Canto degli Armonici - Tertium Auris

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI
BOLOGNA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA DAMS
Canto degli Armonici
Parallelismi e Contaminazioni
tra Oriente e Occidente
Tesi di laurea in Antropologia dello Spettacolo
Relatore
Prof. Giovanni Azzaroni
Presentata da
Massimiliano Buldrini
Correlatore
Prof.ssa Eugenia Casini Ropa
Sessione: II
Anno Accademico 2008/2009
INDICE
Canto degli Armonici
Parallelismi e Contaminazioni tra Oriente e Occidente
Introduzione
Genesi di una tesi…………………………………...…….….................
p. 3
Capitolo I
Che cos’è la voce...................................................................................... p. 8
Che cos’è l’ascolto...................................................................................
p. 10
Che cos’è il Canto Armonico…….………………….….......…...........
p. 14
Storia del Canto Armonico.......................................................................
p. 17
Capitolo II
Il Canto Armonico in Oriente………………………….…….................. p. 19
Mongolia.....................................................................………………...... p. 22
Tibet.......................................................................……….......................
p. 32
Tuva............................................................................…………………..
p. 36
Capitolo III
Il Canto Armonico in Occidente............................................................... p. 43
America.............……………….………………………….……….......... p. 45
Africa…....................................................................................................
p. 48
Sardegna…………………………………………………………........... p. 51
Capitolo IV
Interviste ai maestri..................................................................................
p. 70
Note biografiche.......................................................................................
p. 86
Conclusioni…………………………………………………………........…….. p. 95
Bibliografia…………………………………………………………….............. p. 98
Discografia..........................................................................................................
p. 100
2
Introduzione
Genesi di una tesi
Nel 2004, con l’associazione di cui sono fondatore, il T.I.L.T.
(Trasgressivo Imola Laboratorio Teatro1), abbiamo intrapreso un
percorso di ricerca su Le Città Invisibili di Italo Calvino.
Dal momento che uno dei protagonisti è Kublai Khan,
condottiero mongolo e imperatore cinese, mi sono messo alla ricerca
di materiale sonoro legato alla Mongolia.
Nel frattempo stavo seguendo un percorso di ricerca vocale con
Germana Giannini2, che mi ha fatto scoprire il lavoro di Demetrio
Stratos3, che già conoscevo come musicista degli Area4.
È come se prima di allora la mia conoscenza vocale fosse stata
solo bi-dimensionale, mentre dopo la scoperta e lo studio della ricerca
di Demetrio Stratos, e l’ascolto di tracce audio provenienti da
Mongolia, Tibet e Tuva, mi si aprisse un mondo fino ad allora
sconosciuto.
Lo strumento voce si è trasformato quindi in uno strumento tridimensionale, dove alle conoscenze legate agli studi legati alla
concezione occidentale di vocalità, si è aggiunta una componente del
tutto nuova: l’uso degli armonici.
Questi armonici erano già presenti anche prima della loro
scoperta, solo che non li sapevo ascoltare. L’ascolto: questo è un altro
elemento molto importante per chi lavora con la voce, e che il canto
armonico riesce a sviluppare, o quantomeno a spingere al di là dei
confini che l’Occidente di solito non oltrepassa.
E qui tornano Le Città Invisibili, e il protagonista di questo
libro: Marco Polo, che si spinge verso i confini del mondo per poi
tornare a raccontare al suo imperatore le meraviglie che ha incontrato,
come spiega il dialogo seguente:
Kublai domanda a Marco:- Quando ritornerai al Ponente, ripeterai
alla tua gente gli stessi racconti che fai a me? - Io parlo parlo, - dice
Marco, - ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la
descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà
il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa
1
Associazione Culturale senza scopo di lucro fondata nel 1996 insieme ad attori de Il Gruppo
Libero di Bologna tra i quali Bianca Maria Pirazzoli.
2
Si occupa di ricerche antropologiche sulla pratica del canto di tradizione nelle diverse culture.
3
Cantante, polistrumentista e ricercatore musicale (Alessandria d’Egitto 1945 - New York 1979).
4
Gruppo musicale rock italiano attivo dal 1972.
3
mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda
età, se venissi fatto prigioniero dai pirati genovesi e messo in ceppi nella
stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al
racconto non è la voce: è l’orecchio5.
e come dice l’esploratore veneziano “chi comanda al racconto
non è la voce: è l’orecchio”, come nel canto.
La mia ricerca vocale è iniziata nel 2003, quando ho conosciuto
Germana Giannini in un seminario organizzato dai Teatri di Vita
presso la sala di Via del Pratello a Bologna: grazie a lei ho capito
subito che la voce aveva molte più possibilità di quelle che conoscevo
grazie al mio percorso di musicista, iniziato anni prima ma sempre
all’interno di una concezione di tipo occidentale.
Dopo la scoperta del canto armonico ho cercato dei maestri che
mi potessero insegnare un metodo, una via per arrivare a produrre
questo tipo di suono: grazie all’aiuto e ai consigli di Germana
Giannini ho conosciuto Andrea De Luca, che aveva studiato con uno
dei più importanti maestri di canto armonico: Trân Quang Hai6.
Trân Quang Hai, nato nel Vietnam del Sud, ha studiato al
Conservatorio di Saigon e quindi in Francia presso il Centre d’Etudes
de Musique Orientale di Parigi; dal 1968 fa parte del gruppo di ricerca
del CNRS - dipartimento di musicologia presso il Musée de l’Homme
di Parigi. Da molti anni si dedica allo studio etnomusicologico e
fisiologico del Canto Difonico. Ispiratore per Demetrio Stratos, David
Hyke, Roberto Laneri ed altri “grandi” studiosi e performers
dell’overtone singing, il vietnamita Trân Quang Hai può essere
considerato colui che maggiormente ha contribuito alla divulgazione
in occidente della tecnica del Khoomeilakh, tipica del canto degli
armonici praticato a Tuva e in Mongolia.
Per una serie di coincidenze, nel 2007 vengo a conoscenza di
una manifestazione ad Alberone di Cento in provincia di Ferrara:
Rassegna di Musica Diversa “Omaggio a Demetrio Stratos”
organizzata da Raffaello Regoli, musicista e allievo di Demetrio, che
comprende nel suo interno dei seminari con vari maestri di vocalità:
ed è proprio in questa occasione che incontro per la prima volta dal
vivo Trân Quang Hai.
Studiare dal vivo l’emissione degli armonici, vedere in prima
persona un maestro di quella portata, mi ha fatto crescere molto di più
di quanto non fossi riuscito a fare durante i precedenti anni di studio
attraverso cd musicali e libri sul canto armonico.
5
I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1996, p. 143.
Tran Quang Hai è considerato il più importante esperto di canto armonico in Occidente, proviene
da una famiglia di cinque generazioni di musicisti.
6
4
Ho trovato in Trân Quang Hai una persona molto disponibile,
ed ogni volta che comunico con lui via internet mi risponde con
piacere, e tutto il materiale raccolto nel suo sito7, è un preziosissimo
strumento per chi vuole apprendere questa tecnica che proprio lui ha
reso più accessibile.
Nel 2009 ho avuto la possibilità di incontrarlo nuovamente,
insieme ad altri maestri molto importanti: Marco Tonini e Albert
Hera. Il seminario era sempre all’interno della Rassegna di Musica
Diversa “Omaggio a Demetrio Stratos” ad Alberone di Cento (FE),
organizzata da Raffaello Regoli, in collaborazione con Daniela
Ronconi Demetriou (moglie di Stratos) e Loris Furlan (giornalista e
discografico).
Marco Tonini è studioso e ricercatore sulle tecniche vocali, sia
tradizionali che sperimentali, e durante il seminario ha tenuto una
lezione più tecnica, legata all’acustica musicale e analizzando la voce
con software elettronici, utilissimi per lo studio di questa tecnica:
anche sul suo sito8 si possono trovare strumenti preziosi.
Albert Hera propone invece una visione del canto come
emissione libera, alla base della quale risulta fondamentale la ricerca
scrupolosa di una coordinazione e sintonizzazione acustica del suono
puro, al fine di generare una globale armonia tra corpo e mente; nel
2002 sente la necessità di far conoscere pubblicamente il proprio
pensiero attraverso la creazione del primo portale sulla voce9.
Un altro aiuto importante mi è stato dato dal libro di Roberto
Laneri intitolato La voce dell’arcobaleno, che inizia con un racconto
molto emblematico che spiega in qualche modo la filosofia del canto
armonico:
C’era una volta un uomo che viveva in un piccolo villaggio
dell’Armenia, commerciava in tappeti come tutti gli altri abitanti del
villaggio, ed aveva una reputazione locale di saggezza. Conduceva vita
molto ritirata e viveva solo, finché a un certo punto non decise di prendere
moglie e sposò una ragazza di un villaggio vicino, di parecchi anni più
giovane.
La loro vita scorreva tranquilla: ogni sera l’uomo tornava dalla sua
bottega, e mentre la moglie preparava la cena faceva un po’ di musica.
Suonava uno strumento ad arco armeno, simile alla nostra viola, e mai per
più di una mezz’ora.
La moglie ascoltava in silenzio, sorvegliando la zuppo o l’arrosto. A dire il
vero le sembrò presto che in quella musica ci fosse qualcosa di strano, e
voleva chiedere che cosa fosse, ma a quel tempo le donne non facevano
domande indiscrete ai loro mariti. Una sera capì improvvisamente cosa
7
http://www.tranquanghai.com/
http://marcotonini.wordpress.com/
9
http://www.voiceart.net/
8
5
stava succedendo: suo marito suonava una nota sola, sempre la stessa! La
cosa sembrò strana, ed avrebbe voluto chiedergli qualche spiegazione, ma
era timida e rispettosa, e aveva paura di fare domande sciocche. Così
passavano gli anni, finché, dopo diciannove anni di matrimonio, non poté
più trattenersi e parlò così:
- Perdona la mia impertinenza, caro marito, ma è da tempo che vorrei
rivolgerti una domanda. Ho sentito altre persone suonare il tuo strumento,
ed anche altri strumenti. È vero che a volte si suonano note molto lunghe,
ma non ho mai sentito nessuno suonare sempre la stessa nota, per tutti
questi anni, senza cambiare mai. Che modo di suonare è dunque questo? L’uomo la guardò a lungo, quasi incredulo, poi sospirando e scuotendo la
testa rispose: - O donna, lunga di capelli e corta di comprendonio, mostro
di curiosità e di sfrontatezza, grande in verità è la tua impudenza! Tuttavia
sappi che coloro che suonano molte note fanno così perché cercano la loro
nota, mentre io la mia l’ho trovata molto tempo fa10.
Questa immagine può essere usata anche per capire l’approccio
antropologico da usare per lo studio di queste e di altre manifestazioni
culturali di paesi anche molto distanti dal nostro: è necessario
conoscere la storia, l’economia, la politica, la religione, la arti e la
cultura nelle diverse e sfaccettate manifestazioni di un determinato paese
prima di affrontare l’oggetto teatro11
o in questo caso l’oggetto vocale.
Nel primo capitolo verrà spiegato da dove nasce la voce e cosa
significa Canto Armonico, sia a livello di acustica musicale, che a
livello di origini storiche, toccando anche un argomento che
meriterebbe solo esso un approfondimento importante: l’ascolto.
Nel secondo capitolo affronteremo il Canto Armonico come
viene visto in Oriente, e in specifico in Mongolia, Tibet e Tuva:
tracceremo un profilo storico delle zone in cui si riscontra questo
genere di canto cercandone di analizzare a livello antropologico
l’origine.
Nel terzo capitolo, vedremo come in Occidente viene usato e
considerato il Canto Armonico, analizzando tre casi distanti ma che
sono collegati da un sottile filo rosso: l’America, l’Africa e la
Sardegna sempre partendo da uno sguardo sulla storia e le origini di
queste zone.
10
11
R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2002, p. 15.
G. Azzaroni, La realtà del mito, a cura di, Clueb, Bologna, 2003, p. 9.
6
Nel quarto capitolo, inseriremo interviste con maestri legati alla
pratica del canto armonico, e le loro biografie, per dare un riscontro
pratico e reale alle analisi dei capitoli precedenti fino ad arrivare alle
conclusioni di questo lavoro.
Nella bibliografia indicheremo tutti i testi dai quali abbiamo
attinto informazioni, indicando più riferimenti possibili, anche se in
alcuni casi, avendo trovato alcune informazioni da ricerche su internet
e da materiali diversi (cd-rom, dispense, appunti, ecc.) raccolti durante
gli anni di ricerca sul canto armonico, non ci è possibile inserire le
pagine precise dalle quali sono tratti i brani o le citazioni presenti nella
tesi.
In un compact disc allegato alla tesi, abbiamo creato una sintesi
di brani legati al canto armonico raccolti nel percorso intrapreso dal
2004.
7
Capitolo I
Che cos’è la voce
La risonanza vocale non è altro che quel processo nel quale la
debole vibrazione delle corde vocali viene amplificata e modellata
creando un suono.
Non sono però i risonatori stessi a produrre questo processo, ma
l’aria in essi contenuta: in assenza di aria, infatti, non si produrrebbe
alcun suono, o più precisamente, non si otterrebbe lo stesso suono,
come ad esempio accade quando siamo sott’acqua.
Il tratto vocale è quello spazio che dalla glottide, segmento
intermedio della laringe in corrispondenza delle corde vocali, arriva
fino alle labbra, ed è qui che si determina il timbro vocale (Fig. 1).
L’onda sonora può sviluppare armoniche alte o basse a seconda
della conformazione del tratto vocale al momento della emissione:
nelle cavità di risonanza piccola verranno rinforzate le componenti
armoniche acute, in quelle grandi verranno rinforzate le componenti
armoniche gravi.
Fig. 1
Fig. 2
Le corde vocali sono quattro, due false (superiori) e due vere
(inferiori): sono queste ultime che generano il suono e ci permettono
di parlare e di cantare. Esse sono ripiegature della mucosa laringea,
spesse e di colore bianco-perla, convergenti tra loro sul davanti, e
divergenti dietro formando una apertura triangolare detta glottide dalla
8
quale passa l’aria e che serve a dividere l’apparato digerente da quello
respiratorio (Fig. 2).
Nella normale respirazione le corde mantengono questa distanza
per fare passare l’aria, mentre durante la fonazione si avvicinano
formando una stretta fessura che, vibrando e per mezzo dell’aria,
produce il suono.
Una grandissima importanza in questo processo la ricopre anche
l’orecchio, e non solo per la sua funzione uditiva, ma anche per quella
vestibolare. Il vestibolo, che fa parte dell’orecchio interno, controlla
l’equilibrio: è grazie a esso che noi riusciamo ad avere un’immagine
del nostro corpo nello spazio. L’altra parte dell’orecchio interno è la
coclea: la sua funzione è di analizzare i suoni, indispensabile anche
per la comprensione del linguaggio (Fig. 3).
Fig. 3
Il vestibolo e la coclea sono collegati tra loro, formando una
stazione di relè tra il sistema nervoso e il cervello per il trattamento
delle informazioni sensoriali12.
Nel paragrafo successivo andremo a toccare anche gli studi di
Alfred Tomatis13, un otorinolaringoiatra francese che, circa
cinquant’anni fa, fece una serie di scoperte sorprendenti per quei
tempi sull’ascolto, che lo incoraggiarono a proseguire le sue ricerche e
a mettere a punto una tecnica sonica per la rieducazione psicologica.
12
A. Tomatis, L’orecchio e la voce, Baldini&Castoldi, Milano, 2002, pp. 119-130.
Alfred Tomatis (Nizza 1920 - Carcassonne 2001) otorinolaringoiatra, dopo il dottorato in
Medicina e Chirurgia presso la Scuola di Medicina di Parigi, ha gettato le basi per una nuova
scienza chiamata audio-psico-fonologia (APP).
13
9
Inoltre, comparando quasi casualmente le analisi spettrali
dell’udito e della voce, scoprì che le frequenze che mancavano
all’ascolto erano le stesse che non erano presenti nella voce: costruì
quindi una macchina chiamata “orecchio elettronico” in grado di
allenare il nostro udito a percepire quelle frequenze mancanti,
facendole contemporaneamente apparire nella voce.
Che cos’è l’ascolto
Dai suoi studi il professor Tomatis mise a punto un metodo di
educazione all’ascolto ricco di risvolti. La finalità di questo metodo è
di rieducare il nostro ascolto migliorando così le capacità
d’apprendimento e di comunicazione. Esso agisce sul comportamento,
modificandolo gradualmente, quando necessario, favorendo un
migliore adattamento alle condizioni sociali
Il metodo Tomatis ha aiutato decine di migliaia di bambini e
adulti con problemi di dislessia, apprendimento, attenzione,
iperattività, autismo14. Il metodo è stato di grande aiuto anche a
persone con problemi d’integrazione sensoriale o con difficoltà
psicomotorie. Ha permesso a molti adulti di lottare contro la
depressione, di imparare più facilmente una lingua straniera, di
comunicare con maggiore facilità, di essere più creativi e di migliorare
la loro efficacia nel lavoro. Molti musicisti, cantanti e attori hanno
utilizzato il metodo per affinare il loro talento. Infine molti utenti dei
centri Tomatis hanno sottolineato il suo impatto psicologico,
menzionando un’accresciuta fiducia in se stessi, un migliorato livello
d’energia e di motivazione, così come una maggiore chiarezza di
pensiero e un migliorato senso di benessere
Nel corso degli anni, il professor Tomatis ha sviluppato una
complessa teoria basata sulle diverse funzioni dell’orecchio e le sue
relazioni con la voce15. Questa presentazione del metodo Tomatis si
limiterà a illustrare le principali idee di Tomatis riguardanti le basi
neurofisiologiche dell’ascolto. Tomatis ha scritto numerosi testi che
consentono di approfondire il senso della sua ricerca. È inoltre
necessario sottolineare il numero crescente di studi scientifici che
confermano l’efficacia del metodo Tomatis. Anche i risultati clinici
ottenuti dai professionisti che utilizzano il metodo, confermano i suoi
effetti terapeutici.
14
15
A. Tomatis, Educazione e dislessia, Edizioni Omega, Torino, 1977.
A. Tomatis, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Edizioni, Como, 2001.
10
Tomatis fa notare come le alte frequenze siano stimolanti ed
energetiche per il cervello, mentre le basse frequenze lo privano
d’energia. Per questo motivo egli chiama le alte frequenze “suoni di
ricarica” e le basse frequenze “suoni di scarica”. Una caratteristica di
queste ultime è che attivano i canali semicircolari e ci forzano a
muoverci. Se il corpo però è sottoposto all’influenza prolungata delle
basse frequenze, la persona rischia di arrivare a sentirsi spossata ed
esaurita. Questi effetti si possono notare in quelle persone che
ascoltano della musica rock o rap per periodi molto lunghi. In
compenso le musiche di Mozart o di Bach comportano effetti
completamente opposti.
Tomatis afferma che quando il nostro cervello è “carico”, noi
riusciamo a concentrarci, memorizzare, imparare, lavorare per molto
tempo, quasi senza sforzo. Quando il cervello è ben “carico”, noi non
manchiamo d’energia per innovare, immaginare o creare. Un gran
numero di bambini e adulti con un buon orecchio musicale hanno
questo tipo di energia e raramente fanno l’esperienza di essere stanchi
o depressi. D’altra parte, i bambini che soffrono d’iperattività, hanno
la tendenza a muoversi costantemente per “ricaricare” il loro cervello
con l’energia risultante dalla stimolazione del vestibolo attraverso il
movimento. È chiaro che le persone il cui sistema nervoso riceve poca
stimolazione, devono far fronte alle situazioni che la vita
quotidianamente presenta, con uno sforzo maggiore.
Per Tomatis, la funzione primaria dell’orecchio non è l’udito,
ma l’ascolto. E qui Tomatis stabilisce una chiara distinzione tra esse.
L’udire è un processo passivo, l’ascolto un processo attivo che
risponde ad un desiderio di impegnare l’udito per selezionare i suoni e
attribuire loro un valore significativo. La maggior parte dei bambini
con problemi scolastici o d’attenzione hanno un buon udito secondo
l’audiologia tradizionale, ma non riescono a leggere normalmente o a
concentrarsi. Per Tomatis essi soffrono di un problema d’ascolto16.
L’ascolto consiste nella capacità di registrare l’informazione
sonora escludendo la parte di segnale non pertinente. Quando le
sensazioni sono trattate rapidamente e senza ostacoli, gli stimoli non
pertinenti sono soppressi e noi possiamo concentrarci senza sentirci
disturbati o bombardati dall’insieme delle informazioni provenienti
dall’ambiente circostante o da noi stessi. Noi possiamo selezionare e
organizzare le informazioni per ordine gerarchico di importanza senza
sentirci sommersi da esse. Al contrario, quando questo processo è
disturbato, vuol dire che si sono sviluppati dei problemi d’ascolto che
16
A. Tomatis, L’Orecchio e il Linguaggio, Edizioni Ibis, Pavia, 1995.
11
si traducono in difficoltà d’ordine scolastico e di comunicazione,
come pure in mancanza di competenza sociale nei rapporti umani.
