I livelli evolutivi dell`organizzazione della personalità

nel paragrafo sulla teoria pulsionale classica,
sebbene oggi gli stadi fondamentali attraverso
cui passano i bambini siano considerati meno
legati alle vicissitudini pulsionali rispetto alla
concezione originaria di Freud, la psicoanalisi
non ha mai messo seriamente in questione tre
delle sue principali convinzioni: (1) i problemi psicologici attuali riflettono precursori
infantili; (2) le interazioni nei primissimi anni
di vita costituiscono il modello secondo cui
più
tardi
assimileremo
l'esperienza,
rendendola inconsciamente comprensibile in
base a categorie che avevano importanza
nell'infanzia; (3) l'identificazione del livello
evolutivo di una persona è un fattore cruciale
per la sua comprensione. E interessante notare
che, ignorandone la successiva revisione, le
stesse tre fasi di organizzazione psicologica
infantile1 continuano a comparire nella teoria
psicoanalitica dello sviluppo: (1) da un anno e
mezzo ai due anni (fase orale di Freud); (2) il
periodo che va da un anno e mezzo-due a
circa tre anni (fase anale di Freud); (3) il
periodo compreso tra tre-quattro anni e circa
sei (periodo edipico di Freud). L'indicazione
approssimativa delle fasce di età riflette la
presenza di differenze individuali nei
bambini; la sequenza è sempre la stessa,
anche se un bambino è precoce o si sviluppa
in ritardo.
Molti teorici hanno discusso aspetti dei
compiti propri di queste fasi, ponendo
alternativamente l'accento sulla dimensione
pulsione-difesa, sullo sviluppo dell'Io o sulle
immagini di sé e degli altri che le
caratterizzano. Alcuni hanno accentuato i
problemi comportamentali, altri quelli
cognitivi, altri ancora la maturazione affettiva
del bambino. Alcuni, come Daniel Stern
(1985), hanno sottoposto ad ampia critica le
teorie prevalenti degli stadi, alla luce delle
ricerche recenti sullo sviluppo infantile.
Tuttavia, è molto probabile che la rilevanza
clinica di alcune concezioni degli stadi psicologici garantisca la loro sopravvivenza nelle
I livelli evolutivi
dell'organizzazione della
personalità
di
Nancy McWilliams
(La diagnosi psicoanalitica. Struttura delle personalità
e processo clinico,
Astrolabio, Roma 1999, 60-86)
Questo capitolo tratterà quei problemi di
maturazione intorno ai quali si può
organizzare il carattere di una persona, ossia
quell'aspetto della struttura di personalità
definito normalmente, usando la terminologia
di
Freud,
fissazione.
Esaminerò
le
implicazioni della presunta fissazione a tre
possibili livelli di sviluppo psicologico. A
questo punto, mi si consenta di esporre la più
importante premessa diagnostica di questo
testo: Non è possibile comprendere la
struttura essenziale del carattere di un essere
umano senza valutare due dimensioni distinte
e tra loro interagenti: il livello evolutivo
dell'organizzazione di personalità e lo stile
difensivo all'interno di quel livello. La prima
dimensione
descrive
il
grado
di
individuazione o di patologia (psicotico,
borderline, nevrotico, 'normale') della
persona; la seconda identifica il tipo di
carattere (paranoide, depressivo, schizoide,
ecc.).
Un mio caro amico, un uomo che non ha
nessuna esperienza di psicoterapia e che non
riesce neanche a immaginare per quale
ragione qualcuno possa impegnarsi in un
campo in cui si passano ore e ore ad ascoltare
i problemi degli altri, cercava di capire perché
fossi interessata a scrivere questo libro. "Per
me è semplice", diceva, "io conosco solo due
categorie di persone: (1) svitate e (2) non
svitate». Gli risposi che nella teoria
psicoanalitica, che presume che in una certa
misura siamo tutti irrazionali, abbiamo anche
altre due specificazioni fondamentali: (1)
Quanto svitate? e (2) Svitate in quale modo
particolare? Come ho ricordato brevemente
1
Il lettore deve ricordare che la consuetudine
psicoanalitica ha stabilito che la parola 'infantile' si
riferisca a tutto il periodo prescolare della maturazione
emotiva, cognitiva, comportamentale e sensoriale del
bambino.
1
nostre formulazioni concettuali. Gertrude e
Rubin Blank (1974, 1979, 1986) si sono
adoperati in modo particolare a tradurre i
concetti
di
maturazione
in
precise
applicazioni terapeutiche. La recente sintesi
della teoria psicoanalitica dello sviluppo
operata da Phyllis e Robert Tyson (1990)
copre magistralmente l'intero territorio. Per
gli scopi di un testo introduttivo come il
nostro, riassumerò in particolare leidee di Erik
Erikson e Margaret Mahler, i quali hanno
indagato le specifiche competenze dell'Io in
via di maturazione e le esperienze parallele di
sé e dell'oggetto.
Non è mai stato dimostrato, con mia
soddisfazione - e qui mi trovo in buona
compagnia (si veda la ricerca di Masling
[1986]) - che le persone con molte qualità
'orali' abbiano livelli di psicopatologia più
gravi di coloro che hanno caratteristiche che
gli analisti considerano anali o edipiche,
anche se la definizione di Freud di questi,
primi tre stadi di sviluppo, dedotti sulla base,
dei concetti pulsionali, ha molta presa
intuitiva e in una certa misura si correla con il
tipo di personalità (le persone depresse di
qualsiasi livello di salute o di patologia
tendono a manifestare oralità; le persone
ossessive hanno notoriamente preoccupazioni
di tipo anale, che l'ossessività costituisca o no
un problema per loro). Ho parlato in
precedenza del fallimento del tentativo di
Karl Abraham di correlare il grado di
psicopatologia con il tipo di organizzazione
pulsionale, e dopo di lui nessun altro ci è
riuscito in maniera convincente.
Eppure esistono prove cliniche sostanziali e
ricerche empiriche (per esempio L.
Silverman, Lachman e Milich, 1982) a
sostegno della correlazione tra livello di
sviluppo egoico e differenziazione sé-altro, da
un
lato,
e
salute
o
patologia
dell'organizzazione di personalità, dall'altro.
In una certa misura questa correlazione è
definitoria e quindi tautologica: individuare
livelli primitivi di sviluppo dell'Io e delle
relazioni oggettuali equivale a dire che una
persona è 'malata', mentre considerare
qualcuno ossessivo o schizoide non significa
necessariamente attribuirgli una patologia. Ma
questo modo di contrapporre la sanità
psicologica al disturbo, in base alle categorie
della psicologia dell'Io, delle relazioni
oggettuali e della psicologia del Sé, ha
profonde implicazioni cliniche per diversi tipi
di carattere. Segue ora una breve storia dei
tentativi psicoanalitici di fare distinzioni
diagnostiche sulla base dell'intensità o della
'profondità' delle difficoltà invece che del tipo
di personalità.
IL CONTESTO STORICO:
DIAGNOSTICARE IL LIVELLO DI
PATOLOGIA DEL CARATTERE
Prima dell'avvento della psichiatria descrittiva
nel XIX secolo, venivano riconosciute alcune
forme di disturbo mentale che si
riscontravano con una certa frequenza tra le
persone del mondo cosiddetto 'civile', e
presumibilmente molti osservatori facevano
distinzioni tra sano e malato allo stesso modo
in cui il mio amico inesperto di psicologia
distingueva tra 'svitati' e 'non svitati'. La
persona sana è quella che è più o meno
d'accordo con ciò che costituisce la realtà; la
persona mentalmente malata si distacca da
tale consenso.
A uomini e donne che presentavano
condizioni isteriche, fobie, ossessioni,
compulsioni e tendenze maniaco-depressive,
di intensità minore di quella che oggi
definiamo psicotica, venivano attribuite
difficoltà psicologiche molto vicine alla vera
e propria pazzia. Persone che soffrivano di
allucinazioni, deliri e disturbi del pensiero
venivano considerate completamente folli.
Coloro che oggi definiamo antisociali
venivano giudicati affetti da 'follia morale'
(Pritchard, 1835), ma si pensava che fossero
mentalmente in contatto con la realtà. Questa
tassonomia alquanto grezza sopravvive ancora nelle categorie del sistema legale, che
considera in primo luogo se la persona
accusata di un crimine fosse capace di
valutare la realtà nel momento in cui lo ha
commesso.
2
LA DIAGNOSI KRAEPELINIANA:
NEVROSI E PSICOSI
Emil Kraepelin (1856-1926) viene di solito
considerato il padre della classificazione
diagnostica contemporanea, per il suo
tentativo di osservare attentamente le persone
che soffrivano di disturbi emotivi e mentali
allo scopo di identificare sindromi generali
dalle caratteristiche comuni. Inoltre, egli
sviluppò alcune teorie sulla loro eziologia, per
distinguere almeno le loro origini in esogene,
e quindi curabili, o endogene, e quindi
incurabili (Kraepelin, 1913). E interessante
notare che egli collocò la psicosi maniaco-depressiva nella prima categoria, e la
schizofrenia, allora conosciuta come dementia
praecox e ritenuta una degenerazione
organica del cervello, nella seconda. Fu allora
che si cominciò a pensare che il 'pazzo' era
una persona afflitta da una delle diverse
possibili malattie documentate.
