata nei confronti di (Omissis) per i reati di cui agli artt. 216 e 223
r.d. 16 marzo 1942, n. 267, 416 e 648 cod. pen., per mancato deposito della motivazione dell’ordinanza
pronunciata dal Tribunale di Messina, sulla richiesta di riesame proposta avverso l’ordinanza applicativa della misura, nel termine di trenta giorni dalla decisione, di cui all’art. 309, comma decimo, cod.
proc. pen. come modificato dall’art. 11 legge 16 aprile 2015, n. 47.
L’indagato ricorrente deduce violazione di legge e vizio motivazionale; l’argomentazione del provvedimento impugnato, per la quale la modifica legislativa entrava In vigore il 08/05/2015, giorno successivo a quello del 07/05/2015 nel quale si svolgeva l’udienza dinanzi ai Tribunale del riesame, non terrebbe
conto di quanto lamentato nell’istanza, ove si rilevava che, pur avendo natura processuale, la norma modificatrice doveva avere applicazione retroattiva in quanto produttiva di effetti favorevoli per l’Indagato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
II ricorso è fondato.
Come accennato in premessa, il Tribunale del riesame di Messina, dinanzi al quale veniva impugnata l’ordinanza applicativa della misura cautelare nei confronti (Omissis) decideva all’esito dell’udienza
del 07/05/2015, rigettando la richiesta e riservando il deposito della motivazione.
Il successivo 08/05/2015 entrava in vigore la legge n. 47 del 2015, il cui art. 11, riformulando il comma decimo dell’art. 309 cod. proc. pen., ha introdotto una disposizione di inefficacia della misura cautelare nel caso in cui l’ordinanza, che abbia deciso sulla richiesta di riesame, non sia depositata entro il
termine di trenta giorni dalla decisione; prevedendo altresì che detto termine possa essere prolungato
dal giudice, laddove la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli indagati sottoposti alla misura o per la gravità dei fatti in ordine ai quali si procede, fino alla durata massima di quarantacinque giorni.
Nel caso di specie, la motivazione dell’ordinanza che decideva sulla richiesta di riesame proposta
dal (Omissis), della quale il ricorrente lamenta l’indisponibilità alla data di presentazione del gravame, veniva depositata, come risulta dall’atto appositamente acquisito da questa Corte, il 10/07/2015;
è quindi accertato che tale deposito avveniva allorché dalla decisione era trascorso non solo l’ordinario termine di trenta giorni, ma anche quello di quarantacinque giorni che, secondo la sopravvenuta
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normativa, poteva essere indicato nella massima proroga consentita.
La questione posta dal ricorrente è, a questo punto, quella della rilevanza del superamento del termine per il deposito della motivazione, e della conseguente previsione di inefficacia della misura prevista dall’attuale disciplina, rispetto ad una decisione assunta precedentemente, anche se per un solo
giorno, all’entrata in vigore della norma innovativa.
Nel ricorso si evoca in proposito la tematica della retroattività della norma, pur di natura processuale, la cui applicazione abbia in concreto effetti sostanziali favorevoli all’indagato; citando un precedente
in tal senso (Sez. 5, n. 31839 del 10/06/20 14, Florio, Rv. 260139, relativo all’applicabilità ai procedimenti in corso della modifica da quattro a cinque anni del limite minimo del massimo edittale necessario
per disporre la custodia cautelare in carcere, inserita nell’art. 280, comma secondo, cod. proc. pen. dalla
legge 9 agosto 2013, n. 94), al quale si contrappone peraltro un orientamento di segno contrario, riguardante la riforma legislativa attinente al caso in esame, con particolare riforma alle modifiche dell’art.
274 cod. proc. pen., ed in via generale affermativa della valenza per le norme processuali del principio
del tempus regit actum (Sez. 4, n. 24861 del 21/05/2015, Iorio, Rv. 263727, che richiama sul principio Sez.
U, n. 44895 del 17/07/2014, Pinna, Rv. 260927).
Occorre tuttavia chiedersi se la soluzione della questione in concreto posta all’attenzione di questa
Corte passi necessariamente attraverso la discussione del tema della retroattività delle norme processuali; ovvero, in altre parole, se la riferibilità al caso di specie della nuova normativa in materia di inefficacia della misura cautelare, per effetto del superamento dei termini per il deposito della motivazione
dell’ordinanza pronunciata sulla richiesta di riesame, richieda un’applicazione retroattiva di tale disciplina. E la risposta al quesito non può che essere negativa.
Determinante, a questi fini, è l’individuazione dell’attività procedimentale che costituisce specificamente oggetto della normativa di cui sopra; attività che deve senz’altro essere identificata nella redazione
della motivazione dell’ordinanza decisoria della procedura di riesame, e non più nella precedente ed ormai esaurita emissione del dispositivo della stessa. Non sono privi di significatività, in merito, i principi
stabiliti da questa Corte sulla pendenza dalla pronuncia del dispositivo della sentenza, e non dal deposito
della motivazione della stessa, della fase di appello del procedimento, ai fini della normativa transitoria
sull’applicabilità dei termini prescrizionali introdotti con la modifica legislativa del 2005 (Sez. 5, n. 25470
del 16/04/2009, Lala, Rv. 243898; Sez. 2, n. 3709 del 21/01/2009, Bassetti, Rv. 242561; Sez. 6, n. 13523 del
22/10/2008, dep. 2009, De Lucia, Rv. 243826; Sez. 3, n. 38836 del 10/07/2008, Papa, Rv. 241291), laddove
ne viene sottolineata l’autonomia dell’emissione del dispositivo della decisione, in quanto contenente tutti
gli elementi necessari per identificare il contenuto della stessa, dalla successiva attività motivazionale.
Orbene, al momento in cui entrava In vigore la nuova disciplina, ossia al 08/05/2015, i termini per la
stesura di quella motivazione erano ancora pendenti, e peraltro decorsi da appena un giorno. L’attività
regolamentata dall’art. 309, comma decimo, cod. proc. pen., nella sua nuova formulazione, era pertanto
pienamente in corso; e come tale era soggetta alla citata disciplina, con riguardo sia alla durata dei termini per il deposito della motivazione che alla sanzione di inefficacia della misura, prevista per il mancato rispetto degli stessi.
Nella situazione data, vi erano le condizioni anche fattuali perché l’attività costituita dalla redazione della motivazione dell’ordinanza e dal deposito della stessa potesse essere adeguata ai termini posti dalla norma sopravvenuta, ancora disponibili quasi per la loro Interezza. Né l’eventuale complessità della stesura
della motivazione avrebbe opposto un ostacolo irrimediabile al rispetto dei predetti termini; essendo ben
possibile l’adozione n quella fase del provvedimento di proroga del termine fino alla durata massima di
quarantacinque giorni, in quanto previsto solo dalla nuova disciplina e pertanto non ancora rituale all’epoca
della pronuncia del dispositivo. L’effettivo deposito della motivazione non veniva d’altra parte effettuato,
come si è premesso, neppure entro il termine massimo di cui sopra; fatto che, ove verificatosi, avrebbe potuto consentire la valutazione della ravvisabilità di un’implicita disposizione di proroga del termine.
Il superamento del termini, per quanto detto vigenti al momento della redazione della motivazione
e tassativamente posti per il deposito della stessa, integrava dunque i presupposti normativi della dedotta inefficacia della misura applicata nei confronti del (Omissis). La stessa deve pertanto essere dichiarata in questa sede, annullandosi senza rinvio il provvedimento impugnato e disponendosi l’immediata liberazione del (Omissis) se non detenuto per altra causa.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PER LA CASSAZIONE È APPLICABILE LA NUOVA DISCIPLINA SULLA MOTIVAZIONE ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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ELISA ZERBINI
Dottore in Giurisprudenza
L’inefficacia della misura per intempestivo deposito della
motivazione in sede di riesame: un caso insolito di ius superveniens sull’“atto complesso”
The order directing the precautionary measures must be considered
subject to the law n. 47 of 2015 even when the new deadline to file
the grounds upon which the decision of re-examination relies has
not expired any longer
La novella 16 aprile 2015, n. 47 ha introdotto nel comma 10 dell’art. 309 c.p.p. un’inedita causa di perdita di efficacia del provvedimento applicativo della misura cautelare, per il caso in cui le motivazioni dell’ordinanza del riesame
vengano depositate oltre i termini ivi prescritti. La Corte regolatrice, valorizzando l’autonomia tra l’emissione del
dispositivo e la stesura della relativa motivazione, afferma l’applicabilità della nuova disciplina sulla perenzione cautelare ai procedimenti nei quali, al momento dell’entrata in vigore della legge, i termini per il deposito della motivazione fossero ancora pendenti.
Under the prescription of the law n. 47 of 2015, the precautionary order is now bound to loose its effects when
the Court of re-examination files the motivation beyond the new prescribed deadline. The Supreme Court states
that this new discipline must be intended also for the orders whose deadline for the Court of re-examination to
file the motivation is still open at the time of the entrance into force of the law n. 47 of 2015.
LA NUOVA COMMINATORIA DI INEFFICACIA DELL’ORDINANZA DI RIESAME
Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione affronta uno dei numerosi aspetti interessati
dalla recente riforma in materia cautelare.
Lo scorso 8 maggio, all’esito di un travagliato iter parlamentare protrattosi per oltre due anni 1, è entrata in vigore la legge 16 aprile 2015, n. 47, recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia
di misure cautelari personali” 2, il cui art. 11 ha riformulato l’art. 309, comma 10, c.p.p. 3 Alla luce della
1
L’originaria proposta di legge fu presentata alla Camera dei Deputati il 3 aprile 2013, per iniziativa dell’On. Ferranti e Altri
(C-631, unificata con i disegni di legge C-980, C-1707, C-1807, C-1847).
2
Per una completa panoramica sulle novità introdotte dalla novella, si rinvia a T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle
misure cautelari. Analisi della legge n. 47 del 16 aprile 2015, Torino, 2015, passim; E. Turco, La riforma delle misure cautelari, in Proc.
pen. giust., 2015, 5, p. 106 ss.; AA.VV., Le modifiche in materia di misure cautelari, in G.M. Baccari-K. La Regina-E.M. Mancuso (a
cura di), Il nuovo volto della giustizia penale, Padova, 2015, p. 383 ss. Sull’argomento, si veda anche V. Pazienza-G. Fidelbo, Le
nuove disposizioni in tema di misure cautelari, Rel. N. III/03/2015, in www.cortedicassazione.it; P. Borrelli, Una prima lettura delle
novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.
3
Questo il tenore letterale del nuovo comma 10 dell’art. 309 c.p.p.: «Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui
al comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell’ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate,
non può essere rinnovata. L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in
cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il
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novellata disposizione, la misura disposta perde efficacia nel caso in cui l’ordinanza emessa dal tribunale del riesame non venga depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione, prorogabili sino
a quarantacinque nei casi in cui la stesura della motivazione risulti particolarmente complessa per il
numero dei soggetti o per la gravità dei fatti 4.
Emerge, prima facie, l’allargamento dell’inefficacia del provvedimento cautelare, prima limitata ai soli casi di ritardo nella trasmissione degli atti posti a sostegno della richiesta ovvero nella emissione del
dispositivo dell’ordinanza 5. La finalità delle inedite scansioni procedimentali introdotte dal novum legislativo è quella di incidere – accelerandolo – sul sub-procedimento cautelare, attraverso l’introduzione
di ulteriori cadenze temporali 6.
Un intento indubbiamente pregevole, dunque, quello che ispira la novella, alla quale va riconosciuto
lo sforzo di ricondurre la delicata materia della restrizione della libertà personale ante judicatum entro
gli argini, troppo spesso pericolanti, del dettato costituzionale 7.
In tale ottica la modifica in parola è coerente con un «disegno di limitazione della risposta cautelare
di tipo custodiale» che pare permeare anche gli ulteriori interventi adottati dal legislatore attuale sulla
materia de qua 8.
Per altro verso, tuttavia, le modifiche introdotte finiscono per affaticare l’attività dei giudici del riesame, oggi gravati dall’onere della tempestività non solo con riguardo all’assunzione della decisione,
ma pure rispetto al deposito delle relative motivazioni.
Il regime sanzionatorio prescritto dalla nuova norma è peraltro sostenuto da un rigore sconosciuto
alla disciplina previgente. Se, infatti, la censurabile “pigrizia” della prassi cautelare ha da sempre potuto contare su una giurisprudenza comprensiva, che pacificamente ammetteva la possibilità di una nuova emissione del provvedimento divenuto inefficace ai sensi dell’art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., senza
pretendere condizione alcuna 9, oggi tale eventualità, pur non essendo del tutto inibita, potrà inverarsi
solo sulla base di «eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate» 10.
giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della
decisione».
4
All’evidenza, l’ultima parte della disposizione ricalca quanto previsto dall’art. 544, comma 3, c.p.p., a norma del quale «quando
la stesura della motivazione è particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni, il giudice, se
ritiene di non poter depositare la sentenza nel termine previsto dal comma 2», cioè quello ordinario di 15 giorni decorrenti dalla pronuncia,
«può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il novantesimo giorno da quello della pronuncia».
5
Il testo pre-riforma dell’art. 309, comma 10, c.p.p. così recitava: «se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui al
comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame non interviene entro il termine prescritto, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva
perde efficacia».
6
Per l’esaustiva analisi dei «ritocchi alla tempistica del riesame», v. P. Maggio, I controlli, in T. Bene (a cura di), Il
rinnovamento delle misure cautelari, cit., p. 108 ss.
Esprime «riserve» sulle nuove scansioni temporali per il deposito del provvedimento G. Spangher, Una piccola riforma della
custodia cautelare, in G.M. Baccari-K. La Regina-E.M. Mancuso (a cura di), Il nuovo volto della giustizia penale, cit., p. 390. Secondo
l’Autore, «del tutto assiomatici si presentano i termini per il deposito della motivazione, non solo in relazione all’art. 128 c.p.p., ma
addirittura a quanto previsto dall’art. 544 c.p.p. per le sentenze. Il rischio sotteso a questa previsione è quello di sovrapporre un
giudizio prognostico di colpevolezza con un giudizio anticipato di responsabilità. Questo elemento, già sotteso e implicito in varie
disposizioni, rischia in tal modo di accentuarsi. Il dato è rafforzato dai riferimenti alla ratio della previsione legata alla pluralità
degli imputati e delle imputazioni, così da collegare le varie situazioni personali e processuali in un quadro integrato capace di
sorreggere soprattutto le fattispecie associative (vere o ritenute tali). […] Al riguardo, non sembra cogliere nel segno né la
considerazione che diversamente si correrebbe il rischio di provvedimenti sommari e mal motivati, né il rilievo per il quale si
accentuerebbero i casi di rigetto, né l’affermazione per la quale i tempi del deposito sarebbero più lunghi di quelli ora fissati. Non si
capisce, invero, perché bisogna assecondare le patologie e non correggerle, riportando il sistema alla sua fisiologia e sistematicità, e
non si possa pretendere serietà ed impegno da parte di chi esercita la delicata funzione di garantire la libertà personale».
7
Secondo B. Galgani, Le questioni di diritto intertemporale, in T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari, cit., p.
181, il «raffronto tra i diritti e le garanzie specificamente riconosciuti, nel quadro codicistico precedente, all’indagato/imputato
(protagonista, suo malgrado, della vicenda cautelare), ed il complesso delle prerogative oggi introdotte dalla novatio legis, può
essere dimostrativo della manovra di “arricchimento” – qualitativa e quantitativa al contempo – che è venuta ad interessare non
soltanto il corredo lato sensu difensivo disponibile in costanza di restrizione ma, soprattutto ed ancor prima, gli standard normativi e valutativi chiamati a presidiare la scelta giurisdizionale sull’an e sul quomodo della cautela».
8
A. Mari, Prime osservazioni sulla riforma in materia di misure cautelari personali (L. 16 aprile 2015), in Cass. pen., 2015, 7-8, p. 2538 ss.
9
Sul punto, P. Borrelli, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, cit., p. 29;
nonché a A. Mari, Prime osservazioni sulla riforma in materia di misure cautelari personali (L. 16 aprile 2015), cit., p. 2538 ss.
10
Ciò che, invece, il nuovo sistema eredita dal precedente è l’assenza dell’obbligo, per l’autorità procedente, di interrogare
l’indagato, già sottoposto a misura cautelare dichiarata inefficace, prima di procedere al ripristino del regime custodiale nei suoi
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Un condizionamento, dunque, che se da un lato pone un freno alle distorsioni del diritto vivente, pretendendo per la reiterazione della misura un periculum qualificato 11, dall’altro suscita riflessioni critiche.
Non può celarsi, infatti, come la novella in esame realizzi un livellamento inopportuno tra situazioni
eterogenee. «Nella scelta legislativa del divieto di rinnovazione si annida il rischio che il mancato rispetto dei termini, dovuto magari a un disguido attinente di volta in volta alla tempestiva formazione
del fascicolo, ovvero a un difetto di notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza con l’impossibilità di
fissarla nei tre giorni liberi, si risolva in una sorta di “salvacondotto” per il soggetto beneficiario della
declaratoria di inefficacia, la cui posizione nel procedimento si cristallizzerebbe “allo stato degli atti”,
anche in difformità rispetto a indagati con posizioni processuali analoghe» 12.
Le perplessità sono inoltre accentuate dalla considerazione di alcune incongruenze sistematiche 13.
Altrove le criticità ascrivibili alla carente tenuta dell’assetto organizzativo della giustizia vengono sì
sanzionate, ma in termini certamente più lievi di quanto accade rispetto alla fattispecie di cui all’art. 309
c.p.p. Si pensi all’ipotesi di perdita di efficacia della misura conseguente all’omesso interrogatorio da
parte del giudice nei termini prescritti dall’art. 294 c.p.p. In questo caso, l’art. 302 c.p.p. consente
l’emissione di una nuova cautela, a seguito della liberazione dell’imputato e del suo interrogatorio, sol
che sussistano le condizioni previste dagli artt. 273, 274 e 275 c.p.p.
Ancora, disposizione analoga a quella di cui all’art. 309, comma 10, del codice di rito è ora contenuta
nell’art. 310 c.p.p., in relazione dunque all’appello cautelare, rispetto al quale, tuttavia, non viene affatto
replicata la sanzione dell’inefficacia del provvedimento gravato; qui i prescritti termini restano meramente ordinatori.
IL (FALSO) PROBLEMA DELLA RETROATTIVITÀ SULLA FATTISPECIE PROCESSUALE IN ITINERE
Si giunga ora alla questione sottoposta alla Suprema Corte.
Come precisato, la legge n. 47 è entrata in vigore l’8 maggio 2015. Tale data assume, nella vicenda in
esame, una precisa valenza, rappresentando l’orizzonte temporale l’elemento fondante le ragioni del
gravame.
Accadeva, infatti, che il 7 maggio 2015 il Tribunale del riesame, richiesto dalla difesa dell’indagato
sottoposto agli arresti domiciliari di pronunziarsi sulla misura cautelare, concludeva per il rigetto, depositando la relativa ordinanza a distanza di più di due mesi; dunque, ben oltre il termine massimo
previsto dalla nuova normativa per i casi di particolare complessità.
Il successivo ricorso della difesa ruotava attorno alla sostenuta retroattività dell’art. 309, comma 10,
c.p.p., in quanto norma che, pur avendo natura processuale, è idonea nella sua concreta applicazione a
produrre effetti sostanziali favorevoli all’indagato 14.
Un terreno impervio, quello calcato dal ricorrente, eretto su fondamenta non prive di sostegno in letteratura, ma piuttosto scarne di riconoscimenti giurisprudenziali.
L’individuazione dell’ambito temporale di applicabilità della nuova disciplina non può che risolverconfronti nonché di replicare l’interrogatorio di garanzia successivamente all’adozione del nuovo provvedimento «sempre che
l’interrogatorio sia stato in precedenza regolarmente espletato e sempre che la nuova ordinanza cautelare non contenga elementi nuovi e
diversi rispetto alla precedente». Così, Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 28270, in CED Cass., n. 260016, per il cui commento si rinvia
a M. Montagna, Reiterazione di misura cautelare per inefficacia della precedente ed interrogatorio dell’indagato, in Dir. pen. proc., 2014, 9,
p. 1055 ss. La recente pronuncia del Supremo Collegio sancisce definitivamente la bontà dell’orientamento già ampiamente
invalso nella giurisprudenza di legittimità: ex multis, Cass., sez. un., 1° luglio 1992, n. 11, in CED Cass., n. 191182; Cass., sez. VI,
24 ottobre 2002, n. 20494, ivi, n. 227209; Cass., sez. V, 15 luglio 2010, n. 35931, ivi, n. 248417; Cass., sez. II, 23 novembre 2012, n.
9258. Per la critica all’orientamento in parola, si rinvia a P. Maggio, I controlli, cit., p. 111 ss.
11
«Sarà la quotidiana interpretazione ad indicare la latitudine delle eccezionali esigenze cautelari, anche se, in via di prima
lettura, si può affermare che debbano essere considerate eccezionali le esigenze di spessore tale da non poter essere neutralizzate se non con la misura di massimo rigore». Così, A. De Caro, Misure cautelari personali, in A. Scalfati ed Altri, Manuale di diritto
processuale penale, Torino, 2015, p. 399. Secondo A. Mari, Prime osservazioni sulla riforma in materia di misure cautelari personali (L.
16 aprile 2015), cit., p. 2538 le «eccezionali esigenze cautelari» dovranno essere valutate alla luce dei medesimi contenuti prescritti dall’art. 275, comma 4, c.p.p.
12
P. Maggio, I controlli, cit., p. 114.
13
E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit., p. 122.
14
Cass., sez. V, 21 maggio 2015, n. 31839, in CED Cass., n. 263727; Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 44895, ivi, n. 260927.
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si ricorrendo ai principi di carattere generale che regolano i conflitti fra norme nel tempo. Il c.d. diritto
intertemporale, quale sistema di “meta-norme” strumentali ad individuare quale, fra tutte le previsioni,
sia in concreto applicabile al caso di specie 15, consiste in una serie di criteri di ordine generale, valevoli
ora per tutto l’ordinamento, ora per un sotto-sistema particolare.
Come noto, la dimensione cronologica dell’ordito processuale penale è governata dal principio sintetizzato nel brocardo tempus regit actum, che traghetta sul terreno in parola il contenuto di cui all’art. 11
disp. prel. c.c.: all’atto processuale si applica la disciplina vigente al momento del suo compimento, restando irrilevante sia la legge del tempo di apertura del procedimento penale, sia quella sopravvenuta.
Il momento decisivo è, dunque, quello genetico. “Regola aurea”, che parrebbe non soggiacere a
smentite, quale che sia il contenuto della modifica legislativa eventualmente intervenuta 16.
La dottrina si è sempre – e comprensibilmente – mostrata recalcitrante a scorgere nella rigida applicazione del principio del tempus regit actum la soluzione a qualsivoglia questione sollevata dal fenomeno della successione delle leggi nel tempo 17. Il freddo meccanicismo che anima la regola in esame mal
si concilia con la considerazione degli inevitabili riflessi che le modifiche normative recano all’assetto
delle garanzie spettanti ai diversi soggetti coinvolti nella vicenda processuale.
La ricerca di una rilettura più garantista della regola intertemporale processuale è tuttavia, ancora
oggi, lontana dall’essere realizzata 18.
E anche nel caso in esame l’applicabilità della nuova causa di inefficacia della misura cautelare affermata dalla Corte non costituisce una inedita lettura del principio tempus regit actum, ma solo la conseguenza della valorizzata «autonomia dell’emissione del dispositivo della decisione, in quanto contenente tutti
gli elementi necessari per identificare il contenuto della stessa, dalla successiva attività motivazionale».
15
Il diritto intertemporale rappresenta, dunque, «una categoria a sé di norme, e cioè la categoria di norme che disciplinano
altre norme (ius sopra ius)». Così G.U. Rescigno, Disposizione: VI) disposizioni transitorie, in Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, p. 227. Ancora, secondo O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, Milano, 1999, p. 94, si tratta di «vere e proprie regole positive, dotate
di una loro indubbia autonomia, essendo dettate per risolvere autoritativamente, in un senso piuttosto che in un altro, questioni
controverse sollevate dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico». E non, invece, meri aspetti temporali delle norme materiali a
cui fanno riferimento. In senso contrario, G. Pace, Il diritto transitorio con particolare riguardo al diritto privato, Milano, 1944, p. 367 ss.
Sostiene l’Autore che «l’efficacia materiale, temporale e spaziale della norma non sono fenomeni autonomi, non sono tre specie di
attività, ma solo tre aspetti di una identica e unitaria efficacia della norma giuridica. Ne viene che il diritto c.d. transitorio [rectius:
diritto intertemporale] non costituirebbe un vero e proprio diritto (sostantivo, questo, che meglio si addirebbe al tutto), ma quasi
una sua sezione ideale, un suo aspetto, l’aspetto temporale […]; ed inoltre le c.d. norme transitorie [rectius: norme intertemporali],
per la stessa ragione, non sarebbero vere e proprie norme giuridiche, ma solo parti integranti di esse».
16
In ciò si coglie la distanza rispetto al diritto penale sostanziale, laddove vige la regola della retroattività della legge
favorevole al reo.
17
Da ultimo, i sintetici rilievi di A. Scalfati, Principi, in A. Scalfati et al., Manuale di diritto processuale penale, cit., p. 63 ss.
18
Il tentativo di ricondurre anche il diritto processuale penale sotto l’egida del favor rei, cardine diritto penale sostanziale,
è originata, sin dalla vigenza del codice del 1930, dalla riflessione sugli stretti rapporti di affinità intercorrenti tra diritto
penale e processo, nonché dalla oggettiva difficoltà a discriminare con precisione le norme pertinenti all’una piuttosto che
all’altra sfera. Si è, così, sostenuta una esegesi, tanto letterale quanto concettuale, dell’art. 2, comma 3, c.p. quale norma atta a
comprendere pure il mutamento della legge processuale; si è affermata la necessità di temperare il principio del tempus regit
actum in quel settore della disciplina processuale nella quale l’applicazione delle norme, e dunque dei mutamenti legislativi,
viene ad incidere direttamente sul bene fondamentale della libertà personale; si è, infine, con l’avvento della Costituzione
repubblicana, promossa la doverosa revisione della regola cardine della successione delle leggi nel tempo, ancorando la
retroattività della norma processuale più favorevole al reo all’art. 25, comma 2, della Carta, ricostruita in chiave di garanzia
del singolo. Sul delicato fronte delle misure restrittive della libertà personale, poi, la valorizzazione dell’art. 13 Cost., quale
prescrizione atta ad attribuire natura eccezionale alla disciplina della custodia cautelare, ha supportato l’interpretazione
della stessa quale argine alla idoneità delle nuove norme contra libertatem ad incidere negativamente sulle situazioni
detentive già in corso alla data della loro emanazione. Ma, a dispetto dei tentativi, la giurisprudenza ha persistito
nell’escludere la costituzionalizzazione della retroattività della lex mitior. Salvo poi, con un sussulto meritevole di
condivisione, introdurre, anche nella materia de qua, il metodo del bilanciamento tra valori, imponendo all’interprete di
sottoporre la regola del tempus regit actum ad un serrato vaglio di ragionevolezza al fine di verificare la necessità di
opportuni mitigazioni e contemperamenti. L’analisi della tematica, oltre agli Autori già citati, non può prescindere dai
contributi di E. Amodio, La tutela della libertà personale dell’imputato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1967, p. 863 ss.; G. Lozzi, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, p. 153 ss.; M. Nobili, sub art. 25 comma 1, in
Commentario della Costituzione, G. Branca (a cura di), Rapporti civili. Artt. 24-26, Bologna-Roma, 1981, p. 186. Per una completa
ricognizione dell’evoluzione nei rapporti fra tempo e diritto penale processuale, in specie cautelare, si veda B. Galgani, Le
questioni di diritto intertemporale, in T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari, cit., p. 167 ss.
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Il Supremo Collegio, in altre parole, pur richiamando le sue precedenti decisioni di segno contrario
alla tesi difensiva 19 – peraltro sempre generate dalla medesima legge n. 47/2015 – nega che la soluzione
sia da individuarsi «necessariamente» nella tematica attinente la retroattività delle norme processuali.
Posto che l’attività procedimentale regolamentata dall’art. 309, comma 10, c.p.p., ossia l’oggetto specifico della norma novellata, va identificata nella redazione della motivazione di una decisione già assunta, e che siffatta attività era pienamente in corso alla data di entrata in vigore della nuova disciplina,
è quest’ultima a trovare applicazione 20.
A sostegno della ricostruzione avallata, la Corte invoca l’orientamento – consolidatosi all’esito della
travagliata vicenda originata dalla nuova disciplina sulla prescrizione introdotta con legge n. 251/2005
e ruotante attorno all’esatta individuazione del perimetro di applicabilità del regime transitorio in essa
prevista – relativo alla nozione di “pendenza della fase di appello del procedimento”.
Le differenti interpretazioni formatesi sulla questione 21 sono infatti approdate, a compimento di un
percorso nutrito di interventi della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite 22, ad affermare che il procedimento deve considerarsi automaticamente pendente in appello sin dal momento della lettura del
dispositivo della sentenza di primo grado e non da quello, successivo, del deposito della motivazione
della stessa 23.
19
Cass., sez. un., 17 luglio 2014, in CED Cass., n. 260927; Cass., sez. IV, 21 maggio 2015, n. 24816, ivi, n. 263727.
20
Occorre segnalare un recentissimo revirement della Corte sulla tematica in questione. Con sentenza n. 5774 del 14 ottobre
2015, depositata lo scorso 11 febbraio, la Prima Sezione della Cassazione, chiamata ad esprimersi su di una fattispecie del tutto
analoga a quella oggetto della pronunzia annotata, apertamente ammette di non condividerne il percorso argomentativo, pervenendo così a conclusioni diametralmente opposte. In particolare, il giudice di legittimità rammenta che al divieto di retroattività
della legge, sancito dall’art. 11 disp. prel. c.c., deve riconoscersi valore di principio generale dell’ordinamento giuridico e che la
declinazione in campo processuale del canone tempus regit actum, considerate le potenziali ricadute della relativa applicazione
«sui procedimenti in atto e sui sottostanti diritti e facoltà», comporta la necessità di calibrarne la portata «alla diversa tipologia degli atti
processuali» interessati dalla modifica. Pur esplicitando, dunque, un netto rifiuto a risolvere il problema della ricaduta delle
sopravvenienze normative sul diritto intertemporale «mediante un generico riferimento al principio di perdurante validità degli atti
processuali compiuti secondo la legge vigente al momento della loro emissione», e sollecitandone piuttosto l’adeguamento al contenuto
della singola disposizione raggiunta dall’innovazione, la Corte esclude che la nuova previsione del termine perentorio di
deposito della motivazione dell’ordinanza conclusiva del procedimento di riesame di cui all’art. 309, comma 10, c.p.p., come
novellato dalla legge n. 47/2015, sia applicabile alle decisioni emesse prima della data di entrata in vigore della legge in
questione, ancorché, a tale data, fosse ancora pendente l’attività di redazione della relativa motivazione. Infatti, «l’”actum” che in
tal caso viene in rilievo è rappresentato dalla decisione, che per dettato normativo assume la forma dell’ordinanza. Sul piano del modello
legale, l’ordinanza è atto unitario che – di regola – non comporta scissione tra parte dispositiva e parte argomentativa e pertanto non è
riconoscibile alcuna autonomia “strutturale” della parte motiva (ove depositata separatamente) rispetto al dispositivo». Ne deriva che la
«norma regolatrice “ratione temporis” è da ritenersi quella vigente al momento della emissione dell’ordinanza stessa, pur se la medesima
viene resa manifesta – provvisoriamente – attraverso il deposito del solo dispositivo». Deve, invece, escludersi che «l’esistenza “prasseologica” di una scissione – anche consistente – tra il deposito del dispositivo e quello della motivazione dell’ordinanza» legittimi «la
possibile “attrazione” di tale attività, se non ancora realizzata, nell’ambito applicativo della nuova previsione di legge».
In conclusione, secondo questa decisione, «il legislatore dell’aprile 2015 ha inteso contrastare una prassi di dilatazione del termine di
deposito delle motivazioni oltre limiti fisiologici (…) sia attraverso l’introduzione di un diverso ambito temporale di tollerabile “scissione”
che mediante l’introduzione espressa di una sanzione processuale di notevole incidenza, rappresentata dalla perdita di efficacia di una misura
cautelare oggetto di conferma»; sanzione che, tuttavia, «non può realizzare i suoi effetti in rapporto a segmenti del procedimento temporalmente antecedenti alla vigenza della norma che la contiene».
21
Tre, in particolare, le tesi prospettate, tendenti ad ancorare il momento della pendenza della fase d’appello, rispettivamente, alla proposizione dell’impugnazione (ex multis, Cass., sez. VII, 2 ottobre 2007, n. 41965, in CED Cass., n. 238194; Cass., sez. IV,
28 maggio 2009, n. 22328, ivi, n. 244000), alla pronuncia della sentenza di primo grado (Cass., sez. VII, 22 ottobre 2008, n. 13523,
in CED Cass., n. 243826; Cass., sez. V, 14 maggio 2009, n. 34231, ivi, n. 244100) ovvero al momento dell’iscrizione dell’impugnazione nel registro della Corte d’Appello (Cass., sez. III, 15 aprile 2008, n. 24330, in CED Cass., n. 240342).
22
Per una completa panoramica della complessa vicenda, v. E.M. Ambrosetti, Sezioni Unite e prescrizione. La normativa più
favorevole non si applica in appello anche nel caso di assoluzione in primo grado, in Proc. pen. giust., 2012, 5, p. 48 ss.
23
In tal senso, ex multis, Cass., sez. III, 10 luglio 2008, n. 38836, in CED Cass. n. 241291 [«in tema di prescrizione del reato, la
pendenza del giudizio di appello, rilevante, secondo la normativa transitoria dettata dall’art. 10, comma terzo, della l. n. 251 del 2005
(come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 393 del 2006), ai fini dell’applicazione delle "vecchie" o delle "nuove"
norme in tema di prescrizione, ha inizio nel momento della pronuncia della sentenza di primo grado, coincidente con il momento della
lettura del dispositivo e non con quello, eventualmente successivo, del deposito della motivazione»]; Cass., sez. V, 16 aprile 2009, n.
25470, in CED Cass., n. 243898 [ «in tema di prescrizione, ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie di cui all’art. 10,
comma 3, l. n. 251 del 2005, la pendenza del grado di appello, che rileva per escludere la retroattività delle norme sopravvenute più
favorevoli, ha inizio con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, che deve ritenersi intervenuta con la lettura del
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È infatti «la lettura del dispositivo della sentenza che rende la decisione non più modificabile in relazione alla
pretesa punitiva, e non quello successivo del deposito della motivazione, che contiene soltanto l’esposizione dei
motivi in fatto e in diritto sui quali la decisione è fondata» 24.
LE COORDINATE DELL’ATTO COMPLESSO: PERFEZIONE, EFFICACIA, DURATA
Il ragionamento così delineato evoca categorie concettuali basilari del sistema processuale, di antica
ma sempre attuale elaborazione 25, che appaiono funzionali alla comprensione del percorso interpretativo seguito nella pronuncia in commento, quanto mai avara di spiegazioni.
Accogliendo l’opinione che afferma la necessaria separazione tra fattispecie ed atto e che descrive
la prima come il «complesso degli elementi astratti a cui l’ordinamento ricollega un certo effetto giuridico» 26, ossia come «la previsione normativa dell’atto», l’indagine non può che essere condotta attorno ai «due aspetti dell’atto che rivestono maggiore interesse per il diritto, e cioè la perfezione e
l’efficacia» 27.
La perfezione dell’atto, quale “concetto di relazione” atto ad indicare la corrispondenza tra il comportamento storicamente realizzatosi e gli elementi formanti la fattispecie, consente di distinguere tra
fattispecie semplici – quelle inverate dal compimento di un solo atto, di per sé, quindi, perfetto – e fattispecie complesse.
Queste ultime risultano infatti formate da più atti distinti, ciascuno dei quali, isolatamente considerato, è in grado di realizzare non l’intera fattispecie del quale è parte, bensì soltanto «quella porzione
autonoma di fattispecie che lo riguarda direttamente». Se è vero che, in tal caso, «l’atto risult[a] comunque perfetto rispetto al corrispondente “segmento” del modello normativo», certamente non può esserlo rispetto alla fattispecie complessivamente intesa, la cui perfezione «si potrà poi raggiungere attraverso il compimento di tutti gli atti previsti, e cioè dell’atto complesso» 28.
Così definita la latitudine del concetto di perfezione dell’atto giuridico, ad esso variamente si correla
l’altro termine del binomio in apertura evocato, cioè l’efficacia.
A differenza dell’atto semplice, il quale, «integrando l’intera fattispecie (semplice) di riferimento,
può dirsi immediatamente efficace», nel caso di fattispecie complesse, il singolo atto, pur perfetto in sé
nei termini anzidetti, non è sostenuto dall’immediata efficacia, «poiché la produzione di effetti viene
collegata all’integrazione della fattispecie nel suo complesso». Non, dunque, di efficacia può parlarsi,
quanto di «mera rilevanza, intesa come semplice idoneità dell’atto a produrre effetti qualora concorrano
anche tutti gli altri atti previsti dalla fattispecie che descrive l’atto complesso» 29.
Fin qui, l’autorevole ricostruzione ancora non riesce a sostenere le conclusioni propugnate dalla Corte, la quale pretende, invece, di far derivare precisi e differenziati effetti dal perfezionamento dei singoli
segmenti componenti la “fattispecie”.
Un simile esito può, infatti, ricondursi soltanto a quella particolare forma di atto complesso definibile come atto cumulativo 30, laddove «più atti singoli, pur integrando una fattispecie complessa, producodispositivo»]; Cass., sez. V, 16 gennaio 2009, n. 7697 [«in tema di prescrizione, ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie di
cui all’art. 10, comma 3, della l. n. 251 del 2005, la pendenza del grado di appello, che rileva per escludere la retroattività delle norme
sopravvenute più favorevoli, ha inizio dopo la pronunzia della sentenza di condanna di primo grado, che deve ritenersi intervenuta nel
momento della lettura del dispositivo, non in quello, eventualmente successivo, del deposito della motivazione»].
24
Così Cass., sez. VII, 13 febbraio 2014, n. 38143, in CED Cass, n. 262615.
25
Preziose, a tal riguardo, le approfondite considerazioni svolte da G. Conso, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed
efficacia, Milano, 1982, passim e da O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., passim.
26
G. Conso, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, cit. p. 2. Sull’argomento, si veda anche F. Cordero, Le
situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 33 e R. Scognamiglio, Fattispecie, in Enc. giur., XIV, 1989, p. 1 ss.
27
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 18, dal quale Autore è pure ripresa la citazione immediatamente
precedente.
28
Così, O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 18.
29
Questa la ricostruzione prospettata da O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 19. Impostazione che ricalca
quella veicolata da G. Conso, I fatti giuridici processuali penali, Perfezione ed efficacia, cit., pp. 42-48, anche se, come sottolinea lo
stesso Mazza (La norma processuale nel tempo, cit., p. 19, nota 47), l’illustre Autore del quale condivide il pensiero ritiene più
opportuno parlare di “fattispecie complessa” in luogo di “atto complesso”.
30
Sulle varianti strutturali dell’atto complesso, v. inoltre F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1987, p. 396 ss.
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no ciascuno, indipendentemente dal collegamento con tutti gli altri, ulteriori effetti propri, essendo contemporaneamente riferibili a una fattispecie semplice o a una fattispecie complessa minore» 31.
È questo lo schema tipico del procedimento penale, il quale non esclude l’efficacia dei singoli atti che
ne formano l’ossatura, pur producendo effetti nel suo complesso. La stessa struttura è pacificamente
estensibile al procedimento cautelare globalmente inteso, ma pare più difficile la sua pretesa applicabilità al provvedimento-ordinanza nel quale culmina la vicenda de libertate.
Nondimeno, l’affermazione conclusiva della sentenza può condividersi da una diversa prospettiva.
Assumendo la logica dell’atto complesso, è indubbio che la vicenda modificativa della normativa di
cui all’art. 309 c.p.p. intervenga nel momento in cui l’ordinanza in questione è pendente, «trattandosi di un
atto in corso di compimento o, più precisamente che si sta perfezionando» 32. Quando, al suo sopravvenire, la nuova norma colga un atto complesso in stato di pendenza, «può dirsi retroattiva solo nella misura in cui rivaluti i singoli atti già realizzatisi prima del mutamento legislativo, attribuendo loro una diversa rilevanza o privandoli della medesima»; non invece quando, come nel caso in esame, si limiti ad incidere «esclusivamente sulla disciplina degli atti ancora da compiere facenti parte dell’atto complesso
pendente» 33. La norma in esame, infatti, «presenta una pròtasi caratterizzata da una fattispecie chiaramente riferita a singoli atti futuri la cui realizzazione non ha ancora avuto inizio, mentre l’apòdosi ne lascia immutata la rilevanza, non essendo modificata l’efficacia dell’atto complesso di riferimento» 34.
In altri termini, qualora la nuova disciplina del segmento di atto pendente ancora non realizzato non
incida sulla (ri)valutazione dei singoli atti già compiuti – i quali mantengono la propria perfezione e rilevanza sulla base della legge del tempo in cui furono realizzati – né comporti una diversa efficacia
dell’intero atto complesso, risulta dimostrata l’estraneità della stessa alla logica della retroattività.
L’applicazione della lex superveniens alla vicenda di specie pare dunque pienamente giustificata in
ossequio all’ordinario canone processuale del tempus regit actum.
La comprensione dell’incidenza delle norme sopravvenute sui procedimenti penali pendenti passa,
infatti, attraverso la necessaria individuazione del «grado di atomizzazione che può essere riconosciuto
all’oggetto della loro regolamentazione»; dunque attraverso «l’esame della struttura dell’atto» 35. Volendo aderire alla teoria dell’ordinanza decisoria del riesame quale atto complesso e dovendo concordare con la Corte laddove individua l’oggetto della regolamentazione di cui al novellato art. 309, comma 10, c.p.p. nell’attività di redazione della motivazione, non può che identificarsi nella nuova norma
la lex temporis dell’actum in parola. In questa prospettiva, la precisazione indicata in sentenza circa la
sussistenza delle «condizioni anche fattuali perché l’attività costituita dalla redazione della motivazione dell’ordinanza e dal deposito della stessa potesse essere adeguata ai termini posti dalla norma sopravvenuta», essendo
gli stessi «ancora disponibili quasi per la loro interezza», pare persino superflua.
A stretto rigore, ancorché l’innovazione normativa fosse intervenuta in prossimità della scadenza
dei termini prescritti a pena di inefficacia della misura, il Tribunale ne sarebbe stato, suo malgrado, vincolato. È chiaro, infatti, che «la perfezione» dell’atto semplice (motivazione) coinvolto nell’atto complesso (ordinanza) rappresenta «il momento a partire dal quale l’atto viene a giuridica esistenza, suscettibile di autonoma considerazione. Pertanto, tutte le concrete attività che si sono rese eventualmente necessarie per giungere alla perfezione dell’atto, ponendosi in un lasso di tempo a essa precedente, appaiono giuridicamente irrilevanti» 36.
31
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 31.
32
Ancora una volta le parole sono di O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 31.
33
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 73.
34
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 73. Prosegue l’Autore affermando che «il tipico schema della retroattività non potrebbe dirsi integrato nemmeno osservando il fenomeno dal punto di vista dell’atto complesso che, in quanto
pendente, non è ancora perfettamente compiuto e, pertanto, consente l’efficacia immediata dei “segmenti” della fattispecie complessa (pròtasi) che fungono esclusivamente da modelli legali per le attività future, mentre l’apòdosi rimane invariata, facendo
conseguire all’integrazione dell’atto complesso sempre il medesimo effetto».
35
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 24.
36
Così O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 25. L’Autore porta l’esempio della redazione della sentenza,
affermando che «l’attività di scrittura compiuta del giudice estensore rimane irrilevante fino a quando non è perfezionato lo
schema tipico previsto dall’art. 546 c.p.p.». «L’atto giuridico», infatti, «e in particolare quello processuale, si configura come
un’unità elementare non suscettibile di ulteriori frazionamenti, ancorché effettivamente corrispondente ad attività umane che presentano una certa complessità e occupano un sensibile periodo di tempo».
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CONCLUSIONI
Al cospetto della materia cautelare, il problema della rigorosa applicabilità del canone del tempus regit actum è chiamato a confrontarsi con due consistenti criticità.
In primis, il contenuto de libertate della materia in questione, che invocherebbe, al contrario, l’applicazione retroattiva dei nova legislativi di segno favorevole. Argomento, tuttavia, che la Suprema Corte
ritiene esulare dall’orbita della vicenda sottoposta al suo esame.
In secondo luogo, viene in rilievo il carattere dinamico e complesso della vicenda cautelare, alla quale difficilmente si attaglia l’applicazione rigida del tradizionale schema biunivoco – un atto, una norma
– che rappresenta, a sua volta, il fondamento del canone-guida della successione nel tempo di norme
processuali. Per dirlo con le parole di autorevole dottrina 37, laddove ci si trovi dianzi ad “atti processuali a carattere non istantaneo”, i quali rendono assai vivo il rischio della successione medio tempore di
regimi normativi diversi, diviene estremamente arduo discernere tra situazioni definitivamente consolidate e situazioni ancora in divenire.
Problematica, dunque, l’individuazione del tempus cui fare riferimento nonché, soprattutto, dell’atto
cui esso si rivolge.
«L’identificazione dell’actus con ogni singolo accadimento processuale giuridicamente rilevante risulta […] imposta […] dalla valutazione logica della struttura che connota le norme alle quali si applicano i principi intertemporali. […] Se la nuova normativa non si riferisce all’intero processo, bensì contiene solo i modelli di ben determinati atti e delle relative conseguenze, allora – dato che l’oggetto (mediato) dei principi intertemporali è il medesimo delle norme a cui gli stessi fanno riferimento – il concetto di actus deve essere rapportato allo stesso grado di “atomizzazione” che presentano le concrete e specifiche vicende disciplinate dalla norma processuale coinvolta nella successione» 38.
Del resto, «in assenza di norme transitorie, non sempre è semplice distinguere quale legge applicare
nell’ipotesi di atti a formazione progressiva, ovvero, atti complessi che si frazionano in più unità».
L’interrogativo tuttavia «emerge quando la nuova disciplina interviene prima che la fattispecie complessa sia stata definitivamente realizzata e la mutazione normativa imponga condotte processuali incompatibili con le conseguenze derivanti dalle frazioni dell’atto già formate; in tal caso, la nuova disciplina, caduta sull’itinerario in via di formazione, dovrebbe condizionare a ritroso la sequenza causale,
dirottandone gli effetti nella prospettiva imposta dalla statuizione vigente» 39.
Ma non è questo, alla luce della ricostruzione fin qui svolta, il caso che occupa l’attenzione odierna
della Corte di Cassazione.
Il limite dell’argomentazione svolta pare, piuttosto, quello di aver invocato la soluzione (a tratti
oscura) escogitata dalla giurisprudenza sulla nozione di “pendenza in appello” del procedimento; «un
assunto» senz’altro «meritevole di ripensamento» 40.
37
Il riferimento è a E. Massari, Le dottrine generali del processo penale, Napoli, 1948, p. 511.
38
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 121. L’Autore sottolinea pure come la soluzione invocata sia imposta dal dato normativo: a voler conservare la corrispondenza di significato tra la formula tempus regit actum e la regola ricavabile
dall’art. 11, comma 1, disp. prel., che essa mira a compendiare, occorre necessariamente ritenere applicabile quel principio, agli
effetti della successione delle leggi processuali penali, ai singoli atti o fatti processuali ed ai relativi effetti. Così contrastando la
diversa tesi che identifica il concetto di actus con i diversi stati, gradi o fasi del procedimento, unitariamente considerati, o
addirittura con l’intero processo, il quale, altrimenti «continuerebbe ad essere regolato sempre e soltanto dalle norme vigenti al
momento della sua instaurazione». Opinando in tal senso, infatti, l’effetto sarebbe quello di scalzare la regola dell’efficacia
immediata dello ius novum sostituendola con quella della efficacia differita. Nella stessa direzione di O. Mazza-G. Conso, La
«doppia pronuncia» sulle garanzie della difesa nell’istruzione sommaria: struttura ed efficacia, in Giur. cost., 1965, p. 1150; G. Lozzi,
Favor rei e processo penale, cit., p. 160; Id., La successione delle leggi processuali penali nel tempo e le disposizioni transitorie del nuovo
codice di procedura penale, in Id., Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1990, p. 75.
39
Così, A. Scalfati, Principi, cit., p. 64.
40
C. Gabrielli, Per le Sezioni Unite il processo pende in grado d’appello sin dalla lettura della sentenza di condanna: un assunto
meritevole di ripensamento, in Cass. pen., 2010, 5, p. 1750 ss.
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Il sequestro per equivalente
sui beni dell’amministratore della società
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 13 OTTOBRE 2015, N. 41072 – PRES. SQUASSONI; REL. DI
NICOLA
Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente sui beni dell’amministratore della società è legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto diretto del reato presso la società sia impossibile,
seppure transitoriamente, ovvero quando gli stessi non siano aggredibili, e la motivazione che lo dispone dia conto
di tale impossibilità. Nel caso in cui il profitto del reato sia rappresentato da denaro o da altre cose fungibili, la confisca delle somme o del tantundem rinvenute nella disponibilità del soggetto (persona fisica o giuridica) che lo ha
percepito, anche sotto forma di un risparmio di spesa attraverso l’evasione dei tributi, avviene, alla luce della fungibilità di esso, sempre in forma specifica sul profitto diretto e mai per equivalente.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli Nord ricorre per cassazione impugnando
l’ordinanza indicata in epigrafe con la quale il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha annullato il decreto
di sequestro preventivo emesso dal gip presso il tribunale di Napoli Nord in relazione al delitto di cui
all’art. 5 del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74.
2. Per la cassazione dell’impugnata ordinanza il ricorrente ha articolato un unico motivo di gravame,
con il quale deduce la violazione di legge per carenza assoluta di motivazione affermando che l’ordinanza impugnata è stata emessa con una motivazione apparente in relazione al secondo punto del ricorso presentato dalla difesa, atteso che il tribunale aveva disposto la restituzione dei beni sul presupposto che condizione essenziale per procedere al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei
confronti dell’amministratore della persona giuridica fosse l’impossibilità anche “transitoria e reversibile”, di poter apprendere il profitto diretto (o il frutto del reinvestimento dello stesso) tra i beni nella disponibilità della (omissis) sarl, percettrice del vantaggio fiscale e quindi del diretto profitto del reato.
Di tale accertamento non vi sarebbe traccia ne’ nel provvedimento di sequestro e neppure nella richiesta di sequestro del pubblico ministero e negli atti processuali.
Il tribunale cautelare avrebbe tuttavia omesso di considerare che nel caso di specie il profitto del reato contestato al (omissis) e al (omissis) ed ai loro complici consisteva nell’omesso versamento delle suindicate somme ai fini dell’Iva e quindi in un risparmio di spesa per la società in parola, non integrante
una res economicamente valutabile, materialmente entrata, incrementandolo, nel patrimonio della società e/o dalla medesima conseguita a seguito, in occasione e/o a causa della perpetrazione delle condotte delittuose per cui si procede, di guisa che l’accusa non doveva accertare alcunché al riguardo
mentre la parte, onde evitare l’apprensione dei beni propri in luogo di quelli societari, avrebbe dovuto
fornire la prova (quasi del tutto impossibile, attesa la fungibilità del denaro) che quelle somme – proprio quelle somme relative all’imposta evasa – fossero ancora individuabili nelle casse sociali, onde
consentire l’aggressione diretta con relativa applicazione della misura ablatoria reale.
Secondo il ricorrente, peraltro, una diversa interpretazione – allorquando si versi, come nella specie,
in ipotesi di fatti reato dalla cui condotta illecita non derivi un positivo incremento economicamente valutabile del patrimonio da aggredire – renderebbe di fatto inapplicabile la normativa di cui all’articolo
1, comma 147, legge 27 dicembre 2007, numero 244.
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3. Gli interessati hanno presentato memoria con la quale, allegando documentazione, chiedono il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Il tribunale del riesame, nell’annullare il decreto di sequestro preventivo impugnato, si è attenuto
alla giurisprudenza di questa Corte (S.U. n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258648), osservando che
il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è legittimo solo quando il reperimento
dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, seppure transitoriamente, ovvero quando detti
beni non siano aggredibili per qualsiasi ragione.
Il tribunale ha anche chiarito che, in materia cautelare, non è possibile pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato giacché, durante il tempo necessario per
l’espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente, così vanificando ogni esigenza di cautela. Infatti, quando il sequestro interviene in una fase iniziale del procedimento, non è, di solito, ancora possibile stabilire se sia possibile o meno la confisca dei
beni che costituiscono il prezzo o il profitto di reato, previa la loro certa individuazione.
È perciò legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente anche quando
l’impossibilità del reperimento del profitto diretto sia solo tanto transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell’adozione della misura.
Del resto, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, ex articolo 322 ter c.p., del profitto del reato può essere disposto anche solo parzialmente nella forma per equivalente, qualora non tutti i beni costituenti l’utilità economica tratta dalla attività illecita risultino individuabili. D’altra parte, il sequestro
“diretto” può pacificamente essere effettuato anche nei confronti della società che ha percepito il profitto del reato anche su beni che possono configurarsi come reinvestimento del profitto stesso.
Da ciò consegue che nel caso di specie condizione essenziale per poter procedere al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli amministratori della società sarebbe stata l’impossibilità, anche “transitoria e reversibile”, di poter apprendere il profitto “diretto” tra i beni nella disponibilità della (omissis), percettrice del vantaggio fiscale e quindi di detto profitto “diretto” del reato.
Il tribunale del riesame ha quindi conclusivamente osservato che di tale accertamento non vi era
traccia non solo nel provvedimento di sequestro ma neppure nella richiesta di sequestro da parte del
pubblico ministero e negli atti processuali.
3. Va precisato che, con il petitum cautelare, è stato testualmente chiesto al giudice di “disporre il
sequestro preventivo di denaro ovvero dei beni (immobili, mobili e immobili registrati) nella disponibilità” dei ricorrenti.
Né il pubblico ministero e neppure il giudice della cautela hanno tuttavia dato atto dell’impossibilità, fosse anche transitoria, di procedere al cosiddetto sequestro diretto o in forma specifica.
L’impossibilità di procedere al sequestro diretto non è stata neppure allegata dal pubblico ministero
ricorrente come fatto processuale desumibile dagli atti ed anzi il ricorrente stesso, sull’erroneo presupposto che il denaro eventualmente depositato presso le casse sociali non potesse essere oggetto di un sequestro in forma specifica, ha dedotto che l’unica forma di sequestro adottabile fosse quella “per equivalente” nei confronti degli autori del reato non essendo ammissibile il sequestro di valore nei confronti della società.
Invece l’impossibilità del reperimento e del sequestro in forma specifica dei profitti illeciti condiziona l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo in funzione della futura confisca per equivalente, derivando tale condizionamento dalla lettera della legge perché l’articolo 322 ter c.p., stabilisce
che è ordinata la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello
del profitto del reato, ma solo quando non sia possibile la confisca dei beni che costituiscono il profitto
diretto del reato stesso.
Tale impossibilità, come hanno confermato le Sezioni Unite Gubert, non deve necessariamente essere assoluta e definitiva, ma può riguardare anche un’impossibilità transitoria o reversibile, purché esistente nel momento in cui la misura cautelare reale viene richiesta e disposta, con la conseguenza che la
possibile precarietà di tale circostanza di fatto condiziona anche l’onere di motivazione del provvedimento cautelare, che va limitato al richiamo della sia pur momentanea indisponibilità del bene, senza
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL SEQUESTRO PER EQUIVALENTE SUI BENI DELL’AMMINISTRATORE DELLA SOCIETÀ
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che sia necessario dare dettagliatamente conto delle attività volte alla ricerca dell’originario prodotto o
profitto del reato (Sez. 2, n. 19662 del 17/04/2007, D’Antuono ed altro, Rv. 236592).
D’altra parte, come è stato confermato dalle Sezioni Unite Gubert e prima ancora affermato dalla
sentenza D’Antuono, se l’adozione della cautela fosse condizionata alla completa esecuzione di tali ricerche, la funzione cautelare del sequestro potrebbe essere facilmente elusa durante il tempo occorrente
per il loro compimento, di talché deve ammettersi che, ai limitati fini della cognizione sommaria,
l’indicazione d’irreperibilità del profitto o prodotto del reato deve possedere un limitato grado di specificità, coerente con lo stadio più o meno embrionale nel quale si trova il procedimento.
Da ciò deriva che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è legittimo solo
quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, ovvero quando gli stessi
non siano aggredibili, e la motivazione che lo dispone dia conto di tale impossibilità.
Quindi, da un lato, non è necessario un vero e proprio accertamento quale presupposto della richiesta cautelare di un sequestro preventivo per equivalente e, dall’altro, il pubblico ministero non ha una
libera scelta tra il sequestro diretto e quello per equivalente ma, sulla base del compendio indiziario
emergente dagli atti processuali, può chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il
prezzo o il profitto nelle casse della società o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione, incombendo, invece, al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta (Sez. 3, n.
1738 del 11/11/2014, dep. 15/01/2015, Bartolini, Rv. 261929).
