nel paragrafo sulla teoria pulsionale classica, sebbene oggi gli stadi fondamentali attraverso cui passano i bambini siano considerati meno legati alle vicissitudini pulsionali rispetto alla concezione originaria di Freud, la psicoanalisi non ha mai messo seriamente in questione tre delle sue principali convinzioni: (1) i problemi psicologici attuali riflettono precursori infantili; (2) le interazioni nei primissimi anni di vita costituiscono il modello secondo cui più tardi assimileremo l'esperienza, rendendola inconsciamente comprensibile in base a categorie che avevano importanza nell'infanzia; (3) l'identificazione del livello evolutivo di una persona è un fattore cruciale per la sua comprensione. E interessante notare che, ignorandone la successiva revisione, le stesse tre fasi di organizzazione psicologica infantile1 continuano a comparire nella teoria psicoanalitica dello sviluppo: (1) da un anno e mezzo ai due anni (fase orale di Freud); (2) il periodo che va da un anno e mezzo-due a circa tre anni (fase anale di Freud); (3) il periodo compreso tra tre-quattro anni e circa sei (periodo edipico di Freud). L'indicazione approssimativa delle fasce di età riflette la presenza di differenze individuali nei bambini; la sequenza è sempre la stessa, anche se un bambino è precoce o si sviluppa in ritardo. Molti teorici hanno discusso aspetti dei compiti propri di queste fasi, ponendo alternativamente l'accento sulla dimensione pulsione-difesa, sullo sviluppo dell'Io o sulle immagini di sé e degli altri che le caratterizzano. Alcuni hanno accentuato i problemi comportamentali, altri quelli cognitivi, altri ancora la maturazione affettiva del bambino. Alcuni, come Daniel Stern (1985), hanno sottoposto ad ampia critica le teorie prevalenti degli stadi, alla luce delle ricerche recenti sullo sviluppo infantile. Tuttavia, è molto probabile che la rilevanza clinica di alcune concezioni degli stadi psicologici garantisca la loro sopravvivenza nelle I livelli evolutivi dell'organizzazione della personalità di Nancy McWilliams (La diagnosi psicoanalitica. Struttura delle personalità e processo clinico, Astrolabio, Roma 1999, 60-86) Questo capitolo tratterà quei problemi di maturazione intorno ai quali si può organizzare il carattere di una persona, ossia quell'aspetto della struttura di personalità definito normalmente, usando la terminologia di Freud, fissazione. Esaminerò le implicazioni della presunta fissazione a tre possibili livelli di sviluppo psicologico. A questo punto, mi si consenta di esporre la più importante premessa diagnostica di questo testo: Non è possibile comprendere la struttura essenziale del carattere di un essere umano senza valutare due dimensioni distinte e tra loro interagenti: il livello evolutivo dell'organizzazione di personalità e lo stile difensivo all'interno di quel livello. La prima dimensione descrive il grado di individuazione o di patologia (psicotico, borderline, nevrotico, 'normale') della persona; la seconda identifica il tipo di carattere (paranoide, depressivo, schizoide, ecc.). Un mio caro amico, un uomo che non ha nessuna esperienza di psicoterapia e che non riesce neanche a immaginare per quale ragione qualcuno possa impegnarsi in un campo in cui si passano ore e ore ad ascoltare i problemi degli altri, cercava di capire perché fossi interessata a scrivere questo libro. "Per me è semplice", diceva, "io conosco solo due categorie di persone: (1) svitate e (2) non svitate». Gli risposi che nella teoria psicoanalitica, che presume che in una certa misura siamo tutti irrazionali, abbiamo anche altre due specificazioni fondamentali: (1) Quanto svitate? e (2) Svitate in quale modo particolare? Come ho ricordato brevemente 1 Il lettore deve ricordare che la consuetudine psicoanalitica ha stabilito che la parola 'infantile' si riferisca a tutto il periodo prescolare della maturazione emotiva, cognitiva, comportamentale e sensoriale del bambino. 1 nostre formulazioni concettuali. Gertrude e Rubin Blank (1974, 1979, 1986) si sono adoperati in modo particolare a tradurre i concetti di maturazione in precise applicazioni terapeutiche. La recente sintesi della teoria psicoanalitica dello sviluppo operata da Phyllis e Robert Tyson (1990) copre magistralmente l'intero territorio. Per gli scopi di un testo introduttivo come il nostro, riassumerò in particolare leidee di Erik Erikson e Margaret Mahler, i quali hanno indagato le specifiche competenze dell'Io in via di maturazione e le esperienze parallele di sé e dell'oggetto. Non è mai stato dimostrato, con mia soddisfazione - e qui mi trovo in buona compagnia (si veda la ricerca di Masling [1986]) - che le persone con molte qualità 'orali' abbiano livelli di psicopatologia più gravi di coloro che hanno caratteristiche che gli analisti considerano anali o edipiche, anche se la definizione di Freud di questi, primi tre stadi di sviluppo, dedotti sulla base, dei concetti pulsionali, ha molta presa intuitiva e in una certa misura si correla con il tipo di personalità (le persone depresse di qualsiasi livello di salute o di patologia tendono a manifestare oralità; le persone ossessive hanno notoriamente preoccupazioni di tipo anale, che l'ossessività costituisca o no un problema per loro). Ho parlato in precedenza del fallimento del tentativo di Karl Abraham di correlare il grado di psicopatologia con il tipo di organizzazione pulsionale, e dopo di lui nessun altro ci è riuscito in maniera convincente. Eppure esistono prove cliniche sostanziali e ricerche empiriche (per esempio L. Silverman, Lachman e Milich, 1982) a sostegno della correlazione tra livello di sviluppo egoico e differenziazione sé-altro, da un lato, e salute o patologia dell'organizzazione di personalità, dall'altro. In una certa misura questa correlazione è definitoria e quindi tautologica: individuare livelli primitivi di sviluppo dell'Io e delle relazioni oggettuali equivale a dire che una persona è 'malata', mentre considerare qualcuno ossessivo o schizoide non significa necessariamente attribuirgli una patologia. Ma questo modo di contrapporre la sanità psicologica al disturbo, in base alle categorie della psicologia dell'Io, delle relazioni oggettuali e della psicologia del Sé, ha profonde implicazioni cliniche per diversi tipi di carattere. Segue ora una breve storia dei tentativi psicoanalitici di fare distinzioni diagnostiche sulla base dell'intensità o della 'profondità' delle difficoltà invece che del tipo di personalità. IL CONTESTO STORICO: DIAGNOSTICARE IL LIVELLO DI PATOLOGIA DEL CARATTERE Prima dell'avvento della psichiatria descrittiva nel XIX secolo, venivano riconosciute alcune forme di disturbo mentale che si riscontravano con una certa frequenza tra le persone del mondo cosiddetto 'civile', e presumibilmente molti osservatori facevano distinzioni tra sano e malato allo stesso modo in cui il mio amico inesperto di psicologia distingueva tra 'svitati' e 'non svitati'. La persona sana è quella che è più o meno d'accordo con ciò che costituisce la realtà; la persona mentalmente malata si distacca da tale consenso. A uomini e donne che presentavano condizioni isteriche, fobie, ossessioni, compulsioni e tendenze maniaco-depressive, di intensità minore di quella che oggi definiamo psicotica, venivano attribuite difficoltà psicologiche molto vicine alla vera e propria pazzia. Persone che soffrivano di allucinazioni, deliri e disturbi del pensiero venivano considerate completamente folli. Coloro che oggi definiamo antisociali venivano giudicati affetti da 'follia morale' (Pritchard, 1835), ma si pensava che fossero mentalmente in contatto con la realtà. Questa tassonomia alquanto grezza sopravvive ancora nelle categorie del sistema legale, che considera in primo luogo se la persona accusata di un crimine fosse capace di valutare la realtà nel momento in cui lo ha commesso. 2 LA DIAGNOSI KRAEPELINIANA: NEVROSI E PSICOSI Emil Kraepelin (1856-1926) viene di solito considerato il padre della classificazione diagnostica contemporanea, per il suo tentativo di osservare attentamente le persone che soffrivano di disturbi emotivi e mentali allo scopo di identificare sindromi generali dalle caratteristiche comuni. Inoltre, egli sviluppò alcune teorie sulla loro eziologia, per distinguere almeno le loro origini in esogene, e quindi curabili, o endogene, e quindi incurabili (Kraepelin, 1913). E interessante notare che egli collocò la psicosi maniaco-depressiva nella prima categoria, e la schizofrenia, allora conosciuta come dementia praecox e ritenuta una degenerazione organica del cervello, nella seconda. Fu allora che si cominciò a pensare che il 'pazzo' era una persona afflitta da una delle diverse possibili malattie documentate. Freud accettò molti termini kraepeliniani che descrivono difficoltà emotive e mentali, ma andò oltre la descrizione e i semplici livelli di inferenza, spingendosi verso formulazioni teoriche più speculative. Tra gli altri contributi, la teoria di Freud enunciava complesse spiegazioni epigenetiche, preferibili alle semplici descrizioni di Kraepelin di una causalità interna/esterna. Freud considerava la psicopatologia in base alle categorie allora disponibili. Ad esempio, se un uomo era disturbato da ossessioni (per esempio il paziente di Freud noto come 'uomo dei lupi' [Freud, 