Freud accettò molti termini kraepeliniani che
descrivono difficoltà emotive e mentali, ma
andò oltre la descrizione e i semplici livelli di
inferenza, spingendosi verso formulazioni
teoriche più speculative. Tra gli altri contributi, la teoria di Freud enunciava complesse
spiegazioni epigenetiche, preferibili alle
semplici descrizioni di Kraepelin di una
causalità interna/esterna. Freud considerava la
psicopatologia in base alle categorie allora
disponibili. Ad esempio, se un uomo era
disturbato da ossessioni (per esempio il
paziente di Freud noto come 'uomo dei lupi'
[Freud, 1918; Gardiner, 1971]), egli lo
avrebbe descritto come affetto da nevrosi
ossessiva. Al termine della sua carriera, Freud
cominciò a distinguere tra una condizione
ossessiva in una persona per altri aspetti non
ossessiva e un'ossessione che invece faceva
parte di un carattere ossessivo compulsivo.
Ma furono analisti successivi (per esempio
Eissler, 1953; Homer, 1990) a fare le
distinzioni che costituiscono l'oggetto di
questo capitolo, e cioè tra (1) la persona
ossessiva essenzialmente delirante, che usa
pensieri ruminanti per evitare una totale
scompensazione psicotica, (2) la persona la
cui ossessione è parte di una struttura di
personalità borderline (come nell"uomo dei
lupi'), e (3) la persona ossessiva con
un'organizzazione
di
personalità
nevrotica-normale.
Prima che emergesse la categoria 'borderline',
a metà del XX secolo, i terapeuti di
orientamento analitico seguivano Freud nel
differenziare solo tra il livello nevrotico e
quello psicotico di patologia, il primo
caratterizzato da una generale percezione
della realtà, il secondo da una perdita di
contatto con essa. Una donna nevrotica sa, a
qualche livello, che il suo problema sta nella
sua testa; quella psicotica crede che sia il
mondo a non essere in ordine. Quando Freud
sviluppò il modello strutturale della mente,
questa distinzione assunse la qualità di un
commento sull'infrastruttura psicologica di
una persona. La sofferenza dei nevrotici è
quindi dovuta a difese dell'Io troppo
automatiche e inflessibili, che impediscono il
contatto con le energie dell'Es utilizzabili per
attività creative; quella degli psicotici è
dovuta invece a difese dell'Io troppo deboli
per riuscire ad arginare il materiale primitivo
proveniente dall'Es.
La distinzione tra nevrotico e psicotico ha
avuto ramificazioni cliniche importanti,
alcune delle quali vengono ancora insegnate
nelle loro forme più semplicistiche in alcune
istituzioni di salute mentale. Il nucleo degli
effetti clinici di tale nosologia, una volta
associata al modello strutturale di Freud, era
che la terapia del nevrotico implicava
l'indebolimento delle difese per ottenere
accesso all'Es, in modo da renderne
disponibili le energie per attività più
costruttive. All'opposto, la terapia dello
psicotico doveva proporsi di rafforzare le
difese, risolvere le preoccupazioni primitive,
modificare tutte le situazioni che fossero
realisticamente fonte di tensione in modo da
diminuirne l'effetto negativo, incoraggiare
l'esame di realtà e respingere nell'inconscio
l'Es traboccante. Era come se il nevrotico
fosse una pentola in ebollizione con il
coperchio troppo serrato e il compito del
terapeuta fosse quello di lasciar uscire un po'
di vapore; mentre lo psicotico una pentola
traboccante e il terapeuta deve rimettere il
coperchio e abbassare la temperatura.
3
Molti allievi hanno sentito qualche
supervisore raccomandare di attaccare le
difese con i pazienti più sani e sostenerle
invece con gli Schizofrenici e altri psicotici.
Con l'avvento dei farmaci antipsicotici questa
formulazione si presta alla diffusa tendenza
nn solo a somministrare psicofarmaci, che
sono spesso la risposta pietosa a livelli
psicotici di angoscia, ma anche ad affermare
che la cura farmacologica possa realizzare
un'efficace barriera e che dovrebbe durare per
tutta la vita. Con una persona potenzialmente
psicotica non si penserebbe certo di fare una
terapia mirata all'emergere dell'inconscio:
disturberebbe le fragili difese del paziente e
potrebbe mandarlo nuovamente oltre il
confine. In generale, questo modo di
concettualizzare il livello di patologia non è
privo di utilità: ha infatti aperto la strada allo
sviluppo di metodi terapeutici alternativi per
tipi diversi di difficoltà. Ma si discosta troppo
dall'ideale di una formulazione ampia e
clinicamente adeguata alle diverse sfumature
individuali. Ogni teoria opera semplificazioni,
ma questa differenziazione tra nevrotico e psicotico, anche con l'elegante fondamento
strutturale di Freud e le sue implicazioni
terapeutiche, ha dato soltanto il via alla
possibilità di un’utile diagnosi inferenziale. Il
modello è troppo grossolano per consentire a
un operatore sensibile di trarvi idee specifiche
su quale tipo di relazione umana risulterà
terapeutico e per quale tipo di essere umano.
modelli nevrotici. (Questa distinzione
continua a essere inclusa nel DSM, nel quale
le condizioni definite 'disturbo' corrispondono
a quelle che gli analisti hanno tipicamente
definito nevrosi e le condizioni definite
'disturbo di personalità' ricordano il vecchio
concetto analitico di carattere nevrotico).
Per valutare se avevano a che fare con una
nevrosi sintomatica o con un problema
caratteriale, i terapeuti venivano addestrati a
cercare i seguenti tipi di informazione nel
colloquio iniziale con una persona che
lamentava disagi di livello nevrotico:
1. E identificabile attualmente un fattore
precipitante di quella difficoltà, o esisteva in
una certa misura anche in passato, fin dove
arriva il ricordo del paziente?
2. C'è stato un incremento massiccio
dell'angoscia del paziente, con speciale
riguardo ai sintomi nevrotici, o c'è stato
soltanto un peggioramento dello stato
affettivo generale?
3. Il paziente ha deciso autonomamente di
iniziare una terapia o sono stati altri (parenti,
amici, il sistema legale o qualche altra fonte)
a indirizzarlo?
4. La persona ha sintomi egoalieni
(considerati problematici e irrazionali) o si
tratta di sintomi egosintonici (considerati
l'unico modo ovvio che si possa immaginare
per reagire alle circostanze attuali della
vita)?
5. La persona è in grado di avere qualche
prospettiva sui propri problemi ('l'Io
osservante' nel linguaggio analitico) che
consenta di sviluppare un'alleanza con il
terapeuta contro il sintomo problematico, o
invece il paziente considera il clinico come
un estraneo potenzialmente ostile o un
salvatore dotato di poteri magici?
In tutte le possibilità qui sopra elencate, la
prima alternativa era ritenuta prova di un
problema sintomatico; la seconda di un
problema del carattere (si veda Nunberg,
1955). II significato di questa distinzione sta
nelle sue implicazioni per il trattamento e la
prognosi. Se il cliente soffre di una nevrosi
sintomatica, allora si può ritenere che
qualcosa nella sua vita attuale abbia attivato
LE CATEGORIE DIAGNOSTICHE DELLA
PSICOLOGIA DELL'IO: LA NEVROSI
SINTOMATICA, IL CARATTERE
NEVROTICO E LA PSICOSI
Nella comunità psicoanalitica, oltre alla
distinzione tra nevrosi e psicosi, gradualmente
cominciarono ad apparire all'interno della
categoria della nevrosi differenziazioni
relative al livello di disadattamento e non
semplicemente al tipo di psicopatologia. La
prima differenziazione di rilevanza clinica fu
tra 'nevrosi sintomatica' e 'nevrosi del
carattere' (W. Reich, 1933). Dall'esperienza
professionale i terapeuti avevano appreso che
era utile distinguere tra chi ha una specifica
nevrosi e chi ha un carattere permeato di
4
un conflitto infantile inconscio e che il
paziente stia ora utilizzando meccanismi
disadattivi per fronteggiarlo, ossia metodi che
potevano rappresentare la migliore soluzione
possibile nell'infanzia, ma che adesso creano
più problemi di quanti ne risolvano. In casi
simili il compito consiste nell'individuare il
conflitto, nell'aiutare il paziente a elaborare le
emozioni che vi sono connesse e a sviluppare
nuove soluzioni per affrontarlo. La prognosi è
favorevole e il trattamento non avrebbe
richiesto necessariamente anni di lavoro (si
veda Menninger, 1963). E anche possibile
aspettarsi un clima di reciprocità nel processo
terapeutico, un clima nel quale possono
emergere forti reazioni di transfert (e
controtransfert), ma di solito nel contesto di
un grado ancora più forte di cooperazione
realistica.
Se invece le difficoltà del paziente sono
meglio concettualizzabili come espressione di
un problema caratteriale o di personalità, il
compito terapeutico sarebbe stato più
complesso, più difficile e prolungato, e la
prognosi più cauta. Naturalmente questo è
solo buon senso, dato che il progetto di
modificare la personalità di un individuo è
ovviamente
più
rischioso
che
non
semplicemente aiutarlo a eliminare una
risposta disadattiva a una particolare
situazione di tensione. Ma la teoria analitica è
andata oltre il senso comune quando ha
specificato in che modo il lavoro sul carattere
di base di una persona differisce dal lavoro su
un sintomo che non è parte integrante della
personalità.
In primo luogo, non si può dare per scontato
che ciò che il paziente vuole (un sollievo
immediato dalla sofferenza) e ciò che il
terapeuta ritiene necessario per portarlo alla
guarigione e dargli gli strumenti per
affrontare difficoltà future (ristrutturazione
della personalità) siano considerati compatibili dal paziente stesso. In circostanze
nelle quali ci sia divergenza tra le mete del
paziente e l'idea dell'analista di come
perseguire obiettivi realistici, il ruolo
educativo dell'analista assume un ruolo
centrale per l'esito della relazione terapeutica.
Compito del terapeuta diventa allora prima di
tutto comunicare al paziente il proprio modo
di vedere il problema. La formula
psicoanalitica ditale processo è: "rendere
egoalieno ciò che prima era egosintonico".