Educare all’ascolto alla maniera di Tomatis ha lo scopo di
restituire all’orecchio la sua capacità di ascoltare in maniera
efficace. La finalità è di aumentare l’attitudine del cervello ad
imparare piuttosto che insegnare delle tecniche specifiche. Quando la
funzione d’ascolto è accresciuta e ristabilita, il cervello è capace di
apprendere in maniera più efficace in risposta alle sollecitazioni
dell’ambiente.
Per molti è una sorpresa apprendere che noi abbiamo un
orecchio dominante. Alcuni di noi sono destri di orecchio e altri
mancini. Il vantaggio di avere l’orecchio destro dominante risiede nel
fatto che l’orecchio destro tratta le informazioni uditive più
rapidamente dell’orecchio sinistro. Di conseguenza chi è destro di
orecchio è capace di controllare meglio i diversi parametri che
regolano la voce e la parola : l’intensità, la frequenza, il timbro, il
ritmo e lo scorrere della frase. Il Metodo Tomatis permette alla
persona di imparare a utilizzare l’orecchio destro in maniera più
efficace.
Ricercatori che hanno valutato gli effetti del Metodo Tomatis
sui balbuzienti (Badenhorst, 1975) confermano che
«i soggetti destri d’orecchio manifestano una capacità superiore a
rispondere spontaneamente e in maniera appropriata a uno stimolo
emozionale. Le persone destre d’orecchio sono più estroverse e
controllano meglio le loro risposte emozionali; esse sono ugualmente
meno soggette all’ansia, alle tensioni, alla frustrazione e
all’aggressività. Questi risultati sono in linea con le previsioni fatte da
dalla teoria di Tomatis riguardo la lateralità17».
È difficile parlare dell’orecchio senza parlare della voce; i due
sono, infatti, legati tra loro in una maniera non sempre chiaramente
compresa. Appoggiandosi sui dati sperimentali, Tomatis fece nel 1953
una comunicazione all’Académie Française con la quale enunciò la
seguente legge:
«La voce contiene solamente i suoni che l’orecchio può percepire».
In conseguenza di ciò, quando cambia il modo di percepire i
suoni, la voce cambia in uguale misura. È facile osservare questo
fenomeno nei cantanti con un problema di voce. In molti casi, il
problema di voce ha per origine un problema minore d’ascolto:
17
Van Jaarsveld, 1973, 1974, cit. Pieter E. van Jaarsveld and Wynand F. du Plessis, in “S. Afr.
Tydskr. Sielk”, 1988, 18 (4).
12
l’orecchio, in questo caso non è in grado di verificare la giustezza del
suono nel momento che è emesso. Quando il problema d’ascolto è
risolto, la voce ritrova molto più facilmente la sua capacità ottimale.
Non è quindi sorprendente che molti cantanti celebri, come Maria
Callas, ad esempio, abbiano ricorso al metodo Tomatis.
I bambini e ragazzi con una voce sorda e spenta hanno spesso
dei problemi di apprendimento e soffrono di una deficienza di ascolto.
È per questo motivo che una voce discordante indica una diminuita
capacità ad analizzare le alte frequenze, così come un problema di
lateralizzazione. Il bambino che possiede questo tipo di voce è di tutta
evidenza sinistro d’orecchio. Nel momento che si migliora il suo
ascolto e che lo si rende destro di orecchio, la sua voce diventa più
ricca di armonici e più precisa, armoniosa e rapida nelle risposte.
Tomatis ha postulato molto presto che il feto poteva udire ed
ascoltare la voce di sua madre. Da allora, le ricerche scientifiche
hanno valicato questa scoperta al punto di farne un’idea banale.
L’orecchio è infatti il primo organo ad essere totalmente funzionale
quando il feto ha solamente 4 mesi e mezzo di vita intrauterina.
Henry Truby18 ha scoperto che il feto, dall’età di sei mesi
muove il corpo in funzione del ritmo della parola della madre. Dopo
aver consultato la maggior parte della letteratura scientifica
sull’argomento, Tomatis concluse che la voce materna agisce non
solamente come una sorta di sostanza nutritiva emozionale, ma che
anche prepara il bambino all’acquisizione del linguaggio dopo la
nascita. È come dire che l’ascolto inizia già nell’utero.
È per questa ragione che Tomatis utilizza la voce materna per
rimettere in moto il processo di ascolto19. La voce viene filtrata
elettronicamente al fine di ricostituire l’ambiente sonoro intrauterino.
Le reazioni dei bambini così come quelle degli adulti mostrano che
l’uso della voce materna ha un forte effetto terapeutico: i bambini si
calmano, come se la voce li tranquillizzasse; diventano più affettuosi,
in particolare nei confronti della madre. I bambini adottati sviluppano
un legame più forte con la loro madre adottiva. La voce materna
fornisce la base solida che permette al processo di ascolto di
svilupparsi, processo che segue le diverse fasi dello sviluppo del
bambino e che conduce allo sviluppo del linguaggio. La terapia messa
a punto da Tomatis non è altro che un tentativo di ri-programmare le
diverse fasi dello sviluppo umano attraverso un esperienza sonora
simbolica.
L’uso della voce materna, poiché è spesso parte integrante del
processo terapeutico ha condotto qualcuno a concludere erroneamente
18
19
Henry Truby, Pre-speech and Infantile Speech Lexicon, 1971.
A. Tomatis, La Notte Uterina, Red Edizioni, Como, 1996.
13
che Tomatis rende la madre responsabile delle difficoltà del suo
bambino. Questa conclusione non rappresenta certamente il pensiero
di Tomatis. La voce materna non è altro che un mezzo terapeutico per
creare o ristabilire il legame tra madre e bambino, quando questo
legame non si è sviluppato completamente. Centinaia di studi
scientifici dimostrano che questo legame è primordiale. Esso fornisce
la base sulla quale si costruiscono il senso di sicurezza personale e il
desiderio di comunicazione. Utilizzando la voce materna, Tomatis
cerca di instillare nel bambino il desiderio di stabilire o ristabilire con
le persone a lui vicine un vero rapporto. Questo processo
“psicologico” va di pari passo con il miglioramento simultaneo dei
sistemi sensoriali. Il metodo Tomatis combina i due aspetti al fine di
costruire la fondazione solida che rende possibile uno sviluppo
ottimale.
Che cos’è il Canto Armonico
Tutti ci esibiamo in canti difonici senza saperlo! Basta aprire la
bocca ed emettere un suono di gola. Questo è composto da un suono di
base continuo, invariato, tenuto sulla stessa altezza degli altri più acuti (gli
armonici). È solo che non li sappiamo ascoltare! Di conseguenza, non
sentiamo gli armonici20.
Il canto armonico è quell’insieme di tecniche vocali che
rendono possibile la percezione dei suoni armonici che fanno parte di
una nota fondamentale.
Per chiarire questa definizione è necessario specificare che il
canto armonico è una di quelle musiche dove l’elemento melodico è
praticamente inesistente: esattamente il contrario di quello che accade
nella nostra cultura musicale occidentale; l’essenzialità di questo
elemento viene bilanciata dalla ricchezza di altre componenti come il
timbro, la dinamica, il ritmo e la micro-intonazione.
Gli armonici sono sempre presenti nella emissione vocale, ma
questa tecnica permette di andare a evidenziare e dare volume ad
alcuni armonici rispetto ad altri: da qui la definizione di Canto
Difonico (o bifonico), che di solito viene usata per indicare questa
tecnica, visto che all’udito si sentono due suoni diversi: la nota
fondamentale e la melodia creata dai rispettivi armonici; in realtà,
20
Trân Quang Hai, 1994, cit. Trân Quang Hai, in “EM: Annuario degli Archivi di
Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia”, LIM, vol. II, 1994, pp. 123-141.
14
utilizzando uno spettrogramma21 per analizzare una emissione di
questo tipo, si può constatare che sono comunque presenti altri
elementi oltre ai due principali che sono la fondamentale e l’armonico
evidenziato22.
Ma anche chiamarlo canto armonico potrebbe creare
confusione, in quanto non è legato al termine di armonico come lo si
incontra in musica, ma come lo definisce la fisica acustica.
Nella fisica acustica, il suono è un fenomeno di carattere
ondulatorio che per mezzo di un’onda sonora stimola l’udito. Le unità
di misura sono frequenza, intensità e durata e si misurano
rispettivamente in Hertz23 (Hz), decibel24 (dB) e secondi (sec.).
Analizzando il suono per mezzo di una sinusoide25, possiamo
affermare che l’ampiezza della vibrazione determina l’intensità del
suono (volume), mentre l’altezza del suono (nota) è determinata dalla
frequenza (Fig. 4).
Fig. 4
21
Uno spettrogramma è la rappresentazione grafica dell’intensità di un suono in funzione del
tempo e della frequenza.
22
R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, cit., pp. 17-18.
23
Dal nome del fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz che portò importanti contributi alla scienza
nel campo dell’elettromagnetismo.
24
Il decibel è l’unità di misura convenzionale con la quale in acustica si indica il livello di un
fenomeno acustico, non è una vera e propria unità di misura, ma un modo di esprimere una certa
misura: esso è adimensionale.
25
In matematica, per sinusoide si intende una curva che rappresenta il grafico di una funzione seno
o, equivalentemente, coseno.
15
Ad esempio, un suono della medesima intensità, ma di diversa
frequenza, corrisponderà a un suono più acuto maggiore è la sua
frequenza, ovvero il numero di oscillazioni (Hz) che produce in un
secondo. Un suono che oscilli a 440 Hz, equivale a un La usato per
accordare gli strumenti musicali, e visto che le frequenze di due suoni
sono tra di loro in rapporto 1:2, avremo un intervallo di un’ottava tra il
La centrale (440 Hz) e il La superiore (880 Hz), e nello stesso modo
con il La inferiore (220 Hz) (Fig. 5).
Fig. 5
L’orecchio umano riesce a distinguere suoni che variano da una
frequenza di 40 Hz fino ad una frequenza di 40.000 Hz, a seconda
dell’individuo e dell’età, per una estensione che copre undici ottave
(gli strumenti musicali tradizionali coprono circa sette ottave che
vanno da circa 40 fino a 4.000 Hz)26.
Oltre i 4.000 Hz, l’orecchio umano fatica a distinguere la
differenza di intonazione di due suoni.
Tornando alla definizione di canto armonico, troviamo vari
modi in cui esso viene definito a seconda dei paesi in cui viene
studiato: in Francia chant harmonique o chant diphonique, ma
maggiore chiarezza traspare dalla definizione anglosassone o tedesca,
rispettivamente overtone singing e Oberton singen.
In effetti la preposizione over (ober) ci aiuta a capire meglio
cosa accade nel canto armonico: l’ascoltatore riesce a udire una
melodia di armonici al di sopra della nota formante.
E qui si richiama la multidimensionalità dello strumento voce: il
suono è formato da un insieme di armonici.
26
R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, cit., pp. 31-33.
16
Storia del Canto Armonico
La storia del canto armonico risale alla più lontana antichità: già
al tempo dei Greci uno dei metodi di cura principali era l’ascolto del
suono dell’acqua, ricco di armonici, che troviamo come elemento di
imitazione anche nel canto armonico di Tuva, una delle repubbliche
federali della Federazione Russa, in Siberia.
Nel VI sec a.C. il filosofo e matematico Pitagora, conosciuto
oggi come uno dei padri della geometria, ha messo in chiaro le
relazioni tra gli intervalli musicali attraverso uno strumento musicale
chiamato monocordo.
Usando il monocordo, Pitagora fu in grado di scoprire che la
divisione musicale creata dall’uomo dava origine a determinati
rapporti: se, per esempio, una corda viene divisa in 2 parti uguali, la
nota che essa produce è di un’ottava più alta della nota prodotta dalla
corda intera: le due parti uguali vibrano in un rapporto di 2 a 1 (2:1), e
così via man mano che noi la dividiamo in 3 o 4 parti uguali.
Tornando ai rapporti sviluppati dalle corde armoniche, è
evidente che la divisione della corda effettuata dall’uomo segue
esattamente i rapporti delle serie armoniche.
Nell’esempio musicale degli armonici, la loro creazione è
spiegata dai rapporti matematici osservati sulla corda pizzicata:
in realtà gli armonici sono una manifestazione di tutte le forme di
vibrazione in quanto tutto ciò che vibra genera armonici.
Già dai tempi degli antichi Egizi, come teorizza Roberto Laneri
nel suo libro La voce dell’arcobaleno, si possono trovare elementi che
ricompaiono in tutte le tecniche esistenti, e in specifico la
modulazione degli armonici attraverso la posizione delle labbra, come
accadeva appunto nel canto sillabato.
E anche la tradizione gnostica, continua Laneri, con la tavola
gnostica di Mileto, ci comunica le formule vocaliche caratteristiche
dei pianeti allora conosciuti: anche qui, intonando lentamente e in
successione le vocali presenti in una sola emissione su una stessa nota,
emergono gli armonici.
Nel Medio Evo si può incontrare nella preghiera cristiana
all’interno delle abbazie cistercensi, dove la parola si trasforma in
canto monotòno che tende al canto armonico, fino ad arrivare alla fine
del XII secolo al cantus firmus gregoriano, che viene dilatato nel
tempo trasformando il testo in suoni vocalici che durano trenta o
quaranta secondi.
Ma poi gli armonici in Europa si allontanano sempre di più da
un discorso spirituale, ed è la musica folklorica che diventa
17
depositaria della memoria armonica: Sardegna, Sicilia, Balcani e Paesi
Baschi.
Come abbiamo visto, quindi, la tecnica del canto armonico non
è presente solo in Asia (Mongolia, Tuva e Tibet), ma anche in India
(Rajasthan) e in Africa (nella tribù degli Xhosas in Sud Africa), oltre a
essere presente, anche se in forma un po’ differente, in Europa.
La storia documentata di questo fenomeno, è però storia
recente, che risale agli inizi degli anni ‘30, ed è solo negli anni ‘70 che
nasce effettivamente il canto armonico, non solo come oggetto di
studio a livello antropologico e culturale, ma anche come tecnica da
utilizzare da parte di musicisti, e quindi non solo a livello teorico ma
anche a livello pratico.
Inoltre il canto armonico viene recuperato anche in ambito
spirituale, in collegamento con lo Yoga, la meditazione e l’espansione
dell’ascolto e della coscienza in generale27.
Questo fenomeno è probabilmente dovuto anche alla corrente
presente dalla fine degli anni ‘60, che insoddisfatta del materialismo
occidentale, è andata a ricercare elementi dalle tradizioni orientali,
come è accaduto anche nella storia del teatro occidentale di quegli
anni, sempre più in contatto con concetti ed esperienze maturate in
Oriente: da Eugenio Barba a Grotowski, passando per il Living
Theatre di Julian Beck e Judith Malina, fino ad arrivare ai giorni nostri
a maestri come Leo de Berardinis, scomparso nel 2008.
27
R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, cit., pp. 18-25.
18
Capitolo II
Il Canto Armonico in Oriente
Come abbiamo già anticipato precedentemente, il canto
armonico in Oriente è praticato principalmente in Asia.
Per cercare di studiare questo fenomeno con un approccio di
tipo antropologico, bisogna tenere conto che esso è un momento del
processo di sviluppo della cultura e della società del Paese. È
necessario conoscere la storia, la politica, la religione, le arti e la
cultura presente sul territorio, altrimenti si rischierebbe di dare risalto
alla parte performativa del canto armonico senza tenere presente da
dove viene.
Questo approccio, chiamato antropologia teatrale, è stato
teorizzato da Eugenio Barba, il quale sostiene che “alcuni principi
della pre-espressività sono più comuni e universali di quanto non si
possa a prima vista immaginare”28.
Inoltre in Oriente, in misura maggiore che in Occidente, le arti
sono ancora molto legate alla vita quotidiana e alla società.
Se andiamo ad analizzare il teatro asiatico, vedremo che il
passaggio delle tradizioni e delle arti è affidato ai maestri che
tramandano il loro sapere, di generazione in generazione, direttamente
ai loro allievi.
Il passaggio del sapere teatrale va infatti ricercato nella
trasmissione orale, anche quando esistono dei testi scritti, in quanto
ogni singolo maestro, nel passare i suoi segreti all’allievo, metterà
sempre il suo sguardo e la sua soggettività.
Il percorso di apprendimento varia rispetto alle arti, da pochi
mesi a molti anni: nel caso del teatro la formazione non finisce mai, e
dura tutta la vita, per raggiungere i più alti livelli raggiunti dai maestri.
L’insegnamento viene visto come un dono, e rende
inevitabilmente debitore verso il maestro chi lo riceve: “il guru è una
sorta di padre spirituale che conferisce la diksa, l’iniziazione, cioè
l’insegnamento, al suo discepolo: nell’India antica al discepolo era
fatto divieto di sposare la figlia del suo guru perché era considerata
l’equivalente di una sorella. La trasmissione del sapere crea una
catena che non si spezza negli anni, ma al contrario è continuamente
rinforzata dall’allievo che, anche se è diventato un valente attore o un
28
E. Barba - N. Savarese, L’arte segreta dell’attore - Un dizionario di antropologia teatrale,
Ubulibri, Milano, 2005, p. 174.
19
religioso o un artista, non dimentica mai il debito che lo lega all’antico
maestro”29.
L’unico modo per sdebitarsi da parte dell’allievo è quello di
apprendere al meglio l’arte tramandata dal maestro, e tramandarla a
sua volta ad altri discepoli: questo permette di far vivere in eterno sia
l’arte, sia il maestro che l’ha insegnata.
Questo è quindi l’approccio antropologico che si cerca di
seguire: apprendere più possibile e senza barriere e pregiudizi tutto
quello che ci arriva da paesi anche lontani dal nostro, ma che possono
insegnarci cose straordinarie.
Purtroppo non sarà possibile fare questo in questa tesi, perché
non vi è stata la possibilità di visitare direttamente i paesi di cui
parleremo, e quindi tutto quello che andremo ad analizzare, è il frutto
di studi fatti su libri di persone che hanno analizzato sul campo questi
fenomeni artistici, e in pochi ma preziosi casi, di incontri con maestri
ed esperti avvenuti nel corso degli anni.
Per quanto riguarda il Canto Armonico, come già accennato,
l’incontro più importante è stato quello con Trân Quang Hai, il
maggiore studioso e il più grande specialista in questa pratica vocale,
che ha portato in tutto il mondo partecipando come solista a festival
internazionali e concerti in oltre cinquanta paesi.
Relativamente agli stili, i principali sono quelli che incontriamo
in Asia centrale, in Mongolia e nella repubblica di Tuva.
La tradizione più nota è quella di Tuva, una piccola repubblica
appartenente alla Federazione Russa. Tale tradizione di canto risale
molto indietro nel tempo. Secondo leggende locali i tuvani
cominciarono a cantare utilizzando la tecnica Khomei per stabilire un
contatto con le entità spirituali che pervadono tutte le cose e ad
acquisire la loro forza attraverso l’imitazione dei suoni naturali. Di
fatto nelle credenze tuvane il suono è la via preferenziale che gli spiriti
della natura hanno per rivelarsi e comunicare con gli altri esseri
viventi. Le tecniche di canto difonico sviluppate nella regione di Tuva
sono riconducibili a cinque:
1. Kargyraa: fondamentali molto basse da 55 a 65 Hz
2. Khomei: (in tuvano: gola, faringe) usato per indicare il
canto difonico in generale, è considerato lo stile più antico
da molti cantanti Tuvani
3. Borbannadyr: (dal verbo borbanna: rotolare sopra) simile
al Kargyraa con fondamentali più acute (registro baritonale)
e con risonanza più nasale
29
G. Azzaroni, Le realtà del mito, a cura di, cit., p. 12.
20
4. Ezengileer: caratterizzato da passaggi ritmici veloci tra gli
armonici, considerato alquanto difficile e quindi raro
5. Sygyt: la fondamentale e le armoniche basse sono molto
deboli, per cui si avverte prevalentemente un simil-fischio:
comincia senza armonici evidenti, che verranno amplificati
in seguito.
Anche in Mongolia questo tipo di canto è legato alla religione e
alle cerimonie sciamaniche; qui vi sono vari stili che prendono il
nome dalla zona di maggior risonanza:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Kevliin: maggiore risonanza nel ventre
Tseedznii: maggiore risonanza nel petto
Bagalzuuryn: maggiore risonanza nella gola
Xamryn: maggiore risonanza nasale
Xarkiraa: tipo di canto simile al Kargyraa tuvano
Isgerex: tipo di canto flautato, usato più raramente.