1918; Gardiner, 1971]), egli lo avrebbe descritto come affetto da nevrosi ossessiva. Al termine della sua carriera, Freud cominciò a distinguere tra una condizione ossessiva in una persona per altri aspetti non ossessiva e un'ossessione che invece faceva parte di un carattere ossessivo compulsivo. Ma furono analisti successivi (per esempio Eissler, 1953; Homer, 1990) a fare le distinzioni che costituiscono l'oggetto di questo capitolo, e cioè tra (1) la persona ossessiva essenzialmente delirante, che usa pensieri ruminanti per evitare una totale scompensazione psicotica, (2) la persona la cui ossessione è parte di una struttura di personalità borderline (come nell"uomo dei lupi'), e (3) la persona ossessiva con un'organizzazione di personalità nevrotica-normale. Prima che emergesse la categoria 'borderline', a metà del XX secolo, i terapeuti di orientamento analitico seguivano Freud nel differenziare solo tra il livello nevrotico e quello psicotico di patologia, il primo caratterizzato da una generale percezione della realtà, il secondo da una perdita di contatto con essa. Una donna nevrotica sa, a qualche livello, che il suo problema sta nella sua testa; quella psicotica crede che sia il mondo a non essere in ordine. Quando Freud sviluppò il modello strutturale della mente, questa distinzione assunse la qualità di un commento sull'infrastruttura psicologica di una persona. La sofferenza dei nevrotici è quindi dovuta a difese dell'Io troppo automatiche e inflessibili, che impediscono il contatto con le energie dell'Es utilizzabili per attività creative; quella degli psicotici è dovuta invece a difese dell'Io troppo deboli per riuscire ad arginare il materiale primitivo proveniente dall'Es. La distinzione tra nevrotico e psicotico ha avuto ramificazioni cliniche importanti, alcune delle quali vengono ancora insegnate nelle loro forme più semplicistiche in alcune istituzioni di salute mentale. Il nucleo degli effetti clinici di tale nosologia, una volta associata al modello strutturale di Freud, era che la terapia del nevrotico implicava l'indebolimento delle difese per ottenere accesso all'Es, in modo da renderne disponibili le energie per attività più costruttive. All'opposto, la terapia dello psicotico doveva proporsi di rafforzare le difese, risolvere le preoccupazioni primitive, modificare tutte le situazioni che fossero realisticamente fonte di tensione in modo da diminuirne l'effetto negativo, incoraggiare l'esame di realtà e respingere nell'inconscio l'Es traboccante. Era come se il nevrotico fosse una pentola in ebollizione con il coperchio troppo serrato e il compito del terapeuta fosse quello di lasciar uscire un po' di vapore; mentre lo psicotico una pentola traboccante e il terapeuta deve rimettere il coperchio e abbassare la temperatura. 3 Molti allievi hanno sentito qualche supervisore raccomandare di attaccare le difese con i pazienti più sani e sostenerle invece con gli Schizofrenici e altri psicotici. Con l'avvento dei farmaci antipsicotici questa formulazione si presta alla diffusa tendenza nn solo a somministrare psicofarmaci, che sono spesso la risposta pietosa a livelli psicotici di angoscia, ma anche ad affermare che la cura farmacologica possa realizzare un'efficace barriera e che dovrebbe durare per tutta la vita. Con una persona potenzialmente psicotica non si penserebbe certo di fare una terapia mirata all'emergere dell'inconscio: disturberebbe le fragili difese del paziente e potrebbe mandarlo nuovamente oltre il confine. In generale, questo modo di concettualizzare il livello di patologia non è privo di utilità: ha infatti aperto la strada allo sviluppo di metodi terapeutici alternativi per tipi diversi di difficoltà. Ma si discosta troppo dall'ideale di una formulazione ampia e clinicamente adeguata alle diverse sfumature individuali. Ogni teoria opera semplificazioni, ma questa differenziazione tra nevrotico e psicotico, anche con l'elegante fondamento strutturale di Freud e le sue implicazioni terapeutiche, ha dato soltanto il via alla possibilità di un’utile diagnosi inferenziale. Il modello è troppo grossolano per consentire a un operatore sensibile di trarvi idee specifiche su quale tipo di relazione umana risulterà terapeutico e per quale tipo di essere umano. modelli nevrotici. (Questa distinzione continua a essere inclusa nel DSM, nel quale le condizioni definite 'disturbo' corrispondono a quelle che gli analisti hanno tipicamente definito nevrosi e le condizioni definite 'disturbo di personalità' ricordano il vecchio concetto analitico di carattere nevrotico). Per valutare se avevano a che fare con una nevrosi sintomatica o con un problema caratteriale, i terapeuti venivano addestrati a cercare i seguenti tipi di informazione nel colloquio iniziale con una persona che lamentava disagi di livello nevrotico: 1. E identificabile attualmente un fattore precipitante di quella difficoltà, o esisteva in una certa misura anche in passato, fin dove arriva il ricordo del paziente? 2. C'è stato un incremento massiccio dell'angoscia del paziente, con speciale riguardo ai sintomi nevrotici, o c'è stato soltanto un peggioramento dello stato affettivo generale? 3. Il paziente ha deciso autonomamente di iniziare una terapia o sono stati altri (parenti, amici, il sistema legale o qualche altra fonte) a indirizzarlo? 4. La persona ha sintomi egoalieni (considerati problematici e irrazionali) o si tratta di sintomi egosintonici (considerati l'unico modo ovvio che si possa immaginare per reagire alle circostanze attuali della vita)? 5. La persona è in grado di avere qualche prospettiva sui propri problemi ('l'Io osservante' nel linguaggio analitico) che consenta di sviluppare un'alleanza con il terapeuta contro il sintomo problematico, o invece il paziente considera il clinico come un estraneo potenzialmente ostile o un salvatore dotato di poteri magici? In tutte le possibilità qui sopra elencate, la prima alternativa era ritenuta prova di un problema sintomatico; la seconda di un problema del carattere (si veda Nunberg, 1955). II significato di questa distinzione sta nelle sue implicazioni per il trattamento e la prognosi. Se il cliente soffre di una nevrosi sintomatica, allora si può ritenere che qualcosa nella sua vita attuale abbia attivato LE CATEGORIE DIAGNOSTICHE DELLA PSICOLOGIA DELL'IO: LA NEVROSI SINTOMATICA, IL CARATTERE NEVROTICO E LA PSICOSI Nella comunità psicoanalitica, oltre alla distinzione tra nevrosi e psicosi, gradualmente cominciarono ad apparire all'interno della categoria della nevrosi differenziazioni relative al livello di disadattamento e non semplicemente al tipo di psicopatologia. La prima differenziazione di rilevanza clinica fu tra 'nevrosi sintomatica' e 'nevrosi del carattere' (W. Reich, 1933). Dall'esperienza professionale i terapeuti avevano appreso che era utile distinguere tra chi ha una specifica nevrosi e chi ha un carattere permeato di 4 un conflitto infantile inconscio e che il paziente stia ora utilizzando meccanismi disadattivi per fronteggiarlo, ossia metodi che potevano rappresentare la migliore soluzione possibile nell'infanzia, ma che adesso creano più problemi di quanti ne risolvano. In casi simili il compito consiste nell'individuare il conflitto, nell'aiutare il paziente a elaborare le emozioni che vi sono connesse e a sviluppare nuove soluzioni per affrontarlo. La prognosi è favorevole e il trattamento non avrebbe richiesto necessariamente anni di lavoro (si veda Menninger, 1963). E anche possibile aspettarsi un clima di reciprocità nel processo terapeutico, un clima nel quale possono emergere forti reazioni di transfert (e controtransfert), ma di solito nel contesto di un grado ancora più forte di cooperazione realistica. Se invece le difficoltà del paziente sono meglio concettualizzabili come espressione di un problema caratteriale o di personalità, il compito terapeutico sarebbe stato più complesso, più difficile e prolungato, e la prognosi più cauta. Naturalmente questo è solo buon senso, dato che il progetto di modificare la personalità di un individuo è ovviamente più rischioso che non semplicemente aiutarlo a eliminare una risposta disadattiva a una particolare situazione di tensione. Ma la teoria analitica è andata oltre il senso comune quando ha specificato in che modo il lavoro sul carattere di base di una persona differisce dal lavoro su un sintomo che non è parte integrante della personalità. In primo luogo, non si può dare per scontato che ciò che il paziente vuole (un sollievo immediato dalla sofferenza) e ciò che il terapeuta ritiene necessario per portarlo alla guarigione e dargli gli strumenti per affrontare difficoltà future (ristrutturazione della personalità) siano considerati compatibili dal paziente stesso. In circostanze nelle quali ci sia divergenza tra le mete del paziente e l'idea dell'analista di come perseguire obiettivi realistici, il ruolo educativo dell'analista assume un ruolo centrale per l'esito della relazione terapeutica. Compito del terapeuta diventa allora prima di tutto comunicare al paziente il proprio modo di vedere il problema. La formula psicoanalitica ditale processo è: "rendere egoalieno ciò che prima era egosintonico". Ad esempio, un contabile di 30 anni una volta mi interpellò perché desiderava "raggiungere un maggior equilibrio" nella