Nel caso di specie, il pubblico ministero ha erroneamente ritenuto insuscettibili di sequestro le
somme di denaro giacenti presso la società omettendo di considerare che, nel caso in cui il profitto di
un reato sia rappresentato da denaro o altre cose fungibili, la confisca delle somme o del “tantundem”
rinvenute nella disponibilità del soggetto (persona fisica o giuridica) che lo ha percepito, anche sotto
forma di un risparmio di spesa attraverso l’evasione dei tributi, avviene, alla luce della fungibilità di esso, sempre in forma specifica sul profitto diretto e mai per equivalente (Sez. 3, n. 39177 del 08/05/2014,
P.M. in proc. Civil Vigilanza s.r.l., non mass. sul punto), epilogo convalidato recentemente dalle Sezioni
Unite Lucci secondo cui, qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la
confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere qualificata come
confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato (Sez. U, n. 31617
del 26/06/2015, Lucci, non ancora mass.).
Ne consegue che, sulla base di tale erroneo presupposto, è stato richiesto ed emesso il decreto di sequestro preventivo per equivalente senza che fosse sommariamente verificata o risultasse dagli atti
l’impossibilità di procedere al sequestro diretto e senza alcuna motivazione circa l’esistenza ex actis di
tale impossibilità.
Il ricorso del pubblico ministero va pertanto rigettato.
[Omissis]
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LORENZO BELVINI
Cultore di Procedura penale – Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa
Impossibilità di confiscare il profitto illecito conseguito
dalla società e sequestro per equivalente sui beni
degli amministratori
Inability of confiscation the company’s illegal profits and the seizing
of the CEO’s property the value of which corresponds to that of the
company’s illegal profits
La Corte di cassazione ha statuito che, nei confronti dell’amministratore di una società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere eseguito solo se è impossibile aggredire in via diretta il profitto
del reato; ma occorre prima realizzare la ricerca del profitto tra i beni della persona giuridica destinataria dell’illecito
arricchimento. Il principio espresso dalla Suprema corte ha il pregio di tracciare i presupposti del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, in particolare valorizzando il vincolo di sussidiarietà previsto dall’art. 322-ter c.p.
The Supreme Court ruled that the seizing and confiscation of the assets and the goods belonging to the CEO are
allowed only when it is not possible to attack the company’s illegal profits.
LA VICENDA
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione chiarisce i limiti del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente sui beni dell’amministratore di una società. In particolare, si delineano i rapporti che intercorrono tra la confisca diretta del profitto del reato e quella per “equivalente”
in relazione alla possibilità di procedere o meno al sequestro senza una concreta verifica circa la presenza del patrimonio illecito presso la persona giuridica.
Va premesso che, nel caso di specie, il g.i.p. disponeva con decreto, emesso su richiesta del pubblico
ministero, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente dei beni degli amministratori indagati
per il delitto previsto dall’art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ai quali veniva contestata l’omessa dichiarazione annuale, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto con riferimento ad una società “esterovestita” 1. Il Tribunale del riesame, accogliendo la richiesta proposta dalla difesa, ha annullato detto sequestro, rilevando che era stato disposto in assenza della verifica relativa alla impossibilità di procedere, seppur per cause transitorie, al sequestro diretto presso la società beneficiaria del profitto del reato.
Contro l’annullamento del decreto di sequestro ha proposto ricorso per Cassazione il pubblico ministero deducendo che il Tribunale del riesame aveva adottato una motivazione apparente, in quanto non
aveva considerato che il profitto del reato consisteva in un omesso versamento, quindi una res non economicamente valutabile, che non aveva incrementato il patrimonio della società, escludendosi pertanto
la possibilità di procedere al sequestro del profitto del reato.
La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha osservato che la condizione legittimante il sequestro
preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è la concreta mancanza del profitto diretto del reato.
1
In particolare l’omessa dichiarazione ai fini iva era contestata ai rappresentanti di fatto e di diritto di una società che,
secondo l’accusa, solo formalmente aveva sede in Tunisia ma che sostanzialmente doveva essere considerata come medesima
persona giuridica rispetto ad una società con sede in Italia.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IMPOSSIBILITÀ DI CONFISCARE IL PROFITTO ILLECITO CONSEGUITO DALLA SOCIETÀ ...
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Sul terreno della motivazione, sarebbe stato necessario spiegare perché non era realisticamente possibile procedere al sequestro diretto nei confronti della società beneficiaria del delitto tributario.
Nel caso di specie, né il pubblico ministero né il g.i.p. avevano giustificato detta impossibilità, di
procedere al sequestro diretto.
La Corte inoltre ha chiarito che l’impossibilità di procedere al sequestro diretto può essere anche solo “transitoria” e “reversibile”.
La decisione si pone in linea di continuità con i più recenti approdi delle Sezioni Unite 2, che hanno
sottolineato come l’art. 322-ter c.p. impone un rapporto di sussidiarietà tra la confisca diretta del profitto di reato e quella per equivalente, sotto tale profilo non lasciando margini arbitrari all’intervento dell’Autorità giudiziaria.
Lo specifico principio qui espresso dalla Corte è che il pubblico ministero ha l’onere di verificare,
sulla base di un valutabile compendio indiziario, se presso la persona giuridica che ha tratto vantaggio
dal reato è possibile reperire il profitto illecito; solo dando atto di un tale accertamento con esito negativo si può legittimamente ottenere un sequestro “per valore” nei confronti del legale rappresentante della persona giuridica.
Le cose non cambiano laddove il profitto del reato consista in un risparmio di imposta derivante da
un omesso versamento di tributi stante la necessità, anche in tal caso, di effettuare un previo tentativo
di approvvigionamento del corrispondente danaro nella disponibilità della società beneficiaria.
IL SEQUESTRO PER EQUIVALENTE NELL’AMBITO DEI REATI TRIBUTARI: LINEE DI SINTESI
Preliminarmente all’analisi delle questioni affrontate dalla pronuncia in rassegna, è necessario delineare sommariamente i fondamenti normativi del sequestro per equivalente, con particolare riferimento ai reati tributari.
La confisca per equivalente, di cui l’esempio legislativo lampante è l’art. 322-ter c.p. 3, consente,
nell’ipotesi in cui sia impossibile prelevare in via diretta il profitto o il prezzo del reato, di aggredire
beni nella disponibilità del reo per un valore pari al prezzo o al profitto conseguito illecitamente.
Pertanto la possibilità di confiscare il tantundem 4 permette di aggredire i beni del reo che non costituiscono la derivazione del reato 5. Tuttavia, la funzione della confisca per equivalente è quella di punire il colpevole a causa delle utilità derivanti dalla condotta criminosa.
In tema di reati tributari la confisca per equivalente è stata introdotta dal legislatore nel 2007 6 al fine
di rendere più agevole la possibilità di privare il reo di qualsivoglia beneficio derivante dai relativi delitti. Tale intervento normativo consente di superare le difficoltà insite nella confisca diretta del profitto
dei reati tributari che, rappresentando nella maggior parte dei casi un risparmio di spesa, si sottrae più
facilmente alla prova di “pertinenzialità” tra reato e profitto 7.
L’intervento legislativo, pertanto, focalizza l’attenzione sul beneficio illecito comunque conseguito e
l’obiettivo perseguito è quello di evitare il formarsi di patrimoni che alterino la libertà e le regole del
mercato 8.
Del resto nella prospettiva di contrasto alla criminalità di impresa, il legislatore con l’art. 19, comma
2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ha previsto, in relazione alla responsabilità amministrativa degli enti de2
Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, Proc. pen. giust., 2014, 5, con commento di L. Puccetti, La confisca sui beni della persona
giuridica per reati tributari commessi dai vertici sociali: diretta o per equivalente?.
3
Norma inserita dall’art. 3 della legge 29 settembre 2000, n. 300 e modificata dall’art. 1, comma 75, lett. o), legge 6 novembre
2012, n. 190.
4
Ed in particolare secondo la definizione di cui all’art. 322 ter c.p. «somme di denaro, beni o altre utilità di valore
equivalente del profitto del reato».
5
Cfr. C. Santoriello, La confisca e la criminalità d’impresa, in A. Bargi-A. Cisterna (a cura di), La giustizia patrimoniale penale,
XVI, t. 2, Torino, 2011, p. 872.
6
L’art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244 prevede che in relazione agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e
11 del d.lgs. n. 74/2000, «si osservano in quanto applicabili le disposizioni di cui all’art. 322-ter c.p.».
7
F. Porcu, Sequestro e confisca per equivalente e reati tributari: un sottosistema speciale, in Dir. pen. proc., 2013, p. 1468.
8
C. Santoriello, Confisca per equivalente sul profitto del reato tributario individuato nel risparmio dell’importo evaso, in Fisco, 2015,
12, p. 1171.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IMPOSSIBILITÀ DI CONFISCARE IL PROFITTO ILLECITO CONSEGUITO DALLA SOCIETÀ ...
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rivante da reato, la confisca per equivalente nei confronti delle persone giuridiche e, con l’art. 53 del
medesimo testo normativo, ha previsto il sequestro finalizzato a tale confisca.
Anche la confisca per valore prevista dall’art. 19 d.lgs. n. 231/2001, ha una funzione tipicamente
sanzionatoria 9, volta a ripristinare l’equilibrio economico alterato dal reato commesso.
Pertanto, contrariamente alle ipotesi di confisca sicuritaria (es. art. 240 c.p.), la res è sottoposta a
adprehensio, ed in sede cautelare a sequestro, non in quanto oggettivamente pericolosa, bensì al solo fine
di sottrarla a chi ha tratto beneficio dall’illecito penale 10.
Circa i presupposti applicativi del sequestro previsto dall’art. 53 d.lgs. n. 231/2001 la giurisprudenza 11 ritiene che l’adozione della misura cautelare è subordinata solo alla verifica dell’astratta configurabilità dell’illecito, mentre non è richiesta la presenza di gravi indizi in relazione alla responsabilità
dell’ente; inoltre non è richiesta la verifica del periculum richiesto ai sensi dell’art. 321 c.p.p. 12, poiché il
vincolo cautelare è volto a garantire la confisca definitiva all’esito del giudizio.
La possibilità di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto illecito nei confronti della società che lo ha percepito, è stata ribadita anche dalla sentenza in commento, la quale si
pone in linea di continuità con i più recenti orientamenti delle Sezioni Unite 13.
Tornando alla misura ablativa nei delitti tributari è opportuno evidenziare che, così come è stato recentemente affermato dalle stesse Sezioni Unite 14, con specifico riferimento ai reati tributari, non è possibile procedere al sequestro per equivalente nei confronti della persona giuridica ma solo alla confisca
diretta.
Invero la possibilità di sottoporre a sequestro per equivalente i beni di proprietà della società è stata
affrontata in modo contrastante dalla giurisprudenza.
Secondo un contrapposto orientamento 15, infatti, sarebbe sempre ammesso il sequestro preventivo
anche nelle forme per equivalente nei confronti della società beneficiaria dei reati tributari commessi
dal legale rappresentante, poiché in tali casi il vantaggio derivante dal reato confluirebbe nel patrimonio della persona giuridica 16.
Sul punto, però, le Sezioni Unite 17, condividendo un diverso orientamento 18, hanno affermato che il
principio di legalità, al quale deve essere ancorata anche la disciplina speciale, non consente l’applicazione della confisca per equivalente nei confronti della società, salvo i casi in cui quest’ultima sia solo uno
schermo mediante il quale agisce la persona fisica; poiché i reati tributari non sono previsti tra i reati presupposto della responsabilità dell’ente, risultano inapplicabili gli artt. 19 e 53 d.lgs. n. 231/2001 19.
9
Cfr. Cass., sez. un., 31 gennaio 2013, n. 18374, in CED Cass., n. 255037, la quale riconosce esplicitamente natura sanzionatoria a detta ipotesi di confisca.
10
Sul punto A. D’Avirro, Reati tributari commessi dall’amministratore e confisca di valore dei beni dell’ente, in Dir. pen. proc., 2013,
4, p. 464.
11
Sul punto Cfr. Cass., sez. II, 16 settembre 2014, n. 41435, in CED Cass., n. 260043 secondo la quale: «In tema di responsabilità
dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche
per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell’art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il “periculum” richiesto per il sequestro preventivo di cui
all’art. 321, comma primo, cod. proc. pen., essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente sussumere il fatto
in una determinata ipotesi di reato».
12
R. Brichetti, La confisca nel procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente dipendente da reato, in Resp.
amm. delle società e degli enti, 2006, 2, p. 7.
13
Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit.
14
Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit.
15
Cass., sez. III, 7 giugno 2011, n. 28731, in Giur. it., 2012, p. 669.
16
G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse” delle Sezioni Unite in tema di sequestro a fini di
confisca e reati tributari, in Cass. pen., 2014, 9, p. 2809.
17
Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit..
18
Cfr. ex multis Cass., sez. III, 10 luglio 2013, n. 42350, in Dir. pen. proc., 2013, 11, p. 1277; Cass., sez. III, 10 gennaio 2013, n.
1256, in CED Cass., n. 254796.
19
Sul punto le Sezioni Unite evidenziano che «la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalità […] perché
il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rischia di vanificare le esigenze di tutela delle
entrate tributarie, a difesa delle quali è stato introdotto l’art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007», irrazionalità che secondo le stesse Se-
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Pertanto, l’attuale quadro normativo, consente, per i reati tributari, l’applicazione del sequestro per
equivalente solo nei confronti della persona fisica; tuttavia – qui sta il rilievo di garanzia ribadito dalla
sentenza in esame – la stessa è subordinata all’accertamento di non poter reperire il profitto diretto del
reato presso la società che lo ha percepito, in forza del vincolo di sussidiarietà previsto dall’art. 322-ter
c.p. richiamato dall’art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244.
Peraltro va evidenziato che, in forza dell’entrata in vigore del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, la confisca relativa ai reati tributari non è più disciplinata mediante rinvio all’art. 322-ter c.p. 20, ma è esplicitamente prevista nella normativa speciale. Infatti l’art. 10 dell’indicato decreto legislativo ha inserito
l’art. 12-bis nel d.lgs. n. 74/2000 che, al primo comma, disciplina la confisca (diretta e per equivalente)
per tutti i delitti indicati nella normativa di settore. Le novità introdotte sono minime atteso che la disciplina è identica a quella che era prevista in forza del richiamo all’art. 322-ter c.p.; ad essere ampliato è
stato solo l’ambito applicativo 21. Pertanto nulla cambia in relazione ai presupposti del provvedimento
ablativo. Un’importante novità è, invece, prevista dal comma 2 dell’art. 12-bis, d.lgs. n. 74/2000 il quale
stabilisce che la confisca non può avere ad oggetto la parte che il contribuente si impegna a corrispondere all’erario «anche in presenza di sequestro» 22.
Tuttavia il legislatore, con l’ultimo intervento in materia, non ha risolto alcune questioni problematiche affrontate dalla giurisprudenza. In particolare non è stato chiarito l’ambito del profitto del reato che
consista in un risparmio di spesa e, inoltre, non è stato introdotto il sequestro per equivalente sui beni
della persona giuridica; restano, dunque, gli «evidenti profili di irrazionalità» denunciati dalle Sezioni
Unite 23 in relazione all’applicazione della confisca, e in sede cautelare, del sequestro di valore.
ONERE DI RICERCA DEL PROFITTO E MOTIVAZIONE DEL SEQUESTRO
La sentenza in rassegna, nell’evidenziare il nesso di sussidiarietà che intercorre tra il sequestro diretto
del profitto e quello per equivalente, ribadisce che l’impossibilità di reperire i beni che costituiscono il
profitto del reato può essere anche solo transitoria e reversibile «purché sussistente al momento della richiesta
e dell’adozione della misura»; da ciò consegue che anche il provvedimento che dispone la misura cautelare,
deve necessariamente spiegare la momentanea impossibilità di apprensione diretta dei proventi illeciti 24.
Al riguardo occorre precisare che l’impossibilità di reperire direttamente il profitto del reato deve
essere ancorata a motivi oggettivi, al fine di evitare eventuali elusioni della sussidiarietà della misura
per equivalente. Pertanto non è sufficiente che la ricerca dei beni o delle somme che costituiscono il profitto del reato presenti qualche difficoltà ma è necessario effettuare indagini in materia, pur senza darne
conto in maniera dettagliata 25.
D’altro canto, la cognizione sommaria e la rapidità dell’intervento tipici della fase cautelare, escludono l’obbligo di effettuare ricerche in termini di completezza sulla collocazione del profitto del reato, a
pena di vanificare le esigenze di strumentalità del sequestro; l’attività di verifica, infatti, può essere
molto complessa poiché presuppone l’accertamento concreto del nesso di pertinenzialità tra reato e
specifici beni conseguiti, soprattutto se si tratta di somme di denaro 26.
zioni Unite, non potrebbe essere rimossa mediante incidente di legittimità costituzionale, in quanto dovrebbe essere adottata
una sentenza additiva con effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, vietati dall’art. 25, comma 2, Cost.
20
L’art. 14 del d.lgs. n. 158/2015 ha abrogato il comma 143 dell’art. 1, legge n. 244/2007 che rinviava all’art. 322-ter c.p.
21
In particolare la confisca può essere disposta in relazione a tutti i delitti previsti dal d.lgs. n. 74/2000 e non più solo ai reati
previsti dagli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del medesimo decreto, in sostanza quindi la portata applicativa è stata
estesa anche al delitto di occultamento o distruzione di scritture contabili previsto dall’art. 10.
22
Per un primo commento a tale norma si veda G. Amato, L’estinzione del debito impedirà di applicare la misura ablativa, in
Guida dir., 2015, 46, pp. 72-75.
23
Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit.; cfr. precedente nota 19.
24
Cfr. ex multis Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit.; Cass., sez. III, 4 ottobre 2012, n. 38740, Proc. pen. giust., 2013, 2, p.
60; Cass., sez. III, 5 maggio 2009, n. 30930, in CED Cass., n. 244934; Cass., sez. II, 17 aprile 2007, n. 19662, in CED Cass., n. 236592.
25
Cass., sez. II, 17 aprile 2007, 19662, cit.
26
Sul punto cfr. Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit., secondo la quale «quando il sequestro interviene in una fase iniziale
del procedimento, non è di solito, ancora possibile stabilire se sia possibile o meno la confisca dei beni che costituiscono il prezzo od il profitto
del reato, previa loro certa individuazione».
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Sul punto, però, va precisato che detti limiti vengono meno nel momento in cui è necessario procedere alla confisca definitiva all’esito del giudizio. Infatti i presupposti per l’applicazione della confisca
definitiva sono diversi da quelli richiesti per l’adozione del sequestro preventivo; solo in sede cautelare
vige il criterio secondo cui l’impossibilità transitoria e reversibile di acquisire in forma specifica il profitto legittima l’approvvigionamento per equivalente; di contro, nel caso in cui deve essere applicata la
confisca a seguito di una sentenza di condanna, è necessario procedere ad un accertamento rigoroso
dell’impossibilità di aggredire i beni che costituiscono il profitto originario del reato. In particolare, la
sentenza di condanna (o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.) deve previamente accertare se il
profitto del reato può essere reperito 27 presso la società di cui l’imputato sia legale rappresentante.
Il principio di sussidiarietà del sequestro di valore impone al pubblico ministero, nella richiesta della
misura ablatoria, l’onere di indicare e spiegare quali sono gli accertamenti eseguiti per la ricerca del
profitto del reato; il giudice cautelare deve vagliare la concretezza di tali verifiche, con l’obbligo di adottare una specifica motivazione su tali accertamenti. In particolare è necessario valutare se non è effettivamente possibile reperire il concreto profitto da sequestrare; non sarebbe sufficiente una motivazione che si limiti a richiamare gli accertamenti eseguiti dal pubblico ministero senza sottoporla ad
un’adeguata e autonoma valutazione, stante il rischio che il decreto di sequestro sia annullato dal tribunale del riesame 28.
In ogni caso, i principi espressi risultano comprensibilmente attenuati – agevolando l’adprehensio rei
anche in sede cautelare – nell’ipotesi in cui il profitto del reato sia costituito da somme di denaro. Anche la sentenza che si annota segue l’orientamento in base al quale, nel caso in cui il profitto del reato è
rappresentato da denaro, la confisca di dette somme «rinvenute nella disponibilità del soggetto (persona fisica o giuridica) che lo ha percepito, anche sotto forma di risparmio di spesa attraverso l’evasione dei tributi, avviene
alla luce della fungibilità di esso, sempre in forma specifica sul profitto diretto e mai per equivalente».
Sul punto, infatti, le Sezioni Unite hanno chiarito che, nel caso in cui il risparmio di spesa determinato dall’evasione dei tributi è rappresentato da somme di danaro o da altri beni fungibili, il sequestro è
sempre diretto del profitto del reato e, in tal caso, la prova del nesso di pertinenza tra la somma sequestrata ed il reato può essere esclusa tenendo conto della peculiare natura fungibile del bene sottoposto
al vincolo ablatorio 29. Invero nell’ipotesi in cui il profitto del reato sia rappresentato da una somma di
denaro, essa si confonde con il patrimonio del beneficiario; pertanto ciò che occorre accertare è esclusivamente «che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo» 30; solo quando non è possibile la confisca del denaro
potrà essere disposta la confisca, ed in sede cautelare il sequestro, per equivalente sugli altri beni di cui
dispone l’imputato per un valore corrispondente al profitto.
27
Cfr. Cass., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 41842, inedita.
28
Si tratta di una possibile lettura del combinato disposto degli artt. 324, comma 6, e 309, comma 9, c.p.p. (quest’ultimo,
modificato dall’art. 11, comma 4, legge 16 aprile 2015, n. 47).
29
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617, in Dir. e giust., 2015, 29, p. 44, con nota di F.G. Capitani, Le Sezioni Unite: La
confisca sopravvive alla causa istintiva del reato, purché ci sia già stata condanna e si tratti di confisca diretta. In tal senso si veda anche
Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit.
Tuttavia detto orientamento non è condiviso da altre pronunce, cfr. Cass., sez. III, 6 ottobre 2011, n. 36293, in CED Cass., n.
251133; Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951, in Giur. it., 2005, p. 1507.
30
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617, cit.
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Riesame: annullamento dell’ordinanza se la motivazione non
presenta un contenuto dimostrativo autonomo
CORTE DI
FANO
CASSAZIONE, SEZIONE VI, SENTENZA 12 OTTOBRE 2015, N. 40978 – PRES. CONTI; REL. DI STE-
In tema di motivazione dell’ordinanza cautelare, le modifiche introdotte negli artt. 292 e 309 c.p.p. dalla legge 16
aprile 2015, n. 47, non hanno carattere innovativo, essendo stata solo esplicitata la necessità che, dall’ordinanza,
emerga l’effettiva valutazione della vicenda da parte del giudicante; ne consegue che deve ritenersi nulla, ai sensi
dell’art. 292 c.p.p., l’ordinanza priva di motivazione o con motivazione meramente apparente e non indicativa di
uno specifico apprezzamento del materiale indiziario.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
Il tribunale del riesame di Napoli, nel decidere sulle richieste di riesame presentate nell’interesse di
[omissis] e di [omissis] avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del medesimo
tribunale il precedente 18 marzo 2015 per i reati di cui agli artt. 74 e 73 d.p.r. 309/90 e 416 bis cod. pen.,
ritenute applicabili le disposizioni di cui agli artt. 292 e 309 cod. proc. pen. come modificati dalla legge
47/2015, dichiarava nulla l’ordinanza impugnata in quanto si limitava «a ripetere pedissequamente il contenuto della richiesta del pubblico ministero, addirittura riproducendo la medesima suddivisione in paragrafi e
utilizzando le stesse parole, senza alcuna ulteriore aggiunta, commento od osservazione da parte dal gip e quindi
senza una autonoma valutazione da parte di quest’ultimo».
Il Pm ha presentato ricorso contro tale decisione denunciando la violazione di legge in quanto ritiene
che la ordinanza di custodia sia conforme alla nuova normativa: «la parte ricostruttiva è certamente propria ed autonoma; sul piano generale questa autonomia si coglie anche nella circostanza che la richiesta dello scrivente PM colpiva quaranta indagati ed il GIP l’ha accolta solo per ventinove posizioni».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
La misura cautelare è stata emessa prima della entrata in vigore della legge 47/2015; l’udienza del
tribunale del riesame è, invece, successiva.
Il tribunale ha ritenuto applicabili le nuove disposizioni e lo stesso pubblico ministero non contesta
tale scelta ritenendo, invece, che l’errore della decisione riguardi l’interpretazione dell’art. 292 cod.
proc. pen. nella attuale formulazione.
Va, invece, rammentato che nella materia processuale vige il principio della applicabilità della legge
del tempo della emissione dell’atto, né per la normativa in questione risulta alcuna deroga (Cass., sez.
IV, 12/06/2015, n. 24862, Rv. 263727). Quindi, la nuova regola in tema di contenuto minimo della motivazione ex art. 292 cod. proc. pen. non era affatto applicabile alla ordinanza di custodia impugnata perché era stata emessa nella vigenza della "vecchia" regola.
In ogni caso, la diversa scelta interpretativa del giudice a quo non comporta conseguenze poiché, di
fatto, tali nuove disposizioni, nella parte di interesse, hanno un contenuto "interpretativo" e ricognitivo
di giurisprudenza preesistente, per cui si limitano a rendere cogenti regole già applicate prima della
legge 47 e che il collegio condivide. Tale caratteristica della riforma è evidente per la disposizione che
preclude espressamente che si possa affermare la pericolosità ex art. 274 lett. c) sulla scorta della sola
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | RIESAME: ANNULLAMENTO DELL’ORDINANZA SE LA MOTIVAZIONE NON PRESENTA ...
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gravità astratta del reato, principio già pacifico nella giurisprudenza di legittimità (per tutte Cass. IV,
10/9/2007, n. 34271, Rv. 237240), nonché per la aggiunta di "attuale" quale ulteriore aggettivazione del
"pericolo concreto"; per quest’ultimo punto, difatti, a parte alcune pronunce che hanno escluso la necessità di una "attualità" intesa quale "riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione", altre decisioni avevano già considerato l’attualità come necessariamente insita nella concretezza (Cass.,
sez. VI, 17/12/2014, n. 52404, Rv. 261670), quindi ritenendola una condizione necessaria al fine di applicazione della misura cautelare.
Del resto, basta osservare che il codice, anche con la nuova formulazione del decimo comma dell’art.
309 cod. proc. pen., continua a distinguere tra "esigenze cautelari" ed "eccezionali esigenze cautelari", a dimostrazione che la attualità non significa "immediatezza".
Anche la prescrizione di specifici contenuti della motivazione della ordinanza di custodia, con il corollario del limite ai poteri del Tribunale del Riesame che può "integrare" ma non "supplire", non è una
innovazione rispetto alla precedente normativa ma, a fronte di varie linee interpretative sui limiti al potere di integrazione della ordinanza di custodia da parte del tribunale del riesame, la legge ha reso cogente l’interpretazione secondo la quale (Cass., sez. VI, 13/03/2014, n. 12032, Rv. 259462) il tribunale
del riesame non può mai, nonostante i propri poteri di integrazione della motivazione del provvedimento impugnato, completare quella ordinanza di custodia la cui motivazione non abbia un contenuto
dimostrativo dell’effettivo esercizio di una attività di "autonoma valutazione". Quindi, non si è in presenza di una innovazione bensì della interpretazione "corretta" ed autentica della precedente normativa, così diventando quella indicata l’unica interpretazione conforme agli attuali testi di cui agli artt. 292 e 309
cod. proc. pen.
In definitiva, il riferimento alla "autonoma valutazione" non aggiunge, a quelli preesistenti, un nuovo
requisito a pena di nullità ma ritiene corretta quell’interpretazione secondo la quale il provvedimento
di custodia deve sia avere il necessario contenuto "informativo" che dimostrare la effettiva valutazione
da parte del giudicante e, quindi, il reale esercizio della giurisdizione.
Anche la disposizione (art. 292 cod. proc. pen.) novellata, tenuto conto della specificità dei vari casi,
non impone affatto che ciascuna singola circostanza di fatto, ciascun punto rilevante debba essere nuovamente "scritto" ed autonomamente valutato senza possibilità di rinvio ad altri atti. La legge impone,
invece, un giusto rigore che era già emerso, come visto, in quella giurisprudenza che richiedeva la conformità della ordinanza di custodia ad un modello minimo che consentisse di esplicare la sua funzione
e non mira, invece, ad introdurre un formalismo che renda inutilmente incerta la validità delle ordinanze di custodia.
Tale è, in conclusione, il senso di una norma che prevede l’annullamento quando la motivazione
"manca" o "non contiene l’autonoma valutazione", espressione quest’ultima che non significa "insufficiente" ma, solo, che la nullità ricorre quando, pur a fronte di un contenuto ineccepibile dell’atto sul
piano formale di completezza, si tratta chiaramente di una mera adesione acritica alle scelte dell’accusa.
Il principio di diritto va, quindi, così indicato:
La normativa introdotta con la l. 47/2015, nella parte in cui modifica le disposizioni in tema di motivazione delle ordinanze cautelari di cui agli art. 292 e 309 cod. proc. pen., non ha carattere innovativo ma adegua la formulazione delle norme alla preesistente giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto necessario che la ordinanza di custodia abbia comunque un chiaro contenuto indicativo della concreta valutazione della vicenda da parte del giudicante. La nullità di cui all’art. 292 cod. proc. pen., quindi, si verifica nel caso di ordinanza priva di motivazione o
con motivazione meramente apparente e non indicativa di uno specifico apprezzamento del materiale indiziario.
Nel caso concreto all’esame di questa Corte, il tribunale dà conto della sostanziale inadeguatezza
della motivazione a dimostrare la valutazione propria del giudicante sulla complessiva vicenda cautelare. Del resto, le stesse obiezioni dell’ufficio ricorrente non sono nel senso di individuare una specifica
parte della motivazione della ordinanza impugnata che "dimostri" tale valutazione (da riferire a [omissis]), ma sono nel senso di segnalare che la valutazione da parte del gip risulterebbe (solo) implicitamente dalla scelta del rigetto della misura nei confronti di un gran numero di soggetti indagati, diversi
da [omissis].
La decisione del tribunale, quindi, è corretta alla stregua del predetto principio.
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MARIA VITTORIA PAPANTI-PELLETIER
Dottoranda in Diritto pubblico – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Confini più netti tra annullamento e integrazione
dell’ordinanza cautelare genetica
A new balance between Court of re-examination’s overruling and
amending powers over precautionary measures
La legge n. 47/2015, recependo recenti arresti giurisprudenziali, impone al giudice cautelare di esplicitare nella motivazione – oltre alla già prescritta «esposizione» – anche la propria «autonoma valutazione» in ordine alle esigenze
cautelari, agli indizi e agli elementi forniti dalla difesa. La prescrizione è presidiata dall’obbligo del tribunale del riesame, il quale ne verifichi la violazione, di procedere all’annullamento dell’ordinanza impugnata. La novella spiega
effetti sul potere di annullamento, reso più ampio rispetto al passato, quando era limitato ai soli casi di motivazione assente (o meramente apparente); per contro, l’esercizio dei poteri di integrare la motivazione viene ora circoscritto alle sole ordinanze che presentino comunque un “contenuto minimo”, dal quale emerge l’autonoma valutazione compiuta dal primo giudice.
In accordance with the amendments introduced by the law n. 47 of 2015, the judge is now compelled to provide
within the grounds of a precautionary measure his own assessment over the conditions that authorise the order.
Lacking this requirement, the Court of re-examination can now only overrule the precautionary measure under appeal, with no chance to integrate into its lacking reasoning any additional themes. Integrations by the Court of reexamination are now only admitted if the reasoning of the precautionary measure includes an independent assessment provided by the judge who had adopted the order, even if the reasoning is deficient under other aspects.
LA QUESTIONE AFFRONTATA
Nel periodo di assestamento seguìto all’ultima riforma in ambito cautelare 1, la pronuncia annotata, ha
prospettato l’interpretazione che si renderebbe necessaria in merito ad aspetti nodali della materia, ridefiniti dalla novella.
Precisamente, la Corte, nel confermare la decisione del tribunale del riesame in ordine all’annullamento
dell’ordinanza genetica, ha delineato i caratteri che oggi si impongono nella motivazione del provvedimento cautelare, nonché i requisiti che, al contrario, la riforma non avrebbe previsto; in altri termini, la pronuncia in esame ha definito gli esatti confini, sia in positivo sia in negativo, dell’«autonoma valutazione»
da parte del giudice che – ai sensi del novellato art. 292 c.p.p. – l’ordinanza cautelare deve presentare.
Va detto, in ogni caso, che la Corte sembra muoversi perlopiù in un’ottica di ridimensionamento
della novella, anzitutto, per quanto concerne il quantum novi che questa prescrive.
Secondo tale impostazione, la lettura dell’odierno assetto normativo si impone, infatti, non già per la
cesura che, rispetto al passato, la riforma prospetta, bensì in virtù del recepimento legislativo della giurisprudenza, ormai costante in materia; la novella del 2015, anche 2 per ciò che attiene al tema dell’autonoma valutazione, avrebbe, insomma, natura meramente ricognitiva di un condiviso orientamento.
1
Si tratta della legge di riforma 16 aprile 2015, n. 47 (pubblicata in G.U. 23 aprile 2015, n. 94 ed entrata in vigore l’8 maggio
2015, dopo l’ordinaria vacatio legis), recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche
alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visite a persone affette da handicap in situazione di gravità».
2
Secondo la pronuncia in esame, anche altri aspetti, quali l’attualità del pericolo e la necessità di elementi ulteriori, oltre alla gravità
astratta del reato, ai fini della valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari, sarebbero stati già pacifici in giurisprudenza.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | CONFINI PIU’ NETTI TRA ANNULLAMENTO E INTEGRAZIONE DELL’ORDINANZA ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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La Corte mostra poi una certa “resistenza” in sede ermeneutica, ove si è trattato di individuare concretamente il contenuto delle disposizioni interpolate. In particolare, la previsione esplicita del requisito di
“autonoma valutazione” non implicherebbe anche l’obbligo di operare un’analisi specifica su ciascuna
circostanza di fatto che assume rilievo nella vicenda cautelare 3; né resterebbe precluso al giudice di motivare per relationem, richiamando argomentazioni contenute in altri atti.
Insomma, le cifre caratterizzanti della novella parrebbero limitarsi alla codificazione di princìpi già
immanenti alla disciplina cautelare, escludendo «formalismi» in materia, i quali renderebbero «inutilmente incerta la validità delle ordinanze».
Inaspettatamente, tuttavia, nell’ultima parte della pronuncia, si assiste al recupero della portata anche espositiva della valutazione del giudice: quest’ultima non potrebbe, infatti, evincersi «(solo) implicitamente», dovendo l’ordinanza cautelare manifestare chiaramente «un contenuto indicativo della concreta
valutazione» operata.
LA MOTIVAZIONE CAUTELARE TRA INNOVAZIONE E ANTICHI RILIEVI
Occorre, in primo luogo, una ricognizione degli orientamenti emersi in letteratura sulla portata dell’«autonoma valutazione» presente nel rimodulato art. 292 c.p.p. e, più in generale, sul contenuto della
motivazione cautelare; si procederà, quindi, all’analisi dei nuovi confini del potere d’annullamento in
sede di riesame, ridisegnati dalla novella.
È noto che il tema della motivazione dei provvedimenti penali coinvolge anzitutto il diritto di difesa
e, per questa via, l’inviolabilità personale, consentendo al destinatario di conoscere la ratio decidendi del
provvedimento e di predisporre, quindi, un’efficace intervento. Il diritto di “reagire” contro l’esercizio
del potere giudiziario, naturalmente, sarebbe privo di contenuto ove la motivazione mancasse o fosse
solo apparente 4. Peraltro, in tema di misure cautelari, l’obbligo di motivazione – previsto dalla Costituzione, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritto dell’uomo e dal codice di rito penale 5
– assume contenuti ancora più pregnanti.
In materia, ha già fortemente inciso la legge n. 332/1995 6 che, prescrivendo nuovi requisiti diretti ad
integrare il contenuto dell’ordinanza cautelare, ne ha reso «la motivazione più puntuale, articolata e
cogente» 7; il quadro è stato ora completato dalla legge n. 47/2015, nella prospettiva di garantire contenuti ancora più solidi alle garanzie difensive 8. Tale ultima riforma ha, infatti, imposto «un più approfondito e rigoroso vaglio critico sui diversi contenuti della motivazione cautelare» 9, enfatizzando – per
quanto qui d’interesse – il dovere del giudice di rationem reddere: il novellato art. 292 c.p.p. richiede ora
una valutazione che si presenti «autonoma» 10, rispetto agli argomenti del pubblico ministero, in ordine
alle esigenze cautelari, agli indizi e alle ragioni per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi
forniti dalla difesa, con l’obbligo di spiegare il perché le esigenze cautelari non possano essere soddisfatte con misure diverse dalla custodia cautelare in carcere.
3
È sempre la Corte a sostenere qui che «la disposizione novellata [art. 292 c.p.p.] non impone affatto che ciascuna singola circostanza
di fatto, ciascun punto rilevante debba essere nuovamente “scritto” ed autonomamente valutato senza possibilità di rinvio ad altri atti».
4
Sulla funzione della motivazione dei provvedimenti penali, nonché sulle motivazioni apparenti, implicite o sommarie, v.,
per tutti, E. Amodio, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. Dir., vol. XXVII, p. 181 ss. Si è detto anche della funzione
extra-procedimentale della motivazione, che consente «alla collettività un controllo sul delicato esercizio del potere
giurisdizionale», così E. Aprile, La motivazione delle ordinanze cautelari e l’impiego della tecnica informatica del copia-incolla: usi e abusi
nella prassi giudiziaria, in Proc. pen. giust., 2012, 6, p. 106.
5
Si tratta, come noto, rispettivamente delle disposizioni di cui agli artt. 111, comma 6; 13, comma 2, Cost.; 5, § 2, Cedu; 125,
comma 3; 292, comma 2, c) e c-bis), c.p.p.
6
Si allude alla legge 8 agosto 1995 n. 332 (pubblicata in G.U. 8 agosto 1995, n. 184), recante «Modifiche al codice di procedura
penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari, di diritto di difesa».
7
Così, E. Turco, La motivazione dell’ordinanza di riesame: limiti al potere di integrazione, in Cass. pen., 2001, 11, p. 3102 ss.
8
R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, in T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari. Analisi
della l. n. 47 del 16 aprile 2015, Torino, 2015, p. 76.
9
10
Così, R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 76.
Si vedano i novellati artt. 292, comma 2, lett. c) e c-bis) e 309, comma 9, c.p.p.
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La linea trasversale della riforma può, insomma, essere individuata nella volontà di dar vita a un
«rinforzato onere della motivazione» 11 cautelare, presidiato da poteri di controllo 12 più ampi rispetto al
passato in sede di riesame, e verosimilmente destinato a riverberare effetti anche in tema di responsabilità civile dei magistrati 13.
Non sono, d’altra parte, mancate voci dirette ad evidenziare che il contenuto “pregnante” della motivazione cautelare, oggi inequivocabilmente prescritto, non fosse previsione estranea al precedente assetto normativo 14, tra l’altro già novellato, proprio nella medesima prospettiva, dalla riforma del 1995.
Dunque, l’accento posto dal legislatore sull’autonomia valutativa del giudice altro non sarebbe se non
un rinnovato sforzo di reagire ad una sorta di «rinuncia [all’] interpretazione» 15 di regole già vigenti e
desumibili, del resto, anche dall’esegesi del tessuto costituzionale 16.
In altri termini, ad avviso di alcuni 17, l’espressione «autonoma valutazione», che si è ritenuto di aggiungere al corpo dell’art. 292 c.p.p., nulla di nuovo prevedrebbe rispetto al passato, bastando il termine «esposizione», già presente nella norma, ad imporre al giudice il dovere di argomentare la decisione
assunta 18. In tale prospettiva, è parso, anzi, eccessivamente ottimistico, se non fuorviante, ritenere che
la garanzia contro gli abusi del potere cautelare possa risolversi mediante una sorta di «aritmetica degli
aggettivi» 19, che finisce solamente per complicare, nuovamente, l’ordito della norma 20.
Non si manca di rilevare, in tal senso, che l’obbiettivo del rafforzamento delle garanzie difensive,
nonché la risoluzione del connesso problema del sovraffollamento carcerario, emerso con lampante urgenza nella sentenza Torreggiani 21, siano primariamente questioni «di cultura giuridica […] e soprattutto di rispetto dei valori fondamentali» 22 e solo in via eventuale e subordinata di tecnica normativa. Il
11
Così, G. Spangher, Brevi riflessioni sistematiche sulle misure cautelari dopo la l. n. 47 del 2015, in www.penalecontemporaneo.it., 6
luglio 2015, p. 3.
12
Si allude alla modifica che ha investito anche l’art. 309, comma 9, c.p.p. (v. infra).
13
Per questo rilievo, v. G. Spangher, Brevi riflessioni sistematiche sulle misure cautelari dopo la l. n. 47 del 2015, cit., p. 2.
14
V. E. Turco, La riforma delle misure cautelari, in Proc. pen. giust., 2015, 5, p. 106. La medesima osservazione, già con
riferimento alla riforma del 1995, era espressa da G. Giostra, Sul vizio di motivazione dell’ordinanza cautelare, in Cass. pen., 1995, 9,
p. 2429 e, nello stesso senso, E. Turco, La motivazione dell’ordinanza di riesame: limiti al potere di integrazione, cit., p. 3103.
15
Così, G. Illuminati, Commento all’art. 9 l. 8 agosto 1995 n. 332, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti
della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, p. 66. L’espressione citata, che oggi torna attuale, veniva riferita dallo
Studioso all’assetto ancora antecedente alla riforma del 1995.
16
Il richiamo è alle prescrizioni, contenute negli artt. 111, comma 6 e 13, comma 2, Cost., relative all’obbligo di motivazione
dei provvedimenti giurisdizionali. La ratio sottesa alle norme in esame avrebbe già dovuto imporre l’obbligo di una
motivazione esauriente. Il tema è destinato a sortire effetti indiretti anche sul problema delle inaccettabili condizioni di
detenzione, generate dal sovraffollamento carcerario, cui contribuisce anche il ricorso abnorme allo strumento della custodia
cautelare in carcere (v. infra).
17
V. E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit., p. 116 e R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 59.
Nello stesso senso, V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni in tema di misure cautelari, R. n. III/3/2015, in www.cortedicassa
zione.it, p. 22.
18
V. E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit. p. 116.
19
L’espressione, riferita alla tecnica normativa impiegata all’art. 274 c.p.p., è presa in prestito da E. Amodio, Inviolabilità della
libertà personale e coercizione cautelare minima, in Cass. pen., 2014, 1, p. 17.
20
V. R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 59.
21
Corte e.d.u., sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia. In risposta alla condanna emessa dalla Corte e.d.u. nei
confronti dell’ordinamento italiano per le sistematiche violazioni dell’art. 3 Cedu, è stato emanato il d.l. 1° luglio 2013, n. 78,
convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 94. Nel contesto di tale legge, tendente a far fronte alla inadeguatezza
delle strutture penitenziarie e al sovraffollamento carcerario, si segnalano le modifiche agli artt. 280 e 274, lett. c), c.p.p., che
hanno elevato ad anni cinque la soglia della pena massima fissata per i reati ai quali può conseguire l’applicazione della
custodia cautelare in carcere, e l’interpolazione del comma 1 bis dell’art. 275 c.p.p., che ha escluso la custodia cautelare in carcere
in caso di prognosi di condanna a una pena inferiore ad anni tre. Relativamente a questi profili, tuttavia, «è facile intuire come,
di fatto, la motivazione sugli aspetti prognostici affrontati in sede cautelare – soprattutto quando gli argomenti a sostegno
superano la prova di resistenza dinanzi alla Corte di cassazione – influisca sulle scelte finali relative al giudizio sulla pena» Così,
A. Scalfati, Scaglie legislative sull’apparato cautelare, in A. Diddi-R.M. Geraci (a cura di), Misure cautelari ad personam in un triennio
di riforme, Torino, 2015, p. 7.
22
Così, R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 61. Viene in rilievo, oltre all’art. 13 Cost, anche la
prescrizione dell’art. 27, comma 2, Cost. in tema di trattamento penitenziario, la quale non può che trovare applicazione anche
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fatto che non si tratti di questione di articolazione formale delle norme sarebbe testimoniato anzitutto
dalla scarsa efficacia delle riforme 23 che si sono succedute ciclicamente in materia, le quali, dirette tutte
ad arginare gli abusi dello strumento cautelare, hanno tentato e tentano di perseguirne il risultato solo
attraverso «ridondanza di aggettivazione e reiterazione […] di prescrizioni normative» 24, quasi che la
partita si giocasse nel delineare, in modo sempre più preciso, i requisiti della motivazione 25.
Si è rilevato, invece, che l’effettività delle garanzie difensive in materia cautelare – e la messa al bando delle motivazioni apparenti, insufficienti, quando non del tutto assenti 26 – sono obbiettivi da perseguire, non mediante riforme legislative di breve respiro, bensì attraverso la correzione delle prassi 27;
l’apparato cautelare, infatti, non sarebbe oggi carente sotto il profilo strutturale, né avrebbe presentato
particolari défaillances nell’assetto ante-novella: in tal senso, molte sono le disposizioni volte ad escludere in via perentoria la discrezionalità del giudice 28. Il punctum dolens sembra risiedere, piuttosto, nel
momento applicativo, ove ancora «l’eredità inquisitoria fa sentire tutto il suo peso» 29: il ricorso eccessivo, talvolta illegittimo, alle misure cautelari, e in particolare alla custodia in carcere, è, a ben vedere, il
frutto dell’idea che in fase di indagini preliminari non si debba interferire nelle strategie dell’accusa, la
quale, per parte propria, sovente pare avvalersi dello strumento cautelare per ottenere dall’indagato
una collaborazione 30. Insomma – si è sostenuto – l’idea dominante è che «la fase delle indagini [debba]
essere uno spazio dominato dall’interesse della società ad accertare la verità, anzitutto estraendola dalle
labbra del protagonista della vicenda giudiziaria» 31. Gli abusi del potere cautelare e il ricorso abnorme
alle misure coercitive (in specie alla custodia cautelare in carcere), divengono, così, il necessario costo
da pagare a questa prospettiva 32.
Appare chiaro, allora, che finché continuerà a prevalere l’idea di fondo incline «all’impiego (eterodosso) dello strumento cautelare in chiave di “risposta” istituzionale a fenomeni criminali» 33, difficilmente l’intervento legislativo sarà in grado di «ricondurre il potere cautelare nella sua dimensione fisiologica» 34. Forse solo una prospettiva più ampia, di ripensamento complessivo della materia de libertate,
sarebbe capace di contenere realmente l’impiego delle misure cautelari, e specialmente la custodia in
carcere, all’interno dei confini della stretta necessità e della strumentalità all’accertamento, conformemente ai princìpi costituzionali della presunzione di innocenza e della inviolabilità della libertà personale 35.
per le misure cautelari e in special modo per la custodia in carcere; questa, pur non configurandosi come pena detentiva, non ne
differisce relativamente al modo in cui viene espiata dal punto di vista pratico.
23
In passato, oltre alla già menzionata legge di riforma n. 332/1995, la materia de libertate è stata interessata anche dalla l. 7
dicembre 2000, n. 397 e, più recentemente, dal d.l. n. 78/2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 94/2013.
24
Così, G. Giostra, Sul vizio di motivazione dell’ordinanza cautelare, cit., p. 2428, già a proposito degli innesti della riforma del
1995 eseguiti nell’art. 292 c.p.p. Nello stesso senso, ma con riferimento alla novella del 2015, anche E. Turco, La riforma delle
misure cautelari, cit., p. 116, nonché R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 59.
25
V. R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 60.
26
Sul punto, v. infra.
27
E. Amodio, Segreti e bugie. La libertà dell’indagato nel cappio della cultura inquisitoria, in Proc. pen. giust., 2013, 3, p. 3.
28
V. E. Amodio, Segreti e bugie. La libertà dell’indagato nel cappio della cultura inquisitoria, cit., p. 2.
29
Così, E. Amodio, Segreti e bugie. La libertà dell’indagato nel cappio della cultura inquisitoria, cit., p. 2.
30
V. ancora E. Amodio, Segreti e bugie. La libertà dell’indagato nel cappio della cultura inquisitoria, cit., p. 2.
31
Così, E. Amodio, Segreti e bugie. La libertà dell’indagato nel cappio della cultura inquisitoria, cit., p. 2.
32
La Corte europea dei diritti dell’uomo rileva che quel trattamento inumano e degradante, frutto del sovraffollamento
carcerario, e per il quale lo Stato italiano è stato condannato, annovera tra le sue cause prime il numero rilevantissimo dei
detenuti in attesa di giudizio. Questi sfiorano la cifra del 40 % rispetto ai detenuti condannati (v. sent. Corte e.d.u., 8 gennaio
2013, Torreggiani e altri c. Italia, cit.). In proposito, v. le riflessioni di E. Amodio, Inviolabilità della libertà personale e coercizione
cautelare minima, cit., p. 12 ss., nonché i rilievi di A. Diddi-R.M. Geraci, Introduzione, in A. Diddi-R.M. Geraci (a cura di), Misure
cautelari ad personam in un triennio di riforme, cit., p. XIII.
33
Così, A. Scalfati, Scaglie legislative sull’apparato cautelare, in A. Diddi-R.M. Geraci (a cura di), Misure cautelari ad personam
in un triennio di riforme, cit., p. 10.
34
Così, ancora A. Scalfati, Scaglie legislative sull’apparato cautelare, cit., p. 12.
35
De jure condendo, si è pensato a una riforma che incida sulla disciplina dei termini di durata delle misure custodiali, su di
una nuova articolazione del rapporto tra cautele de libertate e interdittive, con preferenza per queste ultime, sulla previsione
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CONFINI PIÙ AMPI DEL POTERE DI ANNULLAMENTO IN SEDE DI RIESAME
Accolta con entusiasmo 36 è stata, invece, la riedizione a opera della legge n. 47/2015 dei poteri di
controllo a disposizione del tribunale del riesame a fronte di motivazioni cautelari prive dei requisiti
richiesti ex art. 292, comma 2, lett. c) e c-bis), c.p.p.
La novella ha, infatti, per larga parte risolto l’annosa querelle in merito ai confini che separano
l’esercizio, da parte del tribunale del riesame, dei poteri d’integrazione da quelli d’annullamento.
Per anni, invero, la norma che, già originariamente, al comma 1 dell’art. 292 c.p.p., prevedeva la sanzione di nullità dell’ordinanza per vizi di motivazione 37, non ha potuto spiegare la potenzialità di tutti i
propri effetti: l’accertamento della nullità e il conseguente annullamento del provvedimento in sede di
riesame era, di fatto, limitato dall’esercizio del potere-dovere di integrare la motivazione che risultasse
carente 38. In altri termini, la coesistenza nell’art. 309, comma 9, c.p.p. del potere d’annullamento e del
potere di «conferma anche per ragioni diverse», rispetto all’ordinanza che presentasse défaillances in
motivazione, si risolveva nella prevalenza assoluta dell’opera di integrazione, intervenendo l’annullamento solo ove la motivazione fosse stata del tutto assente.
Così, quelle motivazioni che, viziate da nullità per mancato rispetto dei requisiti indicati alle lett. c) e
c-bis) dell’art. 292 c.p.p., avrebbero dovuto essere travolte, ad opera del collegio del riesame, da nullità
«rilevabile anche d’ufficio», finivano per trovare proprio in quella sede un salvifico accomodamento 39.
Un paradosso, questo, di cui faceva con tutta evidenza le spese il destinatario del provvedimento cautelare, il quale era nella sostanza privato di un grado di giudizio 40: la denuncia del vizio di motivazione
che si assumeva proprio dell’ordinanza genetica avrebbe potuto trovare accoglimento solo mediante
ricorso per cassazione.
Il sistema de libertate mostrava, insomma, una «duplice distorsione: la restrizione della libertà personale [talvolta disposta] in assenza di un provvedimento motivato e la vanificazione, di fatto, di un grado di controllo» 41.
Tale meccanismo, d’altronde, ha trovato in un primo momento l’avallo della giurisprudenza di legittimità. Si è, infatti, sostenuto 42 che, attesa la natura interamente devolutiva del riesame, il tribunale, in
alternativa alla riforma del provvedimento 43, avrebbe potuto solo integrare le eventuali lacune argomentative del primo giudice (mediante conferma per ragioni diverse), pur quando esse avessero dato
luogo a nullità ex art. 292, comma 2, lett. c) e c-bis) c.p.p. 44. La nullità derivante da difetti di motivazione, sarebbe stata, insomma, rilevabile solo dalla Corte di cassazione, nella sua qualità di giudice di legittimità 45.
della libertà su cauzione. V., in tema, A. Scalfati, Scaglie legislative sull’apparato cautelare, cit., p. 12, nonché E. Amodio, Segreti e
bugie. La libertà dell’indagato al cappio della cultura inquisitoria, cit., p. 3.
36
V. G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, in Dir. pen. proc., 2015, 5, p. 531 ss.; E. Turco, La riforma delle misure
cautelari, cit., p. 117 ss.; R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 58.
37
Questi ricorrevano ove non fossero stati rispettati i requisiti di cui alle lett. c) e c bis) dell’art. 292 c.p.p.
38
V. G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, cit., p. 532.
39
V. R. del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 58.
40
V. R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit., p. 71.
41
Così, R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, cit. p. 71.
42
Ex plurimis, Cass., sez. II, 20 aprile 2012, n. 30696, in CED Cass., n. 253326; Cass., sez. III, 30 novembre 2011, n. 15416, in
CED Cass., n. 250306.
43
Prevista anch’essa, come noto, al comma 9 dell’art. 309 c.p.p.
44
La lett. c bis) del comma 2, art. 292, c.p.p. è stata aggiunta ex novo dalla riforma del 1995. Questa ha anche integrato il
disposto della lett. c) del medesimo articolo.
45
V. di recente Cass., n. 15416/2011, cit . Anche parte della dottrina era inizialmente schierata nell’escludere in capo al
tribunale del riesame il potere di annullamento del provvedimento genetico in presenza di un vizio di motivazione (tra gli altri,
F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1995, p. 508; R. Orlandi, Riesame del provvedimento cautelare privo di motivazione, in Cass. pen.,
1996, p. 1521.) Tale orientamento era maturato in vigenza del codice abrogato, sul presupposto che il provvedimento impugnato
e quello successivo fossero tra loro complementari, il che avrebbe consentito al secondo giudice di sanare i vizi di legittimità
dell’atto genetico (una teoria di fondo, della fattispecie complessa ed unitaria, enunciata da G. Conso, I fatti giuridici processuali
penali. Perfezione ed efficacia, Milano, 1955, p. 113 ss.). Nel senso, invece, di ritenere che l’indagine del tribunale del riesame si estendesse tanto al merito, quanto alla legittimità dell’ordinanza impugnata, v. M. Ceresa-Gastaldo, Il riesame delle misure
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Come noto, invece, in tempi più recenti tale orientamento è stato superato da una giurisprudenza
più rigorosa. Questa ha espressamente chiarito che il potere-dovere, attribuito al tribunale del riesame
di confermare le ordinanze impugnate «per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del
provvedimento stesso» ex art. 309, comma 9, c.p.p., non è esercitabile qualora la motivazione di quest’ultimo sia radicalmente assente o meramente apparente, dovendo, in tali casi, essere rilevata la nullità dell’ordinanza impugnata per violazione di legge 46.
La soluzione ermeneutica esposta ha cercato il proprio fondamento anzitutto nel sistema delle competenze funzionali delineate dal codice in materia de libertate. Infatti, legittimare il giudice del riesame a
motivare ex novo un’ordinanza priva del tutto di motivazione avrebbe significato affidare ad esso, in via
arbitraria, poteri-doveri funzionalmente attribuiti al primo giudice. In secondo luogo, emerge un presupposto a carattere logico: perché si possa, in sede di controllo, confermare o, al contrario, riformare il
contenuto di una motivazione (sia pure mediante argomentazioni differenti), è necessario che una motivazione giuridicamente apprezzabile esista 47.
Inoltre, in tempi ancor più recenti, la giurisprudenza ha precisato che il tribunale del riesame deve
procedere ad annullamento anche qualora l’ordinanza coercitiva impugnata non presenti un contenuto
dimostrativo circa l’effettivo esercizio di un’autonoma valutazione 48; dunque, l’ordinanza cautelare valida (eventualmente integrabile in sede di riesame) deve fondarsi su di un iter argomentativo completo
che emerga dal contenuto dall’ordinanza stessa.
Ebbene, la legge n. 47/2015 ha recepito e codificato proprio tali recenti arresti, aggiungendo l’«autonoma valutazione» quale requisito indefettibile per la validità dell’ordinanza cautelare. Pertanto, in caso di motivazione insufficiente, perché il collegio del riesame possa esercitare il potere di integrazione o
di riforma, è oggi necessario che la motivazione, per quanto carente, contenga, in ogni caso, l’autonoma
valutazione del primo giudice. In diversa ipotesi, il collegio dovrà procedere ad annullamento ai sensi
del novellato comma 9 dell’art. 309 c.p.p.
Come si è rilevato in letteratura, definiti i criteri del contenuto minimo della motivazione in mancanza dei quali l’ordinanza deve essere annullata, «resta, tuttavia, all’interprete il compito di individuare i vizi dell’ordinanza cautelare che [invece] possono essere “sanati”» 49: è, infatti, sopravvissuta alla
riforma la facoltà del tribunale di confermare l’ordinanza, dotandola di una motivazione fondata su ragioni diverse da quelle enunciate nel provvedimento impugnato 50. A tale riguardo, dovrebbero, venire
in soccorso le soluzioni elaborate da quel filone della giurisprudenza che, nel corso del tempo, aveva
posto condizioni e divieti alle frequenti tipologie di difetti dell’apparato argomentativo cautelare, non
coercitive nel processo penale, Milano, 1993, p. 183 ss. e M. Ferraioli, Il riesame “anche nel merito”. Origine e natura di un rimedio,
Torino, 2012, p. 106 ss.; Id., Legalità e merito nel procedimento di riesame, in Proc. pen. giust, 2013, 1, p. 86 ss.