In Tibet i monaci Gyuto hanno una tradizione di canto
armonico, che ha una connotazione religiosa e mistica: esso è legato
alla concezione religiosa di una realtà vibratoria dell’universo intero.
In genere i loro canti utilizzano un registro molto basso, simile allo
stile tuvano Kargyraa. Ogni monastero ha il suo armonico di
riferimento, e per loro rappresenta l’incontro del terreno col divino
attraverso un appoggio della vibrazione sul bacino per quel che
riguarda le frequenze basse, legato all’armonico che invece viene
ricercato nelle frequenze alte. Un aspetto interessante è che questa
tecnica di canto non può essere insegnata, ma si apprende per una
sorta di “trasmissione”: “si racconta che una notte del 1433 il lama
tibetano Je Tzong Sherab Senge sentì in sogno questo suono
sorprendente e il mattino successivo lo ritrovò nella sua voce”30.
In Chakasija vengono praticati tre stili di canto
(Kargirar, Kuveder o Kilenge e Sigirtip), che sono equivalenti agli
stili tuvani Kargyraa, Ezengileer e Sygyt.
Analogamente alla Chakasija, in Altaj si possono riscontrare gli
stessi stili, che qui assumono i nomi di Karkira, Kiomioi e Sibiski.
Anche nella repubblica della Bashgiria, di lingua turca, esiste
una tradizione di canto armonico (detto Uzlau, simile allo stile
tuvano Ezengileer) nell’accompagnamento di poemi epici.
In Uzbekistan, Kazakhistan e Karakalpakstan esistono forme di
poesia orale che sfruttano le difonie.
30
C. Salvesen, Il settimo tibetano. Come educate la propria voce e usarla con successo, Edizioni
Mediterranee, Roma, 2006, p. 32.
21
Mongolia
La Mongolia (mongolo: Монгол Улс) è uno stato dell’Asia,
confinante a nord con la Russia e a sud con la Cina.
Le prime tracce di presenza degli Unni sul territorio mongolo
risalgono al 1200 a.C.: sotto la guida di Attila, che nel 445 ha
unificato le popolazioni della steppa divenendo così il re degli Unni,
conquistano le terre occidentali fino all’Europa.
Dopo la morte di Attila, si sfalda il regno degli Unni, e nel 745
gli Uiguri scacciano i Turchi dalla Mongolia: poi, dal 960, si
succedono le dinastie cinesi dei Song, dei Xia e infine dei Jin.
Nel 1162 nasce Temujin e, di fatto, nasce la Mongolia: il
giovane condottiero riuscirà in pochi anni a trasformare tribù litigiose
e sparpagliate nella steppa nell’impero più esteso della storia, e nel
1206 viene incoronato imperatore degli oceani, Gengis Khan.
Le terre cinesi, russe e bulgare vengono conquistate dal
condottiero mongolo, fino a Occidente nella città di Samarcanda.
Alla sua morte venne eletto imperatore il suo terzogenito,
Ogodei, che fu chiamato Gran Khan: con lui l’impero mongolo si
espande ulteriormente fino alla Corea.
Nel 1241 muore anche Ogodei, e lascia il posto a Guyuk che a
sua volta viene nominato Gran Khan, ma morirà pochi anni più tardi
lasciando il comando alla moglie Oghul, fino a quando nel 1251 non
gli succede il primogenito del figlio minore di Gengis Khan, Mongke,
sotto il quale i Mongoli invadono la Persia.
Ed è il 1253 l’anno in cui nasce la prima testimonianza scritta
dell’impero mongolo, ad opera del francescano Guglielmo da
Rubruck31, inviato dal Papa Innocenzo IV a Karakorum per conoscere
il Gran Khan: ovviamente la sua conversione al cristianesimo era
ormai impossibile, perché lo sviluppo dell’impero mongolo, sia a
livello culturale che economico, ha fatto sì che anche la loro religione
si evolvesse; i mongoli dell’Asia occidentale e centrale si rivolsero
all’Islam e quelli dell’Estremo Oriente al buddismo.
Nel 1264 Kubilai, fratello di Mongke, sposta la capitale
dell’impero mongolo a Pechino, circondandosi di ricchezze e palazzi e
favorendo anche le arti, le scienze e la filosofia; la cultura nomade dei
Mongoli viene gradualmente oscurata da quella sedentaria dei cinesi.
Nel 1274 si registra la prima ritirata dei mongoli dovuta a due
uragani che li sorpresero durante l’invasione del Giappone: gli
sciamani avevano annunciato il fallimento dell’impresa.
31
A. Borst, Forme di vita nel medioevo, Guida Editori, Napoli, 1990, p. 696.
22
In quegli anni Kubilai Khan incontrerà Marco Polo, che riferirà
del suo viaggio nel libro Il Milione:
Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le
diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo,
leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e
gran diversitadi delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di
molte altre province. E questo vi conterà il libro ordinatamente siccome
messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo
libro e egli medesimo le vide. Ma ancora v’à di quelle cose le quali elli
non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di
veduta e l’altre per udita, acciò che ‘l nostro libro sia veritieri e sanza
niuna menzogna32.
Le vicende di questi due personaggi, ispirarono anche altri
scrittori, tra i quali il già citato Italo Calvino con Le città invisibili.
Con la morte di Kubilai nel 1294, comincia la decadenza
dell’impero mongolo, dovuto prima alle successioni sanguinose che lo
indeboliranno, e dopo alla conquista delle varie dinastie cinesi: così
nel 1368, nel sud dell’impero mongolo, viene fondata la dinastia
Ming.
Nel 1418 si ristabilisce la pace tra Mongoli occidentali e
orientali e nel 1578 Avtai Khan incontra il capo della scuola tibetana e
lo proclama Dalai Lama: i Khan si convertiranno al buddismo.
Dopo la morte di Avtai, in Manciuria, Nurhachi si autoproclama
Gran Khan dei Manchu: sconfiggeranno l’esercito dei Ming e
sottometteranno anche i Mongoli orientali.
Solo nel 1906 ci sarà la ribellione della popolazione mongola
agli occupanti manchu e il 28 dicembre del 1911 la Mongolia dichiara
l’indipendenza sotto la guida del Bogd Khan, ottavo Buddha vivente
che instaura la monarchia con un governo di cinque ministri.
Nel 1915 è firmato un accordo fra cinesi e russi che stabiliscono
i confini mongoli: la Mongolia Interna diventa cinese mentre la
Mongolia Esterna può godere di una apparente autonomia, ma con una
diretta influenza sia da Mosca che da Pechino.
Ma solo dopo un anno, violente lotte interne cinesi portano a un
cambio di potere. Il nuovo governo non riconosce più l’autonomia
della Mongolia Esterna e l’autorità del Bogd Khan, e così tornano i
cinesi a invadere il Paese.
Nel 1917, durante la rivoluzione bolscevica, delegati del Partito
mongolo del Popolo si recano in Russia a chiedere un sostegno ai
sovietici, ma la risposta è negativa; il barone austriaco UngernSternberg, un generale antibolscevico, organizza un esercito, scaccia i
32
M. Polo, Il Milione, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1991, p. 3.
23
cinesi e dichiara l’autonomia mongola, millantando una discendenza
da Gengis Khan. Verrà poi catturato e giustiziato.
La Cina invade di nuovo nel 1919 la Mongolia, e l’Unione
Sovietica non interviene: solo l’anno seguente Lenin accetta di parlare
con una delegazione di rivoluzionari mongoli, promettendo un
intervento anti-cinese.
E nel 1921 le truppe sovietiche entrano a Urga insieme
all’esercito rivoluzionario mongolo, guidato da Sukhbataar,
soprannominato “l’eroe rosso” (Ulaan Baatar). È istituito il Governo
Popolare della Mongolia che ha a capo, senza però poteri effettivi, il
Bogd Khan. È costituito il Partito popolare rivoluzionario mongolo (il
PRPM resterà al governo fino ai giorni nostri, salvo una pausa dal
1996 al 2000). Choibalsan, futuro dittatore filostalinista, diventa
ministro della guerra. Sukhbaatar muore due anni dopo in circostanze
misteriose.
Il 26 novembre del 1924 nasce la Repubblica popolare della
Mongolia. Muore il Bogd Khan. Viene convocata la prima seduta del
Parlamento (l’Ikh Huraal, letteralmente “grande riunione”). Urga è
ribattezzata Ulaanbaatar, in onore di Sukhbaatar. Muore Lenin, la
Mongolia si affranca dall’influenza bolscevica, almeno fino alla presa
del potere di Stalin.
Solo un paio d’anni più tardi i sovietici tolgono il potere alle
autorità religiose, e comincia l’era di Stalin e delle purghe sovietiche.
Durante il settimo Congresso del Partito rivoluzionario del popolo, i
rappresentanti mongoli chiedono una maggiore autonomia da Mosca e
una polizia indipendente. La risposta dei delegati del Comintern è un
colpo di stato e il ritorno al terrore: sul modello sovietico, i beni delle
classi più ricche e dei proprietari terrieri vengono confiscati e
ridistribuiti ai pastori. I monasteri vengono spogliati di tutti i tesori
che finiscono in Russia.
I Mongoli sono esausti e nel 1932 a migliaia si armano di sassi e
bastoni e cercano di opporsi al governo filosovietico, improvvisando
tumulti nella capitale e in altri capoluoghi. Una sorta di guerra civile
dall’esito prevedibile: incalcolabile il numero degli arresti e delle
esecuzioni. Trentamila Mongoli fuggono all’estero.
Nel 1937 la situazione precipiterà: Stalin ordina la repressione
sistematica su tutto il territorio mongolo: in meno di due anni sono
trucidate trentamila persone (circa il 20 per cento della popolazione
maschile totale), più della metà sono monaci. L’esercito abbatte
seimila edifici culturali e religiosi, 700 monasteri sono rasi al suolo
con i carri armati. Libri, sculture, oggetti sacri preziosi, antichi arazzi
buddisti sono bruciati a milioni.
24
Nel 1939, in pieno conflitto internazionale, il Giappone di
Hirohito, alleato di Hitler, sta estendendo il suo impero a tutta l’Asia e
minaccia la Mongolia attraverso la Manciuria. L’Unione Sovietica
invia le truppe sul confine orientale mongolo. In maggio esplode una
guerra spaventosa che durerà cinque mesi e lascerà sul campo 70.000
morti, di cui 237 mongoli. La scongiurata invasione giapponese apre
un nuovo scenario di alleanza fra Mongoli e Russi.
Nel 1940, Choibalsan, un monaco mancato protagonista della
marcia del 1921 al fianco di Sukhbaatar, che aveva giurato fedeltà
assoluta a Stalin, è eletto primo ministro.
L’anno dopo è imposto il nuovo alfabeto cirillico che sostituisce
l’antica lingua uigura e successivamente, in piena Seconda Guerra
Mondiale, viene fondata la prima università mongola. Dalla Russia
arrivano molti docenti a insegnare dottrine sociali ed economiche.
Dalla Mongolia 50 mila giovani vengono accolti a studiare presso le
università sovietiche. Nelle scuole mongole la lingua russa diventa la
principale materia di studio.
Con la fine del conflitto mondiale, nell’ottobre del 1945 la
Mongolia indice un referendum per chiedere l’indipendenza del Paese,
e a gennaio dell’anno seguente la Cina riconosce l’indipendenza della
Mongolia. Il 27 novembre anche la Russia ne accetta ufficialmente
l’autonomia. Dopo 40 anni di lotta il popolo mongolo è finalmente
libero. La Mongolia chiede l’ingresso nelle Nazioni Unite, che viene
respinto per il veto della Cina e dei Paesi occidentali.
Nel 1952 muore Choibalsan. Lo sostituisce al governo
Tsedenbal, che continua la gestione filosovietica ma con maggiore
morbidezza, fino al 1984. Fondamentale anche la figura della moglie
russa Filatova, che sarà stretta collaboratrice del leader sovietico
Breznev.
Quando nel 1953 muore Stalin, la popolazione mongola
comincia ad avere maggiori speranze: parte la rivoluzione culturale
per restituire dignità e identità a un popolo soggiogato per troppi
secoli da potenze straniere. Scatta una capillare opera di
alfabetizzazione che raggiunge l’intero territorio, anche le zone più
remote popolate dai nomadi. Le malattie veneree, che colpivano la
maggior parte dei mongoli, sono debellate con una campagna di
prevenzione, vaccinazione e terapia farmacologica. Si aprono
fabbriche su tutto il territorio, si costruiscono case, si cominciano a
lastricare alcune strade di grande collegamento.
Ha inizio anche la campagna di sedentarizzazione delle
popolazioni nomadi: l’obiettivo è di fare un censimento complessivo e
portare i pastori in fabbrica per aumentare la produttività industriale.
25
Nel 1959 il governo decide la collettivizzazione delle terre e
degli armenti, sulla base del modello sovietico, ma i nomadi si
ribellano e convergono in massa nella capitale, che nel frattempo ha
raggiunto i 100.000 abitanti. La protesta porta a una serie di riforme
sociali sia in città che nelle campagne.
Nel 1961 la Mongolia entra nell’Onu con il consenso unanime
dei Paesi mondiali e l’anno seguente entra nel Comecon,
organizzazione economica degli stati comunisti.
Al culmine della guerra fredda con l’Unione Sovietica, nel 1967
la Cina assembra truppe al confine con la Mongolia e minaccia
l’invasione. Ottantamila uomini dell’Armata rossa entrano in territorio
mongolo con carri armati e artiglieria pesante, scongiurando la
minaccia cinese.
Per sostenere l’economia e la società della Mongolia e per
garantirsi la sua fedeltà, agli inizi degli anni Settanta l’Unione
Sovietica presta al governo di Ulaanbaatar una cifra pari a 5 miliardi
di euro di oggi. Viene fondata la città di Erdenet, 250 chilometri a
nordest di Ulaanbaatar, per sfruttare le grandi risorse del sottosuolo: la
miniera di rame è la più grande dell’Asia e la quarta del mondo. La
popolazione di Erdenet passa dai 4.000 abitanti del 1975 ai quasi
centomila di oggi.
Nel 1989 il crollo del regime sovietico apre una nuova stagione
sociale, con la costituzione di una serie di schieramenti politici che si
pongono come alternativa allo storico Partito popolare rivoluzionario
(PRPM): nascono il Partito democratico, il Partito socialdemocratico e
il Partito per lo sviluppo nazionale. Il 9 marzo, a seguito di una
massiccia manifestazione in piazza Sukhbaatar, i quadri del Partito
popolare rivoluzionario rassegnano le dimissioni. Il parlamento (Ikh
khural) viene aperto a tutte le forze politiche. Duecentomila militari
russi di stanza in Mongolia tornano in patria.
Nel 1990 in Mongolia sono di nuovo autorizzate le cerimonie
religiose, proibite da sessant’anni. In estate si va alle prime elezioni
democratiche. Il primo presidente mongolo è Punsalmaagin Ochirbat,
che resterà al potere fino al 1997. A trionfare è il Partito del popolo
rivoluzionario comunista, che conquista il 61,7 per cento dei voti con
una partecipazione al voto plebiscitaria. Gli elettori, provenienti a
cavallo dalle zone più remote, vengono timbrati su un dito con un
pennarello (indelebile per alcuni giorni) per provare l’avvenuta
votazione.
Nel 1991 il Parlamento decide di privatizzare le mandrie (22
milioni di capi allora, oggi ce ne sono quasi 35 milioni). Oggi l’80 per
cento del bestiame è privatizzato. L’autonomia dall’ex Unione
Sovietica porta al tracollo dell’economia mongola: le esportazioni
26
calano del 97 per cento, la produzione industriale del 40 per cento,
l’inflazione sale del 120 per cento.
Il 13 gennaio del 1992 nasce ufficialmente la Repubblica
Popolare di Mongolia e viene compilata la prima Costituzione. La
denominazione della capitale Ulan Bator viene traslitterata più
correttamente come Ulaanbaatar. Il 28 giugno il Partito popolare
rivoluzionario si aggiudica 70 seggi su 76 del Parlamento con il 95,2
per cento dei consensi. Le organizzazioni mondiali portano in
Mongolia 550 milioni di dollari di assistenza sociale.
Nel 1996 per la prima volta le elezioni sono vinte
dall’opposizione del Partito popolare rivoluzionario: democratici e
socialdemocratici conquistano 50 dei 76 seggi del Parlamento ma il
nuovo Governo si macchierà di scandali e maneggi poco ortodossi: i
Mongoli dopo nemmeno due anni riammetteranno al potere i
comunisti del partito rivoluzionario.
Nel 2000 le elezioni consegnano al Partito popolare
rivoluzionario la grandissima maggioranza in Parlamento. Gli inverni
rigidissimi non danno tregua ai pastori. Le Nazioni Unite dichiarano la
“catastrofe umanitaria” e la Commissione Europea stanzia due
miliardi e mezzo per la Mongolia.
Nel 2002 la Mongolia diventa uno dei paesi osservatori per
garantire la pace nel mondo e per l’equilibrio biologico. Il 4 novembre
arriva a Ulaanbaatar il Dalai Lama che ha appena vinto il premio
Nobel per la pace: il governo cinese minaccia ritorsioni economiche e
militari nei confronti della Mongolia.
Nel 2005 Enkhbayar incontra il presidente cinese Hu Jintao e il
premier Wen Jiabao: in questo modo si rafforzerà la collaborazione
economica tra Mongolia e Cina.
Nel 2006, con feste sontuose e commossa partecipazione
popolare, la Mongolia festeggia gli 800 anni dell’Impero di Gengis
Khan. Nella piazza Sukhbaatar, all’ingresso del Parlamento, viene
innalzato una gigantesca struttura dominata da una grande statua del
condottiero mongolo. Anche l’aeroporto internazionale di Ulaanbaatar
Buyant Ukhaa prende il nome di Gengis Khan.
Nel 2007 il presidente Enkhbayar prosegue gli incontri con i
paesi più ricchi del pianeta, e in luglio si reca in visita ufficiale in
Corea del Nord.
Nel 2008 vengono avviati i lavori per la Tran-Asian Railway, la
ferrovia che dal 2009 collegherà la Cina alla Germania, passando dalla
Mongolia, e che permetterà alle merci di dimezzare i tempi di
trasporto fra Asia ed Europa, rivoluzionando i mercati internazionali e
valorizzando le risorse mongole.
27
Il 1° luglio, dopo la vittoria alle elezioni del Partito
Rivoluzionario Comunista, esplodono scontri violenti e senza
precedenti nella capitale, alimentati dall’opposizione dei Democratici:
la manifestazione provoca un bilancio di 5 morti e trecento feriti. In
pochi giorni però Ulaanbaatar torna alla consueta tranquillità e si
gode, con una grande festa popolare, i trionfi ai Giochi Olimpici di
Pechino33.
Ma dopo questo excursus per capire le origini storiche di questo
paese, andiamo ad analizzare il campo che più ci interessa, ovvero
quello della musica.
Uno degli aspetti più significativi nella vita e nella tradizione
dei mongoli è costituito sicuramente dalla loro intima simbiosi con la
musica, che essi cominciano ad ascoltare ed amare sin da piccoli,
quando cioè, prima ancora che a camminare, imparano già ad andare a
cavallo e a cantare. Popolo nomade per tradizione atavica, i Mongoli
non ci hanno lasciato città, palazzi, templi o monumenti, tutte quelle
cose del passato, cioè, che potessero testimoniare e documentare lo
sviluppo della loro tradizione artistica attraverso i secoli. Tutto ciò che
per loro poteva assumere un valore o un significato doveva essere per
forza di cose agevolmente trasportabile su di un carro o a dorso di
cammello, come usano fare tuttora i pastori nomadi. Diverso è invece
il discorso per tutto quello che è ricollegabile con la memoria e la
tradizione orale, che tratta della storia, delle leggende, della vita e
della natura, come avviene per la poesia e in particolare per la musica
e il canto nei loro molteplici aspetti che, a differenza delle costruzioni
fisse, hanno accompagnato sempre ed ovunque le giornate dei
cavalieri mongoli.
Sin dalle origini, il canto è sempre stato considerato dai
Mongoli come uno strumento di comunicazione, una forma
importante di linguaggio, un mezzo d’espressione a disposizione di
tutti, e così pure gli strumenti, al pari della voce, sono intesi in senso
figurato come mezzi di trasporto, quasi delle cavalcature, servendosi
dei quali è possibile trasmettere messaggi ai propri simili, alle
divinità, alla natura. Pertanto, tutti devono poter dimostrare, specie
nelle feste, di saper cantare o suonare, pena un rimprovero o
una punizione, ad esempio una bacchettata o la deglutizione di una
enorme tazza di airag (latte di giumenta fermentato). Nonostante
l’esistenza di vari strumenti dalle antiche origini, è pur sempre il canto
quello che rappresenta meglio la musica della Mongolia.