vita. Destinato a realizzare le speranze della famiglia, con la missione di compensare le ambizioni fallite del padre, egli lavorava duramente fino alla compulsività. Temeva di perdere anni preziosi con i figli piccoli, che poteva godersi soltanto se riusciva a frenare la spinta incessante al lavoro. Voleva che io sviluppassi insieme a lui un 'programma' che prevedesse quanto tempo dedicare ogni giorno all'esercizio fisico, a giocare con i figli, quanto ancora a un hobby, e così via. Il programma proposto comprendeva anche spazi destinati ad attività di volontariato, a guardare la televisione, a cucinare, a sbrigare le faccende domestiche e a fare l'amore con la moglie. Nella seduta successiva al nostro primo incontro egli portò uno schema ditali cambiamenti: pensava che se fossi riuscita a fargli rispettare quel programma, i suoi problemi si sarebbero risolti. Il mio primo compito consisteva nel fargli capire che quella soluzione faceva parte del problema: egli si accostava alla terapia con la stessa compulsività di cui si lamentava, e si proponeva di raggiungere la serenità di cui aveva bisogno come se fosse un altro lavoro. Gli dissi che era molto abile nel fare, ma evidentemente aveva avuto scarsa esperienza nel semplice essere. Comprese intellettualmente questa comunicazione, ma non ebbe nessun ricordo emotivamente rilevante di un approccio alla vita meno compulsivo; mi guardò con un misto di speranza e scetticismo. Sebbene il semplice fatto di raccontare la propria storia a qualcun altro gli avesse procurato un breve periodo di sollievo dalla depressione, ritenevo che egli dovesse abituarsi all'idea che, per evitare in futuro quel tipo di sofferenza, aveva bisogno di portare alla consapevolezza cosciente e riconsiderare alcune premesse importanti della sua vita. 5 In secondo luogo, lavorando con qualcuno che ha un carattere fondamentalmente nevrotico, non si può dare per scontata la rapida comparsa di un"alleanza di lavoro' (Greenson, 1967). E infatti necessario creare le condizioni in cui tale alleanza possa svilupparsi. Il concetto di alleanza terapeutica o di lavoro si riferisce alla dimensione collaborativa tra terapeuta e cliente, a quel livello di cooperazione che permane nonostante le emozioni forti e spesso negative che possono manifestarsi nel corso del trattamento. Il concetto di alleanza di lavoro, di cui è stata messa in discussione la validità come costrutto metapsicologico (si veda Rawn, 1991), è estremamente significativo sul piano dell'esperienza clinica psicoanalitica ed è molto utile per valutare ciò che accade tra terapeuta e cliente. Persone con nevrosi sintomatiche percepiscono nel terapeuta che si oppone una parte problematica del Sé; con esse non c'è bisogno di un lungo periodo in cui sviluppare una prospettiva comune. Al contrario, con coloro che stanno imparando un modo completamente nuovo di pensare la propria personalità totale, il problema fa talmente parte del Sé che si sentono facilmente soli e attaccati dal terapeuta. La diffidenza è inevitabile e deve essere pazientemente tollerata da entrambe le parti, fino a che il terapeuta non si sia guadagnato la fiducia del paziente. Con alcuni pazienti, questo processo di costruzione di un'alleanza può richiedere più di un anno. Ovviamente, quando si deve creare tale alleanza l'approccio terapeutico è completamente diverso rispetto a quando si lavora presumendo che già esista. In terzo luogo, ci si può aspettare che il contenuto del lavoro terapeutico con una persona che ha un problema caratteriale, piuttosto che sintomatico, sia meno eccitante, meno sorprendente e meno vivace. Quali che siano le rispettive fantasie del terapeuta e del paziente circa l'emergere di spettacolari ricordi rimossi o conflitti inconsci, entrambi devono accontentarsi di un processo molto più prosaico: il diligente scioglimento di tutti gli intrecci che hanno creato quel nodo emotivo che il paziente fino ad allora aveva semplicemente ritenuto l'unico modo in cui le cose dovessero andare, e la lenta elaborazione di qualche modalità diversa di pensare e trattare i sentimenti nelle relazioni umane. Nello sviluppo dei disturbi di personalità, in contrasto con la comparsa di reazioni nevrotiche a particolari tensioni, si rintracciano antichi modelli di identificazione, apprendimento e rinforzo. Nei casi in cui l'eziologia sia traumatica, si hanno casi di traumi ripetuti, piuttosto che un unico evento dannoso, non assimilato e non elaborato, come ci avevano fatto credere le prime rappresentazioni hollywoodiane della terapia psicoanalitica.2 Di conseguenza, ci si potrebbe aspettare che nella terapia delle nevrosi del carattere entrambe le parti debbano affrontare momenti occasionali di noia, intolleranza, irritabilità e demoralizzazione, espressi dal paziente senza paura delle critiche e utilizzati dal terapeuta per accrescere la sua empatia verso l'impegno del paziente in un compito così lungo e difficile. La distinzione tra sintomi nevrotici e personalità nevrotica ha tuttora un'applicazione significativa. Psychotherapy of Neurotic Character di Sidney Shapiro (1989) è un buon esempio recente di spiegazione ordinata del concetto di patologia del carattere e di cosa ci si può attendere nel condurne un trattamento sistematico. Questa distinzione si colloca nella lunga tradizione psicoanalitica, iniziata con Reich e proseguita attraverso Fenichel e altri, di considerare il carattere nel contesto della psicologia dell'Io e di utilizzarne i concetti per aiutare persone con difese mature, ma troppo rigide, ad allentane e a sviluppare modi più creativi ed efficaci di rispondere alle sfide della vita. Per un lungo periodo le categorie di nevrosi sintomatica, nevrosi del carattere e psicosi hanno rappresentato i principali costrutti attraverso i quali i diagnosti comprendevano le differenze di personalità sulla dimensione 2 Per un breve periodo la psicoanalisi è stata considerata con grande favore dall'industria cinematografica; si veda, ad esempio, il classico thriller di Hitchcock Io ti salverò. 6 della gravità del disturbo. La nevrosi era la condizione meno grave, un disturbo della personalità era più grave e un disturbo psicotico era gravissimo. Queste formulazioni mantenevano la vecchia distinzione tra sano di mente e folle; la prima categoria includeva due possibilità: reazioni nevrotiche e personalità strutturate nevroticamente. Col tempo, tuttavia, alla comunità di salute mentale divenne evidente che tale schema globale di classificazione era incompleto e fuorviante. Un inconveniente di questa tassonomia è l'implicazione che tutti i problemi del carattere siano per definizione più patologici di qualunque nevrosi. Ancora oggi è possibile ritrovare questo assunto nel DSM, dove i criteri diagnostici di molte sindromi elencate nel capitolo dedicato ai disturbi di personalità includono deterioramenti significativi del funzionamento. Terapeuti esperti confermeranno che alcune reazioni di livello nevrotico legate a situazioni di tensione sono più inabilitanti di certi disturbi di personalità, per esempio isterici o ossessivi. A rendere la questione ancor più complessa, c'è anche un problema nell'altra direzione: alcuni disturbi del carattere appaiono molto più gravi e primitivi di qualunque altro disturbo che possa ragionevolmente essere definito 'nevrotico'. Possiamo osservare che in questo sistema lineare tripartito di classificazione non c'è modo di distinguere tra i disturbi del carattere moderatamente inabilitanti e quelli che comportano conseguenze più serie. Un problema può riguardare il carattere e collocarsi a qualsiasi livello di gravità. II confine tra 'tratti' di personalità benigni e moderati 'disturbi' di personalità è assolutamente sfumato; e all'altro estremo del continuum si è a lungo pensato che alcuni disturbi di personalità includessero tali distorsioni sostanziali dell'Io da renderli più vicini alla psicosi che alla nevrosi. Ad esempio, la sociopatia e quelli che oggi verrebbero considerati i livelli più gravi di patologia narcisistica per un certo periodo sono stati considerati semplici varianti dell'individualità umana, ma fino a poco tempo fa esisteva la tendenza a considerarli casi speciali di anormalità in qualche modo fuori dalla portata di un possibile intervento terapeutico e non facilmente collocabili sul continuum che va dalla nevrosi al disturbo del carattere fino alla psicosi. DIAGNOSI IN BASE ALLA TEORIA DELLE RELAZIONI OGGETTUALI: LA PSICOPATOLOGIA BORDERLINE Verso la fine del XIX secolo alcuni osservatori psichiatrici notarono che certi pazienti sembravano abitare in un territorio psicologico 'di confine' tra sanità mentale e pazzia (Rosse, 1890) e a metà del XX secolo cominciarono a emergere altre idee sull'organizzazione di personalità, che ugualmente rimandavano a una zona intermedia tra-la nevrosi e la psicosi. Helene Deutsch (1942), ad esempio, propose il concetto di 'personalità come-se' per indicare un sottogruppo di persone che oggi definiremmo gravemente narcisistiche; Hoch e Polatin (1949) proposero la categoria della 'schizofrenia pseudonevroticà. Dalla metà degli anni cinquanta la comunità di salute mentale aveva condiviso il disagio di questi innovatori per i limiti del modello nevrosi-psicosi. Numerosi analisti cominciarono a lamentarsi di clienti