46
Cass., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 12537, in CED Cass., n. 259554.
47
Si vedano sul punto, le riflessioni di E. Aprile, La motivazione delle ordinanze cautelari e l’impiego della tecnica del “copia
incolla”: usi e abusi nella prassi giudiziaria, cit., p. 105 ss. Tra le questioni affrontate dall’Autore, vi è quella dell’indagine sulla
legittimità o meno dell’esercizio dei poteri integrativi da parte del tribunale del riesame a fronte di ordinanze la cui la motivazione, pur sussistendo dal punto di vista giuridico, sia il frutto di un acritico recepimento delle argomentazioni altrui, tale
da non consentire l’individuazione della ratio decidendi seguita dal giudice. Se, infatti, ancora nel 2012 la giurisprudenza dominante ammetteva ormai l’annullamento, in sede di riesame, dell’ordinanza la cui la motivazione fosse assente dal punto di vista
grafico, ovvero si risolvesse in una mera clausola di stile, si presentava minoritario l’indirizzo favorevole all’annullamento a
fronte di una motivazione giuridicamente completa, pur se “copiata” da atti predisposti da terzi [per l’indirizzo all’epoca
minoritario, v. Cass., sez. VI, 24 maggio 2012, n. 22327, in Proc. pen. giust, 2012, p. 91 ss., con nota critica di E. Mariucci].
48
Cass., sez. VI, 13 marzo 2014, n. 12032, in CED Cass., n. 259462.
49
Così, E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit., p. 118.
50
A tale proposito, si è sostenuto, da parte di alcuni, che il tribunale del riesame resterebbe in ogni caso titolare di ampi
poteri di merito, rispetto ai quali il potere d’annullamento avrebbe natura di eccezione. Secondo tale impostazione, ad esempio,
i poteri di integrazione non sarebbero preclusi qualora la motivazione risultasse carente, non già dell’«autonoma valutazione»,
ma solo dell’«esposizione» degli elementi indicati nell’art. 292 c.p.p.: tale interpretazione sarebbe imposta dalla lettera dell’art.
309, comma 9, c.p.p. (V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni in tema di misure cautelari, cit., p. 21 ss.). In merito, occorre
ricordare che una proposta circa la completa eliminazione dei poteri di integrazione in capo al collegio del riesame era stata
avanzata (Commissione Canzio, istituita, con decreto ministeriale il 10 giugno 2013, presso l’Ufficio legislativo del Ministero
della Giustizia). In termini contrari, E. Marzaduri, Verso una maggiore tutela dell’imputato nel procedimento di riesame: luci ed ombre
della nuova disciplina, in www.lalegislazionepenale.eu, p. 12 ss.; secondo l’Autore, qualora il giudice fornisca un’esposizione carente
degli elementi indicati all’art. 292 c.p.p., non potrebbe poi prospettare una valutazione conforme al nuovo dettato normativo.
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emendabili in sede di riesame 51 (motivazioni meramente apparenti fondate sulla tecnica del “copiaincolla” 52, motivazioni esclusivamente per relationem 53, riedizioni dei compendi investigativi assunti
come auto-evidenti 54, trascrizioni del contenuto di intercettazioni telefoniche 55, meri rinvii a schede
personali della polizia giudiziaria 56, etc.).
La novella del 2015, perseguendo una sempre maggiore effettività della giurisdizione cautelare, ha
inteso mettere al bando l’acritico recepimento di valutazioni e descrizioni predisposte in altre sedi, tanto da far dubitare anche della perdurante legittimità delle motivazioni per relationem 57.
Infine, è stato evidenziato 58 che la novella del 2015 risulta coerente anche con il cammino tendente al
«giusto processo cautelare», epilogo di un percorso che ha visto nel tempo sfumare parte delle differenze tra decisione cautelare e decisione di merito 59. In proposito, già la riforma del 1995 aveva tratteggiato
per l’ordinanza cautelare uno schema di motivazione assimilabile a quello della sentenza, sia pur nelle
manifeste differenze tra giudizio prognostico e giudizio di responsabilità: con l’intervento legislativo
della legge n. 332/1995, l’art. 292 c.p.p. ha ormai imposto al giudice della misura coercitiva di giustificare sia l’esito positivo della valutazione relativa agli elementi a carico, sia le ragioni della ritenuta non
rilevanza degli elementi a difesa, secondo cadenze simili a quelle previste ex art. 546, comma 1, lett. e),
c.p.p. per la sentenza dibattimentale. Tale obbiettivo appare perseguito anche dalla riforma del 2015,
che, a riguardo, prescrivendo uno sforzo argomentativo maggiore in sede cautelare, unitamente alla verifica da parte del giudice del riesame circa l’autonoma valutazione compiuta dal primo, sembra «fare
del riesame uno strumento di stabilità e solidità del provvedimento restrittivo» 60, ancor più capace di
determinare un’anticipazione del giudizio di merito 61; tale esito, pur generato da una condivisibile finalità, andrebbe tuttavia scongiurato per la perdita di garanzie cui si andrebbe incontro negli sviluppi
processuali successivi (su tutti, prognosi dibattimentale e richiesta di riti premiali) 62.
BREVI RILIEVI FINALI
La sentenza annotata, sembra doversi apprezzare sotto il profilo delle conclusioni cui perviene, ritenendo insufficiente ai fini della validità dell’ordinanza che l’autonoma valutazione del giudice possa
desumersi per implicito o per facta concludentia (e, in particolare, secondo l’argomentazione del pubblico
ministero ricorrente, sulla base dello stralcio, da parte del giudice per le indagini preliminari, di talune
posizioni rispetto a tutte quelle per le quali la parte pubblica aveva richiesto un provvedimento di custodia cautelare in carcere). La pronuncia valorizza, quindi, l’indirizzo giurisprudenziale più recente 63:
i poteri di integrazione del tribunale del riesame incontrano un limite al loro esercizio dinanzi alla motivazione priva di un contenuto dimostrativo autonomo.
51
Per una completa casistica, qui riportata solo per sommi capi, v. L. Semeraro, Non solo taglia e incolla – parte prima, in Gli
speciali di Questione giustizia, 2015, p. 4 ss.
52
Cass., sez.VI, 13 marzo 2014, n. 12032, in CED Cass., n. 259462.
53
Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, in CED Cass., n. 216664, ove la Cassazione ha indicato espressamente le condizioni
alle quali l’ordinanza cautelare può operare la relatio a un atto formato in altra sede.
54
Cass., sez. VI, 14 giugno 2013, n. 27928, in CED Cass., n. 256262.
55
Cass., sez. III, 15 luglio 2010, n. 33753, in CED Cass., n. 249148.
56
Cass., sez. VI, 1° febbraio 2007, n. 35823, in CED Cass., n. 237841.
57
Lo esclude nettamente G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, cit., p. 529; Id., Le impugnazioni cautelari si
rinnovano, in G.M. Baccari-K. La Regina-E.M. Mancuso (a cura di), Il nuovo volto della giustizia penale, Padova, 2015, p. 461 ss. In
senso dubitativo, R. Del Coco, Il rinnovamento delle misure cautelari, cit., p. 75. Sul punto è possibilista E. Turco, La riforma delle
misure cautelari, cit., p. 118 ss. Quanto alla sentenza annotata, essa ritiene niente affatto precluso il rinvio a valutazioni altrui.
58
V. L. Semeraro, Non solo taglia e incolla – prima parte, cit. p. 5.
59
Cass., sez. un., 30 maggio 2006, n. 36267, in CED Cass., n. 234598.
60
Così G. Spangher, Brevi riflessioni sistematiche sulle misure cautelari dopo la l. n. 47 del 2015, cit., p. 4.
61
In questo senso, ancora G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, cit., p. 535.
62
In questo senso, G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, cit., p. 535; Id., Brevi riflessioni sistematiche sulle misure
cautelari dopo la l. n. 47 del 2015, cit., p. 4. Nello stesso senso, R. Del Coco, Il rinnovamento delle misure cautelari, p. 63 ss.
63
Cass., 13 marzo 2014, n. 12032, cit.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | CONFINI PIU’ NETTI TRA ANNULLAMENTO E INTEGRAZIONE DELL’ORDINANZA ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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Alla luce del rinforzato obbligo di motivazione, e dei connessi poteri d’annullamento in sede di riesame, non sembra, invece, potersi condividere il rilievo – che, per la verità, nella pronuncia figura solo
tra gli obiter dicta – secondo il quale la novella non imporrebbe al giudice anche un’autonoma valutazione su ogni circostanza di fatto, ancorché rilevante, consentendogli anzi il rinvio ad altri atti. In proposito, la recente novella intende recidere proprio la prassi dell’acritico e deresponsabilizzante rinvio ad atti
formati in altre sedi, ribadendo la necessità di una motivazione esauriente sui temi pertinenti all’adozione della misura. Il maggiore sforzo argomentativo richiesto al giudice non potrebbe allora non investire «ciascun punto rilevante» della vicenda cautelare: la relatio alle argomentazioni del pubblico ministero o alle informative della polizia, perlomeno nei casi in cui la circostanza si presenti importante per
l’adozione della misura, non dovrebbe più essere ammessa.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | CONFINI PIU’ NETTI TRA ANNULLAMENTO E INTEGRAZIONE DELL’ORDINANZA ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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Particolare tenuità del fatto nel giudizio davanti al giudice di
pace e mancata comparizione della persona offesa
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 16 LUGLIO 2015, N. 43264 – PRES. SANTACROCE; REL.
CONTI
Nel procedimento davanti al giudice di pace, dopo l’esercizio dell’azione penale, la mancata comparazione in udienza della persona offesa, ritualmente citata ancorché irreperibile, non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di
particolare tenuità del fatto, in quanto l’opposizione, prevista come condizione ostativa dall’art. 34 comma terzo
d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, deve essere necessariamente espressa e non può essere desunta da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà in tal senso.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. All’esito del dibattimento a carico di T.S, tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all’art.
594, primo e secondo comma, cod. pen. in danno di S.B., il Giudice di Pace di Chiusa, con sentenza in
data 28 gennaio 2014, riteneva sussistenti i presupposti per dichiarare il fatto di particolare tenuità, a
norma dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000 (formalmente dichiarando «l’estinzione del reato» ascritto
all’imputato).
Il Giudice perveniva a tale decisione osservando che la persona offesa non era comparsa, da ciò ricavandone la sua mancanza di «interesse al procedimento» e la non persistenza di una «richiesta di risarcimento e di condanna dell’imputato»; e inoltre che il danno causato dalla condotta incriminata era
«minimo» e che l’imputato, di giovane età, era la prima volta che trasgrediva la legge penale.
2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la sezione distaccata della Corte di appello di Trento con sede in Bolzano, che, con un primo
motivo, denuncia la violazione dell’art. 34, comma 3, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, osservando che erroneamente il Giudice aveva tratto dalla mancata comparizione della persona
offesa la mancanza di interesse di questa all’esito del procedimento penale.
Detta norma, ad avviso dell’Ufficio ricorrente, implica che dopo l’esercizio dell’azione penale «l’estinzione del procedimento per la particolare tenuità del fatto» può essere dichiarata «solo quando
l’imputato e la persona offesa non si oppongono», e cioè solo se «presentano il loro consenso a quel
tipo di definizione del procedimento»; invece, nel caso in esame, il giudice a quo, aveva espresso il
suo convincimento sulla base di una mera presunzione.
Secondo l’univoca giurisprudenza della Corte di cassazione – si osserva – l’estinzione [sic] del procedimento non può aver luogo «senza il consenso» della persona offesa, essendo irrilevante che essa
«non è comparsa o è irreperibile».
Nel caso in esame né l’imputato – che non aveva rilasciato dichiarazioni di alcun tipo – né la persona
offesa – che era rimasta assente in quanto irreperibile e che quindi non era a conoscenza della fissazione
della udienza – avevano prestato il consenso a un simile esito.
Con un secondo motivo, in relazione alla mancata citazione della persona offesa, si denuncia la violazione degli artt. 90, 190, 157, 177, comma 5, 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., e dell’art. 20, nn. 3
e 6 [recte, ora, commi 4 e 6], d.lgs. n. 274 del 2000, sul rilievo che non era stato fatto alcun tentativo di citare la persona offesa, la quale si era trasferita nella città di Essen in Germania, pur essendo il Pubblico
ministero a conoscenza della sua nuova residenza e del suo numero di telefono cellulare.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE
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Con un’ulteriore considerazione, formalmente svincolata dai motivi di ricorso, si osserva conclusivamente che, a seguito della condotta dell’imputato, la persona offesa aveva perso il suo posto di lavoro, sicché nemmeno dal punto di vista oggettivo potevano dirsi ricorrere i presupposti per una sentenza
di irrilevanza del fatto.
3. La Quinta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza in data 10 aprile-15 maggio
2015, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 cod. proc. pen., ravvisando un contrasto di
giurisprudenza circa il quesito se la mancata comparizione della persona offesa alla udienza davanti al
giudice di pace implichi di per sé una opposizione a che il procedimento sia definito con una dichiarazione di particolare tenuità del fatto a norma dell’art. 34, comma 3, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
Nell’ordinanza sono passate in rassegna le differenti posizioni giurisprudenziali.
3.1. Secondo un primo orientamento, al quale si allinea l’Ufficio ricorrente, la mancata comparizione
della persona offesa in udienza non può essere interpretata come una volontà di non opposizione rispetto ad una meramente eventuale valutazione del giudice circa la particolare tenuità del fatto, trattandosi di un fatto neutro, non espressivo di alcuna specifica volontà.
Secondo altro filone giurisprudenziale, la decisione della persona offesa di non comparire in
udienza implica una volontà di rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà processuali previste dalla
legge, tra cui quella di opporsi all’esito del procedimento per particolare tenuità del fatto.
3.2. La Quinta Sezione ha quindi ritenuto di investire le Sezioni Unite del quesito se al comportamento di per sé neutro dell’assenza in giudizio della persona offesa possa attribuirsi il significato positivo di opposizione alla dichiarazione di improcedibilità per particolare tenuità del fatto nel procedimento davanti al giudice di pace.
4. Con decreto in data 8 giugno 2015, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite
penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione della quale sono investite le Sezioni Unite, è enunciabile nei seguenti termini: “Se,
dopo l’esercizio dell’azione penale, la mera mancata comparizione della persona offesa alla udienza davanti al giudice di pace, in assenza di altri dati significativi, impedisca di ritenere che la stessa non si opponga alla definizione
del procedimento per particolare tenuità del fatto a norma dell’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274”.
2. Appare opportuno riportare preliminarmente il testo dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000: «(Esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto). – 1. Il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio,
di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato. – 2. Nel corso delle indagini
preliminari, il giudice dichiara con decreto d’archiviazione non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento.
– 3. Se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono.».
3. Nel caso in esame, come esposto nella parte in fatto, il Pubblico ministero ricorrente, oltre a denunciare la violazione del comma 3 del citato art. 34, tema su cui ci si soffermerà più oltre, ha dedotto la
violazione degli artt. 90, 190, 157, 177, comma 5, 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., e dell’art. 20,
nn. 3 e 6 [recte, commi 4 e 6], d.lgs. n. 274 del 2000, sul rilievo che non era stato fatto alcun tentativo di
citare la persona offesa, la quale si era trasferita nella città di Essen in Germania, pur essendo il Pubblico ministero territoriale a conoscenza della sua nuova residenza e del suo numero di telefono cellulare.
Tale censura, che ha evidentemente natura pregiudiziale, investendo la ritualità del procedimento,
appare manifestamente infondata.
Risulta infatti incontrovertibilmente dagli atti che la persona offesa S.B. venne inutilmente cercata sia
presso la dichiarata sua residenza in Ortisei sia, poi, in quella di Valdaora, ove, da informazioni assunte
dalla p.g. e dalle risultanze anagrafiche, risultava essersi trasferita a decorrere dal 27 aprile 2010 e fino
al 6 novembre 2012, data di cancellazione della iscrizione anche in quest’ultimo comune; e che poi infruttuosamente a più riprese si cercò di contattare la medesima tramite l’attivazione del numero di telefono cellulare fornito dalla matrigna E.D. (la quale aveva riferito che da circa due anni la figliastra si era
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE
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trasferita in una non meglio precisata residenza nella città di Essen, in Germania) che squillava continuamente come occupato.
Quindi, essendo risultato vano ogni tentativo di reperire la persona offesa nelle due località italiane
(Ortisei e Valdaora) nelle quali essa risultava già avere avuto residenza, e non essendo stato possibile
acquisire alcuna precisa indicazione del luogo di residenza o di dimora della medesima all’estero (al dì
là della generica indicazione di un suo trasferimento in Essen), correttamente il processo si è svolto in
sua assenza, previo deposito dell’atto di citazione in cancelleria, come previsto, proprio per la persona
offesa, dall’art. 154, comma 1, cod. proc. pen.
Èappena il caso di osservare che la speciale disciplina per la citazione a giudizio prevista nel procedimento davanti al giudice di pace dall’art. 20 d.lgs. n. 274 del 2000 – richiamato dal ricorrente – in nulla deroga, quanto alle forme di notificazione e agli adempimenti ad essa connessi, a quella prevista per
la persona offesa dalla sopra richiamata norma codicistica.
4. Merita inoltre di puntualizzare che l’argomento finale esposto dal Pubblico ministero ricorrente (il
fatto non era da considerare tenue, perché la persona offesa aveva perso il posto di lavoro in conseguenza della condotta posta in essere dall’imputato) non può essere preso in considerazione, sia perché
non collegato a uno specifico motivo di ricorso, con conseguente violazione dell’art. 581, comma 1, lett.
c), cod. proc. pen., sia, comunque, in quanto non poggiante su alcun dato processuale obbiettivo, rivelandosi quindi meramente assertivo.
Si deve dunque ritenere irrevocabilmente accertato nella specie il presupposto oggettivo della particolare tenuità del fatto, come delineato dal comma 1 dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.
5. Occorre pertanto procedere all’esame della questione di diritto, enunciata al § 1, che investe il dettato del comma 3 dell’art. 34 del decreto citato («Se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono»).
6. Sul tema, come esposto nell’ordinanza di rimessione, appare effettivamente sussistere un contrasto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità.
6.1. Secondo un primo orientamento, che è quello privilegiato dall’Ufficio ricorrente, la mancata
comparizione della persona offesa in udienza non può essere interpretata come una volontà di non opposizione rispetto ad una meramente eventuale valutazione del giudice circa la particolare tenuità del
fatto (Sez. 5, n. 49781 del 21/09/2012, Sabouri, Rv. 254833), trattandosi di un fatto neutro, non espressivo di alcuna specifica volontà (Sez. 5, n. 33763 del 09/07/2013, De Cicco, Rv. 257121); e, pur potendosi
ricavare la volontà della persona offesa di non opporsi a una simile definizione del procedimento anche
da fatti sintomatici, non occorrendo una formale dichiarazione a ciò intesa, tali fatti devono essere univoci, ossia specificamente rivelatori di una volontà non ostativa a un siffatto esito liberatorio del procedimento (Sez. 5, n. 33689 del 07/05/2009, Bakiu, Rv. 244609; Sez. 5, n. 16689 del 03/03/2004, Frascari,
Rv. 229860).
Nello stesso senso, da ultimo, Sez. 5, n. 17965 del 26/03/2014, Makula, n.m.
Nell’ambito di tale filone interpretativo si richiama talvolta l’insegnamento giurisprudenziale derivante in primo luogo da Sez. U, n. 46088 del 30/10/2008, Viele, Rv. 241357, secondo cui nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione del p.m. la mancata comparizione del
querelante, pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata concludente nel senso di una remissione tacita della querela, non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa.
6.2. Secondo altro filone giurisprudenziale, la decisione della persona offesa di non comparire in
udienza implica una volontà di rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà processuali previste dalla legge,
tra cui quella di opporsi all’esito del procedimento per particolare tenuità del fatto (Sez. 5, n. 9700 del
05/12/2008, dep. 2009, Arhni, Rv. 242971); non richiedendo d’altra parte l’art. 34 necessariamente la
presenza della persona offesa (Sez. 4, n. 25917 del 17/06/2003, Ritucci, Rv. 225676), e inquadrandosi un
tale esito con le caratteristiche peculiari del procedimento davanti al giudice di pace, come tendenzialmente rivolto alla composizione del conflitto tra imputato e soggetto leso dal reato (Sez. 3, n. 48096 del
06/11/2013, Tavernaro, Rv. 258054; Sez. 4, n. 41702 del 26/10/2004, Rv. 230278, Nuciforo).
Nel senso che il silenzio della p.o. non può essere considerato come atto sintomatico di opposizione,
da ultimo, Sez. 2, n. 37525 del 13/05/2014, Kokal, n.m.
7. È innanzi tutto il caso di notare che la sentenza liberatoria per la tenuità del fatto era già prevista
dal nostro ordinamento, come causa di improcedibilità dell’azione penale, nell’ambito del processo mi-
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norile (art. 27 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448: «Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del
fatto») ed è stata recentemente estesa al procedimento penale “ordinario” – qui come causa di non punibilità – ad opera della d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (introduttivo dell’art. 131-bis cod. pen.: «Esclusione
della punibilità per particolare tenuità del fatto»)
Né l’uno né l’altro di questi ulteriori istituti – che valorizzano in senso liberatorio la “tenuità” del
fatto (questo è anche il presupposto testualmente considerato dall’art. 27 mm, che pur si riferisce nella
rubrica alla “irrilevanza del fatto”) – contempla una facoltà inibitoria esercitabile – oltre che dall’imputato – dalla persona offesa, a differenza di quanto prevede l’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000. La diversità
è verosimilmente inquadrabile nella valutazione del legislatore circa la natura eminentemente “conciliativa” della giurisdizione di pace, che dà risalto peculiare alla posizione dell’offeso dal reato, tanto da
attribuirgli, nei reati procedibili a querela, un (singolare) potere di iniziativa nella vocatio in jus (art. 21
d.lgs. n. 274 del 2000)
Questa facoltà inibitoria venne sottoposta a scrutinio di costituzionalità dal Giudice di pace di Napoli (con ordinanza del 14 ottobre 2004), tra l’altro, sotto il profilo della violazione degli artt. 101 [secondo
comma] e 111 [secondo comma] Cost., attribuendosi a una parte la facoltà insindacabile di porre un veto al potere del giudice di apprezzare i presupposti per un esito del processo in senso liberatorio, nonché per violazione dell’art. 76 Cost., non prevedendo la legge delega n. 468 del 1999 un simile potere
inibitorio, e per violazione dell’art. 3 Cost., stante la irragionevole discriminazione tra imputati maggiorenni e minorenni, proprio per la mancata previsione nel procedimento minorile di un analogo potere
di veto della persona offesa. Tali censure (ed altre) non sono state prese in considerazione, nel merito,
dalla Corte costituzionale, che, con ordinanza n. 63 del 2007 (sulla quale ci si soffermerà oltre), ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile, per ritenuta erroneità del presupposto interpretativo dal quale aveva preso le mosse il giudice rimettente: ma è il caso di rilevare incidentalmente che il
potere inibitorio della persona offesa del reato, concepito dal comma 3 dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000
come insindacabile, potrebbe indurre a riflessioni orientate nel senso della serietà dei dubbi di costituzionalità espressi a suo tempo dal Giudice di pace di Napoli.
Di ciò tuttavia non ci si dovrà qui occupare, dovendo il ricorso essere rigettato, per le considerazioni
che ci si accinge ad esporre. In particolare, stante la infondatezza del ricorso, non può assumere nella
specie alcuna rilevanza la prospettiva, avanzata in sede dottrinale, di una possibile sovrapposizione
della disciplina generale di cui all’art. 131-bis cod. pen. su quella della particolare tenuità del fatto disciplinata nell’ambito del procedimento davanti al giudice di pace dall’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.
8. Entrambi i filoni giurisprudenziali di cui si è sopra dato conto si impegnano nel definire la mancata comparizione in udienza della persona offesa, per lo più, in termini indicativi, ora in senso negativo
(v. orientamento sub § 6.1.) ora in senso positivo (v. orientamento sub § 6.2.), di una manifestazione di
acquiescenza ad un esito del processo di improcedibilità per particolare tenuità del fatto, ai fini di quanto previsto dal comma 3 dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.
Il difetto di tale impostazione è il presupposto secondo cui, dopo l’esercizio dell’azione penale, perché si possa pervenire a un simile esito liberatorio occorra accertare un’adesione – implicita o esplicita –
della persona offesa (o dell’imputato).
Sennonché, la norma in esame non richiede da parte della persona offesa (come dell’imputato)
un’adesione a un simile esito, stabilendo invece che esso sia escluso solo in presenza di una presa di posizione che abbia il valore di una “opposizione”. In altri termini, come perspicuamente osservato dalla
Corte costituzionale nella citata ordinanza n. 63 del 2007, l’art. 34, comma 3, «prevede, ai fini dell’operatività dell’istituto de quo, nella fase successiva all’azione penale, non già una condizione positiva (il
“consenso”), ma una condizione negativa (la non opposizione; “se l’imputato e la persona offesa non si
oppongono”)».
9. Il tenore della disposizione conduce a far ritenere che tale volontà di opposizione deve essere necessariamente espressa, non potendosi desumere da atti o comportamenti che non abbiano il carattere
di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà.
Va peraltro ritenuto che la volontà di opposizione possa essere manifestata anche attraverso memorie (art. 90, comma 1, cod. proc. pen.); e che essa sia implicita nei casi in cui la persona offesa, costituitasi, in quanto soggetto danneggiato dal reato, quale parte civile, formuli in udienza, a mezzo del procuratore speciale, richiesta di risarcimento dei danni.
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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Occorre, beninteso, che la persona offesa sia stata messa in grado di esprimere la sua eventuale opposizione. Sicché non potrebbe essere pronunciata sentenza liberatoria se essa non sia citata in dibattimento, pur essendo noti gli elementi indicativi della sua residenza o dimora; né potrebbe essere adottata tale pronuncia da parte del giudice investito della richiesta di decreto penale di condanna (v. in tal
senso Sez. 1, n. 16310 del 26/04/2005, Colozzo, Rv. 231331). Ma certamente la legge non impone un’apposita convocazione della persona offesa specificamente preordinata a raccogliere la sua eventuale opposizione, dovendo per postulato legale presumersi che essa possa
prospettarsi un esito liberatorio nel caso di una sua mancata comparizione in sede dibattimentale.
Può discutersi solo se una simile presa di posizione inibitoria debba provenire personalmente dalla
persona offesa (o dall’imputato) e se essa possa manifestarsi solo in sede processuale.
La risposta al primo di tali quesiti sembra dovere essere nel senso che si tratta di un atto personalissimo, in quanto l’opposizione di cui si discute, incidendo sulla procedibilità dell’azione penale, rientra
tra il genere di atti «idonei a determinare il contenuto della pronuncia» (per questa qualificazione, in
termini generali, v. Sez. U, n. 47923 del 29/10/2009, D’Agostino, in particolare al § del Considerato in diritto); con la conseguenza che possono dirsi abilitati a esprimere una simile volontà la persona offesa (e
l’imputato) personalmente o a mezzo di procuratore speciale, e non il difensore o altri soggetti, fatta eccezione, beninteso, per i casi di rappresentanza della persona offesa minore, interdetta o inabilitata (v.
art. 90, comma 2, cod. proc. pen.).
Quanto al secondo quesito, deve ritenersi che la volontà di opposizione debba essere manifestata solo dopo l’esercizio dell’azione penale, perché questo è il presupposto formalmente preso in considerazione dalla citata disposizione, essendo dunque inidonea una espressione di opposizione formulata
“ora per allora” prima di tale cadenza processuale.
10. Dunque, la mancata partecipazione al dibattimento della persona offesa (regolarmente citata o irreperibile) è affatto irrilevante ai fini dell’abilitazione del giudice a valutare la sussistenza dei presupposti considerati dal comma 1 dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, non potendosi desumere da detta situazione alcuna volontà di opposizione alla pronuncia di improcedibilità per tenuità del fatto.
In linea con tale regime appare, d’altro canto, il disposto dell’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen.,
che, ai fini della pronuncia di sentenza predibattimentale per la particolare tenuità del fatto ai sensi
dell’art. 131-bis cod. pen., richiede che la persona offesa sia citata, potendosi tuttavia prescindere dall’acquisizione della sua volontà se essa non compare. Sicché, sia che la persona offesa abbia un potere
di interdizione (art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274 del 2000) sia che essa debba solo essere messa in grado di
interloquire (art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen.), nei vari casi in cui l’ordinamento prevede procedure intese ad accertare la particolare tenuità del fatto, la mancata comparizione della persona offesa non
impedisce l’adozione della sentenza liberatoria.
Siffatta conclusione non può dirsi collidere con quanto affermato da Sez. U, n. 46088 del 2008, Viele,
cit., secondo cui nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione del p.m.
la mancata comparizione del querelante — pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe considerata concludente nel senso di una remissione tacita della querela — non costituisce
fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa. Come avvertito dalla stessa ordinanza di
remissione della Quinta Sezione, da tale principio – improntato per il vero a estremo rigore nella definizione della nozione di remissione extraprocessuale della querela, in una ipotesi di esplicito avvertimento del giudice circa le conseguenze di una mancata partecipazione al dibattimento – non possono
ricavarsi conclusioni sovrapponibili all’istituto della particolare tenuità del fatto, dato che mentre in
forza dell’art. 152 cod. pen. l’effetto estintivo si determina in base a un comportamento del querelante
dal quale è ricavabile una volontà di rimettere la querela, nel caso di cui all’art. 34, comma 3, d.lgs. n.
274 del 2000, un comportamento dell’offeso è – all’opposto – richiesto per impedire il verificarsi della
causa di non procedibilità.
11. È opportuno precisare che una diversa disciplina è prevista per la fase precedente l’esercizio
dell’azione penale. Qui l’esito liberatorio non è impedito da una formale dichiarazione di opposizione
della persona offesa, ma dall’apprezzamento da parte del giudice di un «interesse della persona offesa
alla prosecuzione del procedimento» (art. 34, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000); potendo questo interesse
essere desunto dal giudice da qualsiasi elemento di valutazione, ivi compreso quello reso esplicito attraverso un formale atto di opposizione.
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Resta fermo che, una volta introdottasi la fase dibattimentale, la persona offesa potrà inibire la dichiarazione di improcedibilità per particolare tenuità del fatto solo reiterando formalmente, in quella
sede, la sua dichiarazione di opposizione, che non potrebbe ripetere automaticamente da quella eventualmente già espressa una valenza “ora per allora”, proprio per la nuova prospettiva processuale che è
aperta dallo scenario dibattimentale.
12. Deve dunque essere affermato il seguente principio di diritto: “Nel procedimento davanti al giudice di pace, dopo l’esercizio dell’azione penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa, regolarmente citata o irreperibile, non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità
dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto in presenza dei presupposti di cui all’art. 34,
comma 1, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274”.
13. Dalle considerazioni che precedono discende la infondatezza del ricorso, che deve pertanto essere rigettato.
14. Va solo precisato che nel dispositivo della sentenza impugnata, per un evidente errore materiale, è
stata dichiarata la «estinzione del reato» ascritto all’imputato, con menzione dell’art. 531 cod. proc. pen.,
anziché essere adottata la formula di proscioglimento della improcedibilità per la particolare tenuità del
fatto, con menzione dell’art. 529 cod. proc. pen., come previsto dall’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.
A norma dell’art. 130 cod. proc. pen., il dispositivo della sentenza impugnata va pertanto rettificato
nel senso che, là dove è scritto «art. 531 c.p.p.», deve leggersi «art. 529 c.p.p.» e là dove è scritto «l’estinzione del reato» deve leggersi «non doversi procedere».
La Cancelleria del Giudice di pace di Bressanone (Ufficio in cui è confluito quello di Chiusa), provvederà alle relative annotazioni sull’originale dell’atto.
[Omissis]
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MATILDE BRANCACCIO
Magistrato – Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione
L’improcedibilità per particolare tenuità del fatto nel
procedimento davanti al Giudice di pace: la mancata
comparizione della persona offesa non ha il significato
di opposizione
The “Giudice di pace” can state the unprosecutability ex Art. 34,
p. 3, d.lgs 274/00 even when the victim doesn’t appear
La Suprema Corte nega che la mancata comparizione della persona offesa, ritualmente citata ancorché irreperibile,
possa impedire la dichiarazione di particolare tenuità del fatto, prevista nel procedimento davanti al giudice di pace
dall’art. 34, comma 3, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in quanto l’opposizione deve essere necessariamente espressa e non può essere desunta da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca
manifestazione di volontà in tal senso.
For the Suprem Court the “Giudice di pace” can state the unprosecutability ex Art. 34, p. 3, d.lgs. 274/00 even
when the victim – ritually summoned although untraceable, doesn’t appear. The victim’s opposition, infact, must
be express and cannot be based on acts or actions that do not represent an unequivocal expression of will.
IL CASO
Le Sezioni Unite intervengono sulla complessa questione interpretativa riferita al significato da attribuire alla mancata comparizione della persona offesa in udienza ed al se questa rappresenti univoca
manifestazione della volontà di non opporsi all’applicazione della condizione di non procedibilità per
tenuità del fatto nel giudizio dinanzi al giudice di pace.
Il Giudice di pace ha ritenuto sussistenti i presupposti per dichiarare il fatto di particolare tenuità,
nonostante la mancata comparizione della persona offesa, anzi da ciò ricavando una sua mancanza di
«interesse al procedimento» e la non persistenza di una «richiesta di risarcimento e di condanna dell’imputato».
La sentenza è stata impugnata dal Procuratore generale per violazione dell’art. 34, comma 3, d.lgs.
28 agosto 2000, n. 274, non potendosi affermare che la mancata comparizione della persona offesa equivalga a mancanza di interesse all’esito del procedimento, ritenendosi, invece, corretta l’interpretazione
che vuole l’equiparazione dell’obbligo di non opposizione della persona offesa (o dell’imputato) ad un
vero e proprio consenso alla definizione mediante ricorso alla disposizione di legge che prevede la particolare tenuità del fatto.
Nel caso in esame tale consenso-mancata opposizione non vi sarebbe stato, poiché la persona offesa,
irreperibile, era rimasta assente.
Le Sezioni Unite, rigettando il ricorso, hanno affermato che, dal tenore della disposizione dell’art. 34
cit., si desume la necessità che la volontà di opposizione sia “espressa”, non potendosi ricavare da atti o
comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà,
sicché la mancata comparizione della persona offesa non può impedire la dichiarazione di improcedibilità per particolare tenuità del fatto.
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IL REQUISITO DELLA “NON OPPOSIZIONE”: COME NASCE UN CONTRASTO INTERPRETATIVO DA UN DUBBIO
SEMANTICO
Le Sezioni Unite si sono confrontate con un problema derivato dal tenore letterale dell’art. 34 del
d.lgs. n. 274/2000, che, non chiarendo le modalità di manifestazione dell’opposizione, ingenera il dubbio se la “non opposizione” possa desumersi, per facta concludentia, da un’eventuale, mancata comparizione in udienza della vittima del reato.
Sul tema, sia la giurisprudenza di legittimità che la dottrina hanno tradizionalmente proposto differenti punti di vista interpretativi.
Alla radice di tali differenze, tuttavia, sembra delinearsi una identica matrice, sulla quale poi si innestano diversità di configurazione concreta.
La questione di fondo, infatti, attiene al dato contenutistico dell’espressione “non opposizione”: se si
dà ad esso un’accezione “positiva”, allora si andrà alla ricerca di una manifestazione di volontà, espressa o tacita che sia, nel senso della non intenzione di opporsi all’epilogo decisorio derivante dalla tenuità
del fatto e di consentire ad esso; se invece si determina tale contenuto in chiave “negativa”, allora si
avrà come conseguenza, non già la ricerca di una manifestazione di volontà che abbia il senso della non
opposizione, ma semplicemente si constaterà l’ammissibilità della dichiarazione di improcedibilità per
tenuità del fatto, “mancando” una qualsiasi volontà oppositiva.
In sostanza, la lettura in chiave “positiva” dell’espressione “non opposizione” ne rende equivalente il significato a quello di “consenso” alla dichiarazione di improcedibilità per tenuità del fatto, dividendosi, poi, le differenti interpretazioni, sul punto se tale consenso possa evincersi dalla mancata
presentazione della persona offesa in giudizio ovvero richieda, per poter essere ritenuto, una espressa manifestazione di “non opposizione”, essendo invece tale mancata presenza in giudizio un dato
neutro.
La lettura in chiave “negativa”, riportando ad essenzialità il dato normativo e letterale, richiede non
già il consenso alla definizione mediante applicazione della norma sulla tenuità del fatto bensì solo un
comportamento negativo della persona offesa, di “non contrarietà” alla dichiarazione di improcedibilità.
Le Sezioni Unite scelgono la strada – coerente con le affermazioni sul punto svolte dalla stessa Corte
costituzionale (cfr. ord. 2 marzo 2007, n. 63) – di ritenere che l’art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274/2000 prevede, ai fini dell’operatività dell’istituto de quo, nella fase successiva all’azione penale, non già una condizione positiva (il “consenso”), ma una condizione negativa (la non opposizione; “se l’imputato e la
persona offesa non si oppongono”).
E, inoltre, costatano come dal tenore della disposizione si desuma che tale volontà di opposizione
debba essere necessariamente espressa, non potendosi ricavare da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà.
MANCATA PRESENTAZIONE IN UDIENZA E “NON OPPOSIZIONE”: LE DIFFERENTI LETTURE PRESENTI IN GIURISPRUDENZA E DOTTRINA
Facendo un passo indietro rispetto alle conclusioni delle Sezioni Unite, è utile riassumere i termini
del contrasto.
Si è esposto quale sia il nucleo di fondo della questione decisa dalle Sezioni Unite con la sentenza in
commento: riempire di contenuto descrittivo l’espressione “non opposizione”, utilizzata dal legislatore
nel comma 3 dell’art. 34, d.lgs. n. 274/2000, per delimitare in concreto lo spazio e le condizioni di veto
della persona offesa rispetto alla definizione del procedimento dinanzi al giudice di pace con una dichiarazione di non procedibilità per la tenuità del fatto.
Un primo indirizzo 1, che sembrava essere quello maggioritario nella lettura dei giudici di legittimità, riteneva che la non opposizione dell’imputato e della persona offesa dovessero necessariamente essere “verificate”, ciò facendosi mediante forme di interpello o la spontanea dichiarazione dell’interessato, ovvero anche traendo conclusioni in tal senso da fatti che però abbiano i caratteri dell’assoluta sin1
Cass., sez. V, 3 marzo 2004, n. 16689, in CED Cass., n. 229860; Cass., sez. V, 7 maggio 2009, n. 33689, in CED Cass., n..
244609; Cass., sez. V, 21 settembre 2012, n. 49781, in CED Cass., n. 254833; Cass., sez. V, 9 luglio 2013, n. 33763, in CED Cass., n.
257121; nello stesso senso, da ultimo, Cass., sez. V, 26 marzo 2014, n. 17965, come riportato dalle Sezioni Unite in motivazione.
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tomaticità e siano univoci e concludenti. Per tale indirizzo, evidentemente, non è possibile desumere la
“non opposizione”, nel senso sopra indicato, dalla mera assenza della persona offesa.
Questo atteggiamento, piuttosto, si configurerebbe unicamente come scelta della persona offesa di
non coltivare l’azione civile nel processo penale, ma non potrebbe mai integrare la volontà di non opporsi all’immediata statuizione di proscioglimento dell’imputato. Sarebbe, tale mancata comparizione,
da ritenersi, pertanto, un elemento “neutro” che, in quanto tale, non può essere interpretato come espressivo della volontà di non opposizione all’epilogo decisorio ex art. 34 d.lgs. n. 274/2000.
Con l’attenzione rivolta a tale filone interpretativo, le Sezioni Unite fanno notare come si richiami
talvolta il principio 2 secondo cui, nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di
citazione del p.m., la mancata comparizione del querelante, pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata concludente nel senso di una remissione tacita della querela, non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa. Tuttavia, osservano, tale pronuncia non risulta in
contrasto con un’opzione che ritenga, invece, che la mancata comparizione della persona offesa non
impedisce l’adozione della sentenza liberatoria.
Una seconda opzione, affermatasi nella giurisprudenza della Suprema Corte 3, riteneva che la decisione di non comparire all’udienza costituisse inequivoca espressione di una precisa strategia processuale, e cioè della volontà di rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà consentite dalla legge, quale è, appunto, la possibilità di opporsi alla dichiarazione di non procedibilità dell’azione per la particolare tenuità del fatto.
Tale affermazione si rafforzava nella considerazione che la declaratoria ex art. 34 non reca alcun pregiudizio alla persona offesa, per la quale resta sempre percorribile la strada della proposizione dell’azione di risarcimento in sede civile.
Tale indirizzo può essere “letto” alla luce di quelle pronunce di legittimità 4 che, nell’affermare l’applicabilità della particolare tenuità del fatto ad ogni tipologia di reato, a prescindere dalla presenza o
meno della persona offesa, mettono in risalto come la disciplina voluta dal legislatore per il giudizio dinanzi al giudice di pace sia ispirata alla creazione di un diritto penale “mite”, efficace, ma non ingiustificatamente afflittivo, tendenzialmente votato alla ricomposizione del conflitto causato dalla commissione del reato; sicché, il fatto di particolare tenuità risponde pure alla necessità di escludere una indifferenziata applicazione delle medesime sanzioni ad un ampio ventaglio di condotte criminose concrete,
tra loro graduabili, in una rinnovata visione dell’art. 3 Cost. Le Sezioni Unite citano, altresì, in tal senso,
le pronunce che hanno ritenuto non richiesta dall’art. 34 la necessaria presenza della persona offesa 5.
Egualmente divergenti le posizioni riscontrabili in dottrina 6.
Alcuni hanno ritenuto desumibile, dal dato letterale dell’art. 34, comma 3, la volontà del legislatore
di non richiedere un preventivo e formale interpello della persona offesa e di riconoscere al giudice il
potere di desumere la volontà di non opporsi per facta concludentia, tra i quali anche il comportamento
processuale della parte di non comparizione in udienza benché ritualmente citata 7. Altri 8, valorizzando
il dato letterale, ha valutato la condizione di applicabilità apposta alla norma non interpretabile altrimenti che nel senso secondo cui l’opposizione deve essere sempre espressa e formulata in termini inequivoci, mentre l’unica condizione di garanzia è quella del contraddittorio che rispetti la necessaria interlocuzione delle parti sull’eventuale proscioglimento dell’imputato, sia in sede pre-dibattimentale che
all’esito del dibattimento: tale contraddittorio, peraltro, è realizzato, secondo l’Autore, dall’onere di attivazione delle parti, le quali “devono” essere consapevoli degli epiloghi decisori del procedimento dinanzi al giudice di pace ed adoperarsi per evitare esiti “sgraditi”, sicché alcun obbligo di interpello può
prevedersi in capo al giudice, al più ipotizzandosene l’opportunità e la facoltà relative.
2
Cass., sez. un, 30 ottobre 2008, n. 46088, in CED Cass., n. 241357.
3
Cass., sez. V, 5 dicembre 2008, n. 9700 del 2009, CED Cass., n. 242971.
4
Cass., sez. III, 6 novembre 2013, n. 48096, in CED Cass., n. 258054; Cass., sez. IV, 26 ottobre 2004, n. 41702, in CED Cass., n.
230277.
5
Cass., sez. IV, 17 giugno 2003, n. 25917, CED Cass., n. 225676), nonché, da ultimo, nel senso che il silenzio della persona
offesa non può essere considerato come atto sintomatico di opposizione, Cass., sez. II, 13 maggio 2014, n. 37525.
6
Per un quadro completo delle diverse posizioni della dottrina, v. G. Canzio-G. Tranchina, Le Fonti Del Diritto Italiano, Leggi
Complementari al Codice di Procedura Penale, Milano, 2013, pp. 476 e ss.
7
Così Bucci-G. Ariolli, Manuale Pratico del Giudice di Pace nel Processo Penale, Padova, 2003, pp. 185 ss..
8
C. Cesari, Il Giudice di Pace nella Giurisdizione Penale, Torino, p. 350 ss.
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Altri ancora 9 hanno enunciato in modo chiaro le conseguenze processuali della mancata partecipazione al giudizio della persona offesa, ritenendo tale evenienza non di ostacolo alla pronuncia della sentenza ex art. 34, essendo richiesta una opposizione esplicita alla definizione del processo per la particolare tenuità del fatto.
Di identico tenore le argomentazioni di chi, ragionando ancora in termini di possibilità di evincere la
volontà non oppositiva anche da “fatti concludenti”, ha messo in risalto la differenza tra le posizioni
dell’imputato e della persona offesa in relazione alla mancata partecipazione al giudizio (per l’imputato
le conseguenze sono comunque “favorevoli”), segnalando l’opportunità di una convocazione, pur ritenuta non obbligatoria, al fine di rendere realmente effettivo il contraddittorio sulla eventualità dell’epilogo ex art. 34 10.
Tali posizioni, anche prima della pronuncia delle Sezioni Unite, sostanzialmente coerente con quanti
hanno ritenuto non impeditiva alla dichiarazione di improcedibilità la mancata comparizione della persona offesa in giudizio, apparivano condivisibili e più aderenti al dato normativo non soltanto letterale,
ma anche di sistema, alla luce della struttura e delle finalità dell’istituto dell’improcedibilità per tenuità
del fatto nel giudizio dinanzi al giudice di pace.
Nata anche e soprattutto come strumento di deflazione processuale, l’improcedibilità per tenuità del
fatto fa parte della categoria delle disposizioni normative di c.d. diversion, intendendo con questa espressione ogni deviazione dalla normale sequenza di atti del processo penale prima della pronuncia
sull’imputazione, idonea a coprire i reati bagatellari impropri, che, sfuggendo agli interventi di depenalizzazione dei reati bagatellari “propri” – fattispecie che il legislatore ritiene immeritevoli di tutela penale tout court – vengono attratti nel meccanismo deflattivo in questione, se in concreto dimostrano una
esigua lesività, tanto da far perdere l’interesse ad un loro perseguimento penale 11.
Il fatto “di particolare tenuità” integra, cioè, una fattispecie criminosa in tutti i suoi aspetti, soggettivi ed oggettivi, ma è la sua concreta manifestazione ad essere apprezzata in termini di particolare tenuità, tanto da far venire meno l’interesse al perseguimento del reato 12.
A fronte di tali posizioni, tuttavia, altra parte della dottrina, chiaramente guidata dalla finalità di
espandere la garanzia del diritto di veto della persona offesa, esclude che alla mera assenza in udienza della vittima del reato possa ricollegarsi il significato di non opposizione alla declaratoria di improcedibilità per tenuità del fatto; per tale tesi, la condizione apposta dalla norma si interpreta nel
senso della necessità che la manifestazione di volontà circa la non opposizione debba essere esplicitata, con la conseguenza che, persino nell’ipotesi in cui la parte, espressamente convocata dal giudice di
pace per interloquire sulla definizione del processo ai sensi dell’art. 34, decidesse di non comparire,
tale comportamento non potrebbe di per sé solo essere interpretato come tacita manifestazione di
consenso 13, in analogia con quanto si era affermato in tema di non opposizione dell’imputato al proscioglimento anticipato ex art. 469 c.p.p., ritenuta questa previsione il modello che più si adatta alla
questione in esame 14.
Le Sezioni Unite, nella motivazione della sentenza in commento, smentiscono espressamente, tuttavia, qualsiasi lettura conflittuale dell’art. 469 c.p.p. con la possibilità di ritenere la mancata comparizione della persona offesa “insignificante” dal punto di vista dell’esistenza di una volontà oppositiva della
persona offesa e, pertanto, ininfluente sulla possibilità di dichiarare l’improcedibilità ex art. 34.
9
In questi termini, G. Fidelbo, Giudice di Pace (nel dir. proc. pen.), in Dig. pen., Agg., Torino, 2004, § 36.
10
Così, G. Varraso, Il Procedimento davanti al Giudice di pace (in Trattato di Procedura Penale, a cura di G. Ubertis-G.P. Voena),
Milano, 2006, 342 ss.
11
Per tali definizioni ed uno studio approfondito degli aspetti sistematici riferibili agli strumenti di diversion cfr. G. Fidelbo,
Giudice di pace, cit., § 36.
12
La definizione è ancora di G. Fidelbo, Giudice di pace, cit., § 36.
13
Così F. Baldi, La particolare tenuità del fatto: profili processuali, in Il Giudice di Pace. Quaderni. Milano, 2003, p. 113 ss.
14
A. Marandola, Improcedibilità per tenuità del fatto e mancata acquisizione del consenso della persona offesa, in Dir. pen. proc 2003,
p. 493 e ss.
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LA POSIZIONE DELLE SEZIONI UNITE: LA MANCATA COMPARIZIONE NON VALE OPPOSIZIONE
Le Sezioni Unite hanno saputo condensare in poche, efficaci battute il loro pensiero con riguardo al
quesito proposto, facendo chiarezza su numerosi punti controversi, anche ulteriori rispetto alla specifica questione oggetto del loro intervento.
Si è fatta luce anche sull’interrogativo indicato in apertura.
E difatti, anzitutto, hanno stigmatizzato l’errore nell’impostazione del ragionamento interpretativo
presente in entrambe le tesi predicate dalla giurisprudenza di legittimità, che si fronteggiano sul merito
del problema relativo al valore da attribuire ad un comportamento meramente inerte, quale può dirsi
essere la mancata comparizione in giudizio della persona offesa. Entrambi i filoni giurisprudenziali sinora sintetizzati errano – si dice – nel presupposto da cui partono, secondo cui, dopo l’esercizio
dell’azione penale, perché si possa pervenire all’esito liberatorio per improcedibilità da tenuità del fatto, occorre accertare un’adesione – implicita o esplicita – della persona offesa (o dell’imputato).
La sentenza adotta l’indirizzo, già proposto dalla parte più attenta della dottrina richiamata 15, secondo cui la disposizione dell’art. 34 d.lgs. n. 274/2000 non richiede da parte della persona offesa (come
dell’imputato) adesioni di sorta all’esito di improcedibilità, stabilendo invece che esso sia escluso solo
in presenza di una presa di posizione che abbia il valore di una “opposizione”.
A conforto di tale affermazione si richiama la Corte costituzionale che, nella citata ordinanza n.
63/2007, ha chiaramente affermato, in relazione all’art. 34, comma 3, che tale norma «prevede, ai fini
dell’operatività dell’istituto de quo, nella fase successiva all’azione penale, non già una condizione positiva (il “consenso”), ma una condizione negativa (la non opposizione; “se l’imputato e la persona offesa
non si oppongono”)».
Mutata radicalmente la prospettiva ed il presupposto interpretativo, rispetto all’alveo in cui si erano
mossi entrambi gli orientamenti contrapposti, le Sezioni Unite possono dedicarsi a definire i contorni
della “opposizione” (e non più della “non opposizione”), che individuano nella forma necessariamente
espressa, non potendosi desumere una volontà di opporsi all’esito definitorio “sgradito” da atti o comportamenti che «non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà».
Si indicano, quindi, le possibilità che si aprono per manifestare detta opposizione: memorie (art. 90,
comma 1, c.p.p.), ma anche modalità implicite, là dove la persona offesa, costituitasi parte civile, in
quanto soggetto danneggiato dal reato, formuli in udienza, a mezzo del procuratore speciale, richiesta
di risarcimento dei danni.
Si arriva, per tale strada, ad individuare la garanzia prevista per la persona offesa: il contraddittorio
e l’informazione su di esso. La persona offesa deve essere messa in grado di esprimere la sua eventuale
opposizione: da qui la necessità della corretta citazione in dibattimento e l’impossibilità di adozione di
una tale pronuncia di improcedibilità da parte del giudice investito della richiesta di decreto penale di
condanna, poiché, in tale ipotesi sarebbe precluso alla persona offesa ogni spazio partecipativo idoneo a
consentirle l’esercizio, sia pure implicito, del diritto di opporsi alla definizione alternativa ex art. 34
d.lgs. n. 274/2000 16.
Quanto al problema (molto dibattuto come si è visto soprattutto in dottrina) dell’esistenza di obblighi di “interpello” della persona offesa da parte del giudice che voglia adottare una pronuncia ex art. 34
d.lgs. n. 274/2000, le Sezioni Unite sono categoriche: «certamente la legge non impone un’apposita
convocazione della persona offesa specificamente preordinata a raccogliere la sua eventuale opposizione», anzi deve presumersi, per postulato legale, che essa possa prospettarsi un esito liberatorio nel caso
di una sua mancata comparizione in sede dibattimentale.
Non si affrontano, probabilmente in modo condivisibile, i possibili profili di opportunità di una sollecitazione da parte del giudice, diretta alla persona offesa, finalizzata ad accertarne la volontà; ciò forse
perché delineare tale opportunità ed i suoi contorni potrebbe essere operazione fortemente condizionata da piani di accertamento fattuale che ne limiterebbero qualsiasi valenza paradigmatica e, d’altra parte, tale non previsto intervento, sebbene solo eventuale, rilevatane l’opportunità, sarebbe comunque eccentrico rispetto alla struttura normativa.
15
Cfr. G. Fidelbo, Giudice di pace, cit., § 36.
16
Si richiama in tal senso Cass., sez. I, 26 aprile 2005, n. 16310, in CED Cass., n. 231331.
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Può discutersi, dunque, secondo le Sezioni Unite, solo della questione se la dichiarazione della volontà di opporsi alla definizione del processo ex art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274/2000 debba provenire
personalmente dalla persona offesa (o dall’imputato) e se essa possa manifestarsi solo in sede processuale. La risposta della pronuncia è nel senso che la manifestazione della volontà di opposizione è da ritenersi “atto personalissimo”, in quanto l’opposizione, incidendo sulla procedibilità dell’azione penale,
rientra tra il genere di atti «idonei a determinare il contenuto della pronuncia».
Da tale natura di atto personalissimo, si trae la conseguenza che possono dirsi abilitati ad esprimere
una simile volontà la persona offesa (e l’imputato) personalmente o a mezzo di procuratore speciale,
ma non il difensore o altri soggetti, ad eccezione dei casi di rappresentanza della persona offesa minore,
interdetta o inabilitata (ai sensi dell’art. 90, comma 2, c.p.p).
Quanto al momento in cui può ritenersi validamente manifestata la volontà di opposizione, le Sezioni Unite affermano che esso deve collegarsi all’esercizio dell’azione penale, e precisamente intervenire successivamente, perché questo è il presupposto formalmente dato dalla disposizione normativa,
mentre sono inidonee espressioni di opposizione formulate “ora per allora”, prima di tale cadenza processuale.
Se, ai fini della configurabilità della condizione di improcedibilità ex art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274/
2000, deve valutarsi se vi sia stata “opposizione” e se essa sia intervenuta nella necessaria forma espressa, anche implicita purché inequivoca, le Sezioni Unite, quanto alla questione sottoposta, affermano l’inevitabile conseguenza che la mancata partecipazione al dibattimento della persona offesa (regolarmente citata o irreperibile) è del tutto irrilevante ai fini della valutazione dei presupposti considerati dal
comma 1 dell’art. 34, d.lgs. n. 274/2000, non potendosi desumere da detta situazione, declinata “in negativo”, alcuna volontà di opposizione alla pronuncia di improcedibilità per tenuità del fatto.
ALCUNE CONSIDERAZIONI A MARGINE
La pronuncia delle Sezioni Unite, una volta raggiunte le conclusioni in ordine alla valenza non ostativa della mancata comparizione della persona offesa nel giudizio dinanzi al giudice di pace, delinea la
presenza di un quadro normativo coerente tra la disposizione dell’art. 34 d.lgs. n. 274/2000, nell’interpretazione poco prima fornita, e il disposto dell’art. 469, comma 1-bis, c.p.p., che, ai fini della pronuncia
di sentenza predibattimentale per la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p., richiede sì
la citazione della persona offesa, e tuttavia prescinde dall’acquisizione della sua volontà se essa non
compare.
In entrambe le ipotesi, infatti, riferite a procedure che accertano la particolare tenuità del fatto, la
mancata comparizione della persona offesa non impedisce l’adozione della sentenza liberatoria (sia nel
caso in cui la persona offesa abbia un potere di interdizione – art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274/2000 – sia
nel caso in cui essa debba solo essere messa in grado di interloquire: art. 469, comma 1-bis, c.p.p.).
Prima ancora, nel corso della motivazione, le Sezioni Unite hanno ritenuto di non dover prendere
posizione in ordine al problema della possibile sovrapposizione della disciplina generale di cui all’art.
131-bis c.p. su quella della particolare tenuità del fatto nell’ambito del procedimento davanti al giudice
di pace (ma la sovrapposizione potrebbe ritenersi anche per il procedimento minorile, che pure contempla istituto analogo).