33
F. Pistone, Mongolia. L’ultimo paradiso dei nomadi guerrieri, Polaris, Firenze, 2008.
28
Un aspetto caratteristico della musica nazionale della Mongolia,
sin dai tempi di Gengis Khan, è costituito dal fatto che essa, proprio in
quanto tradizionale, non è stata soggetta nei secoli ad alcuna forma di
scrittura fissa, per cui non esiste in pratica nessun documento cui fare
riferimento materiale e che possa essere di qualche utilità a tentativi di
ricerca o di definizione.
La prima pubblicazione, non propriamente di musica, bensì di
trascrizioni con metodi occidentali di alcune esecuzioni di musica
mongola, fu curata da Johann George Gmelin34, protagonista di una
spedizione in Siberia tra il 1735 e il 1745, mentre le prime raccolte di
musiche e di testi di canzoni significative risalgono a non più di un
secolo fa, soltanto ai primi del Novecento. Di un certo interesse anche
i “Diciotto canti e poemi mongoli” raccolti dalla principessa Nirgidma
de Torhout (Torgout) e trascritti da Madame Humbert-Sauvageot, con
notazioni musicali, testi mongoli, commentari e traduzioni, che furono
pubblicati nel 1937, a cura della Librairie Orientaliste Paul Geuthner
di Parigi per la Bibliothèque Musicale du Musée Guimet. La
principessa mongola, che ricordava di aver udito questi canti nella
propria patria durante l’infanzia, in particolare canti Kalmuki
tramandati oralmente, propri della zona della Mongolia occidentale
detta appunto Torgout, in seguito aveva voluto farli conoscere in
Francia, curandone la pubblicazione dei testi nella grafia mongola e
corredandoli di traduzione in francese, di commenti e spiegazioni, dei
corrispettivi temi musicali, delle indicazioni sullo stile vocale,
gli ornamenti, i modi ed i ritmi, in un certo senso quasi una moderna
stele di Rosetta. Tra i vari canti della raccolta mi piace ricordare i due
intitolati rispettivamente “Ballade du Roi Jéhanger” e “Galdanma”.
Se volessimo fare un paragone elementare con i sistemi della
nostra musica, potremmo dire che i Mongoli usano come base i suoni
dei tasti neri del pianoforte, intesi come bemolle e senza la terza, cui
eventualmente vengono poi aggiunti gli altri suoni intermedi, non
regolati però da vincolanti intervalli semitonici. Appartiene infatti alla
normale prassi esecutiva della loro musica nazionale, cantata e
suonata, tanto da diventarne una regola, il largo uso di quarti di tono,
portamenti, glissandi, appoggiature, tremolii e trilli, che legano tra di
loro in modo sempre diverso le note delle melodie. La musica dei
Mongoli, a differenza di quella occidentale, più che sull’armonia è
basata, come anche in Cina, essenzialmente sulla linearità della
melodia e dello sviluppo della frase musicale; un po’, tanto per
rendere l’idea, come avviene nel jazz.
34
J.G. Gmelin, Reise durch Sibirien: von dem Jahr 1733. bis 1754, A. Bandenhoecks seel., Witte,
1751.
29
Un altro aspetto importante è costituito dal fatto che la parte
vocale e quella affidata agli strumenti conservano autonomamente
entrambe la medesima dignità esecutiva. Un’altra particolarità
costante della musica della Mongolia è data dalla tensione e dal ritmo,
sempre presenti, anche quando ci possono sembrare apparentemente
assopiti, e che riscontriamo puntualmente in ogni brano,
indifferentemente se a carattere allegro o cantabile. Come negli
“adagio” dei concerti di Vivaldi, così anche le melodie delle arie
mongole, pure nei momenti di sognante abbandono, sembrano voler
tendere costantemente al successivo “allegro” liberatorio che però, nel
nostro caso, non sempre è destinato ad arrivare. Riguardo il ritmo
musicale, per i Mongoli esso molte volte deriva non tanto da
un’esigenza costruttiva puramente musicale, oppure dal particolare
sentimento
che
vogliono
esprimere,
quanto
piuttosto
dall’adeguamento a quello dell’andatura naturale degli animali da loro
usati come mezzi di trasporto durante i lunghi spostamenti, soprattutto
il cavallo, quindi in genere un’andatura comoda, non necessariamente
lenta, detta zhoroo.
Tra le varie forme di canzone, intese nel senso più ampio di
musica cantata, possiamo distinguere perlomeno tre generi
fondamentali, ciascuno con caratteristiche differenti: il genere epico,
la canzone vera e propria e quelle che, più che canzoni, definiremmo
come tecniche vocali particolari.
I testi delle canzoni sono costruiti in pieno rispetto delle regole
proprie della poesia, con rime, assonanze e allitterazioni. I versi sono
ordinati secondo corrispondenze prefissate, spesso a gruppi e a strofe,
con uso frequente del ritornello. È anche largamente adottato il ricorso
a lettere o sillabe prive di significato, che servono ad equilibrare il
ritmo, la metrica della frase e dei versi, agevolando in tale modo lo
sviluppo parallelo della linea melodica, in genere collegata all’aspetto
fonetico del testo.
Genere epico. Il cosiddetto genere epico non è una
caratteristica musicale propria della Mongolia, ma in generale si
collega piuttosto alla tradizione delle steppe dell’Asia centrale. Lo
ritroviamo comunque presente in tutta la Mongolia con il nome
generico di ulger o di tuul (nella parte occidentale). I testi, a volte
lunghissimi, sono cantati su melodie e ritmi liberi, decisi dagli stessi
esecutori, come ai tempi dei bardi (cantori) erranti, in base
all’argomento narrato, mentre le parti musicali, a volte intercalate ad
altre recitate, possono essere accompagnate o meno da uno strumento.
Attualmente si conosce circa un centinaio di canti epici, qualcuno con
un’estensione di oltre ventimila versi.
30
Canzone lunga e canzone corta. In Mongolia possiamo
distinguere essenzialmente tra due forme di canzone: quella
denominata urtyn duu o canzone lunga e bogino duu o canzone corta.
La canzone lunga è caratterizzata da una fitta serie di ornamenti che
punteggiano costantemente tutto l’arco dell’esecuzione. La canzone
lunga viene sostenuta a piena voce, generalmente da un unico
esecutore, su un’estensione di oltre tre ottave, con passaggi
dall’impostazione di gola al falsetto e con largo uso di portamenti e di
trilli. L’urtyn duu incarna lo spirito stesso della Mongolia, l’estensione
delle sue pianure ed i sentimenti che convivono con la natura
circostante, in un’atmosfera solenne a largo respiro.
Il canto armonico. Un discorso a parte va riservato al genere
detto hoomiy o canto armonico (letteralmente canto, o musica di gola)
che però sarebbe più corretto chiamare tecnica vocale piuttosto che
canzone. Esso si ispira all’imitazione dei suoni della natura, del vento,
gli uccelli, i fiumi. Ci sono varie tecniche di hoomiy che usano, oltre
alla gola, anche il naso, il torace e l’addome.
Canti persuasivi (per il bestiame). Tra le forme musicali in uso
da sempre presso i popoli nomadi, come anche quello mongolo,
ritroviamo i richiami rivolti al bestiame, specialmente quelli finalizzati
a persuadere gli animali a ubbidire o a compiere determinate azioni
importanti per la loro sopravvivenza.
Musica religiosa. La musica usata nei monasteri lamaisti della
Mongolia durante i rituali del culto è praticamente più o meno la
stessa che ritroviamo in quelli analoghi del Tibet, anche se nel nostro
caso non mancano evidenti richiami alla musica mongola delle origini,
ai canti epici modulati su intervalli stretti, ai canti sciamanici. Una di
queste particolari tecniche usate dai monaci lamaisti mongoli prende il
nome di unzad.
Canti sciamanici. Lo sciamanesimo è un fenomeno che ha
trovato diffusione in tutto il mondo, dall’Asia all’Africa, all’America,
in epoche diverse ed in forme varie, anche se in pratica il fine che si
prefigge di raggiungere è il medesimo, ma soprattutto in Asia, dove è
ancora possibile rinvenirne alcune manifestazioni in Siberia e nella
stessa Mongolia.
Il tamburo (khets) può rappresentare di volta in volta una cavalcatura
oppure un battello, mentre il mazzuolo simboleggia una frusta per
incitare il mezzo di trasporto oppure un aspersorio. Se, raramente,
31
dovesse mancare il tamburo, esso viene sostituito in ogni caso da un
altro strumento musicale.
Come si può notare, i canti sono quindi strettamente legati al
tipo di cultura e religione presenti nel territorio, creando uno stile di
canto di tipo organico, dove la relazione tra corpo e mente è sempre
presente.
Tibet
Per il Governo tibetano in esilio, il Tibet è la larga zona sotto
l’influenza culturale tibetana per parecchi secoli, comprese le province
tradizionali di Amdo, Kham (Khams) e Ü-Tsang (dBus-gTsang), ma
esclusa la zona sotto l’influenza culturale del Tibet storico all’esterno
della Repubblica Popolare Cinese comprendente Arunachal
Pradesh, Sikkim, Bhutan e Ladakh, area reclamata soltanto da qualche
gruppo tibetano. L’area ha un’estensione di 2,5 milioni di chilometri
quadrati, un quarto dell’intera Cina, ed ospita 6 milioni di tibetani.
Per la Repubblica Popolare Cinese, il Tibet è la Regione Autonoma
del Tibet, chiamata anche Tibet Autonomous Region o TAR,
reclamando anche il territorio del Arunachal Pradesh come
appartenente alla stessa. Alcuni cinesi reclamano anche Sikkim,
Bhutan e Ladakh come appartenenti alla TAR. La TAR copre solo l’ÜTsang e il Kham occidentale, mentre l’Amdo e il Kham orientale
appartengono
alle
province
cinesi
di Qinghai,
Gansu,
Yunnan e Sichuan. L’area ha un’estensione di 1,2 milioni di
chilometri quadrati, meno della metà della suddetta area culturale
rivendicata dal governo in esilio, ed ospita meno di 3 milioni di
tibetani.
Rimangono poche testimonianze delle origini del Tibet, si sa
però che inizialmente era popolato solamente da pastori nomadi
provenienti dall’Asia centrale. La storia del Tibet come nazione inizia
con la nascita del Re Tho-tho-ri-Nyantsen nel 173 a.C. In quel periodo
la religione praticata era di tipo sciamanico, detta anche Bön. Del
periodo si può ancora ammirare il castello-monastero di
Yumbulakhang, nei pressi di Tsedang. Colui che venne considerato
come il vero fondatore del Tibet è Re Songsten Gampo XXXIII della
dinastia di Yarlung. Nato nel 608 d.C., il Re decise di fare
diventare Lhasa la capitale del Tibet, fece costruire lo Jhorkang e
introdusse per primo la religione buddista nel regno.
32
Sotto il regno di Trisong Detsen, con l’arrivo di
Padmasambhava, il buddismo diventa religione di stato per la prima
volta. Nel 770 venne fondato il monastero di Samye, uno dei primi
grandi monasteri buddisti del Tibet. Successivamente con l’ascesa al
potere del Re Trisong Detsen, si ritorna alla religione Bön e il Tibet
entra in un periodo di instabilità politica. Nel 1042 assieme al grande
maestro indiano Atisha, arrivano in Tibet una serie di maestri e saggi
che diffondono di nuovo il buddismo nel paese. Nel 1072 nacque il
grande monastero di Sakya, sede della omonima setta “Sakya-pa”, che
avrà un ruolo importante nella storia del Tibet. Nel XIII secolo, il
Tibet divenne parte dell’Impero mongolo (Dinastia Yuan): con il
successo delle truppe mongole giudate da Kublai Khan il potere
centrale passa da Lhasa a Sakya. Nel 1391, nasce Gedun Khapa, il
primo Dalai Lama.
Tra il 1670 e il 1750 il Tibet fu incorporato nella Cina,
dominata all’epoca della dinastia Qing. Nel 1716, con l’arrivo del
gesuita Ippolito Desideri a Lhasa, iniziano i primi contatti con
l’occidente. Nel 1774 la prima missione britannica entra in Tibet,
seguita dall’invasione nepalese, che viene fermata grazie all’aiuto
delle truppe cinesi chiamate in soccorso dai tibetani.
Nel 1904 il Regno Unito, approfittando dei disordini interni
dell’impero cinese, invade temporaneamente il Tibet arrivando fino a
Lhasa e costringendo il Dalai Lama a fuggire in Mongolia.
Solamente nel 1912 con la fine dell’impero cinese
Tibet Xinjiang e Mongolia dichiarano indipendenza dalla Cina e il
Dalai Lama riprende il pieno potere in Tibet senza alcuna influenza
estera. Nel 1933 alla morte del XIII Dalai Lama, Tensing
Gyatso diventa il XIV Dalai Lama. Nel 1940, a soli 18 anni di età
vennero conferiti all’attuale Dalai Lama i poteri spirituali di capo della
comunità buddista del Tibet. In una visione profetica un Dalai Lama
del passato raccontò che “quando l’uccello di ferro volerà, verrà
l’uomo rosso e la distruzione”.
L’1 ottobre del 1949 Mao Zedong a Pechino proclamò la
fondazione della Repubblica Popolare della Cina. L’anno seguente
l’esercito cinese riconquista nuovamente il Tibet costringendo alla
fuga il Dalai Lama verso il Sikkim, ma poco dopo ritorna a Lhasa per
le rassicuranti dichiarazioni dei cinesi di non interferire nel Tibet.
La Cina nel corso della storia aveva considerato il Tibet parte
del suo territorio e così nel 1951 avvenne l’invasione dell’esercito
cinese nel Tibet e a Lhasa. Le autorità cinesi inizialmente non
interferirono nella politica interna del paese, lasciando il governo
tibetano ad esercitare il suo potere. Ma successivamente la situazione
si deteriorò. Dopo varie rivolte contro le autorità cinesi da parte del
33
popolo tibetano per le violenze e le intolleranze dell’esercito cinese, il
Dalai Lama decise di fuggire. In seguito scapparono dal paese una
parte dell’élite feudale e dei monaci temendo l’aria di terrore che
spirava dalla Cina. Nel 1964 la Cina dichiara formalmente il Tibet
“Provincia Autonoma del Tibet” della Cina.
In seguito un periodo molto oscuro nella storia recente della
Cina si abbatté sul Tibet. La rivoluzione culturale negli anni
dal 1966 al 1976 portò studenti ed estremisti, agitati dal regime, a
condannare ogni forma d’opinione diversa dalla loro e i monasteri,
templi e ogni altra forma d’arte vennero distrutte.
Il Dalai Lama non tornerà più in Tibet; la situazione della
comunità in esilio, i vari appelli, conferenze e incontri segreti, non
hanno portato a nulla. Nel gennaio del 2000 fugge dal Tibet anche il
quattordicenne Karmapa Lama, il terzo capo spirituale dei tibetani
(dopo il Dalai Lama e il Panchen Lama), attraversando a piedi
l’Himalaya, per incontrare il Dalai Lama a Dharamsala in India.
Successivamente, nell’aprile del 2008, sono scoppiate dure
proteste in alcune città del Tibet che hanno costretto il governo
di Pechino ad autorizzare l’uso della forza, malgrado i numerosi casi,
rilevati in Tibet, di violazioni della dignità umana. Secondo il Dalai
Lama in Tibet sta avvenendo un genocidio culturale non preso in
considerazione dal mondo occidentale.
Il Tibet rappresenta il centro tradizionale del Buddismo
tibetano, una forma distintiva del Buddismo Vajrayana. Il buddismo
tibetano è praticato anche in Mongolia e largamente praticato
dai Buryat nella Siberia meridionale. Presso le popolazioni tibetane, in
specie delle regioni nord-orientali, è, nonostante le persecuzioni che
ha subito fino al XIX secolo, ancora largamente praticato l’ancestrale
sciamanesimo pagano pre-buddista, conosciuto come religione Bön.
Il contatto con Buddismo e Induismo vi ha provocato profonde
trasformazioni in senso sincretistico, come ad esempio la nascita di
congregazioni e conventi di Lama.
Nelle città è presente anche una piccola comunità di musulmani,
conosciuti come Kachee (o Kache), la cui origine deriva da tre
regioni: Kashmir (Kachee Yul nell’antico Tibet), Ladakh e paesi
centro asiatici turchi. L’influenza islamica in Tibet proviene anche
dall’antica Persia. C’è anche una consolidata comunità di musulmani
cinesi (Gya Kachee) di etnia Hui cinese. Sembra che le popolazioni
provenienti da Kashmir e Laddakh siano emigrate verso il Tibet a
partire dal XII secolo. I matrimoni e le interazioni graduali hanno
portato ad un ampliamento della comunità islamica tibetana nei pressi
di Lhasa.
34
Piccole comunità cristiane, sia nestoriane che cattoliche, vi
svolgono un’esistenza al limite della semi-clandestinità essendo state
storicamente perseguitate dai buddisti. Fino ad un recente passato, fra
gli abitanti del Tibet, il cui fondo culturale remoto è
essenzialmente matriarcale era diffusa la “diandria”: era costume
corrente che le donne sposassero due uomini, di soliti fratelli o
comunque parenti.
Il Governo cinese, a partire dalla Grande rivoluzione culturale,
ha cercato di distruggere i simboli tradizionali della cultura originale
tibetana demolendo monasteri, incarcerando monaci e limitando o,
addirittura, proibendo (per i funzionari pubblici, le guide turistiche ed
altri mestieri) di professare la loro religione e operando vandalismi in
alcuni posti sacri ai tibetani. Tuttavia sono stati preservati e
parzialmente ristrutturati alcuni palazzi per incrementare il turismo,
soprattutto interno35.
L’economia
tibetana
è
dominata
dall’agricoltura e
dall’allevamento. Lo yak rappresenta una delle maggiori fonti di
sussistenza per le famiglie rurali in quanto viene utilizzato come forza
motrice per il lavoro nei campi, per il latte e derivati ed, infine, per
la carne.
Gli ultimi anni hanno costituito un’apertura al turismo, quasi
esclusivamente interno, recentemente promosso dalle autorità cinesi.
La ferrovia del Qingzang che collega Lhasa con Pechino contribuirà
ad incrementare l’economia.
Storicamente la popolazione del Tibet è costituita
primariamente da Tibetani. Altri gruppi etnici includono
i Monpa, Lhoba, Mongolie Hui. Il Governo tibetano in esilio stima
che vi siano 7,5 milioni di non tibetani introdotti dal governo cinese
per nazionalizzare la regione, contro 6 milioni di tibetani, e ritiene che
la recente apertura della ferrovia del Qingzang, che collega Lhasa con
Pechino in 40 ore, faciliterà l’afflusso di persone da altre province
cinesi. Secondo il Governo cinese, la Regione Autonoma del Tibet è
abitata al 92% da Tibetani, mentre nelle altre zone del Tibet storico
appartenenti ad altre province cinesi la percentuale è più bassa,
smentendo ogni accusa.
I canti polifonici fanno parte dei rituali buddisti praticati dai
monaci dell’Università Tantrica di Gyuto, in Tibet. La cerimonia
tradizionale si fonda su un’antica tecnica vocale, in cui il cantore
riesce a produrre due o tre note vibranti più acute o più gravi del
35
M. Omodeo-Salé, Il Tibet e i paesi himalayani: storia, civiltà, cultura, Mursia, Milano, 1989.
35
suono prodotto inizialmente dalla sua stessa voce. Il coro di tali voci
forma una peculiare trama armonica, di straordinaria intensità sonora.
Come abbiamo già accennato, il dato significativo è che questi
canti vengono tramandati direttamente, e non vengono insegnati a
tutti, e che sono strettamente legati alla sfera religiosa36.
Tuva
Tuva è una delle 21 repubbliche federali della Federazione
Russa, in Siberia centro meridionale lungo il confine con la Mongolia.
Tuva è stata una repubblica indipendente dal 1921 fino all’annessione
russa del 1944. Ha circa 300.000 abitanti, dei quali circa due terzi
appartengono all’etnia tuvana. La capitale è la città di Kyzyl (100.000
abitanti). Vi si parla il tuvano, lingua di ceppo turco, ma il russo è
usato correntemente.
Le religioni diffuse sono il Buddismo lamaista e lo
sciamanesimo, in alcune zone impervie si trovano comunità di Vecchi
Credenti, ortodossi scismatici.
L’80% della superficie è coperto da alte montagne che arrivano
ai 4000 m. È attraversata da est a ovest dal fiume Enisej, che sfocia
nell’oceano Artico dopo oltre 3.300 km; vi sono numerosi (circa 400)
laghi. Il paesaggio è caratterizzato da vastissime foreste di conifere e
betulle.