che apparivano affetti da disturbi del carattere, ma in modo particolarmente caotico: poiché raramente o mai riferivano allucinazioni o deliri, non potevano essere considerati psicotici, ma erano anche privi della stabilità e della prevedibilità dei pazienti di livello nevrotico e sembravano sofferenti in modo molto più globale e meno comprensibile dei nevrotici. Nel corso del trattamento psicoanalitico a volte questi pazienti diventavano temporaneamente psicotici, ma fuori dallo studio dell'analista la loro instabilità aveva una singolare stabilità. In altre parole, erano troppo sani per essere considerati pazzi e troppo pazzi per essere considerati sani. I terapeuti cominciarono a suggerire nuove definizioni diagnostiche che coglievano la qualità di queste persone che vivevano al confine tra disturbi del carattere nevrotici e psicotici. Nel 1953 Knight pubblicò un 7 ponderoso saggio sugli 'stati borderline'. Negli stessi anni T. E Main (1957) si riferiva a tale patologia semplicemente con l'espressione "Il disturbo" [The Ailment]. Frosch (1964), in risposta a fenomeni cimici simili, suggerì la categoria diagnostica di 'carattere psicotico'. Nel 1968, Roy Grinker e i suoi colleghi (Grinker, Werble e Drye, 1968) condussero uno studio che forniva sostegno empirico all'esistenza di una 'sindrome borderline' inerente alla personalità, con una gamma di gravità che andava dal confine con le nevrosi a quello con le psicosi. Gunderson e Singer (per esempio 1975) svilupparono programmi di ricerca controllata per sottoporre il concetto a verifiche empiriche e, alla fine, attraverso la ricerca e i dati clinici, e grazie anche alle riflessioni di autori come Kernberg (per esempio 1975, 1976), Masterson (per esempio 1976) e M. Stone (per esempio 1986), il concetto di livello borderline di organizzazione della personalità venne largamente accettato dalla comunità psicoanalitica. Sebbene a volte il termine 'borderline' venga ancora oggi riferito (in modo inappropriato) a persone considerate ad alto rischio di scissione psicotica, e sebbene copra una gamma di sintomi talmente ampia da prestarsi alla cattiva abitudine di farvi rientrare ogni paziente 'difficile', quando non ci si voglia prendere il disturbo di diagnosticarlo con attenzione, la definizione viene oggi ampiamente intesa per denotare un tipo di struttura di personalità più grave nelle sue implicazioni della nevrosi, ma non suscettibile di scompensi psicotici permanenti. Nel 1980 il termine ha acquisito sufficiente legittimazione da apparire nella terza edizione del DSM (DSM-III; American Psychiatric Association, 1980), come tipo di disturbo di personalità.3 Lo sviluppo all'interno della psicoanalisi del punto di vista delle relazioni oggettuali ha fornito un inquadramento teorico a molte di queste osservazioni cliniche; dalla seconda metà del XX secolo molti cimici orientati analiticamente, che si sforzavano di aiutare clienti che oggi riconosciamo come borderline, si sono ritrovati a trarre ispirazione e conferma dagli scritti di autori appartenenti al gruppo interpersonale americano e al movimento inglese delle relazioni oggettuali, che prestavano attenzione alle figure chiave dell'infanzia e alle loro rappresentazioni interiorizzate. Questi teorici sottolineavano particolarmente la comprensione dell'esperienza di relazione, attaccamento e separazione dei pazienti: la persona è coinvolta in problematiche simbiotiche o di separazione-individuazione, o esprime temi di identificazione e competizione più evoluti? A metà del secolo anche la rielaborazione di Erikson (1950) dei tre stadi infantili di Freud in termini di compiti interpersonali del bambino, e non solo come preoccupazioni pulsionali, influenzò i terapeuti nel senso che rendeva possibile distinguere pazienti con fissazione a problemi primari di dipendenza (fiducia/sfiducia), a problemi secondari di separazione-individuazione (autonomia/vergogna e dubbio), o a livelli più avanzati di identificazione (iniziativa/colpa). Questi concetti di stadi di sviluppo psicologico spiegavano le differenze che i terapeuti notavano tra pazienti di livello non un tipo di patologia. Si può essere una personalità isterica borderline, ossessiva borderline, narcisistica borderline e così via; si può essere organizzati narcisisticamente a livello nevrotico, borderline o psicotico. Inserire il termine 'borderline' insieme a definizioni di personalità quali istrionico, ossessivo compulsivo e narcisistico, come se fosse parallelo rispetto a queste, significa mettere insieme mele e arance o, meglio ancora, mettere insieme una definizione più specifica come 'mele' con una più generica come 'frutta'. (Tra i teorici analitici c'è disaccordo sul fatto che il termine debba identificare un livello o un tipo di struttura di personalità, con Kernberg, tra gli altri, che propone la prima ipotesi e Gunderson la seconda; da parte mia ho qui seguito Kernberg poiché il suo modello ha avuto maggiore influenza sulla pratica clinica). 3 Per i terapeuti analitici si è trattato di un fatto molto significativo, dato che il riconoscimento della categoria generale di organizzazione borderline della personalità ha confermato un concetto che ha un'enorme rilevanza analitica. Sebbene la diagnosi sia stata inserita nella parte dedicata ai disturbi della personalità del DSM-III e successive edizioni, tuttavia il lettore non ha modo di sapere che questa definizione rappresenta un livello e 8 psicotico, borderline e nevrotico. Chi si trova in una condizione psicotica appare fissato a un livello fusionale, precedente alla separazione, in cui non riesce a differenziare ciò che è dentro di sé da ciò che è fuori; chi è in una condizione borderline è invece fissato su conflittualità diadiche tra fusione totale, che teme possa cancellare la sua identità, e totale isolamento, equiparato a un abbandono traumatico; infine chi ha difficoltà nevrotiche, pur avendo portato a termine il compito di separazione-individuazione, si dibatte in conflitti tra, per esempio, ciò che desidera e ciò che teme, il cui prototipo è il dramma edipico. Questo modo di pensare ha permesso di dare un senso a molte situazioni cliniche intricate e frustranti e ha consentito di comprendere per quale ragione, per esempio, la salute psichica di una donna fobica sia appesa a un filo, mentre una seconda appaia stranamente stabile nella sua instabilità fobica, e una terza, nonostante abbia anche lei una fobia, sia un perfetto esempio di salute mentale. C'è a questo punto, all'interno della tradizione psicoanalitica e anche al di fuori, una vasta letteratura sulla psicopatologia borderline nella quale si coglie una sorprendente divergenza di opinioni sulla sua eziologia. Alcuni ricercatori (per esempio M. Stone, 1977) hanno messo l'accento sulle predisposizioni costituzionali e neurologiche; alcuni (per esempio Masterson, 1972, 1976; G. Adler, 1985) hanno sottolineato i fallimenti evolutivi, specialmente nella fase di separazione-individuazione descritta dalla Mahier (1971); alcuni (per esempio Kernberg, 1975) hanno ipotizzato un'interazione aberrante madre-bambino in una fase precoce dello sviluppo infantile; altri (per esempio Mandelbaum, 1977; Rinsley, 1982) hanno sottolineato la labilità dei confini tra membri di sistemi familiari disfunzionali; altri ancora (per esempio McWilliams, 1979; Westen, 1993) hanno fatto speculazioni di tipo sociologico. Recentemente sono emerse prove sostanziali che il trauma, in particolar modo l'incesto, gioca nello sviluppo delle dinamiche borderline un ruolo molto maggiore di quanto si sospettasse in precedenza (per esempio Wolf e Alpert, 1991). Qualunque sia l'eziologia dell'organizzazione borderline di personalità, che probabilmente è molto complessa e varia da persona a persona, operatori di prospettive diverse hanno ottenuto un incredibile consenso sulle manifestazioni cliniche del livello borderline. In particolar modo, quando un clinico è addestrato sui tipo di informazione, oggettiva o soggettiva, da cercare e ottenere, la diagnosi di livello borderline della struttura del carattere può essere facilmente confermata o confutata (per esempio attraverso l"intervista strutturale' di Kernberg [1984]). Abitualmente i terapeuti di orientamento dinamico tendono a dare una valutazione globale quanto più precocemente possibile nella transazione terapeutica, per stabilire se la struttura di carattere della persona sia essenzialmente nevrotica, borderline o psicotica. Una volta compiuta la distinzione primaria, il clinico può passare a determinare quale tipo di personalità nevrotica, borderline o psicotica sarà oggetto dell'impegno terapeutico. Nonostante l'eccessiva semplificazione, l'utilità clinica della formula seguente trova un certo consenso: Le persone vulnerabili alla psicosi sono da considerare psicologicamente fissate ai problemi della fase simbiotica precoce; le persone con organizzazione borderline sono riconoscibili dalla loro preoccupazione su temi di separazione-individuazione; coloro che hanno una struttura nevrotica possono essere utilmente descritti in termini più edipici. Le ragioni dello sviluppo di questa formula e della sua rilevanza clinica saranno esposte rispettivamente nel paragrafo seguente e nel capitolo 4. DIMENSIONI SPECIFICHE DELLO SPETTRO NEVROTICO-BORDERLINEPSICOTICO