È noto, infatti, come attualmente nel nostro ordinamento possono enuclearsi tre ipotesi differenti
collegate alle ragioni della tenuità del fatto; in ordine cronologico si indicano:
– l’ipotesi di cui all’art. 27 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448, nel processo penale a carico di imputati
minorenni (irrilevanza del fatto);
– l’ipotesi regolamentata dall’art. 34 d.lgs. n. 274/2000, in materia di procedimento penale davanti al
giudice di pace (esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto);
– l’ipotesi più recente prevista dall’art. 131-bis c.p. (introdotto dall’art. 1, comma 2, d.lgs. 16 marzo
2015, n. 28), riferita alla causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
Ebbene, secondo le Sezioni Unite, né l’uno né l’altro dei due istituti, ulteriori rispetto all’ipotesi dettata nel procedimento dinanzi al giudice di pace, che egualmente valorizzano in senso liberatorio la
“tenuità” del fatto, prevedono un potere inibitorio esercitabile dall’imputato e dalla persona offesa,
quale quello contemplato dall’art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274/2000.
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Tale diversità è ricollegata dalla pronuncia a valutazioni legislative dettate dalla natura eminentemente “conciliativa” della giurisdizione di pace, che dà risalto specificamente alla posizione della vittima del reato, tanto da attribuirgli, nei reati procedibili a querela, un vero e proprio potere di iniziativa
nella vocatio in jus (art. 21 d.lgs. n. 274/2000): tale facoltà inibitoria, allo stato, non ha subito il vaglio di
costituzionalità, per l’inammissibilità della questione sollevata e decisa con la già citata ordinanza n.
63/2007 della Corte cost.
Sviluppato questo breve percorso di inquadramento sistematico della categoria “tenuità del fatto”,
la Corte ha deciso di non pronunciarsi – attraverso quello che sarebbe stato senza dubbio un obiter – su
una materia tanto delicata quanto non rientrante nell’economia della propria decisione: il problema interpretativo relativo ad una possibile sovrapposizione tra disciplina generale di cui all’art. 131-bis c.p. e
quella della particolare tenuità del fatto disciplinata nell’ambito del procedimento davanti al giudice di
pace dall’art. 34 d.lgs. n. 274/2000.
Provando a precisare sinteticamente a quale problema di sovrapposizioni facciano cenno le Sezioni
Unite, si deve rammentare come la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. rappresenta un
istituto di natura sostanziale e non una condizione di procedibilità – come è invece negli altri due istituti analoghi riferiti al procedimento minorile ed a quello del giudice di pace – che mira al risultato di
consentire al sistema giudiziario di “non sanzionare” condotte che, pur integrando gli estremi del fatto
tipico, antigiuridico e colpevole, appaiono non meritevoli di pena «in ragione dei principi generalissimi
di proporzione e di economia processuale» 17, rivolgendo altresì una specifica attenzione alla tutela della persona offesa dal reato, in presenza di determinate condizioni.
In tal senso l’istituto si pone con funzioni di “chiusura” dell’area della punibilità dal punto di vista
sostanziale, ritagliando una porzione di illeciti in via “trasversale”, estensibile in teoria a tutte le tipologie di fattispecie penali, in relazione alle quali il legislatore ritiene sussistere condizioni di non punibilità “in concreto”, secondo gli indici normativi di irrilevanza dettati dall’art. 131-bis c.p., pur in presenza
di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole.
La valutazione avviene caso per caso ad opera del giudice chiamato a ritenere la sussistenza dei parametri “indicatori” della particolare tenuità 18.
Tali considerazioni inducono a ritenere che, con riferimento a possibili questioni di sovrapposizione
applicativa della disciplina dell’art. 131-bis c.p. ai due sottosistemi paralleli che gravitano nell’orbita
della tenuità del fatto, e, in particolare, a quello riferito al procedimento dinanzi al giudice di pace, appaiono, probabilmente, non esportabili, in linea di principio, criteri di particolare tenuità come condizione di non punibilità, là dove già risulta prevista dal legislatore una diversa operatività per omologhi
istituti.
Nello specifico, il nuovo art. 131-bis c.p. sembra mal conciliarsi (non contemplandole tra i suoi presupposti) con le istanze soggettive, previste, invece, dagli artt. 27 d.p.r. n. 448/1988 (che considera le esigenze educative del minore) e 34 d.lgs. n. 274/2000 (che, nella prospettiva conciliativa propria del rito, valorizza le contrapposte esigenze delle parti).
La nuova norma di parte generale, infatti, dalle connotazioni prettamente oggettive e riferite alla
condotta “in sé particolarmente tenue”, secondo i parametri indicati dall’art. 131-bis c.p., riveste una
portata che può ritenersi più ampia rispetto alle due previsioni “speciali” 19, la cui operatività, d’altra
parte, potrebbe essere decisamente compromessa dalla contestuale applicabilità dell’art. 131-bis c.p.,
anche per la mancanza di punti di riferimento applicativi e di disposizioni di coordinamento tra istituti
“paralleli”, che lascerebbero un vuoto normativo difficilmente colmabile dall’interprete mediante operazioni ermeneutiche che non sconfinino nella libera creatività.
17
Cfr. Relazione allo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità
del fatto, trasmesso alla Presidenza del Senato il 23 dicembre 2014. Sul punto v. F. Palazzo, Nel dedalo delle riforme recenti e
prossime venture, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1706.
18
Per una recente messa a punto della causa di non punibilità di nuovo conio, cfr. G. Alberti, Non punibilità per particolare
tenuità del fatto, Voce per Il libro dell’anno del diritto Treccani 2016, in www.penale contemporaneo.it, 16 dicembre 2015.
19
Cfr. D. Brunelli, Diritto penale domiciliare e tenuità dell’offesa nella delega 2014, in Leg. pen., 2014, p. 455, il quale osserva che la
norma contenuta nella legge n. 67/2014 «contiene un minor numero di requisiti di applicabilità (la particolare tenuità dell’offesa
e la non abitualità del comportamento) e, dunque, copre una costellazione di casi in linea di massima più estesa di quelli interessati dalle clausole speciali per gli imputati minorenni e per la giustizia mite del giudice di pace».
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Ciononostante, non è mancato chi ha optato per una lettura favorevole a ritenere tale possibilità di
interazione 20.
Peraltro, proprio in relazione all’art. 34, è stata respinta dal Governo la sollecitazione, contenuta nel
parere approvato dalla Commissione Giustizia il 3 febbraio 2015 sullo schema di d.lgs. n. 28/2015, a valutare l’opportunità di coordinare, ai sensi dell’art. 2 della legge delega, il nuovo art. 131-bis c.p. con
l’omologo istituto disciplinato nel procedimento dinanzi al giudice di pace, nel caso in cui il reato fosse
di sua competenza, alla luce della non copertura della delega su tali punti.
La giurisprudenza di legittimità ha preso recentemente posizione in senso negativo in merito alla
compatibilità della disposizione di cui all’art. 131-bis c.p. con il sistema procedimentale previsto per il
giudizio dinanzi al giudice di pace 21, tuttavia la questione sembra ancora aperta nei suoi aspetti applicativi 22. In particolare, a fronte di pronunce che avevano dichiarato la natura di condizione di non punibilità 23, altra tesi ha affermato la natura ibrida della clausola, al tempo stesso di non punibilità e di
improcedibilità 24. Le Sezioni Unite, peraltro, chiamate a pronunciarsi di recente sull'applicabilità dell’art. 131-bis c.p. ai reati con soglie di punibilità legislativamente previste, con la decisione del 25 febbraio 2016, in attesa di deposito della motivazione, sembra abbiano ragionato in termini di condizione
di non punibilità, stando alla lettera dell'informazione provvisoria diffusa in merito alla possibilità di
dichiarare direttamente “ex officio”, ex art. 129 c.p.p., l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, una volta ritenuta la tenuità del fatto.
Infine, un’ultima sottolineatura, anch’essa ripresa dalle Sezioni Unite, in relazione alla diversità di
disciplina prevista dal d.lgs. n. 274/2000 per la fase precedente all’esercizio dell’azione penale rispetto a
quella successiva ad esso.
Prima dell’esercizio dell’azione penale, infatti, l’esito liberatorio non è impedito da una formale dichiarazione di opposizione della persona offesa, ma dall’apprezzamento da parte del giudice di un «interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento» (art. 34, comma 2, d.lgs. n. 274/2000),
potendo questo interesse essere desunto dal giudice da qualsiasi elemento di valutazione, ivi compreso
quello reso esplicito attraverso un formale atto di opposizione. Tale ampliamento dei poteri di valutazione del giudice appare coerente, peraltro, con la fase in cui ci si muove.
Tuttavia – affermano le Sezioni Unite – tale atto di opposizione, formato prima dell’esercizio dell’azione penale, non copre validamente la fase del processo, per la quale sarà necessario reiterare formalmente la dichiarazione “di veto”, non potendosi conferire alla dichiarazione resa nella precedente fase
procedimentale alcuna valenza “ora per allora”, «per la nuova prospettiva processuale che è aperta dallo scenario dibattimentale». Anche tale affermazione pare decisamente condivisibile e rispettosa delle
istanze di garanzia connesse ad una fase processuale in cui, potrebbe dirsi, “il dado è tratto” e le parti si
trovano di fronte ad un’imputazione costruita in modo compiuto.
20
A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.: vuoti normativi e ricadute applicative, in www.penale.contemporaneo.it, 28
maggio 2015, § 6.
21
In tal senso, Cass., sez. IV, 17 luglio 2015, n. 31920, in CED Cass., n. 264420 ne ha segnalato la diversità strutturale con la
disposizione dell’art. 34 del d.lgs. n. 274/2000, il mancato coordinamento tra i due istituti (come scelta voluta dal legislatore, che
invece ha previsto – con l’art. 63 del citato d.lgs. – l’applicabilità dell’irrilevanza del fatto ai giudizi ordinari in alcuni casi) e la
disciplina non coincidente.
22
Cfr. Cass., sez. fer., 6 agosto 2015, n. 34672, in CED Cass., n. 264702 che – ferma la natura di causa di improcedibilità della
condizione prevista dall’art. 34 cit. e, invece, di causa di non punibilità di quella prevista ex art. 131-bis c.p. – individua una “sovrapponibilità” della valutazione operata dal giudice di pace ex art. 34 cit. e di quella che sarebbe spettata al giudice ordinario ex
art. 131-bis, affermando che non può disporsi l’annullamento con rinvio della sentenza di condanna emessa dal giudice di pace,
per procedere alla valutazione circa la sussistenza della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, «poiché la verifica in ordine all’applicazione di tale istituto è già stata compiuta con esito negativo allorché è stata esclusa la declaratoria di
improcedibilità ex art. 34, la quale implica una delibazione più ampia di quella richiesta ai sensi dell’art. 131-bis c.p.
23
Si vedano, per tutte, Cass., sez. 3, n. 50215 del 8 ottobre 2015, CED Cass. n. 265434; Cass. sez. 4, n. 44132 del 9 settembre
2015, CED cass. n. 264829; Cass., sez. 3, n. 24538 del 14 maggio 2015, CED Cass. n. 264109.
24
Per tale opzione si veda Cass., sez. 5, n. 5800 del 2016.
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Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
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LUIGI GIORDANO
Magistrato addetto al Massimario della Corte di Cassazione
ANTONIO PAGLIANO
Professore aggregato di Diritto processuale penale dell’Unione Europea – Seconda Università degli Studi di Napoli
Ancora travagliate le vicende delle misure cautelari malgrado
le modifiche normative 1
Precautionary measures are still troubled despite the reforms
La legge n. 47/2015, nel riformare la disciplina delle misure cautelari, ha previsto che le esigenze da garantire debbano essere non solo “concrete”, ma anche “attuali”. Nel presente contributo si esamina una delle prime decisioni del tribunale del riesame di annullamento di un’ordinanza per la mancanza di attuali esigenze di cautela. È l’occasione per una riflessione più ampia, che tocca il delicato profilo del rapporto tra l’attualità dei pericoli e la presunzione di sussistenza di esigenze di cautela.
Law no. 47 of 2015, to reform the regulation of precautionary measures, provided that the requirements to protect not only have to be "real", but also "current". In this paper we examine one of the first decisions of the court of
the annulment of an arrest warrant for the lack of current needs of caution. It’s the opportunity for a debate about
the delicate profile of the relationship between the actuality of the dangers and the presumption of needs for caution.
UN INTERESSANTE PROVVEDIMENTO GIUDIZIARIO
La ricerca del giusto equilibrio fra la difesa sociale e il diritto alla libertà personale ha rappresentato, sin
dalla sua promulgazione, uno dei temi interpretativi più delicati proposti dal codice di procedura del
1989. I rilevanti interessi in gioco hanno determinato un perenne confronto fra indirizzi giurisprudenziali, in genere più inclini ad assicurare la massima garanzia degli interessi generali, ed orientamenti
dottrinari volti, quasi per vocazione naturale, all’assoluta salvaguardia della prerogativa individuale.
Negli ultimi anni, la frenetica rincorsa all’introduzione delle presunzioni ha in qualche modo mischiato le carte, facendo emergere il ruolo di forte garanzia della Corte costituzionale, fortemente impegnata nell’abbattimento degli automatismi che il legislatore ha cercato di innestare nel sistema per contrastare episodi di criminalità che generano grande allarme sociale e la conseguente necessità di rabbonire la crescente richiesta di sicurezza e difesa della collettività.
In questo contesto, le recenti modifiche al sistema cautelare entrate in vigore in data 8 maggio 2015
obbligano l’interprete ad una nuova disamina dell’assetto normativo del microsistema cautelare. All’apparenza di scarso rilievo e forse addirittura ridondante, la riforma mira a realizzare l’obiettivo di
razionalizzare la disciplina cautelare, limitando il ricorso alla restrizione della libertà personale ai casi
in cui essa risulta strettamente necessaria, restituendo piena attuazione a quei principi di residualità e
proporzionalità fissati dal legislatore del 1989.
1
Il primo, il secondo ed il sesto paragrafo del presente contributo sono stati curati da Antonio Pagliano; il terzo, il quarto ed
il quinto sono stati curati da Luigi Giordano. Il settimo paragrafo è frutto delle riflessioni comuni degli autori.
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Per verificare la coerenza dei primi approcci della giurisprudenza di merito alla recente novella, risulta interessante soffermarsi su un’ordinanza del tribunale del riesame di Napoli relativa alla corretta
applicazione del presupposto dell’attualità del pericolo di recidiva. Nell’ambito di un procedimento per
i reati di cessione di sostanze stupefacenti e di associazione dedita al compimento di simili illeciti, il
giudice delle indagini preliminari, infatti, applicava a un indagato la misura cautelare della custodia in
carcere e a un altro quella del divieto di dimora in uno dei comuni teatro dei delitti. Le difese di entrambi, ricorrendo al tribunale del riesame, chiedevano l’annullamento dell’ordinanza o, in via subordinata, la sostituzione del provvedimento detentivo in esecuzione con una misura meno afflittiva, contestando non solo la sussistenza della gravità indiziaria della fattispecie associativa, ma soprattutto
l’assenza di effettive esigenze cautelari proprio in virtù del tempo trascorso dai fatti.
Secondo il tribunale, dagli atti delle indagini emergeva l’esistenza di un’associazione che cedeva cocaina in due cittadine della provincia di Napoli. L’organizzazione, in particolare, era articolata su una
struttura piramidale ed era diretta dal primo indagato, indicato anche da un collaboratore di giustizia
«come referente per il traffico di stupefacenti» in quello specifico territorio; l’attività era realizzata avvalendosi di una pluralità di persone che consegnavano la droga agli acquirenti; il sodalizio si serviva di due
esercizi pubblici che fungevano da basi operative e da luoghi per gli incontri tra gli spacciatori e gli acquirenti; i membri del gruppo, per le transazioni illecite, usavano utenze telefoniche “dedicate” che, grazie alla complicità del gestore di un negozio di telefonia, erano intestate ad ignari cittadini stranieri e
che venivano cambiate frequentemente per limitare il rischio di intercettazioni; nelle conversazioni impiegavano un linguaggio “criptico” per celare il reale oggetto dei dialoghi; ed infine, l’associazione assicurava la difesa legale agli affiliati in caso di arresto ed operava con continuità, tanto che, durante
l’inchiesta, erano accertati ben centotrentadue episodi di cessione di droga.
Pur ravvisando la gravità indiziaria dei reati ascritti agli indagati nelle contestazioni provvisorie e
riconoscendo che essi facevano «dell’attività illecita in commento la principale fonte di guadagno», tuttavia, il
tribunale annullava il provvedimento cautelare, non ritenendo sussistente il requisito dell’attualità del
pericolo di reiterazione del reato, ormai richiesto dall’art. 274 c.p.p. come modificato dalla legge n.
47/2015.
Dopo la ricognizione del nuovo dato normativo entrato in vigore in data 8 maggio 2015, in particolare, il collegio rilevava che le condotte oggetto del provvedimento si sviluppavano in un periodo compreso tra il mese di marzo 2011 e quello di ottobre 2012. L’ordinanza cautelare, benché emessa in data 7
aprile 2015, era priva di «qualsiasi considerazione sull’irrilevanza del tempo trascorso, né l’accusa – si legge
nell’ordinanza – ha prodotto elementi che consentano al tribunale di colmare tale lacuna». Del resto, affermava il tribunale, anche prima della riforma del 2015, l’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p. imponeva di tenere
conto del tempo trascorso dai fatti ai fini della dimostrazione dell’esistenza di esigenze di cautela, «essendo un dato di comune esperienza che il decorso di un arco temporale significativo può essere sintomo di un
proporzionale affievolimento del pericolo di reiterazione». Un indice di rischi attuali di ripetizione dei reati,
infine, a differenza di quanto sostenuto dal pubblico ministero, non poteva desumersi dalle anomalie
accertate dalla Guardia di Finanza all’atto dell’esecuzione del provvedimento cautelare nei registri fiscali di uno degli esercizi commerciali impiegati dal sodalizio come punto d’incontro, le quali non necessariamente derivavano dall’occultamento dei proventi illeciti nella contabilità, potendo piuttosto nascondere condotte di evasione fiscale.
LA RICERCA DELL’EQUILIBRIO FRA LA DIFESA SOCIALE E LA LIBERTÀ PERSONALE
Per la delicatezza delle questioni, una riflessione sul sistema cautelare, per quanto di taglio eminentemente pratico, deve necessariamente partire da una seppur sommaria ricostruzione dell’evoluzione
normativa del tema in discussione.
Come noto, sul finire degli anni settanta, vigente il vecchio codice, si iniziò a discutere sui limiti di
applicabilità di quella che all’epoca si chiamava custodia preventiva, e ciò, evidentemente, in relazione
al rapporto intercorrente tra gli artt. 13 e 27 Cost. La più attenta dottrina dell’epoca ebbe modo di osservare che l’art. 13 Cost. non fosse l’unica disposizione che regolava la materia a livello costituzionale,
evidenziando come esso non contenesse indicazioni sulle finalità legittimanti il ricorso alle misure restrittive endo-processuali. Si iniziò allora a parlare di “vuoto dei fini”, con ciò volendo esprimere
l’equivocità dei contenuti della norma costituzionale: se letta al di fuori del contesto complessivo della
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Carta costituzionale, infatti, sembrava che essa svelasse l’incapacità di risolvere i problemi legati alla disciplina dei provvedimenti sulla libertà dell’imputato 2.
Il maggior ruolo attribuito all’avvento della Costituzione in tema di libertà personale, pertanto, consentì di riconoscere all’art. 13 carattere “servente” 3 rispetto alle altre norme costituzionali, identificando
proprio in tale carattere la matrice del vuoto dei fini 4.
La dottrina del tempo individuò allora nell’art. 27, comma 2, Cost. 5 la disposizione integrativa dell’art. 13 Cost. 6, stabilendo, così, il parametro di riscontro della legittimità costituzionale della custodia
preventiva 7. Se, dunque, la persona non può essere considerata colpevole fino al passaggio in giudicato
della sentenza, non ne può essere limitata la libertà ai sensi del combinato disposto degli artt. 13 e 27,
comma 2, Cost., se non sulla base di una dichiarazione di colpevolezza formulata prima dell’accertamento definitivo.
Di qui il bisogno di una ragione diversa, basata su un ragionamento autonomo dall’ipotesi di colpevolezza 8.
Per altro aspetto, risale nel tempo l’esigenza di non considerare la misura carceraria come forma di
anticipazione della pena 9, opinione condivisa anche dalla giurisprudenza costituzionale 10, che reputa
l’equiparazione ammissibile solo in un ordinamento che accogliesse la “presunzione di colpevolezza”.
Dagli anni settanta in poi, pertanto ancora sotto la vigenza del codice Rocco, si iniziò ad escludere
che si potesse attribuire alla carcerazione preventiva la funzione di sedare l’allarme sociale destato dal
fatto criminoso, non potendo essere la custodia preventiva un mezzo diretto a placare il desiderio di
vendetta degli offesi 11.
Alla fine degli anni ’80, il processo di “completa” giurisdizionalizzazione del procedimento applica-
2
G. Riccio, Principio di giurisdizionalità e vincoli alla discrezionalità nell’odierna disciplina della libertà personale, in V. Grevi (a cura
di), La libertà personale dell’imputato verso il nuovo processo penale, Padova, 1989, p. 26.
3
V. Grevi, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, 1976, p. 37.
4
E. Marzaduri, Custodia preventiva (Diritto processuale penale), in Ns. Dig. it., II, Torino, 1981, p. 966; L. Elia, Le misure di prevenzione fra l’art. 13 e l’art. 27 della Costituzione, in Giur. cost., 1964, p. 949 ss.
5
Ci sono state in dottrina ampie dispute sul significato della presunzione di non colpevolezza. Secondo alcuni, l’unica distinzione possibile è quella tra colpevole e non colpevole; parlare di non colpevole o di innocente è dire la stessa cosa, si utilizza
una variante lessicale, ma il significato è lo stesso (G. Illuminati, Presunzione di non colpevolezza, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991,
p. 1; Id., La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 24 ss.; nello stesso senso, M. Valiante, Il nuovo processo penale,
Milano, 1976, p. 152 ss.; cfr. anche E. Amodio, La tutela della libertà personale dell’imputato nella Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, p. 868; M. Chiavario, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, p. 371, n. 4). Secondo la Corte costituzionale con l’art. 27, comma 2, Cost. non è sancita una
presunzione di innocenza, ma si è voluto asserire che durante il processo non esiste un colpevole, bensì un imputato (Corte
cost., sent. 14 aprile 1976, n. 88, in www.giurcost.org; cfr. anche Corte cost., sent. 6 luglio 1972, n. 124, in www.giurcost.org). I costituenti hanno accolto l’interpretazione più riduttiva della norma per la preoccupazione di consentire la compatibilità del principio con le forme di carcerazione preventiva (cfr., La Costituzione della Repubblica nei lavori dell’Assemblea Costituente, I, Firenze,
1950, p. 233 ss.; cfr. Corte cost., sent. 14 aprile 1976, n. 88, cit.). Per questi motivi la presunzione di non colpevolezza non autorizza alcuna forma di restrizione simile a quella applicabile al colpevole; le due condizioni soggettive non sono in alcun modo
equiparabili.
6
G. Riccio, Principio di giurisdizionalità e vincoli alla discrezionalità, cit., p. 32.
7
V. Grevi, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, cit., p. 40 ss.; cfr. Corte cost., sent. 4 maggio 1970, n. 64, in Giur. cost.,
1970, p. 663 ss., in cui il Giudice delle Leggi afferma che le misure coercitive «non possono avere la funzione di anticipare la pena, che
va inflitta solo dopo l’accertamento della colpevolezza».
8
V. Grevi, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, cit., p. 40 ss.; E. Amodio, La tutela della libertà personale dell’imputato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 862; Id., Presunzione di non colpevolezza e certificato dei carichi pendenti, in Riv. dir.
proc., 1968, p. 851 ss.; Id., Le cautele patrimoniali nel processo penale, Milano, 1971, p. 299.
9
In senso contrario vedi, C.U. Del Pozzo, La libertà personale nel processo penale italiano, Torino, 1962, p. 79 ss., secondo cui la
custodia preventiva era assolutamente indispensabile proprio perché anticipava alcuni effetti della pena come quelli essenziali
per la difesa della società; nello stesso senso, M. Calamari, L’amministrazione della giustizia in Toscana, in Riv. pen., 1972, I, p. 334 ss.
10
In giurisprudenza si è ritenuto infatti che la compatibilità tra la presunzione di non colpevolezza e il regime della carcerazione preventiva (Corte cost., sent. 1 febbraio 1982, n. 15, cit.) sarebbe definita dal fatto che la detenzione dell’imputato non potrà mai avere la funzione di anticipare la pena (Corte cost., sent. 4 maggio 1970, n. 64, cit.), questa infatti è estranea alla finalità
della custodia preventiva (Corte cost., sent. 23 gennaio 1980, n. 1, cit.).
11
Sul punto, cfr. C.U. Del Pozzo, La libertà personale nel processo penale italiano, cit., p. 79; cfr. anche G. Galli, Delitti di violenza e
tutela delle vittime, in AA.VV., Vittime del delitto e solidarietà sociale, Milano, 1975, p. 103.
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tivo della misura cautelare e il totale superamento del sistema dell’obbligatorietà della cattura ha prodotto il sistema attualmente vigente, ovvero quello adottato dal codice del 1989 12.
Dando piena applicazione alla filosofia di matrice costituzionale, l’originaria formulazione dell’art. 275,
comma 3, c.p.p. disponeva che «la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata», formula con la quale il legislatore puntava a cancellare ogni automatismo (rectius:
presunzione), potenziando il potere discrezionale del giudice chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti applicativi della misura – i gravi indizi di colpevolezza – e le esigenze cautelari, ma anche ad applicare una misura proporzionata ed adeguata al caso, di cui egli doveva (e deve) comunque dare conto
nella motivazione; l’ulteriore obbligo di ricorrere alla misura più grave solo quando le esigenze cautelari
non avessero potuto esser soddisfatte con misure più lievi completava il quadro garantista della vicenda.
Il legislatore riformatore del 1989 sceglieva la strada della tipicità in relazione ai presupposti, le condizioni e la specie del provvedimento, lasciando libero il giudice di decidere se e quale misura applicare in relazione al caso specifico 13; l’idea di fondo era che in fase valutativa non si potesse prescindere
dal rapporto tra fatto e misura.
L’esercizio discrezionale del potere giudiziale avrebbe dovuto determinare, così, l’individualizzazione della misura cautelare rispetto al fatto e al soggetto sul filo del principio secondo cui, applicare
una misura tanto restrittiva del bene “libertà personale”, meritevole di tutela costituzionale, è consentito solo in ipotesi del tutto estreme.
Nel corso degli anni, tale conquista di civiltà è stata tuttavia costantemente messa in discussione, invero sia dalla giurisprudenza sia dallo stesso legislatore, il quale, sottoposto al vento degli umori dei
cittadini – elettori, ha attraversato fasi assai alterne: talvolta facendo prevalere “il garantismo”, con
l’idea dell’istituzione di un corretto rapporto tra individuo ed efficienza del sistema processuale; talaltra, la “politica dell’emergenza” ha attribuito al processo la funzione di sedare l’allarme sociale, trasformando la misura cautelare in uno strumento di controllo sociale 14, spesso con valore emarginante
per l’indagato sottoposto alla misura cautelare, con pericolose anticipazioni del giudizio. Pericolo immanente e ancora ben lontano dall’essere risolto se, ad eccezione dei reati di criminalità organizzata, il
tempo trascorso dal soggetto indagato in misura cautelare rischia di essere assai più lungo di quello che
lo stesso sconterà da condannato all’esito del giudizio definitivo di responsabilità.
Dall’altro canto, i primi importanti interventi legislativi del 1991, avvenuti sulla spinta della legislazione dell’emergenza seguita all’aggravarsi del fenomeno mafioso trovarono il favore degli ambienti
giudiziari, i quali formularono più o meno palesemente, la richiesta di una pregnante riduzione dell’area di discrezionalità in materia di misure cautelari restrittive.
L’atteggiamento si spiegava con la volontà di costruire una barriera normativa che ponesse gli stessi
giudici al riparo dal pericolo di pressioni e intimidazioni soprattutto nei processi per criminalità organizzata di tipo mafioso 15.
Ma, mentre con il primo intervento legislativo si riservava al giudice la possibilità di valutare se le
esigenze cautelari potessero essere soddisfatte con altre misure 16, già con il secondo veniva sottratto al
giudice il residuo margine di apprezzamento in chiave di adeguatezza, impedendogli di optare per gli
arresti domiciliari o per una misura meno gravosa 17.
Siamo così al ritorno delle presunzioni.
La riduzione del margine di discrezionalità nell’applicazione della misura, inoltre, fa da contraltare,
nell’ambito della giurisprudenza, ad una sostanziale pigrizia motivazionale sul fronte della sussistenza
delle esigenze cautelari necessarie per l’applicazione della misura.
Si assiste ad un graduale assorbimento nell’ambito del requisito della sussistenza della gravità indiziaria dell’onere motivazionale sulla concretezza delle esigenze cautelari.
12
A.A. Dalia-G. Pierro, Giurisdizione penale, in Enc. Giur., vol. XVII, Roma, 1989, p. 2.
13
G. Riccio, Principio di giurisdizionalità e vincoli alla discrezionalità nell’odierna disciplina della libertà personale, cit., p. 46.
14
G. Riccio, Principio di giurisdizionalità e vincoli alla discrezionalità nell’odierna disciplina della libertà personale, cit., p. 34.
15
V. Grevi, Nuovo codice di procedura penale e processi di criminalità organizzata: un primo bilancio, in V. Grevi (a cura di), Processo penale e criminalità organizzata, Bari, 1993, p. 10.
16
Così l’art. 5 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203.
17
Così art. 1 d.l. 9 settembre 1991, n. 292, conv. in legge 8 novembre 1991, n. 356; cfr. anche G. Barrocu, La presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere: evoluzione normativa e giurisprudenziale, in Dir. pen. proc., 2012, p. 225.
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A fronte di gravi indizi di colpevolezza ed oltre il meccanismo delle presunzioni normative, l’applicazione della misura custodiale carceraria è di fatto quasi automatica e l’onere motivazionale viene assolto con formule di stile.
La necessità di provare a ricondurre il sistema alla originaria filosofia di matrice costituzionale appariva esigenza di non trascurabile urgenza.
LA RIFORMA DELL’ART. 274 C.P.P.: L’ATTUALITÀ DELLE ESIGENZE DI CAUTELA
Ed eccoci alla nuova disciplina 18. L’art. 1 legge n. 47/2015 ha riformato l’art. 274, comma 1, lett. b),
c.p.p. Il pericolo di fuga che legittima l’applicazione di una misura cautelare, oltre ad essere “concreto”,
deve essere anche “attuale”. L’art. 2 della legge di riforma, poi, ha esteso il requisito dell’attualità pure
al pericolo di reiterazione del reato. Il timore di commissione di «gravi delitti con uso di armi o di altri
mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della
stessa specie di quello per cui si procede», previsto dall’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p., deve essere concreto ed «attuale». Per effetto di queste interpolazioni, le esigenze di cautela di cui all’art. 274, comma 1,
lett. b) e c), c.p.p. sono state uniformate a quella di cui alla lett. a) del medesimo articolo, che già richiedeva il presupposto dell’attualità perché il pericolo di inquinamento probatorio potesse giustificare una
misura cautelare. Verificandone l’utilità e l’impatto sul sistema, ad un approccio superficiale, il nuovo
riferimento all’attualità può apparire ridondante, risolvendosi in un’inutile specificazione del requisito
di concretezza che la norma già prevedeva. Il rischio di fuga o quello di reiterazione del reato, infatti,
secondo alcuni, può essere “concreto”, solo se è “attuale” 19.
La modifica dell’art. 274 c.p.p. potrebbe apparire addirittura superflua perché l’art. 292, comma 2,
lett. c), c.p.p., disciplinando il contenuto dell’ordinanza del giudice, già imponeva di tenere conto anche
del tempo trascorso dalla commissione del reato nella motivazione della necessità di cautela 20.
La stessa giurisprudenza, tuttavia, anche in una decisione recente, ha affermato che, ai fini della valutazione del pericolo di consumazione di ulteriori reati della stessa specie, il requisito della “concretezza” non
si identifica con quello di “attualità”. Il primo impone di riconoscere l’esistenza di elementi “concreti”, cioè
non meramente congetturali, sulla base dei quali possa affermarsi che l’imputato, verificandosi l’occasione,
possa facilmente commettere reati o possa darsi alla fuga. L’attualità, invece, deriva dalla sussistenza di
imminenti occasioni di fuga o di occasioni prossime e favorevoli alla commissione di nuovi reati 21.
Può quindi affermarsi che la locuzione inserita nell’art. 274 c.p.p. persegue uno scopo ben preciso, incontrando, dal punto di vista teorico, una valenza di estremo rilievo perché l’attualità del pericolo non si
identifica con la concretezza di simile timore. A ben vedere, essa impone, anche sul piano concreto, un ulteriore e preciso vincolo per la motivazione dell’ordinanza applicativa della misura cautelare: il giudice
non solo deve spiegare perché il pericolo che s’intende scongiurare motivare è effettivo, nel senso che non
deve essere generico o astratto, ma deve soffermarsi anche sull’attualità dello stesso, determinandosi per
l’applicazione della misura solo se ricorrono occasioni prossime di fuga o di reiterazione dei reati.
Il legislatore della novella che ha modificato la disciplina dei provvedimenti cautelari penali, invero,
ha inteso richiamare nuovamente l’attenzione del giudicante sui profili motivazionali della decisione
che comprime la libertà personale 22. Le ordinanze de libertate lasciano spesso a desiderare piuttosto che
18
Per un’analisi completa della riforma del procedimento cautelare, cfr. E. Turco, La riforma delle misure cautelari, in Proc. pen.
giust., 2015, n. 5, p. 106.
19
Cfr. E. Campoli, L’ennesima riforma della disciplina delle misure cautelari personali: prime osservazioni e primi approcci pratici, in
Diritti e giurisdizione, Rivista della Scuola Superiore della Magistratura, Struttura decentrata del Distretto di Corte di Appello di Napoli,
2015, p. 40.
20
Cfr. E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit., p. 114, secondo cui «la prima puntualizzazione (quella relativa all’attualità) è
un chiaro esempio di pleonasmo normativo: come se fosse possibile individuare un pericolo “concreto” e, nel contempo, potenziale, rectius
non attuale».
21
Cass., sez. V, 15 maggio 2014 n. 24051, in CED Cass. n. 260143. In precedenza, cfr. Cass., sez. VI, 5 aprile 2013 n. 28618, in
CED Cass. n. 255857; Cass., sez. I, 3 giugno 2009, n. 25214, in CED Cass. n. 244829; Cass., sez. I, 20 gennaio 2004, n. 10347, in CED
Cass. n. 227227; Cass., sez. III, 26 marzo 2004, n. 26833, in CED Cass. n. 229911.
22
Il legislatore della riforma intendeva rinforzare l’onere di motivazione, sia del provvedimento genetico che di quello del
giudice del riesame. Cfr. G. Spangher, Brevi riflessioni sistematiche sulle misure cautelari dopo la legge n. 47 del 2015, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 6 luglio 2015, p. 3.
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sul piano della dimostrazione della gravità indiziaria, su quello dell’illustrazione delle esigenze di cautela. Raramente in questa parte dei provvedimenti si va oltre l’impiego di formule di stile 23.
Concretezza, attualità e grado delle esigenze cautelari, così come il criterio di adeguatezza, tuttavia,
sono attuazione dei principi fondamentali di questa materia e assicurano la salvaguardia della libertà
personale di cui agli artt. 13 Cost. e 5 Cedu e l’equo contemperamento con la necessità della sicurezza
sociale. Questi profili, pertanto, non possono essere affrontati con formule stereotipate e generiche ovvero con riferimenti neutri o vaghi.
Alla riforma, quindi, è sottesa l’idea, di sicuro apprezzamento, secondo cui meglio è delineato il contenuto del provvedimento e più precise sono le regole di valutazione che il giudice deve impiegare, più
si attenua il rischio dell’abuso delle misure cautelari. Si rimarca, in altri termini, che un simile provvedimento, mirando a impedire i pericoli illustrati nell’art. 274 c.p.p., si fonda su basi diverse dalla pena,
di cui non può essere un’anticipazione.
L’impegno motivazionale richiesto al giudicante, peraltro, non comporta necessariamente una valutazione specifica dei singoli presupposti.
Grava sul giudice l’obbligo di una considerazione della concretezza e dell’attualità delle esigenze
cautelari che può essere condotta secondo «una logica sintetica che tutti – gli elementi posti a sostegno della
richiesta – li valuta senza procedere a frammentazioni di comodo o a separazioni per coppie dialettiche di fonti che
hanno un significato unitario e complessivo» 24.
IL RILIEVO DEL TEMPO TRASCORSO DAI FATTI
L’adozione di provvedimenti cautelari ad una significativa distanza dai crimini oggetto delle indagini è questione che ha occupato la giurisprudenza degli ultimi anni, anche in considerazione della
estrema diffusione del fenomeno, prevalentemente originato tanto dalla perdurante tendenza ad istruire procedimenti penali con un numero notevole di indagati, quanto dalla stessa durata delle indagini
preliminari, a cui si associa la prassi di avanzare richieste di cautela soltanto dopo la scadenza dei termini per svolgere le investigazioni.
Un consolidato e prevalente indirizzo giurisprudenziale aggirava le problematiche connesse ad un
provvedimento cautelare emesso dopo un rilevante lasso temporale rispetto ai fatti in contestazione
semplicemente affermando che il requisito dell’attualità non rilevava ai fini della valutazione del pericolo di recidiva 25 o di quello di fuga 26. L’art. 274, comma 1, lett. b) e c), c.p.p., infatti, a differenza di
quanto previsto dalla lett. a) della medesima norma, non impiegava l’aggettivo “attuale” con riferimento al tali timori, pretendendone solo la concretezza.
Secondo un altro orientamento, al contrario, l’attualità del pericolo, anche prima della legge n. 47/
23
Cfr. la Relazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2012 del Primo Presidente della Corte di cassazione E.
Lupo, nella quale si legge che «le ordinanze cautelari e i provvedimenti di riesame continuano a essere caratterizzati da assoluto squilibrio
tra la parte dedicata alla gravità indiziaria e la motivazione in punto di necessità cautelare, troppo spesso dedicando poche stereotipate parole
alla valutazione d’inadeguatezza di misure attenuate, che di fatto continuano ad essere adottate in misura percentuale significativamente
ridotta (in particolare per stranieri e indigenti)».
24
Cass., sez. IV, 26 giugno 2007 n. 6717, in CED Cass. n. 239019.
25
Cfr. Cass., sez. IV, 10 aprile 2012, n. 18851, in CED Cass. n. 253861.
26
Secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte, «la sussistenza del pericolo di fuga non deve essere desunta
esclusivamente da comportamenti materiali, che rivelino l’inizio dell’allontanamento o una condotta indispensabilmente prodromica (come
l’acquisto del biglietto o la preparazione dei bagagli), essendo sufficiente accertare con giudizio prognostico, in base tra l’altro alla concreta
situazione di vita del soggetto, alle sue frequentazioni, ai precedenti penali, ai procedimenti in corso, un reale ed effettivo pericolo,
difficilmente eliminabile con tardivi interventi» (Cass., sez. II, 5 dicembre 2013, n. 51436, in CED Cass. n. 257981. In senso analogo,
tra le altre, cfr. Cass., sez. IV, 27 giugno 2006, n. 29998, in CED Cass. n. 234819; Cass., sez. IV, 25 maggio 2007, n. 42683, in CED
Cass. n. 238299; Cass., Sez. V, 7 giugno 2010, n. 25926, in CED Cass. n. 248121). Tale indirizzo si pone in linea con l’insegnamento
delle Sezioni Unite, in relazione al pericolo di fuga necessario, ai sensi dell’art. 307 c.p.p., per il ripristino della misura
custodiale, dopo la scarcerazione per la decorrenza dei termini, secondo cui la valutazione prognostica deve essere svolta «non
in astratto, e quindi in relazione a parametri di carattere generale, bensì in concreto, e perciò con riferimento ad elementi e circostanze
attinenti al soggetto, idonei a definire, nel caso specifico, non la certezza, ma la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce
(personalità, tendenza a delinquere e a sottrarsi ai rigori della legge, pregresso comportamento, abitudini di vita, frequentazioni, natura delle
imputazioni, entità della pena presumibile o concretamente inflitta), senza che sia necessaria l’attualità di suoi specifici comportamenti
indirizzati alla fuga o a anche solo a un tentativo iniziale di fuga» (Cass., sez. un., 11 luglio 2001, n. 34537, in CED Cass., n. 219600).
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2015, doveva ricorrere per ogni esigenza di cautela, ancorché la sua valutazione si risolvesse in un giudizio ancorato alla distanza temporale rispetto ai fatti oggetto della contestazione 27. L’art. 292, comma
2, lett. c), c.p.p., infatti, nel pretendere a pena di nullità che l’ordinanza contenga l’esposizione delle
specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura, impone di tener conto
del tempo trascorso dalla commissione del reato.
Tale precisazione, secondo il citato orientamento giurisprudenziale, doveva essere letta proprio nella
prospettiva della necessità dell’attualità del pericolo per l’applicazione del provvedimento privativo
della libertà personale.
L’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p., che, sul punto, è stato novellato dalla legge n. 332/1995, ha codificato una regola d’esperienza, secondo cui «ad una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari» 28. La pregnanza del periculum preso in considerazione, pertanto, deve
inevitabilmente attualizzarsi in proporzione diretta con il tempus commissi delicti, sull’ovvia presupposizione che, alla maggior distanza temporale dei fatti, finisca di regola per corrispondere una proporzionale attenuazione del bisogno di cautela 29.
La riforma dell’art. 274 c.p.p. compiuta dalla legge n. 47/2015, estendendo il requisito dell’attualità
del pericolo ad ogni esigenza cautelare che si intende scongiurare, incide proprio su questo profilo. Si
potrebbe sostenere, infatti, che, dovendo essere “attuali”, non possono sussistere esigenze di cautela
quando le indagini concernono fatti avvenuti in un periodo risalente.
Il rilevante lasso temporale trascorso dalla commissione dei fatti oggetto di contestazione, tuttavia,
neppure dopo la riforma della norma appena indicata, vale ad escludere automaticamente l’attualità
dei rischi contemplati dall’art. 274 c.p.p. 30. Semmai la distanza dagli episodi criminosi accentua l’onere
di motivazione del giudicante, il quale, se si determina per l’applicazione della misura, dovrà spiegare
perché, nonostante il tempo passato dalle vicende per le quali si procede, sono sussistenti necessità di
cautela. In questa prospettiva, l’adozione di un provvedimento restrittivo è possibile solo se dagli atti
emergono indici recenti della pericolosità dell’indagato, desunti dalle caratteristiche dei fatti o dai tratti
peculiari della persona di cui si intende limitare la libertà personale. Questi elementi, che vanno opportunamente evidenziati nel supporto motivazionale dell’ordinanza, devono lasciar ragionevolmente
supporre il pericolo della concretizzazione dei pericoli che la misura cautelare è chiamata a neutralizzare, nonostante le indagini abbiano dimostrato illeciti commessi in un’epoca risalente.
Il giudizio sull’attualità, ormai imprescindibile nella motivazione del provvedimento cautelare, in
altri termini, non può essere risolto nel solo riferimento al tempo trascorso dai fatti. Quest’ultimo apprezzamento, come si è visto, era già necessario in forza dell’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p.
A seguito della riforma, invece, l’art. 274 c.p.p. impone di effettuare una valutazione dell’attualità
dei pericoli da scongiurare che va al di là della sola considerazione del tempo trascorso dai fatti ed investe ogni aspetto oggettivo e soggettivo del reato per il quale si procede, nonché qualsiasi tratto desumibile dalle investigazioni che manifesta le attitudini, le inclinazioni o le intenzioni dell’agente.
27
Cfr., quanto al pericolo di reiterazione, Cass., sez. VI, 26 novembre 2014 n. 52404, in CED Cass. n. 261670. Alcune
pronunce, anche recenti, hanno fatto esplicito riferimento al requisito dell’attualità, accanto a quello della concretezza, per
l’esistenza del pericolo di fuga. Cfr., ad esempio, Cass., sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 3503, in CED Cass. n. 258253, secondo cui «la
misura coercitiva del divieto di espatrio (art. 281 cod. proc. pen.) può essere applicata, nelle ipotesi in cui si procede per uno dei delitti
previsti dall’art. 280 cod. proc. pen., quando dagli atti emerga un concreto e attuale pericolo che l’imputato si dia alla fuga all’estero, e non
per il soddisfacimento delle esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. c), cod. proc. pen.». In senso conforme, cfr. Cass., sez. VI, 27
maggio 1999, n. 1990, in CED Cass. n. 214115.
28
Cass., sez. un., 24 settembre 2009, n. 40538, in CED Cass. n. 244377, in una fattispecie in cui l’ordinanza di custodia cautelare in carcere era stata emessa in relazione a fatti commessi più di tre anni prima.
29
Cass., sez. VI, 26 febbraio 2013 n. 20112, in CED Cass. n. 255725; Cass., sez. II, 8 maggio 2008, n. 21564, in CED Cass. n.
240112. La distanza temporale tra i fatti e il momento della decisione sulla richiesta di sostituzione della misura cautelare in atto
comporta un rigoroso obbligo di motivazione anche in ordine all’attualità e non solo all’intensità delle esigenze cautelari pure in
occasione della valutazione di istanze di revoca o di modifica di misure in esecuzione, cfr. Cass., sez. IV, 21 novembre 2013 n.
49112, in CED Cass. n. 257880. In senso contrario, cfr. Cass., sez. II, 30 novembre 2011 n. 47416, in CED Cass. n. 252050.
30
Cass., sez. II, 8 ottobre 2013 n. 49453, in CED Cass. n. 257974; Cass., sez. IV, 24 gennaio 2013 n. 6797, in CED Cass. n. 254936;
Cass., sez. IV, 26 giugno 2007, n. 6717, cit., in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto congrua la motivazione della misura
custodiale fondata sull’accertamento dell’attuale adesione del ricorrente, inquisito per reati risalenti nel tempo, ad un’associazione criminale per lo spaccio di droga.
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SEGUE: LE ATTIVITÀ CRIMINALI SVOLTE SU BASE PROFESSIONALE
Un meccanismo automatico in forza del quale il trascorrere del tempo senza l’adozione di un provvedimento determina l’estinzione del potere-dovere di applicazione delle misure cautelari stesse, dunque, non è desumibile dalla formulazione dell’art. 274 c.p.p., né simile automatismo deve ricavarsi
dall’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p. Le disposizioni richiamate impongono solo un’adeguata motivazione sull’attualità, oltre che sulla concretezza dei pericoli da evitare, tanto più appropriata quanto più
il tempo trascorso dalla commissione del fatto rischi di far apparire paradossale l’affermazione di attualità del pericolo o evanescente la concretezza 31.
Una situazione in cui, ai fini dell’applicazione di una misura cautelare, si affievolisce il rilievo del
tempo passato rispetto al fatto per cui si procede può ricorrere nel caso di attività criminali svolte su
base “professionale”. Si allude ai contesti in cui è dimostrato che l’agire illecito è la fonte di sostentamento principale dell’indagato oppure ai reati compiuti da strutture stabili, operanti nel tempo ed organizzate. In questi casi, il periodo trascorso tra il verificarsi del fatto addebitato e l’emissione del
provvedimento potrebbe non essere elemento da solo sufficiente ad escludere l’attualità del pericolo di
recidiva di cui all’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p.
Si pensi, ad esempio, ai procedimenti nei quali è dimostrato che i reati sono l’unica attività da cui
originano i guadagni dell’indagato o a quelli in cui sia accertata la partecipazione ad organizzazioni
criminali, come quelle dedite alla cessione di droga, quando è provata la continuità delle azioni di spaccio e la consapevolezza dell’adesione ad un patto delinquenziale inteso alla commissione di un numero
indeterminato e, perciò, permanente nel tempo di delitti in materia di stupefacenti. In simili condizioni
non è meramente congetturale o ipotetica, e dunque è concreta, l’eventualità della reiterazione di illeciti
attinenti al traffico degli stupefacenti; nel contempo, sussiste anche l’attualità del timore di recidiva, che
non può dirsi elisa dal fatto che le indagini abbiano svelato episodi criminosi risalenti nel tempo.
Una condizione simile alla precedente potrebbe riguardare le persone che hanno commesso più fatti
illeciti, magari lesivi del medesimo bene giuridico, manifestando, in tal modo, una personalità particolarmente incline al delitto. In questo caso, più che la “professionalità”, rileva lo “stile di vita criminale”
dell’indagato. Il concreto pericolo di ripetizione dell’attività criminosa può essere desunto anche dalla
molteplicità dei fatti contestati 32. Pure in tali ipotesi, il rilievo della distanza temporale dai fatti per cui
si procede si sbiadisce dinanzi alle caratteristiche soggettive dell’agente.
Ai fini della configurabilità dell’esigenza cautelare di cui all’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p., in termini diversi, un effettivo pericolo di reiterazione dell’attività criminosa può essere ricavato anche dalla
molteplicità dei fatti contestati, perché essa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto, indipendentemente
dall’attualità di detta condotta e anche nel caso in cui essa sia risalente nel tempo 33.
ENTITÀ DEL REATO E PRESUNZIONI DI PERICOLOSITÀ
Un altro aspetto di assoluto rilievo introdotto dalla novella è quello avente ad oggetto la previsione
esplicita che la sussistenza delle situazioni di “concreto e attuale” pericolo, sia con riguardo alla fuga, che
in relazione alla reiterazione del crimine, non può essere desunta «esclusivamente dalla gravità del reato
per cui si procede» (rispettivamente art. 1 e art. 2, comma 1, lett. c), legge n. 47/2015). L’obiettivo perseguito dal legislatore, ugualmente condivisibile, è senz’altro quello di evitare, come la giurisprudenza ha
mostrato spesso di fare, che le esigenze cautelari possano essere ricavate dalla gravità astratta o edittale
del crimine per il quale si procede e che la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza assorba, di fatto,
quella del bisogno di cautela, in relazione alla quale occorre invece una motivazione autonoma e specifica, che tenga conto effettivamente delle circostanze del fatto e della personalità dell’indiziato.
Nonostante quest’affermazione di principio, la nuova legge, pur riscrivendo l’art. 275, comma 3,
c.p.p. per allinearlo alle decisioni della Corte costituzionale, ha confermato il ricorso alle presunzioni di
31
Cass., sez. IV, 26 giugno 2007, n. 6717, cit.
32
Cass., sez. III, 17 dicembre 2013 n. 3661, in CED Cass. n. 258053.
33
Cass., sez. V, 16 novembre 2005, n. 45950, in CED Cass. n. 233222.
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pericolosità nei riguardi di un catalogo di reati rispetto ai quali la necessità di cautela si presume sia
sussistente. La norma codifica una regola di esperienza secondo cui al compimento di gravi illeciti penali si accompagnano esigenze di cautela, regola che si presenta come una sorta di eccezione rispetto al
principio, già insisto nel sistema, ma ormai esplicitato dalla legge n. 47/2015 che impedisce di legare la
necessità di cautela alla sola gravità del reato.
Come accennato in sede di premessa, la vicenda delle presunzioni di pericolosità è strettamente legata alla ricerca del giusto equilibrio fra l’interesse della tutela della collettività rispetto al diritto alla
libertà personale del singolo consociato meramente sospettato di aver commesso un reato.
Non previste nell’originario impianto del codice, faticosamente liberatosi dell’arnese di matrice fascista del mandato di cattura obbligatorio, esse vengono introdotte con la prima novella del 1991, ovvero ad appena due anni dalla promulgazione del nuovo codice. Come a dire che i principi riformatori
erano sacrosanti e consacrati nella Costituzione, ma le deroghe erano inevitabili a fronte di eccezionali
condizioni come quelle legate alla lotta alla criminalità organizzata.
Successivamente, ovvero dopo soli altri quattro anni, il catalogo dei reati per cui si prevedeva la presunzione di pericolosità, inizialmente molto ampio, veniva significativamente ridotto 34, lasciando che
l’eccezione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p. fosse limitata ai delitti di cui all’art. 416-bis c.p. o ai delitti
commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare
l’attività delle associazioni previste nello stesso articolo 35. Insomma, i reati di mafia in senso stretto erano le uniche fattispecie in relazione alle quali persisteva la legittimità della presunzione, anche se nei
lavori preparatori della legge n. 332/1995 si confermava il divieto di reintrodurre l’obbligatorietà della
cattura preventiva.
Le altalenanti vicende sulla legittimità della presunzione si concludevano con nuovi interventi
d’urgenza; in particolare il “pacchetto sicurezza” del 2009 36 aveva ampliato, verrebbe da dire a dismisura, il numero dei reati ostativi.
Per quel che qui interessa, sul piano dommatico, basti ricordare che la norma presenta una incisiva
deroga ai principi di adeguatezza e di proporzionalità 37 che presiedono alla decisione del giudice sull’an e sul quomodo dell’intervento cautelare.
In relazione all’an della cautela, vige una presunzione relativa di pericolosità del soggetto per cui, in
relazione ai reati ivi indicati, la misura cautelare va applicata in presenza dei soli gravi indizi di colpevolezza; quanto invece al quomodo, vige una presunzione assoluta di pericolosità che impone al giudice
di applicare la custodia cautelare senza facoltà di scelta, esonerandolo, peraltro, dall’obbligo motivazionale. Si realizza, così un’evidente inversione delle coordinate del criterio di adeguatezza con la reviviscenza di meccanismi automatici di dubbia legittimità; la regola diventa l’adozione della misura e
l’eccezione il diniego della stessa 38.
La nuova formulazione della norma appariva espressione di una decisa volontà del legislatore di diversificare i regimi giuridici in relazione alla gravità degli addebiti 39; ma la duplice presunzione legale
riproduce, inevitabilmente, un meccanismo analogo all’istituto della cattura obbligatoria, previsto dal
Codice Rocco, collegato unicamente al tipo di reato o alla pena edittale prevista per esso, prescindendo
dalle situazioni specifiche e dalle esigenze del singolo caso 40.
34
G. Caselli-A. Ingroia, Gli effetti della legge 8 agosto 1995 n. 332 sui procedimenti di criminalità organizzata, in V. Grevi (a cura di),
Misure cautelari e diritto di difesa, Milano, 1996, p. 348; P. Ferrua, Potere istruttorio del pubblico ministero e nuovo garantismo:
un’inquietante convergenza degli estremi, in A. Gaito (a cura di), Studi sul processo penale in ricordo di A. Mazzara, Padova, 1996, p. 134.
35
Legge 8 agosto 1995, n. 332.
36
D.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38.
37
R. Magi, Norme processuali, garanzie dell’individuo e custodia cautelare obbligatoria, in Quest. giust., 2009, fasc. 4, p. 176.
38
A. De Caro, I presupposti applicativi, in A. Scalfati (a cura di), Misure cautelari, Vol. II, t. II, in Trattato di procedura penale,
diretto da G. Spangher, Torino, 2008, p. 86.
39
E. Marzaduri, Commento all’art. 5 della legge 8.8.1995 n. 332, in Legisl. pen., 1995, p. 624 ss.; E. Zappalà, Commento agli artt. 4 e
5, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, nuovi diritti di difesa e custodia cautelare, Padova, 1995, p. 88; A. De Caro, I presupposti applicativi, cit., p. 86.
40
A. Negri, Sulla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere nell’art. 275 comma 3 c.p.p., in Cass. pen.,
1996, p. 2835; F. Peroni, Le misure interdittive nel sistema delle cautele penali, Milano, 1992, p. 145; C. Carreri, Nota a Sez. fer., 20 agosto 1991, Giordano, in Cass. pen, 1992, p. 342; E. Zappalà, Le garanzie giurisdizionali in tema di libertà personale e di ricerca della prova,
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Le affinità del vecchio istituto con la presunzione assoluta di adeguatezza sono evidenti: l’attuale disciplina prevede l’applicazione della custodia cautelare in presenza dei gravi indizi di colpevolezza e di
determinate ipotesi di reato (particolarmente gravi); allo stesso modo, la disciplina della cattura obbligatoria prevedeva che si valutasse la sussistenza di presupposti specifici (i sufficienti indizi di colpevolezza e le qualità morali e sociali della persona) e presupposti generici (quelli attinenti alla gravità del
reato) 41.
In sostanza, nel vecchio sistema il legislatore, secondo il principio di tassatività, stabiliva tipi e modi
della restrizione della libertà, per la quale bastava la sussistenza dei sufficienti indizi per applicare automaticamente, ed in modo obbligatorio, la misura carceraria, a prescindere dalla sussistenza di qualsiasi esigenza 42; era un sistema basato fondamentalmente su presunzioni legali.
Progressivamente circoscritta, ravvisandosi il contrasto con gli artt. 3, 13 e 27 Cost., con una serie di
decisioni molto ravvicinante nel tempo, la Corte costituzionale ha previsto che la presunzione di assoluta adeguatezza della custodia cautelare possa essere vinta se, in forza delle circostanze concrete del
caso, sia considerata appropriata una misura meno afflittiva 43.
Allo stato, dunque, la presunzione di assoluta adeguatezza della misura detentiva permane solo nel
caso in cui sussista la gravità indiziaria del reato di cui all’art. 416-bis c.p. e di quelli associativi che ledono la personalità dello Stato; di conseguenza, la presunzione di esistenza di esigenze di cautela in relazione ai reati previsti dall’art. 275, comma 3, c.p.p. ha una portata meramente relativa.
Come ha precisato la Corte costituzionale, possono essere previste delle ipotesi in cui la scelta della
misura da applicare viene effettuata «in termini generali dal legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti», sottraendo al giudice la valutazione in
ordine al «quomodo della cautela»; tuttavia, «la sussistenza in concreto di una o più delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l’an della cautela) comporta, per definizione, l’accertamento, di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza» 44.