Tuva è famosa per il caratteristico canto gutturale xöömej
(diffuso solo a Tuva, in Mongolia e in Tibet).
La repubblica di Tuva con una superficie di 170 mila kmq conta
308 mila abitanti, che appartengono a 73 diverse nazionalità, di cui 99
mila sono tuvani. Kyzyl, la capitale della repubblica tuvana, si trova al
centro geografico dell’Asia; è stata fondata nel 1914 alla confluenza di
due affluenti del fiume Jenisej: lo Kaa-chema e il Bij-chema. Tuva
confina a nord e nord-ovest con la provincia di Krasnojarsk e con la
repubblica di Chakassija, a nord-est con la repubblica Buriata e con la
regione di Irkutsk, a est e a sud con la Mongolia e a ovest con la
regione dell’Altaj. Il clima è di tipo continentale e la regione è
considerata montuosa per la presenza sull’80% del territorio di
montagne che toccano frequentemente i 3000-3500 metri. La punta
più alta si trova all’interno del massiccio del Mongun-Tajga
(montagna argentata) e raggiunge i 3976 m.
36
G. Azzaroni, Teatro in Asia. Tibet - Cina - Mongolia - Corea, Volume III, Clueb, Bologna, 2003
36
Nel territorio della Repubblica tuvana nasce il fiume Jenisej,
uno dei più grandi del nostro pianeta e vi sono all’incirca 400 laghi,
molti dei quali sono di origine glaciale. Tuva si può considerare come
una grande riserva naturale: vi sono più di 1500 specie di piante, 240
tipi di uccelli, inoltre vi si trova una grande varietà di specie animali:
lo scoiattolo dei Sajani, la lince, il ghiottone, lo zibellino, il castoro, lo
yak e il cammello. Tuva è famosa anche per le acque curative che
sgorgano calde dalle sue sorgenti, e per i suoi fanghi: sono famose
località termali Ceder e Usc-beldir e le rive del lago Dus-chol. Un
luogo unico al mondo, per la sua natura intatta, è la depressione di
Ubsu-Nurskaja: è diventata, infatti, da diversi anni, oggetto di studi e
di ricerche da parti di studiosi che giungono da tutto il mondo. Il suo
territorio è abitato sin dal neolitico; dell’epoca del ferro è stato fatto
un ritrovamento eccezionale: la famosissima pantera d’oro, che si
trova nella collezione dell’Ermitage a Sanpietroburgo. È intorno al VII
secolo, nel momento in cui questa regione rientra nell’orbita del
kaganat turco, che inizia una prima trasformazione nelle popolazioni
nomadi che diventano agricoltori stanziali, dedicandosi all’arte della
metallurgia. Di questo periodo sono i ritrovamenti di libri incisi nella
pietra e di ben 84 stele. È questo anche il momento in cui Tuva
passerà sotto il dominio della tribù degli Uiguri che erigeranno un
sistema di difesa costituito da mura e valli. Uno di questi ancora
esistente e famoso, benché oggigiorno sia nascosto dalle acque della
diga di Sajan-Susceskij, è conosciuto come “la strada di Gengis Khan”
e si trova a nord-ovest del paese. All’inizio del IX secolo con l’aiuto
dei Kirghisi Tuva riuscirà a liberarsi degli Uiguri per entrare nella
sfera d’influenza altajka e kirghisa. Nel XIII secolo dovrà arrendersi
all’Orda di Gengis Khan e nel 1700 alla dinastia Manciù, dalla quale
si affrancherà solo nel 1912 grazie all’azione di rivolta, a fine ’800, di
60 bogatir (così sono chiamati i cavalieri nella tradizione russa),
conosciuta storicamente come “Aldan Maadyr”, che sarà determinante
per far nascere una coscienza etnica all’interno del popolo tuvano.
Il resto è storia recente, nel 1914 Tuva diventa un protettorato
russo, vive il travaglio della rivoluzione sovietica, fino a quando nel
1921 viene riconosciuta, per la prima volta nella storia di questo
popolo, la Repubblica popolare di Tuva. Questo significò per Tuva, da
un lato l’allontanamento dei cinesi, la repressione del lamaismo, la
distruzione dei templi buddisti e dall’altro aiuti economici e progresso
in campo culturale soprattutto per la massiccia alfabetizzazione, non
ultima la creazione di una lingua scritta tuvana.
Tuva, grazie alla sua conformazione geografica che la rende
isolata dall’alta barriera delle montagne Sajan, si è ritrovata a essere in
disparte rispetto alle grandi vie commerciali dell’antichità, e questa
37
situazione si è perpetuata sino a tempi non molto lontani, in quanto era
una Repubblica Sovietica chiusa ai visitatori. È stato questo
isolamento millenario a conferirle la sua magia e il suo fascino intatto.
Tuva è una terra in cui lo sciamanesimo si è conservato allo
stadio originario ed in cui il popolo sente ancora molto forte la
tradizione e ne rispetta i culti ed i riti. Tutto il popolo tuvano festeggia
l’inizio del nuovo anno, shagaa, in base al calendario lunare ed in
compagnia di uno sciamano che può predire gli avvenimenti dell’anno
che deve venire. Tutti i tuvani al mattino si alzano e fanno offerta di tè
salato con il latte ai loro Spiriti, affinché li proteggano durante la
giornata. È così che i gesti quotidiani penetrano, con la forza che gli
imprime la tradizione, nella sfera spirituale. La montagna Chairakan,
dove dimora l’Orso Protettore, è conosciuta e venerata in tutta Tuva,
ed ogni sciamano le si rivolge durante i riti per ottenere la sua somma
protezione ed il suo aiuto. Sono tanti i rituali che gli sciamani devono
celebrare: il rito del Sole Rosso, che si celebra in autunno quando
bisogna scegliere il luogo migliore dove innalzare la yurta per
svernare e invocare protezione sulle mandrie e sul clan, le kamlanie
che si officiano per la purificazione o per accompagnare i defunti, al
7° e 49° giorno dalla loro morte, nel mondo ultraterreno. Il rituale del
7° giorno si chiama rituale dell’anima grigia. Lo sciamano incontra
l’anima del defunto e questi gli riferisce la causa della sua morte e se
ci sono delle offese da placare. Al 49° giorno si celebra il rituale
dell’anima principale, la pratica è molto spaventosa perché bisogna
accompagnare l’anima nel regno dei morti facendole offerta di
tabacco e distillato di latte, aragaa. Gli sciamani di Tuva hanno
lignaggi diversi: ci sono gli sciamani celestiali, quelli che provengono
dalle sirene della steppa o della taiga, ci sono gli sciamani delle acque
e quelli che derivano dagli spiriti dei demoni. Tutti loro hanno un
compito comune: aiutare le persone. Per fare questo si servono del
linguaggio segreto degli animali, del canto difonico, khoomei, del
tamburo e del viaggio estatico, della fumigazione con il ginepro della
taiga, artish. Ogni sciamano si considera quale continuatore
dell’eredità e della vita dei propri padri e nonni, per cui il suo ruolo
spirituale, nel rispetto della tradizione, è quello di onorare gli Spiriti
degli Antenati, gli Spiriti protettori della Terra, benedicendo i luoghi, i
clan e le famiglie, affinché ogni figlio sia pronto e degno di abitare la
terra dei propri Avi.
In questi anni, un ruolo importante di diffusione in Occidente
delle pratiche sciamaniche è stato svolto da Ai-Tchourek (Cuore di
Luna), nata a Tuva, nel centro dell’Asia. La notte in cui venne alla
luce si scatenò un violento temporale, ma nel momento in cui si udì il
suo primo vagito, gli elementi si placarono e apparve la luna. Il padre
38
che era abituato a passare notti intere nei boschi, in balia della furia
degli elementi, vide in questo, un segnale divino e decise di chiamarla
Cuore di Luna. Ben presto la piccola Ai-Tchourek iniziò a giocare con
gli spiriti delle anime che popolavano il cimitero del villaggio, a
correre dietro al vento suo amico per parlare con lui. La madre
guardava crescere la figlia con apprensione anche se la lasciava libera
nei suoi giochi e nelle sue avventure con questo mondo fantastico. La
madre come le sue otto leggendarie sorelle era una grande sciamana e
apparteneva alla potente stirpe degli Sciamani Celestiali, ma
nell’Unione Sovietica di allora, gli sciamani erano perseguitati, trattati
come ciarlatani, ubriaconi, visti come la feccia della società. La madre
morì prematuramente e quando Ai-Tchourek cominciò a manifestare
segni più evidenti della sua diversità, i familiari si spaventarono,
temendo delle rappresaglie da parte del Partito e la mandarono a
vivere in Russia, dove trascorse nove anni studiando e lavorando. Gli
anni vissuti lì furono molto difficili, le voci l’assillavano in
continuazione, gli spiriti le si manifestavano anche di notte. Era priva
di qualsiasi sostegno morale, abbandonata completamente a se stessa,
mentre si faceva sempre più chiaro nella sua mente di aver ereditato il
dono di sua madre. Poi attorno al 1987 con Gorbaciov arrivò la
perestrojka [=riforma, ricostruzione] e Ai-Tchourek poté ritornare a
Tuva. Certo anche lì la vita non era facile. L’atmosfera della città era
pesante e così Ai-Tchourek si rirtirò a vivere nella taiga dove in
completa solitudine, a contatto con le forze della natura, poté
sviluppare le sue facoltà sciamaniche. Quando, nel 1993, si tenne a
Kyzyk il Primo Congresso Internazionale di Sciamanismo, AiTchourek vi partecipò, e seduta tra il pubblico, ascoltava i racconti di
altri sciamani che erano così simili alla sua esperienza di vita, ma ad
un certo punto…
…mi sentii trascinare, da una forza invisibile. Salii sul palco, presi
un tamburo che qualcuno mi stava porgendo e iniziai a battere. Io stessa
non capivo cosa mi stesse succedendo, non avevo mai suonato un tamburo
in vita mia, non l’avevo neanche mai toccato. Appena eruppero i primi
suoni la realtà si scompose come tanti immagini riflesse nello stesso
specchio. Scorgevo la gente, laggiù in platea, come in un mondo lontano,
tutto si era improvvisamente allontanato verso il basso, erano tutti lontani
ed irraggiungibili; poi c’ero io, lì sul palco, come in un mondo ovattato,
dove non percepivo alcun suono a parte la voce del tamburo e il mio essere
e quello del malato, lì di fronte a me, sul pavimento. Di colpo vidi una
miriade di vermi avvolgerlo e camminare sul suo corpo, guardavo la folla
giù, era troppo distante, non poteva aiutarmi, guardavo lui e lo vedevo in
preda al male di quei lunghi vermi orrendi. Non sapevo più che fare,
battevo battevo sul tamburo e poi gridai: “Sono Ai-Tchourek, delle Nove
Donne del cialamà, aiutatemi!” Di colpo la volta del teatro si aprì, vedevo
39
il cielo, vedevo un mondo superiore, i fumi di artish salivano alti, il blu
veniva avvolto da una nebbia profumata. Ero stordita, lì nel teatro vedevo
il cielo, l’azzurro, quel mondo al di sopra. Di colpo la visione cambiò, la
nube di fumo si diradò e vidi apparire tre donne. Erano bellissime nelle
loro vesti lunghe e preziose, dalle tinte delicate. Erano sedute immobili e
mi guardavano, il loro viso era luminoso e il loro sguardo era penetrante.
Sentii una forza enorme invadere la mia testa e penetrare attraverso il mio
corpo ed il mio braccio, ripresi con più potenza a battere sul tamburo.
Capivo confusamente, io sciamana celestiale, io che dominavo gli
elementi, io che venivo aiutata dal tuono. Il suono del tamburo era sempre
più forte. Guardavo verso l’alto, loro erano lì, mi guardavano protettive.
Guardavo di fronte a me e vedevo i vermi che velocemente si
allontanavano dal corpo di quell’uomo e andavano in giù, si rifugiavano
verso quel mondo basso, sotterraneo. A quella visione rivolsi il mio
sguardo verso l’alto per cercare la loro approvazione. Non c’erano più, se
n’erano andate, la volta del teatro si era richiusa, i mondi si erano
magicamente ricomposti. Guardai ancora una volta verso l’uomo che
giaceva supino a terra. Si era alzato a sedere, i vermi l’avevano lasciato.
Gettai un grido e svenni37.
Il professor Kenin Lopsan, responsabile del Museo Etnografico
di Tuva “Aldan Mandir”, nonché grande fautore della conservazione e
della rinascita dello sciamanismo tuvano, dopo questo episodio la
insignì del titolo di “Grande Sciamana”. Negli anni la missione di AiTchourek si è rivelata fondamentale per il sostegno dato al processo di
ricostruzione dello sciamanesimo tuvano e per la diffusione e la
conoscenza delle tradizioni e della cultura del suo popolo in
Occidente. In Italia, dove opera da diversi anni, ha edificato, in Valle
d’Aosta, l’unico altare sciamanico Ovaa al di fuori della sua patria.
Attualmente è a capo del “Tos Deer”, Associazione Sciamanica
Tuvana. Durante il suo soggiorno italiano sono tanti gli insegnamenti
di cui Ai-Tchourek ci ha fatto dono, ma ogni persona, durante gli
incontri, ha fatto tesoro della sua capacità di trasmettere forza in
ognuno di noi obbligandoci a prendere consapevolezza di quello che è
il talento che ci è stato destinato dalla sorte. “Ogni persona ha ricevuto
il suo dono, il suo talento ed io, come sciamana, devo riconoscerlo ed
aiutarvi ad aprire la strada rispetto a questo talento, affinché ognuno di
voi possa metterlo a frutto nel migliore dei modi.” In Italia, ci sono
fiori nuovi, erbe nuove, montagne sconosciute, acque misteriose per
Ai-Tchourek, che le hanno dato la possibilità di entrare in contatto con
gli Spiriti della Terra italiana e di arricchire la sua conoscenza di
questo mondo sottile.
37
A. Saudin e C. Allione, Ai-Tchourek… come la luna - Trance, guarigioni e riti sacri di una
sciamana tuvana, Libreria Editrice Psiche, Torino, 1999.
40
La dimensione nomade delle popolazioni di queste aree, porta
l’uomo della steppa a vivere indissolubilmente legato alla natura,
penetrando la sua più profonda dimensione spirituale: emblema di
questo legame totalizzante è la dimora del nomade, la tenda. Chiamata
gheer presso i Mongoli e yurta presso i tuvani, la casa del nomade è
estremamente pratica e funzionale, facilmente smontabile e
trasportabile, è un riparo sicuro e solido, adatto alle loro dure
condizioni di vita. È sempre orientata con la porta a sud per cui
funziona anche come orologio astronomico, in base alla posizione in
cui penetra il sole all’interno della tenda, attraverso il foro centrale, si
può determinare l’ora. Ma la yurta nasconde un altro mondo, appena
si apre la piccola porticina e si attraversa la sua soglia si viene
proiettati immediatamente in un mondo magico dove ogni oggetto,
ogni suppellettile, il fuoco e la posizione che vi si occupa segue un
ordine simbolico preciso, immutato nel corso dei secoli. Il Sacro
Fuoco centrale, a cui tutti sono legati con invisibili raggi che si
proiettano verso il centro, rappresenta il mondo antico, la nostra
memoria, i nostri Antenati, per cui è degno di sommo rispetto e da
omaggiare con offerte di cibo sacro. Ma la yurta contiene all’interno la
rappresentazione stessa dei legami tra il cosmo, il tempo e gli esseri
umani. Vi è una precisa relazione tra gli animali dell’oroscopo
orientale, la disposizione delle masserizie e la distribuzione dei posti a
sedere all’interno della yurta. A nord di fronte alla porta è dislocato il
topo, simbolo del raccoglitore, per cui in corrispondenza del topo
vengono posizionati i bauli che contengono i tesori della famiglia ed è
proprio lì vicino ai tesori che siede l’ospite più l’anziano, colui che è
degno di sommo rispetto. Poi è la volta del serpente, il luogo dove
sedevano i servitori, se si era in una famiglia abbiente o dove si mette
seduta l’ospite donna, quella che come i servitori porta le novità, i
messaggi, i pettegolezzi del mondo esterno. In corrispondenza della
porta è rappresentato il cavallo, simbolo dell’animale che anticamente
compiva tutti i lavori e a cui erano affidate anche le possibilità di
comunicazione, visto che ci si spostava essenzialmente a cavallo.
Quindi la porta è la rappresentazione del lavoro e dei rapporti
con il mondo. Di seguito si trova la pecora simbolo della ricchezza e
della fertilità, infatti proprio in sua corrispondenza vengono appesi i
capi che sono stati sgozzati. Poi troviamo la scimmia, simbolo della
capacità lavorativa ed infatti proprio lì è il posto in cui vengono appesi
i finimenti dei cavalli e gli attrezzi per la sellatura. Dopo c’è il gallo
dove in genere siedono i forestieri o gli ospiti di passaggio, che come
il gallo si alzano all’alba per proseguire nel loro cammino. Di seguito
si trova il cane simbolo dell’abbondanza e della proprietà, infatti è
proprio il cane a difendere la proprietà e in sua corrispondenza
41
vengono conservati i sacchi che contengono il raccolto dell’anno, gli
indumenti e le coperte. In ultimo troviamo il maiale, simbolo dei
prodotti della natura, i tuvani in quanto cacciatori si nutrono di carne,
per cui quello è il posto dove conservano le armi da caccia, appendono
la cacciagione ed espongono le pellicce. Nulla è dunque casuale nella
disposizione delle masserizie e rispetto al posto riservato agli
occupanti nella yurta ma corrisponde ad un antico ordine immutabile
che è tutt’oggi rispettato, segno non solo della tradizione, ma di un
modo molto preciso di interagire con il cosmo.
42
Capitolo III
Il Canto Armonico in Occidente
In Occidente non si ritrovano molte tracce scritte di Canto
Armonico, a parte alcune testimonianze di antropologi o studiosi che
si sono recati in Oriente e hanno riportato la loro esperienza.
Si devono aspettare gli anni ‘70 per avere una vera e propria
nascita del canto armonico, non solo come teoria, ma anche come
pratica da parte dei musicisti.
Ed è infatti il 1968 quando il Collegium Vocale di Colonia
incide, per la DGG Stimmung, un pezzo per sei voci di Karlheinz
Stockhausen dove ogni cantante canta una nota assegnata rispetto agli
intervalli presi nella serie dei suoni armonici: fu il primo caso di
sperimentazione sul canto armonico che portò poi alla scoperta del
canto tibetano e del khöömi mongolo.
In quegli anni nasceva un altro centro di canto armonico negli
Stati Uniti, presso il dipartimento di musica dell’università di
California a San Diego.
A New York la scoperta del canto armonico non passò
inosservata, e toccò alcuni fra gli artisti più eclettici del momento:
Meredith Monk, Joan La Barbara, David Hykes e Michael Vetter. Fu
proprio quest’ultimo, già allievo e collaboratore di Stockhausen, che
aprì in Germania la scuola Rütte: ed è proprio in questa nazione che il
canto armonico si diffonde maggiormente.
In Francia lo sviluppo del canto armonico è più che altro legato
a percorsi individuali, come quello di Trân Quang Hai, musicista ed
etnomusicologo vietnamita, specialista di canto mongolo ed autore di
numerosi articoli.
Da ricordare anche Iegor Reshnikoff, specialista di canto
gregoriano, che legge in chiave armonica questo tipo di canto.
Il principale diffusore del canto armonico è però da considerare
il maestro sufi Pir Vilayat Khan, figlio del grande Hazrat Hinayat e
fondatore dell’Ordine Sufi in Occidente38.
Non sempre il canto armonico si trova allo stato puro: in Italia,
per esempio, lo si ritrova all’interno della musica polifonica.
La musica polifonica nasce dall’unione di più cantanti o
strumentisti che eseguono simultaneamente e intenzionalmente parti
musicali differenti l’una dall’altra, percepibili all’ascolto come tali.
38
R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, cit., pp. 18-22.
43
Nel caso delle pratiche musicali di tradizione orale si usa sovente il
termine “polivocalità” al fine di rimarcare le differenze concettuali
rispetto all’idea della “polifonia” colta fissata e trasmessa attraverso la
scrittura: i due termini, tuttavia, possono essere considerati
sostanzialmente dei sinonimi in quanto anche nei formalizzati di
tradizione orale la simultaneità e l’intenzionalità della sovrapposizione
di parti melodiche distinte ed avvertite come tali, è un requisito
essenziale.