Ad esempio, un contabile di 30 anni una volta
mi interpellò perché desiderava "raggiungere
un maggior equilibrio" nella vita. Destinato a
realizzare le speranze della famiglia, con la
missione di compensare le ambizioni fallite
del padre, egli lavorava duramente fino alla
compulsività. Temeva di perdere anni preziosi
con i figli piccoli, che poteva godersi soltanto
se riusciva a frenare la spinta incessante al
lavoro. Voleva che io sviluppassi insieme a
lui un 'programma' che prevedesse quanto
tempo dedicare ogni giorno all'esercizio
fisico, a giocare con i figli, quanto ancora a un
hobby, e così via. Il programma proposto
comprendeva anche spazi destinati ad attività
di volontariato, a guardare la televisione, a
cucinare, a sbrigare le faccende domestiche e
a fare l'amore con la moglie.
Nella seduta successiva al nostro primo
incontro egli portò uno schema ditali
cambiamenti: pensava che se fossi riuscita a
fargli rispettare quel programma, i suoi
problemi si sarebbero risolti. Il mio primo
compito consisteva nel fargli capire che
quella soluzione faceva parte del problema:
egli si accostava alla terapia con la stessa
compulsività di cui si lamentava, e si proponeva di raggiungere la serenità di cui aveva
bisogno come se fosse un altro lavoro. Gli
dissi che era molto abile nel fare, ma
evidentemente aveva avuto scarsa esperienza
nel
semplice
essere.
Comprese
intellettualmente questa comunicazione, ma
non ebbe nessun ricordo emotivamente
rilevante di un approccio alla vita meno
compulsivo; mi guardò con un misto di
speranza e scetticismo. Sebbene il semplice
fatto di raccontare la propria storia a qualcun
altro gli avesse procurato un breve periodo di
sollievo dalla depressione, ritenevo che egli
dovesse abituarsi all'idea che, per evitare in
futuro quel tipo di sofferenza, aveva bisogno
di portare alla consapevolezza cosciente e
riconsiderare alcune premesse importanti
della sua vita.
5
In secondo luogo, lavorando con qualcuno
che ha un carattere fondamentalmente
nevrotico, non si può dare per scontata la
rapida comparsa di un"alleanza di lavoro'
(Greenson, 1967). E infatti necessario creare
le condizioni in cui tale alleanza possa
svilupparsi. Il concetto di alleanza terapeutica o di lavoro si riferisce alla dimensione
collaborativa tra terapeuta e cliente, a quel
livello di cooperazione che permane
nonostante le emozioni forti e spesso negative
che possono manifestarsi nel corso del
trattamento. Il concetto di alleanza di lavoro,
di cui è stata messa in discussione la validità
come costrutto metapsicologico (si veda
Rawn, 1991), è estremamente significativo sul
piano dell'esperienza clinica psicoanalitica ed
è molto utile per valutare ciò che accade tra
terapeuta e cliente.
Persone
con
nevrosi
sintomatiche
percepiscono nel terapeuta che si oppone una
parte problematica del Sé; con esse non c'è
bisogno di un lungo periodo in cui sviluppare
una prospettiva comune. Al contrario, con
coloro che stanno imparando un modo
completamente nuovo di pensare la propria
personalità totale, il problema fa talmente
parte del Sé che si sentono facilmente soli e
attaccati dal terapeuta. La diffidenza è
inevitabile e deve essere pazientemente
tollerata da entrambe le parti, fino a che il
terapeuta non si sia guadagnato la fiducia del
paziente. Con alcuni pazienti, questo processo
di costruzione di un'alleanza può richiedere
più di un anno.
Ovviamente, quando si deve creare tale
alleanza
l'approccio
terapeutico
è
completamente diverso rispetto a quando si
lavora presumendo che già esista.
In terzo luogo, ci si può aspettare che il
contenuto del lavoro terapeutico con una
persona che ha un problema caratteriale,
piuttosto che sintomatico, sia meno eccitante,
meno sorprendente e meno vivace. Quali che
siano le rispettive fantasie del terapeuta e del
paziente circa l'emergere di spettacolari
ricordi rimossi o conflitti inconsci, entrambi
devono accontentarsi di un processo molto
più prosaico: il diligente scioglimento di tutti
gli intrecci che hanno creato quel nodo
emotivo che il paziente fino ad allora aveva
semplicemente ritenuto l'unico modo in cui le
cose dovessero andare, e la lenta elaborazione
di qualche modalità diversa di pensare e
trattare i sentimenti nelle relazioni umane.
Nello sviluppo dei disturbi di personalità, in
contrasto con la comparsa di reazioni
nevrotiche a particolari tensioni, si
rintracciano antichi modelli di identificazione,
apprendimento e rinforzo. Nei casi in cui
l'eziologia sia traumatica, si hanno casi di
traumi ripetuti, piuttosto che un unico evento
dannoso, non assimilato e non elaborato,
come ci avevano fatto credere le prime
rappresentazioni hollywoodiane della terapia
psicoanalitica.2 Di conseguenza, ci si potrebbe
aspettare che nella terapia delle nevrosi del
carattere entrambe le parti debbano affrontare
momenti occasionali di noia, intolleranza,
irritabilità e demoralizzazione, espressi dal
paziente senza paura delle critiche e utilizzati
dal terapeuta per accrescere la sua empatia
verso l'impegno del paziente in un compito
così lungo e difficile.
La distinzione tra sintomi nevrotici e
personalità
nevrotica
ha
tuttora
un'applicazione significativa. Psychotherapy
of Neurotic Character di Sidney Shapiro
(1989) è un buon esempio recente di
spiegazione ordinata del concetto di patologia
del carattere e di cosa ci si può attendere nel
condurne un trattamento sistematico. Questa
distinzione si colloca nella lunga tradizione
psicoanalitica, iniziata con Reich e proseguita
attraverso Fenichel e altri, di considerare il
carattere nel contesto della psicologia dell'Io e
di utilizzarne i concetti per aiutare persone
con difese mature, ma troppo rigide, ad allentane e a sviluppare modi più creativi ed
efficaci di rispondere alle sfide della vita.
Per un lungo periodo le categorie di nevrosi
sintomatica, nevrosi del carattere e psicosi
hanno rappresentato i principali costrutti
attraverso i quali i diagnosti comprendevano
le differenze di personalità sulla dimensione
2
Per un breve periodo la psicoanalisi è stata
considerata con grande favore dall'industria
cinematografica; si veda, ad esempio, il classico thriller
di Hitchcock Io ti salverò.
6
della gravità del disturbo. La nevrosi era la
condizione meno grave, un disturbo della
personalità era più grave e un disturbo
psicotico era gravissimo. Queste formulazioni
mantenevano la vecchia distinzione tra sano
di mente e folle; la prima categoria includeva
due possibilità: reazioni nevrotiche e
personalità strutturate nevroticamente. Col
tempo, tuttavia, alla comunità di salute
mentale divenne evidente che tale schema
globale di classificazione era incompleto e
fuorviante.
Un inconveniente di questa tassonomia è
l'implicazione che tutti i problemi del
carattere siano per definizione più patologici
di qualunque nevrosi. Ancora oggi è possibile
ritrovare questo assunto nel DSM, dove i
criteri diagnostici di molte sindromi elencate
nel capitolo dedicato ai disturbi di personalità
includono deterioramenti significativi del
funzionamento.
Terapeuti
esperti
confermeranno che alcune reazioni di livello
nevrotico legate a situazioni di tensione sono
più inabilitanti di certi disturbi di personalità,
per esempio isterici o ossessivi.
A rendere la questione ancor più complessa,
c'è anche un problema nell'altra direzione:
alcuni disturbi del carattere appaiono molto
più gravi e primitivi di qualunque altro
disturbo che possa ragionevolmente essere
definito 'nevrotico'. Possiamo osservare che in
questo sistema lineare tripartito di
classificazione non c'è modo di distinguere tra
i disturbi del carattere moderatamente
inabilitanti e quelli che comportano
conseguenze più serie.
Un problema può riguardare il carattere e
collocarsi a qualsiasi livello di gravità. II
confine tra 'tratti' di personalità benigni e
moderati
'disturbi'
di
personalità
è
assolutamente sfumato; e all'altro estremo del
continuum si è a lungo pensato che alcuni
disturbi di personalità includessero tali distorsioni sostanziali dell'Io da renderli più vicini
alla psicosi che alla nevrosi. Ad esempio, la
sociopatia e quelli che oggi verrebbero
considerati i livelli più gravi di patologia
narcisistica per un certo periodo sono stati
considerati semplici varianti dell'individualità
umana, ma fino a poco tempo fa esisteva la
tendenza a considerarli casi speciali di
anormalità in qualche modo fuori dalla
portata di un possibile intervento terapeutico e
non facilmente collocabili sul continuum che
va dalla nevrosi al disturbo del carattere fino
alla psicosi.
DIAGNOSI IN BASE ALLA TEORIA
DELLE RELAZIONI OGGETTUALI: LA
PSICOPATOLOGIA BORDERLINE
Verso la fine del XIX secolo alcuni
osservatori psichiatrici notarono che certi
pazienti sembravano abitare in un territorio
psicologico 'di confine' tra sanità mentale e
pazzia (Rosse, 1890) e a metà del XX secolo
cominciarono a emergere altre idee
sull'organizzazione di personalità, che
ugualmente rimandavano a una zona
intermedia tra-la nevrosi e la psicosi. Helene
Deutsch (1942), ad esempio, propose il
concetto di 'personalità come-se' per indicare
un sottogruppo di persone che oggi
definiremmo gravemente narcisistiche; Hoch
e Polatin (1949) proposero la categoria della
'schizofrenia pseudonevroticà.