Nei paragrafi che seguono distinguerò i livelli nevrotico, borderline e psicotico di struttura del carattere in diverse aree (difese prevalenti, livello di integrazione dell'identità, adeguatezza dell'esame di realtà, capacità di osservare la propria patologia, natura del conflitto primario, possibili dimensioni del transfert e del controtransfert), specificando 9 come queste astrazioni si manifestino in comportamenti e comunicazioni riconoscibili nel contesto di un colloquio iniziale o nel corso del trattamento. Nel capitolo 4 esaminerò le implicazioni che hanno tali differenziazioni per il metodo di trattamento e le aspettative del clinico e del cliente. conflitto più indiscriminate come il diniego, la scissione, l'identificazione proiettiva e altri meccanismi arcaici. Myerson (1991) ha descritto come le cure genitoriali empatiche nei primi anni permettano al bambino di provare forti sentimenti e stati affettivi primitivi senza doversi aggrappare a modalità infantili per gestirli. Quando il bambino crescerà, quegli stati mentali intensi e spesso dolorosi verranno messi da parte e dimenticati, e non più ripetutamente vissuti e quindi negati, scissi o proiettati. Potranno riemergere in un trattamento intensivo di lunga durata, quando analista e analizzando insieme, in condizioni di sicurezza che producono una 'nevrosi di transfert', ripercorrono diversi livelli di rimozione; normalmente, però, affetti primitivi e modalità arcaiche non caratterizzano coloro che si trovano nella gamma nevrotica. Persino nel trattamento psicoanalitico profondo il cliente nevrotico conserva le capacità più razionali e oggettive anche nel mezzo di una tempesta emotiva e delle sue distorsioni. Persone con una struttura del carattere più sana possiedono anche un senso integrato della propria identità (Erikson, 1968). Il loro comportamento mostra una certa coerenza e hanno un'esperienza interiore di continuità temporale del Sé. Alla richiesta di descrivere se stesse, queste persone non hanno difficoltà a trovare le parole, né rispondono in modo unidimensionale; di solito sono in grado di delineare il proprio temperamento generale, i valori, i gusti, le abitudini, le convinzioni, le qualità e i difetti con una certa sensazione di stabilità. Alla richiesta di descrivere altri importanti della loro vita, quali i genitori o i partner sentimentali, ne danno un'immagine variegata e sembrano cogliere la serie complessa e insieme coerente di qualità che caratterizza una personalità. Di solito le persone di livello nevrotico hanno un solido contatto con ciò che tutti chiamano 'realtà'. Non soltanto non sono inclini a interpretazioni allucinatorie o deliranti dell'esperienza (tranne che sotto qualche influsso chimico o organico, oppure nei flashback post-traumatici), ma spesso sor- Caratteristiche della struttura di personalità a livello nevrotico Uno dei paradossi dei linguaggio psicoanalitico contemporaneo è che il termine 'nevrotico' venga oggi riservato a persone talmente sane sul piano emotivo da essere considerate clienti rari e insolitamente gratificanti. Al tempo di Freud il termine designava prevalentemente i pazienti affetti da disturbi non organici, non schizofrenici, non psicopatici, né maniacodepressivi, cioè un'ampia gamma di persone con disturbi emotivi non psicotici. Molte persone cui Freud attribuiva una nevrosi (sintomatica) avevano in realtà organizzazioni di carattere borderline e alcune attraversavano periodi di decompensazione psicotica (l'isteria comprendeva anche esperienze allucinatorie, che chiaramente oltrepassano il confine dell'irrealtà). Quanto più impariamo sulla profondità di certi problemi e sulla loro duratura iscrizione nella matrice caratteriale di una persona, tanto più riserviamo il termine 'nevrotico' a un livello molto alto di funzionamento, nonostante alcune sofferenze emotive. Personalità che gli osservatori psicoanalitici attuali considerano organizzate a un livello essenzialmente nevrotico sono quelle che ricorrono prevalentemente alle difese più mature o di secondo ordine. E se ùtiizzano anche difese primitive, queste non hanno una grande rilevanza nel funzionamento globale e sono evidenti soprattutto in momenti di insolita tensione. La presenza di difese primitive non esclude una diagnosi di struttura del carattere a livello nevrotico, come invece fa la mancanza di difese mature. La letteratura psicoanalitica ha messo particolarmente in evidenza che le persone più sane utilizzano la rimozione come difesa fondamentale, a preferenza di soluzioni del 10 prendono l'intervistatore o il terapeuta per il loro bisogno relativamente scarso di distorcere le cose per assimilarle. Paziente e terapeuta vivono soggettivamente più o meno nello stesso mondo e di solito il terapeuta non sente una qualche pressione emotiva a vedere la vita attraverso lenti distorte. Il paziente nevrotico percepisce come qualcosa di strano parte di ciò che lo ha spinto a chiedere aiuto; in altre parole, la psicopatologia di un individuo organizzato nevroticamente è in gran parte egoaliena o è suscettibile di diventarlo. Le persone di tipo nevrotico mostrano ben presto in terapia la capacità di realizzare quella che Sterba (1934) ha definito "scissione terapeutica" tra la parte del Sé che vive l'esperienza e la parte osservante. Anche quando le loro difficoltà sono in qualche misura egosintoniche, non sembrano richiedere al clinico un'implicita conferma dei loro modi nevrotici di percepire. Ad esempio, un individuo paranoico con organizzazione nevrotica sarà disposto per lo meno a prendere in considerazione la possibilità che i suoi sospetti derivino da una disposizione interna a ingigantire l'intenzione distruttiva degli altri. Al contrario, pazienti paranoici a livello psicotico o borderline eserciteranno una forte pressione sul terapeuta perché confermi la loro convinzione che le difficoltà di cui soffrono nascono dall'esterno; ad esempio, perché il terapeuta ammetta che gli altri possono avercela con loro. Inoltre, senza tale conferma, avranno paura di non essere al sicuro con il terapeuta.4 Allo stesso modo, gli ossessivi di tipo nevrotico ammettono che i loro rituali ripetitivi sono folli, ma provano ansia se li trascurano; gli ossessivi borderline e psicotici sono invece sinceramente convinti di essere protetti, in qualche modo elementare, da quei rituali, e spesso sviluppano anche elaborate razionalizzazioni per spiegarlo. Nel primo caso, il paziente capirà l'idea del terapeuta che i comportamenti ossessivi sono realisticamente non necessari, mentre nel secondo caso il paziente potrà temere segretamente che l'operatore che minimizza l'importanza di osservare tali rituali manchi di senso comune o di moralità. A questo proposito, una donna nevrotica con la compulsione della pulizia sarà imbarazzata ad ammettere la frequenza con cui lava le lenzuola, mentre una psicotica o una borderline saranno convinte che chiunque cambi il letto meno regolarmente sia poco pulito. A volte occorrono anni di trattamento prima che una persona borderline o psicotica riesca anche solo a parlare di una compulsione, di una fobia o di un'ossessione: dal punto di vista del paziente in essa non vi è nulla di strano. Ho lavorato con una cliente borderline per più di dieci anni prima che menzionasse casualmente un elaborato rituale mattutino di 'svuotamento delle cavità', che considerava parte di una normale buona igiene. Un'altra donna borderline, che non aveva mai nominato la bulimia tra i vari sintomi anche più disturbanti di cui soffriva, si lasciò sfuggire questa osservazione dopo cinque anni di terapia: "In ogni caso, noto che non vomito più". Prima di allora non aveva mai pensato di considerare significativa quella parte del suo repertorio comportamentale. Un altro aspetto importante della diagnosi differenziale tra persone nevrotiche e persone meno sane è la natura delle loro difficoltà. Le storie e il comportamento che emergono nella situazione del primo colloquio mostrano, come abbiamo già visto, se la persona ha acquisito con maggiore o minore successo gli esiti rispettivi dei primi due stadi descritti da Erikson, la fiducia e l'autonomia di base, e se ha fatto almeno qualche progresso verso il terzo stadio, ossia l'acquisizione di un senso di identità e una capacità d'iniziativa. Queste persone si rivolgono alla terapia non tanto per problemi nel senso di sicurezza o di competenza, quanto piuttosto perché si trovano in conflitto tra ciò che desiderano e gli ostacoli che vi si oppongono, che sospettano essere una propria creazione. L'idea di Freud che lo scopo precipuo della terapia consista nel rimuovere le inibizioni nell'ambito dell'amore e del lavoro si applica 4 Esamineremo in seguito le differenze più significative tra pazienti borderline e psicotici. In breve, i clienti borderline mostrano una maggiore conflittualità tra modalità primitive e realistiche di interpretazione degli eventi. 