Il canto polivocale è presente in quasi tutte le aree culturali
italiane, soprattutto nella sua espressione più schematica data dalla
sovrapposizione di due linee melodiche che si muovono
parallelamente (è, in pratica, ciò che succede quando un uomo e una
donna cantano insieme, data la diversità dei loro registri vocali). Vi
sono comunque alcune aree circoscritte, caratterizzate da procedimenti
formali specifici e non riscontrabili altrove, e che pertanto possono
essere considerate delle vere e proprie “isole polivocali”. In queste si
trovano espressioni musicalmente elaborate quali il bei bei, canto a
quattro parti maschili della zona del Monte Amiata in Toscana, ed il
trallallero, a cinque parti maschili propria dell’area urbana di Genova
ed in particolare dei quartieri del centro storico e del porto.
Nell’ambito della polivocalità un ruolo di assoluta preminenza è
assunto dalle espressioni diffuse in Sardegna, ed in particolare della
tradizione del canto a tenore, e del canto a cuncordu delle
confraternite laicali. Ampiamente conosciute e documentate, queste
forme costituiscono espressioni di grande complessità sia tecnica che
simbolica, tanto da essere annoverate dagli studiosi fra le
manifestazioni più complesse in assoluto cui possa arrivare la pratica
esecutiva affidata esclusivamente alla tradizione orale. Al di là di
queste forme, l’Isola presenta inoltre altre espressioni vocali (la
polivocalità
femminile
nell’esecuzione
dei
rosari
e
l’accompagnamento di basciu e contra nella poesia improvvisata
campidanese) e strumentali (il repertorio contrappuntistico delle
launeddas, aerofono costituito da tre canne e diffuso nella parte
meridionale dell’Isola), segno di una precisa predilezione della gente
sarda verso la sovrapposizione di parti melodiche. Tale predilezione
veniva messa in evidenza già nel 1787, anno in cui l’abate Matteo
Madau pubblicò Le armonie de’ sardi. In questo scritto dell’abate
nativo di Ozieri, troviamo una delle prime e più precise descrizioni del
canto a tenore; egli infatti scriveva:
Nel capo di Logudoro cantano i loro versi con consonanza di più
voci, da’ Greci Polyodia chiamata, ed è un’artifiziosa unione di voci, altre
gravi, altre acute, tra loro compostamente accordate, e in quattro parti
44
distribuite, soprano, alto, tenore, basso, opposte l’una contro l’altra con
esatta misura di tempo.
Esso canto sembra introdotto dalle Greche colonie Doresi, il cui
modo di cantare […] era grave, patetico, virile, maestoso, e nobile, e molto
atto a sollevare, e comporre gli animi […]. Tal’è la detta maniera di
cantare nel detto capo della Sardegna e nel sentir il concento di soavi,
nette, e armoniche modulazioni di voci, tra loro accordate in questo canto,
sembra che si senta un pieno contrappunto di musica39.
Ma arriveremo alla Sardegna solo alla fine, partendo dal Paese
più lontano, in Occidente, dove si trovano tracce di canto armonico.
America
Gli archeologi stimano che i primi uomini a giungere nella
regione geografica del Canada siano arrivati dall’Asia, attraverso
lo Stretto di Bering, già oltre 40.000 anni fa (Fig. 6). Queste ed ondate
successive diedero origine ai discendenti degli attuali indiani
canadesi e alle popolazioni Inuit (Fig. 7).
Fig. 6
Fig. 7
Inuit (singolare inuk o inuq) è il nome del popolo dell’Artico
discendente dei Thule. Gli Inuit sono uno dei due gruppi principali nei
quali sono divisi gli Eschimesi, insieme agli Yupik: il termine
“eskimesi” (che secondo alcuni, significa “mangiatori di carne cruda”,
secondo altri “fabbricanti di racchette da neve”) fu usato dai nativi
Americani Algonchini del Canada orientale per indicare questo popolo
loro vicino, che si vestiva di pelli ed era costituito da esperti
39
M. Madau, Le armonie de’ sardi, Stamperia reale, Cagliari, 1787, pp. 25-28.
45
cacciatori. Il nome che gli Inuit usano per definirsi significa, invece,
semplicemente “uomini”.
Gli Inuit sono gli originari abitanti delle regioni costiere artiche
e subartiche dell’America settentrionale e della punta nord orientale
della Siberia. Il loro territorio è principalmente composto dalla tundra,
pianure basse e prive di alberi dove vi è perennemente uno strato di
permafrost, salvo pochi centimetri in superficie durante la breve
stagione estiva.
Durante la stagione invernale, prima degli anni ‘70, gli Inuit
vivevano in case di ghiaccio chiamate igloo che avevano la forma di
una cupola sferica a pianta circolare ed erano costruite con blocchi di
ghiaccio incastrati perfettamente tra di loro a formare una volta. Vi si
accedeva grazie ad un corridoio basso fatto anch’esso di neve e sulla
parete di fronte a questo vi era una finestra, chiusa con una sottile
lastra di ghiaccio o con pelli di foca. L’interno era foderato di pelli
di renna e vi erano dei letti di pelliccia di renna che dovevano ospitare
tutta la famiglia. Il riscaldamento, l’illuminazione e la cucina erano
ottenuti grazie alla lampada alimentata a grasso di foca: gli Inuit,
nonostante le leggende, amavano infatti cucinare tutte le loro vivande.
D’estate vivevano in tende, con coperture di pelli di foca, di caribù o
di altri animali sostenute da costole di balena o da legname.
Anche se alcuni gruppi vivono su fiumi pescosi ed altri
cacciano caribù nelle zone interne, gli Inuit vivono tradizionalmente
della caccia di mammiferi marini (foche, trichechi e balene), e la
struttura e l’etica della loro cultura si sono sempre rivolte al mare.
La capacità degli Inuit di adattamento a un ambiente freddo e
difficile è legata alla loro particolare abilità nel costruire attrezzi e altri
utili accorgimenti da ogni tipo di materiale. Vestiti di pelli, arpioni
d’avorio o di corno, con lame di pietra, pattini di slitte fatti
all’occorrenza con strisce di carne gelata sono esempi
dell’adattamento indigeno ai materiali naturali. Usano il Kayak o
imbarcazioni a motore per cacciare in mare oppure aspettano vicino
alle aperture nella banchina di ghiaccio l’uscita delle foche. Durante le
battute di caccia usano gli igloo come riparo di emergenza. Usano le
pelli degli animali per fabbricarsi vestiti (es. anorak). Per spostarsi
sulla neve usano slitte trainate dai cani anche se le motoslitte stanno
largamente rimpiazzando questo modo di viaggiare.
La lingua inuit è tradizionalmente parlata in tutta l’Artide
nordamericana e in alcune parti della zona subartica, nel Labrador. In
passato era parlata in qualche misura nella Russia orientale, in
particolare nelle isole Diomede, ma oggi è quasi sicuramente estinta in
Russia. Gli Inuit vivono principalmente in tre paesi: Groenlandia (una
provincia autonoma della Danimarca), Canada e Alaska.
46
L’organizzazione della società si basa sulla solidarietà fra
villaggi; la proprietà è, per la maggior parte, collettiva, la famiglia in
genere è poco numerosa. Gli Inuit hanno una loro religione che si basa
sulla credenza che molti animali e fenomeni naturali abbiano
un’anima o uno spirito. La principale personalità religiosa è
lo sciamano, spesso di sesso femminile, che durante le cerimonie può
cadere in trance grazie all’ausilio del suono del tamburo. In questo
stato, lo sciamano, sarebbe in grado di contattare l’aldilà popolato
dalla dea-tricheco Sedna per porgerle le istanze della sua gente e
prevedere il futuro.
Hanno costituito la ICC (Inuit Circumpular Conference),
un’organizzazione non governativa e plurinazionale, a salvaguardia
della propria cultura, che rappresenta 150.000 persone abitanti nei
territori di Groenlandia, Alaska, Russia.
La popolazione indigena canadese degli Inuit possiede una
forma di canto armonico, che si differenzia da quello tuvano per
l’essere praticato quasi esclusivamente dalle donne. Esso è
tradizionalmente utilizzato dalle donne per cullare i bambini o in
giochi praticati durante le lunghe notti d’inverno. Tale tecnica, dopo
un lungo periodo di declino, è stata recentemente riscoperta,
soprattutto dalle giovani generazioni, nell’ottica di una riscoperta delle
tradizioni Inuit.
Il Katajjaq (detto anche pirkusirtuk e nipaquhiit) è un tipo di
competizione canora tradizionale, considerata un gioco, di solito
tenuta tra due donne. È uno dei pochi casi al mondo di canto di gola,
un metodo unico di produzione del suono che è altrimenti conosciuto
in Sardegna.
Quando gareggiano, due donne stanno in piedi l’una di fronte
all’altra e cantano servendosi di un complesso metodo per seguirsi a
vicenda, così che una voce segna un tempo forte mentre l’altra ne
segna uno debole, fondendo le due voci in un suono singolo quasi
indistinguibile. Ripetono poi brevi motivi a intervalli scaglionati,
spesso imitando i versi delle oche, caribù o altri animali selvatici,
finché una finisce il fiato, inciampa nella propria lingua, o comincia a
ridere, e a quel punto la gara finisce.
La donna anziana che insegna ai bambini corregge i dettagli
dell’intonazione, gli sfasamenti ritmici che si sovrappongono per errore e
le incoerenze ritmiche esattamente come farebbe un maestro di coro
occidentale40.
40
J. Nattiez, Music and Discourse: Toward a Semiology of Music (Musicologie générale et
sémiologue), Christiane Bourgois Editeur, Parigi, 1987, pp. 56-58.
47
Africa
Gli Xhosa sono un gruppo etnico di origine Bantu, provenienti
dall’Africa centrale e attualmente presenti nella parte sud-orientale
del Sudafrica, soprattutto nella provincia di Eastern Cape (Fig. 8).
Sono il gruppo etnico più numeroso in Sudafrica dopo gli Zulu.
La lingua xhosa fa parte del gruppo delle lingue bantu.
Gli Xhosa sono parte del gruppo Nguni meridionale che migrò
verso sud dalla regione dei Grandi Laghi, stabilendosi nel sudest del
Sudafrica. Prove linguistiche e archeologiche suggeriscono che siano
arrivati in Sudafrica circa 1500 anni fa (Fig. 9). Tecnicamente, gli
Xhosa furono originariamente un clan, e presero il nome dal leader di
tale clan, uXhosa. La loro parola per riferirsi al proprio gruppo
è amaXhosa e chiamano la loro lingua isiXhosa. Il nome “Xhosa”
viene talvolta usato per indicare un qualsiasi gruppo di lingua Xhosa
(per esempio Pondo, Thembu e Mfengu) sebbene questi non
appartengano al clan originario degli Xhosa o a gruppi derivati da
esso.
Fig. 8
48
Fig. 9
Gli Xhosa sono sempre stati caratterizzati da una notevole
apertura nei confronti di altri gruppi culturali; sono buoni
commercianti e hanno instaurato rapporti stretti con tutte le
popolazioni con cui sono venuti in contatto. Interi
gruppi Khoi e Griqua sono stati “assorbiti” nella comunità Xhosa, e la
lingua Xhosa moderna include molti termini Khoisan.
Il contatto con i coloni bianchi avvenne dalle parti di Somerset
East, nei primi anni del XVIII secolo. Nello stesso secolo, a causa di
una disputa fra due capi sui diritti di successione, gli Xhosa si divisero
in due gruppi, noti come Gcaleka e Rharhabe o Ngqika.
Verso la fine del Settecento, i trekboer che stavano migrando a
est dalla Colonia del Capo si scontrarono con i pastori Xhosa nei
pressi del Great Fish River. La disputa per il terreno diede inizio a un
secolo di combattimenti fra la Colonia e gli Xhosa, le
cosiddette Guerre di Frontiera del Capo. Fra il 1811 e il 1812, dopo
che la Colonia del Capo passò sotto il controllo britannico, gli Xhosa
furono scacciati verso est (ma gli scontri con la Colonia, in continua
espansione, continuarono fino alla seconda metà del secolo).
Negli anni che seguirono, gli Xhosa subirono anche la pressione
dei gruppi Zulu e Nguni che stavano spostandosi verso sud e verso
ovest nel contesto del processo di “diaspora” africana noto con il
nome di mfecane. La situazione fu aggravata dalla carestia e dalle
turbolenze politiche e sociali interne causate dalla strage del bestiame
voluta dalla “profetessa” millennialista Nongqawuse (1856). Tutti
questi fattori contribuirono al collasso di gran parte dell’economia
agricola e pastorale Xhosa, e alla transizione forzata di questo popolo
verso un sistema economico basato sul salario. A causa di questa serie
di eventi, gli Xhosa sono il popolo africano con la più lunga
tradizione sindacale e politica in assoluto. Non casualmente proprio
questo gruppo etnico ha espresso personaggi politici come Nelson
Mandela e gran parte della leadership dell’ANC.
49
Il sistema politico dell’apartheid e dei bantustan tentò di
confinare gli Xhosa in quelle che furono riconosciute come loro
“homeland”, il Transkei e il Ciskei, oggi parte della Provincia
di Estern Cape. Nel Sudafrica moderno vivono 8.000.000 di Xhosa,
distribuiti in gran parte del Paese ma ancora concentrati soprattutto
nell’Eastern Cape.
Le comunità tradizionali Xhosa si trovano sulle pendici dei
monti Amatola e Zinterberg, in un territorio attraversato da molti
ruscelli che vanno a confluire nei grandi fiumi come il Kei e il Fish
River. Il terreno fertile e le abbondanti precipitazioni rendono questa
zona ottima per l’agricoltura e l’allevamento; fra le coltivazioni
tipiche degli Xhosa si possono citare sorgo, mais, zucche, fagioli,
ortaggi e tabacco.
Il gruppo Xhosa è il secondo gruppo linguistico del Sudafrica.
La lingua xhosa contiene alcuni dei “click” tipici delle lingue khoisan.
I “click” principali della lingua xhosa sono tre, rappresentati spesso
con le lettere “C”, “Q” e “X”. Il suono C o “click davanti” si ottiene
facendo un leggero sorriso, appoggiando la lingua dietro i denti e
tirandola giù di scatto. Il suono Q o “click sopra” si ottiene formando
una “O” con la bocca, appoggiando la lingua al palato e poi tirandola
giù di scatto. Il suono “X” o “click laterale” si ottiene tirando giù la
lingua dal palato contemporaneamente verso l’interno e verso il basso.
La cultura tradizionale degli Xhosa sopravvive oggi soprattutto
nelle campagne; negli elementi fondamentali, essa è equivalente a
quella degli altri popoli del gruppo Nguni come Zulu, Ndbele e Swazi.
Ogni nucleo familiare ha un proprio villaggio, dotato di un orto e un
recinto per il bestiame, ed è governato da un capofamiglia. La
ricchezza della famiglia si conta in capi di bestiame; nel conteggio
però vengono incluse le donne da marito, perché l’acquisto di una
moglie costa allo sposo un certo numero di capi.
La religione tradizionale Xhosa è animista; attorno al dio della
creazione, uDali o Tixo, si sviluppa un complesso olimpo di spiriti,
benevoli e malevoli. Il rapporto fra lo Xhosa e il divino è mediato da
diverse figure di “sacerdoti”: i sangoma sono streghe o stregoni,
depositari della magia (suddivisa in magia bianca e magia nera) e
capaci di divinazione; gli igqirha sono guaritori, molto importanti per
contrastare i malefici dei sangoma; e infine gli ixhwele sono erboristi,
depositari della medicina tradizionale Xhosa. In tutti e tre i tipi di
figure le donne sono preponderanti; trascorrono 5 anni come
apprendiste prima di diventare indipendenti. Una percentuale
significativa della popolazione Xhosa è cristiana, soprattutto devoti di
“Chiese Iniziate Africane” come la Chiesa Cristiana di Sion.
50
Fra i riti religiosi tradizionali degli Xhosa sopravvissuti fino a
oggi c’è la circoncisione dei maschi nell’età della pubertà. I ragazzi
che la subiscono si cospargono il corpo di argilla bianca e si ritirano
dal villaggio, in modo da non poter essere visti (soprattutto dalle
ragazze). L’operazione viene eseguita dagli stregoni senza alcun tipo
di precauzione medica o igienica, ed è spesso causa di infezioni anche
gravi; le autorità sudafricane stanno facendo pressioni sugli Xhosa
perché acconsentano a usare attrezzature sanitarie moderne per questo
antichissimo rito.
La tradizione orale Xhosa è tramandata dagli iimbongi
(singolare imbongi), o “cantanti di lodi”. Tradizionalmente, gli
iimbongi vivono vicino al capo del clan e lo accompagnano nelle
occasioni importanti (l’imbongi Zolani Mkiva precedeva Nelson
Mandela nella cerimonia di inaugurazione della Presidenza nel 1994).
Le poesie degli iimbongi tradizionalmente elogiano le qualità e le
imprese del leader Xhosa, ma possono anche contenere critiche aperte;
in qualche modo, la figura dell’imbongi può essere paragonata a
quella del menestrello delle corti occidentali41.
Gli Xhosa sono celebri per le decorazioni in perline colorate dei
loro abiti; i colori usati e il disegno complessivo distinguono i vari
clan.
La popolazione di origine Bantu dei Xhosa hanno uno stile di
canto armonico, detto eefing. Esso consiste nel produrre due note
separate, mentre ipertoni vengono amplificati simultaneamente. È una
tecnica di canto utilizzata per cerimonie tradizionali in cui si sviluppa
una specie di “dialogo” tra gruppi diversi di cantanti42.
Sardegna
Situata strategicamente al centro del mar Mediterraneo
occidentale, la Sardegna fu sin dagli albori della civiltà umana un
attracco obbligato per quanti navigavano da una sponda all’altra
del mare nostrum in cerca di materie prime e di nuovi sbocchi
commerciali. Fu così che nella sua storia millenaria ha saputo trarre
vantaggio sia dal proprio isolamento, che ha consentito lo svilupparsi
della civiltà nuragica, sia dalla propria posizione strategica, ostacolo
inaggirabile nella rete degli antichi percorsi.
41
R. Kaschula, The Heritage Library of African People: Xhosa, The Rosen Publishing Group,
New York, 1997.
42
M. van Tongeren, Overtone Singing, Fusica, Amsterdam, 2002, pp. 157-159.
51
Il risultato è che nel suo antico bagaglio storico si trovano segni di
solide culture indigene sviluppatesi praticamente immutate nel corso
dei secoli, così come i segni delle maggiori potenze coloniali antiche.
Sono ricche le testimonianze di queste presenze disseminate
dappertutto lungo l’intera isola, dando luogo ad una storia della
Sardegna molto complessa ed articolata.
Le prime tracce di presenza umana in Sardegna, risalenti
al Paleolitico inferiore, consistono in rudimentali selci, ritrovate nel
sassarese, scheggiate in un periodo compreso tra i 500.000 e i 100.000
anni fa dall’Homo erectus per costruire utensili. Per trovare l’Homo
sapiens sapiens bisogna risalire a 14000 anni a.C.: gli scavi della
grotta di Corbeddu, a Oliena, oltre a delle pietre sbozzate, hanno
restituito anche fossili umani. Le testimonianze dell’uomo
Neolitico (6000 - 2700 a.C.) sono numerose: i neolitici più antichi
incidevano le loro ceramiche con il bordo di una conchiglia,
il cardium edule, e la civiltà cardiale si sviluppò fino al 4500 a.C.
La successiva civiltà di Bonu-Ighinu durò fino al 3500 a.C.
circa, mentre l’ultimo periodo è caratterizzato dalla civiltà di San
Michele che giunse fino al 2700 a.C. I neolitici sardi vivevano
all’aperto e in grotte, allevavano bestiame, utilizzavano strumenti
in selce ed in ossidiana, coltivavano cereali, cacciavano e pescavano.
Conoscevano la tessitura, scolpivano statuine stilizzate raffiguranti
la Dea Madre accentuando le forme del seno e del bacino, costruivano
ciotole e vasi decorati in vario modo.
Si svilupparono in quel periodo due forme di architettura
funeraria: da una parte strutture megalitiche come dolmen e menhir
(pedras fittas), dall’altro le domus de janas (casa delle fate o delle
streghe), tombe scavate nella roccia che riproducevano l’intera
struttura abitativa e nelle quali venivano seppelliti i morti, colorando
con ocra rossa il pavimento, le pareti della tomba e anche il corpo del
defunto. Nella fase finale del periodo neolitico (fino al 1600 a.C.) si
succedono altre due civiltà ceramiche (di Monte Claro e
di Bonnanaro), e inizia la lavorazione dei metalli: prima il rame, poi
il bronzo.
