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M. Macchioro - La prova di fisica per la maturità scientifica
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Esame di stato di liceo scientifico Maxisperimentazione Brocca
Tema di fisica anno 2000
Il candidato svolga una breve relazione su uno solo dei seguenti temi, a sua scelta.
Primo tema
Nella prima metà del secolo XX, dopo la scoperta che la radiazione elettromagnetica ha un comportamento
duale, ondulatorio e corpuscolare, fu formulata l’ipotesi che anche la materia, considerata composta da
particelle, potesse presentare caratteristiche ondulatorie.
Il candidato:
1. spieghi il significato dell’espressione “la radiazione ha un comportamento duale, ondulatorio e
corpuscolare” e descriva un esperimento che ha messo in evidenza il comportamento corpuscolare;
2. spieghi il significato dell’espressione “fu formulata l’ipotesi che la materia,considerata composta da
particelle, potesse presentare caratteristiche ondulatorie” e descriva un esperimento che ha
confermato la realtà di questa ipotesi teorica;
3. calcoli quanti fotoni emette in un minuto una stazione radio che trasmette musica alla frequenza di
99 MHz con una potenza di uscita di 20 kW;
4. calcoli la lunghezza d’onda associata ad un elettrone che, con velocità iniziale trascurabile, è stato
accelerato tra due elettrodi da una differenza di potenziale di 200V;
5. calcoli, in eV, la minima energia cinetica che può avere un elettrone costretto a muoversi in uno
spazio unidimensionale lungo 0,1 nm:
 velocità della luce: c = 3,00 ∙ 108 m/s;
 costante di Planck: h = 6,63 ∙ 10-34 J ∙ s;
 massa dell’elettrone: m = 9,11 ∙ 10-31 kg;
 carica dell’elettrone: e = 1,60 ∙ 10-19 C.
Secondo tema
Sono disponibili una pila di forza elettromotrice f.e.m. = 4,5 V e due lampadine, A e B, costruite per essere
utilizzate con una differenza di potenziale ΔV = 4,5 V e aventi, rispettivamente, le potenze PA = 3W e PB =
5W.
La pila eroga una corrente di intensità I = 6 A se è posta in condizione di cortocircuito per un breve istante.
Il candidato:
1. spieghi i concetti di forza elettromotrice di una pila e di differenza di potenziale disponibile ai suoi
morsetti, proponendo anche la relazione matematica tra le due grandezze;
2. descriva una procedura di laboratorio per misurare ognuna delle due grandezze fisiche;
3. tratti il concetto di potenza associato ad una corrente elettrica e ricavi l’espressione della potenza
dissipata in una resistenza;
4. calcoli la resistenza interna della pila in condizioni di cortocircuito, trascurando la resistenza del filo di
collegamento;
5. calcoli la potenza dissipata sulle due lampadine quando vengono collegate, separatamente, alla pila;
6. calcoli, in percentuale, il rendimento delle due lampadine in rapporto alla loro reale capacità di
funzionamento e commenti il risultato indicando quale lampadina ha la luminosità più vicina al valore
massimo possibile, in base alle sue caratteristiche, e spiegando il perché.
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Svolgimento tema 1
1.
Il candidato spieghi il significato dell’espressione “la radiazione ha un comportamento duale,
ondulatorio e corpuscolare” e descriva un esperimento che ha messo in evidenza il comportamento
corpuscolare
L’affermazione riportata nella domanda significa che la radiazione elettromagnetica possiede sia le
caratteristiche proprie di un’onda che quelle di uno sciame di particelle. I due comportamenti non si
manifestano mai contemporaneamente. Il fatto sperimentale che la radiazione, in particolare la luce
visibile, sia soggetta a riflessione, rifrazione, interferenza e diffrazione ci suggerisce l’esistenza di fenomeni
nei quali essa manifesta il suo carattere ondulatorio. In generale, l’aspetto ondulatorio della radiazione si
manifesta in tutti i fenomeni macroscopici. Quando però si osservano fenomeni microscopici, nei quali la
radiazione interagisce con gli atomi o con le particelle subatomiche, la teoria elettromagnetica della luce
non è più in grado di spiegare le evidenze sperimentali, per cui si è dovuto ammettere per questi fenomeni
un comportamento corpuscolare della radiazione.