11 a questa categoria; ma alcune persone di livello nevrotico cercano anche di ampliare la propria capacità di stare da sole e di giocare. Quando si è in presenza di una persona che si trova all'estremità più sana del continuum della patologia del carattere, anche sul piano dell'esperienza si colgono segnali di natura positiva. La percezione da parte del terapeuta di una valida alleanza di lavoro è la controparte della presenza nel paziente di un io osservante. Spesso fin dalla prima seduta con un cliente nevrotico il terapeuta sente che lui e il paziente stanno dalla stessa parte e il loro comune antagonista è una parte problematica del paziente. Il sociologo Edgar Z. Friedenberg (1959) ha paragonato questa alleanza all'esperienza di due giovani che riparano un'automobile; uno di loro, l'esperto, l'altro un apprendista volonteroso. Inoltre il controtransfert del terapeuta, quale che sia la sua valenza, positiva o negativa, non sarà mai troppo intenso. Il cliente di livello nevrotico non suscita nell'ascoltatore né il desiderio di uccidere né la compulsione a salvare. conclamata. Essi manifestano allucinazioni, deliri, idee di riferimento e pensiero illogico. Ci sono, però, molte persone con organizzazione del carattere a livello psicotico che non mostrano segni evidenti della loro confusione interiore di base, a meno che non siano sottoposte a un'intensa tensione. Sapere che ci si trova di fronte a uno schizofrenico 'compensato', o a un depresso che al momento non esprime tendenze suicide ma è periodicamente soggetto a desideri deliranti di morte, può essere determinante per impedire o, al contrario, provocare la morte di qualcuno. In questo paragrafo tenterò di sensibilizzare il lettore su alcuni aspetti caratteristici di coloro che hanno psicologie tanto fragili da essere cronicamente soggetti a episodi psicotici o a grave deterioramento mentale ed emotivo.5 Anzitutto, è importante capire quali difese utilizza lo psicotico. Descriveremo in dettaglio questi processi nel capitolo 5, per il momento mi limiterò a elencarli: chiusura, diniego, controllo onnipotente, idealizzazione e svalutazione primitive, forme primitive di proiezione e introiezione, scissione e dissociazione. Queste difese sono preverbali e prerazionali; proteggono lo psicotico da un livello di disperato terrore talmente soverchiante che perfino le spaventose distorsioni che le difese stesse creano sono un male minore. In secondo luogo, individui con personalità organizzata a un livello fondamentalmente psicotico hanno gravi difficoltà con l'identità, tanto gravi da non essere pienamente sicuri di esistere, ancor meno se la loro esistenza è Caratteristiche della struttura di personalità a livello psicotico All'estremità psicotica dello spettro le persone sono interiormente molto più disperate e disorganizzate. Quando si fa un colloquio con un paziente profondamente disturbato si può avere una gamma di esperienze diverse che vanno dal partecipare a una conversazione piacevole e poco impegnativa fino all'essere destinatario di un attacco omicida. Prima degli anni cinquanta, quando entrarono in uso i farmaci antipsicotici, ben pochi terapeuti possedevano il talento intuitivo naturale e la forza emotiva per essere veramente terapeutici con i pazienti psicotici. Uno dei grandi meriti della tradizione psicoanalitica è stata la percezione di un qualche ordine nell'apparente caos di quelle persone che è facile considerare senza speranza e liquidare come irrimediabilmente folli: grazie a tale intuizione la psicoanalisi ha offerto un modo di comprendere e aiutare anche persone affette da gravi disturbi mentali. Non è difficile diagnosticare i pazienti che si trovano in una condizione psicotica 5 Sulla base di molti anni di esperienza con casi estremamente difficili trattati per lunghi periodi, sono arrivata alla ferma convinzione che, impegnandosi con dedizione, i terapeuti riescono a fare molta prevenzione con persone di questo genere. Noi evitiamo episodi psicotici, suicidi e omicidi e teniamo la gente fuori dagli ospedali. Sfortunatamente, questi effetti psicoterapeutici fondamentali sono del tutto privi di documentazione, dato che nessuno potrà mai dimostrare di aver impedito un disastro, e di solito i critici della terapia analitica affermano che, se qualcuno dichiara di aver prevenuto un episodio psicotico, in primo luogo il paziente non era veramente incline alla psicosi. 12 soddisfacente. Queste persone sono profondamente confuse su chi sono e di solito si trovano alle prese con questioni fondamentali di autodefinizione, quali l'immagine corporea, l'età, il genere, l'orientamento sessuale. "Come faccio a sapere chi sono?", o anche: "Come posso sapere di esistere?", sono domande che si pongono spesso. E neanche possono dipendere dall'esperienza altrui per riuscire a percepire una continuità del proprio sé. La descrizione che danno di se stesse o di altri importanti nella loro vita è vaga, evasiva, letterale o visibilmente distorta. Spesso, in modo molto sottile, si percepisce che il paziente con una personalità fondamentalmente psicotica non è ancorato nella realtà. Sebbene molte persone conservino residui di credenze magiche (l'idea, per esempio, che Dio ha deciso di far piovere perché abbiamo dimenticato l'ombrello), un'indagine attenta rivelerà che negli psicotici atteggiamenti di questo tipo non sono egoalieni. Si sentono spesso assolutamente confusi ed estranei rispetto a certe formulazioni sulla 'realtà' comuni nella loro cultura. Sebbene in certe situazioni riescano misteriosamente a cogliere l'affettività sottostante, spesso non sanno come interpretarne il significato, se non in senso autoreferenziale. Ad esempio, una paziente gravemente paranoica con cui ho lavorato a lungo, la cui salute mentale è stata spesso a rischio, ha una misteriosa percezione del mio stato emotivo. Lo coglie con precisione, ma poi collega a tale percezione le personali preoccupazioni primitive circa la propria bontà o malvagità: "Lei sembra irritata; deve essere perché pensa che sono una cattiva madre", oppure: "Mi sembra annoiata; devo averla offesa la settimana scorsa andandomene dalla seduta cinque minuti prima". Le sono occorsi molti anni per trasformare la convinzione: "Persone cattive stanno per uccidermi perché odiano il modo in cui vivo", in: "Mi sento in colpa per alcuni aspetti della mia vita". Nelle persone potenzialmente soggette a episodi psicotici c'è una netta incapacità di prendere le distanze dai propri problemi psicologici e considerarli oggettivamente. Sul piano cognitivo questa carenza può essere collegata alle difficoltà con l'astrazione che sono state ben documentate negli schizofrenici (Kasanin, 1944). Anche gli individui di livello psicotico che hanno tratto dalla loro esperienza di pazienti un linguaggio sufficiente a sembrare buoni osservatori di se stessi (ad esempio: "So di essere eccessivamente reattivo", o anche: "Non sempre ho la percezione del tempo, dello spazio o delle persone") riveleranno a un operatore attento che, nel tentativo di ridurre l'angoscia, stanno ripetendo meccanicamente ciò che hanno sentito dire di loro. Una delle mie pazienti ha avuto un numero talmente elevato di esperienze di ricovero in ospedale psichiatrico, durante le quali si era sentita chiedere il significato del proverbio6 "Meglio un uovo oggi che una gallina domani", che ha chiesto a un conoscente cosa significasse e ha memorizzato la risposta (mi dava orgogliosamente questa spiegazione quando esprimevo qualche commento sul carattere automatico della sua risposta). Le prime formulazioni psicoanalitiche sulle difficoltà degli psicotici ad avere consapevolezza dei propri reali disturbi mettevano in luce prevalentemente gli aspetti energetici, e cioè che essi impiegano così tanta energia per combattere il proprio terrore esistenziale da non averne più per valutare la realtà. I modelli della psicologia dell'Io hanno posto invece l'accento sulla mancanza di una differenziazione interiore tra Es, Io e Super-io e tra la parte dell'Io che vive le esperienze e la parte osservante. Studiosi della psicosi influenzati dalle teorie interpersonali e delle relazioni oggettuali e dalla psicologia del Sé hanno fatto riferimento all'incertezza dei confini tra esperienza interna ed esterna e a carenze nella fiducia di base che rendono soggettivamente troppo pericoloso per lo 6 Chiedere ai clienti di fare astrazioni, dando loro proverbi da interpretare, è un mezzo tradizionale e utile per individuare i processi psicotici. Persone fondamentalmente psicotiche, ma non manifestamente allucinatorie o deliranti, mostreranno un disturbo del pensiero, la dimensione cognitiva della psicosi, quando si richieda il pensiero astratto. 