Quando arrivarono i naviganti Fenici, tra il X e l’VIII secolo
a.C., in Sardegna si contavano circa 8000 nuraghi, dalle semplici torri
di avvistamento (avamposti ai confini dei territori dei singoli clan) ai
castelli veri e propri, con annessi villaggi di capanne (come il nuraghe
Santu Antine di Torralba). I Fenici stabilirono colonie un po’ ovunque
nel Mediterraneo e arrivarono non come invasori, ma per
commerciare. Si stanziarono dapprima in insediamenti temporanei che
dovevano servire come magazzini di raccolta di materie prime e i
Sardi delle zone costiere pian piano fraternizzarono con loro.
52
Meno facile fu il rapporto tra i sardi e i cartaginesi: l’intervento
di Cartagine fu dovuto alle pulsioni espansionistiche della città, in
piena espansione nel VI secolo a.C. Non è ancora ben chiaro se
l’intervento fu giustificato come aiuto alle città fenicie contro i sardi o
come sovrapposizione imperialistica ai precedenti insediamenti fenici.
Un primo tentativo di conquista cartaginese fu sventato intorno al 535
a.C. dalla vittoriosa resistenza sarda. Ma, dalla fine del secolo, l’Isola
sembra entrare nell’orbita dell’egemonia cartaginese. Le città costiere
diventeranno presto dei grandi centri urbani, tra i maggiori del
Mediterraneo occidentale. Ancora oggi la loro presenza è ben visibile,
nonostante le successive sovrapposizioni romane. I centri maggiori
furono Karalis (Cagliari, ove si trova la più grande area cimiteriale
fenicio-punica del mondo, sul colle di Tuvixeddu, oggi purtroppo
sottoposto a pressioni speculative); Nora, Solki (Sant’Antioco, col più
grande tophet scavato finora); Tharros. Altri centri importanti furono:
Bithia; Neapolis; Othoca (Santa Giusta); Cornus; Bosa.
Per i romani non fu affatto semplice l’occupazione dell’Isola,
decisiva fu la battaglia che vide contrapposta Roma alla coalizione
sardo-punica capeggiata da Amsicora e Iosto appoggiati da Annibale,
il quale inviò in rinforzo suo fratello Asdrubale con un esercito di
10.000 uomini, con esito favorevole a Roma. Dopo la caduta della
potenza fenicia e un periodo di convivenza tra le due potenze di
allora, Cartagine e Roma, e dopo due guerre puniche, i Romani si
impossessarono definitivamente dell’Isola nel 214 a.C. Anche per
loro, a un lungo periodo di difficile convivenza con i sardi e con
i sardo-punici seguì una graduale integrazione (specie dal I secolo
d.C.), comunque questo periodo è caratterizzato da continue rivolte
spesso represse nel sangue, testimoniate dagli storici dell’epoca.
Quelli che erano stati prosperi centri fenici e punici
(come Karalis, Sulci, Nora, Tharros, Neapolis, Bosa) continuarono la
loro esistenza romanizzandosi velocemente. Cagliari (Karalis)
divenne la capitale della nuova provincia e nel corso dei secoli fu
arricchita da molti monumenti, tra i quali l’anfiteatro, utilizzato
tuttora. Nel nord venne fondata una colonia romana: Turris
Libisonis (l’attuale Porto Torres).
Nella parte settentrionale, un centro importante fu Olbia che
durante la permanenza romana fu dotata di piazze e acquedotti ed
anche fornita di due complessi termali. Un ritrovamento di particolare
importanza, avvenuto nella zona del porto vecchio nel 1999, è stato il
recupero di 18 relitti di navi, di cui due dell’età di Nerone. Insieme
a Turris Libisonis (Porto Torres) era il centro più importante della
Sardegna settentrionale.
53
Una lunga strada univa la parte nord al capoluogo (A Karalibus
Turrem) attraversando la fertile pianura campidanese. Nel mezzo del
percorso si trovava Forum Traiani (Fordongianus), altro importante
centro, abbellito nel I secolo d.C. da lussuose terme. La Sardegna
divenne un importante granaio di Roma, insieme alla Sicilia e
all’Egitto, e prosperò per quattro secoli sotto la sua egemonia, che la
segnò indelebilmente, fino alla caduta dell’Impero. Della convivenza
con Roma rimane traccia nella lingua sarda, particolarmente vicina al
latino volgare da cui emerse.
Alla caduta dell’Impero romano, la Sardegna fu occupata
dai Vandali, che mantennero sull’isola un presidio militare per circa
ottant’anni fino alla presa di potere dei Bizantini nel 534 d.C. Con loro
al potere, le strutture sociali e religiose subirono profonde
trasformazioni: per opera di Gregorio Magno si giunse alla
conversione degli abitanti delle Barbagie al Cristianesimo.
Pian piano il bizantinismo esercitò il suo influsso nella cultura e
nell’arte isolana, creando un forte legame con Bisanzio che servì
sicuramente ad impedire l’occupazione longobarda. Ma fu soprattutto
in campo religioso che si sentì la sua presenza, con la costruzione di
chiese a croce greca, a cupola emisferica – secondo il modello
di Santa Sofia a Costantinopoli – e a pianta quadrata, e con
l’introduzione nell’Isola del rito bizantino insieme a tradizioni e
consuetudini fino ad allora sconosciute. Si affermò in quel periodo il
culto dell’imperatore Costantino, in onore del quale si tiene tuttora
a Sedilo la cavalcata detta s’Ardia che ricorda le corse dell’ippodromo
di Bisanzio.
Col declino dell’impero bizantino, a partire dall’VIII secolo, i
Sardi sull’impianto organizzativo bizantino, si dettero un nuovo
assetto politico. L’isola fu così divisa in 4 Giudicati, i quali erano
indipendenti
dall’esterno
ma
anche
fra
di
loro.
I
quattro giudicati erano
quelli
di Torres-Logudoro,
di Calari,
di Gallura e di Arborea ed erano retti da un “giudice” (judex in
latino, judike o zuighe in sardo) con potere sovrano. Amministravano
un territorio, chiamato logu, suddiviso in curatorie formate da più
villaggi, retti da capi chiamati majores. Parte dello sfruttamento del
territorio, come anche l’agricoltura, veniva gestito in modo collettivo,
un’organizzazione modernissima per l’epoca.
L’aiuto portato alla Sardegna contro gli Arabi da parte delle
flotte di Genova e Pisa, specie dopo il fallito tentativo di conquista
dell’isola nel 1015-16 da parte di Mujāhid al-Āmirī di Denia (il
Mugetto o Musetto delle cronache cristiane italiche), signore
delle Baleari dopo il crollo del Califfato o mayyade di al-Andalus,
54
ebbe come conseguenza un crescente influsso delle due Repubbliche
marinare.
Barisone I d’Arborea grande stratega sfruttò le dispute tra
Genova e Pisa e i nascenti interessi del Regno d’Aragona sulla
Sardegna a favore della causa sarda e cercò di unificare i Giudicati
sardi sotto un’unica corona. Così con l’appoggio di Genova, chiese e
ottenne il titolo nominale di re di Sardegna dall’imperatore Federico I
Barbarossa, pagando 4000 marchi d’argento anticipati dai genovesi.
Così il 10 agosto 1164 fu incoronato re di Sardegna, nella cattedrale
di San Siro a Pavia. I genovesi resisi conto che non poteva restituire
subito l’ingente somma, lo tennero prigioniero per sette anni. Tornò in
patria nel 1172 cercando di proseguire invano il suo progetto di
unificazione, unica possibilità per respingere le pressioni delle potenze
straniere che tentavano di impossessarsi dell’Isola.
Lentamente tutti i Giudicati passarono sotto il controllo, formale
o pratico, genovese e pisano e successivamente anche catalanoaragonese. Rimase completamente autonomo il Giudicato d’Arborea il
cui giudice Mariano IV d’Arborea sconfisse più volte le truppe
catalano-aragonesi che tentavano di occupare l’Isola rivendicando il
possesso del teorico Regnum Sardiniae et Corsicae, istituito a tavolino
da papa Bonifacio VIII e assegnato alla Corona d’Aragona.
Nel 1395 la giudicessa-reggente Eleonora d’Arborea emanò la Carta
de Logu, simbolo e sintesi di una concezione giuridica totalmente
sarda, anche se innestata col diritto romano-bizantino particolarmente
innovativa per la cultura europea dell’epoca. La carta comprendeva un
codice civile ed uno rurale, per complessivi 198 capitoli, e segnava
una tappa fondamentale verso i diritti d’uguaglianza. Questo insieme
di leggi rimase in vigore fino al 1827. La storia di Eleonora è
caratterizzata dal continuo tentativo di unire il Popolo Sardo e di
difendere la propria terra dai continui tentativi di invasione catalanoaragonese, con lei praticamente cessò di esistere il Giudicato
d’Arborea, dato che dopo la sua morte nessuno fu più in grado di
contrastare efficacemente la potenza iberica.
Nell’ambito cronologico dell’epoca giudicale è necessario
menzionare a parte le vicende delle città sarde che si diedero statuti
propri, sulla scia dell’esperienza dei comuni maturata sul continente,
per lo più su ispirazione di forze politiche e sociali esterne. In
particolare due, quella di Sassari e quella di Villa di Chiesa, appaiono
rilevanti per l’importanza storica, istituzionale ed economica dei due
centri.
Dell’esperienza comunale sassarese (1272 ca. - 1323) restano
gli Statuti della città, redatti in latino e in sardo logudorese. Della
vicenda di Villa di Chiesa (1258 ca. - 1323), fondata da Ugolino della
55
Gherardesca e votata all’industria mineraria argentiera, rimane
testimonianza nelle leggi cittadine raccolte nel Breve di Villa di
Chiesa (di cui nell’archivio storico della città è custodito un bellissimo
originale in pergamena, databile presumibilmente al 1327).
In generale, delle autonomie e dei privilegi cittadini sardi
(benché si trattasse di comuni pazionati, ossia sottoposti al controllo
di una città egemone, in questo caso Genova e Pisa) rimarrà traccia
successivamente nella storia del Regno di Sardegna, allorché alle città
emerse dal periodo precedente (alle due sopra citate, bisogna
aggiungere: Castel
di
Calari,
Oristano,
Bosa,
Alghero,
Castelaragonese), verranno riconosciuti particolari status giuridici che
ne faranno delle città regie, ossia sottratte al dominio feudale e
dipendenti direttamente dalla Corona, con propri rappresentanti
specifici nel parlamento degli Stamenti (il Braccio reale).
Le città in Sardegna rimarranno a lungo entità socio-politiche
alquanto estranee (per non dire ostili) al territorio circostante. Molte di
esse, per varie vicissitudini, subiranno una decadenza da cui non
sapranno riprendersi che a fatica e solo di recente.
Il Regnum Sardiniae et Corsicae ebbe inizio nel 1297, quando
Papa Bonifacio VIII lo istituì per dirimere le contesa tra Angioini e
Aragonesi circa il Regno di Sicilia (che aveva scatenato i moti
popolari passati poi alla storia come Vespri siciliani). Il Regno di
Sardegna fu un’istituzione totalmente estranea alla realtà sarda, tanto
che i sardi la combatterono con tutte le loro forze tenendo testa alle
forze aragonesi, che rappresentavano paradossalmente il Regno
di Sardegna, per circa un secolo. La realizzazione della licentia
invadendi così concessa ebbe inizio nel 1323, col re Giacomo II e poté
dirsi conclusa nel 1420 sotto Alfonso V d’Aragona. Attraverso varie
fasi, la storia del Regno sardo percorre l’ultimo periodo del medioevo
e giunge alla sua conclusione tra il 1847 (Unione Perfetta con gli stati
di terraferma) e il 1861 (proclamazione del Regno d’Italia).
Discendente dei Giudici d’Arborea, questo feudatario
dell’oristanese che si proclamò difensore de Sardi è considerato dalla
storiografia una delle figure più significative della lotta
indipendentista. La sua vicenda ha inizio quando, intorno al 1477,
entrò in conflitto con il viceré aragonese Nicolò Carros. Quest’ultimo
si adoperò affinché Giovanni II d’Aragona il senza fede condannasse
Leonardo de Alagon per lesa maestà e fellonia. Il feudatario sardo
diede così il via ad una vera e propria rivolta dei Sardi contro il
“Regno di Sardegna”, che dapprima vide gli aragonesi costretti in
assedio nelle due roccaforti di Cagliari e Alghero, ma che alla fine si
concluse tragicamente nella battaglia di Macomer con la sconfitta dei
ribelli Sardi e con la fuga e successivamente la cattura dello stesso de
56
Alagon. Questi morì il 3 novembre 1494 nella prigione valenziana
di Xàtiva.
Il periodo che va dagli inizi del XIV secolo a circa la metà del
secolo successivo rappresenta per la civiltà occidentale un periodo di
transizione dal Medioevo all’età moderna. La società si svincola dai
miti e dalle tradizioni medievali e si avvia verso il Rinascimento.
Purtroppo, questi cambiamenti non si riscontrano in Sardegna: questo
periodo corrisponde infatti all’occupazione aragonese; ebbe inizio
nel 1323 - 1324 ed è considerato da molti come il peggiore di tutta la
storia dell’isola. Il cammino verso l’età moderna viene bruscamente
interrotto e tutta la società isolana regredisce verso un nuovo e più
buio Medioevo. Le maggiori cause furono viste nelle continue guerre
contro il Regno di Arborea e nel regime di privilegio, di angherie e
di monopolio esclusivo di ogni potere, instaurato a proprio favore dai
Catalano-aragonesi e poi dagli spagnoli.
Una testimonianza evidente della situazione creatasi è fornita
dagli stessi Catalani, che ancora nel 1481 e nel 1511 chiedevano al Re
- nel loro Parlamento - la conferma in blocco degli antichi privilegi,
ricordando che erano stati concessi «per tenir appretada e sotmesa la
naciò sarda» (mantenere bisognosa e sottomessa la nazione sarda).
Con il dispotismo e la confisca di tutte le ricchezze si arrestò
bruscamente il processo di rinnovamento economico, culturale e
sociale che i giudicati e il Regno di Arborea, avevano suscitato tra
l’ottavo e il quattordicesimo secolo.
In realtà gli aragonesi non disponevano dei mezzi per una tale
invasione e riuscirono solo dopo un secolo di guerre e di sanguinose
battaglie ad unificare il Regno di Sardegna e Corsica, che fu composto
- per lungo tempo - unicamente dalle città di Cagliari e di Alghero. I
due popoli sconteranno duramente - in epoche successive - il loro
combattersi accanitamente fino ad annullarsi a vicenda. Sia i sardi che
i catalano-aragonesi saranno assorbiti in realtà nazionali
sostanzialmente estranee alla loro storia.
Con la riconquista di Granada - il 2 gennaio 1492 - si realizzò
pienamente la riunificazione dei regni iberici, assiduamente perseguita
da Ferdinando II di Aragona e da Isabella di Castiglia.
Dopo il loro matrimonio celebrato a Valladolid il 17
ottobre 1469, con un accordo conosciuto anche come la concordia di
Segovia, nel 1475, i due sovrani avevano giurato di non fondere le due
corone in un unico Stato e ciascuna entità conservò le sue istituzioni e
le sue leggi. Entrambi infatti si chiamarono: re di Castiglia,
di Aragona, di Leòn, di Sicilia, di Sardegna, di Cordova, di Murcia,
di Jahen, di Algarve, di Algeciras di Gibilterra, di Napoli, conti di
Barcellona, signori di Vizcaya e di Molina, duchi di Atene e di
57
Neopatria, conti di Rossiglione e di Serdagna, marchesi di Oristano e
conti del Goceano.
In seguito agli aggiustamenti territoriali seguiti alla Guerra di
successione spagnola, finita nel 1713, per un brevissimo periodo, tra
il 1713 ed il 1718, l’Isola passò agli Asburgo austriaci, dopo il trattato
di Utrecht del 1713 che sancì la separazione della Spagna dal suo
impero. Filippo V di Spagna nel 1717 occupò Sardegna e Sicilia. Il
trattato di Londra del 2 agosto 1718 assegna l’Isola al duca di Savoia,
Vittorio Amedeo II, che l’accettò solo per il relativo titolo regio.
I problemi posti dal banditismo e dalla criminalità rurale
spinsero il governo sabaudo a tentare, inutilmente, di cedere l’isola in
cambio di qualche altro possedimento. Non riuscendoci, Vittorio
Amedeo tenta di risolvere la situazione con una forte azione
repressiva, come fa qualsiasi governo di occupazione non gradito dalla
popolazione, inviando contingenti militari per tentare di contrastare il
problema. Nel 1732 gli successe Carlo Emanuele III, che nel 1738
organizzò insieme al Papa il rientro, su richiesta di quest’ultimi, di un
gruppo di pescatori-commercianti liguri originari di Pegli che stavano
dal 1540 nella cittadina costiera di Tabarka (è un’isoletta a nord di
Tunisi) in Tunisia e li fece trasferire nell’isola di San Pietro, dove
venne fondata una cittadina chiamata Carloforte in suo onore, sino
all’arrivo dei francesi che l’hanno occupata (1793) e cambiato il
nome, al loro rientro dalla spedizione in Egitto.
Nonostante diverse iniziative di ammodernamento, non avvenne
però un sostanziale cambiamento della situazione economica della
popolazione, soprattutto per la opprimente presenza feudale, sulla
quale non si effettuò alcun intervento. Ciò a dimostrare che il governo
sabaudo non aveva una decisa volontà di riformare la società sarda,
mentre aumentò la pressione fiscale. In questa situazione, la povertà
non si riduce ed il malcontento accresce i movimenti di rivolta. Per la
prima volta dopo secoli i Sardi decisero di tornare a lottare per
conquistare condizioni di vita migliori. Iniziarono continue ribellioni e
sommosse che sconvolsero tutta la Sardegna e si accentuarono
soprattutto con i grandi moti antifeudali e antipiemontesi del 1783.
Nel 1789 numerosi villaggi si rifiutarono di pagare i tributi feudali,
provocando un nuovo intervento repressivo, in difesa degli interessi
feudali, per riportare con la forza l’ordine. Il movimento di protesta
della popolazione cominciò ad avere anche l’appoggio di intellettuali
e uomini di cultura, soprattutto dopo il 1789, anche per l’effetto
della Rivoluzione Francese.
Dopo la rivoluzione, la Francia repubblicana tenta di diffondere
i principi di libertà, fratellanza e uguaglianza in tutta Europa.
Nel 1793 la flotta francese agli ordini dell’ammiraglio Truguet
58
occupò Carloforte e Sant’Antioco, dove innalzò l’alberò della libertà,
sbarcò in territorio di Quartu e attaccò il porto di Cagliari. Con
un’abile propaganda, aristocrazia e clero convinsero la popolazione
della pericolosità di francesi, che indicarono come nemici della
religione, violenti e schiavisti. La propaganda ottenne il risultato
voluto, volontari sardi respinsero le truppe francesi.
Questi episodi di resistenza all’attacco francese, proprio mentre
le truppe piemontesi incontravano serie difficoltà sulla terraferma,
crearono l’illusione che il governo sabaudo potesse concedere alle
classi dirigenti sarde una gestione più indipendente della Sardegna.
Vennero mandati dei delegati a Torino per avanzare a Vittorio
Amedeo III richieste precise, sintetizzate nelle così dette cinque
domande, un vero programma costituzionale. Le quali consistevano
nella convocazione del Parlamento mai più convocato dall’arrivo dei
Piemontesi, la riconferma degli antichi privilegi dei quali aveva
sempre goduto il Popolo Sardo, la nomina negli impieghi civili e
militari e nelle cariche ecclesiastiche esclusivamente di sardi,
l’istituzione a Torino di un Ministero per la Sardegna e a Cagliari di
un Consiglio di Stato per i controlli di legittimità. I delegati vennero
tenuti a Torino per mesi, senza ottenere risposte, mentre in Sardegna
cresceva la tensione.
Nel 1799 le
truppe
francesi
occuparono
il Piemonte
costringendo i Savoia a riparare in Sardegna dove rimasero fino
al 1814 dopo la sconfitta di Napoleone Bonaparte. Nell’Isola si
verificarono timidi tentativi di insurrezione, con Vincenzo Sulis,
Gerolamo Podda, Francesco Cilocco e il parroco di Terralba
Francesco Corda, che tentarono di proclamare la Repubblica Sarda,
ma i rivoltosi vennero uccisi in conflitto a fuoco o condannati a morte.
La presenza del sovrano nell’Isola non attenuò il malcontento generale
che sfociò nel 1812, in un anno di terribile carestia, nel tentativo di
insurrezione noto come la congiura di Palabanda, guidato
dall’avvocato Salvatore Cadeddu, che venne stroncato con durezza e
si concluse con le esecuzioni di Giovanni Putzolu, Raimondo Sorgia e
dello stesso Cadeddu.