Una prima ipotesi di quantizzazione dell’energia trasportata da un’onda elettromagnetica fu formulata nel
1900 da Planck per giustificare la curva di emissione della radiazione di corpo nero. Il corpo nero è
assimilabile a una cavità dotata di un piccolo foro ed è un corpo in grado di assorbire tutta la radiazione
che riceve e, viceversa, di emettere in funzione della temperatura. La curva di emissione dell’energia era
inspiegabile per la Fisica classica. Secondo Planck, gli scambi di energia tra la radiazione e gli atomi che
costituiscono la parete interna del corpo nero sono quantizzati secondo la relazione:
dove h = 6,63 ∙ 10-34 J ∙ s è la costante di Planck, e f è la frequenza della radiazione.
Questa brillante e rivoluzionaria ipotesi riuscì a spiegare la curva di emissione del corpo nero, ma ancora
non riconosceva un carattere corpuscolare della radiazione, che per Planck continuava ad avere natura
esclusivamente ondulatoria. In quegli anni i fisici erano alle prese con un altro fenomeno che presentava
aspetti contraddittori con le previsioni della Fisica classica: l’effetto fotoelettrico. Esso consiste
nell’emissione di elettroni da parte di una placca metallica colpita da radiazione luminosa o ultravioletta.
Nel 1905, Albert Einstein, per spiegare queste incongruenze tra le evidenze sperimentali e le previsioni
teoriche, ipotizzò che la radiazione fosse composta da piccole particelle, dette fotoni, prive di massa,
viaggianti alla velocità della luce nel vuoto (cioè la stessa di in’onda elettromagnetica) e recanti ciascuno
un’energia proporzionale alla frequenza della radiazione:
In questo modo Einstein, per primo ipotizzò una natura corpuscolare della radiazione.
L’esperimento che meglio mette in evidenza la natura corpuscolare della radiazione, che si manifesta
quando essa interagisce con le particelle microscopiche della materia, è noto col nome di effetto Compton.
Esso consiste nella diffusione subita da radiazione di alta frequenza da parte di un metallo. Questo
fenomeno, scoperto nel 1923, presentava aspetti non spiegabili con la Fisica classica: infatti dalle evidenze
sperimentali era emerso che, inviando un fascio di raggi X contro un blocco di grafite, il fascio diffuso
presentava, oltre a una componente di lunghezza d’onda λ pari a quella della radiazione incidente, una
seconda componente di lunghezza d’onda λ’ ≥ λ , il cui valore dipende dall’angolo di diffusione. La Fisica
classica, invece, prevede che gli elettroni bersaglio dovrebbero oscillare alla frequenza della radiazione
incidente, per poi riemettere nuovamente alla stessa frequenza: quindi la radiazione incidente e quella
diffusa dovrebbero avere la stessa lunghezza d’onda, indipendentemente dall’angolo di diffusione. Per
spiegare questo fenomeno, Compton utilizzò il modello a fotoni di Einstein della radiazione e ipotizzò che i
fotoni del fascio incidente, considerati come vere e proprie particelle di energia E = hf e quantità di moto
p = h/λ, urtassero elasticamente gli elettroni liberi del metallo, considerati inizialmente in quiete, cedendo
loro una parte della propria energia e subendo al contempo una diminuzione della frequenza (infatti se
E’ < E , allora f’ < f e λ’ > λ).
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Applicando il principio di conservazione della quantità di moto, avendo indicato con θ l’angolo di diffusione
del fotone e con quello dell’elettrone, si ottengono le seguenti equazioni:
relativamente all’asse x:
’
relativamente all’asse y:
è il fattore relativistico
e
’
è la quantità di moto relativistica dell’elettrone diffuso.