Dalla metà degli anni cinquanta la comunità
di salute mentale aveva condiviso il disagio di
questi innovatori per i limiti del modello
nevrosi-psicosi.
Numerosi
analisti
cominciarono a lamentarsi di clienti che
apparivano affetti da disturbi del carattere, ma
in modo particolarmente caotico: poiché
raramente o mai riferivano allucinazioni o
deliri, non potevano essere considerati
psicotici, ma erano anche privi della stabilità
e della prevedibilità dei pazienti di livello
nevrotico e sembravano sofferenti in modo
molto più globale e meno comprensibile dei
nevrotici. Nel corso del trattamento psicoanalitico a volte questi pazienti diventavano
temporaneamente psicotici, ma fuori dallo
studio dell'analista la loro instabilità aveva
una singolare stabilità. In altre parole, erano
troppo sani per essere considerati pazzi e
troppo pazzi per essere considerati sani.
I terapeuti cominciarono a suggerire nuove
definizioni diagnostiche che coglievano la
qualità di queste persone che vivevano al
confine tra disturbi del carattere nevrotici e
psicotici. Nel 1953 Knight pubblicò un
7
ponderoso saggio sugli 'stati borderline'. Negli
stessi anni T. E Main (1957) si riferiva a tale
patologia semplicemente con l'espressione "Il
disturbo" [The Ailment]. Frosch (1964), in
risposta a fenomeni cimici simili, suggerì la
categoria diagnostica di 'carattere psicotico'.
Nel 1968, Roy Grinker e i suoi colleghi
(Grinker, Werble e Drye, 1968) condussero
uno studio che forniva sostegno empirico
all'esistenza di una 'sindrome borderline'
inerente alla personalità, con una gamma di
gravità che andava dal confine con le nevrosi
a quello con le psicosi. Gunderson e Singer
(per esempio 1975) svilupparono programmi
di ricerca controllata per sottoporre il concetto
a verifiche empiriche e, alla fine, attraverso la
ricerca e i dati clinici, e grazie anche alle
riflessioni di autori come Kernberg (per
esempio 1975, 1976), Masterson (per esempio
1976) e M. Stone (per esempio 1986), il
concetto
di
livello
borderline
di
organizzazione della personalità venne
largamente
accettato
dalla
comunità
psicoanalitica.
Sebbene a volte il termine 'borderline' venga
ancora oggi riferito (in modo inappropriato) a
persone considerate ad alto rischio di
scissione psicotica, e sebbene copra una
gamma di sintomi talmente ampia da prestarsi
alla cattiva abitudine di farvi rientrare ogni
paziente 'difficile', quando non ci si voglia
prendere il disturbo di diagnosticarlo con
attenzione, la definizione viene oggi
ampiamente intesa per denotare un tipo di
struttura di personalità più grave nelle sue
implicazioni della nevrosi, ma non
suscettibile
di
scompensi
psicotici
permanenti. Nel 1980 il termine ha acquisito
sufficiente legittimazione da apparire nella
terza edizione del DSM (DSM-III; American
Psychiatric Association, 1980), come tipo di
disturbo di personalità.3
Lo sviluppo all'interno della psicoanalisi del
punto di vista delle relazioni oggettuali ha
fornito un inquadramento teorico a molte di
queste osservazioni cliniche; dalla seconda
metà del XX secolo molti cimici orientati
analiticamente, che si sforzavano di aiutare
clienti che oggi riconosciamo come
borderline, si sono ritrovati a trarre
ispirazione e conferma dagli scritti di autori
appartenenti al gruppo interpersonale
americano e al movimento inglese delle
relazioni oggettuali, che prestavano attenzione
alle figure chiave dell'infanzia e alle loro
rappresentazioni interiorizzate. Questi teorici
sottolineavano
particolarmente
la
comprensione dell'esperienza di relazione,
attaccamento e separazione dei pazienti: la
persona è coinvolta in problematiche
simbiotiche o di separazione-individuazione,
o esprime temi di identificazione e
competizione più evoluti? A metà del secolo
anche la rielaborazione di Erikson (1950) dei
tre stadi infantili di Freud in termini di
compiti interpersonali del bambino, e non
solo come preoccupazioni pulsionali,
influenzò i terapeuti nel senso che rendeva
possibile distinguere pazienti con fissazione a
problemi
primari
di
dipendenza
(fiducia/sfiducia), a problemi secondari di
separazione-individuazione
(autonomia/vergogna e dubbio), o a livelli più
avanzati di identificazione (iniziativa/colpa).
Questi concetti di stadi di sviluppo
psicologico spiegavano le differenze che i
terapeuti notavano tra pazienti di livello
non un tipo di patologia. Si può essere una personalità
isterica borderline, ossessiva borderline, narcisistica
borderline e così via; si può essere organizzati
narcisisticamente a livello nevrotico, borderline o
psicotico. Inserire il termine 'borderline' insieme a
definizioni di personalità quali istrionico, ossessivo
compulsivo e narcisistico, come se fosse parallelo
rispetto a queste, significa mettere insieme mele e
arance o, meglio ancora, mettere insieme una
definizione più specifica come 'mele' con una più
generica come 'frutta'. (Tra i teorici analitici c'è
disaccordo sul fatto che il termine debba identificare un
livello o un tipo di struttura di personalità, con
Kernberg, tra gli altri, che propone la prima ipotesi e
Gunderson la seconda; da parte mia ho qui seguito
Kernberg poiché il suo modello ha avuto maggiore
influenza sulla pratica clinica).
3
Per i terapeuti analitici si è trattato di un fatto molto
significativo, dato che il riconoscimento della categoria
generale di organizzazione borderline della personalità
ha confermato un concetto che ha un'enorme rilevanza
analitica. Sebbene la diagnosi sia stata inserita nella
parte dedicata ai disturbi della personalità del DSM-III
e successive edizioni, tuttavia il lettore non ha modo di
sapere che questa definizione rappresenta un livello e
8
psicotico, borderline e nevrotico. Chi si trova
in una condizione psicotica appare fissato a
un livello fusionale, precedente alla
separazione, in cui non riesce a differenziare
ciò che è dentro di sé da ciò che è fuori; chi è
in una condizione borderline è invece fissato
su conflittualità diadiche tra fusione totale,
che teme possa cancellare la sua identità, e
totale isolamento, equiparato a un abbandono
traumatico; infine chi ha difficoltà nevrotiche,
pur avendo portato a termine il compito di
separazione-individuazione, si dibatte in
conflitti tra, per esempio, ciò che desidera e
ciò che teme, il cui prototipo è il dramma
edipico. Questo modo di pensare ha permesso
di dare un senso a molte situazioni cliniche
intricate e frustranti e ha consentito di
comprendere per quale ragione, per esempio,
la salute psichica di una donna fobica sia
appesa a un filo, mentre una seconda appaia
stranamente stabile nella sua instabilità
fobica, e una terza, nonostante abbia anche lei
una fobia, sia un perfetto esempio di salute
mentale.
C'è a questo punto, all'interno della tradizione
psicoanalitica e anche al di fuori, una vasta
letteratura sulla psicopatologia borderline
nella quale si coglie una sorprendente
divergenza di opinioni sulla sua eziologia.
Alcuni ricercatori (per esempio M. Stone,
1977) hanno messo l'accento sulle predisposizioni costituzionali e neurologiche;
alcuni (per esempio Masterson, 1972, 1976;
G. Adler, 1985) hanno sottolineato i
fallimenti evolutivi, specialmente nella fase di
separazione-individuazione descritta dalla
Mahier (1971); alcuni (per esempio Kernberg,
1975) hanno ipotizzato un'interazione
aberrante madre-bambino in una fase precoce
dello sviluppo infantile; altri (per esempio
Mandelbaum, 1977; Rinsley, 1982) hanno
sottolineato la labilità dei confini tra membri
di sistemi familiari disfunzionali; altri ancora
(per esempio McWilliams, 1979; Westen,
1993) hanno fatto speculazioni di tipo
sociologico. Recentemente sono emerse prove
sostanziali che il trauma, in particolar modo
l'incesto, gioca nello sviluppo delle dinamiche
borderline un ruolo molto maggiore di quanto
si sospettasse in precedenza (per esempio
Wolf e Alpert, 1991).
Qualunque sia l'eziologia dell'organizzazione
borderline di personalità, che probabilmente è
molto complessa e varia da persona a persona,
operatori di prospettive diverse hanno
ottenuto un incredibile consenso sulle
manifestazioni cliniche del livello borderline.
In particolar modo, quando un clinico è
addestrato sui tipo di informazione, oggettiva
o soggettiva, da cercare e ottenere, la diagnosi
di livello borderline della struttura del carattere può essere facilmente confermata o
confutata (per esempio attraverso l"intervista
strutturale' di Kernberg [1984]).
Abitualmente i terapeuti di orientamento
dinamico tendono a dare una valutazione
globale quanto più precocemente possibile
nella transazione terapeutica, per stabilire se
la struttura di carattere della persona sia
essenzialmente nevrotica, borderline o
psicotica. Una volta compiuta la distinzione
primaria, il clinico può passare a determinare
quale tipo di personalità nevrotica, borderline
o psicotica sarà oggetto dell'impegno
terapeutico.
Nonostante
l'eccessiva
semplificazione, l'utilità clinica della formula
seguente trova un certo consenso: Le persone
vulnerabili alla psicosi sono da considerare
psicologicamente fissate ai problemi della
fase simbiotica precoce; le persone con
organizzazione borderline sono riconoscibili
dalla loro preoccupazione su temi di
separazione-individuazione;
coloro
che
hanno una struttura nevrotica possono essere
utilmente descritti in termini più edipici. Le
ragioni dello sviluppo di questa formula e
della sua rilevanza clinica saranno esposte
rispettivamente nel paragrafo seguente e nel
capitolo 4.