13 psicotico entrare nello stesso mondo del terapeuta. Ancora una volta, la spiegazione completa della mancanza negli psicotici di un 'io osservante' include probabilmente tutti questi elementi e diversi altri, compresi aspetti costituzionali, biochimici, situazionali e traumatici. La cosa più importante che deve comprendere chi desidera aiutarli è che, nello psicotico potenziale o conclamato, è sempre possibile trovare molto vicino alla superficie una paura mortale e una terribile confusione. Nelle persone potenzialmente psicotiche la natura del conflitto primario è letteralmente esistenziale: vita e morte, esistenza e annullamento, sicurezza e terrore. I loro sogni sono pieni di terribili immagini di morte e distruzione. "Essere o non essere" è il loro tema ricorrente. Laing (1965) li dipingeva eloquentemente come persone che soffrono di una "insicurezza ontologica". Studi di orientamento psicoanalitico condotti negli anni '50 e '60 sulle famiglie di soggetti schizofrenici hanno riportato in modo coerente modelli di comunicazione emotiva in cui il bambino psicotico riceve messaggi sottili di non essere una persona separata, ma un'estensione di qualcun altro (Singer e Wynne, 1965 a, 1965b; Mischler e Waxler, 1968; Bateson, Jackson, Haley e Weakland, 1956; Lidz, 1963). Sebbene la scoperta dei tranquillanti più efficaci abbia distolto l'attenzione dall'indagine più strettamente psicologica dei processi implicati nella psicosi, nessuno è ancora riuscito a presentare dati che possano negare l'osservazione che nello psicotico manchi una profonda convinzione del proprio diritto a un'esistenza separata o che addirittura non abbia un sentimento di esistenza. Con pazienti strutturalmente di tipo psicotico, il controtransfert del terapeuta è spesso stranamente positivo. La natura di tale sentimento benevolo è però diversa da quella che caratterizza le reazioni controtransferali nei confronti del nevrotico. Di solito si ha un atteggiamento di maggiore onnipotenza soggettiva, protettività genitoriale e sensibilità empatica con gli psicotici che con i nevrotici. L'espressione 'l'adorabile schizofrenico' è stata a lungo in voga per indicare l'atteggiamento sollecito che il personale dei reparti di salute mentale spesso prova nei confronti dei pazienti più gravemente disturbati. (Qui, il gruppo implicito di contrasto, come vedremo dopo, è la popolazione borderline). Gli psicotici sono così disperatamente privi di relazioni umane fondamentali e della speranza che qualcuno possa alleviare la loro sofferenza da essere deferenti e grati verso qualunque terapeuta faccia qualcosa di più che classificarli e prescrivere farmaci. Naturalmente, la loro gratitudine è molto toccante. Le persone con tendenze psicotiche apprezzano in modo particolare la sincerità del terapeuta. Una volta, una donna schizofrenica ricoverata mi spiegò che poteva anche perdonare gravi mancanze del terapeuta se riteneva che fossero "errori in buona fede". I pazienti psicotici apprezzano anche gli sforzi educativi e rispondono con sollievo al tentativo di normalizzare o riformulare i loro problemi. Questi atteggiamenti, unitamente alla loro propensione alla fusione primitiva e all'idealizzazione, possono far sentire il terapeuta molto forte e ben disposto. L'altra faccia di questa intensa dipendenza dalle cure del terapeuta è il peso della responsabilità psicologica che lo psicotico inevitabilmente impone. Di fatto, con lo psicotico il controtransfert è molto simile ai normali sentimenti materni verso il bambino che ha meno di un anno e mezzo: è meraviglioso nel suo attaccamento e terrificante nei suoi bisogni. Non è oppositivo e irritante, ma spinge fino al limite le risorse personali. Una volta un supervisore mi disse che non avrei dovuto lavorare con gli schizofrenici a meno che non fossi pronta a lasciarmi divorare viva. Questo elemento 'divorante' della loro psicologia è una delle ragioni per cui molti terapeuti preferiscono non lavorare con gli schizofrenici e con persone che hanno un'organizzazione psicotica. Inoltre, come Karon (1992) ha dimostrato in modo convincente, spesso non riusciamo a tollerare l'accesso dello psicotico a realtà profondamente sconvolgenti, che tutti preferiremmo ignorare. (Tra le altre ragioni della 14 loro relativa impopolarità come pazienti, nonostante le qualità affascinanti che possiedono, c'è probabilmente la mancanza di un'adeguata formazione del terapeuta nella psicoterapia degli psicotici, questioni economiche che generano razionalizzazioni a favore di approcci limitati o di management al posto della terapia, e disposizioni personali a non impegnarsi in obiettivi terapeutici relativamente modesti rispetto a quelli che si possono raggiungere con persone di livello nevrotico). Tuttavia, come vedremo nel prossimo capitolo, lavorare con clienti potenzialmente psicotici può essere efficace e gratificante, se si è realisti sulla natura delle loro difficoltà psicologiche. evitare di sentirsi così". Un paziente borderline può disdegnare un'interpretazione di questo tipo, oppure accettarla a malincuore, o accoglierla in silenzio, ma in ogni caso dà qualche indicazione di una riduzione dell'angoscia. Una persona psicotica reagirebbe invece con un incremento di angoscia, dato che la svalutazione del terapeuta potrebbe rappresentare l'unico strumento psicologico che consente a chi vive nel terrore esistenziale di sentirsi protetto dall'annullamento. Sarebbe estremamente pericoloso se il terapeuta ne parlasse senza riconoscerne la giusta importanza. I pazienti borderline sono al tempo stesso simili e diversi dagli psicotici nella dimensione dell'integrazione dell'identità. E’ probabile che abbiano un'esperienza di sé caratterizzata da incoerenza e discontinuità; alla richiesta di descrivere la propria personalità reagiscono con grande imbarazzo, come gli psicotici. Allo stesso modo, alla richiesta di descrivere le persone importanti della loro vita, i pazienti borderline non sanno fornire descrizioni tridimensionali ed evocative di esseri umani riconoscibili. Una risposta tipica è: "Mia madre? E semplicemente una madre normale, credo". Spesso fanno descrizioni globali e minimizzanti, del tipo: "Un alcolista. Tutto qui". A differenza dei pazienti psicotici, però, le loro risposte non suonano mai letterali o evasive al punto da essere bizzarre; tendono invece a respingere l'interesse del terapeuta per la natura complessa di se stessi e degli altri. I pazienti borderline sono anche inclini a utilizzare una difesa ostile per affrontare le proprie limitazioni nell'area dell'integrazione dell'identità. Una delle mie pazienti ebbe un'esplosione di collera quando le fu chiesto di compilare un questionario che rientrava nella normale procedura di ricovero in una clinica di salute mentale. In esso c'era una parte con frasi da completare, in cui al cliente veniva chiesto di riempire delle righe in bianco, del tipo: "Sono il tipo di persona che______________". La mia cliente reagì con rabbia: "Come si fa a capire cosa si deve fare con questa merda?". (Dopo diversi anni e Caratteristiche della struttura di personalità borderline Una delle caratteristiche più evidenti delle persone con organizzazione di personalità borderline è l'impiego di difese primitive. Poiché ricorrono a operazioni arcaiche e globali come il diniego, l'identificazione proiettiva e la scissione, quando si trovano in una condizione regressiva sono difficilmente distinguibili dai pazienti psicotici. Una differenza importante tra borderline e psicotici nell'area delle difese sta nell'effetto che si produce quando il terapeuta interpreta l'azione di una modalità primitiva di esperienza: il paziente borderline mostrerà almeno una temporanea rispondenza, mentre la persona con organizzazione psicotica diventerà ancora più agitata. Per illustrare questa differenza consideriamo la difesa della svalutazione primitiva, dato che l'esperienza di svalutazione è familiare a ogni terapeuta e anche perché tale strategia inconscia è abbastanza semplice da cogliere, anche senza le spiegazioni contenute nel capitolo successivo. Una difesa di questo tipo può essere interpretata più o meno così: "Non c'è dubbio che le piaccia notare tutti i miei difetti; forse ciò la protegge dall'ammettere che potrebbe aver bisogno delle mie competenze. Forse si sentirebbe 'sminuito' o proverebbe vergogna se non mi svalutasse continuamente, e quindi sta cercando di 15 un numero infinito di sedute, riflettendo su quell'episodio, disse: "Ora lo potrei riempire. Mi chiedo perché mi infuriai tanto"). Il rapporto dei pazienti borderline con la propria identità differisce da quello degli psicotici per due aspetti, nonostante la comune mancanza di integrazione. In primo luogo, nel senso di incoerenza e discontinuità di cui soffrono i borderline non si ritrova lo stesso livello di terrore esistenziale dello schizofrenico. I pazienti borderline possono avere una confusione dell'identità, ma sanno di esistere. In secondo luogo, è meno probabile che le persone con tendenze psicotiche reagiscano con ostilità, come fanno invece i pazienti borderline, a domande sull'identità propria e degli altri: sono troppo preoccupate di perdere il loro senso di esistenza, coerente o no, per risentirsi dell'attenzione del clinico su quel problema. Nonostante le distinzioni appena descritte tra pazienti borderline e psicotici, è corretto affermare che entrambi i gruppi, a differenza dei nevrotici, ricorrono massicciamente a difese primitive e soffrono di un difetto di base nel senso del sé. La dimensione dell'esperienza su cui i due gruppi si distinguono radicalmente è l'esame di realtà. I clienti borderline, in un colloquio condotto con sensibilità, dimostrano di saper valutare la realtà, per quanto bizzarra o florida possa essere la loro sintomatologia. Valutare il grado di 'coscienza di malattia' dei pazienti è una pratica psichiatrica abituale per distinguere gli psicotici dai non psicotici. Questo problema è stato discusso con un linguaggio leggermente diverso nei paragrafi precedenti, quando abbiamo contrapposto le persone di livello nevrotico a quelle che si situano all'estremità psicotica della scala. Kernberg (1975) ha proposto di sostituire questo criterio con "l'adeguatezza dell'esame di realtà", dato che il paziente borderline può negare instancabilmente la propria psicopatologia e tuttavia mostrare ancora quel livello di discriminazione di ciò che è reale o convenzionale che lo distingue dallo psicotico. Per fare una diagnosi differenziale tra livelli di organizzazione borderline e psicotico, Kernberg consiglia di indagare la percezione della realtà convenzionale individuando qualche aspetto insolito nell'autopresentazione del paziente, commentandolo e poi chiedendo al paziente se si rende conto che altre persone potrebbero trovarlo singolare (ad esempio: "Noto che lei ha un tatuaggio sulla guancia in cui si legge: 'Morte!'