La presunzione di sussistenza delle esigenze di cautela investe anche i profili relativi all’attualità e
alla concretezza. Ricorrendo la gravità indiziaria di uno dei reati contemplati nel catalogo dell’art. 275,
comma 3, c.p.p., da parte del legislatore si presumono esistenti esigenze di cautela attuali e concrete. La
presunzione, però, è relativa. Essa può essere superata se dagli atti delle indagini emergono elementi in
grado di escludere i pericoli che l’art. 274 c.p.p. intende evitare.
La presunzione dell’art. 275, comma 3, c.p.p., invero, non determina un’inversione dell’onere probatorio.
Costituirebbe grave errore ritenere che, in presenza della gravità indiziaria di taluni reati il giudice
possa evitare di occuparsi delle esigenze cautelari, rinunciando all’impegno ricostruttivo di tale profilo
e ciò neppure quando non sono stati addotti dalla difesa elementi a “discarico”.
Il giudice non può ritenersi esonerato dal considerare fatti o circostanze che potrebbero indurre ad
escludere l’esistenza delle esigenze cautelari anche se questi dovessero emergere dagli stessi atti prodotti dal pubblico ministero a sostegno della sua richiesta. Egli deve, caso per caso, verificare, nonostante la presunzione, se gli elementi raccolti nelle indagini dimostrano che non sussistono le esigenze
di cui all’art. 274 c.p.p.
Se la motivazione sul punto delle esigenze cautelari, secondo lo schema stabilito a pena di nullità
dall’art. 292 c.p.p., è insopprimibile, tuttavia, la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p., in ogni
caso, determina una semplificazione dell’onere probatorio che grava sulla parte pubblica, che potrà liin Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari (Atti del Convegno, Noto Marina, 30 settembre-2 ottobre 1993), Milano, 1993, p. 59 e ss.
41
G. De Luca, Cattura, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 525; F. Carnelutti, Lezioni sul processo penale, II, Roma, 1947, p. 139.
42
L. Grilli, Procedura penale. Guida pratica, Padova, 2008, p. 576 ss.
43
Corte cost., sent. 26 marzo 2015 n. 48, in www.giurcost.org, in relazione al reato di concorso esterno in associazione mafiosa;
Corte cost., sent. 23 luglio 2013, n. 232, in www.giurcost.org, relativa all’art. 609-octies c.p.; Corte cost., sent. 18 luglio 2013, n. 213,
in www.giurcost.org, in ordine al delitto di cui all’art. 630 c.p.; Corte cost., sent. 29 marzo 2013, n. 57, in www.giurcost.org, in
ordine ai delitti aggravati ex art. 7 legge n. 203/1991; Corte cost., sent. 3 maggio 2012, n. 110, in www.giurcost.org, in ordine
all’associazione per delinquere finalizzata ai delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p.; Corte cost., sent. 22 luglio 2011, n. 231, in
www.giurcost.org, in ordine al delitto di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309/1990; Corte cost., sent. 12 maggio 2011, n. 164, in
www.giurcost.org, in ordine al delitto di omicidio; Corte cost., sent. 21 luglio 2010, n. 265, in www.giurcost.org, in ordine ai delitti
di cui agli artt. 600-bis, comma 1, 609-bis e 609 quater c.p.
44
Cfr. Corte cost., ord. 16 marzo 2003, n. 130, in www.giurcost.org; Corte Cost, ord. 6 marzo 2002, n. 40, in www.giurcost.org
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mitarsi ad evidenziare che non sono stati raccolti dati in grado di vincere la presunzione. Tale effetto
potrebbe derivare proprio dal distacco temporale intervenuto dai fatti laddove lo stesso, per la sua significativa durata e per la combinazione con altri fattori soggettivi ed oggettivi, possa dare dimostrazione della insussistenza delle esigenze cautelari 45.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La decisione in commento, utile paradigma per una verifica concreta degli effetti della novella cautelare risultando chiaramente ispirata dall’intenzione di dare piena applicazione alla nuova disposizione,
offre interessanti spunti di riflessione e solleva taluni aspetti di criticità.
Accertata la gravità indiziaria, la riferibilità delle condotte contestate ad un periodo di tempo risalente ad oltre tre anni precedenti all’emissione dell’ordinanza ha imposto al collegio di verificare quanto il fattore tempo avesse inciso in concreto sulla sussistenza del pericolo di reiterazione, nella piena
consapevolezza che, stante la tipologia delle condotte contestate, in assenza della modifica normativa,
si sarebbe proceduto senz’altro a confermare la legittimità dell’emissione dell’ordinanza cautelare.
Ciò posto, l’assenza di notizie sull’attualità della condotta potrebbe ad una prima lettura far propendere l’osservatore per una piena condivisione di quanto assunto dal tribunale. Tuttavia, annullando
l’ordinanza cautelare, il collegio non sembra soffermarsi adeguatamente su due dati che emergono con
chiarezza dallo stesso provvedimento del collegio. Il primo è relativo alla natura dell’attività illecita che
rappresentava la principale fonte di guadagno degli indagati. Il secondo discende dalla natura e dalle
caratteristiche del reato associativo di cui è stata ravvisata la gravità indiziaria.
Le modifiche normative introdotte dalla recente novella, invero, non fanno certamente cadere la presunzione relativa di pericolosità “sopravvissuta” alle sentenza della Corte costituzionale, sicché, una
volta affermata la sussistenza degli indici rivelatori di un’organizzazione dedita alla cessione di stupefacenti, l’operatività della presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p., imponeva al tribunale di evidenziare gli elementi in base ai quali non ricorrevano le esigenze di cautela presunte dal legislatore 46. Il
mero decorso del tempo dall’instaurazione del vincolo, in altri termini, non appare di per sé assorbente
e decisivo per escludere l’attualità delle esigenze social-preventive, ma deve essere considerato unitamente ad altri elementi specifici, idonei per verificarne l’incidenza sull’intensità del pericolo di recidiva,
che provino l’irreversibile recisione dei legami di quest’ultimo con l’associazione criminosa di appartenenza 47.
L’entità del fatto costituisce uno dei referenti della valutazione di proporzionalità che riempie di significato la scelta della misura. Pertanto, se il fatto non è “grave”, la valutazione cautelare deve essere
negativa 48 e la misura non sarà applicata, ma a fronte di un fatto di una rilevante gravità la valutazione
sulla cautela dovrà spingersi verso una conferma della sussistenza dei requisiti richiesti, anche a fronte
del decorso del tempo. Prescindere dal rapporto fatto – misura, fa perdere al provvedimento cautelare
il suo carattere individualizzante.
Al tribunale che si è occupato della vicenda in parola, pertanto, è sfuggito che il principio della discrezionalità cautelare suggerisce sempre l’indagine su modalità e circostanze del fatto, sulla condotta
posta e su elementi concreti della personalità del soggetto desunta dai precedenti penali, dall’ambiente
di provenienza e da ogni altro elemento utile al giudizio. La presunzione relativa fa sì che resta delegata al giudice non solo la verifica circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ma anche
dell’utilità della misura 49.
45
Cass., Sez. III, 15 luglio 2015 n. 33037, in CED Cass. n. 264190.
46
La dottrina (E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit., p. 106), prendendo atto del permanere delle presunzioni, si è
chiesta «se il legislatore, ancora una volta, non abbia deluso le aspettative dei molti. Forse, con più coraggio, muovendosi all’interno di un
sistema cautelare ispirato ai principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, avrebbe dovuto gettare definitivamente alle ortiche il
regime presuntivo assoluto e allargare le maglie di quello che si fonda sulla doppia presunzione relativa. Perché rispetto a qualunque
tipologia di reato contestato – giova precisarlo – il regime custodiale obbligatorio fa perno su una massima di esperienza pronta a sfaldarsi
nell’impatto con gli accadimenti reali».
47
Cass., sez. IV, 8 aprile 2014, n. 34786, in CED Cass. n. 260293.
48
A. De Caro, I presupposti applicativi, cit., p. 84.
49
A.A. Dalia-M. Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, IV ed., Padova, 2001, p. 303.
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L’arresto giurisprudenziale secondo cui «la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi
di segno contrario – non eccede, per contro, i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale
verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso» 50, non può ritenersi scalfito dalla modifica normativa.
Sul piano più squisitamente pratico, invece, può apparire utile da parte dei pubblici ministeri richiedere alla polizia giudiziaria la verifica della persistenza delle condotte oggetto d’indagine e ciò, evidentemente, soprattutto in relazione ai quei reati non istantanei o comunque legati a contesti di criminalità
abitudinaria in cui la reiterazione può essere altamente presumibile anche per la mancanza di diverse
fonti di sussistenza per i soggetti coinvolti.
50
Corte cost., sent. 22 luglio 2011, n. 231, cit.; Corte cost., sent. 21 luglio 2010, n. 265, cit.; Corte cost., sent. 12 maggio 2011, n.
164, cit.
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ALESSANDRO DIDDI
Professore a contratto di Procedura penale presso l’Unical
Profili processuali della riforma penale-tributaria
The questionable choices of the latest tax offences’ reform in the light
of criminal procedure law
Le modifiche introdotte dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, solo in apparenza marginali, riguardano la disciplina
processuale del patteggiamento (che può essere richiesto solo in presenza dell’estinzione delle obbligazioni tributarie) e della confisca, diretta e per equivalente (adottabile per tutti i reati previsti dal d.lgs. n. 74/2000).
Il quadro generale risultante dalla riforma fa registrare un’ipertrofia punitiva non più compatibile con il principio del
ne bis in idem e un intreccio tra sistema sanzionatorio amministrativo e penale di difficile lettura.
D.lgs. 158/2015, while following the goal of preventing and combating tax offences, has exasperated the interweaving between administrative punitive measures and the criminal punishment system, which has negative effects on the ne bis in idem principle.
The complex patchwork of the two different systems will probably provide a worse framework for practitioners to
deal with.
RILIEVI INTRODUTTIVI
Nel quadro dell’attuazione della delega contenuta nell’art. 8, comma 1, legge 11 marzo 2014, n. 23 attraverso la quale il Governo è stato chiamato a procedere alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti e alla revisione del sistema sanzionatorio amministrativo, due interventi hanno riguardato anche alcuni profili processuali.
L’art. 12 d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 ha introdotto l’art. 13-bis nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, prevedendo che per i delitti di cui al decreto medesimo l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p.
possa essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1 dell’art. 13 – vale a
dire quando l’imputato abbia adempiuto le diverse obbligazioni tributarie connesse all’illecito – nonché
quando l’interessato abbia fatto ricorso al ravvedimento operoso.
Apparentemente si tratta della mera riedizione di quanto già statuiva l’art. 13, comma 2-bis, del
d.lgs. n. 74/2000 1, che, appunto, per la prima volta, aveva previsto per la definizione del giudizio attraverso il patteggiamento la refusione del debito tributario a carico degli imputati nei modi previsti
dall’art. 13 del medesimo decreto.
Come si vedrà, tuttavia, non si tratta di una mera ricollocazione ‘geografica’ della disposizione dal
momento che, per effetto delle modifiche introdotte al sistema delle circostanze, ma soprattutto a seguito dell’introduzione di una inedita causa di non punibilità per determinati reati in conseguenza
dell’attuazione di condotte riparatorie, è lo stesso regime del patteggiamento a risultarne sensibilmente
condizionato.
1
L’art. 13, comma 2-bis in parola è stato inserito dall’art. 2, comma 36-viciel semel, lett. m), d.l. 13 agosto 2011, n. 138,
convertito con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148. Sulla disciplina introdotta attraverso tale intervento, cfr. A.
Gastone, La "miniriforma" dei reati tributari di cui al d.l. n. 138 del 2011, convertito nella l. n. 148 del 2011, in Cass. pen., 2011, p. 3695.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | PROFILI PROCESSUALI DELLA RIFORMA PENALE-TRIBUTARIA
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Gli artt. 10 e 13, poi, hanno, rispettivamente, disciplinato il regime della confisca – diretta o per
equivalente – del profitto o del prezzo conseguiti attraverso i reati previsti dal d.lgs. 74/2000 e dato attuazione ad uno specifico punto della legge delega che aveva demandato all’esecutivo di definire le
modalità di custodia giudiziale dei beni sequestrati nell’ambito di procedimenti penali relativi a delitti
tributari.
Anche con riferimento a tale punto della novella le modifiche non sembrano poter essere ridotte ad
una mera operazione di restyling.
Come noto, il comma 143 dell’art. 1, legge 24 dicembre 2007, n. 244 2, abrogato dall’art. 14 d.lgs. n.
158/2015, aveva per la prima volta dettato disposizioni in materia di confisca per equivalente in caso di
reati tributari. Tali disposizioni, oggi, vengono recepite all’interno del d.lgs. n. 74/2000.
Anche in questo caso nell’opera di sistemazione della materia, sono state inserite alcune varianti,
che, sebbene all’apparenza di poco conto, hanno in realtà non pochi riflessi pratici.
LIMITI AL PATTEGGIAMENTO
Nell’intraprendere l’analisi dei profili processuali della nuova disciplina sui reati tributari, la principale e più vistosa modifica introdotta dalla novella è rappresentata dai ritocchi al regime del patteggiamento che non si sono limitati allo spostamento della collocazione, ad opera dell’art. 12 del decreto
in commento, dal precedente art. 13 al nuovo art. 13-bis. Nonostante, infatti, siano stati ribaditi i limiti
all’applicazione della pena su richiesta delle parti per i reati tributari già presenti nel sistema, l’introduzione di inedite cause di non punibilità conseguenti all’adozione da parte dell’imputato di condotte riparatorie ha determinato una serie di ricadute – molto probabilmente non del tutto calcolate da
parte del legislatore – anche sul regime del patteggiamento.
In linea generale, come già accadeva prima della intervenuta novella, per poter accedere al rito speciale tradizionale o allargato, con riguardo ai delitti contemplati nel d.lgs. n. 74/2000, occorre che
l’imputato abbia proceduto alla definizione delle pendenze tributarie.
Come accennato, si tratta della riedizione dell’art. 13, comma 2-bis 3, d.lgs. n. 74/2000 e della conferma di una linea di politica criminale, da tempo tracciata dal legislatore, di condizionare il ricorso a tale
modalità di definizione anticipata del processo o, comunque, di limitarlo a determinate categorie di reati ed a determinati presupposti.
Infatti, dopo l’inserimento del comma 1-bis 4 nell’art. 444 c.p.p. della clausola di esclusione del c.d.
patteggiamento allargato in relazione ai reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater nonché per coloro
che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, o recidivi ai sensi dell’art. 99,
comma 4, c.p., il legislatore è più volte intervenuto sulla materia per ampliare le cause di esclusione.
L’art. 11, comma 1, legge 6 febbraio 2006, n. 38 (recante Disposizioni in materia di sfruttamento sessuale
dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet) ha escluso l’operatività del patteggiamento allargato in relazione ad alcune fattispecie concernenti la prostituzione, la pornografia e lo sfruttamento della
prostituzione minorile nonché la detenzione di materiale pedopornografico ed alle fattispecie relative
alla violenza sessuale, agli atti sessuali con minorenne ed alla violenza sessuale di gruppo.
Più recentemente, l’art. 6 legge 27 maggio 2015, n 69 ha introdotto nell’art. 444 c.p.p. il comma 1-ter
in forza del quale, nei procedimenti per i delitti previsti dagli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e
322-bis, c.p., l’ammissibilità della richiesta di applicazione della pena, sia nella forma tradizionale che
allargata, è sempre subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del prodotto del reato.
Allo stesso modo, per la definizione anticipata dei processi in materia di reati tributari occorre che
l’imputato abbia posto in essere condotte riparatorie, dovendo egli provvedere – entro determinati termini, variabili a seconda della tipologia di fattispecie contestata – alla definizione delle pendenze tributarie, attraverso il pagamento del relativo debito, degli interessi e delle sanzioni amministrative 5.
2
Si tratta della c.d. legge finanziaria 2008, contenente disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato.
3
Introdotto dall’art. 2, comma 36-viciel semel, lett. m), d.l. n. 138/2001.
4
Operato dall’art. 1 legge 12 agosto 2003, n. 134.
5
Ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, le sanzioni amministrative per la violazione delle norme tributarie sono
la sanzione pecuniaria, consistente nel pagamento di una sanzione di denaro, e le sanzioni accessorie che possono essere
irrogate solo nei casi espressamente previsti.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | PROFILI PROCESSUALI DELLA RIFORMA PENALE-TRIBUTARIA
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Si deve rimarcare subito, a tale riguardo, una prima innovazione introdotta dal legislatore perché, a
differenza di quanto previsto dalla precedente disciplina, l’imputato che oggi voglia definire il procedimento con la richiesta di applicazione della pena non deve sopportare anche il carico delle sanzioni
amministrative che non sarebbero applicabili per il principio di specialità di cui all’art. 19, comma 1,
d.lgs. n. 74/2000. Tale previsione, contenuta nell’art. 13, comma 2, d.lgs. n. 74/2000, oggettivamente irragionevole e particolarmente punitiva per l’imputato che avesse avuto intenzione di intraprendere
percorsi virtuosi, è stata infatti eliminata anche se, come si dirà, la problematica della contemporanea
applicazione delle sanzioni penali ed amministrative non è stata del tutto risolta.
SEGUE: LE CONDOTTE RIPARATORIE COME ELEMENTI CIRCOSTANZIALI
Poste le premesse di ordine generale, ad un attento esame della nuova disciplina emerge come il
punto critico sia costituto dalla non punibilità, a determinate condizioni, di taluni reati per effetto di
condotte riparatorie che, nel precedente sistema, fungevano solo da presupposto per l’operatività di
un’attenuante ad effetto speciale 6.
Sebbene l’art. 13-bis (introdotto nel d.lgs. n. 74/2000 dall’art. 12 d.lgs. n. 158/2015) faccia espressamente salve le ipotesi in cui tali condotte determinino l’effetto ‘estintivo’ del reato, la regolarità geometrica del sistema, a causa di una non ineccepibile tecnica normativa, non è sempre rispettata e non è
chiaro come agisca, in relazione alle differenti fattispecie, la definizione delle pendenze tributarie.
L’estinzione dei debiti tributari, infatti, costituisce sicuramente il presupposto per l’ammissione al
patteggiamento in relazione ai reati di cui al Capo I del d.lgs. n. 74/2000, vale a dire in relazione ai delitti di dichiarazione infedele e di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti
per operazioni inesistenti (art. 2) e di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3). In riferimento alle contestazioni relative ai reati di dichiarazione infedele (art. 4) e di omessa dichiarazione (art.
5), invece, il pagamento dei tributi evasi può determinare, a seconda dei casi, alternativamente, la non
punibilità o l’integrazione della speciale circostanza attenuante ad effetto speciale che, a sua volta, costituisce il presupposto per la richiesta di applicazione della pena.
Se queste sono le linee portanti del nuovo sistema, una lettura poco più approfondita fa emergere
una serie di problematiche applicative di non agevole soluzione.
Anzitutto, non è affatto chiaro come possa operare la definizione delle pendenze tributarie e, come,
dunque, si atteggi la richiesta attenuante ai fini del patteggiamento, rispetto agli altri reati previsti dal
Capo II del d.lgs. n. 74/2000: emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8),
occultamento o distruzione delle scritture contabili (art. 10) e di sottrazione fraudolenta al pagamento
di imposte (art. 11). Si può constatare senza troppe difficoltà, infatti, come tali fattispecie, a differenza di
quelle previste dal capo precedente, non sempre descrivano reati di evento e come, ai fini della loro integrazione, non si richieda necessariamente un impatto sulla determinazione delle imposte.
È verosimile che, in queste ipotesi, siccome le violazioni possono determinare l’applicazione di sanzioni amministrative e, dunque, l’apertura di procedimenti di accertamento amministrativi, l’imputato
debba comunque definire tali pendenze per poter accedere al patteggiamento 7.
Tale soluzione è presumibile che si imporrà nella prassi soprattutto nel caso di occultamento o distruzione delle scritture contabili. È noto che, in base all’art. 39 d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, quando
dal verbale di ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione
una o più delle scritture contabili prescritte, l’ufficio delle imposte può determinare il reddito d’impresa
sulla base delle notizie e dei dati comunque raccolti o venuti a sua conoscenza. In tale evenienza, il trasgressore subirà un accertamento (induttivo) ai fini delle imposte che, nell’ipotesi di superamento delle
6
L’art. 13 nella nuova formulazione ha aumentato, da un terzo alla metà, la riduzione delle pene per i delitti di cui al d.lgs.
74/2000 in conseguenza delle condotte riparatorie. Tuttavia, anche nella precedente versione era previsto che, oltre che sulla
pena edittale, queste ultime determinassero la non applicazione delle pene accessorie indicate nell’art. 12.
7
Poiché nel caso di cui all’art. 11, secondo la giurisprudenza “ai fini della confisca per equivalente del profitto del reato di
sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, l’oggetto del reato non è il credito vantato dal fisco, bensì la garanzia
rappresentata dai beni dell’obbligato” (così, Cass., sez. III, 6 maggio 2015, n. 40534, in Dir e giustizia, 2015, 12 ottobre con nota di
L. Piras, Confisca per equivalente e reati tributari; conf. Cass., sez. III, 22 gennaio 2015, n. 10214, in Riv. dott. comm., 2015, p. 499) è
verosimile che tale “entità” debba essere corrisposta dall’imputato per attuare la condotta riparatoria.
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soglie di punibilità, determinerà probabilmente anche una contestazione di dichiarazione infedele di
cui all’art. 4 in concorso con il reato di cui all’art. 10. Poiché, per effetto dell’art. 9 d.lgs. n. 471/1997, sono punite con sanzioni amministrative la violazione degli obblighi relativi alla contabilità (non tenuta o
non conservata, mancata esibizione o sottrazione all’ispezione delle scritture contabili, dei documenti e
dei registri previsti dalla legge in materia di imposte dirette ed imposte sul valore aggiunto), in base
all’art. 13-bis, nel caso in cui sia contestato il reato di sottrazione delle scritture contabili, il patteggiamento sarà subordinato alla definizione in sede amministrativa delle contestazioni concernenti sia le
violazioni relative alla tenuta della documentazione, sia quelle riguardanti il maggior reddito determinato induttivamente ai sensi dell’art. 39 d.p.r. n. 600/1973 8. A sostegno di tale conclusione, occorre osservare come, anche per il reato di occultamento o distruzione delle scritture contabili, come si vedrà,
operi la confisca del «profitto» del reato ed è indubbio come, rispetto a tale fattispecie, il corpo del reato
non possa che essere il ‘risparmio’ di imposta che il contribuente abbia indirettamente tentato di sottrarre all’imposizione attraverso l’azione materiale sulle scritture contabili.
Più problematica la questione concernente il reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74/2000, che punisce chi
abbia emesso e contabilizzato fatture per operazioni inesistenti. In tale ipotesi, infatti, l’imputato non
avrebbe un debito tributario da corrispondere ed è difficile immaginare quale potrebbe essere la condotta riparatoria che egli dovrebbe porre in essere per fruire dell’attenuante.
In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, infatti, il regime derogatorio previsto dall’art. 9 d.lgs. n. 74/2000 (che esclude la configurabilità di concorso reciproco tra chi
emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale), secondo la giurisprudenza, impedirebbe
anche l’applicazione del principio solidaristico, applicato, invece, senza problemi, nei casi di illecito
plurisoggettivo in relazione alla apprensione, nelle varie forme, del profitto del reato 9. È verosimile, però, come, in questa non infrequente situazione, in forza dell’art. 9 d.lgs. n. 472/1997 (che introduce, invece, il principio di solidarietà tra le persone che concorrono in una violazione amministrativa),
l’amministrazione delle finanze riterrà l’emittente solidalmente responsabile dei debiti erariali gravanti
all’utilizzatore delle fatture per operazioni inesistenti e che, dunque, la richiesta condotta riparatoria sia
appunto rappresentata dall’estinzione del debito che grava sull’utilizzatore della fattura.
Ma, ammesso che tale possa essere considerata la soluzione corretta, non tutte le possibili questioni
possono ritenersi risolte. Resta, infatti, da chiedersi se l’eventuale definizione del debito tributario da
parte di uno dei soggetti responsabili (ad esempio: l’utilizzatore) renda, comunque, possibile il patteggiamento per il coobbligato in solido.
SEGUE: LE CONDOTTE RIPARATORIE COME CAUSE DI NON PUNIBILITÀ
Dall’esame della nuova disciplina risulta estremamente complicato comprendere come operino le
condotte riparatorie con riferimento alle fattispecie rispetto alle quali possono rilevare, alternativamente, come causa di non punibilità ovvero come attenuante; segnatamente, risulta problematico comprendere se, nei casi in cui l’imputato non intenda ricorrervi, la richiesta di patteggiamento possa comunque
ritenersi ammissibile.
Le difficoltà derivano dalla circostanza che, con riferimento ai reati di dichiarazione infedele (art. 4),
omessa dichiarazione (art. 5), omesso versamento di ritenute di acconto (10-bis), di IVA (10-quater) ed
indebita compensazione di crediti non spettanti (art. 10-quater, comma 1), la condotta riparatoria dovrebbe operare sempre come causa di non punibilità, ove intervenuta prima di un certo momento.
Tuttavia, poiché in forza della previsione di cui al comma 2 del nuovo art. 13, come accennato,
l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. «può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra
la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13,
commi 1 e 2», parrebbe doversi concludere che, se per tutti i reati previsti dal decreto legislativo, la ri8
È noto, peraltro, che secondo la giurisprudenza «è inammissibile la richiesta di patteggiamento parziale in quanto, essendo
tali riti orientati alla rapida definizione del processo in ordine a tutti i reati contestati, è incompatibile un’utilizzazione
differenziata di questi solo per la decisione di alcune imputazioni tra quelle contestate, con la prosecuzione del processo nelle
forme ordinarie per le altre imputazioni o con le definizioni del procedimento secondo distinte modalità» (Cass., sez. VI, 18
novembre 2014, n. 48651, in Dir. e giustizia, 2014, 25 novembre).
9
Cass., sez. III, 22 aprile 2015, n. 30168, in Dir. e giustizia, 2015, 15 luglio.
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chiesta di applicazione della pena è sempre subordinata alle condotte riparatorie, in difetto di esse, il
patteggiamento non potrebbe essere richiesto.
Dall’analisi testuale della disposizione, peraltro, emerge anche che, siccome con riferimento a talune
fattispecie ed a determinate condizioni, il pagamento del tributo evaso, degli interessi e delle sanzioni
costituisca, oltre che causa di non punibilità, conditio sine qua non per il patteggiamento, in pratica non è
sempre di agevole soluzione comprendere quali siano gli effetti derivanti dalla condotta riparatoria.
Per tentare di districare la complessa rete di soluzioni cui l’art. 13-bis, comma 2, di recente introduzione potrebbe dare luogo, occorre analizzare come le condotte riparatorie possano agire in concreto.
SEGUE: REATI DI OMESSA PRESENTAZIONE DELLE DICHIARAZIONI ANNUALI
Nei casi di omessa presentazione delle dichiarazioni annuali ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e di omessa presentazione della dichiarazione di sostituto di imposta 10, la causa di non
punibilità, ai sensi dell’art. 13, è subordinata non soltanto al pagamento di quanto dovuto con il ravvedimento operoso ed alla presentazione della dichiarazione omessa entro il termine della dichiarazione
relativa al periodo successivo di imposta, ma anche alle previste condotte riparatorie, che l’imputato
abbia provveduto a porre in essere prima di aver avuto formale conoscenza delle attività di accertamento amministrativo o penale nei suoi confronti.
La condizione alla quale è subordinata l’operatività della causa di non punibilità degli illeciti penali,
coincide esattamente con quella alla quale, nel sistema tributario, risulta subordinata la riduzione delle
sanzioni amministrative.
Si ricorda che, ai sensi dell’art. 1 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 con il quale è stata attuata la riforma
delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, nei casi di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare
delle imposte dovute. In forza dell’art. 1, comma 1, terzo periodo e dell’art. 5, comma 1, terzo periodo,
d.lgs. n. 471/1997, come modificati dal d.lgs. n. 158/2015, rispettivamente in relazione all’omessa presentazione della dichiarazione in materia di imposte sui redditi e di IVA, invece, se la dichiarazione è
presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo e, comunque, prima dell’inizio di qualunque attività amministrativa di accertamento di cui abbia
avuto formale conoscenza, sono applicate sanzioni amministrative che, a seconda dei casi, variano da
un minimo del sessanta ad un massimo del centoventi per cento dell’ammontare dell’imposta evasa
(vale a dire la metà di quella ordinariamente prevista).
In sostanza, al di fuori di tali termini temporali, non solo il contribuente non potrà beneficiare della
riduzione delle sanzioni amministrative applicabili ai sensi del d.lgs. n. 471/1997, ma non potrà nemmeno fruire della causa di non punibilità a fini penali; in tali evenienze, dunque, la disciplina penale e
quella amministrativa tendono a coincidere.
Sin qui tutto è semplice e lineare. Il comportamento virtuoso e spontaneo, infatti, viene considerato
meritevole per l’esclusione della punibilità e per una riduzione del trattamento sanzionatorio amministrativo.
Si deve, però, osservare che, secondo l’art. 13 introdotto dall’art. 11 d.lgs. n. 158/2015, la causa di
non punibilità può scattare anche nel caso in cui i debiti tributari siano stati estinti ricorrendo al ravvedimento operoso e tale previsione complica le geometrie qui delineate, perché, in tali evenienze, secondo il regime sanzionatorio amministrativo, le sanzioni sono definibili (con una loro riduzione) fino al
momento per la proposizione del ricorso.
A tale riguardo, va premesso che la norma di riferimento sul ravvedimento operoso è l’art. 13 d.lgs.
18 dicembre 1997, n. 472 (modificato dall’art. 16 d.lgs. n. 158/2015) che contiene le disposizioni generali
in materia di sanzioni amministrative per le violazioni tributarie. In base a tale previsione è appunto
possibile regolarizzare versamenti di imposta, omessi o insufficienti, o altre irregolarità fiscali, beneficiando di un trattamento di favore.
10
Rispettivamente puniti dai commi 1 ed 1-bis (quest’ultimo di nuova introduzione) dell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 74/2000
con la detenzione da un anno e sei mesi a quattro anni di reclusione quando l’imposta evasa relativa ad una di tali imposte sia
superiore a 50.000,00 euro.
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Va tuttavia segnalato che, mentre prima delle modificazioni introdotte dalla legge di stabilità 2015 11,
per poter fruire del ravvedimento operoso, era necessario che la violazione non fosse già stata contestata o notificata, non fossero iniziati accessi, ispezioni, verifiche ovvero altre attività di accertamento (notifiche di inviti a comparire, richieste di esibizioni di documenti, invio di questionari) formalmente comunicati all’autore, con una sostanziale coincidenza quindi della previsione penale e di quella amministrativa, dopo le recenti modificazioni i due sistemi non sono più sovrapponibili.
In forza dell’art. 13, comma 1-ter, d.lgs. n. 472/1997, infatti, per i tributi amministrati dall’agenzia
delle entrate (e tra questi, ovviamente, le imposte sui redditi e l’IVA, che costituiscono il campo di applicazione del d.lgs. n. 74/2000), i limiti temporali non operano più ed il ravvedimento operoso è oggi
inibito solo dalla notifica degli atti di liquidazione e di accertamento (comprese le comunicazione recanti le somme dovute ai sensi degli artt. 36-bis e 36-ter d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54-bis d.p.r. 6 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni).
In sostanza, tra i procedimenti di regolarizzazione ammnistrativa e la corrispondente fattispecie
estintiva del reato si verifica una vistosa asimmetria con evidenti ricadute anche sull’operatività del limite previsto per il patteggiamento.
Dal tenore del combinato degli artt. 13 e 13-bis d.lgs. n. 74/2000 emerge che, per fruire della causa di
non punibilità o dell’attenuante ad effetto speciale, l’imputato debba comunque corrispondere le imposte non versate e le sanzioni amministrative nelle loro interezza (dal centoventi al duecentoquaranta
per cento dell’ammontare dell’imposta dovuta) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Tuttavia, poiché le citate disposizioni subordinano la causa estintiva anche al perfezionamento del ravvedimento operoso che, come visto, può essere attivato anche dopo la formale conoscenza dell’atto di
contestazione della violazione e, dunque, anche in pendenza del procedimento penale, in pratica si potrebbe verificare che il contribuente ponga in essere il ravvedimento operoso, fruendo di uno sconto
delle sanzioni, senza però poter ottenere l’esclusione della punibilità del reato.
Va ancora sottolineato che le condotte riparatorie dalle quali dipende l’applicazione della circostanza ad effetto speciale, in base a quanto prescrive l’art. 13-bis comma 1, c.p.p., sono costituite dall’integrale pagamento dei debiti avvenuto anche «a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie».
Accertamento con adesione è, anzitutto, quello previsto dal d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218 contenente
disposizioni in materia di accertamento con adesione e di conciliazione giudiziale. Tale procedura, come risulta dall’art. 5 del citato decreto, è collegata ad una determinazione di maggiori imposte, ritenute
e contributi disposta in seguito al potere di accertamento degli organi dell’amministrazione finanziaria.
In tali ipotesi, il contribuente, in seguito alla notifica dell’invito può prestare adesione ai contenuti con
comunicazione che deve contenere, in caso di pagamento rateale, anche l’indicazione del numero delle
rate prescelte.
Tendenzialmente, l’accertamento con adesione dovrebbe concludersi quando il procedimento penale
è ancora pendente nella fase delle indagini preliminari ed il perfezionamento di tale speciale forma di
conciliazione tributaria, pur non potendo rilevare ai fini della speciale causa di non punibilità (essendo
fisiologicamente successiva all’accertamento), può certamente fungere da presupposto per l’operatività
della circostanza attenuante e, dunque, aprire la strada per la definizione anche con il patteggiamento
del procedimento penale.
Il riferimento alle speciali procedure conciliative, però, sembrerebbe fare riferimento anche ad un altro istituto del diritto tributario.
Gli artt. 48 e 48-bis d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 contenente disposizioni sul processo tributario
come rispettivamente modificato ed inserito dall’art. 9 d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156 prevedono che,
in pendenza del giudizio tributario e, comunque, fino a dieci giorni liberi prima della data di trattazione dinanzi alla commissione provinciale o di quella regionale, ciascuna delle parti possa proporre
all’altra la conciliazione totale o parziale della controversia.
È verosimile, tenuto conto dei tempi del processo tributario, che tali forme di definizioni del procedimento intervengano durante la pendenza del processo penale e, dunque, solo laddove le conciliazioni, giudiziali o extragiudiziali, riescano a definirsi prima della dichiarazione di apertura del dibattimen11
Si v. art. 1, comma 637, legge 23 dicembre 2014, n. 190 con riferimento al quale Circolare Agenzia delle entrate – Direzione
centrale normativa, 9 giugno 2015, n. 23/E
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to, l’imputato potrebbe fruire della speciale attenuante ed eventualmente anche accedere al patteggiamento 12.
SEGUE: REATI DI INFEDELE DICHIARAZIONE
Analoghi scenari si presentano con riferimento al reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4.
Anche in questo caso, infatti, ai sensi dell’art. 13, comma 2, d.lgs. n. 74/2000 per fruire della speciale
causa di non punibilità occorre che l’imputato non solo provveda al pagamento dei debiti tributari,
compresi sanzioni ed interessi, ma regolarizzi le pendenze tributarie prima della formale conoscenza
dell’inizio del procedimento.
Sul punto, occorre ricordare che, in base agli artt. 1, comma 2 e 5 comma 4, d.lgs. n. 471/1997, come
modificati dall’art. 15 d.lgs. n. 158/2015, se dalla dichiarazione presentata è indicato, ai fini delle imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato ovvero risulti un’imposta sul valore aggiunta inferiore a quella dovuta, il trasgressore è punito con una sanzione amministrativa dal novanta al centottanta per cento della maggiore imposta dovuta.
Ora, stando al tenore dell’art. 13, comma 2, il contribuente-imputato, per poter fruire della speciale
causa di non punibilità, dovrebbe provvedere a presentare una dichiarazione integrativa e versare autonomamente, prima ancora dell’inizio del procedimenti di accertamento, i tributi maggiorati degli interessi e delle sanzioni.
In tali evenienze, è verosimile che il trasgressore, per sanare l’irregolarità sul piano tributario, ricorra
al ravvedimento operoso di cui al citato art. 13 d.lgs. n. 471/1997 che, come visto, consente di regolarizzare versamenti di imposta omessi o insufficienti o altre irregolarità fiscali beneficiando di una riduzione delle sanzioni.
Poiché anche in tale ipotesi, per poter fruire della speciale causa di non punibilità, in forza dell’art.
13 d.lgs. n. 74/2000, occorre che l’adempimento sia intervenuto prima della formale conoscenza dell’inizio di una qualunque attività amministrativa di accertamento, qualora l’imputato di dichiarazione
infedele non possa più puntare alla non punibilità, perché, appunto, ormai a conoscenza della pendenza dei procedimenti amministrativi e/o penali, potrà ancora ricorrere alle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento per richiedere il patteggiamento.
È verosimile che, anche in tale evenienza, l’imputato ricorrerà al ravvedimento operoso che, come
detto, oggi, l’art. 13 d.lgs. n. 471/1997 rende percorribile anche dopo la formale conoscenza dell’avvio
dell’accertamento, ovvero definisca l’accertamento con l’adesione ai contenuti dell’invito in seguito a
notifica ex art. 5 d.lgs. n. 218/1997 ovvero ancora attraverso le conciliazioni extragiudiziale o giudiziale
di cui agli artt. 48 e 48-bis d.lgs. n. 546/1992.
SEGUE: I REATI DI OMESSO VERSAMENTO DI IMPOSTE
Le condotte riparatorie si atteggiano, invece, in maniera differente rispetto ai reati di omesso versamento delle ritenute di acconto, dell’IVA e per quello di indebita compensazione dell’IVA, di cui, rispettivamente, agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1.
In tali ipotesi, infatti, in base al combinato disposto degli artt. 13 e 13-bis d.lgs. n. 74/2000, è richiesto
che il pagamento del tributo, degli interessi e delle sanzioni avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Si rammenta che, ai sensi dell’art. 13 d.lgs. n. 471/1997, nei confronti di chi non esegue, in tutto o in
parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento a conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, è applicata una sanzione amministrativa pari
al trenta per cento di ogni importo non versato.
Come si è accennato, per tutti i delitti di cui al d.lgs. n. 74/2000, in base all’art. 13-bis, comma 2,
l’applicazione della pena può essere richiesta solo quando siano state estinte le obbligazioni tributarie o
12
Si rammenta, a tale riguardo, che ai sensi degli artt. 445 e 447 c.p.p., la richiesta di patteggiamento dovrebbe poter essere
presentata nel corso delle indagini preliminari o, al più tardi, fino alla presentazione delle conclusioni nell’udienza preliminare.
Però, sul punto, v. infra.
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il trasgressore abbia fatto ricorso al ravvedimento operoso; ma siccome tali condotte, ove intervenute
prima dell’apertura del dibattimento, determinano la non punibilità dei reati di omesso versamento
delle imposte dovute e di indebita compensazione, per tali delitti – come accennato – sembra imporsi
una singolare conclusione e cioè che all’imputato sembrerebbero porsi due possibilità: estinguere le obbligazioni, beneficiando della speciale causa di non punibilità; ovvero rinunciare al patteggiamento 13.
La ratio di tale impostazione non è del tutto chiara e può comportare alcune conseguenze sul piano
della ragionevolezza.
I reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, d.lgs. n. 74/2000, ancorché caratterizzati da
diverse soglie di punibilità, sono accomunati dai limiti di pena edittali compresi tra sei mesi e due anni;
dunque, con riferimento ad essi, è sempre possibile l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico
ministero con le forme del decreto penale che, ai sensi dell’art. 459, comma 2, c.p.p., può comportare
l’applicazione di una pena diminuita fino alla metà rispetto al minimo edittale.
In pratica, mentre l’imputato non può ricorrere al patteggiamento, riduzioni di pena – peraltro anche più consistenti di quelle previste dall’art. 445 c.p.p. – sarebbero rimesse semplicemente all’iniziativa
insindacabile dell’organo dell’accusa per mezzo della forma prescelta per promuovere l’azione penale.
I TEMPI DEL PATTEGGIAMENTO E LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO
Non sono solo queste le perplessità che la novella legislativa ha generato. Dall’analisi della disciplina appena ricostruita, qualche altro dubbio può sorgere con riferimento al limite temporale entro cui
può essere presentata al giudice la proposta di pena concordata dalle parti.
È noto, infatti, che, in forza di quanto prevede l’art. 446 c.p.p., di regola, la richiesta prevista dall’art.
444 può essere formulata fino alla presentazione delle conclusioni di cui agli artt. 421 e 422 c.p.p. in
udienza preliminare. Anche nel caso di giudizio immediato (evenienza, questa, da non scartare se si
considera che per i delitti di cui agli artt. 2, 3, 8, 10 e 10-quater, comma 2, è possibile l’applicazione della
misura della custodia in carcere, con conseguente esercizio immediato dell’azione penale da parte del
pubblico ministero), la richiesta di patteggiamento dovrebbe avvenire entro 15 giorni dalla notifica del
decreto che dispone il dibattimento. Solo in caso di giudizio direttissimo (ipotesi, invece, certamente da
non prendere in considerazione per i reati previsti dal d.lgs. n. 74/2000) e di citazione diretta a giudizio
(ipotesi, questa, invece, normale per i reati di omesso versamento delle imposte) la richiesta medesima
può essere proposta, rispettivamente ai sensi dell’art. 446, comma 1 e 555, comma 2, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Come si è osservato, però, l’art. 13-bis, comma 1, espressamente stabilisce che per i delitti di cui al
d.lgs. n. 74/2000 l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. può essere chiesta dalle parti solo
quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, la quale, però, a sua volta, richiede che l’estinzione dei
debiti tributari, comprensivi di sanzioni amministrative e interessi, avvenga prima della dichiarazione di
apertura del dibattimento di primo grado.
Anzitutto, va precisato che i reati in relazione ai quali il pubblico ministero può introdurre l’azione
penale senza transitare per l’udienza preliminare, oltre quelli di cui agli artt. 4 e 5, sono quelli di cui agli
artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1 per i quali, però, come si è visto, il patteggiamento non sembra
applicabile.
In secondo luogo, la lettura della disposizione fa sorgere il dubbio se il legislatore, attraverso il rinvio operato dal comma 2 al comma 1 dell’art. 13-bis d.lgs. n. 74/2000, abbia anche inteso allungare i
termini per la presentazione della richiesta di patteggiamento.
A ben vedere, la questione, oltre che in relazione alla richiesta di applicazione della pena, si presenta
anche in riferimento ad una inedita causa di sospensione del processo che riecheggia il sistema della
c.d. pregiudiziale tributaria. Come noto, in base all’art. 21, comma 3, legge 7 gennaio 1929, n. 4 contenente
norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie, abrogato dall’art. 13 d.l. 10 luglio 1982, n. 429, conv. in legge 7 agosto 1982, n. 516, «per i reati previsti dalle leggi sui tributi diretti
13
Nessuna condizione, invece, sembra essere richiesta per il patteggiamento per i reati di cui agli artt. 10– bis, 10-ter e 10quater, comma 1, d.lgs. n. 74/2000. Del resto, con riferimento a questi ultimi, essendo la pena minima fissata in sei mesi sarebbe
possibile, in base all’art. 53, comma 1, legge 24 novembre 1981, n. 689, sostituirla con la pena pecuniaria della specie corrispondente e definire il procedimento con decreto penale di condanna ai sensi dell’art. 459 c.p.p.
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l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa sovrimposta è divenuto
definitivo a norma delle leggi regolanti tale materia».
Secondo quanto dispone l’art. 13 introdotto dall’art. 11 d.lgs. n. 158/2015, infatti, all’imputato che
non abbia ancora integralmente definito la pendenza tributaria, essendo il debito tributario in fase di estinzione mediante rateizzazione, può essere concesso dal giudice, anche ai fini dell’art. 13-bis (e, dunque, anche ai fini del patteggiamento), un termine di tre mesi (eventualmente prorogabile di altri sei
mesi e per una sola volta), con conseguente sospensione del processo e della prescrizione, per il pagamento del debito residuo.
La previsione è significativa perché consente di superare l’indirizzo giurisprudenziale che escludeva
l’attenuante in caso di rateizzazione del debito di imposta già iscritto a ruolo e indicato nella cartella di
pagamento 14. Oggi, invece, non solo l’attenuazione del trattamento sanzionatorio è espressamente collegato al pagamento anche dilazionato dei debiti tributari, ma è anche possibile che il giudice sospenda
il processo per consentire all’imputato di adempiere alle sue obbligazioni.
È verosimile che anche in questo caso la discrasia tra la disciplina speciale e quella generale non
debba interpretarsi in termini di deroga ma semplicemente come uno dei numerosi difetti di coordinamento del legislatore e che, dunque, nonostante tale imprecisione, i termini per la presentazione della
richiesta di patteggiamento siano sempre quelli previsti dal codice di procedura penale.
La disciplina in esame, però, a ben vedere, desta anche altre e non meno significative perplessità.
La ragione per la quale la sospensione del processo può essere concessa solo nel caso in cui l’imputato debba corrispondere le rate e non anche, ad esempio, per l’ipotesi in cui il procedimento amministrativo di accertamento non sia definito, non è, per la verità, del tutto comprensibile.
Si deve ricordare che, in linea generale, ai sensi dell’art. 16 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’art. 3,
comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), le sanzioni amministrative, in deroga a quanto prevede
l’art. 24 legge 24 novembre 1981, n. 689, sono irrogate dall’ufficio competente all’accertamento il quale
introduce il procedimento con la notifica di un atto di contestazione che contiene l’invito al pagamento
delle somme dovute entro il termine previsto per la proposizione del ricorso.
Entro tale termine, infatti, il trasgressore e gli obbligati possono definire la controversia con il pagamento di un importo pari ad un terzo della sanzione indicata e comunque non inferiore ad un terzo di
minimi edittali (c.d. definizione agevolata).
È ovvio che laddove il trasgressore presti acquiescenza all’accertamento estinguendo i debiti contenuti nell’atto di accertamento, non si pongono particolari problemi rispetto allo svolgimento del processo penale, tenuto conto che, in tale evenienza, è verosimile che la conclusione del procedimento amministrativo avverrebbe sicuramente prima dell’apertura del dibattimento di primo grado.
Si deve considerare, però, che, sempre ai sensi dell’art. 16 d.lgs. n. 472/1997, il trasgressore può proporre, entro il termine previsto per la proposizione del ricorso, deduzioni difensive all’ufficio il quale, ai
sensi del comma 7, ha l’obbligo di esaminarle entro il termine – previsto a pena di decadenza – di un anno
confermando o rideterminando le sanzioni irrogate a seguito dell’accoglimento delle deduzioni prodotte.
Orbene, è possibile che prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il procedimento
amministrativo per la esatta quantificazione del debito tributario – che come visto può protrarsi per un
anno – non si sia concluso e che il debito che l’imputato deve corrispondere non sia ancora né liquido
né esigibile.
In una simile evenienza, dunque, il giudice non potrebbe sospendere il processo e tale scelta è francamente poco giustificabile sul piano della ragionevolezza del sistema, perché non si vede la ragione
per la quale il contribuente-imputato debba vedere sostanzialmente condizionate la fruibilità di riduzione di pena e dei procedimenti alternativi ai tempi di definizione che non dipendono in alcun modo
dalla sua volontà.
Occorre evidenziare, peraltro, sia pur per incidens, come tale termine non sia del tutto congruo ove
commisurato alle diverse previsioni che si occupano della rateizzazione del pagamento. Come noto, infatti, la disciplina sulla dilazione del pagamento ha subito nel corso degli anni varie modifiche, e da ultimo per effetto delle innovazioni introdotte dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 159.
14
Recentemente Cass., sez. III, 10 febbraio 2015, n. 11352, in Dir. e giustizia., 2015, 19 marzo; conf. Cass., sez. III, 16 luglio
2014, n. 37748, in CED Cass., n. 260189.
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In via generale, le disposizioni in tema di riscossione prevedono che il contribuente che versi in
temporanea e obiettiva difficoltà nel procedere al pagamento delle somme iscritte a ruolo, possa richiedere all’agente della riscossione che ha emesso la cartella esattoriale, anche in un momento successivo a
quello di scadenza del termine in esso indicato, la rateizzazione di quanto dovuto.
Tuttavia, i tempi della dilazione non solo sono molto variegati ma tali da rendere il previsto termine
di sospensione di 6 mesi davvero incongruo.
L’art. 3-bis d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 462 (come sostituto dall’art. 2 d.lgs. 24 settembre 2015, n. 159),
ha stabilito che le somme dovute a seguito dell’attività di controllo e accertamento dell’Agenzia delle
entrate possono essere versate in un numero massimo di otto rate trimestrali (vale a dire due anni) di
pari importo, ovvero, se superiori a cinquemila euro, in un numero massimo di venti rate trimestrali
(vale a dire cinque anni) di pari importo.
L’art. 19 d.p.r. n. 602/1973, in relazione agli avvisi di accertamento ai quali il contribuente non aderisce, poi, consente dilazioni fino a 72 rate mensili (vale a dire sei anni) ed in casi particolari, allorquando cioè il debitore versi, per ragioni estranee alla propria responsabilità, in una grave e comprovata situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica, esse possono essere fino ad un massimo di 120
rate mensili (vale a dire dieci anni).
Non solo. Ma nel caso di evidente peggioramento della situazione economica, il contribuente può ottenere ulteriori proroghe.
Si deve anche considerare, a dimostrazione della incoerenza del sistema, che secondo la giurisprudenza, al contribuente spetta la facoltà di ricorrere al giudice tributario al fine di impugnare il provvedimento dell’agenzia delle entrate che abbia negato la possibilità di rateizzare un debito iscritto a ruolo 15. È del tutto evidente come, in simili circostanze, i tempi di definizione del procedimento dinanzi
alle commissioni sulla questione della rateizzazione sarebbero tali da non consentire di poter fruire di
una eventuale sospensione del dibattimento.
Orbene, di fronte a tale ampia gamma di possibilità contemplate dalla legislazione tributaria di regolarizzazione del debito tributario, la nuova previsione sulla sospensione del dibattimento appare non
solo inadeguata ma perfino censurabile sul piano della ragionevolezza.
A ben vedere, peraltro, il punto più criticabile è un altro.
Non può sfuggire, infatti, come i ‘termini di grazia’, con conseguente congelamento del decorso della prescrizione, al fine di consentire all’imputato di adempiere al pagamento dilazionato, possono essere concessi solo prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.
Sembra ragionevole ritenere che l’art. 13 non ha inteso derogare a quanto prevede l’art. 446 c.p.p.,
dovendo la riscontrata asimmetria tra quanto dispone l’art. 13 e quanto, invece, prevede il codice di
procedura penale essere ricondotta ad un difetto di coordinamento piuttosto che ad una scelta consapevole del legislatore. Occorre poi prendere atto di un’altra singolare scelta. Stando al tenore letterale
dell’art. 13, infatti, il giudice per l’udienza preliminare non potrebbe disporre la sospensione del processo per consentire all’imputato di corrispondere le ultime rate del debito dilazionato e, dunque, di
eliminare la condizione ostativa alla richiesta di patteggiamento.
Certamente la prassi saprà colmare tali oggettivamente ingiustificate aporie. Le soluzioni che, infatti,
a tale riguardo, sembrano prospettarsi si riducono a due. La prima è quella di consentire anche al giudice per l’udienza preliminare (il quale, in effetti, interviene pur sempre prima della dichiarazione di apertura del dibattimento) di sospendere il processo al fine di rendere possibile all’imputato di definire le
pendenze tributarie; la seconda, è quella di obbligare l’imputato a formulare comunque un’istanza di
patteggiamento in udienza preliminare che, sebbene inammissibile per la presenza della condizione
ostativa, potrà però essere eventualmente riproposta in sede di dichiarazione di apertura del dibattimento ai sensi dell’art. 448, comma 1, c.p.p. unitamente alla richiesta di sospensione del dibattimento.
PROFILI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
Così definito il regime della richiesta di patteggiamento rispetto ai reati tributari, occorre sottolineare come talune ulteriori perplessità potrebbero sorgere in ordine alla compatibilità del presupposto dal
15
Cass., sez. un., 7 ottobre 2010, n. 20778; Cass., sez. un., 30 marzo 2010, n. 7612, in Giust. civ., mass., 2010, 3, p. 457; Cass., sez.
un., 1° luglio 2010, n. 15647.
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quale dipende l’ammissibilità della richiesta di patteggiamento con i principi costituzionali di eguaglianza e di difesa.
Sebbene secondo la giurisprudenza della Corte la facoltà di richiedere riti alternativi nel processo
penale costituisca una delle modalità tra le più qualificanti ed incisive del diritto di difesa e, dunque, in
via generale ed astratta, eventuali ostacoli al suo esercizio potrebbero configurare una violazione della
garanzia costituzionale 16, secondo la giurisprudenza del giudice delle leggi la negazione legislativa di
essa, in rapporto ad una determinata categoria di reati, non vulnererebbe ex se il nucleo incomprimibile
del predetto diritto. Non solo, infatti, «la facoltà di chiedere l’applicazione della pena non può essere
evidentemente considerata una condicio sine qua non per un’efficace tutela della posizione giuridica dell’imputato», ma essa è esclusa per un largo numero di reati 17 senza che, in relazione a tali opzioni legislative, possano ravvisarsi irragionevolezze 18.
Se, dunque, sotto tale angolo visuale, i limiti al patteggiamento previsti dall’art. 13-bis d.lgs. n. 74/
2000 non sollevano particolari problemi, la nuova disciplina potrebbe, invece, riproporre i sospetti di
illegittimità per contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost., già delineati all’indomani dell’entrata in vigore della legge del 2011.
In seguito all’inserimento dei limiti al patteggiamento per i reati di cui al d.lgs. 74/2000 era stata, infatti, prospettata una possibile violazione dell’art. 3, perché esigere l’integrale estinzione dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti di cui al d.lgs. n. 74/2000 per rendere ammissibile il patteggiamento, introdurrebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra imputati dello stesso reato. Subordinare la possibilità di accesso al rito speciale di cui all’art. 444 c.p.p. all’estinzione del debito tributario costitutivo della fattispecie disciplinata dal d.lgs. n. 74/2000, infatti, significa, in sostanza, condizionare «un modo di esercizio del diritto di difendersi alla situazione di maggiore o minore prosperità
dell’imputato, creando, in tal modo, un’irragionevole disparità di trattamento tra soggetti imputati del
medesimo reato, basata sulle condizioni economiche degli stessi».
Secondo il giudice a quo che ha formulato il quesito di costituzionalità, peraltro, i presupposti per essere ammessi al patteggiamento si porrebbero anche in contrasto con il principio sancito dall’art. 24
Cost. dal momento che non solo «così operando si va a limitare il diritto di difesa dell’imputato non abbiente, il quale si trova precluso l’accesso al rito speciale esclusivamente per motivi legati alla propria
condizione economica» ma soprattutto perché, a ben vedere, «solo il titolare di una ditta individuale od
il legale rappresentante di una società sono in grado di procedere alla definizione dei debiti tributari
della attività di impresa». Non può sfuggire, infatti, come i soggetti che si trovano ad essere coimputati,
ma che sono in effetti degli extranei all’attività di impresa perché subordinati all’altrui potere di direzione e/o vigilanza, non trovano alcuna possibilità di intervenire nelle procedure di estinzione dei debiti tributari 19.
16
Così, Corte cost., 26 ottobre 2012, n. 237 in Cass. pen., 2013, p. 988 con nota di E. Gazzaniga, Un nuovo passo avanti in tema di
ampliamento della facoltà di accesso ai riti alternativi in corso di dibattimento, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 517 c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del
dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma
oggetto della nuova contestazione e Corte cost., 18 dicembre 2009, n. 333, in Giur. cost., 2010, p. 3597 con nota di V. Maffeo, Le
contestazioni tardive e il giudizio abbreviato, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p. (e, in forza
dell’art. 27 legge 11 marzo 1953, n. 87) dell’art. 516 c.p.p., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere
al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la
nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.
17
Tutti quelli per i quali non può essere inflitta, in concreto, una pena detentiva contenuta entro il limite generale della
fruibilità dell’istituto (cinque anni di pena detentiva ovvero due, rispetto ai reati esclusi dal c.d. patteggiamento allargato); tutti
quelli di competenza del tribunale dei minorenni e del giudice di pace.
18
Sul punto, cfr. Corte cost., 27 aprile 1995, n. 135, in Giust. pen. 1995, I, p. 253 che ha dichiarato non fondata la questione di
legittimità dell’art. 25, comma 1, d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di
imputati minorenni), nella parte in cui esclude nel processo minorile la disciplina per l’applicazione della pena su richiesta delle
parti sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost.; Corte cost., 6 febbraio 2007, n. 28, in Giur. cost., 2007, 1, che ha dichiarato la
manifesta infondatezza di due questioni di legittimità dell’art. 2, comma 1, lett. f), d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni
sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui
preclude all’imputato il ricorso ai riti alternativi – e, in particolare, al giudizio abbreviato e all’applicazione della pena su
richiesta delle parti – nel procedimento davanti al giudice di pace sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24, comma 2, e 111,
comma 3, Cost. In precedenza, negli stessi termini, Corte cost., 6 giugno 2005, n. 228, in Cass. pen., 2005, p. 2941.