DIMENSIONI SPECIFICHE DELLO
SPETTRO NEVROTICO-BORDERLINEPSICOTICO
Nei paragrafi che seguono distinguerò i livelli
nevrotico, borderline e psicotico di struttura
del carattere in diverse aree (difese prevalenti,
livello
di
integrazione
dell'identità,
adeguatezza dell'esame di realtà, capacità di
osservare la propria patologia, natura del
conflitto primario, possibili dimensioni del
transfert e del controtransfert), specificando
9
come queste astrazioni si manifestino in
comportamenti e comunicazioni riconoscibili
nel contesto di un colloquio iniziale o nel
corso del trattamento. Nel capitolo 4
esaminerò le implicazioni che hanno tali
differenziazioni per il metodo di trattamento e
le aspettative del clinico e del cliente.
conflitto più indiscriminate come il diniego, la
scissione, l'identificazione proiettiva e altri
meccanismi arcaici.
Myerson (1991) ha descritto come le cure
genitoriali empatiche nei primi anni
permettano al bambino di provare forti
sentimenti e stati affettivi primitivi senza
doversi aggrappare a modalità infantili per
gestirli. Quando il bambino crescerà, quegli
stati mentali intensi e spesso dolorosi
verranno messi da parte e dimenticati, e non
più ripetutamente vissuti e quindi negati,
scissi o proiettati. Potranno riemergere in un
trattamento intensivo di lunga durata, quando
analista e analizzando insieme, in condizioni
di sicurezza che producono una 'nevrosi di
transfert', ripercorrono diversi livelli di
rimozione; normalmente, però, affetti
primitivi
e
modalità
arcaiche
non
caratterizzano coloro che si trovano nella
gamma nevrotica. Persino nel trattamento
psicoanalitico profondo il cliente nevrotico
conserva le capacità più razionali e oggettive
anche nel mezzo di una tempesta emotiva e
delle sue distorsioni.
Persone con una struttura del carattere più
sana possiedono anche un senso integrato
della propria identità (Erikson, 1968). Il loro
comportamento mostra una certa coerenza e
hanno un'esperienza interiore di continuità
temporale del Sé. Alla richiesta di descrivere
se stesse, queste persone non hanno difficoltà
a trovare le parole, né rispondono in modo
unidimensionale; di solito sono in grado di
delineare il proprio temperamento generale, i
valori, i gusti, le abitudini, le convinzioni, le
qualità e i difetti con una certa sensazione di
stabilità. Alla richiesta di descrivere altri
importanti della loro vita, quali i genitori o i
partner sentimentali, ne danno un'immagine
variegata e sembrano cogliere la serie
complessa e insieme coerente di qualità che
caratterizza una personalità.
Di solito le persone di livello nevrotico hanno
un solido contatto con ciò che tutti chiamano
'realtà'. Non soltanto non sono inclini a
interpretazioni allucinatorie o deliranti
dell'esperienza (tranne che sotto qualche
influsso chimico o organico, oppure nei
flashback post-traumatici), ma spesso sor-
Caratteristiche della struttura di personalità
a livello nevrotico
Uno
dei
paradossi
dei
linguaggio
psicoanalitico contemporaneo è che il termine
'nevrotico' venga oggi riservato a persone
talmente sane sul piano emotivo da essere
considerate clienti rari e insolitamente
gratificanti. Al tempo di Freud il termine
designava prevalentemente i pazienti affetti
da disturbi non organici, non schizofrenici,
non psicopatici, né maniacodepressivi, cioè
un'ampia gamma di persone con disturbi
emotivi non psicotici. Molte persone cui
Freud attribuiva una nevrosi (sintomatica)
avevano in realtà organizzazioni di carattere
borderline e alcune attraversavano periodi di
decompensazione
psicotica
(l'isteria
comprendeva anche esperienze allucinatorie,
che chiaramente oltrepassano il confine
dell'irrealtà). Quanto più impariamo sulla
profondità di certi problemi e sulla loro duratura iscrizione nella matrice caratteriale di una
persona, tanto più riserviamo il termine
'nevrotico' a un livello molto alto di
funzionamento, nonostante alcune sofferenze
emotive.
Personalità che gli osservatori psicoanalitici
attuali considerano organizzate a un livello
essenzialmente nevrotico sono quelle che
ricorrono prevalentemente alle difese più
mature o di secondo ordine. E se ùtiizzano
anche difese primitive, queste non hanno una
grande rilevanza nel funzionamento globale e
sono evidenti soprattutto in momenti di
insolita tensione. La presenza di difese
primitive non esclude una diagnosi di
struttura del carattere a livello nevrotico,
come invece fa la mancanza di difese mature.
La letteratura psicoanalitica ha messo
particolarmente in evidenza che le persone
più sane utilizzano la rimozione come difesa
fondamentale, a preferenza di soluzioni del
10
prendono l'intervistatore o il terapeuta per il
loro bisogno relativamente scarso di
distorcere le cose per assimilarle. Paziente e
terapeuta vivono soggettivamente più o meno
nello stesso mondo e di solito il terapeuta non
sente una qualche pressione emotiva a vedere
la vita attraverso lenti distorte. Il paziente
nevrotico percepisce come qualcosa di strano
parte di ciò che lo ha spinto a chiedere aiuto;
in altre parole, la psicopatologia di un individuo organizzato nevroticamente è in gran
parte egoaliena o è suscettibile di diventarlo.
Le persone di tipo nevrotico mostrano ben
presto in terapia la capacità di realizzare
quella che Sterba (1934) ha definito
"scissione terapeutica" tra la parte del Sé che
vive l'esperienza e la parte osservante. Anche
quando le loro difficoltà sono in qualche
misura egosintoniche, non sembrano richiedere al clinico un'implicita conferma dei loro
modi nevrotici di percepire. Ad esempio, un
individuo paranoico con organizzazione
nevrotica sarà disposto per lo meno a
prendere in considerazione la possibilità che i
suoi sospetti derivino da una disposizione
interna a ingigantire l'intenzione distruttiva
degli altri. Al contrario, pazienti paranoici a
livello psicotico o borderline eserciteranno
una forte pressione sul terapeuta perché
confermi la loro convinzione che le difficoltà
di cui soffrono nascono dall'esterno; ad
esempio, perché il terapeuta ammetta che gli
altri possono avercela con loro. Inoltre, senza
tale conferma, avranno paura di non essere al
sicuro con il terapeuta.4
Allo stesso modo, gli ossessivi di tipo
nevrotico ammettono che i loro rituali
ripetitivi sono folli, ma provano ansia se li
trascurano; gli ossessivi borderline e psicotici
sono invece sinceramente convinti di essere
protetti, in qualche modo elementare, da quei
rituali, e spesso sviluppano anche elaborate
razionalizzazioni per spiegarlo. Nel primo
caso, il paziente capirà l'idea del terapeuta che
i
comportamenti
ossessivi
sono
realisticamente non necessari, mentre nel
secondo caso il paziente potrà temere
segretamente che l'operatore che minimizza
l'importanza di osservare tali rituali manchi di
senso comune o di moralità.
A questo proposito, una donna nevrotica con
la compulsione della pulizia sarà imbarazzata
ad ammettere la frequenza con cui lava le
lenzuola, mentre una psicotica o una
borderline saranno convinte che chiunque
cambi il letto meno regolarmente sia poco
pulito. A volte occorrono anni di trattamento
prima che una persona borderline o psicotica
riesca anche solo a parlare di una
compulsione, di una fobia o di un'ossessione:
dal punto di vista del paziente in essa non vi è
nulla di strano. Ho lavorato con una cliente
borderline per più di dieci anni prima che
menzionasse casualmente un elaborato rituale
mattutino di 'svuotamento delle cavità', che
considerava parte di una normale buona
igiene. Un'altra donna borderline, che non
aveva mai nominato la bulimia tra i vari
sintomi anche più disturbanti di cui soffriva,
si lasciò sfuggire questa osservazione dopo
cinque anni di terapia: "In ogni caso, noto che
non vomito più". Prima di allora non aveva
mai pensato di considerare significativa quella
parte del suo repertorio comportamentale.
Un altro aspetto importante della diagnosi
differenziale tra persone nevrotiche e persone
meno sane è la natura delle loro difficoltà. Le
storie e il comportamento che emergono nella
situazione del primo colloquio mostrano,
come abbiamo già visto, se la persona ha
acquisito con maggiore o minore successo gli
esiti rispettivi dei primi due stadi descritti da
Erikson, la fiducia e l'autonomia di base, e se
ha fatto almeno qualche progresso verso il
terzo stadio, ossia l'acquisizione di un senso
di identità e una capacità d'iniziativa. Queste
persone si rivolgono alla terapia non tanto per
problemi nel senso di sicurezza o di
competenza, quanto piuttosto perché si
trovano in conflitto tra ciò che desiderano e
gli ostacoli che vi si oppongono, che
sospettano essere una propria creazione.
L'idea di Freud che lo scopo precipuo della
terapia consista nel rimuovere le inibizioni
nell'ambito dell'amore e del lavoro si applica
4
Esamineremo in seguito le differenze più significative
tra pazienti borderline e psicotici. In breve, i clienti
borderline mostrano una maggiore conflittualità tra
modalità primitive e realistiche di interpretazione degli
eventi.
11
a questa categoria; ma alcune persone di
livello nevrotico cercano anche di ampliare la
propria capacità di stare da sole e di giocare.