Imponendo inoltre la conservazione dell’energia cinetica:
’
dove
è l’energia cinetica relativistica dell’elettrone diffuso, e combinando opportunamente le
tre equazioni così ottenute, Compton ottenne una relazione tra la lunghezza d’onda del fotone diffuso e
l’angolo di diffusione θ:
’
dove me è la massa a riposo dell’elettrone, e la grandezza
, il cui valore è 2,43 ∙ 10-12 m, prende il nome
di lunghezza d’onda Compton dell’elettrone.
Esaminiamo in dettaglio la formula precedente. Osserviamo che, partendo dal caso di urto radente ( θ =
0°), nel quale la radiazione non viene praticamente diffusa e non subisce alcuna variazione di λ, la
variazione della lunghezza d’onda della seconda radiazione cresce al crescere di θ , fino a raggiungere il
massimo valore per θ = 180° (urto centrale), nel quale essa è pari al doppio della lunghezza d’onda
Compton. La presenza di una parte della radiazione diffusa che conserva la lunghezza d’onda iniziale può
essere spiegata considerando che un certo numero di fotoni interagisce con gli elettroni più interni della
grafite, che essendo fortemente legati al nucleo diffondono i fotoni senza però sottrarre energia alla
radiazione: in pratica è come se il fotone interagisse con l’intero atomo, essendo la massa dell’atomo
molto maggiore di quella dell’elettrone, la quantità diventa trascurabile, pertanto λ’ = λ.
L’effetto Compton, pertanto, è una delle migliori evidenze sperimentali della natura corpuscolare della
radiazione. Con esso, infatti, il fotone assume le caratteristiche di una vera e propria particella in grado di
interagire mediante urti (fenomeni tipicamente materiali) con le particelle di materia.
2. Il candidato spieghi il significato dell’espressione “fu formulata l’ipotesi che la materia,
considerata composta da particelle, potesse presentare caratteristiche ondulatorie” e descriva un
esperimento che ha confermato la realtà di questa ipotesi teorica
La doppia natura della luce, corpuscolare nelle interazioni microscopiche con la materia, ondulatoria nei
fenomeni macroscopici quali, per esempio, l’interferenza e la diffrazione, portò un giovane fisico francese,
Louis de Broglie, ad avanzare un’ipotesi rivoluzionaria: per una sorta di simmetria, ipotizzò che anche per la
materia, e in particolare per le particelle microscopiche, valesse il dualismo onda-corpuscolo. Secondo de
Broglie, le particelle di materia continuano a manifestare la loro natura corpuscolare nei fenomeni
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macroscopici, ma rivelano un carattere ondulatorio nelle interazioni microscopiche. Partendo dalla
quantità di moto di un fotone:
λ
de Broglie ipotizzò che l’onda associata alla particella dovesse avere lunghezza d’onda:
λ
detta lunghezza d’onda di de Broglie.
La lunghezza d’onda di de Broglie dipende dalla velocità della particella, per esempio per un elettrone in
moto alla velocità di 1,0 ∙ 106 m/s, la lunghezza d’onda di de Broglie è:
λ
paragonabile con le dimensioni di un atomo.
Ripetendo il calcolo per un oggetto macroscopico, per esempio un proiettili di 5,0 g alla velocità di 250 m/s,
si ottiene:
λ
valore così piccolo da non essere misurabile, per cui possiamo ritenere trascurabile la natura ondulatoria
della materia nei fenomeni macroscopici, che quindi possono essere ancora descritti con le leggi della
Meccanica Classica.
L’ipotesi di de Broglie fu confermata sperimentalmente dall’esperimento di Davisson e Germer: dato che la
lunghezza d’onda di de Broglie dell’elettrone è dello stesso ordine di grandezza della distanza tra gli ioni
del reticolo cristallino di un metallo, Davisson e Germer mandarono un fascio di elettroni contro un
cristallo di nichel e osservarono su uno schermo rivelatore la tipica figura di diffrazione di un’onda,
spiegabile solo ammettendo la correttezza dell’ipotesi di de Broglie.
3.
Il candidato calcoli quanti fotoni emette in un minuto una stazione radio che trasmette musica
alla frequenza di 99 MHz con una potenza di uscita di 20 kW
Per calcolare il numero di fotoni emessi è sufficiente mettere a rapporto l’energia totale trasportata
dall’onda con l’energia di un singolo fotone:
per cui
4.