19
Cfr. GUP Trib. La Spezia, ord. 3 dicembre 2013, n. 124, in Gazz. uff., 20 agosto 2914, I° Serie Speciale, n. 35, p. 7. Una
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La Corte, però, riallacciandosi al proprio orientamento formatosi in relazione a fattispecie analoghe 20, ha evidenziato come, allorquando una qualunque disposizione imponga oneri patrimoniali per il
raggiungimento di determinati fini a prescindere dalle condizioni economiche dei soggetti interessati a
conseguirli, non ricorrerebbero i vulnera costituzionali denunziati, purché siano comunque rispettate
due condizioni che, nella specie – secondo i giudici costituzionali – sarebbero presenti 21.
Anzitutto occorre che non risulti compromesso l’esercizio di un diritto che la Costituzione garantisce
a tutti paritariamente 22; in secondo luogo, che gli oneri risultino comunque giustificati da circostanze
obiettive così da non determinare irragionevoli situazioni di vantaggio o svantaggio.
Sebbene, come accennato, secondo la stessa Corte costituzionale la facoltà di accedere ai riti alternativi che comportino un’attenuazione del trattamento sanzionatorio costituisce una modalità tra le più
qualificanti ed incisive del diritto di difesa, la negazione legislativa non si porrebbe in contrasto con il
principio di eguaglianza perché, oltre ad operare in relazione a determinate categorie di reati, sarebbe
in sostanza fatta dipendere da comportamenti positivi richiesti all’imputato.
Osserva, a tale riguardo, il giudice delle leggi che la stessa attenuante comune del risarcimento del
danno può condizionare la fruibilità del patteggiamento quante volte, ad esempio, il suo riconoscimento risulti concretamente indispensabile a far diminuire la pena detentiva al di sotto del limite di cinque
anni (ovvero dei due anni, quanto ai reati esclusi dal patteggiamento allargato).
Va osservato come il ragionamento svolto dalla Corte sia sotto più profili non proprio ineccepibile
sul piano sistematico.
Non solo, infatti, la condizione oggi prevista dal legislatore opera in maniera indiscriminata rispetto
a qualunque tipo di patteggiamento, a prescindere, cioè, dalla circostanza che la pena finale sia inferiore a due anni ovvero compresa nella fascia tra i tre ed i cinque anni, ma l’utilizzo come tertium comparationis della disciplina dell’attenuante del risarcimento del danno prova troppo e, dunque, sul piano logico, non prova nulla.
La conclusione cui perviene la Corte costituzionale, infatti, non può sfuggire all’obiezione per la
quale per tutti i reati previsti dal d.lgs. n. 74/2000 il patteggiamento, quantomeno nella forma allargata,
potrebbe operare sempre; a prescindere, cioè, dal riconoscimento di qualunque attenuante posto che la
pena più grave (prevista per le violazioni di cui agli artt. 2, 3 ed 8) è di sei anni per cui applicando anche solo la riduzione prevista per la scelta del rito, si potrebbe sempre rientrare nei limiti di cinque anni
previsti dall’art. 444, comma 1, c.p.p.
È ovvio, allora, come un conto sia dover risarcire per ottenere una riduzione necessaria a consentire la
diminuzione di pena entro la fascia prevista per rendere ammissibile il patteggiamento; altro, invece, come nel caso in esame, sia prevedere come indispensabile il risarcimento per poter essere ammessi ad un
rito speciale. In quest’ultima evenienza, peraltro, è difficile sfuggire anche ad un’altra facile obiezione.
Agli effetti pratici, infatti, per come strutturata, la disciplina del patteggiamento discrimina effettimedesima questione è stata sollevata anche da GUP Trib. Torino, ord. 15 dicembre 2014, n. 44, ivi, 1° aprile 2015, n. 44 sulla base
del rilievo che la disposizione censurata, oltre ad essere stata introdotta in sede di conversione di decreto legge e, dunque, in
assenza di un nesso funzionale rispetto al provvedimento di urgenza, introduce un’ingiustificata disparità di trattamento tra
imputati, arreca una lesione del diritto di difesa, del diritto di azione nei confronti della pubblica amministrazione ed un vulnus
del principio della ragionevole durata del processo e del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Sulle questioni di costituzionalità, cfr. P. Corso, Effetti penale degli istituti deflattivi, in Rass. trib., 2015, n. 2, p. 461 ed in specie,
p. 469 ss.
20
Corte cost., 4 dicembre 1964, n. 111 con la quale era stata dichiarata non fondata la questione di legittimità dell’art. 62, n. 6,
c.p. nella parte in cui stabilisce che attenua il reato «l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il
risarcimento di esso» nonché Corte cost., 20 febbraio 1975, n. 49 con la quale era stata dichiarata non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 165 c.p. nella parte in cui consente al giudice di subordinare la sospensione condizionale della
pena al risarcimento del danno. Entrambe le questioni erano state sollevati in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
21
Corte cost., 28 maggio 2015, n. 95, in Cass. pen., 2015, p. 3112. Per un commento alla sentenza, cfr. P. Corso, Legittimo (ma
non obbligato) il divieto di patteggiamento per chi non restituisce il profitto del reato, in Ipsoa Quotidiano, 04 giugno 2015.
22
Sul punto si v. Corte cost., 24 marzo 1961, n. 21 che aveva considerato in contrasto con gli artt. 3, 24 e 113 Cost. la
imposizione prevista dall’art. 6 legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E dell’onere del pagamento del tributo, regolato quale
presupposto imprescindibile della esperibilità dell’azione giudiziaria diretta a ottenere la tutela del diritto del contribuente
mediante l’accertamento giudiziale della illegittimità del tributo stesso (c.d. solve et repete); Corte cost., 23 novembre 1960, n. 67
che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 98 c.p.c. in relazione all’istituto della c.d. cautio pro expensis sollevata in
riferimento alle norme contenute negli artt. 24 e 3 Cost.
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vamente tra imputati abbienti e non abbienti perché solo i primi possono sperare di fruire di una riduzione di pena. Ed è indubbio, ancora, come in tali situazioni, soprattutto quando l’imputato non sia il
diretto obbligato del tributo, perché, ad esempio, gravante su una persona giuridica, la disciplina non
solo introduce un onere economico a carico dell’imputato difficilmente eseguibile ma lo si espone a sostenere un esborso economico commisurato a vantaggi in realtà conseguiti da soggetti diversi.
SEQUESTRO E CONFISCA
L’art. 10 d.lgs. n. 158/2015 ha introdotto nel testo del d.lgs. n. 74/2000 l’art. 12-bis che statuisce non
solo che nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo
444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dal decreto medesimo, è sempre ordinata la confisca diretta dei
beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ma
che, quando non è possibile l’apprensione cd. diretta, la confisca può operare per equivalente sui beni,
di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.
Si tratta, in sostanza, della riedizione del temutissimo strumento introdotto dall’art.1, comma 143
della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato – legge finanziaria 2008), conseguentemente abrogato dall’art. 14 d.lgs. n. 158/2015, il quale, rispetto all’attuale previsione (nella quale è esplicitamente descritta la portata precettiva), si limitava a contemplare un rinvio all’art. 322-bis c.p.
La nuova disposizione prevede anche che la confisca operi in relazione ad «uno dei delitti previsti»
dal decreto e non solo, come invece statuito in passato, in relazione ai reati di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8,
10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto medesimo.
La modificazione, anche in questo caso, non è solo formale perché oggi la confisca può riguardare
anche il profitto o il prezzo del reato di occultamento o distruzione di scritture contabili di cui all’art. 10
d.lgs. n. 74/2000.
Presupposto della confisca è ovviamente la pronuncia di una sentenza di condanna o di applicazione della pena, ma è evidente come la previsione abbia ricadute sul corso del procedimento penale perché, in forza di quanto statuisce l’art. 321, comma 2, c.p.p., è applicabile il sequestro preventivo, anche
per equivalente, sui beni dell’imputato.
Così sintetizzati i termini della nuova disposizione, non si può anzitutto omettere di constatare che
anche con riferimento a tale disciplina, si è persa l’occasione per intervenire su una serie di aspetti controversi in giurisprudenza quali, ad esempio, la nozione di profitto in relazione a quei delitti previsti
dal decreto e con riferimento ai quali il vantaggio derivante dalla loro commissione consiste non in un
incremento del patrimonio del reo quanto nel mancato decremento dello stesso (risparmio di spesa) 23.
Soprattutto, non si è colta l’occasione per rimediare alla prassi che ritiene possibile la confisca e, conseguentemente il sequestro dei beni dell’imputato, anche quando il profitto non sia direttamente conseguito dallo stesso, come nell’ipotesi in cui il reato tributario sia stato commesso dal legale rappresentante dell’ente ed il profitto conseguito – nelle varie forme in cui esso si può esteriorizzare – si sia confuso
nel patrimonio dell’ente 24.
23
Secondo Cass., sez. III, 30 aprile 2015, n. 22127, «in caso di omesso versamento dell’IVA da parte di una società, il profitto
si identifica nel risparmio di spesa. Perciò, se nelle casse della persona giuridica, su cui gravava l’obbligo di versamento, viene
rinvenuto del denaro, si tratta di profitto sequestrabile direttamente riconducibile al reato e non possono essere aggrediti i beni
personali degli amministratori. Costituiscono profitto del reato anche gli impieghi redditizi del denaro di provenienza delittuosa ed i beni in cui questo si è trasformato». Sul punto, si v. la Relazione del massimario (a cura di P. Molino e P. Silvestri) 28
ottobre 2015, pp. 29-30 che, tra le questioni controverse, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali formatisi nel corso degli
anni rimaste sullo sfondo della riforma, evidenzia anche la questione della confisca avente ad oggetto le somme di danaro depositate su conto corrente che costituiscono i risparmi di spesa derivanti dal reato tributario; quella del rapporto tra la disciplina
della responsabilità amministrativa degli enti prevista dal d.lgs. n. 231/2001 ed il sistema tributario; quella della ammissibilità
della confisca in presenza di una sentenza di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato per prescrizione.
Sull’argomento, si ricorda che Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 10561, in Giur. it., 2014, p. 990 con nota di P. Corso, Reato non
presupposto di responsabilità amministrativa e limiti del sequestro/confisca nei confronti dell’ente, ha affermato che non è consentito il
sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato
reperito il profitto del reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia
uno schermo fittizio.
24
Cfr. sull’argomento, Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561, in Guida dir., 2014, n. 15, p. 95, con nota di R. Bricchetti, Sì al
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In tali evenienze, la disposizione sembra escludere categoricamente che il ‘vantaggio’ economico
possa essere sottratto in capo al soggetto che lo ha direttamente conseguito. Se, in passato, qualche incertezza poteva essere sollevata con riferimento ai soggetti destinatari della cautela reale, oggi l’art. 12bis declina la possibilità di operare la confisca esclusivamente nei confronti del «reo».
In simili ipotesi, infatti, è difficile sfuggire all’obiezione che la confisca opera non già come una misura attraverso la quale si sottrae al reo il frutto della sua attività illecita e, dunque, alla stregua di una
qualsiasi misura di sicurezza, bensì come un ‘prelievo’ forzato sul patrimonio di un soggetto che non
ha riportato alcun vantaggio immediato e diretto dall’attività delittuosa.
In tali situazione, la confisca, piuttosto che come misura di sicurezza e con finalità special preventive,
pare operare – anche alla luce, come si dirà, delle recenti posizioni assunte dalla giurisprudenza della
Corte europea in tema di bis in idem – come una sanzione pecuniaria proporzionale che non solo si aggiunge a quella prevista dalle disposizioni amministrative ma che svolge una funzione retributiva. Ovviamente, alla luce di tali considerazioni, anche il sequestro applicato nel corso del processo per ‘garantire’ la esecuzione della confisca, piuttosto che una finalità ‘preventiva’ sembra avere una finalità conservativa a garanzia del pagamento di un’obbligazione pecuniaria ex delicto gravante sul condannato.
Accanto a tali considerazioni, che per esigenze di sintesi possono essere solo accennate, va rimarcata
anche un’altra novità importante perché, in base al comma 2 del nuovo art. 12-bis, la confisca non può
operare per la parte che il contribuente «si impegna a versare all’erario» anche in presenza di sequestro.
Attraverso tale previsione, il legislatore sembra aver recepito quanto ormai da qualche tempo affermato in giurisprudenza, la quale ha riconosciuto che, nell’ipotesi di pagamento rateale delle somme
evase costituenti reato, la confisca ed il sequestro devono essere corrispondentemente ridotti 25.
La nuova previsione, però, apre non poche problematiche di ordine pratico perché non è chiaro come – una volta definito il processo – avverrebbe il necessario coordinamento tra la fase esecutiva e quella amministrativa di riscossione del tributo e degli oneri accessori.
Soprattutto, non è chiaro cosa debba intendersi per «impegno a versare» e quali siano le garanzie
che il condannato debba fornire per evitare la confisca.
Un dato, comunque, sembra essere chiaro: la disposizione può operare solo in relazione all’esecuzione della misura di sicurezza e non anche in relazione al sequestro che ne garantisce l’esecuzione. La
conclusione sembra imporsi in considerazione del tenore letterale del comma 2 dell’art. 12-bis il quale,
sebbene non del tutto perspicuo sulla sua portata applicativa, dopo aver previsto che la confisca non
opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario, soggiunge la inapplicabilità di essa
«anche in presenza di sequestro». Se si vuole attribuire un senso a tale previsione, occorre ritenere che il
sequestro, a differenza della confisca, sia sempre applicabile anche in presenza di idonee garanzie 26.
Inedita, invece, la nuova previsione – che costituisce l’attuazione di uno specifico punto della delega
contenuta nell’art. 8, comma 1, legge 11 marzo 2014, n. 23 – contenuta nell’art. 18-bis introdotto dall’art.
13 del d.lgs. 158/2015 con riferimento alla custodia giudiziale dei beni sequestrati nell’ambito di procedimenti penali relativi a delitti tributari.
Anzitutto, viene stabilito che il denaro e gli strumenti finanziari sequestrati nell’ambito dei procedimenti penali relativi ai delitti previsti dal d.lgs. n. 74/2000 e a ogni altro delitto tributario – essendo
espressamente mantenute ferme le disposizioni di cui all’art. 61, comma 23, d.l. 25 giugno 2008, n. 112,
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e dell’art. 2 d.l. 16 settembre 2008, n.
sequestro preventivo per equivalente se la persona giuridica è uno “schermo fittizio”. Sulla sentenza, cfr. anche G. Todaro, Il sequestro
preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, di beni di una persona giuridica: il rebus dei reati tributari, in Cass. pen., 2014, p. 2021;
G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse” delle sezioni unite in tema di sequestro a fini di confisca e
reati tributari, ivi, 2014, p. 2806. Recentemente, Cass., sez. III, 28 maggio 2015, n. 30486, ha affermato che «in tema di reati tributari commessi dai legali rappresentanti della persona giuridica, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente
del profitto può essere disposto sui beni personali degli amministratori solo nell’ipotesi in cui il profitto (o i beni ad esso direttamente riconducibili) non sia più nella disponibilità della persona giuridica».
25
Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887, in CED Cass., n. 263409; Cass., sez. III, 8 gennaio 2014, n. 6635, in CED Cass., n.
258903.
26
Sul punto, si ricorda che la giurisprudenza le somme di denaro assoggettate a vincolo non sono suscettibili di sostituzione
mediante rilascio di garanzia fideiussoria per un ammontare corrispondente al profitto del reato, atteso che, altrimenti, verrebbe
frustrata la finalità della misura cautelare, diretta a sottrarre all’indagato la disponibilità del patrimonio, che invece risulterebbe
invariata per lo spostamento del vincolo sul denaro del garante. Così, Cass. sez. III, 19 giugno 2012, n. 33587, in CED Cass., n.
253135.
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143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181 – affluiscono al Fondo unico
giudiziario gestito da Equitalia Giustizia s.p.a.
Per quanto concerne, invece, i beni diversi dal denaro e dagli strumenti finanziari, è previsto che essi
possano essere affidati in custodia giudiziale dall’autorità giudiziaria agli organi dell’amministrazione
finanziaria che ne facciano richiesta per le proprie esigenze operative.
CONCLUSIONI
L’opera di «revisione» 27 avviata dal legislatore ha prodotto un complicatissimo intreccio tra procedure amministrative di accertamento delle violazioni tributarie e tempi del processo penale con evidenti ricadute sul piano della speditezza ed efficienza di quest’ultimo.
Il condizionamento dell’esito dei processi penali ai procedimenti amministrativi costituisce a ben
vedere una surrettizia reintroduzione, sotto altre forme ovviamente, della famigerata pregiudiziale tributaria bandita da anni dal sistema perché ritenuta responsabile di numerose disfunzioni.
Come visto, la subordinazione del patteggiamento o l’applicazione di una esimente alle condotte riparatorie, soprattutto in relazione ai reati di cui agli artt. 4 e 5, non solo comporta complesse interferenze tra procedimenti amministrativi e tempi del processo, ma genera alcuni vincoli nei confronti del
giudice penale che potrebbero non essere del tutto compatibili con il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge.
Senza contare, ancora, che, a voler lavorare un po’ di fantasia, non è nemmeno difficile immaginare
le difficoltà cui si andrà incontro allorquando il giudice si troverà a dover raccordare i tempi e le forme
degli accertamenti fiscali con le cadenze fisiologiche del processo penale.
Restano non disciplinati, infatti, una serie di fenomeni che fuoriescono dalle previsioni prese in considerazione dal legislatore.
Non è chiaro, ad esempio, cosa accada se il contribuente proponga ricorso dinanzi alle commissioni
tributarie che riconoscano, in tutto o in parte, le sue doglianze.
Recentemente la giurisprudenza, con riferimento ad un’ipotesi di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74/2000, ha ritenuto che la decisione del giudice tributario
con la quale è stato dichiarato non sussistente il debito tributario, ancorché non irrevocabile, vincoli
quello penale il quale, dunque, non potrebbe adottare un provvedimento di sequestro a tutela di debiti
che, in siffatta evenienza, sarebbero privi di immediata esigibilità 28.
Ebbene, in un’ipotesi del genere non è chiaro se l’imputato che voglia patteggiare, nonostante il successo ottenuto dinanzi al giudice tributario, debba essere comunque costretto a versare ciò che, secondo
l’erario-persona offesa, è dovuto.
Ancora, sfugge alla disciplina se la causa di non punibilità e l’attenuante dipendano sempre e comunque da un comportamento attivo dell’imputato e, dunque, se esse possano essere o meno dichiarate anche nel caso in cui, ad esempio, ai sensi dell’art. 16, comma 7, d.lgs. n. 472/1997 l’accertamento decada per decorso del termine entro il quale l’agenzia delle entrate deve decidere sulle deduzioni del
trasgressore.
Analogamente, non è immediatamente individuabile la soluzione nell’ipotesi in cui l’azione degli
organi di accertamento tributario sia dichiarata decaduta.
In base alla disciplina generale, infatti, gli uffici finanziari possono procedere all’accertamento entro il
quarto anno successivo a quello della violazione, fermo restando che quando l’accertamento dà luogo anche a contestazione di natura penale i termini dell’accertamento possono essere raddoppiati. Tuttavia, in
base alle modifiche introdotte dall’art. 2 d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 contenente disposizioni sulla certezza
27
Nella Relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo si rileva che «la circostanza che la legge di
delegazione parli di “revisione”, e non già di “riforma” o di “riscrittura” del diritto penale tributario, lascia intendere come
l’intervento debba comunque muoversi entro le coordinate di fondo del sistema vigente».
28
Cfr. Cass., sez. III, 2 luglio 2015, n. 39187, a quanto consta non ancora edita. Analogamente, Cass., sez. III, 5 settembre
2014, n. 37195, in Rass. trib., 2014, p. 1399 con nota di G. Flora, Annullamento degli avvisi di accertamento e fumus delicti ai fini del
sequestro per equivalente nei reati tributari che, in relazione ad un’ipotesi di violazione dell’art. 3, d.lgs. n. 74/2000, ha annullato il
sequestro dell’equivalente delle somme costituenti il profitto del reato, in considerazione del fatto che, in seguito all’annullamento delle cartelle esattoriali ad opera delle commissioni tributarie, era venuta meno la pretesa tributaria.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | PROFILI PROCESSUALI DELLA RIFORMA PENALE-TRIBUTARIA
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del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, è necessario che la denuncia da parte dell’Amministrazione
finanziaria e della Guardia di finanza sia presentata o trasmessa prima della scadenza ordinaria dei termini
di cui all’art. 43 d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 57 d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633 29. In pratica, è ben
possibile che il procedimento penale, tenuto conto anche del fatto che i termini di prescrizione previsti per i
reati tributari sono elevati di un terzo ai sensi dell’art. 17 d.lgs. n. 74/2000 (come modificato dall’art. 2,
comma 36-vicies semel, d.l. n. 138/2011), prosegua quando siano perenti i termini per l’accertamento.
In relazione a tale ipotesi, peraltro, si pongono non poche problematiche applicative a causa, anche
in questo caso, di una tecnica normativa non proprio ineccepibile.
Si deve considerare che, nell’evenienza in cui i debiti indicati nell’art. 13 risultino estinti per prescrizione o per decadenza, ai sensi dell’art. 14 d.lgs. n. 74/2000, l’imputato potrebbe ancora chiedere di essere ammesso a pagare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una
somma da lui indicata, a titolo di equa riparazione dell’offesa recata all’interesse pubblico tutelato dalla
norma violata, onde beneficiare di una riduzione della pena fino alla metà e la non applicazione delle
sanzioni accessorie indicate dall’art. 12.
A tale riguardo, si deve anzitutto evidenziare la clamorosa svista in cui è incorso il legislatore il quale,
nel riformare la disciplina sulle circostanze, non si è premurato di verificare la coerenza dei richiami reciproci tra le diverse disposizioni. Si deve osservare, infatti, che il comma 4 dell’art. 14 nel richiamare il terzo
comma dell’art. 13 rendeva operante, anche in relazione all’attenuante conseguente alla riparazione dell’offesa, la previsione in forza della quale della diminuzione non si poteva tenere conto ai fini della sostituzione della pena detentiva inflitta quella pecuniaria a norma dell’art. 53 legge 24 novembre 1981, n. 689.
Ora, non solo tale previsione non risulta più essere stata riprodotta, ma siccome l’art. 13 risulta essere stato completamente sostituito il richiamo rimasto in vigore nell’art. 14 al comma 3 dell’art. 13, è sostanzialmente privo di alcun contenuto.
Posta tale breve digressione, non è chiaro se, nell’intenzione del legislatore, l’imputato che non abbia
alcun debito con l’erario, per essere ammesso al patteggiamento, debba o meno riparare l’offesa recata
all’interesse pubblico.
Stante la ratio della disciplina – che è quella di consentire trattamenti sanzionatori più miti in presenza di condotte virtuose – a tale quesito sembrerebbe doversi dare risposta affermativa anche se non
si può negare che, in tal modo, il vuoto normativo verrebbe colmato attraverso un’operazione interpretativa analogica.
Ancora, non è disciplinata l’ipotesi – tutt’altro che marginale nei casi in cui l’imputato abbia agito
quale rappresentante di una persona giuridica – in cui la definizione sia eseguita da un coobbligato.
Del tutto ignorato dal legislatore, è poi, il caso in cui, a seguito delle procedure amministrative attivate dal contribuente in seguito alla notifica dell’atto di accertamento, l’agenzia delle entrate operi una
riduzione del debito in forza del quale esso viene a collocarsi al di sotto delle soglie di punibilità.
È noto, al riguardo, che in omaggio al principio dell’autonomia dei procedimenti, secondo la giurisprudenza di legittimità, il giudice penale non sarebbe vincolato alla imposta accertata in sede tributaria 30 per cui una revisio in melius dell’accertamento che determinasse la riduzione dell’imposta evasa,
magari al di sotto della soglia di punibilità, obbligherebbe l’imputato a scelte paradossali, vale a dire
accettare in sede penale i risultati di un accertamento che la stessa amministrazione finanziaria-persone
offesa che lo aveva emesso ha in parte rivisto.
Quanto tali scelte del legislatore possano apparire in linea con il principio di ragionevolezza e dirsi
29
Sull’argomento, cfr. Comm. Trib. prov.le Milano, sez. XL, 15 giugno 2015, n. 5389 AGE c/ TMT SRL secondo la quale «non
è legittimo l’avviso d’accertamento emesso oltre i termini ordinari nel caso in cui la violazione contestata comporti un obbligo di
denuncia penale e la notizia di reato sia stata effettuata tardivamente. Difatti perché l’ufficio benefici del raddoppio dei termini,
la richiesta deve essere inoltrata alla Procura entro il 31 dicembre del quarto anno successivo in cui è stata presentata la
dichiarazione dei redditi».
30
Cfr. Cass., sez. fer., 28 luglio 2015, n. 34974, in Dir. e giustizia, 2015, 25 agosto, con nota di E. Fontana, Quando l’intervenuta
riduzione della pretesa in sede tributaria esclude il reato?, secondo la quale “Il giudice penale non è vincolato alla imposta accertata in
sede tributaria, ma, per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tenere conto, invece, dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dall’art. 4 d.lgs. n. 74/2000, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale
quantificazione della imposta dovuta.». conf. Cass., sez. III, 4 giugno 2014, n. 38684, in CED Cass., n. 260389; Cass., sez. III, 15 luglio
2014, n. 37335, in CED Cass., n. 260188. Nella Relazione del massimario, cit. «è ipotizzabile la conferma di tale orientamento».
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ispirate a criteri di efficienza e di buon governo è sicuramente lecito dubitare.
Ragionando, peraltro, in termini di politica criminale non si può ancora omettere di considerare come la subordinazione del patteggiamento alla definizione dei tributi, oltre a costituire un fattore fortemente disincentivante (tenuto conto che, quantomeno per le violazioni meno gravi, i limiti di pena edittali difficilmente renderanno applicabili condanne con pene eseguibili), introduce aspetti di oggettiva
distorsione censurabili sotto una molteplicità di punti di vista.
Anzitutto, la subordinazione del patteggiamento alle condotte riparatorie nei termini proposti dal
legislatore determina quanto già rilevato a proposito dei reati di omesso versamento delle imposte.
Non si sottrae, infatti, ad una censura sotto il profilo della ragionevolezza il fatto che – stanti i limiti di
pena previsti dagli artt. 4, 5, 10-bis, 10-ter e 10-quater – la fruibilità di riduzioni di pena sarebbe rimessa
semplicemente all’iniziativa insindacabile del pubblico ministero di esercitare l’azione penale con le
forme del decreto penale di condanna.
In secondo luogo, non è del tutto chiaro come la nuova disciplina sulle cause di non punibilità e sulle attenuanti possa interagire con quella sulla tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. e, soprattutto, se
questa debba ritenersi esclusa, in forza del principio di specialità.
Che la particolare tenuità del fatto possa comunque escludere la punibilità, a prescindere dalla disciplina sui reati tributari, parrebbe confermato dalla previsione, contenuta nell’art. 131-bis c.p., secondo la quale la non punibilità può operare anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante 31.
Ancora, dal punto di vista prettamente sostanziale, emerge come il legislatore, nel revisionare nel
suo complesso il sistema sanzionatorio, abbia seguito percorsi ormai in totale controtendenza.
Dall’esame della disciplina sul patteggiamento è emerso come l’imputato, per accedere al rito, sia sostanzialmente costretto a soggiacere al trattamento sanzionatorio amministrativo. Quest’ultimo, sebbene
per effetto delle numerose procedure deflattive previste da quel sistema sia talvolta applicato in misura
ridotta, comporta pur sempre impegni economici certamente onerosi per l’imputato-contribuente.
Così, per il reato di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, l’art. 2 prevede la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Gli artt. 1, comma 3 e 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 471/1997, però,
sanzionano (in misura differenze secondo i casi) rispettivamente per l’imposta sui redditi e per l’IVA, la
violazione realizzata mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.
Anche per il reato di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000 è prevista la reclusione da un anno e sei mesi a sei
anni ma, per la stessa identica condotta, anche gli artt. 1, comma 3 e 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 471/1997,
sempre rispettivamente per le imposte sui redditi e l’IVA, prescrivono sanzioni variamente modulate
per le violazioni realizzate mediante artici o raggiri, condotte simulatorie o fraudolente.
La medesima situazione, come si è evidenziato, si verifica per il caso di dichiarazioni infedele (punita dall’art. 4 con la reclusione da uno a tre anni) e per le ipotesi di omessa presentazione delle dichiarazioni obbligatorie (punite con la reclusione da uno a tre anni), al contempo sanzionate rispettivamente,
con la pena pecuniaria dagli artt. 1, comma 2 e 5, comma 4 e dall’art. 1, comma 1, terzo periodo e
dell’art. 5, comma 1, terzo periodo, d.lgs. n. 471/1997.
Orbene, v’è da chiedersi se tali duplicazioni sanzionatorie siano ancora oggi compatibili con gli approdi cui è pervenuta recentemente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha
ritenuto profilarsi una violazione del principio del ne bis in idem, sancito dall’art. 4 del Protocollo n. 7
della Corte e.d.u. alla luce del quale «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla
giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di
una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato», quando le stesse identiche condotte sono contemplate da fattispecie astratte che definiscono il trattamento sanzionatorio, una volta come di natura penale e un’altra volta come di natura amministrativa 32.
31
Secondo il Trib. Foggia, 14 aprile 2015, n. 1670, “il pagamento del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento che
comporta l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 13 d.lgs. n. 74/2000 non impedisce l’applicazione della causa
di esclusione della pena di cui all’art. 131-bis c.p. per tenuità del fatto, qualora il comportamento delittuoso non sia abituale».
32
Cfr. Corte e.d.u., 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/Italia in Foro it., 2015, IV, p. 129. Nel caso oggetto di giudizio, il
ricorrente, condannato in sede amministrativa per l’illecito di cui all’art. 187-ter punto 1 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (ai sensi
del quale «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro
20.000 a euro 5.000.000 chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni,
voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli
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Nella sua consolidata giurisprudenza, infatti la Corte e.d.u. ha avuto modo di affermare che, al fine
di stabilire la sussistenza di una «accusa in materia penale», occorre considerare non solo la qualificazione giuridica attribuita alla misura dal diritto nazionale, ma altresì la natura stessa di quest’ultima e
la natura e il grado di severità della «sanzione» 33. In sostanza, affinché si possa parlare di «accusa in
materia penale» ai sensi dell’art. 6, § 1, e, dunque, perché la contestazione possa essere considerata di
natura «penale» rispetto alla Convenzione, è sufficiente che essa abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale».
È vero che la Corte europea di giustizia ha precisato, peraltro in un caso di estremo interesse per
l’affinità della materia trattata (inosservanza di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore
aggiunto), che l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali (a norma del quale nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di
una sentenza penale definitiva conformemente a legge) non si opporrebbe al fatto che uno Stato membro imponga in momenti diversi una sanzione fiscale e una penale 34. Va precisato, però, che, anche in
relazione a questo precedente, accanto all’affermazione di principio, la Corte europea ha avuto sùbito
modo di precisare che la condizione alla quale il bis in idem sarebbe ammissibile è comunque che la
prima sanzione non possa essere considerata di natura penale. Inoltre recentemente, in un’ipotesi in cui
i medesimi fatti integravano un illecito amministrativo tributario ed un illecito penale, la Corte ha ribadito che, laddove la sanzione amministrativa sia considerata una pena, se uno dei due procedimenti,
penale o amministrativo, giunge al termine, la normativa interna che consente all’altro procedimento di
proseguire fino a decisione definitiva contrasta con l’art. 4, protocollo 7, Cedu che impone il divieto di
punire e di perseguire due volte lo stesso soggetto per i medesimi fatti 35.
È indubbio come la valutazione in merito alla natura delle sanzioni previste dalle disposizioni amministrative tributarie sposti la tematica dal piano processuale a quello sostanziale. È innegabile, tuttavia, che la severità dei trattamenti previsti dall’ordinamento tributario, costituiti da sanzioni pecuniarie
proporzionali in ragione dell’ammontare delle imposte evase, rendono le stesse assai più punitive di
quelle penali per le quali, tra l’altro, il più delle volte, può operare la sospensione della pena 36.
È verosimile che non costituirà rara avis la recente iniziativa di un giudice di merito di sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione alla Corte europea
di giustizia 37.
strumenti finanziari») era successivamente stato rinviato a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 185, punto 1 dello
stesso decreto (ai sensi del quale «Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei
anni e con la multa da euro 20.000 a euro 5.000.000».).
Sulla tematica, in dottrina, M. Bontempelli, Il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria e le garanzie europee (fra ne bis in
idem processuale e ne bis in idem sostanziale), in Arch. pen., 2015, n. 1; A. Ciraulo, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: verso
una progressiva assimilazione tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, in Dir. pen. ec., 2015, p. 243.
33
Cfr. Corte e.d.u., Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, in specie, § 82.
34
Cfr. Corte giustizia UE, sent. 26 febbraio 2013, causa C-617/10 Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson che ha affermato i
seguenti principi: a) l’applicabilità del diritto dell’Unione implica quella dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta; b) l’art. 50
di quest’ultima (che garantisce il principio del ne bis in idem) presuppone che le misure adottate a carico di un imputato assumano
carattere penale; c) per valutare la natura penale delle sanzioni fiscali, occorre tener conto della qualificazione della sanzione nel
diritto interno, della natura dell’illecito e del grado di severità della sanzione che rischia di subire l’interessato.
35
Corte e.d.u. 20 agosto 2014, n. 11828, in Riv. dir. trib, 2014, n. 5, p. 55 con nota di G. Cesari, Illecito penale e tributario. Il principio
del "ne bis in idem" alla luce della più recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e di Cassazione. Sulla decisione, cfr.
anche A. Poddighe, Il divieto di bis in idem tra procedimento penale e procedimento tributario secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: il caso Nykänen v. Finland e le possibili ripercussioni sul sistema repressivo tributario interno, in Riv. dir. trib., 2014, fasc. 7-8, p. 93.
36
Sull’argomento, G. Cesari, Illecito penale e tributario, cit., p. 74.
Per uno sguardo allo stato della giurisprudenza in materia, cfr. E. Scaroina, Costi e benefici del dialogo tra corti in materia penale
la giurisprudenza nazionale in cammino dopo la sentenza Grande Stevens tra disorientamento e riscoperta dei diritti fondamentali, in Cass.
pen., 2015, p. 2910.
37
Cfr. Trib. Bergamo, 16 settembre 2015, in Dir. e giustizia, 2015 secondo il quale nell’ipotesi in cui un soggetto si trovi
sottoposto a procedimento penale dopo che gli è stata inflitta in via definitiva una sanzione amministrativa, il sistema delineato
dalla normativa in materia entra in palese contraddizione con sé stesso nel momento in cui è prevista, all’art. 13 del medesimo
l’attenuante speciale del pagamento del debito tributario (attenuante che sola rende altresì possibile il "patteggiamento" per i
reati tributari), pagamento che, per espressa dizione del comma 2, «deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste
per la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato a norma dell’art. 19». Conseguentemente chi
voglia godere di benefici in sede penale deve volontariamente rinunciare al divieto di bis in idem.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | PROFILI PROCESSUALI DELLA RIFORMA PENALE-TRIBUTARIA
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Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | PERSONA OFFESA E MODALITÀ DI AUDIZIONE PROTETTA: VERSO LO STATUTO DEL TESTIMONE ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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ADA FAMIGLIETTI
Ricercatore di Procedura penale – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Persona offesa e modalità di audizione protetta: verso lo
statuto del testimone vulnerabile
Victim and protected modes: towards the status of vulnerable
witness
Il d.lgs. n. 212/2015, di attuazione della Direttiva 2012/29/UE, valorizza il ruolo della persona offesa nel processo
penale, in una prospettiva inedita per il nostro sistema. Numerose sono le modifiche a tutela della vittima durante
la sua audizione, sia nel corso delle indagini, sia nell’incidente probatorio, che nel dibattimento. Tuttavia, al potenziamento di tutela, imposto dalla direttiva europea, non corrisponde l’estensione delle modalità protette nel dibattimento ai testimoni maggiorenni non vittime, ma vulnerabili.
The legislative decree n. 212 of 2015, implementing the Directive 2012/29/EU, enhances the role of the victim in
criminal process, in a new perspective for our system. There are several changes to protect the victim during his
hearing, both in the course of the investigation and in the trial. However, to the strengthening of the victim protection, imposed by the European directive, it is not corresponded the extension of the protected mode in the trial
to adult witnesses not victims, but vulnerable.
PREMESSA
Con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, recante: «Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI» 1 sono
state introdotte molteplici innovazioni concernenti la disciplina dell’audizione delle persone offese vulnerabili. L’occasione è fornita dalle modifiche apportate agli artt. 190-bis, comma 1-bis, 351, comma 1ter, 362, comma 1-bis, 392, comma 1-bis, 498, comma 4-quater, nonché dall’introduzione dell’art. 398,
comma 5-quater, c.p.p. Si tratta di norme che ridisegnano in maniera sensibile le modalità di assunzione delle dichiarazioni delle vittime vulnerabili, sia nella fase dell’incidente probatorio, sia nel dibattimento, colmando vuoti di tutela progressivamente emersi nel processo penale italiano.
Il tema, oltre all’analisi delle principali norme in materia, dall’entrata in vigore del vigente codice di
procedura penale al 2014, richiede di focalizzare l’attenzione sulle modifiche introdotte dal d. lgs. n.
212/2015.
LA NORMATIVA DEDICATA AI SOGGETTI “DEBOLI”
Nella versione originaria del codice di procedura penale del 1988, la tutela dei dichiaranti “deboli”,
minorenni ed infermi di mente, era limitata alle poche regole generali contenute negli artt. 188 e 196. In
esse si prevede, in primis, il divieto di utilizzare metodi e tecniche idonee ad influire sulla libertà di au-
1
D.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, in Gazz. Uff., Serie gen., 5 gennaio 2006, n. 3. Al riguardo, per una prima lettura, M.
Cagossi, Nuove prospettive per le vittime di reato nel procedimento penale italiano, in www.penalecontemporaneo.it, 19 gennaio 2016.
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todeterminazione della persona e la capacità di ricordare i fatti. In secondo luogo, è prevista la possibilità di accertare l’idoneità fisica o mentale del testimone a rendere le dichiarazioni, lasciando al giudice
la responsabilità di vagliare la reale attendibilità della deposizione, seguendo il principio di “universalità” dell’obbligo di testimoniare 2.
Con specifico riguardo ai minori, era garantita unicamente la conduzione dell’esame ad opera del
giudice e l’ausilio di un familiare o di un esperto in psicologia infantile durante l’acquisizione della testimonianza del bambino, ai sensi dell’art. 498, comma 4, c.p.p. 3.
Su questa scarna normativa, si inserisce un’intensa attività legislativa, volta ad ampliare l’orizzonte
dedicato al minore, vittima o spettatore di delitti attinenti alla sfera sessuale. Seguendo tali coordinate,
la legge 15 febbraio 1996, n. 66, introduce l’art. 392, comma 1-bis, c.p.p. 4, che disciplina l’incidente probatorio “speciale” riservato agli infrasedicenni, con una presunzione iuris et de iure di pericolo di dispersione probatoria, sganciata dai presupposti tipici d’indifferibilità e inquinamento probatorio. Il potenziamento del meccanismo incidentale è volto a soddisfare la duplice esigenza di tutela della personalità del minore e di garanzia del contraddittorio, preservando la genuinità della prova.
L’attenzione è rivolta al soggetto in formazione, al fine di preservare la sua personalità, evitandogli
il «trauma della deposizione nelle aule dei tribunali» 5. L’obiettivo è perseguito attraverso l’istituzione,
nella fase incidentale, di nuove modalità d’audizione che tengano conto della suggestionabilità del minore e della sua fragile condizione, sulla base anche delle pressanti indicazioni giurisprudenziali in materia. Così l’art. 398, comma 5-bis, c.p.p. codifica le modalità protette per l’assunzione della prova in
luoghi diversi dalle normali aule d’udienza, in strutture specializzate d’assistenza o presso l’abitazione,
anche superando i limiti temporali fissati dall’art. 398, comma 2, lett. c) 6. Inoltre, quando la persona offesa è minorenne, l’art. 472, comma 3-bis, c.p.p. impone lo svolgimento obbligatorio del dibattimento a
porte chiuse e il divieto di domande sulla vita privata o sulla sessualità della vittima, quando non necessarie alla ricostruzione del fatto.
Nel 1998, la legge anti-pedofilia espande la lista dei reati per i quali è possibile richiedere l’incidente
probatorio “speciale”, con l’estensione delle modalità d’audizione protetta previste al dibattimento 7 nei
confronti di tutti i minorenni 8, superando la distinzione fra infrasedicenni e infradiciottenni 9, ai sensi
2
C. Pansini, Le dichiarazioni del minore nel processo penale, Milano, 2001, p. 110 ss.
3
Negli anni la Corte di Cassazione ha delineato i parametri di valutazione che il perito deve seguire per determinare l’idoneità del minore ad essere escusso e la capacità psicologica di un bambino, presunta vittima di abuso sessuale. Secondo un
orientamento maggioritario, il perito psicologo non può accertare la veridicità storica del racconto, né valutare l’attendibilità del
testimone minorenne, ma solo analizzare le ripercussioni psichiche generate dal reato, e la possibilità di deporre in aula (Cass.,
sez. III, 3 ottobre 1997, n. 8962, in CED Cass., n. 208447; Cass., sez. III, 8 marzo 2007, n. 121; Cass., sez. III, 8 ottobre 2014, n.
41929). Si tratta di un’interpretazione ormai consolidata, secondo cui il giudice può demandare al perito la valutazione della capacità a testimoniare del minore, ma non l’accertamento della sua attendibilità (così, Cass., sez. III, 4 febbraio 2015, n. 5169; precedentemente, Cass., sez. III, 27 maggio 2010, n. 24264, in CED Cass., n. 247703).
4
Comma inserito dall’art. 13, comma 1, legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale» (in Gazz. Uff., Serie
gen., 20 febbraio 1996, n. 42), modificato dall’art. 13, comma 3, legge 3 agosto 1998, n. 269, «Norme contro lo sfruttamento della
pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù» (ivi, Serie gen., 10 agosto 1998, n. 185)
e dall’art. 15, comma 7, legge 11 agosto 2003, n. 228 «Misure contro la tratta di persone» (ivi, Serie gen., 23 agosto 2003, n. 195). La
previsione è stata poi novellata dall’art. 5, comma 1, lett. g), legge 1 ottobre 2012, n. 172 «Ratifica ed esecuzione della Convenzione
del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché
norme di adeguamento dell’ordinamento interno» (in Gazz. Uff., Serie gen., 8 ottobre 2012, n. 235). La norma si applica ai delitti di cui
agli artt. 572, 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’art. 600-quater.1, 600-quinquies,
601, 602, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 609-undecies e 612-bis c.p.
5
Relazione al disegno di legge 20 luglio 1994 proposto da Bassi Lagostena, Parenti, Merluzzi, Matranga, in Atti parlamentari,
Camera dei deputati, n. 990, p. 3.
6
Il cui testo reca: «Il giudice stabilisce con ordinanza la data dell’udienza. Tra il provvedimento e la data dell’udienza non
può intercorrere un termine superiore a dieci giorni».
7
N. Galantini, Commento art. 13-L. pedofilia, in A. Cadoppi (a cura di), Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della
legge contro la pedofilia, Padova, 2002, p. 799.
8
G. Spangher, La legge contro la pedofilia. Le norme di diritto processuale penale, in Dir. proc. pen., 1988, p. 1233.
9
Contra, N. Galantini, op. cit., p. 800, secondo la quale la disposizione dell’art. 498, comma 4-bis, c.p.p. si applica ai soli
procedimenti per violenza sessuale e pedofilia (e con la legge n. 228/2003, per i delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù
o in servitù, tratta di persone, e acquisto e alienazione di schiavi) e solo per i minori di sedici anni.
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dell’art. 498, comma 4-bis, c.p.p. Analogamente, viene meno la limitazione oggettiva, in quanto le forme
d’audizione protetta in dibattimento possono essere disposte per tutti i procedimenti penali.
L’art. 498, comma 4-ter, inoltre, introduce ulteriori modalità di audizione protetta, come il ricorso a
vetri a specchi unidirezionali, per evitare il contatto con l’imputato, «unitamente ad impianto citofonico». Si tratta di una disciplina restrittiva rispetto a quella “generale” indicata dal comma 4-bis, che vuole evitare il rischio di tensioni provocate dalle forme acquisitive della prova e consente di non rinunciare all’apporto conoscitivo fornito dal minore.
Ulteriore tutela del minore dal processo 10 è ottenuta con il divieto di ripetibilità delle dichiarazioni
assunte nella sede incidentale, ai sensi dell’art. 190-bis, comma 1-bis, c.p.p. limitato ai casi in cui il dichiarante sia minore di anni sedici e testimone di alcuni reati 11 che non coincidono con l’elenco dei delitti per i quali è possibile l’ammissione all’incidente probatorio speciale.
Viene riconosciuta, pertanto, la necessità di limitare il numero delle dichiarazioni del dichiarante
minorenne, anticipando il contraddittorio ed evitando ripetizioni che possono risultare traumatiche per
il teste. Tale disposizione è stata successivamente modificata dalla legge 1 marzo 2001, n. 63, attuativa
della riforma sull’art. 111 Cost. Nella norma si stabilisce che l’esame dibattimentale, nei casi particolari,
è ammesso anche qualora una delle parti lo ritenga necessario «sulla base di specifiche esigenze», o
quando riguardi «fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni». In tal modo, il testo della norma è stato reso più rispettoso del diritto al contraddittorio e compatibile con
l’assetto costituzionale in materia di giusto processo. Infatti viene segnalata la necessità di ripetere la
deposizione dibattimentale, anche per i testimoni minorenni di reati sessuali, pedofilia e tratta, quando
l’esame abbia un oggetto fattuale diverso da quello della deposizione anticipata in sede incidentale.
L’INFERMO DI MENTE E LA SENTENZA N. 63/2005 DELLA CORTE COSTITUZIONALE
In questo complesso panorama normativo, l’infermo di mente rappresenta quasi un «soggetto dimenticato» 12. Il primo riconoscimento come dichiarante debole è dato dalla sentenza della Corte cost. n.
283/1997, che sancisce l’illegittimità dell’art. 498, comma 4, c.p.p. nella parte in cui non consente che il
presidente conduca direttamente l’esame del testimone maggiorenne infermo di mente, su domande e
contestazioni proposte dalle parti 13. Nonostante tale intervento, nell’applicazione pratica, si segnalava
la necessità di estendere le modalità testimoniali create per i minorenni ai maggiorenni infermi di mente. Dal legame di due ordinanze di rimessione è scaturita la sentenza d’illegittimità n. 63/2005, che
estende i limiti soggettivi delle modalità di audizione protetta − originariamente introdotte per i soli
minori di sedici anni nell’incidente probatorio − ai maggiorenni infermi di mente, testimoni o vittime di
reato 14. Con tale pronuncia, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 398, comma 5-bis,
c.p.p. 15, nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l’assunzione della prova con le tecniche ivi previste, quando fra le persone interessate ad essa vi sia un maggiorenne infermo di mente e
le esigenze di questi lo rendano necessario od opportuno. La declaratoria d’illegittimità costituzionale
10
A. Presutti, La tutela dei testimoni deboli: minore e infermo di mente, in AA.VV., Verso uno statuto del testimone nel processo
penale, Milano, 2005, p. 130.
11
Si tratta dei delitti previsti dagli articoli 600-bis, comma 1, 600-ter, 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di
cui all’art. 600-quater. 1, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies c.p.
12
A. Presutti, op. cit., p. 127.
13
Corte cost., 30 luglio 1997, n. 283, in Giur. cost., 1997, p. 2564 ss., con note di G. Di Chiara, Testimonianza dei “soggetti deboli”
e limiti all’esame incrociato, p. 2569 ss., di L. Scomparin, Infermità di mente e testimonianza dibattimentale, p. 2989 ss., e di L.
Muzzioli, La sentenza n. 283 del 1997: un caso di «analogia» e non di «omogeneità»; ambiguità della distinzione e sue conseguenze, ibidem,
p. 2998 ss.
14
Corte cost., 29 gennaio 2005, n. 63, in Cass. pen., 2006, p. 445, con nota di A. Famiglietti, Minori, infermi di mente e modalità di
audizione protetta: equiparazione di soggetti deboli nel processo penale, e in Dir. e giustizia, 2005, n. 10, p. 54 ss., con il commento di M.
Minniti e F. Minniti, p. 52.
15
Introdotto dall’art. 14 legge 15 febbraio 1996, n. 66, modificato dall’art. 13 legge 3 agosto 1998, n. 269, ampliato nella sua
portata applicativa, dall’art. 15, comma 8, legge 23 agosto 2003, n. 228, e nuovamente modificato dalla legge 23 aprile 2009, n. 38
«Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e
di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori» (in Gazz. Uff., Serie gen., 24 aprile 2009, n. 95).
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investe, altresì, l’art. 498, comma 4-ter, c.p.p. 16, nella parte in cui non prevede che l’esame dibattimentale del maggiorenne infermo di mente vittima del reato sia effettuato, su richiesta sua o del difensore,
mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico interno.
Il Giudice delle leggi giunge alla conclusione che la tutela dell’individuo particolarmente fragile e
suggestionabile, in reati che compromettono la sfera più intima della personalità, deve essere garantita,
sia che si tratti di un minore sia che si tratti di un infermo di mente. Conseguentemente, la mancata inclusione del maggiorenne infermo di mente dall’insieme di norme relative all’audizione protetta era
frutto di una scelta legislativa irragionevole ed andava, pertanto, corretta.
In tal modo, ne segue un regime differenziato fra l’imputato incapace e la persona offesa-testimone
incapace o minorenne. Nel primo caso, l’ordinamento tutela al massimo il diritto al contraddittorio e la
partecipazione al giudizio, sacrificando l’esigenza di speditezza processuale e di concentrazione delle
udienze 17. Nella seconda ipotesi, viceversa, la tutela della personalità del testimone o dell’offeso è essenziale rispetto alla fisiologia della prova e prevale sulle ordinarie modalità di acquisizione, il cui modellamento alle peculiari esigenze del dichiarante debole non è certo secondario.
LA LEGGE DI RATIFICA DELLA CONVENZIONE DI LANZAROTE
La legge 1 ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione di Lanzarote, ispirata ad un principio
generale di protezione dei diritti del minore, sia come vittima sia come testimone, introduce gli artt.
351, comma 1-ter, e 362, comma 1-bis, c.p.p. Tali disposizioni prevedono, fin dalla fase delle indagini
preliminari, l’ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile, nominato dal pubblico ministero, durante l’assunzione di sommarie informazioni del minore nei procedimenti per reati sessuali e
di tratta, al fine di scongiurare i rischi connessi alla “vittimizzazione secondaria” 18, espressione con la
quale si allude all’ulteriore trauma scaturente dalle dinamiche processuali e, in particolare, dallo stress
della deposizione dibattimentale. Viene così introdotta una figura di mediazione tra i soggetti processuali e il testimone, volta ad incidere sulla corretta formazione del contributo dichiarativo del minore e
ad evitare una narrazione inattendibile, scaturente dalla non completa comprensione delle domande
formulate da parte dell’esaminatore.
Nonostante la formulazione letterale deponga per l’obbligatorietà, in considerazione dell’indicativo
«si avvale», è stata ridotta la portata applicativa dell’art. 362, comma 1-bis, c.p.p. Così la presenza
dell’esperto, nell’audizione del minore effettuata dal pubblico ministero, è stata ritenuta meramente facoltativa, a causa della mancata sanzione di inutilizzabilità del relativo materiale probatorio 19. Tale
orientamento è comunque coerente con le fonti comunitarie che ammettono la possibilità da parte
dell’autorità giudiziaria di procedere direttamente all’incombente senza la mediazione di un esperto.
Nuovamente interpellata sul punto, la Corte di cassazione si è mostrata più rispettosa del dato normativo, individuando come obbligatoria la presenza dell’esperto durante le audizioni unilaterali di minorenni effettuate nelle indagini 20. I giudici di legittimità, mostrando maggiore sensibilità alle esigenze
16
Comma inserito dall’art. 13, comma 6, legge n. 269/1998 e modificato dall’art. 15, comma 10, legge n. 228 del 2003.
17
Nel 2013 la Corte costituzionale, con una sentenza monito, ha evidenziato la necessità di una modifica della normativa in
materia di sospensione del processo per incapacità processuale dell’imputato e prescrizione del reato; v. C. cost., 14 febbraio
2013, n. 23, in Giur. cost., 2013, p. 370, con osservazioni di R. Pinardi, L’inammissibilità di una questione fondata tra moniti al
legislatore e mancata tutela del principio di costituzionalità, ivi, p. 377, e O. Mazza, L’irragionevole limbo processuale degli imputati
«eterni giudicabili», ibidem, p. 384. Su tale decisione, G. Leo, Il problema dell’incapace «eternamente giudicabile»: un severo monito della
Corte costituzionale al legislatore, in www. penalecontemporaneo.it; L. Scomparin, Prescrizione del reato e capacità di partecipare
coscientemente al processo: nuovamente sub iudice la disciplina degli “eterni giudicabili”, in Cass. pen., 2013, p. 1826; nonché, volendo,
A. Famiglietti, Sospensione del processo per incapacità dell’imputato: linee ricostruttive e permanenti incertezze, in Proc. pen. giust., 2014,
n. 1, p. 124.
18
Al riguardo, V. Cuzzocrea, L’ascolto protetto delle persone minorenni prima e dopo la ratifica della Convenzione di Lanzarote, in
Proc. pen. giust., 2013, n. 2, p. 111.
19
Cass., sez. IV, 12 aprile 2013, n. 16981, in Cass. pen., 2014, p. 1174 ss.; al riguardo, S. Recchione, La prova dichiarativa del
minore nei processi per abuso sessuale: l’intreccio (non districabile) con la prova scientifica e l’utilizzo come prova decisiva delle
dichiarazioni “de relato”, in www.penalecontemporaneo.it, 8 novembre 2013.
20
Cass., sez. III, 10 dicembre 2013, n. 3651, in Cass. pen., 2014, p. 2976, con nota di N. Pascucci, La Cassazione ci ripensa:
obbligatorio l’ausilio dell’esperto in psicologia o psichiatria infantile per sentire la persona informata minorenne, ivi, p. 2985.
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di tutela del soggetto in formazione, impongono alla polizia giudiziaria e al pubblico ministero di avvalersi dell’ausilio dell’esperto, sebbene la sua assenza comporti una mera irregolarità, rilevante solo ai
fini della valutazione di attendibilità del minore.
I DICHIARANTI VULNERABILI
La prova dichiarativa del testimone debole ha subito negli anni svariate modifiche volte a tutelare
l’anticipazione del contraddittorio ogni volta che sia accertata la vulnerabilità. Il primo riconoscimento
normativo di tale condizione, che dà la possibilità al giudice, su richiesta della persona offesa o del suo
difensore, di disporre l’adozione di modalità protette già nella fase dibattimentale, è rappresentato
dall’art. 498, comma 4-quater, introdotto dal d.l. 14 agosto 2013, n. 93 convertito con modificazioni nella
l. 15 ottobre 2013, n. 119 21. In base a tale disposizione, quando si procede per i reati sessuali e di tratta,
se la persona offesa è maggiorenne, il giudice assicura che l’esame venga condotto tenendo conto della
particolare vulnerabilità della stessa, desunta anche dal tipo di reato per cui si procede.
Ma la vera svolta normativa, giunge con il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24 22 che ha dato attuazione alla Direttiva 2011/36/UE relativa alla prevenzione e repressione della tratta di esseri umani, e alla protezione
delle vittime. Tale direttiva, che ha sostituito la decisione quadro 2002/629 GAI, ha il dichiarato intento
di potenziare la tutela della vittima del reato “dal processo” e “nel processo” 23, stabilendo criteri minimi
uniformi cui ogni Stato deve adeguarsi per la definizione sia delle fattispecie incriminatrici, sia delle
sanzioni.
Sul versante sostanziale, si rafforza la tutela penalistica dei reati di riduzione e mantenimento in
schiavitù o in servitù e di tratta di persone, disciplinati dagli artt. 600 e 601 c.p., sancendo l’irrilevanza
del consenso della vittima allo sfruttamento, qualora sia stato utilizzato uno dei metodi coercitivi previsti al fine dell’acquisizione del controllo sul soggetto passivo. Relativamente ai minori, la condotta è
punita come reato di tratta anche in assenza di metodi coercitivi 24.
Sotto il profilo processuale, invece, il d.lgs. n. 24/2014 estende le modalità di audizione protetta
dell’incidente probatorio, originariamente previste per i soli minori di sedici anni, ai soggetti «maggiorenni in condizioni di particolare vulnerabilità, desunta anche dal tipo di reato per cui si procede». Si
deve precisare che la definizione di vulnerabilità è concettualmente distinta dalla «situazione di inferiorità fisica o psichica o da una situazione di necessità», essendo concepita dall’art. 2, § 2, della direttiva
come una circostanza «in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non
cedere all’abuso di cui è vittima». Nella condizione di vulnerabilità rientrano i minori, i minori stranieri
non accompagnati, gli anziani, i disabili, le donne, con particolare attenzione a quelle in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subito
torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere.
Pertanto, l’introduzione dell’art. 398, comma 5-ter, c.p.p. produce un ampliamento delle modalità di
audizione protetta, previste per l’incidente probatorio, condizionato dalla sussistenza di un duplice
presupposto. Quello soggettivo, relativo alla condizione di «particolare vulnerabilità» dei maggiorenni
coinvolti nell’assunzione della prova, e quello oggettivo, dato dalla presenza di un procedimento per
reati sessuali o di tratta, indicati dall’art. 398, comma 5-bis, c.p.p. Tanto si desume dalla collocazione sistematica della norma 25 e dallo stesso richiamo «al tipo di reato per cui si procede», che diventa para-
21
«Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza
e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», in Gazz. Uff., Serie
gen., 15 ottobre 2013, n. 242.