Quando si è in presenza di una persona che si
trova all'estremità più sana del continuum
della patologia del carattere, anche sul piano
dell'esperienza si colgono segnali di natura
positiva. La percezione da parte del terapeuta
di una valida alleanza di lavoro è la
controparte della presenza nel paziente di un
io osservante. Spesso fin dalla prima seduta
con un cliente nevrotico il terapeuta sente che
lui e il paziente stanno dalla stessa parte e il
loro comune antagonista è una parte
problematica del paziente. Il sociologo Edgar
Z. Friedenberg (1959) ha paragonato questa
alleanza all'esperienza di due giovani che
riparano un'automobile; uno di loro, l'esperto,
l'altro un apprendista volonteroso. Inoltre il
controtransfert del terapeuta, quale che sia la
sua valenza, positiva o negativa, non sarà mai
troppo intenso. Il cliente di livello nevrotico
non suscita nell'ascoltatore né il desiderio di
uccidere né la compulsione a salvare.
conclamata. Essi manifestano allucinazioni,
deliri, idee di riferimento e pensiero illogico.
Ci sono, però, molte persone con
organizzazione del carattere a livello psicotico
che non mostrano segni evidenti della loro
confusione interiore di base, a meno che non
siano sottoposte a un'intensa tensione. Sapere
che ci si trova di fronte a uno schizofrenico
'compensato', o a un depresso che al momento
non esprime tendenze suicide ma è periodicamente soggetto a desideri deliranti di
morte, può essere determinante per impedire
o, al contrario, provocare la morte di
qualcuno. In questo paragrafo tenterò di
sensibilizzare il lettore su alcuni aspetti
caratteristici di coloro che hanno psicologie
tanto fragili da essere cronicamente soggetti a
episodi psicotici o a grave deterioramento
mentale ed emotivo.5
Anzitutto, è importante capire quali difese
utilizza lo psicotico. Descriveremo in
dettaglio questi processi nel capitolo 5, per il
momento mi limiterò a elencarli: chiusura,
diniego, controllo onnipotente, idealizzazione
e svalutazione primitive, forme primitive di
proiezione e introiezione, scissione e
dissociazione. Queste difese sono preverbali e
prerazionali; proteggono lo psicotico da un
livello di disperato terrore talmente
soverchiante che perfino le spaventose
distorsioni che le difese stesse creano sono un
male minore.
In secondo luogo, individui con personalità
organizzata a un livello fondamentalmente
psicotico hanno gravi difficoltà con l'identità,
tanto gravi da non essere pienamente sicuri di
esistere, ancor meno se la loro esistenza è
Caratteristiche della struttura di personalità
a livello psicotico
All'estremità psicotica dello spettro le persone
sono interiormente molto più disperate e
disorganizzate. Quando si fa un colloquio con
un paziente profondamente disturbato si può
avere una gamma di esperienze diverse che
vanno dal partecipare a una conversazione
piacevole e poco impegnativa fino all'essere
destinatario di un attacco omicida. Prima
degli anni cinquanta, quando entrarono in uso
i farmaci antipsicotici, ben pochi terapeuti
possedevano il talento intuitivo naturale e la
forza emotiva per essere veramente
terapeutici con i pazienti psicotici. Uno dei
grandi meriti della tradizione psicoanalitica è
stata la percezione di un qualche ordine
nell'apparente caos di quelle persone che è
facile considerare senza speranza e liquidare
come irrimediabilmente folli: grazie a tale
intuizione la psicoanalisi ha offerto un modo
di comprendere e aiutare anche persone
affette da gravi disturbi mentali.
Non è difficile diagnosticare i pazienti che si
trovano in una condizione psicotica
5
Sulla base di molti anni di esperienza con casi
estremamente difficili trattati per lunghi periodi, sono
arrivata alla ferma convinzione che, impegnandosi con
dedizione, i terapeuti riescono a fare molta prevenzione
con persone di questo genere. Noi evitiamo episodi
psicotici, suicidi e omicidi e teniamo la gente fuori
dagli ospedali. Sfortunatamente, questi effetti
psicoterapeutici fondamentali sono del tutto privi di
documentazione, dato che nessuno potrà mai
dimostrare di aver impedito un disastro, e di solito i critici della terapia analitica affermano che, se qualcuno
dichiara di aver prevenuto un episodio psicotico, in
primo luogo il paziente non era veramente incline alla
psicosi.
12
soddisfacente.
Queste
persone
sono
profondamente confuse su chi sono e di solito
si trovano alle prese con questioni
fondamentali di autodefinizione, quali
l'immagine corporea, l'età, il genere,
l'orientamento sessuale. "Come faccio a
sapere chi sono?", o anche: "Come posso
sapere di esistere?", sono domande che si
pongono spesso. E neanche possono
dipendere dall'esperienza altrui per riuscire a
percepire una continuità del proprio sé. La
descrizione che danno di se stesse o di altri
importanti nella loro vita è vaga, evasiva,
letterale o visibilmente distorta.
Spesso, in modo molto sottile, si percepisce
che il paziente con una personalità
fondamentalmente psicotica non è ancorato
nella realtà. Sebbene molte persone
conservino residui di credenze magiche
(l'idea, per esempio, che Dio ha deciso di far
piovere
perché
abbiamo
dimenticato
l'ombrello), un'indagine attenta rivelerà che
negli psicotici atteggiamenti di questo tipo
non sono egoalieni. Si sentono spesso
assolutamente confusi ed estranei rispetto a
certe formulazioni sulla 'realtà' comuni nella
loro cultura. Sebbene in certe situazioni
riescano
misteriosamente
a
cogliere
l'affettività sottostante, spesso non sanno
come interpretarne il significato, se non in
senso autoreferenziale.
Ad esempio, una paziente gravemente
paranoica con cui ho lavorato a lungo, la cui
salute mentale è stata spesso a rischio, ha una
misteriosa percezione del mio stato emotivo.
Lo coglie con precisione, ma poi collega a
tale percezione le personali preoccupazioni
primitive circa la propria bontà o malvagità:
"Lei sembra irritata; deve essere perché pensa
che sono una cattiva madre", oppure: "Mi
sembra annoiata; devo averla offesa la
settimana scorsa andandomene dalla seduta
cinque minuti prima". Le sono occorsi molti
anni per trasformare la convinzione: "Persone
cattive stanno per uccidermi perché odiano il
modo in cui vivo", in: "Mi sento in colpa per
alcuni aspetti della mia vita".
Nelle persone potenzialmente soggette a
episodi psicotici c'è una netta incapacità di
prendere le distanze dai propri problemi
psicologici e considerarli oggettivamente. Sul
piano cognitivo questa carenza può essere
collegata alle difficoltà con l'astrazione che
sono state ben documentate negli schizofrenici (Kasanin, 1944). Anche gli individui
di livello psicotico che hanno tratto dalla loro
esperienza di pazienti un linguaggio
sufficiente a sembrare buoni osservatori di se
stessi (ad esempio: "So di essere
eccessivamente reattivo", o anche: "Non
sempre ho la percezione del tempo, dello
spazio o delle persone") riveleranno a un
operatore attento che, nel tentativo di ridurre
l'angoscia, stanno ripetendo meccanicamente
ciò che hanno sentito dire di loro. Una delle
mie pazienti ha avuto un numero talmente
elevato di esperienze di ricovero in ospedale
psichiatrico, durante le quali si era sentita
chiedere il significato del proverbio6 "Meglio
un uovo oggi che una gallina domani", che ha
chiesto a un conoscente cosa significasse e ha
memorizzato
la
risposta
(mi
dava
orgogliosamente questa spiegazione quando
esprimevo qualche commento sul carattere
automatico della sua risposta).
Le prime formulazioni psicoanalitiche sulle
difficoltà
degli
psicotici
ad
avere
consapevolezza dei propri reali disturbi
mettevano in luce prevalentemente gli aspetti
energetici, e cioè che essi impiegano così
tanta energia per combattere il proprio terrore
esistenziale da non averne più per valutare la
realtà. I modelli della psicologia dell'Io hanno
posto invece l'accento sulla mancanza di una
differenziazione interiore tra Es, Io e Super-io
e tra la parte dell'Io che vive le esperienze e la
parte osservante. Studiosi della psicosi
influenzati dalle teorie interpersonali e delle
relazioni oggettuali e dalla psicologia del Sé
hanno fatto riferimento all'incertezza dei
confini tra esperienza interna ed esterna e a
carenze nella fiducia di base che rendono soggettivamente troppo pericoloso per lo
6
Chiedere ai clienti di fare astrazioni, dando loro
proverbi da interpretare, è un mezzo tradizionale e utile
per individuare i processi psicotici. Persone
fondamentalmente psicotiche, ma non manifestamente
allucinatorie o deliranti, mostreranno un disturbo del
pensiero, la dimensione cognitiva della psicosi, quando
si richieda il pensiero astratto.
13
psicotico entrare nello stesso mondo del
terapeuta. Ancora una volta, la spiegazione
completa della mancanza negli psicotici di un
'io osservante' include probabilmente tutti
questi elementi e diversi altri, compresi
aspetti costituzionali, biochimici, situazionali
e traumatici. La cosa più importante che deve
comprendere chi desidera aiutarli è che, nello
psicotico potenziale o conclamato, è sempre
possibile trovare molto vicino alla superficie
una paura mortale e una terribile confusione.