Il candidato calcoli la lunghezza d’onda associata ad un elettrone che, con velocità iniziale
trascurabile, è stato accelerato tra due elettrodi da una differenza di potenziale di 200V
Per calcolare la velocità finale dell’elettrone possiamo applicare il teorema dell’energia cinetica:
e ricordare che il lavoro compiuto dalle forze elettriche è:
uguagliando le due espressioni si ottiene:
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dalla relazione di de Broglie ricaviamo la lunghezza d’onda dell’elettrone
5.
Il candidato calcoli, in eV, la minima energia cinetica che può avere un elettrone costretto a
muoversi in uno spazio unidimensionale lungo 0,1 nm
Il problema del moto di un elettrone in uno spazio unidimensionale è un’interessante applicazione della
teoria ondulatoria dell’elettrone. Infatti, adottando il modello di un’onda stazionaria, si osserva che
l’elettrone può muoversi solo per alcuni valori permessi dell’energia, che risulta pertanto quantizzata. Per
ricavare i valori dell’energia, è sufficiente imporre all’onda la condizione di stazionarietà assimilando lo
spazio nel quale si muove a una corda di lunghezza L fissa agli estremi:
essendo
e tenendo conto che l’energia dell’elettrone è esclusivamente cinetica:
si ottiene
l’energia risulta così quantizzata e il suo valore minimo si ottiene ponendo n = 1:
abbiamo considerato la lunghezza L con tre cifre significative per dare maggior significato al risultato finale,
che andrebbe arrotondato a 40 eV se si considera il dato con una sola cifra significativa, come riportato nel
testo.
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Secondo tema
Sono disponibili una pila di forza elettromotrice f.e.m. = 4,5 V e due lampadine, A e B, costruite per essere
utilizzate con una differenza di potenziale ΔV = 4,5 V e aventi, rispettivamente, le potenze PA = 3W e PB =
5W.
La pila eroga una corrente di intensità I = 6 A se è posta in condizione di cortocircuito per un breve istante.
Il candidato:
1. spieghi i concetti di forza elettromotrice di una pila e di differenza di potenziale disponibile ai suoi
morsetti, proponendo anche la relazione matematica tra le due grandezze;
2. descriva una procedura di laboratorio per misurare ognuna delle due grandezze fisiche;
3. tratti il concetto di potenza associato ad una corrente elettrica e ricavi l’espressione della potenza
dissipata in una resistenza;
4. calcoli la resistenza interna della pila in condizioni di cortocircuito, trascurando la resistenza del filo
di collegamento;
5. calcoli la potenza dissipata sulle due lampadine quando vengono collegate, separatamente, alla
pila;
6. calcoli, in percentuale, il rendimento delle due lampadine in rapporto alla loro reale capacità di
funzionamento e commenti il risultato indicando quale lampadina ha la luminosità più vicina al
valore massimo possibile, in base alle sue caratteristiche, e spiegando il perché.
Svolgimento tema 2
1.
Il candidato spieghi i concetti di forza elettromotrice di una pila e di differenza di potenziale
disponibile ai suoi morsetti, proponendo anche la relazione matematica tra le due grandezze
Un generatore di tensione è un dispositivo in grado di mantenere ai suoi terminali (detti poli) una
differenza di potenziale costante. La pila costituisce un comune esempio di generatore di tensione.
Consideriamo un circuito elementare composto da un generatore di tensione e da una resistenza:
+
-
La corrente elettrica che attraversa tutto il circuito, per convenzione, può essere immaginata come un
movimento d’assieme di cariche positive che escono dal polo del generatore a potenziale maggiore e,
muovendosi grazie al campo elettrico esterno orientato dal polo positivo verso quello negativo,
attraversano la resistenza perdendo energia (che sarà dissipata nella resistenza stessa per effetto Joule), e
giungono infine al polo del generatore a potenziale minore, che per convenzione viene posto uguale a zero.