. Capisce che a me o ad altri potrebbe sembrare strano?"). La persona borderline riconoscerà che quell'elemento è poco convenzionale e che gli altri potrebbero non capirne il significato. E' probabile invece che lo psicotico si senta spaventato e confuso, giacché la sensazione di non essere compreso è per lui profondamente disturbante. Queste diverse reazioni, che Kernberg e i suoi collaboratori (per esempio Kernberg, Selzer, Koenisberg, Carr e Appelbaum, 1989) hanno documentato sulla base di esperienze cliniche e ricerche empiriche, sono significative nel contesto degli assunti psicoanalitici sulla natura simbiotica della psicosi e sulla centralità dei problemi di separazioneindividuazione per chi ha una patologia borderline. Come abbiamo già notato, la capacità di un borderline di osservare la propria patologia, per lo meno quegli aspetti che colpiscono un osservatore esterno, è abbastanza limitata. Persone con un'organizzazione borderline del carattere si rivolgono alla terapia lamentando problemi specifici, come attacchi di panico, depressione, o qualche malattia che il medico ha imputato allo 'stress'; oppure arrivano nello studio del terapeuta dietro pressione di un conoscente o di un familiare, ma non vengono con l'idea di cambiare la propria personalità nella direzione che agli altri appare immediatamente vantaggiosa. Non avendo mai avuto un altro tipo di carattere, non possiedono un concetto emotivo di cosa significhi avere un'identità integrata, difese mature, la capacità di differire la gratificazione, la tolleranza dell'ambivalenza e dell'ambiguità, e così via. Vogliono soltanto smettere di soffrire o di sentirsi criticare alle spalle. In condizioni non regressive, poiché il loro esame di realtà è buono e spesso riescono a presentarsi in modi che suscitano l'empatia 16 del terapeuta, i borderline non appaiono particolarmente 'malati'. A volte è solo dopo un certo periodo di psicoterapia che il terapeuta si rende conto che un determinato paziente ha una sottostante struttura borderline. Di solito il primo indizio è che interventi che il terapeuta ritiene utili vengono recepiti come attacchi. In altre parole, il terapeuta continua a rivolgersi a un io osservante, che però il paziente non ha: l'unica cosa che sa è che vengono criticati alcuni aspetti del Sé. Il terapeuta continua a cercare di stabilire quel tipo di alleanza di lavoro che è possibile con i pazienti di livello nevrotico e continua a collezionare fallimenti. Alla fine, che il clinico abbia o no acume diagnostico, capirà che il primo compito della terapia sarà proprio resistere alle tempeste che continuano a presentarsi nel rapporto con quella persona, cercando anche di comportarsi in un modo che il paziente percepisca diverso da tutto ciò che ha creato e favorito una persona tanto disturbata e refrattaria a ogni aiuto. Soltanto dopo che la terapia avrà prodotto qualche cambiamento strutturale significativo, e in base alla mia esperienza occorrono almeno due anni, il paziente sarà abbastanza diverso da capire che cosa il terapeuta stava cercando di ottenere sul piano del carattere. Nel frattempo, saranno stati attenuati molti sintomi di disagio emotivo, ma il lavoro sarà stato tempestoso e frustrante per entrambe le parti. Masterson (1976) ha descritto in modo molto efficace (e altri autori di diversa prospettiva riferiscono in proposito analoghe osservazioni) come i clienti borderline appaiano vittime di un dilemma: quando si sentono vicini a un'altra persona provano panico per paura di un eccessivo coinvolgimento e di un controllo totale; quando si sentono separati, vivono un abbandono traumatico. Questo conflitto centrale della loro esperienza emotiva si esprime nel loro continuo entrare e uscire dalle relazioni, compresa la relazione terapeutica, dove non è adeguata né la vicinanza né la distanza. Vivere con tale conflitto di base, che non risponde con immediatezza agli sforzi interpretativi, è estenuante per i pazienti borderline, per i loro amici, i loro familiari e i terapeuti. Questi pazienti sono ben noti agli operatori dei servizi di emergenza psichiatrica, alla cui porta spesso bussano parlando di suicidio, per il loro comportamento di 'richiesta di aiutorifiuto di aiuto'. Masterson ritiene che i pazienti borderline siano rimasti fissati alla sottofase di riavvicinamento del processo di separazioneindividuazione (Mahler, 1972b), quando il bambino ha raggiunto un certo grado di autonomia, ma ha ancora bisogno di essere rassicurato dalla presenza e dalla forza del genitore. Questo dramma si manifesta nei bambini intorno ai due anni di età, quando tipicamente oscillano tra il rifiuto dell'aiuto materno ("Posso farlo da solo! ") e il loro sciogliersi in lacrime aggrappati alle sue ginocchia. Masterson ritiene che i pazienti borderline nelle loro storie individuali abbiano avuto la sfortuna di avere madri che prima li hanno scoraggiati nei tentativi di separazione e poi hanno rifiutato di rendersi disponibili quando i figli avevano bisogno di regredire, dopo aver conquistato una certa indipendenza. Che le sue ipotesi eziologiche siano corrette o no, le sue osservazioni sui dilemmi di separazione e individuazione in cui sono intrappolati i borderline riescono a spiegare come mai i pazienti borderline siano così mutevoli, esigenti e spesso ingannevoli. Nel capitolo 4 discuterò le implicazioni per il trattamento che derivano dalla condizione di separazione-individuazione. Nei clienti borderline i transfert sono intensi, privi di ambivalenza e resistenti alle normali interpretazioni. Il terapeuta può essere percepito totalmente buono o totalmente cattivo. Se un terapeuta pieno di buone intenzioni, ma con poca esperienza clinica, tenta di interpretare il transfert come si farebbe con un nevrotico (ad esempio: "Forse ciò che prova per me è qualcosa che ha provato per suo padre"), si renderà conto che a quell'interpretazione non segue alcun sollievo o utile comprensione; spesso il cliente sarà semplicemente d'accordo sul fatto che il terapeuta si comporta effettivamente come l'oggetto precedente. Inoltre, non è raro 17 che un borderline in un certo stato mentale percepisca nel terapeuta poteri e virtù divine, e in un altro (che potrebbe presentarsi anche il giorno dopo) lo consideri debole e spregevole. Come il lettore può immaginare, con i clienti borderline le reazioni di controtransfert sono generalmente intense e disturbanti. Anche quando non sono negative (come nei casi in cui il terapeuta sente una profonda compassione per il bambino disperato che vive nel paziente borderline e ha fantasie di salvarlo e liberarlo), possono avere qualità disturbanti e distruttive. In contesti ospedalieri, molti analisti (per esempio G. Adler, 1973; Kernberg, 1981) hanno notato che gli operatori di salute mentale tendono a essere con i pazienti borderline troppo solleciti (considerandoli individui deboli e deprivati che hanno bisogno di amore per crescere) o eccessivamente punitivi (considerandoli persone piene di pretese e manipolative che hanno bisogno di limiti). Nei reparti ospedalieri spesso i membri del personale si dividono in campi opposti al momento di discutere i piani di trattamento dei pazienti borderline (Gunderson, 1984). Singoli operatori che trattano pazienti esterni possono oscillare tra una posizione e l'altra, rispecchiando in momenti diversi entrambi i lati del conflitto del cliente. Non è raro che il terapeuta si senta come la madre esasperata di un bambino di due anni che non accetta di essere aiutato ma, senza aiuto, cade in uno stato di frustrazione. (sicurezza, autonomia o identità), dell'esperienza caratteristica di angoscia (angoscia di annientamento, angoscia di separazione, o paure più specifiche di punizione, maltrattamento e perdita di controllo), del conflitto evolutivo primario (simbiotico, separazione-individuazione o edipico), delle capacità di relazione oggettuale (monadica, diadica o triadica) e del senso di sé (sopraffatto, corazzato o responsabile) rappresenti una dimensione esaustiva della psicodiagnosi analitica. RIEPILOGO In questo capitolo abbiamo dato una rapida occhiata a vecchi e nuovi modi di discriminare tra diversi livelli maturativi di organizzazione del carattere. A partire dalle distinzioni di Kraepelin tra sano e folle, attraverso le prime concezioni psicoanalitiche che contrapponevano la nevrosi sintomatica alla nevrosi del carattere, fino alle attuali nosologie che mettono l'accento su strutture di livello nevrotico, borderline o psicotico, i terapeuti hanno tentato di dar conto delle diverse reazioni dei clienti ai loro tentativi di aiutarli. Ho indicato come la valutazione delle preoccupazioni centrali di una persona 18