Nelle persone potenzialmente psicotiche la
natura del conflitto primario è letteralmente
esistenziale: vita e morte, esistenza e
annullamento, sicurezza e terrore. I loro sogni
sono pieni di terribili immagini di morte e
distruzione. "Essere o non essere" è il loro
tema ricorrente. Laing (1965) li dipingeva
eloquentemente come persone che soffrono di
una "insicurezza ontologica". Studi di
orientamento psicoanalitico condotti negli
anni '50 e '60 sulle famiglie di soggetti
schizofrenici hanno riportato in modo
coerente modelli di comunicazione emotiva in
cui il bambino psicotico riceve messaggi
sottili di non essere una persona separata, ma
un'estensione di qualcun altro (Singer e
Wynne, 1965 a, 1965b; Mischler e Waxler,
1968; Bateson, Jackson, Haley e Weakland,
1956; Lidz, 1963). Sebbene la scoperta dei
tranquillanti più efficaci abbia distolto
l'attenzione dall'indagine più strettamente
psicologica dei processi implicati nella
psicosi, nessuno è ancora riuscito a presentare
dati che possano negare l'osservazione che
nello psicotico manchi una profonda
convinzione del proprio diritto a un'esistenza
separata o che addirittura non abbia un
sentimento di esistenza.
Con pazienti strutturalmente di tipo psicotico,
il controtransfert del terapeuta è spesso
stranamente positivo. La natura di tale
sentimento benevolo è però diversa da quella
che caratterizza le reazioni controtransferali
nei confronti del nevrotico. Di solito si ha un
atteggiamento di maggiore onnipotenza
soggettiva, protettività genitoriale e sensibilità
empatica con gli psicotici che con i nevrotici.
L'espressione 'l'adorabile schizofrenico' è
stata a lungo in voga per indicare
l'atteggiamento sollecito che il personale dei
reparti di salute mentale spesso prova nei
confronti dei pazienti più gravemente
disturbati. (Qui, il gruppo implicito di
contrasto, come vedremo dopo, è la
popolazione borderline). Gli psicotici sono
così disperatamente privi di relazioni umane
fondamentali e della speranza che qualcuno
possa alleviare la loro sofferenza da essere
deferenti e grati verso qualunque terapeuta
faccia qualcosa di più che classificarli e
prescrivere farmaci. Naturalmente, la loro
gratitudine è molto toccante.
Le persone con tendenze psicotiche
apprezzano in modo particolare la sincerità
del terapeuta. Una volta, una donna
schizofrenica ricoverata mi spiegò che poteva
anche perdonare gravi mancanze del terapeuta
se riteneva che fossero "errori in buona fede".
I pazienti psicotici apprezzano anche gli
sforzi educativi e rispondono con sollievo al
tentativo di normalizzare o riformulare i loro
problemi. Questi atteggiamenti, unitamente
alla loro propensione alla fusione primitiva e
all'idealizzazione, possono far sentire il
terapeuta molto forte e ben disposto.
L'altra faccia di questa intensa dipendenza
dalle cure del terapeuta è il peso della
responsabilità psicologica che lo psicotico
inevitabilmente impone. Di fatto, con lo
psicotico il controtransfert è molto simile ai
normali sentimenti materni verso il bambino
che ha meno di un anno e mezzo: è meraviglioso nel suo attaccamento e terrificante
nei suoi bisogni. Non è oppositivo e irritante,
ma spinge fino al limite le risorse personali.
Una volta un supervisore mi disse che non
avrei dovuto lavorare con gli schizofrenici a
meno che non fossi pronta a lasciarmi
divorare viva.
Questo elemento 'divorante' della loro
psicologia è una delle ragioni per cui molti
terapeuti preferiscono non lavorare con gli
schizofrenici e con persone che hanno
un'organizzazione psicotica. Inoltre, come
Karon (1992) ha dimostrato in modo
convincente, spesso non riusciamo a tollerare
l'accesso
dello
psicotico
a
realtà
profondamente sconvolgenti, che tutti preferiremmo ignorare. (Tra le altre ragioni della
14
loro relativa impopolarità come pazienti,
nonostante le qualità affascinanti che
possiedono, c'è probabilmente la mancanza di
un'adeguata formazione del terapeuta nella
psicoterapia degli psicotici, questioni
economiche che generano razionalizzazioni a
favore di approcci limitati o di management al
posto della terapia, e disposizioni personali a
non impegnarsi in obiettivi terapeutici
relativamente modesti rispetto a quelli che si
possono raggiungere con persone di livello
nevrotico).
Tuttavia, come vedremo nel prossimo
capitolo, lavorare con clienti potenzialmente
psicotici può essere efficace e gratificante, se
si è realisti sulla natura delle loro difficoltà
psicologiche.
evitare di sentirsi così". Un paziente
borderline può disdegnare un'interpretazione
di questo tipo, oppure accettarla a malincuore,
o accoglierla in silenzio, ma in ogni caso dà
qualche indicazione di una riduzione
dell'angoscia.
Una
persona
psicotica
reagirebbe invece con un incremento di
angoscia, dato che la svalutazione del
terapeuta potrebbe rappresentare l'unico
strumento psicologico che consente a chi vive
nel terrore esistenziale di sentirsi protetto
dall'annullamento. Sarebbe estremamente
pericoloso se il terapeuta ne parlasse senza
riconoscerne la giusta importanza.
I pazienti borderline sono al tempo stesso
simili e diversi dagli psicotici nella
dimensione dell'integrazione dell'identità. E’
probabile che abbiano un'esperienza di sé
caratterizzata da incoerenza e discontinuità;
alla richiesta di descrivere la propria
personalità reagiscono con grande imbarazzo,
come gli psicotici. Allo stesso modo, alla
richiesta di descrivere le persone importanti
della loro vita, i pazienti borderline non sanno
fornire descrizioni tridimensionali ed
evocative di esseri umani riconoscibili. Una
risposta tipica è: "Mia madre? E
semplicemente una madre normale, credo".
Spesso fanno descrizioni globali e
minimizzanti, del tipo: "Un alcolista. Tutto
qui". A differenza dei pazienti psicotici, però,
le loro risposte non suonano mai letterali o
evasive al punto da essere bizzarre; tendono
invece a respingere l'interesse del terapeuta
per la natura complessa di se stessi e degli
altri.
I pazienti borderline sono anche inclini a
utilizzare una difesa ostile per affrontare le
proprie limitazioni nell'area dell'integrazione
dell'identità. Una delle mie pazienti ebbe
un'esplosione di collera quando le fu chiesto
di compilare un questionario che rientrava
nella normale procedura di ricovero in una
clinica di salute mentale. In esso c'era una
parte con frasi da completare, in cui al cliente
veniva chiesto di riempire delle righe in
bianco, del tipo: "Sono il tipo di persona
che______________". La mia cliente reagì
con rabbia: "Come si fa a capire cosa si deve
fare con questa merda?". (Dopo diversi anni e
Caratteristiche della struttura di personalità
borderline
Una delle caratteristiche più evidenti delle
persone con organizzazione di personalità
borderline è l'impiego di difese primitive.
Poiché ricorrono a operazioni arcaiche e
globali come il diniego, l'identificazione
proiettiva e la scissione, quando si trovano in
una condizione regressiva sono difficilmente
distinguibili dai pazienti psicotici. Una
differenza importante tra borderline e
psicotici nell'area delle difese sta nell'effetto
che si produce quando il terapeuta interpreta
l'azione di una modalità primitiva di
esperienza: il paziente borderline mostrerà
almeno una temporanea rispondenza, mentre
la persona con organizzazione psicotica
diventerà ancora più agitata.
Per illustrare questa differenza consideriamo
la difesa della svalutazione primitiva, dato che
l'esperienza di svalutazione è familiare a ogni
terapeuta e anche perché tale strategia
inconscia è abbastanza semplice da cogliere,
anche senza le spiegazioni contenute nel
capitolo successivo. Una difesa di questo tipo
può essere interpretata più o meno così: "Non
c'è dubbio che le piaccia notare tutti i miei
difetti; forse ciò la protegge dall'ammettere
che potrebbe aver bisogno delle mie
competenze. Forse si sentirebbe 'sminuito' o
proverebbe vergogna se non mi svalutasse
continuamente, e quindi sta cercando di
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un numero infinito di sedute, riflettendo su
quell'episodio, disse: "Ora lo potrei riempire.
Mi chiedo perché mi infuriai tanto").
Il rapporto dei pazienti borderline con la
propria identità differisce da quello degli
psicotici per due aspetti, nonostante la
comune mancanza di integrazione. In primo
luogo, nel senso di incoerenza e discontinuità
di cui soffrono i borderline non si ritrova lo
stesso livello di terrore esistenziale dello
schizofrenico. I pazienti borderline possono
avere una confusione dell'identità, ma sanno
di esistere. In secondo luogo, è meno
probabile che le persone con tendenze
psicotiche reagiscano con ostilità, come fanno
invece i pazienti borderline, a domande
sull'identità propria e degli altri: sono troppo
preoccupate di perdere il loro senso di
esistenza, coerente o no, per risentirsi
dell'attenzione del clinico su quel problema.
Nonostante le distinzioni appena descritte tra
pazienti borderline e psicotici, è corretto
affermare che entrambi i gruppi, a differenza
dei nevrotici, ricorrono massicciamente a
difese primitive e soffrono di un difetto di
base nel senso del sé. La dimensione
dell'esperienza su cui i due gruppi si
distinguono radicalmente è l'esame di realtà. I
clienti borderline, in un colloquio condotto
con sensibilità, dimostrano di saper valutare la
realtà, per quanto bizzarra o florida possa
essere la loro sintomatologia. Valutare il
grado di 'coscienza di malattia' dei pazienti è
una pratica psichiatrica abituale per
distinguere gli psicotici dai non psicotici.
Questo problema è stato discusso con un
linguaggio leggermente diverso nei paragrafi
precedenti, quando abbiamo contrapposto le
persone di livello nevrotico a quelle che si
situano all'estremità psicotica della scala.