22
In Gazz. Uff., Serie gen., 13 marzo, n. 60.
23
S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, in Dir. pen. proc., 2013, p. 881.
24
Al riguardo, A. Peccioli, La tutela delle vittime vulnerabili nei delitti di riduzione in schiavitù e di tratta, in Dir. pen. proc., 2015, p.
879.
25
Contra, S. Recchione, Il dichiarante vulnerabile fa (disordinatamente) ingresso nel nostro ordinamento: il nuovo comma 5-ter dell’art.
398 c.p.p., in www.penalecontemporaneo.it, 14 aprile 2014, secondo la quale nell’art. 398, comma 5-ter, c.p.p. ci si riferisce soltanto
alle modalità protette di audizione e non ai reati indicati nel comma 5-bis. Pertanto, insieme ai testimoni speciali, presuntivamente vulnerabili, indicati nell’art. 392, comma 1-bis, potrebbero essere protetti anche i testimoni ordinari, ma concretamente
vulnerabili, se ammessi al contraddittorio incidentale, ai sensi dell’art. 392, comma 1, lett. a) e b), c.p.p.
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metro per la valutazione di vulnerabilità. A tal fine, il provvedimento che attesta la condizione di debolezza, coincidente con l’ordinanza ammissiva dell’incidente probatorio, deve fondarsi su un’analisi individuale del soggetto da esaminare e contenere una motivazione da cui possa evincersi il percorso valutativo per il riconoscimento dello status di vulnerabilità.
Come tale, l’ambito di applicabilità della disposizione concerne sia le vittime, sia i testimoni tout
court, ossia non offesi, ma particolarmente vulnerabili. Analogamente, la locuzione di «persone interessate all’assunzione di prova», contemplata dall’art. 398, comma 5-ter, c.p.p. implica l’adozione delle
modalità protette anche al di fuori dello stretto alveo della testimonianza, per l’assunzione di ricognizioni o confronti.
RILIEVI PROBLEMATICI
Fino ad oggi, dall’esame delle norme in materie di esame protetto dei dichiaranti vulnerabili emergeva una contraddizione di fondo, che sembrava affievolire la portata delle riforme effettuate nell’ordinamento italiano. Comparando, infatti, le norme applicate al testimone “generico” a quelle riservate al
minorenne, emergevano le peculiarità della testimonianza minorile e gli annessi vuoti di tutela nei confronti dei dichiaranti vulnerabili, la cui audizione era subordinata al soddisfacimento di una serie di
condizioni, normativamente predeterminate, che lasciavano ampi margini di discrezionalità all’organo
giudicante.
In primo luogo, nei procedimenti per reati sessuali e di tratta, era previsto, unicamente durante
l’assunzione d’informazioni del minore, l’ausilio dell’esperto in psicologia o in psichiatria infantile nominato dal pubblico ministero, si sensi degli artt. 351, comma 1-ter, e 362, comma 1-bis, c.p.p.
In secondo luogo, nei confronti dei testimoni deboli maggiorenni era garantita soltanto la possibilità
di accedere alle modalità protette nell’incidente probatorio, sulla base del presupposto soggettivo, derivante dallo status di “particolare vulnerabilità”, e oggettivo, dato dalla presenza di un procedimento
per reati sessuali o di tratta. Tuttavia l’art. 398, comma 5-ter, c.p.p. non conteneva indicazioni procedimentali per la verifica della condizione di debolezza del dichiarante. A tal fine, l’ampio margine di discrezionalità lasciato al giudice in ordine al riconoscimento dello status di vulnerabilità poteva portare
ad un’ordinanza di rigetto dell’incidente probatorio, inoppugnabile per il principio di tassatività strumentale dei rimedi, di cui all’art. 568, comma 1, c.p.p.
Nel dibattimento, tale margine discrezionale aumentava ulteriormente e l’adozione delle modalità
protette, «ove ritenuta opportuna» era subordinata alla particolare vulnerabilità della persona offesa
«desunta dal tipo di reato per cui si procede», ai sensi dell’art. 498, comma 4-quater, c.p.p.
In tal modo si otteneva l’aumento delle audizioni dei soggetti vulnerabili e non la loro riduzione, e
una contraddizione di fondo laddove, nel caso di maggiorenni non persone offese, l’effettuazione di
una testimonianza anticipata e protetta non impediva la ripetizione della loro deposizione in sede di
dibattimento 26.
Tanto in considerazione del mancato intervento sull’art. 190-bis, comma 1-bis, c.p.p. che era limitato
ai casi in cui il dichiarante fosse minore di anni sedici e testimone di alcuni reati, non perfettamente
coincidenti con i delitti per i quali era possibile l’ammissione all’incidente probatorio speciale 27. Era
questo l’aspetto forse maggiormente critico, specie per quanto concerneva le audizioni delle persone
offese vulnerabili, per le quali era necessaria una progressiva assimilazione allo statuto speciale della
testimonianza minorile.
26
Così, S. Recchione, Le vittime da reato e l’attuazione della direttiva 2012/29 UE: le avanguardie, i problemi, le prospettive, in
www.penalecontemporaneo.it, 25 febbraio 2015, p. 8.
27
La Cassazione ha ritenuto legittima la mancata audizione dibattimentale della persona offesa, già sentita in sede di
incidente probatorio, divenuta nel frattempo maggiorenne, quando è richiesta la ripetizione dell’esame nel dibattimento. In motivazione, la Corte ha precisato che, in applicazione delle disposizioni generali di cui all’art.190 c.p.p., il riascolto è comunque
inammissibile per manifesta superfluità della prova, quando le circostanze dedotte nella richiesta di esame coincidono con
quelle oggetto della precedente escussione; così, Cass., sez. III, 22 maggio 2013, n. 6095, in CED Cass., n. 258825.
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
148
VERSO LO STATUTO DEL TESTIMONE VULNERABILE NEL PROCESSO PENALE
Le segnalate antinomie sistematiche sono state in parte colmate dal d.lgs. n. 212/2015, che attua la
Direttiva 2012/29/UE, istitutiva di norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Tale direttiva, che ha sostituito la Decisione quadro 2001/220/GAI, ha il pregio di valorizzare il ruolo della persona offesa nel processo penale, in una prospettiva inedita per il nostro sistema,
basato sulla funzione essenzialmente accessoria alla parte pubblica e prodromica alla costituzione di
parte civile.
La fonte europea, invece, ridisegna il ruolo della persona offesa con quattro segmenti di applicazione dedicati al diritto della vittima all’informazione, all’accesso ai servizi di assistenza, alla partecipazione al procedimento, e infine, al diritto di ricevere protezione.
Per quanto qui interessa, il d.lgs. n. 212/2015 introduce numerose modifiche a tutela della vittima
durante la sua audizione, sia nel corso delle indagini, sia nell’incidente probatorio e nel dibattimento.
Preliminarmente, si definisce la nozione di particolare vulnerabilità, ai sensi del nuovo art. 90-quater
c.p.p., collocato non a caso dopo la norma che distingue fra i diritti e le facoltà dell’offeso. La condizione di particolare vulnerabilità è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Nella valutazione della
condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è
riconducibile a criminalità organizzata, terrorismo o tratta degli esseri umani, se ha finalità di discriminazione e se la vittima è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore
del reato.
Viene inoltre novellato l’ultimo comma dell’art. 134 c.p.p., con l’aggiunta di un periodo che ora consente, «anche al di fuori dei casi di assoluta indispensabilità», la riproduzione integrale, con mezzi di
riproduzione audiovisiva, delle dichiarazioni della persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità. Si tratta di un’innovazione attesa sia dai cultori della materia 28, sia dalla giurisprudenza, e finalizzata alla necessità di ridurre il numero di audizioni dei soggetti vulnerabili, garantendo al contempo
un tasso di maggiore attendibilità del testimone 29.
Lungo la medesima direzione si pone l’aspetto della riforma più consistente, rappresentato
dall’atteso intervento sull’art. 190-bis, comma 1-bis, c.p.p.
Con il d.lgs. n. 212/2015, infatti, il limite alla ripetibilità in dibattimento delle dichiarazioni assunte
nella sede incidentale, ai sensi dell’art. 190-bis, comma 1-bis, non è più circoscritto ai casi in cui il dichiarante sia minore di anni sedici e testimone di alcuni reati, ma viene esteso a tutte le persone offese che
versino in condizione di particolare vulnerabilità.
Si riconosce, pertanto, la necessità di contenere il numero delle dichiarazioni della vittima vulnerabile, evitando ripetizioni che possono pregiudicare la serenità del teste, per evitare i rischi connessi alla
vittimizzazione “secondaria” o da processo. Resta in ogni caso fermo che l’esame dibattimentale, nei
casi particolari, è ammesso anche qualora una delle parti lo ritenga necessario «sulla base di specifiche
esigenze», o quando riguardi «fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni».
Relativamente alle indagini preliminari, sono stati modificati gli artt. 351, comma 1-ter, e 362, comma
1-bis, c.p.p., consentendo, sia alla polizia giudiziaria sia al pubblico ministero, che assumano informazioni da una vittima in condizione di particolare vulnerabilità, di avvalersi dell’ausilio di un esperto in
psicologia nominato dal pubblico ministero, indipendentemente dall’età della stessa e dai reati per cui
si svolgono le indagini. Le norme riformate prescrivono in entrambi i casi di assicurare che l’offeso vulnerabile, durante l’audizione, non abbia contatti con l’indagato e non venga chiamato più volte – salva
assoluta necessità – a deporre.
Si segnala, inoltre, l’ampliamento dell’ambito di operatività dell’incidente probatorio all’ipotesi in
cui la persona offesa da escutere versi in condizione di particolare vulnerabilità, prescindendo dai reati
per cui si procede. Con tale atteso intervento, il nuovo caso d’incidente probatorio risulta sganciato dal
presupposto oggettivo dei reati di sfruttamento sessuale, tratta e riduzione in schiavitù, ma limitato alla
sola persona offesa vulnerabile. A tal fine, risulta ridotto anche il margine di discrezionalità del giudice
28
Al riguardo, S. Recchione, Le vittime da reato e l’attuazione della direttiva 2012/29 UE, cit., p. 13.
29
La Corte di cassazione ha più volte segnalato i rischi insiti nelle domande suggestive ai fini della valutazione di
attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni minorenni; al riguardo, Cass., sez. III, 11 maggio 2011, n. 25712, in CED Cass., n.
250615; Cass., sez. III, 18 gennaio 2012, n. 7373, in CED Cass., n. 252134.
ANALISI E PROSPETTIVE | PERSONA OFFESA E MODALITÀ DI AUDIZIONE PROTETTA: VERSO LO STATUTO DEL TESTIMONE ...
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in ordine al riconoscimento dello status di vulnerabilità del testimone, in virtù della definizione fornita
dall’art. 90-quater c.p.p. In ogni caso, coerentemente al principio dispositivo, l’accesso all’incidente probatorio è preceduto da una richiesta di parte, come esplicitamente previsto dalla norma.
Pertanto, il consolidamento del meccanismo incidentale è volto a soddisfare la duplice esigenza di
tutela della persona offesa vulnerabile e di garanzia del contraddittorio, preservando la genuinità della
prova. L’obiettivo è perseguito attraverso l’aggiunta di un nuovo periodo nell’art. 398, comma 5-ter,
c.p.p., secondo cui, quando occorra procedere nell’incidente probatorio all’esame di una persona offesa
in condizione di particolare vulnerabilità, trovano applicazione le modalità protette di cui all’art. 498,
comma 4-quater, c.p.p. Tale norma è stata, a sua volta, oggetto di un consistente intervento riformatore,
con l’eliminazione del presupposto oggettivo che subordinava l’operatività delle modalità protette in
dibattimento ai soli reati indicati al precedente comma 4-ter.
La disposizione di nuovo conio, invece, prescrive che, indipendentemente dalla contestazione imputata, qualora occorra procedere all’esame di una persona offesa che versi in condizione di particolare
vulnerabilità, il giudice, su richiesta dell’offeso, potrà disporre l’adozione di modalità protette nel dibattimento, prescindendo dai reati per cui si procede e da qualunque valutazione di “opportunità”.
Tuttavia, nonostante l’entrata in vigore del d.lgs. n. 212/2015, l’art. 498, comma 4-quater, c.p.p. continua a prevedere la possibilità di ricorrere all’audizione protetta in dibattimento unicamente per gli offesi maggiorenni, mentre il testimone vulnerabile non offeso non trova tutela. Questo significa che al potenziamento della tutela della persona offesa, imposto dalla direttiva europea, non è corrisposta
l’estensione della protezione alla fase dibattimentale ai maggiorenni non vittime, ma particolarmente
vulnerabili. Analogamente, il nuovo art. 190, comma 1-bis, c.p.p. limita la sfera operativa del divieto di
ripetibilità dell’esame dibattimentale alla sola testimonianza della persona offesa vulnerabile. In tal
modo, nonostante le ambiziose premesse, il legislatore perde l’occasione di porre le basi per uno statuto
uniforme del testimone debole nel processo penale.
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VANIA MAFFEO
Professore associato di Procedura penale – Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Il contributo della giurisprudenza sovranazionale
all’evoluzione del principio di pubblicità
The contribution of supranational law to the evolution of the tenet
of judicial public hearing
L’effettività della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, inaugurata con le “storiche” sentenze costituzionali
del 2007, ha rafforzato il catalogo dei diritti dell’imputato anche sul versante della pubblicità delle udienze. Un profilo oggettivo del processo si è trasformato in contenuto di una pretesa individuale, che concorre a definire il giusto processo. Ma il percorso di adeguamento del sistema interno al piano sovranazionale non può dirsi ancora
compiuto e resta da valutare se la prospettiva del diritto soggettivo sia stata interamente compresa dalla Corte costituzionale.
The process of enhancement of the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental
Freedom (CEDU), which started with the historical rulings by Constitutional Court in 2007, has reinforced the
rights of the defendant even on the subject of judicial hearing open to general public. An objective aspect of the
trial has become a matter of individual rights, and it is now one of the elements that contributes to the definition
of fair trial. However the process of alignment of the domestic judiciary system with the supranational standards,
is not yet completed. Moreover it is still to be assessed whether the Constitutional Court has fully embraced the
perspective of personal rights.
PREMESSA SULLA DISCIPLINA DELLA PUBBLICITÀ PROCESSUALE
Sulla falsariga del Codice del 1930 l’attuale disciplina processuale riserva la pubblicità alle udienze
dibattimentali, prevedendo però che, in deroga a quanto stabilito in via generale, il giudice (e non più il
presidente), può disporre lo svolgimento a porte chiuse: quando valuti che essa sia capace di nuocere al
buon costume o comporti 1 la diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato; quando ritenga, su richiesta dell’interessato, che l’assunzione di prove rechi pregiudizio alla riservatezza dei
testimoni ovvero delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione; o,
infine, quando valuti che la pubblicità sia idonea a nuocere alla pubblica igiene, oppure in caso di azioni di astanti che turbino il regolare svolgimento delle udienze o nell’ipotesi in cui occorra salvaguardare la sicurezza di testimoni o di imputati.
A queste condizioni, descritte sin dall’origine nel codice di rito vigente, la novella del 1996 ha aggiunto lo svolgimento a porte chiuse dei dibattimenti relativi ai delitti di violenza sessuale, di tratta, di
riduzione in schiavitù, di prostituzione e di pornografia minorile, ed altri ancora, quando vi sia richiesta in tal senso della persona offesa, che non deve essere in alcun modo motivata.
Si consideri, poi, che in relazione alle udienze che si svolgono a porte chiuse per ragioni di tutela del
buon costume o per impedire la diffusione di notizie che devono rimanere segrete nell’interesse dello
Stato (oltre che per la protezione della riservatezza di testimoni e parti private) è fatto divieto di pubblicazione, anche parziale, degli atti dibattimentali.
1
In tal caso, se vi è richiesta dell’autorità competente di procedere a porte chiuse.
ANALISI E PROSPETTIVE | IL CONTRIBUTO DELLA GIURISPRUDENZA SOVRANAZIONALE ALL’EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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Rispetto alle disposizioni del codice del 1930 è tangibile lo sforzo, andato a buon fine, di tipizzare con
sufficiente precisione i casi in cui la pubblicità può essere sacrificata in ragione dell’esigenza di assicurare tutela a beni altrettanto rilevanti. Non v’è più un generico riferimento al nocumento per la sicurezza
dello Stato, per l’ordine o la morale pubblici o ancora per la serenità del dibattimento, ma si specificano
meglio gli oggetti di tutela e le ragioni del potenziale conflitto con il principio della pubblicità.
È agevole concludere che, nel disegno della legge ordinaria, la pubblicità si atteggia soprattutto come garanzia oggettiva dell’esercizio della giurisdizione nella fase centrale del processo, costituita dal
dibattimento, e non solo da quello di primo grado. Le stesse regole valgono infatti per il dibattimento di
appello, più facilmente assimilabile al primo per l’eventualità della rinnovazione dell’istruzione, e per il
dibattimento innanzi alla Corte di cassazione, che invece è connotato dalla strutturale assenza delle parti “non tecniche” e di ogni iniziativa istruttoria 2.
La pubblicità non è, dunque, nella disponibilità dell’imputato, che pure trae un sicuro vantaggio dal
controllo collettivo sulle modalità con cui la giurisdizione è esercitata; semmai, può essere oggetto di
una pretesa individuale l’esclusione della pubblicità, ove essa comprometta il diritto alla riservatezza di
parti private o testimoni o della persona offesa in determinati procedimenti, come prima si è ricordato.
La garanzia, pur nella sua connotazione oggettiva, sfuma invece nei procedimenti camerali, incentrati, con differenti caratteristiche, sull’archetipo delineato dall’art. 127 c.p.p., ove si statuisce espressamente che l’udienza si svolge senza la presenza del pubblico.
È ben noto che la categoria è eterogenea: in essa si raccolgono sia itinerari funzionali a sciogliere
questioni relative all’an e al quomodo della dinamica giudiziaria, sia procedure che si concludono con
decisioni immediatamente strumentali all’applicazione della norma penale sostanziale, idonee a chiudere, incidendo anche sul merito, un grado di giudizio e suscettibili, in quanto tali, di generare pronunce irrevocabili 3.
Eppure, per tutti questi procedimenti, salvo che per il giudizio abbreviato in ordine al quale la novella del 1999 ha attribuito agli imputati il diritto di richiedere la pubblica udienza, il legislatore ha operato una scelta radicale, di esclusione della pubblicità senza neanche la previsione che, in presenza di
talune condizioni, l’imputato possa richiedere l’udienza pubblica; segno evidente del modo in cui è stata intesa la pubblicità, profilo oggettivo di garanzia, modulabile, secondo una piena discrezionalità, a
beneficio di altri concorrenti principi, pur essi oggettivamente apprezzabili, tra i quali spicca il principio della massima semplificazione delle forme, che richiede flessibilità dei riti per una loro migliore
adeguatezza allo scopo 4.
IL FONDAMENTO COSTITUZIONALE DELLA PUBBLICITÀ
Da quanto detto in premessa si scorge già che, pur non oggetto di espressa menzione, la pubblicità
ha rilievo costituzionale.
I giudici della Consulta ne evidenziarono la centralità nella corretta amministrazione della giustizia
ben prima che il tema fosse al centro degli interventi della Corte di Strasburgo in seguito alla innovativa lettura dei rapporti tra ordinamento interno e norme della Corte e.d.u. operata a partire dalle storiche sentenze nn. 347 e 348/2007 Corte cost.
Nell’ormai lontano 1965 5 fu dichiarata l’illegittimità dell’art. 164 c.p.p. 1930 – che sanciva il divieto
di pubblicazione a mezzo della stampa del contenuto di documenti e di ogni atto orale o scritto relativi
alla istruzione o al giudizio, se il dibattimento era tenuto a porte chiuse –, osservando che “la pubblicità
del dibattimento è garanzia di giustizia, come mezzo per allontanare qualsiasi sospetto di parzialità” e
che le norme volte a regolare i casi in cui è necessario derogare ad essa, devono essere informate dal
medesimo principio, del “retto funzionamento della giustizia, bene supremo dello Stato, garantito …
dalla Costituzione”.
2
La piena esplicazione del principio di pubblicità delle udienze dibattimentali si realizza con la possibilità che, con
ordinanza, il giudice autorizzi la ripresa fotografica, fonografica o audiovisiva ovvero la trasmissione radiofonica o televisiva
del dibattimento, pur senza il consenso delle parti se sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza e
sempre che non vi sia il pericolo di pregiudicare il sereno e regolare svolgimento dell’udienza o alla decisione.
3
Cfr. G. Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 527.
4
Così G. Conso, Codice nuovo, canoni interpretativi nuovi, in Giust. pen., 1989, II, c. 67.
5
Corte cost., sent. 14 aprile 1965, n. 25, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
ANALISI E PROSPETTIVE | IL CONTRIBUTO DELLA GIURISPRUDENZA SOVRANAZIONALE ALL’EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO ...
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La Corte, in quel contesto, non indicò il riferimento costituzionale del principio di pubblicità, né lo
fece quando, a distanza di un anno, tornò ad occuparsi di altre disposizioni normative dell’articolo 164
del codice di procedura penale, e di quelle contenute nell’art. 684 c.p.
In tale ultima occasione, nel dichiarare l’infondatezza della questione con riguardo al parametro costituzionale dell’art. 24, chiarì meglio il senso delle precedenti affermazioni, sottolineando che la pubblicità è posta a garanzia “di sostanziale giustizia” 6. Non, dunque, una mera condizione di regolarità
formale del procedere, ma un elemento essenziale per un fine più alto, quello che la decisione in cui
termina il processo sia “sostanzialmente” giusta.
Il processo a porte chiuse espone a pericolo la realizzazione dell’obiettivo ultimo, perché la segretezza dell’azione rende più difficile conservare la conformità a ciò che è realmente accaduto, condizione,
quest’ultima, per assicurare che “giusta” sia anche la sentenza. Ecco la ragione, indicata nella decisione
da ultimo richiamata, per la quale la pubblicità nel processo penale, in specie la pubblicità del dibattimento, ha un valore di particolare rilievo e le sue deroghe possono essere ragionevolmente disposte
soltanto per la tutela di beni di pari livello.
Così, emerge l’esigenza di individuare il fondamento costituzionale della pubblicità.
La Corte lo indicò nell’art. 101, comma 1, Cost. che colloca l’amministrazione della giustizia nell’ambito della sovranità popolare. Se la giustizia è amministrata in nome del popolo, allora il popolo deve
poter sapere, con diretta cognizione, come si svolgono i processi. Potendo assistere e conoscere ciò che
accade nelle aule di giustizia, la presenza del pubblico svolge un’importante funzione di controllo
sull’operato della magistratura e delle altre istituzioni che concorrono all’amministrazione delle giustizia, prevenendo distorsioni e degenerazioni di potere. La c.d. pubblicità esterna, che consente a chi non
ha un ruolo processuale di conoscerne i contenuti e gli sviluppi – sia immediatamente per mezzo
dell’accesso ai luoghi in cui si celebrano i processi, sia mediatamente in forza dell’attività informativa
esercitata dai mezzi di comunicazione di massa 7 – è un presidio dell’assetto democratico della giurisdizione e ha una valenza garantista su un duplice piano: individuale, nella misura in cui tutela il singolo
sottoposto a processo dal rischio dell’uso arbitrario del potere; collettivo, per la parte di esercizio di una
prerogativa di sovranità popolare 8.
Eppure le deroghe alla pubblicità sono previste e trovano solida giustificazione anch’esse, come si è
appena detto, nella necessità di proteggere beni di rango costituzionale.
A ragionare fuori da un contesto di beni potenzialmente confliggenti, non si comprenderebbe la
pronuncia di infondatezza della questione di legittimità costituzionale assunta nel lontano 1981 dalla
Corte 9 in riferimento, ancora una volta, alla norma incriminatrice della pubblicazione arbitraria di atti
del procedimento penale, in relazione però a processi condotti a porte chiuse nei confronti di imputati
minorenni 10.
Disse allora la Corte che la compressione della pubblicità nel processo minorile rispondeva al bisogno di tutela dei minori, altrimenti esposti al pericolo di grave pregiudizio per il loro sviluppo spirituale e per la loro vita materiale, entrambi aspetti di interesse costituzionale secondo l’art. 31, comma 2, Cost. – che pone la protezione della gioventù tra i compiti della Repubblica – letto in relazione
6
Corte cost., sent. 2 febbraio 1971, n. 71, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
7
Per M. Ciappi, Pubblicità (principio della), in Dig. disc. pen., X, Torino, 1995, p. 454, il principio di pubblicità “in senso proprio
si realizza, nel processo penale, soltanto attraverso il profilo della pubblicità esterna” e “quest’ultima, a sua volta, diviene
oggetto di un ulteriore tradizionale distinguo tra pubblicità immediata e pubblicità mediata, a seconda che la conoscenza degli
atti e dei fatti processuali derivi dalla diretta assistenza del pubblico all’attività procedimentale oppure dall’informazione che di
essa sia data dai mezzi di comunicazione di massa”.
8
La pubblicità esterna immediata, che si realizza con la presenza del pubblico nelle aule di giustizia, ha oggi e da tempo una
importanza scemata: osserva G. Giostra, Processo penale e informazione, Milano, 1989, p. 12, che le aule di udienza emanano la
“malinconica sensazione di un teatro quasi deserto, in cui gli attori recitano a pochi parenti e a qualche avventore distratto”.
Essa è stata “spodestata nella sua funzione dalla pubblicità mediata assicurata alla collettività dei mezzi di informazione di
massa”: così S. Mirandola, Un’altra camera di consiglio destinata a schiudersi, in Cass. pen., 2013, p. 3585.
9
Corte cost., sent. 10 febbraio 1981, n. 16, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
10
È appena il caso di ricordare che, per il procedimento ordinario, la legge dispone che, se la persona offesa di alcuni gravi
delitti (violenza sessuale, tratta, riduzione in schiavitù, prostituzione e pornografia minorile, ed altri ancora) è minorenne, si
procede sempre a porte chiuse, dunque, anche in assenza di una richiesta della persona offesa stessa. Regola generale, poi, è che
il giudice possa disporre che l’esame dei minorenni avvenga a porte chiuse.
ANALISI E PROSPETTIVE | IL CONTRIBUTO DELLA GIURISPRUDENZA SOVRANAZIONALE ALL’EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO ...
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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all’art. 2 Cost, che garantisce e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo 11.
Si delineò, così, il rapporto tra accertamento giudiziario e pubblicità, nel senso che il processo pubblico ha maggiori possibilità di realizzare il fine che gli è proprio, cioè, di rendere una sentenza giusta.
E però – qui la deroga – in alcuni casi (quando ad esempio imputato è un minore) occorre tener conto
dell’esigenza di tutelare altri valori; ed è il legislatore che fissa ragionevolmente il punto di equilibrio,
disponendo che i processi si tengano a porte chiuse, onde evitare che il giudizio, affidato comunque
agli organi giudiziari, non leda garanzie di pari valore.
Pur sufficientemente rappresentati il fondamento e la finalità costituzionali della pubblicità 12, occorreva fare i conti con la previsione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo 13, già vigente da tempo, che sancisce il diritto dell’imputato alla pubblicità del processo.
SEGUE: IL DUPLICE PROFILO DELLA PUBBLICITÀ E UNA PARZIALE CORREZIONE DI ROTTA
Con una sentenza emessa lo stesso giorno di quella appena esaminata 14 la Corte escluse che, sulla
base della previsione convenzionale, dovesse negarsi spazio alla discrezionalità legislativa per individuare quali processi svolgere senza pubblicità, affidando interamente al giudice il bilanciamento degli
interessi potenzialmente in conflitto 15. Rilevò a tal proposito che la disposizione convenzionale non
comportava, in vista della deroga alla pubblicità, la necessità di un vaglio giudiziale in luogo di una
previsione normativa; ciò a prescindere dalla (pur espressa) considerazione che l’efficacia nel nostro ordinamento della norma convenzionale è dovuta ad una legge ordinaria, e cioè la legge di autorizzazione alla ratifica della Convenzione, contenente l’ordine di esecuzione.
La Corte non notò distanze, sia pure nella (illo tempore) diversa lettura dei rapporti tra norma convenzionale e ordinamento nazionale, tra i modi in cui, nella disciplina convenzionale e in quella interna, era tutelata la pubblicità nel processo penale e, soprattutto, tra i sistemi delle deroghe in presenza di
interessi meritevoli di considerazione. L’opera di selezione dei casi in cui comprimere la pubblicità ben
poteva essere attribuita alla legge, non imponendo la Convenzione europea che fosse il giudice a decidere, in forza di valutazioni fatte nella concretezza di ogni singola vicenda.
11
Anche l’attuale art. 32 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448, dispone che l’udienza dibattimentale davanti al tribunale per i
minorenni sia tenuta a porte chiuse.
12
La Corte costituzionale, con la sentenza 9 luglio 1986, n. 212 (in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html), dichiarò l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione e disciplina del contenzioso tributario), nella parte in cui esclude la pubblicità delle udienze davanti alle commissioni tributarie con la precisazione, però, che “risultando definitivamente consolidati l’opinione dottrinale e l’orientamento della giurisprudenza sulla natura giurisdizionale delle predette commissioni, non potrebbe ritenersi consentita un’ulteriore protrazione della disciplina attuale: per contro, è assolutamente indispensabile, al fine di evitare gravi conseguenze, che il legislatore prontamente intervenga onde adeguare il processo tributario all’art. 101 Cost., correttamente interpretato”. In quella occasione si soffermò sui profili costituzionali
del principio di pubblicità. Ricordò così che, nell’iter formativo della Costituzione repubblicana, il principio era stato esplicitamente enunciato nell’art. 101 del progetto presentato all’Assemblea costituente il 31 gennaio 1947 (secondo comma: “le udienze
sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti”); ma poi, come risulta dai
lavori preparatori, una espressa enunciazione era stata ritenuta superflua, in quanto si era ritenuto che la pubblicità delle udienze fosse implicitamente prescritta dal sistema costituzionale quale conseguenza necessaria del fondamento democratico del potere giurisdizionale, esercitato appunto, come recita l’art. 101, in nome del popolo.
13
Secondo cui “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente …”, e prescrive altresì che
“la sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante
tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica,
quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia”.
14
Corte cost., sentenza 10 febbraio 1981 n. 17 (in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html), che dichiarò l’infondatezza della
questione di legittimità costituzionale degli artt. 425, comma 1, c.p.p. e 16 r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, che non prevedevano che
il dibattimento contro i minori potesse svolgersi pubblicamente se da loro espressamente richiesto e se la pubblicità sembrasse
utile o necessaria alla tutela di un loro diritto della personalità.
15
M. Chiavario, Processo e garanzie, II, Milano, 1982, 222, rilevò l’insufficienza del richiamo all’art. 101 Cost., che non poteva
costituire una soluzione appagante in mancanza di “ogni punto di riferimento testuale per individuare con sufficiente certezza e
con sufficiente precisione i limiti entro i quali dovrebbe ritenersi che la regola della pubblicità funzioni come regola
costituzionalmente efficace ed inderogabile, e dunque anche i limiti di ordine costituzionale all’introduzione di eccezioni alla
regola stessa in virtù di legge ordinaria”.
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Anni dopo, invece la Corte costituzionale, occupandosi del giudizio abbreviato introdotto dal codice
di rito del 1988, segnò una differenza significativa tra sistema interno e sistema convenzionale quanto
all’atteggiarsi della pubblicità. Sino a quel momento si era ragionato in termini di diritto dell’imputato e
di garanzia oggettiva del processo in vista della sentenza sostanzialmente giusta; dal 1990 16 in poi si fece strada nella giurisprudenza costituzionale, per effetto della grande riforma processuale, l’idea della
mancanza di pubblicità come vantaggio offerto all’imputato per incentivarlo alla scelta di un rito senza
dibattimento, in specie il giudizio abbreviato. L’assenza di pubblicità, unitamente ai ridotti costi processuali, fu dapprima qualificata come vantaggio assicurato dalla scelta dei riti c.d. premiali.
Poi, a proposito del patteggiamento, la Corte 17 evidenziò che il rilievo accordato alla volontà delle
parti, alla struttura c.d. negoziale del rito, giustificava l’attenuazione dell’esigenza di garantire l’imputato per mezzo della pubblicità; ma precisò che questo diverso assetto del processo, compensato dalla
valorizzazione della volontà delle parti, non legittimava ricostruzioni del requisito della pubblicità in
termini di diritto disponibile ad opera dell’imputato, anche in ragione del concorrente interesse oggettivo connesso al controllo sociale sul processo, pur non potendosi negare che “l’assenza di pubblicità
può talvolta rappresentare uno degli elementi incentivanti o premiali atti a favorire” la scelta per un rito accelerato, privo di dibattimento.
Ancora dopo, in materia questa volta di giudizio abbreviato, la Corte, dapprima richiamò il fondamento costituzionale della pubblicità, individuato nell’art. 101; quindi ricordò che il principio di pubblicità è consacrato in vari atti internazionali, tra i quali ha particolare rilievo la Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, che all’articolo 6 ne sancisce l’applicazione a beneficio dell’imputato, consentendo
deroghe per ragioni di sicurezza, ordine pubblico, moralità, interesse del minore e, comunque, per giuste esigenze da valutarsi dal giudice; tuttavia, ribadì che la ponderazione e il bilanciamento degli interessi in gioco rientravano nelle attribuzioni del legislatore 18. Da un lato, il diritto dell’imputato alla
pubblicità e l’interesse oggettivo al controllo sociale sul processo; dall’altro, la struttura del giudizio abbreviato, “che consente una certa celerità di giudizio e una certa riservatezza, perché pone l’imputato al
riparo da indiscrezioni che possono ledere la sua figura di uomo” 19.
L’ORIENTAMENTO DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
A fronte di tale quadro delineato dalla giurisprudenza costituzionale in tema di pubblicità (fondamento non espresso ma individuabile nella riconduzione dell’amministrazione della giustizia alla sovranità popolare; possibilità di deroga in presenza di interessi, potenzialmente configgenti, di pari rango; legittimità dell’attribuzione alla legge, e non al giudice, delle valutazioni sull’applicazione della deroga) la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sviluppato un orientamento in parte diverso.
Sulla comune premessa che la pubblicità tutela dal pericolo di una giustizia segreta – che sfugge al
controllo del pubblico e incrina la credibilità della funzione giudiziaria –, concorrendo così a delineare
16
Corte cost., sentenza 8 febbraio 1990, n. 66, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html, che dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 247, commi 2 e 3, disp. att. c.p.p., nella parte in cui non prevedevano che il pubblico ministero, in caso di
dissenso, dovesse enunciarne le ragioni e nella parte in cui non prevedeva che il giudice, quando, a dibattimento concluso,
ritenesse ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, potesse applicare la riduzione di pena.
17
Corte cost., sentenza 6 giugno 1991, n. 251, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html, che dichiarò l’infondatezza della
questione di legittimità costituzionale degli artt. 447, 448 e 563 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano che, nella fase delle
indagini preliminari, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti fosse emessa in pubblica udienza.
18
La legge 16 dicembre 1999, n. 479, ha però novellato la disciplina del giudizio abbreviato, prevedendo che “il giudizio
abbreviato si svolge in camera di consiglio; il giudice dispone che il giudizio si svolga in pubblica udienza quando ne fanno
richiesta tutti gli imputati” – art. 441, comma 3, coma novellato dall’articolo 29 –. Per un approfofondimento dei profili critici
connessi alla riforma del 1999 sia consentito il rinvio a V. Maffeo, Il giudizio abbreviato, Napoli, 2004, p. 344 ss., ove infine si
indica, come soluzione di maggior rispetto dei fondamenti costituzionali del principio di pubblicità, la previsione della
pubblicità del giudizio abbreviato tout court, con l’attribuzione all’imputato della facoltà di chiedere la trattazione camerale, in
determinate situazioni.
19
S. Quattrocolo, Una recente pronuncia europea in tema di pubblicità delle udienze: brevi riflessioni a margine, in Leg. pen., 2012, p.
444, evidenzia che l’atteggiamento del legislatore sul terreno dei riti premiali segue ad una “lettura soggettiva, molto particolare
del concetto di pubblicità delle udienze, quasi si trattasse … di una ‘componente para-sanzionatoria’ del trattamento
processuale, da rifuggire, nel quadro di un assetto di interessi che pone in bilanciamento la rinuncia a garanzie costituzionali
con vantaggi di varia portata per l’imputato”.
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la garanzia del giusto processo, la Corte europea precisava che le esclusioni della pubblicità dovevano
in ogni caso trovare giustificazione in fattori «strettamente imposti dalle circostanze della causa». La
Corte di Strasburgo sancisce il diritto dell’individuo ad un esame pubblico della sua vicenda e, cioè,
della controversia sui suoi diritti e doveri di carattere civile o della fondatezza di un’accusa penale formulata nei suoi confronti; il richiamo normativo all’art. 6 Cedu prevede che la pubblicità possa essere
limitata o esclusa “nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una
società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle
parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze
speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia”. Si tratta di un’articolata
previsione che consacra un diritto individuale ed al contempo pone un ventaglio ampio di eccezioni,
con devoluzione al giudice del compito di contemperare le diverse ed opposte esigenze, e di dare ovviamente conto, per mezzo della motivazione, delle scelte compiute.
Da qui, e con specifico riferimento alla disciplina dei giudizi di merito di prevenzione personale e
patrimoniale del nostro sistema, la Corte europea ha argomentato che la garanzia del giusto processo
convenzionale non potesse dirsi soddisfatta in ragione della previsione, per norma generale ed astratta,
della procedura camerale, senza possibilità di proporre richiesta di trattazione pubblica da porsi al vaglio del giudice. Non ha trascurato il rilievo della difesa governativa, ossia che interessi superiori quali
la tutela della riservatezza dei minori o di terzi indirettamente coinvolti dalle indagini patrimoniali potessero entrare in gioco nel procedimento di prevenzione e non ha disconosciuto che il procedimento di
prevenzione potesse avere un alto grado di tecnicità, tale da giustificare l’assenza di pubblicità; però, ha
affermato che non può perdersi di vista l’essenza del procedimento di prevenzione e la forte incidenza
che la decisione finale ha sulla persona, specie in termini di sacrificio del diritto di proprietà e di iniziativa economica.
Non è in dubbio che le procedure di prevenzione non siano assimilabili pienamente ai processi penali, a che, quindi, si sarebbe potuto argomentare con una certa plausibilità, sull’allentamento della cogenza del principio di pubblicità; la Corte europea, però, ha anticipato il rilievo e si è mossa elevando a
parametro di valutazione alcune precedenti decisioni, assunte in riferimento a procedimenti di natura
civilistica, in cui sono in gioco interessi particolarmente rilevanti delle persone. Si è osservato specificamente che “nella maggior parte delle cause riguardanti un procedimento innanzi alle autorità giudiziarie civili che decidono nel merito”, e di cui si era occupata, “il ricorrente aveva avuto la possibilità di
sollecitare la tenuta di una pubblica udienza”. Di qui, l’indispensabilità che il preposto avesse almeno la
possibilità di richiedere una pubblica udienza dinanzi alle commissioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello 20.
Il tipo di prospettiva è evidente. La tutela delle ragioni dell’individuo non può fare a meno di un
apprezzamento concreto degli elementi che possono giustificare una compressione del diritto alla pubblicità. Stando alla ricostruzione effettuata dalla Corte costituzionale, è il modo con cui il nostro ordinamento ha impostato il rapporto tra il riconoscimento della pubblicità e le deroghe di segretezza a
stridere con l’esigenza di un rafforzamento del principio di pubblicità, una volta che esso si atteggia
come diritto, come posizione soggettiva che concorre a strutturare il giusto processo. In via generale,
l’individuazione dei casi in cui i procedimenti sono privi di udienza pubblica non tiene conto della dimensione soggettiva della pubblicità che concorre alla dimensione del processo equo convenzionale.
A distanza di qualche anno la Corte europea ha applicato lo stesso criterio decisorio con riguardo ad
altro procedimento camerale del nostro ordinamento: quello di riparazione per ingiusta detenzione 21.
Anche in tale occasione è stata ribadita la forza di un principio fondamentale del giusto processo – la
pubblicità – ed è stato escluso che una sua deroga trovi giustificazione nel carattere asseritamente tecnico della questione posta all’esame dei giudici; e così, la Corte europea ha affermato che, anche quando è
in gioco una richiesta di indennizzo per custodia cautelare ingiusta, data la natura della questione, nessuna circostanza eccezionale può giustificare l’udienza senza il controllo pubblico.
20
Corte e.d.u., 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia. Nel medesimo senso, sentenza dell’8 luglio 2008, Pierre c. Italia e
sentenza 5 gennaio 2010, Buongiorno ed altri c. Italia. V., a tal proposito, per una efficace sintesi delle posizioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, M. MontagnA, La pubblicità dell’udienza quale diritto fondamentale dell’individuo nel procedimento di prevenzione tra Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale, in www.diritti-cedu.inipg.it.
21
Sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti c. Italia.
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UNA PRIMA RISPOSTA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Investita della questione circa l’assenza di pubblicità nella disciplina del procedimento di prevenzione, la Corte costituzionale si è limitata a prendere atto della lettura offerta dalla Corte di Strasburgo,
per dedurre che “le specifiche peculiarità del procedimento di prevenzione … valgono a differenziarlo
da un complesso di altre procedure camerali” 22.
Si tratta, cioè, di un procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio
di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati; il che conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di
pubblicità delle udienze è preordinato.
Quindi è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 legge n. 1423/1956 e dell’art. 2-ter
legge n. 575/1965, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento
per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica 23. Al contempo il Giudice delle leggi ha evitato, dichiarandola assorbita
dal rilievo riconosciuto al parametro dell’art. 117, di affrontare l’altra questione posta dal giudice remittente, e cioè se l’assenza di una previsione di pubblicità si ponesse in violazione dell’art. 111, comma 1,
e specificamente con la garanzia del giusto processo.
Eppure, all’indomani della riforma costituzionale dell’art. 111, la letteratura aveva rinnovato gli
sforzi per agganciare il principio di pubblicità a quelle previsioni.
Già prima della riforma, l’art. 111, e in particolare la previsione dell’obbligo di motivazione dei
provvedimenti, aveva costituito per alcuni il fondamento del principio. Si era valutata come altamente
plausibile la soluzione di far discendere dall’obbligo di motivazione dei provvedimenti un regime di
conoscenza pubblica almeno della fase finale dell’iter procedimentale, perché la possibilità accordata a
ciascuno di esercitare un controllo sul discorso giustificativo della decisione postula la conseguenza che
analoga opportunità debba essere attribuita in ordine al momento di assunzione delle prove, nonché a
quello dell’esposizione delle tesi dell’accusa e della difesa 24.
Successivamente alla legge cost. n. 2/1999, si rafforzò l’idea che, nella nozione di giusto processo costituzionale rientrasse, pur nel silenzio della lettera della disposizione, anche il principio di pubblicità 25
e si disse che non restava che saggiare il grado di resistenza dello stesso a fronte di possibili soluzioni
derogatorie, con l’auspicio, confortato dal mutato atteggiamento della Corte costituzionale (sentenze
nn. 348 e 349/2007) in ordine ai rapporti tra norme Cedu e ordinamento interno, di effettiva universalizzazione del principio di pubblicità 26.
Quest’auspicio non ha trovato riscontro, almeno nelle immediatamente successive decisioni, perché
la Corte costituzionale ha preferito una soluzione meno impegnativa sul piano della risistemazione dei
tradizionali approdi interpretativi. Se la Corte europea impone che l’interessato abbia comunque diritto
di richiedere la trattazione in udienza pubblica, la risposta più agevole è quella di manipolare di volta
in volta il testo normativo che dispone per l’udienza a porte chiuse o, comunque, per il procedimento
camerale; più agevole, ma non immune da critiche, prontamente formulate, laddove è stato evidenziato
come la Corte costituzionale avrebbe potuto operare non “in modo acritico nel solco del refrain proposto dalle decisioni della Corte, ben potendo … intervenire su più alti livelli di tutela” 27.
22
Sentenza 12 marzo 2010, n. 93.
23
P.V. Molinari, L’assenza di pubblicità dell’udienza nel procedimento di prevenzione, in Cass. pen., 2010, p. 3818, ha affermato che
la soluzione della questione sottoposta allo scrutinio della Corte costituzionale era prevedibile, proprio in ragione della precedente giurisprudenza costituzionale, inaugurata dalle coeve sentenze nn. 348 (in http://www.giurcost.org/decisioni/index.
html) e 349 (in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html) del 24 ottobre 2007. Per un compiuto esame della sentenza, alla luce
della giurisprudenza europea, v. F. SAVINO, Misure di prevenzione e pubblicità processuale: la Corte costituzionale dice sì, in Leg. pen.,
2010, p. 533.
24
G.P. Voena, Mezzi audiovisivi e pubblicità delle udienze penali, Milano, 1984, p. 186.
25
Per E. Marzaduri, La riforma dell’art. 111 Cost. tra spinte contingenti e ricerca di un modello costituzionale di un processo penale, in
Leg. pen., 2000, p. 765, l’art. 111 potrà rappresentare il riferimento per diritti che non hanno sino ad oggi trovato espressa
traduzione in Costituzione, come è per la pubblicità processuale, e che dovrebbero connotare ogni processo “giusto”.
26
Così A. La Placa, Dalla Corte europea dei diritti dell’uomo un’importante sottolineatura della pubblicità delle udienze come carattere
fondamentale del “giusto processo”, in Leg. pen., 2008, p. 146.
27
A. Gaito-S. Fùrfaro, Consensi e dissensi sul ruolo e sulla funzione della pubblicità delle udienze penali, in Giur. cost., 2010, p. 1065.
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Con efficacia di argomenti si è poi osservato che l’impostazione preferita dalla Corte costituzionale
non sembra farsi carico del fatto che la Corte europea propugna una concezione dell’udienza pubblica
in termini di diritto soggettivo, che incide problematicamente “sulla dimensione oggettiva che il processo inevitabilmente assume per intuitive esigenze di omogeneità, razionalità ed ordine” 28. Per meglio
dire, la Corte costituzionale avrebbe dovuto tener conto del pericolo che il processo di oggettivazione
delle situazioni soggettive, già attuato in forza della riforma costituzionale dell’art. 111, risulti compromesso dalla qualificazione in termini di diritto soggettivo dell’udienza pubblica, con legittimazione
delle deroghe rimesse alla volontà dell’interessato anche oltre i casi positivamente considerati dalla
Convenzione europea 29.
Un altro e concorrente profilo critico delineato dai primi commenti ha messo l’accento sul metodo
scelto dalla Corte costituzionale per l’adeguamento al sistema convenzionale, così anticipando quanto
in effetti è successivamente accaduto: se la procedura camerale, quindi senza udienza pubblica, è il
modello adottato in una consistente varietà di situazioni, l’adattamento con singola decisione di illegittimità per singola situazione impedisce che l’omogenea applicazione della legge sia allineata, facendo
dipendere la costituzione di un modello procedimentale convenzionalmente conforme dalla sensibilità
del giudice e delle parti.
I SUCCESSIVI INTERVENTI DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Quest’ultima notazione è stata profetica.
A poca distanza di tempo dalla prima sentenza di illegittimità, la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità col sistema convenzionale dell’assenza di udienza pubblica nel
procedimento di prevenzione in fase di giudizio di legittimità 30.
Ancora una volta, secondo lo schema della valutazione di costituzionalità per norma convenzionale
interposta, la Corte si è premurata di appurare l’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo in relazione alle fasi del giudizio in cui si trattano questioni di mero diritto. Dopo aver rilevato che, proprio
in forza della giurisprudenza sovranazionale, condizione sufficiente al rispetto del principio di pubblicità è che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, potendo l’assenza di una pubblica
udienza nei gradi successivi trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio, il Giudice delle leggi ha preso atto che per i giudizi di impugnazione con sindacato di mera legittimità la Corte europea, in più occasioni, ha escluso la necessità dell’udienza pubblica. Il controllo popolare
sull’amministrazione della giustizia, infatti, ha senso “quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua
grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni
normative”.
Agevole allora la conclusione che, grazie all’introduzione – per effetto della sentenza n. 93 del 2010 –
nel procedimento di prevenzione di merito della facoltà per l’interessato di richiedere l’udienza pubblica, la conformità dell’ordinamento interno allo statuto convenzionale del giusto processo non implichi
l’estensione della medesima facoltà pur dinnanzi alla Corte di Cassazione.
Ancora dopo, la sollecitazione allo scrutinio di legittimità costituzionale di un altro procedimento
camerale, quello per la valutazione della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, è provenuta
dalla Corte di Cassazione nella sua più autorevole composizione delle Sezioni Unite 31.
Una riflessione merita di essere spesa sulle ragioni per le quali le Sezioni Unite, in assenza di una ri28
A. Gaito-S. Fùrfaro, Consensi e dissensi, cit., p. 1067.
29
A. Gaito-S. Fùrfaro, Consensi e dissensi, cit., p. 1068.
30
Sentenza n. 80 del 7 marzo 2011, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html. Cfr. L. Leoncini, Corte costituzionale e
pubblicità delle udienze: un diritto a “doppio regime”? (a proposito della sent. 80/2011), in Leg. pen., 2011, p. 705, che ha evidenziato
l’insufficienza del criterio di giustificazione fatto proprio dalla Corte costituzionale, quello della distinzione tra giudizio di
merito e giudizio di legittimità, osservando che, seppur entro certi limiti, la Corte di cassazione può conoscere del fatto, se ad
esempio sono in gioco vizi in procedendo o questioni di giurisdizione o di competenza, e che quindi la pubblicità non può essere
in radice negata nel procedimento dinnanzi alla Corte medesima.
31
Cass., sez. un., 25 ottobre 2012, n. 41694, N., in Cass. pen., 2013, con nota di S. Mirandola, Un’altra camera di consiglio
destinata a schiudersi, p. 4043.
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chiesta dell’interessato di avere un’udienza pubblica, hanno ritenuto di motivare la rilevanza della questione, perché sembra emergere il tentativo di far superare alla Corte costituzionale quel metodo episodicamente casistico che aveva inaugurato con la prima decisione di legittimità, peraltro, prontamente
criticato.
Benché l’imputato nel giudizio a quo non avesse richiesto l’udienza pubblica, né nei gradi di merito
né in quello di legittimità, l’idea del giudice remittente era che l’ordinario regime di preclusioni e decadenze del sistema processuale non potesse essere d’ostacolo, per difetto di rilevanza, alla deduzione di
una questione di costituzionalità incentrata sulla contrarietà delle norme interne ad un parametro convenzionale. Quando la Corte europea censura una carenza strutturale dell’ordinamento interno, alla relativa pronuncia dovrebbe riconoscersi un’efficacia espansiva rispetto al singolo caso posto all’esame,
in ragione dell’obbligo delle autorità statuali di porre termine alla violazione e di cancellarne le conseguenze, senza in ciò trovare impedimento in istituti volti a regolare l’ordine processuale, e tra questi la
rilevanza e i suoi presupposti della questione nel giudizio incidentale di costituzionalità. In buona sostanza, la Corte di cassazione ha implicitamente sollecitato una soluzione più ampia, invitando la Corte
costituzionale a farsi carico di tutte le lacune esistenti nel nostro ordinamento quanto al principio di
pubblicità, al di là della singola questione posta all’esame e a prescindere dalla sua chiara rilevanza per
il singolo giudizio a quo.
Impostazione interpretativa di un qualche interesse, certo attenta alle istanze riformatrici provenienti dalla Corte europea, che però si è scontrata con la tradizionale lettura della Corte costituzionale, che
non ammette che la rilevanza della questione sia apprezzabile in termini soltanto ipotetici e che la norma da introdursi per effetto di una invocata sentenza ‘additivo-manipolativa’ resti subordinata ad un
accadimento non solo futuro, ma anche incerto, ossia al fatto che l’interessato si avvalga effettivamente
della facoltà attribuitagli 32.
Nella medesima vicenda rimessa alla Corte costituzionale, un’altra sollecitazione non raccolta ha riguardato la prospettazione della violazione, oltre che del già sperimentato modello di cui all’art. 117 Cost.
come integrato dalla norma interposta di natura convenzionale, anche del canone del giusto processo costituzionale, consacrato nell’art. 111 Cost. Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il silenzio
serbato dalla norma costituzionale non impedisce di apprezzare la sostanziale identità tra la nozione di
giusto processo convenzionale e quella di giusto processo costituzionale. Tale ultima, infatti, è stata deliberatamente conformata alla prima, recependo nel sistema interno, ed al più alto livello, i caratteri del
giusto processo, sì come delineati nella giurisprudenza della Corte europea. Deve allora affermarsi che il
principio di pubblicità è connaturato alla nozione di giusto processo fatta propria dall’art. 111 Cost.
La violazione dell’art. 111, comma 1, Cost. è stata invece affermata circa un anno dopo, dalla sentenza
che ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, c.p.p., nella parte
in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di
sicurezza si svolga, davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme
dell’udienza pubblica 33. Richiamati i consueti contenuti della giurisprudenza sovranazionale e verificato
che al procedimento camerale in questione non è affidato un contenzioso a carattere semplicemente ‘tecnico’, rispetto al quale il controllo del pubblico può dirsi non necessario, la Corte costituzionale ha evidenziato che, in quelle vicende, la ‘posta in gioco’ è, senza alcun dubbio, particolarmente elevata. Le misure di sicurezza personali, alla cui applicazione è funzionale l’accertamento di pericolosità, comportano
limitazioni di rilevante spessore alla libertà personale, raggiungendo in alcuni casi un tasso di afflittività
analogo a quello delle pene detentive. Nessun dubbio, quindi, che si sia di fronte ad un procedimento al
cui esito il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su un bene primario dell’individuo, quale è la libertà personale.
Argomentazioni, queste, che bene sostengono l’accoglimento degli indirizzi interpretativi consolidati della Corte europea, ma che non sembrano avere un’apprezzabile specificità in riferimento al parametro del giusto processo costituzionale. Ed infatti, la violazione dell’art. 111, comma 1, Cost. è stata
soltanto affermata e per nulla motivata, quasi che la piena analogia dei contenuti di tutela offerti dalla
predetta norma e dall’art. 6 della Convenzione europea potesse esimere dal dare conto di un cambio di
rotta nell’interpretazione costituzionale, invero per nulla marginale.
32
Corte cost., sent. 18 luglio 2013, n. 214, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
33
Corte cost., sent. 21 maggio 2014, n. 135, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
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Con successive sentenze è stata dichiarata, da un lato, l’illegittimità 34 degli artt. 666, comma 3, e 678,
comma 1, c.p.p., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento davanti al tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza si svolga nelle forme dell’udienza
pubblica e, dall’altro, l’illegittimità 35 degli artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 c.p.p., nella parte in
cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento di opposizione contro l’ordinanza
in materia di applicazione della confisca si svolga, davanti al giudice dell’esecuzione, nelle forme
dell’udienza pubblica.
Ma in entrambe le occasioni, la Corte costituzionale ha del tutto ignorato il riferimento dei giudici
remittenti al parametro dell’art. 111, comma 1, Cost., formulando percorsi argomentativi ampiamente
battuti; soltanto da un inciso contenuto nella sentenza n. 109/2015 36 si apprende, con una qualche sorpresa, che il parametro del giusto processo costituzionale è stato invece utilizzato per la pronuncia di
illegittimità.
Il rilievo critico non è formale: se la Corte avesse maggiormente indagato – nella prospettiva di una
risistemazione sistemica della pubblicità – i contenuti di tutela dell’articolo 111, comma 1, Cost., forse
avrebbe potuto rispondere a quanti hanno evidenziato che la soluzione offerta alle cogenti indicazioni
della giurisprudenza sovranazionale – di ritenere la richiesta di pubblica udienza un elemento aggiuntivo meramente accessorio da innestarsi nel rito camerale – “sconta il condizionamento negativo di una
considerazione dell’udienza pubblica come una camera di consiglio aperta al pubblico, con tutto ciò che
ne consegue in termini di spregio delle forme” 37.
Ma, proprio il metodo frammentario prescelto porterà ad ulteriori interventi nel prossimo futuro –
sull’udienza preliminare, sull’incidente probatorio, sui procedimenti di riesame dei provvedimenti cautelari, sul procedimento camerale di appello –, con i quali la Corte potrà ancora dire se il diritto alla
pubblicità debba tradursi nel diritto non già alla pubblicità di un’udienza che resta incardinata in un
procedimento camerale, ma ad un procedimento che abbia per intero le forme dell’udienza pubblica.
Per altro verso, è del tutto condivisibile la prudenza con cui la Corte ha preferito muoversi nell’adeguamento del sistema interno alle indicazioni sovranazionali; in assenza sul tema di iniziative legislative organiche, ha preferito riservarsi, di volta in volta, la possibilità di una considerazione approfondita
delle specifiche caratteristiche del singolo procedimento privo di udienza pubblica.
Rispetto alla pretesa di trasformare la fisionomia di tutti i procedimenti camerali con l’attribuzione
all’imputato del diritto di chiedere e di ottenere la trasformazione del rito, la Corte sembra aver tenuto
presente che i rimedi al deficit di tutela del diritto alla pubblicità non devono prescindere dall’accurata
selezione dell’ambito entro cui quel diritto convenzionale merita di essere riconosciuto.