A questo punto, per consentire il proseguimento del passaggio di corrente, la carica dovrebbe essere
riportata al polo positivo del generatore, ma ciò non può avvenire mediante il campo elettrico, avendo la
carica raggiunto il punto del circuito a potenziale più basso. Per risalire la d.d.p., è necessario compiere un
lavoro sulla carica contro il campo elettrico, che è presente anche all’interno della batteria ed è orientato
dal polo positivo verso quello negativo. Questo lavoro viene compiuto da un particolare campo presente
all’interno del generatore e nullo all’esterno, detto campo elettromotore. Questo campo, non conservativo
a differenza del campo elettrico, è generato dai processi chimico-fisici che avvengono all’interno della
batteria. La forza elettromotrice del generatore (f.e.m.) è definita come il lavoro compiuto dal campo
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elettromotore per trasportare una carica q positiva dal polo negativo a quello positivo, fratto la carica
stessa:
Essendo una particolare differenza di potenziale, la f.e.m. si misura in volt.
La f.e.m., però non è uguale alla d.d.p. effettivamente disponibile ai capi del generatore. Infatti, la
corrente, attraversando anche il generatore, incontra una resistenza, detta interna, che ha come effetto
quello di abbassare la d.d.p.. Indichiamo con r la resistenza interna del generatore e con R la resistenza
esterna (di carico) e ridisegniamo il circuito precedente:
R
+
r
-
ε
Applichiamo la seconda legge di Kirchhoff (legge delle maglie), in base alla quale la somma delle cadute di
potenziale in una maglia è uguale a zero:
in questa relazione, utilizzando la prima legge di Ohm, Ri può essere considerata la d.d.p. ai capi della
resistenza del carico, cioè quella effettivamente disponibile, mentre ri è la caduta di tensione operata dalla
resistenza interna del generatore. Possiamo pertanto scrivere una semplice relazione tra la d.d.p. ΔV
disponibile ai morsetti e la f.e.m.:
ma, essendo
otteniamo
La relazione ottenuta
conferma che la d.d.p. effettiva è minore della f.e.m.
La resistenza interna di un generatore è generalmente di pochi Ω. Quando in un circuito r << R, essa può
essere trascurata e la d.d.p. effettiva può essere considerata uguale alla f.e.m. In tal caso il generatore è
detto ideale.
Notiamo, infine, che quando il circuito è aperto l’intensità di corrente vale zero, per cui risulta
ΔV = ε: pertanto la forza elettromotrice può essere anche definita come la differenza di potenziale
misurata ai capi del generatore a morsetti aperti.
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2.
Il candidato descriva una procedura di laboratorio per misurare ognuna delle due grandezze
fisiche
Per misurare sperimentalmente la f.e.m. e la d.d.p. effettiva, si può ricorrere al seguente circuito:
I
r
R
V
ε
rV
Chiudendo l’interruttore I, il voltmetro, posto in parallelo, misura la tensione ai capi del carico e, di
conseguenza, la d.d.p. effettiva. Aprendo l’interruttore, si impedisce il passaggio di corrente in R e il
voltmetro misura la tensione ai capi del generatore, che coincide con la f.e.m.. In realtà, questo metodo
misura la f.e.m. in modo impreciso, in quanto il voltmetro ha bisogno di corrente per funzionare e quindi i
terminali del generatore non possono essere considerati aperti. Tuttavia, se la resistenza interna del
voltmetro è molto più grande di quella del generatore (r V >> r), ipotesi plausibile considerando le
caratteristiche di un comune voltmetro, la corrente circolante è molto bassa e la misura può essere
considerata sufficientemente corretta. Per una misura più precisa della f.e.m., si dovrebbe ricorrere al
confronto tra la f.e.m. da misurare e quella di una pila campione.
3.
Il candidato tratti il concetto di potenza associato ad una corrente elettrica e ricavi l’espressione
della potenza dissipata in una resistenza
In Meccanica, la potenza è definita come la rapidità con cui una forza compie un certo lavoro:
o, in maniera analoga, come la rapidità con la quale varia l’energia di un sistema fisico:
Nel caso elettrico, la potenza è legata al lavoro compiuto dal generatore per far circolare corrente, e alla
sua successiva dissipazione nelle resistenze per effetto Joule.