Kernberg (1975) ha proposto di sostituire
questo criterio con "l'adeguatezza dell'esame
di realtà", dato che il paziente borderline può
negare
instancabilmente
la
propria
psicopatologia e tuttavia mostrare ancora quel
livello di discriminazione di ciò che è reale o
convenzionale che lo distingue dallo
psicotico.
Per fare una diagnosi differenziale tra livelli
di organizzazione borderline e psicotico,
Kernberg consiglia di indagare la percezione
della realtà convenzionale individuando
qualche aspetto insolito nell'autopresentazione
del paziente, commentandolo e poi chiedendo
al paziente se si rende conto che altre persone
potrebbero trovarlo singolare (ad esempio:
"Noto che lei ha un tatuaggio sulla guancia in
cui si legge: 'Morte!'. Capisce che a me o ad
altri potrebbe sembrare strano?"). La persona
borderline riconoscerà che quell'elemento è
poco convenzionale e che gli altri potrebbero
non capirne il significato. E' probabile invece
che lo psicotico si senta spaventato e confuso,
giacché la sensazione di non essere compreso
è per lui profondamente disturbante. Queste
diverse reazioni, che Kernberg e i suoi
collaboratori (per esempio Kernberg, Selzer,
Koenisberg, Carr e Appelbaum, 1989) hanno
documentato sulla base di esperienze cliniche
e ricerche empiriche, sono significative nel
contesto degli assunti psicoanalitici sulla
natura simbiotica della psicosi e sulla
centralità dei problemi di separazioneindividuazione per chi ha una patologia
borderline.
Come abbiamo già notato, la capacità di un
borderline di osservare la propria patologia,
per lo meno quegli aspetti che colpiscono un
osservatore esterno, è abbastanza limitata.
Persone con un'organizzazione borderline del
carattere si rivolgono alla terapia lamentando
problemi specifici, come attacchi di panico,
depressione, o qualche malattia che il medico
ha imputato allo 'stress'; oppure arrivano nello
studio del terapeuta dietro pressione di un
conoscente o di un familiare, ma non vengono
con l'idea di cambiare la propria personalità
nella direzione che agli altri appare
immediatamente vantaggiosa. Non avendo
mai avuto un altro tipo di carattere, non
possiedono un concetto emotivo di cosa
significhi avere un'identità integrata, difese
mature, la capacità di differire la
gratificazione, la tolleranza dell'ambivalenza e
dell'ambiguità, e così via. Vogliono soltanto
smettere di soffrire o di sentirsi criticare alle
spalle.
In condizioni non regressive, poiché il loro
esame di realtà è buono e spesso riescono a
presentarsi in modi che suscitano l'empatia
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del terapeuta, i borderline non appaiono
particolarmente 'malati'. A volte è solo dopo
un certo periodo di psicoterapia che il
terapeuta si rende conto che un determinato
paziente ha una sottostante struttura
borderline. Di solito il primo indizio è che
interventi che il terapeuta ritiene utili vengono
recepiti come attacchi. In altre parole, il
terapeuta continua a rivolgersi a un io
osservante, che però il paziente non ha:
l'unica cosa che sa è che vengono criticati
alcuni aspetti del Sé. Il terapeuta continua a
cercare di stabilire quel tipo di alleanza di
lavoro che è possibile con i pazienti di livello
nevrotico e continua a collezionare fallimenti.
Alla fine, che il clinico abbia o no acume
diagnostico, capirà che il primo compito della
terapia sarà proprio resistere alle tempeste che
continuano a presentarsi nel rapporto con
quella persona, cercando anche di comportarsi
in un modo che il paziente percepisca diverso
da tutto ciò che ha creato e favorito una
persona tanto disturbata e refrattaria a ogni
aiuto. Soltanto dopo che la terapia avrà
prodotto qualche cambiamento strutturale
significativo, e in base alla mia esperienza
occorrono almeno due anni, il paziente sarà
abbastanza diverso da capire che cosa il
terapeuta stava cercando di ottenere sul piano
del carattere. Nel frattempo, saranno stati
attenuati molti sintomi di disagio emotivo, ma
il lavoro sarà stato tempestoso e frustrante per
entrambe le parti.
Masterson (1976) ha descritto in modo molto
efficace (e altri autori di diversa prospettiva
riferiscono
in
proposito
analoghe
osservazioni) come i clienti borderline
appaiano vittime di un dilemma: quando si
sentono vicini a un'altra persona provano
panico per paura di un eccessivo
coinvolgimento e di un controllo totale;
quando si sentono separati, vivono un
abbandono traumatico. Questo conflitto
centrale della loro esperienza emotiva si
esprime nel loro continuo entrare e uscire
dalle relazioni, compresa la relazione
terapeutica, dove non è adeguata né la
vicinanza né la distanza. Vivere con tale
conflitto di base, che non risponde con
immediatezza agli sforzi interpretativi, è
estenuante per i pazienti borderline, per i loro
amici, i loro familiari e i terapeuti. Questi
pazienti sono ben noti agli operatori dei
servizi di emergenza psichiatrica, alla cui
porta spesso bussano parlando di suicidio, per
il loro comportamento di 'richiesta di aiutorifiuto di aiuto'.
Masterson ritiene che i pazienti borderline
siano rimasti fissati alla sottofase di
riavvicinamento del processo di separazioneindividuazione (Mahler, 1972b), quando il
bambino ha raggiunto un certo grado di
autonomia, ma ha ancora bisogno di essere
rassicurato dalla presenza e dalla forza del
genitore. Questo dramma si manifesta nei
bambini intorno ai due anni di età, quando
tipicamente oscillano tra il rifiuto dell'aiuto
materno ("Posso farlo da solo! ") e il loro
sciogliersi in lacrime aggrappati alle sue
ginocchia. Masterson ritiene che i pazienti
borderline nelle loro storie individuali
abbiano avuto la sfortuna di avere madri che
prima li hanno scoraggiati nei tentativi di
separazione e poi hanno rifiutato di rendersi
disponibili quando i figli avevano bisogno di
regredire, dopo aver conquistato una certa
indipendenza. Che le sue ipotesi eziologiche
siano corrette o no, le sue osservazioni sui
dilemmi di separazione e individuazione in
cui sono intrappolati i borderline riescono a
spiegare come mai i pazienti borderline siano
così mutevoli, esigenti e spesso ingannevoli.
Nel capitolo 4 discuterò le implicazioni per il
trattamento che derivano dalla condizione di
separazione-individuazione.
Nei clienti borderline i transfert sono intensi,
privi di ambivalenza e resistenti alle normali
interpretazioni. Il terapeuta può essere
percepito totalmente buono o totalmente
cattivo. Se un terapeuta pieno di buone
intenzioni, ma con poca esperienza clinica,
tenta di interpretare il transfert come si
farebbe con un nevrotico (ad esempio: "Forse
ciò che prova per me è qualcosa che ha
provato per suo padre"), si renderà conto che
a quell'interpretazione non segue alcun
sollievo o utile comprensione; spesso il
cliente sarà semplicemente d'accordo sul fatto
che il terapeuta si comporta effettivamente
come l'oggetto precedente. Inoltre, non è raro
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che un borderline in un certo stato mentale
percepisca nel terapeuta poteri e virtù divine,
e in un altro (che potrebbe presentarsi anche il
giorno dopo) lo consideri debole e spregevole.
Come il lettore può immaginare, con i clienti
borderline le reazioni di controtransfert sono
generalmente intense e disturbanti. Anche
quando non sono negative (come nei casi in
cui il terapeuta sente una profonda
compassione per il bambino disperato che
vive nel paziente borderline e ha fantasie di
salvarlo e liberarlo), possono avere qualità
disturbanti e distruttive. In contesti
ospedalieri, molti analisti (per esempio G.
Adler, 1973; Kernberg, 1981) hanno notato
che gli operatori di salute mentale tendono a
essere con i pazienti borderline troppo
solleciti (considerandoli individui deboli e
deprivati che hanno bisogno di amore per
crescere)
o
eccessivamente
punitivi
(considerandoli persone piene di pretese e
manipolative che hanno bisogno di limiti).
Nei reparti ospedalieri spesso i membri del
personale si dividono in campi opposti al
momento di discutere i piani di trattamento
dei pazienti borderline (Gunderson, 1984).
Singoli operatori che trattano pazienti esterni
possono oscillare tra una posizione e l'altra,
rispecchiando in momenti diversi entrambi i
lati del conflitto del cliente. Non è raro che il
terapeuta si senta come la madre esasperata di
un bambino di due anni che non accetta di
essere aiutato ma, senza aiuto, cade in uno
stato di frustrazione.
(sicurezza,
autonomia
o
identità),
dell'esperienza caratteristica di angoscia
(angoscia di annientamento, angoscia di
separazione, o paure più specifiche di
punizione, maltrattamento e perdita di
controllo), del conflitto evolutivo primario
(simbiotico, separazione-individuazione o
edipico), delle capacità di relazione
oggettuale (monadica, diadica o triadica) e del
senso di sé (sopraffatto, corazzato o
responsabile) rappresenti una dimensione
esaustiva della psicodiagnosi analitica.
RIEPILOGO
In questo capitolo abbiamo dato una rapida
occhiata a vecchi e nuovi modi di
discriminare tra diversi livelli maturativi di
organizzazione del carattere. A partire dalle
distinzioni di Kraepelin tra sano e folle,
attraverso le prime concezioni psicoanalitiche
che contrapponevano la nevrosi sintomatica
alla nevrosi del carattere, fino alle attuali
nosologie che mettono l'accento su strutture di
livello nevrotico, borderline o psicotico, i
terapeuti hanno tentato di dar conto delle
diverse reazioni dei clienti ai loro tentativi di
aiutarli. Ho indicato come la valutazione delle
preoccupazioni centrali di una persona
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