Con riguardo, ad esempio, all’udienza preliminare, in cui pure si dibatte dell’accusa per verificare se
vi siano le condizioni per il passaggio al dibattimento, si è osservato come appaia opportuno mantenerne l’asciuttezza delle forme e favorire il confronto diretto e serrato tra le parti, senza gli indugi retorici e la solennità scenica della fase dibattimentale 38. Proprio in riguardo alla fase che sembra immediatamente ricadere entro i confini tracciati dalla previsione convenzionale di tutela del diritto alla pubblicità, quelli della verifica della fondatezza di un’accusa penale, potrebbero quindi rilevare buone ragioni
per giustificare la deroga al principio della trattazione pubblica.
Già questa osservazione dà conto di quanto sia opportuno, nella materia, il rifiuto di un approccio
per così dire massimalista che, in nome del diritto convenzionale, finisca con l’azzerare i pur rilevanti
vantaggi connessi all’adozione di riti camerali, in termini di ragionevole durata dei procedimenti e
fluidità delle forme, con in più la tutela ampia della riservatezza dei soggetti coinvolti 39.
34
Corte cost., sent. 5 giugno 2015, n. 97, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
35
Corte cost., sent. 15 giugno 2015, n. 109, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
36
“Questa Corte, con le sentenze n. 93/2010, n. 135/2014 e n. 97/2015, ha già dichiarato costituzionalmente illegittime – per
contrasto, nel primo caso, con l’art. 117, primo comma, Cost. e, negli altri due, con entrambi i parametri costituzionali oggi
evocati …”.
37
A. Gaito-S. Fùrfaro, Consensi e dissensi, cit., p. 1073.
38
V., in tal senso, quanto argomentato da G. Di Chiara, «Against the administration of justice in secret»: la pubblicità delle
procedure giudiziarie tra Corte europea e aspetti del sistema italiano, in A. Balsamo-R.E. Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e
processo penale italiano, Torino, 2008, p. 307.
39
L. Carboni, La Corte costituzionale prosegue il suo cammino verso l’affermazione del principio di pubblicità, in www.penalecontem
poraneo.it.
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Vale allora il monito a vigilare affinché l’affermazione di un diritto non si risolva nella dispersione
di quella “formidabile risorsa” costituita dal rito camerale, in modo da evitare che il meccanismo della
conversione, a richiesta, in udienza pubblica “non refluisca, quale improvvido dazio, in termini di gratuita solennizzazione delle forme, a tutto svantaggio della fluidità del rito e, non ultimo, della sua durata ragionevole” 40.
40
G. Di Chiara, «Against the administration of justice in secret», cit., p. 308.
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EVA MARIUCCI
Dottore di ricerca in Diritto Pubblico (indirizzo penalistico) – Università di Roma “Tor Vergata”
Detenzione cautelare e stato di salute particolarmente grave:
“letture” consolidate e recenti prospettive
Pre-trial detention and illness: prevailing interpretations and new
clarifications
Il diritto alla salute costituisce prerogativa costituzionale del detenuto, ma non è sempre agevole operare il giusto
bilanciamento tra esigenze collettive ed individuali; nel caso di detenzione ante iudicatum, poi, l’aspirazione alla
effettiva salvaguardia del diritto è persino rafforzata dalla presunzione di innocenza. L’incauta formulazione dell’art.
275, comma 4-bis, c.p.p. amplifica le criticità, imponendo esplicite direttrici interpretative. In proposito, recenti approdi esegetici hanno enfatizzato diversi profili connessi alla tutela dell’integrità psico-fisica, chiarendo – forse una
volta per tutte – che nelle ipotesi di malattia particolarmente grave, nonostante la compatibilità con la detenzione,
il giudice dovrà in ogni caso pronunciarsi per l’inapplicabilità della custodia cautelare se l’adeguatezza di cure non
può essere garantita all’interno del circuito penitenziario.
Although the right to health is provided by the Constitution among the prisoner’s rights, it is not always easy to
find a balance between individual and collective needs. Especially in precautionary detention, the right to effective
protection is strengthened by presumption of innocence. New interpretative statements referred to Article 275,
paragraph 4-bis, CCP enlightened that in case of critical illness, in spite of its compatibility with imprisonment, the
judge can’t order precautionary detention in prison every time adequate treatment can’t be guaranteed in the penitentiary.
STATUS DETENTIONIS E DIRITTI FONDAMENTALI
Lo stato di detenzione non è incompatibile con la titolarità e l’esercizio dei diritti costituzionali: una capitis deminutio 1 sarebbe intollerabile, residuando sempre in capo al detenuto uno spazio di libertà personale. D’altronde, è dalla stessa Carta che emerge limpido l’intento di «porre alla base di tutto il sistema
dei rapporti tra Stato e singoli, l’esigenza primaria del rispetto della persona» 2. La reclusione determina
un inevitabile restringimento della libertà individuale, che, tuttavia, va contenuto nei limiti imposti dalle
esigenze custodiali, senza potersi tradurre in un’ingiustificata compressione dei diritti fondamentali.
Del resto, pure la riforma penitenziaria del 1975 ha stravolto la vecchia concezione del rapporto detenuto/amministrazione, superando l’idea del «carcere come luogo dell’esclusione» 3 e valorizzando, viceversa, il rispetto della dignità e la centralità della persona umana. Di conseguenza, lo status di detenuto
non comporta mai la negazione dei diritti fondamentali, ma è persino attributivo di specifiche situazioni
giuridiche soggettive connesse al regime restrittivo. L’art. 1 ord. penit., al proposito, recita che «il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità ed assicurare il rispetto della dignità della persona». La
dignità, dunque, viene a costituire un pilastro dell’ordinamento penitenziario, in controtendenza rispetto
1
Richiama questo istituto del diritto romano, la Corte costituzionale, nella celebre pronuncia 11 febbraio 1999, n. 26, in Giur.
cost., 1999, p. 176 ss.
2
P.F. Grossi, La dignità nella Costituzione italiana, in Diritto e società, 2008, I, p. 32.
3
G. Pierro, voce Istituti di prevenzione, in Enc. giur., I, Roma, 1989, p. 3.
ANALISI E PROSPETTIVE | DETENZIONE CAUTELARE E STATO DI SALUTE PARTICOLARMENTE GRAVE
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al pregresso sistema, ancorato ad una logica di esclusione, isolamento e, finanche, di violenza 4.
Appare altresì di rilievo la circostanza che il legislatore non abbia circoscritto soggettivamente l’area
di rilevanza del valore della dignità, specificando la sua attribuzione intra moenia al condannato. Evidentemente, l’intento è stato quello di garantire fino in fondo le prerogative del detenuto, poiché la
qualifica di persona umana viene senz’altro ad includere quella di condannato, confermando in tal modo che, in un sistema penitenziario costituzionalmente orientato, il detenuto continua ad essere titolare
degli stessi diritti che spettano a ciascun uomo 5, per lo stesso fatto di esistere. Così, «le limitazioni coessenziali allo stato detentivo» non incidono mai sull’an della tutela costituzionale dei diritti fondamentali della persona in vinculis: semmai, ne condizionano il contenuto, il quale non deve mai porsi ad «un
livello tale che ne risulti offesa la dignità umana propria di ogni individuo» 6.
IL DIRITTO ALLA SALUTE NELLA PROSPETTIVA COSTITUZIONALE
Nel nostro ordinamento la salute è tutelata dall’art. 32 Cost. come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».
Un primo nodo esegetico è quello relativo alla nozione di diritto fondamentale. Secondo un consolidato filone interpretativo, tale aggettivo postula un giudizio di valore che consente al diritto di prevalere,
in caso di conflitto, su tutti gli altri diritti costituzionali privi di tale qualifica 7. Di conseguenza, nella
Carta fondamentale esistono posizioni giuridiche soggettive dotate di una “superiorità sostanziale” 8
rispetto ad altre di pari forza formale, che permette loro di imporsi per il maggior vigore nelle ipotesi,
non infrequenti, di contrasto, collisione o antinomia 9.
Altra questione ermeneutica riguarda una definizione del termine salute, che sia in grado di coglierne tutti gli aspetti. Un punto di partenza può essere l’esplicitazione resa dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità, secondo cui è uno «stato di completo benessere fisico, mentale, sociale», tale, dunque, da
non consistere precipuamente nell’assenza di morbi o di altre infermità. In sintesi, la nozione ha una
portata ampia, che non esaurisce, pur includendolo, il concetto di integrità fisica 10, postulando semmai
«un’indissolubile unità psico-fisica» 11.
Questione ancora più dibattuta è stata quella, sviluppatasi in seno alla letteratura costituzionalista
ed alla giurisprudenza, sulla struttura del diritto in esame. L’orientamento oggi consolidato propende
per la natura complessa di tale posizione giuridica: diritto di libertà e diritto sociale 12. Secondo questa
linea di pensiero, l’art. 32 Cost., da un lato, tutela la pretesa del titolare a che gli altri consociati si astengano dall’impedirne l’esercizio – addirittura nella sua dimensione negativa di rifiuto alle cure, purché
nel rispetto dei limiti imposti dalla legge –; dall’altro, implica la pretesa a prestazioni positive da parte
dei pubblici poteri (e, in tal senso, va ricompreso tra i diritti c.d. “finanziariamente condizionati” 13.
D’altro canto, è stata pure superata l’impostazione primigenia ancorata alla veste soltanto programmatica dell’art. 32 Cost., riconoscendo alla disposizione immediata precettività, sia in quanto situazione giuridica soggettiva piena ed assoluta nei rapporti tra privati, sia quale interesse legittimo (di
tipo pretensivo) nei rapporti con la pubblica amministrazione 14.
4
M. Ruotolo, Diritti dei detenuti e costituzione, Torino, 2002, pp. 19-22.
5
Cfr. P.F. Grossi, La dignità nella Costituzione italiana, cit., p. 31.
6
C. Fiorio, Libertà personale e diritto alla salute, Padova, 2002, pp. 9-10.
7
G. Guzzetta-F.S. Marini, Diritto pubblico italiano ed europeo, Torino, 2011, p. 616.
8
G. Guzzetta-F.S. Marini, Diritto pubblico italiano ed europeo, cit., p. 616. Nonché, P.F. Grossi, Il diritto costituzionale tra principi
di libertà ed istituzioni, Padova, 2005, p. 1 ss.
9
10
P.F. Grossi, Il diritto costituzionale tra principi di libertà ed istituzioni, cit., p. 2.
Cfr. sul punto, D. Morana, La salute nella Costituzione italiana, Milano, 2002, p. 112.
11
P. Perlingieri-P. Pisacane, sub art. 32 Cost., in P. Perlingieri (a cura di), Commento alla Costituzione italiana, Napoli, 2001, p.
203. V. anche Corte cost., sent. 28 marzo 1996, n. 111, in www.giurcost.org; Corte cost., sent. 26 luglio 1979, n. 88, in Foro it., 1979,
I, p. 2542.
12
Per tutti, D. Morana, La salute nella Costituzione italiana, cit., p. 3.
13
Sul punto, si cfr. R. Ferrara, Salute (diritto alla), in Dig. pubbl., XIII, Torino, 1997, p. 534.
14
Cfr. C. Fiorio, Diritto alla salute e libertà della persona, in F.R. Dinacci (a cura di), Processo penale e Costituzione, Milano, 2010,
p. 605; P. Corso, Il carcere senza rieducazione (l’imputato detenuto), in P. Corso (a cura di), Manuale dell’esecuzione penitenziaria,
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Ad ogni modo, al di là delle questioni di matrice strutturale, è innegabile che la salute incarni un bene primario dell’essere umano, la cui importanza discende dal suo atteggiarsi a «condizione indispensabile ed imprescindibile affinché ogni individuo possa esprimere compiutamente e liberamente la
propria personalità» 15.
SEGUE: … E I RAPPORTI CON LA DETENZIONE CAUTELARE
Il difficile rapporto tra carcerazione e tutela della salute deve trovare un perfetto bilanciamento in
ambito penitenziario; non può negarsi, d’altronde, che l’integrità psico-fisica necessiti di una più consistente attenzione proprio all’interno degli istituti di pena, dove è la stessa permanenza a costituire una
rilevante «concausa di malattia» 16.
Come precisato dalla Corte costituzionale, il sistema penitenziario deve incentrarsi sul corretto equilibrio tra il diritto alla salute del condannato e le esigenze, altrettanto importanti in una società giuridicamente organizzata, di sicurezza, effettività e certezza dell’espiazione della pena, nonché di sottoposizione dei soggetti pericolosi ai doverosi controlli 17.
Di certo, porgendo lo sguardo all’ambito penitenziario, il bilanciamento non è di facile attuazione:
per un verso, la tutela della salute non può divenire un pretestuoso strumento indulgenziale per neutralizzare la funzione general-preventiva della pena 18, e, al contempo, non può essere sminuito il sistema di guarentigie per la sua salvaguardia. È proprio nel microcosmo carcerario che si pone con maggiore forza l’esigenza di predisporre un apparato di garanzie funzionali a preservare lo stato psicofisico della persona. Giova al proposito sottolineare che nella Carta fondamentale il diritto alla salute è
stato concepito in duplice veste, come diritto del singolo e interesse della collettività, e che, sotto quest’ultimo aspetto, nella realtà penitenziaria assume decisiva importanza la preservazione della salute
degli altri detenuti e degli operatori della struttura, a causa della diffusione di patologie ivi manifestatesi 19.
La prospettiva delineata non muta con riferimento alla detenzione cautelare. Anzi, è proprio rispetto
alla carcerazione preventiva che l’opera di bilanciamento deve essere più accurata, stante il principio
della presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.).
La disposizione dovrebbe indurre ad un giusto bilanciamento tra valori, contenendo usi distorti degli strumenti coercitivi preventivi, e consentendo con maggiore facilità l’attuazione dell’art. 32 Cost. Ad
ogni modo, come è stato evidenziato in dottrina, la situazione del soggetto sottoposto a custodia cautelare «assume connotati pressoché identici [a quelli del condannato], dal momento che, a parità strutturale», le esigenze cautelari sono tali da riversarsi comunque sul bene salute 20. Neppure l’argine normativo in parola, dunque, è idoneo a mantenere in perfetto equilibrio le due pretese divergenti, di giustizia e di cura; al punto che, anche negli snodi procedimentali ante iudicatum, nonostante l’operatività della presunzione di innocenza, le scelte normative a tutela della salute finiscono per coincidere con i parametri accolti in sede esecutiva, e ciò malgrado il giudizio di responsabilità non sia ancora esaurito.
Tuttavia, l’ordito normativo ha subìto una notevole evoluzione nel corso degli anni; in particolare, a
differenza della pregressa codificazione, con l’entrata in vigore del codice di rito del 1988 la prospettiva
è mutata in chiave costituzionalmente orientata. Nella sua originaria formulazione, l’art. 275 c.p.p. prevedeva che, in costanza di «condizioni di salute particolarmente gravi», il diritto di curarsi dell’individuo dovesse prevalere sulle esigenze cautelari, a meno che queste non fossero connotate da «ecceMilano, 2015, p. 397. Per la giurisprudenza di legittimità, tra le prime pronunce di apertura in tal senso, si segnalano Cass. civ.,
sez. un., 21 marzo 1973, n. 796, in Foro amm., 1974, I, p. 26; Cass. civ., sez. un., 9 aprile 1973, n. 999, in Foro it., 1974, I, p. 843. Si
cfr. anche Corte cost., sent. 26 luglio 1979, n. 88, cit., p. 2542.
15
V. C. Fiorio, Diritto alla salute e libertà della persona, cit., p. 603.
16
Cfr. F. Ceraudo, L’organizzazione sanitaria penitenziaria in Italia, in F. Ferracuti (a cura di), Carcere e trattamento, Milano, 1989,
p. 181.
17
Corte cost., sent. 23 ottobre 2009, n. 264, in www.giurcost.org.
18
Così C. Fiorio, Gli accertamenti medico-peritali sulle condizioni personali e di salute della persona detenuta, in M. Montagna (a
cura di), La Giustizia penale differenziata, Torino, 2011, p. 505 ss.
19
C. Fiorio, Gli accertamenti medico-peritali sulle condizioni personali e di salute della persona detenuta, cit., p. 506.
20
Questa la posizione di C. Fiorio, Gli accertamenti medico-peritali sulle condizioni personali e di salute della persona detenuta, cit., p. 506.
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zionale rilevanza» 21; la giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, affermava che il diritto alla salute
non era subordinato alla tutela delle ragioni di giustizia e di ordine pubblico 22.
Ma gli sviluppi normativi succedutisi negli anni non sono stati sempre lineari con la prospettiva costituzionale, sebbene in fase cautelare venga in rilievo non solo l’art. 32 Cost., ma anche l’art. 27, comma
2, Cost. sulla presunzione di innocenza. A tal proposito, è stato osservato che le stratificazioni sull’art.
275 c.p.p. hanno avuto un «andamento sinusoidale» 23 e costituito, «in chiave storica, metro di verifica
dell’effettività» di un diritto espressamente qualificato come fondamentale, la cui tutela è invocata da
«un individuo garantito, fino alla sentenza definitiva, dalla presunzione di non colpevolezza» 24.
LE SOVRAPPOSIZIONI LEGISLATIVE
Una significativa modifica è stata realizzata con il d.l. 9 settembre 1991, n. 292, convertito in legge 8
novembre 1991, n. 356. La decretazione d’urgenza ha segnato un primo decisivo inasprimento della disciplina previgente, postulando la verificazione di un’ulteriore condizione, affinché lo stato di salute
grave potesse considerarsi ostativo al mantenimento della custodia cautelare in carcere. Alla gravità
delle condizioni di salute era stato aggiunto il requisito della “necessità di cure”, obbligando ad una verifica sulla possibilità di svolgere i dovuti trattamenti nei centri diagnostici e terapeutici dell’amministrazione penitenziaria. A seguito dell’intervento riformatore, solo laddove fosse stata riscontrata l’inidoneità del luogo di cura e, dunque, l’impossibilità di apprestare le terapie in stato di detenzione, il richiedente avrebbe potuto beneficiare della concessione di una diversa e più blanda misura.
Una seconda variazione si è avuta con la legge 8 agosto 1995, n. 332. La disposizione è stata arricchita con l’inserimento di una proposizione di chiusura, in ossequio alla quale l’esercizio del potere custodiale o il mantenimento della cautela carceraria dovevano intendersi inibiti ove le condizioni di salute
particolarmente gravi fossero «incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere».
Il testo non andò esente da critiche e, piuttosto, apparve ostico ai primi commentatori: anzitutto per
l’inserimento della congiunzione “comunque”, e, in secondo luogo, per le molteplici inclinazioni di significato cui si prestava l’utilizzo dell’espressione “adeguate cure”.
Rispetto al primo profilo, si segnalava l’indefinito limite tra le due situazioni enunciate, non essendo
chiaro se, al fine di ottenere la modifica della misura carceraria, l’incompatibilità detentiva dovesse intendersi quale evento autonomo o sempre congiunto all’inadeguatezza terapeutica 25.
Più accese le considerazioni in ordine al secondo enunciato, la cui vaghezza lasciava presagire possibili strumentalizzazioni 26. In particolare, c’è chi ha fatto leva sulle differenze tra vecchia e nuova terminologia, evidenziando che il parametro contenuto nel testo previgente («necessità di cure» non consentite in sede detentiva) fosse meno generico rispetto a quello dell’adeguatezza, che, viceversa, avrebbe lasciato spazio a più ampi margini discrezionali nel bilanciamento salute/detenzione 27. D’altro canto, l’ambiguità contenutistica del nuovo dettato veniva riscontrata anche nell’impossibilità di dedurre
in maniera chiara se l’accertamento in ordine alle condizioni di salute particolarmente gravi, oltre a dover sussistere nell’ipotesi di incompatibilità con la detenzione, fosse necessario anche nel caso di inadeguatezza di cure 28.
21
Peraltro, va precisato che la disposizione equiparava la posizione di oggettiva menomazione, benché meramente fisiologica, della gestante e dell’anziano, a quella patologica del soggetto in condizioni di salute particolarmente gravi.
22
Cass., sez. I, 9 ottobre 1992, in Cass. pen., 1994, p. 1893.
23
In questi termini, C. Fiorio, Libertà personale e diritto alla salute, cit., 2002, p. 202.
24
C. Fiorio, Gli accertamenti medico-peritali sulle condizioni personali e di salute della persona detenuta, cit., p. 515.
25
Cfr. Cass., sez. I, 22 febbraio 1996, in Cass. pen., 1997, p. 473, dove la corte propendeva per l’autonomia.
26
In questo senso, L. D’Ambrosio, Art. 5 l. 8 agosto 1995, n. 332, cit., p. 10. Dello stesso avviso, F. Cordero, Procedura penale,
Milano, 2012, p. 484. Tagliente, al riguardo, il suo rilievo circa l’indeterminatezza dell’espressione: «stare al chiuso non è allegro
né comodo; come minimo, deprime gli umori, col relativo effetto somatico; e le terapie ivi praticabili non sono mai “adeguate”,
se pigliamo a parametro una clinica chic con vista sulle Alpi svizzere».
27
Così V. Grevi, Più ombre che luci nella L. 8 agosto 1995, n. 332 tra istanza garantistiche ed esigenze del processo, in V. Grevi (a
cura di), Misure cautelari e diritto di difesa nella L. 8 agosto 1995, n. 332, Milano, 1996, p. 12.
28
C. Fiorio, Gli accertamenti medico-peritali sulle condizioni personali e di salute della persona detenuta, cit., p. 521.
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Ferme restando le posizioni critiche sull’oscurità della disposizione, va dato atto che la maggiore
sensibilità legislativa aveva inteso valorizzare il benessere psico-fisico dell’individuo sottoposto a cautela carceraria, non solo quando le gravi condizioni sanitarie fossero state incompatibili con la permanenza inframuraria, ma altresì ove non fosse stato possibile assicurargli cure adeguate.
L’ATTUALE DISCIPLINA
Molte delle incertezza riscontrate non sono state ridimensionate neppure dall’ultima modifica dell’art. 275, comma 4-bis, c.p.p., con legge 12 luglio 1999, n. 231. Dal testo attuale della disposizione si ricava che non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere se «l’imputato è persona
affetta […] da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute
sono incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso
di detenzione in carcere». Come si evince dal dettato, la novella ha introdotto un unico profilo di novità
nel costrutto della disposizione. I due testi normativi, infatti, se considerati all’unisono, divergono nel
solo punto relativo al riferimento alla «malattia», in luogo del precedente «stato di salute»; nonostante
tale profilo sia apprezzabile per le ragioni di cui si dirà nel prosieguo, di fatto i nodi già ritenuti controversi sotto la vigenza della pregressa normativa sono rimasti insoluti. Pertanto, ancora oggi, la giurisprudenza di legittimità è chiamata, tra interpretazioni consolidate e nuove precisazioni, a riesaminare
ripetutamente la norma che, per l’incauta formulazione, non è in grado di rivelare spontaneamente il
proprio autentico significato.
Ad ogni modo, pacifico è che i parametri di cui tenere conto sono attualmente tre: malattia particolarmente grave, incompatibilità carceraria e adeguatezza terapeutica 29.
Il profilo di novità di maggior rilievo è stato senz’altro quel riferimento alla “malattia”, in luogo della pregressa formulazione “stato di salute”. La malattia è un peggioramento dell’integrità anatomica e
funzionale dell’organismo, che presuppone l’accertamento di uno stato patologico; in tal modo, il legislatore ha preferito utilizzare un criterio oggettivo per l’individuazione del “fattore cautelare impeditivo”, volendo mettere in evidenza, più che l’effetto, la causa vera e propria dell’alterazione sanitaria 30.
L’attuale dettato dell’art. 275, comma 4-bis, c.p.p. ha il pregio di aver valorizzato la dimensione patologica stricto sensu, tanto che in dottrina si è parlato di un «processo di soggettivazione delle condizioni di
salute dell’imputato» 31, per il maggior rilievo attribuito ai gravi fattori morbosi ai fini dell’inapplicabilità della custodia cautelare.
Emerge una presunzione in bonam partem che rende le esigenze cautelari attenuate nei confronti
dei soggetti gravemente malati 32, e la custodia in carcere «inadeguata per eccesso» 33, a meno che sussistano esigenze di eccezionale rilevanza 34. Alla luce dell’odierna enunciazione, peraltro, la tutela del diritto alla salute appare rinvigorita, poiché la diagnosi di una malattia particolarmente grave potrebbe
essere considerata inconciliabile con la detenzione anche quando lo stato di salute non sia notevolmente
compromesso; la disposizione sembrerebbe consentire una lettura estensiva in prospettiva favorevole
per la regiudicanda, aprendo alla possibilità di negare la carcerazione preventiva, anche ove lo stato di
salute sia in astratto compatibile, laddove la gravità del morbo risulti in sé contraria alla permanenza
intra moenia.
29
C. Fiorio, op. ult. cit., p. 522.
30
Cfr. C. Fiorio, op. ult. cit., p. 522.
31
A. Centonze, Il regime detentivo dell’imputato e la rilevanza delle condizioni di salute «particolarmente gravi», in Cass. pen., 2005,
p. 138.
32
Cfr. F. Nuzzo, Il regime di custodia cautelare in carcere e la tutela della salute in base alla disciplina della l. 12 luglio 1999, n. 231, in
Cass. pen., 2000, p. 773.
33
Cfr. Cass., sez. I, 30 dicembre 1996, in CED Cass. n. 206773, ove viene rilevata l’esistenza di una «presunzione legale di non
adeguatezza per eccesso della custodia cautelare in carcere».
34
Le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza sono quelle connotate di «un non comune, spiccatissimo e allarmante rilievo», a fronte di una concreta possibilità di elusione delle finalità processuali perseguite dalla tutela cautelare. V. Cass., sez. II, 15
giugno 2004, in Guida dir., 2004, 47, p. 88; Cass., sez. III, 17 marzo 2003, n. 12355, in CED Cass. n. 223936; Cass., sez. IV, 2 luglio
1996, n. 1699, in Cass. pen., 1997, p. 3082.
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(SEGUE). I PROFILI CRITICI
Complesso è l’ambito dei profili che hanno destato l’attenzione degli interpreti.
Anzitutto non è chiaro se, per l’inibizione della custodia cautelare, sia sufficiente la sola inadeguatezza delle cure, oppure debba comunque ricorrere una condizione sanitaria di particolare gravità (come nel caso di incompatibilità). La questione è importante, soprattutto sul piano degli effetti; optando
per la prima interpretazione, l’art. 275, comma 4-bis, c.p.p. potrebbe essere applicato anche nei confronti
di un imputato che, pur non versando in condizioni di salute particolarmente gravi, abbisogni di cure
non effettuabili in ambiente detentivo, portando «a conseguenze aberranti sotto il profilo della salvaguardia delle esigenze cautelari» 35. Una recente statuizione della Corte di cassazione ha confermato tale
assunto critico, sostenendo che la particolare gravità è presupposto necessario per entrambe le situazioni declinate dalla disposizione 36.
In secondo luogo, è stata l’ampiezza della formula “gravità patologica” a prestare il fianco a riserve,
atteso che il giudizio va necessariamente condotto sulla base di criteri obiettivi. Sul punto, la Corte di
cassazione ha sempre avuto un atteggiamento cauto, asserendo che la particolare gravità del morbo
«non deve essere mai valutata in assoluto», ma come «condizione pregiudizievole […] in relazione alla
possibilità di un intervento terapeutico nei confronti del detenuto all’interno della struttura penitenziaria» 37. Di conseguenza, la patologia riscontrata, qualora dovesse risultare particolarmente grave ma
compatibile con la detenzione, precluderebbe l’esercizio del potere cautelare solo ove venisse accertata
in concreto l’impossibilità di un’effettiva somministrazione delle terapie necessarie, atte a curare adeguatamente il detenuto, all’interno dei centri diagnostici-terapeutici dell’amministrazione 38. In particolare, occorre valutare lo stato clinico del momento, in considerazione della terapia da praticare – anche
in relazione ad eventuali improvvisi aggravamenti nei centri clinici penitenziari – e «non di quella praticabile all’occorrenza tempestivamente in altra sede» 39.
La giurisprudenza, inoltre, ha declinato un’ulteriore linea interpretativa di contenimento, affermando che le malattie particolarmente gravi «non devono identificarsi con quelle patologie che, ancorché
marcate, sono, per così dire, connaturali alla privazione della libertà personale, quali la sindrome ansioso-depressiva»; di conseguenza, precludono la custodia cautelare in carcere solo quelle patologie che,
«a prescindere dallo stato di detenzione, si oggettivizzano da sole e assumono una propria autonomia» 40. Di recente, poi, è stato persino rimarcato un criticabile indirizzo restrittivo sulla rilevanza della
patologia psichiatrica, la cui compatibilità con il regime detentivo viene esclusa soltanto nelle ipotesi in
cui sia tale da risolversi anche in una malattia fisica 41.
Volendo condurre un’analisi sulla struttura della disposizione, tenendo presenti le nuove direttrici
esegetiche appena prospettate, sono quattro le eventualità che possono verificarsi nell’applicazione della disciplina. Su queste basi, nulla quaestio se la grave patologia sia tale da risultare incompatibile con la
35
G. Garuti, Brevi note in tema di rapporti tra condizione di salute dell’imputato e custodia cautelare in carcere, in Cass. pen., 1996, p.
2297, che, pur aderendo alla tesi sovraesposta, non manca di sottolineare come «in tal modo si rischia però di rendere superfluo
il riferimento all’incompatibilità, a meno che non lo si voglia intendere attribuito ai casi in cui il tipo di malattia non consenta
alcun genere di cura».
36
Cass., sez. I, 3 settembre 2015, n. 35953, in Dir. e giustizia, 2015, 32, p. 7, con nota adesiva di P. Grillo, Carcerazione preventiva
e diritto alla salute: il limite della grave malattia.
37
Cass., sez. V, 9 dicembre 2003, n. 49442, in Cass. pen., 2005, p. 136. I rilievi sono di A. Centonze, Il regime detentivo
dell’imputato e la rilevanza delle condizioni di salute «particolarmente gravi», cit., p. 137; cfr. anche Cass., sez. I, 5 maggio 2000, in Cass.
pen., 2001, p. 947.
38
Cass., sez. IV, 26 febbraio 2013, n. 23713, in CED Cass. n. 256195; Cass., sez. VI, 15 giugno 2011, n. 25706, in CED Cass. n.
250509; Cass., sez. I, 6 marzo 2008, n. 12716, in CED Cass. n. 239380.
39
Cass., sez. V, 27 gennaio 1995, in CED Cass. n. 200463.
40
Cass., sez. VI, 18 gennaio 2000, n. 296, in Cass. pen., 2001, p. 1553; in ogni caso, si v. Cass., sez. I, 9 ottobre 1992, in Cass.
pen., 1994, p. 1893, secondo cui «integra le condizioni di salute particolarmente gravi ostative alla persistenza della custodia cautelare in carcere una sindrome neuro-psichica che abbia condotto il detenuto in breve arco di tempo a tre successivi tentativi di
suicidio, l’ultimo dei quali compiuto con modalità tali da rendere molto probabile il realizzarsi dell’evento letale». In motivazione, la Corte ribadisce un principio generale di cui non si può non tener conto, ossia che nel nostro ordinamento la tutela delle
ragioni di giustizia e di ordine pubblico è subordinata a quella del diritto alla vita, alla salute e all’allevamento della prole.
41
Cass., sez. I, 28 gennaio 2015, n. 6384, in Cass. pen., 2015, p. 2805; Cass., sez. II, 30 gennaio 2014, n. 13948, in CED Cass. n.
261849.
ANALISI E PROSPETTIVE | DETENZIONE CAUTELARE E STATO DI SALUTE PARTICOLARMENTE GRAVE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
167
detenzione e non curabile adeguatamente in ambito carcerario, o se, viceversa, risultino tanto la compatibilità quanto l’adeguatezza: il trattamento meno afflittivo cui godrebbe l’imputato nel primo caso, sarebbe, al contrario, certamente non fruibile nel secondo. Infine, nelle alternative eventualità tra giudizio
di incompatibilità/adeguatezza e compatibilità/inadeguatezza, la scelta giurisdizionale dovrà essere
necessariamente orientata nella prospettiva cautelare meno afflittiva.
Stando alle condivisibili coordinate fornite dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice, per accertare l’adeguatezza delle cure, anche in presenza di una valutazione positiva circa la compatibilità con lo
stato di detenzione, dovrà tenere conto delle potenzialità terapeutiche che l’amministrazione è in grado
di offrire al degente, optando, in caso di giudizio negativo, per una misura meno rigorosa. Ciò che rileva è la capacità dell’istituto penitenziario di far fronte a interventi diagnostici e terapeutici idonei a risolvere o alleviare lo stato morboso, anche al fine di evitare un peggioramento della condizione sanitaria 42; mentre non è sufficiente che il detenuto sia continuamente monitorato, poiché in questo caso il
controllo attiene alla fase diagnostica, non coinvolgendo l’aspetto terapeutico stricto sensu 43. In dottrina,
è stato anche evidenziato che il giudizio di adeguatezza terapeutica deve spingersi sino a valutazioni
coinvolgenti «lo stato di acquiescenza e di ordinaria tenuta della patologia», nonché la possibilità di rispettare in modo rigoroso «i ritmi e le cadenze di cura prescritte» 44; del resto, in un contesto emergenziale come quello carcerario, ancor più forte è la probabilità di un aggravamento del quadro clinico.
In sintesi, il diritto alla salute del detenuto assurge, anche nella dinamica cautelare, a prerogativa costituzionale fondamentale. Dalla ricostruzione sin qui effettuata, emerge che la custodia cautelare potrà
essere disposta o mantenuta solo qualora vengano accertate la compatibilità e l’adeguatezza; in tutti gli
altri casi, ciò sarà escluso. Percorrendo la traiettoria determinata dalla Corte, è ora possibile attribuire
un significato più organico alla disposizione, poiché appare meglio profilata la linea di demarcazione
fra le due situazioni prese in esame. Ne discende che, se il giudizio di inadeguatezza terapeutica può
prevalere su quello di compatibilità carceraria, e quello di incompatibilità su quello di eventuale adeguatezza, si è giunti ad un pieno riconoscimento dell’autonomia delle due situazioni, con conseguente
ampliamento dello spazio di tutela della salute ante iudicatum.
Il che, peraltro, è confermato dalla circostanza per cui, laddove il giudice propenda per l’inammissibilità de plano della richiesta di revoca o di sostituzione della custodia cautelare per motivi di salute,
sussiste un obbligo di nomina del perito, chiamato a valutare l’effettiva condizione sanitaria, ai fini
dell’applicazione dell’art. 275, comma 4-bis, c.p.p. 45. L’ampiezza del sindacato valutativo del giudice è
dunque mitigata dalla necessità di coinvolgere l’esperto, secondo quanto disposto dall’art. 299, comma
4-ter, c.p.p., a fronte della fondamentale rilevanza del diritto costituzionale in discussione 46. La regola
enucleata dal combinato disposto di cui agli artt. 275 e 299 c.p.p. è stata dunque impostata nel senso che
«il giudice, se non accoglie la domanda sulla base degli atti, ha l’obbligo di disporre accertamenti medici da espletarsi con le formalità e le garanzie previste per la perizia» 47.
42
In tal senso, Cass., sez. VI, 18 febbraio 1997, in CED Cass. n. 206897; Cass., sez. I, 24 ottobre 1994, in Dir. pen. proc., 1995, p.
940.
43
Cfr. G. Di Cesare, sub art. 275 c.p.p., in G. Canzio-G. Tranchina (a cura di), Codice di procedura penale, Milano, 2012, p. 2371.
44
A. Gaito, Dove curare i detenuti gravemente ammalati?, in Dir. pen. proc., 1999, p. 213.
45
Cass., sez. un., 17 febbraio 1999, in Cass. pen., 1999, p. 3099, secondo cui, peraltro, «non può essere posto a carico
dell’interessato un onere di allegazione sanitaria a pena di inammissibilità della richiesta»; di conseguenza, il giudice, ove
ritenga di non accogliere l’istanza sulla base degli atti a disposizione, dovrà nominare il perito. Di recente, nella medesima
prospettiva, Cass., sez. V, 18 dicembre 2013, n. 5281, in Cass. pen., 2015, p. 2806.
46
Sul punto, A. Bernasconi, Richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere per motivi di salute e regime degli accertamenti
medico-peritali, in Cass. pen., 1999, p. 3099 ss.; nonché G. Inzerillo, Alla ricerca di un giusto equilibrio fra tutela della salute
dell’imputato in vinculis ed esigenze cautelari, in Giur. it., 1999, p. 1469.
47
Cass., sez. II, 14 marzo 2000, in Cass. pen., 2001, p. 3111. Si v. anche una pronuncia di merito, Trib. Catanzaro, sez. II, 15
maggio 2007, n. 332, in Giur. merito, 2008, 2, p. 515.
Parzialmente contraria, nei termini di una certa autonomia dell’organo giudicante sulla possibilità di prescindere dalla prova peritale, si pone, Cass., sez. I, 7 febbraio 2001, in Cass. pen., 2001, p. 3112, se «con valutazione congrua» il giudice non ritenga
che vi siano variazioni nello stato di salute del sottoposto a misura cautelare in carcere. Infine, cfr. Cass., sez. I, 7 maggio 2004, in
Cass. pen., 2005, p. 3049 sulla possibilità per il giudice di dissentire motivatamente dalle conclusioni del perito sulle condizioni
di salute dell’indagato e sulla loro compatibilità con lo stato di detenzione. Giova, poi, precisare che pacifico è l’orientamento
circa le modalità di svolgimento dell’attività peritale, che deve rispettare le formalità e le garanzie di cui agli artt. 220 e ss. c.p.p.:
Cass., sez. V, 15 febbraio 2006, n. 10190, in CED Cass. n. 234236.
ANALISI E PROSPETTIVE | DETENZIONE CAUTELARE E STATO DI SALUTE PARTICOLARMENTE GRAVE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
168
Infine, un ulteriore sostegno alla salvaguardia del diritto proviene da una previsione di completamento della disciplina delineata, l’art. 275, comma 4-quinquies, c.p.p. L’applicazione della custodia cautelare in carcere è, in ogni caso, esclusa nell’eventualità in cui la malattia si trovi in una fase talmente
avanzata da non rispondere più alle terapie disponibili, nonostante la loro praticabilità da parte del
Servizio sanitario penitenziario. Una siffatta norma è evidentemente ispirata a ragioni di umanità e di
pietas; si pensi ai casi di malattia terminale, in cui il rispetto della dignità umana si impone sulle esigenze della giustizia.
GLI ACCERTAMENTI DIAGNOSTICI DIRETTI ALL’INDIVIDUAZIONE DEL MORBO
Il complesso dei profili analizzati merita di essere arricchito con l’esame della disciplina relativa alle
indagini diagnostiche finalizzate all’individuazione della malattia di grave entità, per effetto della quale
può essere presa in considerazione la valutazione di compatibilità con la detenzione cautelare.
Poiché, come si vedrà, tali accertamenti possono essere svolti anche al di fuori delle strutture penitenziarie, giova premettere che, per effetto del d.lgs. n. 230/1999, contenente norme per il riordino della
medicina penitenziaria, sono stati dettati una serie di principi finalizzati a dare piena esecuzione all’art.
32 Cost. negli istituti di pena. In particolare, l’art. 1, comma 2, ha sancito un vero e proprio divieto di
discriminazione tra liberi e reclusi, riconoscendo a questi ultimi «livelli di prestazioni analoghi a quelli
garantiti ai cittadini liberi» 48. Il comma 4, poi, ha avvalorato la piena equiparazione, confermando che
l’iscrizione al S.S.N. viene conservata durante l’esecuzione della pena detentiva 49.
In particolare, per gli accertamenti preventivi, la norma di riferimento non è l’art. 275, comma 4-bis,
c.p.p., bensì l’art. 11 ord. penit.; mentre il contenuto della disposizione codicistica tace in ordine ai c.d.
accertamenti diagnostici, richiedendo esclusivamente uno stato morboso in atto, la norma penitenziaria
porge lo sguardo alla tutela della salute anche in chiave prodromica, in funzione dell’individuazione
della patologia.
Prima di esaminare tale questione, va precisato che, in materia di custodia cautelare, per la disciplina relativa alle condizioni di salute del detenuto, occorre sempre far riferimento, in via alternativa,
all’art. 275, comma 4-bis c.p.p. – qualora la malattia sia particolarmente grave ed incompatibile con lo
stato di detenzione – e all’art. 11, comma 2, ord. penit. – ove la patologia sia contingente e curabile con
il temporaneo trasferimento del detenuto in ospedale civile 50. Le due disposizioni, dunque, concorrono
a definire la disciplina della materia, a seconda del livello patologico riscontrato; l’accertamento circa la
sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’una o dell’altra fattispecie spetta al giudice di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità, qualora sia sostenuto da motivazione adeguata e coerente 51.
Con specifico riferimento alle indagini strumentali all’accertamento della patologia, deve applicarsi,
anche in fase cautelare, l’art. 11 ord. penit. Occorre premettere che i detenuti possono chiedere di essere
visitati in qualsiasi momento. Tale facoltà è disciplinata dall’art. 11, comma 6, ord. penit., che dispone
che il medico «deve visitare ogni giorno gli ammalati e coloro che ne facciano richiesta», nonché «segnalare immediatamente la presenza di malattie che richiedono particolari indagini e cure specialistiche». Sebbene, per ovvie ragioni 52, venga accordata precedenza al medico penitenziario, il comma 11
consente agli internati di richiedere di essere visitati a proprie spese da un sanitario di fiducia, previa
autorizzazione del magistrato procedente.
48
Sul punto, si cfr. M. Pavone, Carcere e diritto alla salute, in Diritti dell’uomo, 2001, I, p. 18 ss.
49
Peraltro, significativo è anche il quinto comma, che, in aderenza ad una giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale (tra le tante, C. cost., sent. 2 dicembre 2005, n. 432, in www.giurcost.org) riconosce parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti anche ai detenuti stranieri, i quali vengono iscritti d’ufficio al S.S.N., «a prescindere dal regolare permesso di
soggiorno in Italia».
50
Cass., sez. I, 28 febbraio 2014, n. 15999, in CED Cass. n. 259602; Cass., sez. VI, 19 settembre 2013, n. 39980, in CED Cass. n.
256138; Cass., sez. V, 10 marzo 2009, n, 16008, in CED Cass. n. 243338.
51
Cfr. nota 46.
52
Poiché le esigenze della custodia e della sicurezza non lo permettono, la persona in vinculis è di fatto costretta ad accettare
«il medico del sistema […], in quanto non può ricusarlo» (l’osservazione è di F. Ceraudo, L’organizzazione sanitaria penitenziaria
in Italia, in F. Ferracuti (a cura di), Carcere e trattamento, Milano, 1989, p. 177).
ANALISI E PROSPETTIVE | DETENZIONE CAUTELARE E STATO DI SALUTE PARTICOLARMENTE GRAVE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
169
Nel comma secondo dell’art. 11 è scritto che, «ove siano necessari cure o accertamenti diagnostici
che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti», la persona in vinculis dovrà essere
trasferita in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura. Il requisito dell’impossibilità costituisce il parametro fondamentale condizionante il ricovero esterno; solo laddove l’istituto non disponga di attrezzature o personale idoneo ad effettuare determinati trattamenti, sarà necessario ricorrere alle strutture
ospedaliere extra moenia. In primo luogo, il ricovero avverrà presso i presidi sanitari esterni del DAP;
qualora nemmeno questi siano in grado di offrire le prestazioni specialistiche necessarie, il detenuto
verrà trasferito nei centri diagnostici non appartenenti all’amministrazione, quali gli ospedali civili 53.
Per impedirne la fuga (e per garantire la sicurezza del personale sanitario e degli altri degenti), potrà
essere disposto il piantonamento. La dottrina più attenta alla tutela dei diritti costituzionali ha mosso
delle critiche alla disciplina che prevede il ricovero in luoghi esterni “solo nei casi di assoluta necessità”, trattandosi di «rimedio residuale» 54, operante solo nelle ipotesi di conclamata impossibilità di eseguire le indagini diagnostiche in istituto.
Il resto della disposizione, che occorre integrare con l’art. 240 disp. att. c.p.p., illustra le regole sulla
competenza giudiziaria a disporre il provvedimento di trasferimento: per i condannati e gli imputati
(dopo la sentenza di primo grado), il magistrato di sorveglianza; prima della pronunzia della sentenza
di primo grado, il giudice che procede; prima dell’esercizio dell’azione penale, il giudice per le indagini
preliminari 55; nei casi di assoluta urgenza, provvede il direttore dell’istituto (artt. 11, comma 3, ord. penit. e 17, comma 8, reg. esec. penit.).
Si tratta di una disciplina ulteriore e diversa rispetto a quella che domina la dinamica dell’incompatibilità cautelare, ex art. 275, comma 4-bis, c.p.p. Come evidenziato nel corso della trattazione, tale ultima disposizione entra in gioco ogniqualvolta la diagnosi sulla gravità patologica sia stata già formulata,
residuando – ai fini dell’adozione delle cautele preventive – la specifica valutazione di compatibilità
della malattia con la detenzione o, in ogni caso, quella sull’adeguatezza di cure nella struttura penitenziaria. L’art. 11, comma 2, ord. penit, invece, precede tale momento valutativo afferente la dinamica
cautelare, recando una disciplina più generale sulla salvaguardia della salute del ristretto, tutte le volte
in cui sia necessario apprestare cure o svolgere indagini diagnostiche. Nondimeno, l’ambito di rilevanza delle due fattispecie tende a sovrapporsi, pur rimanendo distinta la loro sfera di operatività.
53
C. Fiorio, Libertà personale e diritto alla salute, cit., pp. 91-92.
54
C. Fiorio, Libertà personale e diritto alla salute, cit., p. 94.
55
Per i contenuti dell’ordinanza, v. F.P.C. Iovino, Sul ricovero del detenuto in luogo esterno di cura, in Cass. pen., 1997, p. 1562.
ANALISI E PROSPETTIVE | DETENZIONE CAUTELARE E STATO DI SALUTE PARTICOLARMENTE GRAVE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
170
Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Lorenzo Belvini
Impossibilità di confiscare il profitto illecito conseguito dalla società e sequestro per equivalente sui beni degli amministratori / Inability of confiscation the company’s illegal profits and the
seizing of the CEO’s property the value of which corresponds to that of the company’s illegal profits
81
Matilde Brancaccio
L’improcedibilità per particolare tenuità del fatto nel procedimento davanti al giudice di pace: la
mancata comparizione della persona offesa non ha il significato di opposizione / The “Giudice di
pace” can state the unprosecutability ex Art. 34, p.3, d.lgs. 274/00 even when the victim doesn’t appear
102
Paola Corvi
Decisioni in contrasto
36
Alessandro Diddi
Profili processuali della riforma penale-tributaria / The questionable choices of the latest tax offences’ reform in the light of criminal procedure law
123
Filippo Raffaele Dinacci
Neuroscienze e processo penale: il ragionamento probatorio tra chimica valutativa e logica razionale / Neuroscience and criminal trial: probatory reasoning between evaluation chemistry and rational logic
1
Ada Famiglietti
Persona offesa e modalità di audizione protetta: verso lo statuto del testimone vulnerabile /
Victim and protected modes: towards the status of vulnerable witness
Rossella Fonti
Novità legislative interne/National legislative news
Luigi Giordano-Antonio Pagliano
Ancora travagliate le vicende delle misure cautelari malgrado le modifiche normative /
Precautionary measures are still troubled despite the reforms
Rosa Gaia Grassia
Sezioni Unite
141
12
111
32
Vania Maffeo
Il contributo della giurisprudenza sovranazionale all’evoluzione del principio di pubblicità /
The contribution of supranational law to the evolution of the tenet of judicial public hearing
150
Enrico Maria Mancuso
Sindacato sul decreto di sequestro e rito camerale non partecipato: le Sezioni Unite mutano
indirizzo / The Supreme Court of Cassation changes his mind: new rules for the procedure on appeals
against search and seizure orders
60
Eva Mariucci
Detenzione cautelare e stato di salute particolarmente grave: “letture” consolidate e recenti prospettive / Pre-trial detention and illness: prevailing interpretations and new clarifications
161
INDICI
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
171
Maria Vittoria Papanti-Pelletier
Confini più netti tra annullamento e integrazione dell’ordinanza cautelare genetica / A new balance between Court of re-examination’s overruling and amending powers over precautionary measures
88
Angela Procaccino
Corte costituzionale
29
Lorenzo Pulito
Precisazioni in ordine al “giudicato” sulla consegna ed ultrattività del mandato di arresto europeo / Remarks on the judgement concerning the surrender and the continuing effect of the European
arrest warrant
42
Gioia Sambuco
De jure condendo
21
Marcello Stellin
Corti europee / European Courts
23
Valentina Vasta
Novità sovranazionali / Supranational news
18
Elisa Zerbini
L’inefficacia della misura per intempestivo deposito della motivazione in sede di riesame: un
caso insolito di ius superveniens sull’“atto complesso” / The order directing the precautionary
measures must be considered subject to the law n. 47 of 2015 even when the new deadline to file the
grounds upon which the decision of re-examination relies has not expired any longer
70
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., ord. 17 dicembre 2015, n. 270
C. cost., ord. 14 gennaio 2016, n. 4
29
30
Corte di cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 16 luglio 2015, n. 43264
sentenza 3 dicembre 2015, n. 47766
sentenza 30 dicembre 2015, n. 51207
96
32
33 e 52
Corte di cassazione – Sezioni semplici
Sezione V, sentenza 7 ottobre 2015, n. 40342
Sezione VI, sentenza 12 ottobre 2015, n. 40978
Sezione III, sentenza 13 ottobre 2015, n. 41072
Sezione VI, sentenza 15 ottobre 2015, n. 41516
68
86
78
39
Decisioni in contrasto
Sezione II, 13 novembre 2015, n. 45338
36
Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
Corte e.d.u., 3 novembre 2015, Myumyum c. Bulgaria
Corte e.d.u., 15 dicembre 2015, Schatschaschwili c. Germania
Corte e.d.u., 15 dicembre 2015, Lopes De Sousa Fernandes c. Portogallo
INDICI
28
23
26
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
172
Protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio D’Europa per la prevenzione del
terrorismo (STCE n. 196)
18
Atti sovranazionali
Norme interne
Decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 «Attuazione della Direttiva 2012/29/UE, che
sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI»
Legge 28 dicembre 2015, n. 208 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge di stabilità 2016). (15G00222)»
Decreto legislativo 15 gennaio 2016, 7 «Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile
2014, n. 67. (16G00010)»
Decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 «Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma
dell’art. 2, comma 2, legge 28 aprile 2014, n. 67. (16G00011)»
13
12
15
16
De jure condendo
Disegno di legge C. 3470 «Modifica dell’articolo 266-bis del codice di procedura penale, in materia
di intercettazione e di comunicazioni informatiche o telematiche»
Disegno di legge C. 2876 «Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di relazioni affettive tra i detenuti e i figli minorenni»
Disegno di legge C. 3389 «Modifiche al codice civile e al codice di procedura penale, concernenti la
sospensione e la decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale nei riguardi di soggetti appartenenti ad associazioni per delinquere»
21
21
22
MATERIE / TOPICS
Applicazione della pena su richiesta delle parti
 Profili processuali della riforma penale-tributaria / The questionable choices of the latest tax
offences’ reform in the light of criminal procedure law, di Alessandro Diddi
123
Depenalizzazione
 Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’art. 2, comma 2, Legge 28 aprile
2014, n. 67 (D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8)
16
Dibattimento
– giusto processo
 Equo processo-controesame-testi assenti (Corte e.d.u., 15 dicembre 2015, Schatschaschwili c.
Germania)
23
– principio di pubblicità
 Il contributo della giurisprudenza sovranazionale all’evoluzione del principio di pubblicità
/ The contribution of supranational law to the evolution of the tenet of judicial public hearing, di
Vania Maffeo
150
Diritti fondamentali (tutela dei)
 Diritto alla vita-colpa medica-effettività delle indagini (Corte e.d.u., 15 dicembre 2015, Lopes
De Sousa Fernandes c. Portogallo)
 Divieto di tortura-obbligo di repressione effettiva (Corte e.d.u., 3 novembre 2015, Myumyum c.
Bulgaria)
INDICI
26
28
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
173
– particolare tenuità del fatto
 Particolare tenuità del fatto nel giudizio davanti al giudice di pace e mancata comparizione
della persona offesa (Cass., sez. un., 16 luglio 2015, n. 43264), con nota di Matilde Brancaccio
102
Giudice di pace
Giudizio
– dibattimento
 Il contributo della giurisprudenza sovranazionale all’evoluzione del principio di pubblicità /
The contribution of supranational law to the evolution of the tenet of judicial public hearing, di Vania Maffeo
150
Indagini preliminari
 Diritto alla vita-colpa medica-effettività delle indagini (Corte e.d.u., 15 dicembre 2015, Lopes
De Sousa Fernandes c. Portogallo)
26
Intercettazioni di comunicazioni
 Intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche (D.d.l. C. 3470 «Modifica
dell’articolo 266-bis del codice di procedura penale, in materia di intercettazione e di comunicazioni
informatiche o telematiche»)
21
Mandato di arresto europeo
 Mandato d’arresto europeo: la scadenza dei termini per produrre i documenti non incide
sull’efficacia della richiesta e non preclude un successivo giudizio di merito (Cass., sez. VI,
15 ottobre 2015, n. 41516), con nota di Lorenzo Pulito
42
Messa alla prova
 L’impugnabilità dell’ordinanza di rigetto della istanza di sospensione con messa alla prova
(Cass., sez. II, 13 novembre 2015, n. 45338)
36
Mezzi di prova
– sequestro probatorio
 Forme non partecipate per il ricorso in Cassazione contro il decreto di sequestro (Cass., sez.
un., 30 dicembre 2015, n. 51207), con nota di Enrico Maria Mancuso
52
Misure cautelari personali
– interdittive
 Sospensione e decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale (D.d.l. C. 3389 «Modifiche al codice civile e al codice di procedura penale, concernenti la sospensione e la decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale nei riguardi di soggetti appartenenti
ad associazioni per delinquere»)
– riesame
 Riesame: annullamento dell’ordinanza se la motivazione non presenta un contenuto dimostrativo autonomo (Cass., sez. VI, 12 ottobre 2015, n. 40978), con nota di Maria Vittoria Papanti-Pelletier
 Ancora travagliate le vicende delle misure cautelari malgrado le modifiche normative / Precautionary measures are still troubled despite the reforms, di Luigi Giordano-Antonio Pagliano
 Per la Cassazione è applicabile la nuova disciplina sulla motivazione differita alle ordinanze del riesame non ancora depositate (Cass., sez. V, 7 ottobre 2015, n. 40342), con nota di Elisa
Zerbini
INDICI
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68
Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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– impugnazioni
 Giudizio di legittimità concernente misure cautelari reali: è sufficiente il contraddittorio
cartolare (Cass., sez. un., 30 dicembre 2015, n. 51207)
 Forme non partecipate per il ricorso in Cassazione contro il decreto di sequestro (Cass., sez.
un., 30 dicembre 2015, n. 51207), con nota di Enrico Maria Mancuso
33
Misure cautelari reali
– sequestro preventivo
 Il sequestro per equivalente sui beni dell’amministratore della società (Cass., sez. III, 13 ottobre 2015, n. 41072)
 Profili processuali della riforma penale-tributaria / The questionable choices of the latest tax
offences’ reform in the light of criminal procedure law, di Alessandro Diddi
Ordinamento penitenziario
 Detenzione cautelare e stato di salute particolarmente grave: “letture” consolidate e recenti
prospettive / Pre-trial detention and illness: prevailing interpretations and new clarifications, di
Eva Mariucci
 Relazioni affettive tra detenuti e figli minorenni (D.d.l. C. 2876 «Modifiche alla legge 26 luglio
1975, n. 354, in materia di relazioni affettive tra i detenuti e i figli minorenni»)
 Sospensione e decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale (D.d.l. C. 3389 «Modifiche al codice civile e al codice di procedura penale, concernenti la sospensione e la decadenza
dall’esercizio della responsabilità genitoriale nei riguardi di soggetti appartenenti ad associazioni per
delinquere»)
Pena
 La continuazione e il cumulo giuridico delle sanzioni amministrative: la Corte rimanda ancora una volta la questione al legislatore (C. cost., ord. 17 dicembre 2015, n. 270)
Persona offesa
 Attuazione della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle
vittime di reato e che sostituisce la Decisione quadro 2001/220/GAI (D.lgs. 15 dicembre
2015, n. 212)
Persona offesa e modalità di audizione protetta: verso lo statuto del testimone vulnerabile /
Victim and protected modes: towards the status of vulnerable witness, di Ada Famiglietti
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Processo
– durata
 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2016-28 dicembre 2015, n. 208)
 Le infermità gravi e irreversibili tra pretesa punitiva, consapevole partecipazione ed economia processuale (C. cost., ord. 14 gennaio 2016, n. 4)
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Prova
 Neuroscienze e processo penale: il ragionamento probatorio tra chimica valutativa e logica
razionale / Neuroscience and criminal trial: probatory reasoning between evaluation chemistry and
rational logic, di Filippo Raffaele Dinacci
1
Ricorso per cassazione
 Illegalità della pena: è esclusa la rilevabilità d’ufficio se il ricorso per cassazione è inammissibile (Cass., sez. un., 3 dicembre 2015, n. 47766)
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INDICI
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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Misure cautelari reali
 Giudizio di legittimità concernente misure cautelari reali: è sufficiente il contraddittorio
cartolare (Cass., sez. un., 30 dicembre 2015, n. 51207)
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Sicurezza pubblica
 Il Protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del
terrorismo (STCE n. 16)
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INDICI