Quando in un circuito circola corrente, il generatore compie un lavoro sulle cariche
dove
è la quantità di carica spostata nel tempo Δt e
Ricordando che
la differenza di potenziale ai capi del conduttore.
si ottiene per il lavoro l’espressione:
Ricordando che, per definizione, la potenza è data dal rapporto tra il lavoro e il tempo:
si ottiene per la potenza elettrica la relazione
Questa formula può essere utilizzata sia per calcolare la potenza fornita dal generatore, utilizzando la
f.e.m. come differenza di potenziale:
sia per calcolare la potenza dissipata in un conduttore per effetto Joule:
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dove per
intendiamo la d.d.p. ai capi del conduttore.
In entrambi i casi notiamo che la potenza elettrica può essere calcolata semplicemente moltiplicando la
tensione per la corrente.
Se il conduttore è ohmico, sfruttando la prima legge di Ohm:
si ottengono, per la potenza dissipata, le seguenti relazioni:
Dalla prima di queste 2 relazioni, in particolare, si nota che la potenza dissipata è direttamente
proporzionale al quadrato della corrente.
4.
Il candidato calcoli la resistenza interna della pila in condizioni di cortocircuito, trascurando la
resistenza del filo di collegamento
Ricordiamo che con l’espressione “corto circuito” si intende un collegamento mediante un conduttore di
resistenza trascurabile (in genere un filo metallico) di due punti a diverso potenziale, in modo da escludere
dal passaggio di corrente uno o più elementi di un circuito. Nel nostro caso, un filo metallico collegato
direttamente ai terminali della pila esclude dal passaggio di corrente tutte le resistenze di carico e
costringere la corrente a circolare in una maglia che comprende unicamente la pila.
r
R
ε
i=0
La corrente circola incontrando unicamente la resistenza interna della pila. Applicando la prima legge di
Ohm si ottiene:
Ω
5.
Il candidato calcoli la potenza dissipata sulle due lampadine quando vengono collegate,
separatamente, alla pila
E’ possibile ricavare la resistenza della lampadine tenendo conto della relazione:
Δ
lampadina A:
Ω
Ω
lampadina B:
Ω
Ω
Le lampadine, tuttavia, non dissiperanno le potenze indicate in quanto, a causa della resistenza interna
della lampadina, non potranno essere sottoposte alla d.d.p. di 4,5 V.
Possiamo ricavare le d.d.p. effettive con la formula ricavata nel punto 1.:
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Ω
Ω
Ω
Ω
per cui le potenze dissipate saranno:
Ω
Ω
6.
Il candidato calcoli, in percentuale, il rendimento delle due lampadine in rapporto alla loro reale
capacità di funzionamento e commenti il risultato indicando quale lampadina ha la luminosità più vicina
al valore massimo possibile, in base alle sue caratteristiche, e spiegando il perché
Il rendimento di una lampadina è il rapporto tra la potenza effettivamente dissipata nelle condizioni di
funzionamento e quella nominale:
avremo:
in percentuale, come richiesto dalla traccia, i rispettivi rendimenti sono:
la lampadina dal rendimento più alto è la A, che pertanto avrà la luminosità più vicina al massimo valore
possibile.
Per spiegare fisicamente perché la lampadina A ha rendimento migliore, occorre considerare che in un
circuito reale la potenza erogata dal generatore viene dissipata in parte nelle resistenze del carico e in
parte nel generatore stesso a causa della resistenza interna. Quanto più la resistenza del carico e quella del
generatore sono vicine, tanto maggiore in percentuale sarà la potenza dissipata nel generatore e ciò farà sì
che il dispositivo collegato alla batteria funzioni meno bene. Infatti, tenendo conto che:
possiamo esprimere le potenze dissipate nel carico e nel generatore con le seguenti relazioni:
Pertanto, quanto più la resistenza del carico è maggiore di quella interna, tanto migliore sarà il
trasferimento di potenza dal generatore al carico e il rendimento del dispositivo utilizzato. Questa
situazione è chiaramente soddisfatta dalla lampadina A. Infatti:
Ω
Ω
Ω
Ω