I piemontesi erano interessati al più completo controllo del
territorio ed allo sfruttamento delle sue ricchezze, risale a questo
periodo il disboscamento selvaggio per la produzione di legname. A
tale scopo, nel 1820 Vittorio Emanuele I promulgò l’Editto delle
chiudende, con il quale autorizzò la chiusura, con siepi o muri, delle
terre comuni. Consentì, quindi, per la prima volta nella storia della
Sardegna, la creazione della proprietà privata e venne del tutto
cancellato il regime della proprietà collettiva dei terreni, che era stata
una delle principali caratteristiche della cultura sarda. A ciò si
59
aggiunga che la chiusura fu tutta in favore dei latifondisti e degli stessi
piemontesi.
Nel 1847 con un atto giuridico venne sancita la fusione perfetta
della Sardegna con la terraferma e l’estensione anche all’isola
dello Statuto Albertino. Un atto che venne visto come l’ottenimento
da parte della Sardegna di parità di diritti con il Piemonte, mentre i
diretti interessati, ossia i sardi, non poterono che vederlo come la
definitiva cancellazione dei loro valori storici e culturali.
Nel 1860 Vittorio Emanuele II tenta di cederla alla Francia, ma poi
nel 1861 entra a far parte del Regno d’Italia.
In un certo modo quindi il Regno d’Italia può essere considerato
una prosecuzione del Regno di Sardegna, che di sardo nella sua storia
ebbe sempre ben poco, e il cui nome ha fatto sorgere una sorta di
equivoco storico in quanto alla fine i sardi hanno sempre combattuto
contro un regno straniero che portava beffardamente il nome della loro
terra.
La Sardegna tra Otto e Novecento è una regione marginale,
povera e spopolata del nuovo stato italiano. La modernizzazione
forzosa e superficiale e i conflitti commerciali con altri paesi europei
(specie con la Francia) ne condizionano pesantemente l’assetto
produttivo e sociale. A ciò si accompagna poi il fenomeno
del banditismo.
Contemporaneamente tuttavia emergono anche pulsioni ed
espressioni culturali al passo con i tempi e di livello assoluto (scrittori,
artisti, uomini politici). Le contraddizioni accompagnano tutto l’arco
della storia contemporanea dell’Isola, a fasi alterne tra momenti di
crisi e momenti di crescita, sia pure problematica.
Nella Grande Guerra i sardi si distinsero in particolar modo con
la Brigata Sassari. Alla fine della guerra a causa della mancata risposta
dello Stato Italiano alle istanze di sviluppo e di costruzione di
infrastrutture dell’Isola fra gli ex combattenti, soprattutto per l’azione
politica di Emilio Lussu, nasceranno nuovi fermenti politici che
porteranno alla nascita del Partito Sardo d’Azione. Durante
il fascismo al fine di incentivare la politica dell’autarchia, saranno
realizzate una serie di infrastrutture e di bonifiche di numerose paludi,
con l’insediamento di gruppi di coloni provenienti da varie parti
d’Italia principalmente dal Veneto. Saranno anche incrementate le
attività estrattive e fondate alcune città come quella mineraria
di Carbonia e quelle agricole di Mussolinia rinominata nel dopoguerra
Arborea e di Fertilia.
Con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale,
parallelamente alla Costituzione repubblicana italiana, viene
60
promulgato lo Statuto di autonomia della nuova Regione sarda, una
delle cinque a statuto speciale previste nel nuovo ordinamento statale.
Il dopoguerra, caratterizzato dalla battaglia vinta contro
la malaria e dalle richieste e rivendicazioni di condizioni economiche
migliori, vede da un lato l’imporsi delle servitù militari (come pegno
agli assetti geopolitici internazionali cui l’Italia deve far fronte),
dall’altro la politica dei così detti Piani di Rinascita, misure legislative
speciali per il finanziamento dell’industrializzazione della Sardegna.
L’indipendentismo che per molti anni era limitato ad una esigua
élite di intellettuali come l’architetto Antonio Simon Mossa, nei primi
anni 1970 si materializza in un movimento culturale e politico. Nel
1973 nacque il movimento Su Populu Sardu, fondato fra gli altri
da Angelo Caria. Da questo, nei primi anni 1980, a seguito di una
scissione nascerà il Partidu Sardu Indipendentista, che nel 1994, con il
contributo dello stesso Caria, darà vita a Sardigna Natzione. Nel 2001
a seguito di una rottura all’interno del movimento fu fondato
da Gavino Sale l’iRS (indipendèntzia Repùbrica de Sardigna), che
eleggerà lo stesso Sale nelle elezioni provinciali di Sassari del 2006.
Alla fine del XX secolo, la Sardegna, come regione dello Stato
italiano, risulta attestarsi a mezza via tra le regioni a più alto reddito
annuo pro capite del nord peninsulare e quelle meridionali a reddito
pro capite più basso. Altri indicatori ne sanzionano gli innegabili
progressi sia economici, sia sociali, ma non annullano le obiettive
difficoltà di crescita e di sviluppo ancora presenti.
Negli anni più recenti, l’espansione delle nuove tecnologie e il
miglioramento dei collegamenti con l’esterno (specie quelli aerei,
grazie alle compagnie c.d. low cost) sembrano tendere ad attenuare
l’insularità. Caratteristica della quale viene troppo spesso dato peso
agli aspetti negativi e svalutati gli aspetti positivi, tanto da considerare
la Sardegna regione marginale quando in realtà si trova al centro
del Mediterraneo occidentale.
Il canto a tenore (chiamato in sardo su tenore, su concordu, su
contratu, su ‘Ussertu o s’agorropamentu e non “canto a tenores”) è
uno stile di canto che ricopre un ruolo importante nel panorama delle
tradizioni sarde, sia perché espressione artistica di pura matrice
isolana, esente da condizionamenti o influssi esterni, sia perché
espressione sociale dell’idilliaco mondo agro-pastorale, strato sociale
che simboleggia l’Isola sotto ogni punto di vista, e sul quale il
popolo sardo ha radicato le proprie origini.
Il Canto a tenore è stato inserito dall’UNESCO tra
i Masterpieces of the Oral and Intangible Heritage of Humanity e
perciò proclamato “Patrimonio intangibile dell’Umanità”.
61
Il canto a tenore è una forma polivocale a quattro parti, tipica
della Sardegna centro settentrionale43 (Fig. 10). Ogni parte deve esser
eseguita da un solo cantore di sesso maschile. Poiché in nessun caso
una parte può essere raddoppiata, il gruppo a tenore è composto
rigorosamente da quattro elementi. L’impianto formale del canto a
tenore può essere definito sostanzialmente come un “canto ad
accordo”, cioè una linea melodica, eseguita da un solista, sa ‘oghe (la
voce), viene accompagnata da accordi realizzati dagli altri tre cantori
(Fig. 11).
Fig. 10
Fig. 11
Sa ‘oghe, il leader del gruppo, ha il compito, oltre che di
eseguire
il
testo
verbale,
anche
di
condurre
il canto determinandone l’intonazione, l’andamento, la velocità, la
durata e gli spostamenti tonali. Le altre parti vengono di solito
chiamate: su bassu, sa contra e sa mesu ‘oghe.
Su bassu, la parte più grave, intona, ribattendola
continuamente, un’unica nota all’ottava inferiore rispetto alla nota
cardine della melodia di sa ‘oghe, determinando la fondamentale
dell’accordo. Nei rari casi in cui questa intoni diverse note, come nei
muttos di Dorgali, il suo movimento è comunque legato a quello delle
altre parti; in questo modo su bassu definisce comunque la nota
fondamentale dell’accordo. Il suo ruolo è indispensabile per dare
solidità alla struttura armonica e a quella ritmica.
43
M. Agamennone, Polifonie, a cura di, Bulzoni, Roma, 1998.
62
Sa contra, intonata una quinta sopra su bassu, esegue,
anch’essa salvo rare eccezioni, un’unica nota ribattuta. Bassu e contra
assieme costituiscono l’ossatura ritmico-armonica su cui si muovono
le altre due voci.
Sa mesu ‘oghe, relativamente più libera rispetto alle precedenti,
si muove al di sopra di sa ‘oghe e ha il compito di fiorire e colorire il
canto e di completare la struttura armonica formata rigorosamente da
accordi maggiori. Le tre parti che accompagnano sa ‘oghe eseguono
una base ritmico-armonica pronunciando sillabe non-sense che
variano da zona a zona (bim-bò, bim-bam-bò, ecc.). L’etnomusicologo
Pietro Sassu, è stato il primo ad avanzare l’idea che il gruppo di canto
a tenore non costituisca un coro, bensì un’”integrazione tra quattro
solisti”44, poiché, nonostante si cerchi costantemente l’omogeneità e la
fusione, ogni componente approccia la propria parte in modo
personale e con una certa libertà di variazione: l’obbiettivo è la
fusione di quattro individualità e non di una anonima sovrapposizione
di suoni.
Per definire il gruppo dei quattro cantori o il modo di cantare, il
termine tenore (al singolare per indicare l’insieme) o tenores (i
componenti) è certamente il più diffuso, anche se in alcuni paesi se ne
utilizzano altri come su cuntrattu (a Seneghe), su cussertu o su
cuncordu (a Fonni); a seconda dei paesi inoltre, questi termini
indicano a volte l’insieme dei quattro cantori, a volte soltanto il coro
dei tre elementi che accompagna il solista.
Una delle peculiarità che rende maggiormente riconoscibile e
caratteristico il canto a tenore è il particolare timbro di bassu e contra.
Queste due parti utilizzano infatti un timbro gutturale, ottenuto
sfruttando in modo particolare le risonanze della cavità orale e di
quella nasale.
Quello delle origini del canto a tenore è uno degli argomenti più
incerti e più discussi tra gli studiosi. Una delle tesi più in voga,
certamente la più poetica ma difficilmente assumibile
scientificamente, sostiene che il canto a tenore sia nato in tempi remoti
tra i pastori sardi nella solitudine delle campagne; su bassu
riprodurrebbe, per imitazione, il muggito del bue, sa contra il belato
della pecora e sa mesu ‘oghe il suono del vento. Indicazioni diverse
vengono date dall’etnomusicologo Ignazio Macchiarella il quale,
studiando l’intrecciarsi nel tempo della tradizione scritta con quella
orale per quanto riguarda la pratica del canto ad accordo o
44
P. Sassu, La musica di tradizione orale, in M. Brigaglia, La Sardegna, a cura di, Della Torre,
Cagliari 1982, vol. 2, pp. 140-148.
63
falsobordone (sostanzialmente un impianto accordale del tutto
corrispondente a quello del tenore), arriva alla conclusione che questa
forma polivocale non sia attestabile prima della fine del quindicesimo
secolo45. A oggi gli studi non permettono di andare oltre; non
sappiamo quando sia nato il canto a tenore ma con molta probabilità
alla fine del Quattrocento era già presente.
Per una conoscenza più completa del canto a tenore, sono di
particolare interesse gli aspetti cinesici e prossemici, legati cioè alle
posizioni reciproche, alle distanze e alla gestualità dei quattro
componenti durante il canto. Chiunque abbia visto un gruppo cantare
a tenore non può non aver notato la particolare disposizione dei
cantori che si chiudono a cerchio e stanno vicinissimi, spesso a
contatto diretto l’uno con l’altro. Questa vicinanza è certamente
funzionale al canto e alla reciproca intonazione delle voci. Risultano
comunque chiaramente evidenti anche le diverse valenze simboliche
che può assumere questa figura geometrica e del senso di chiusura, di
perfetta armonia e di completezza che trasmette. Anche in questo caso
ogni paese ha una sua tradizione specifica: in alcuni centri come
Fonni, su bassu sta di fronte a sa ‘oghe, mentre la posizione di contra e
mesu ‘oghe può variare a seconda dell’abitudine dei diversi gruppi; in
altri centri come Seneghe, partendo da sa ‘oghe e procedendo in senso
orario la disposizione sarà ‘oghe, bassu, mesu ‘oghe e contra. Oltre
alla posizione reciproca dei cantori e alle distanze ravvicinate è
interessante prestare attenzione alla particolare gestualità del canto a
tenore in cui il movimento è minimo: se non fosse per l’inevitabile
modificarsi delle espressioni del volto durante il canto, anch’esse
ridotte all’essenziale, i cantori resterebbero perfettamente immobili.
Un altro elemento che può colpire chi assiste alla performance di un
gruppo a tenore, è il fatto che alcuni componenti del coro tengono la
mano a conchiglia poggiandola sull’orecchio di modo che, a mo’ di
risuonatore, convogli nell’orecchio il suono che fuoriesce dalla bocca.
Oggi il canto a tenore ha pressoché perso le sue funzioni
all’interno della comunità, laddove fino a pochi decenni fa era un
canto di aggregazione sociale; ogni occasione in cui più persone si
incontravano per stare assieme era un’ottima occasione per cantare:
dal semplice incontro quotidiano nella bettola (su zilleri) dopo una
giornata di lavoro, al momento di massima aggregazione della
comunità paesana: la festa. I brani più lenti, spesso con ritmo libero
come ad esempio boghe ‘e notte, non hanno una funzione ben precisa;
vengono utilizzati genericamente per mettere in musica dei testi
poetici o, in alcuni casi, per cantare le serenate. Una funzione ben
45
I. Macchiarella, Il falsobordone fra tradizione orale e tradizione scritta, Libreria Musicale
Italiana, Roma, 1995.
64
precisa hanno invece i canti a ballo, fondamentali per
l’accompagnamento dei ballerini durante le feste46. Il canto a tenore, e
in alcuni casi il canto monodico, sono stati l’unico accompagnamento
al ballo fino alla fine del diciannovesimo secolo, periodo in cui
giunsero in Sardegna prima l’organetto diatonico e poi la fisarmonica
che affiancarono, e in alcuni casi sostituirono, le launeddas nella parte
meridionale dell’Isola e i tenores in quella centro settentrionale. In
alcuni centri si tramanda, per il canto a tenore, un repertorio religioso
utilizzato durante le processioni e più raramente durante la messa.
Questo repertorio si differenzia da quello profano, oltre che per il testo
di tipo devozionale e per il modulo tipicamente religioso dei gosos
cantato da sa ‘oghe, anche per il fatto che il coro, invece che eseguire
le caratteristiche sillabe non-sense, canta una parte del testo.
A seconda dell’elemento preso in esame è possibile suddividere
i brani del repertorio del canto a tenore in diversi modi. Una possibile
distinzione, basata sulla funzione del canto, è quella tra repertorio con
testo a carattere religioso da un lato e profano dall’altro. Il primo,
anche se meno rilevante rispetto al secondo, è certamente di notevole
interesse dato che in alcuni centri mantiene ancora oggi la sua
funzione originaria. Questi brani vengono eseguiti in chiesa in
particolari momenti dell’anno liturgico (Natale, Pasqua o festa
patronale) oppure durante le processioni religiose per le vie del paese.
Appartengono a questo repertorio i gosos e alcune ninne nanne
dedicate al bambino Gesù.
Il repertorio profano può essere ulteriormente suddiviso in brani
a ritmo libero e balli, a cui si possono aggiungere i muttos.
I brani a ritmo libero sono caratterizzati da una maggiore lentezza,
dalla mancanza di un riferimento ritmico costante, da una più chiara
scansione del testo e dalla minor frequenza di sovrapposizione tra
solista e coro. Alcuni dei moduli riconducibili a questo primo gruppo
prendono il nome di boghe ‘e notte, pesada, istérrida, lestra, ecc.
Nei canti a ballo, ritmicamente più marcati, l’attenzione è rivolta
principalmente all’aspetto ritmico, in modo da fornire un valido
supporto per i danzatori; le sovrapposizioni tra solista e coro sono più
frequenti e molto spesso il testo svolge una funzione secondaria. A
seconda della zona di provenienza e del tipo di passo eseguito dai
ballerini, questi brani prendono differenti nomi, come ad esempio
ballu seriu, ballu sartiu, ballu ‘e cantidu, ballittu, ecc.
Il modulo dei muttos, caratterizzato da una ben definita alternanza tra
46
B. Bandinu, A. Deplano, V. Montis, Ballos, Frorias, Cagliari, 2000.
65
solista e coro, prende il nome e mette in musica la tipica forma della
poesia sarda in metro settenario47.
Per i testi eseguiti dai gruppi a tenore la lingua più diffusa è il
sardo logudorese. Nei paesi in cui la variante dialettale si differenzia
dal logudorese spesso si utilizzano entrambi gli idiomi. Il logudorese è
la lingua nella quale hanno scritto i maggiori poeti sardi (tra i più
cantati a tenore ricordiamo Paolo Mossa, Pietro Pisurzi, Melchiorre
Murenu e Peppino Mereu), mentre la variante linguistica locale è
utilizzata o per componimenti di poeti locali, o per cantare testi di
tradizione orale tipici della zona di appartenenza. I temi trattati nei
testi sono di diverso genere tra cui prevalgono quelli di carattere
amoroso e satirico. Quando un testo letterario viene cantato non
sempre si rispetta esattamente la versione scritta, infatti spesso
avvengono delle modificazioni: il testo si piega alle esigenze della
musica nel caso in cui questa necessiti della ripetizione o della
frammentazione dei versi. Esempi di questo tipo di elaborazione
estemporanea sono chiaramente evidenti nei balli48.
Il canto a tenore è caratterizzato da una forte dicotomia tra
omogeneità del genere e specificità locali. L’omogeneità è evidente in
quei caratteri, comuni a tutti i paesi, che permettono di identificare
immediatamente un gruppo a tenore: quattro uomini che cantano
chiusi in cerchio, i caratteristici timbri gutturali di bassu e contra,
l’alternanza del solista che canta il testo e del coro che risponde con
gli inconfondibili “bim-bam-bò”. Approfondendo il livello di analisi si
riscontrano diverse analogie anche nel repertorio, infatti, a parte le
dovute eccezioni, in tutti i paesi esistono uno o più balli, sa boghe ‘e
notte, i muttos, ecc. A questa omogeneità si contrappone però una
forte specificità locale che differenzia gli stili di canto tra zona e zona
e addirittura tra paese e paese. Scrive Bernard Lortat-Jacob,
etnomusicologo francese che ha dedicato diversi studi alla Sardegna,
che in quest’Isola “l’esotico non è lontano: inizia già nei paesi
vicini”49. Questa iperspecificità locale è facilmente riscontrabile nei
costumi, in alcuni caratteri linguistici, nel ballo e ovviamente nella
musica. Il repertorio del canto a tenore riesce a conciliare queste due
tendenze apparentemente opposte in maniera chiaramente percepibile:
con un po’ di esperienza diviene immediato il riconoscimento di un
canto a muttos a prescindere dal paese di appartenenza, ma con un
47
D. Carpitella, P. Sassu, L. Sole, La musica sarda. Canti e danze popolari, libro allegato
all’omonima antologia in tre dischi, a cura di, Albatros VPA 8150-52, Pieve Emanuele (Milano),
1973.
48
A.M. Cirese, Ragioni metriche: versificazione e tradizioni orali, Sellerio Editore, Palermo 1988.
49
B. Lortat-Jacob, Polyphonies de Sardaigne, Booklet allegato all’omonimo cd, Le chant du
monde LDX 274 760, 1992. Musiche in festa. Marocco, Sardegna, Romania, Condaghes, Cagliari,
2001.
66
ascolto più approfondito ci si rende conto che i muttos di un paese si
differenziano sempre, per alcuni particolari più o meno spiccati, da
quelli del paese vicino.
Il canto a tenore è oggi un fenomeno vitale che certamente non
rischia l’estinzione, grazie soprattutto al sempre maggiore
interessamento da parte dei giovani che si avvicinano a questo mondo
con rispetto e dedizione. Il fatto che il fenomeno sia vitale non
significa però che il repertorio del canto a tenore, e tutti gli aspetti ad
esso correlati, non siano mutati nel tempo. A partire dagli anni
Settanta, periodo in cui, a livello nazionale, si sviluppò quel fenomeno
noto come folk revival, numerosi furono i cambiamenti nella pratica
del canto a tenore. Il più evidente fu la nascita di gruppi stabili,
conseguenza della diffusione di spettacoli in cui il gruppo di un paese
veniva chiamato in altri centri per esibirsi sui palcoscenici. Ulteriori
cambiamenti furono dovuti alla diffusione delle registrazioni
discografiche. La formazione di gruppi stabili, assieme alle esigenze
di spettacolo e discografiche, portarono delle inevitabili modificazioni
nel repertorio: da un lato una maggior qualità esecutiva, visibile
soprattutto nella più accurata intonazione e sincronia degli attacchi del
coro; dall’altra una maggior cristallizzazione delle forme. Questi
inevitabili mutamenti in ogni caso non tolgono prestigio ad un sistema
musicale dove ancora oggi è lasciata ampia libertà all’interno dei
tradizionali modelli esecutivi. Oggi il canto a tenore nutre numerosi
consensi non solo tra studiosi e appassionati, ma anche tra il grande
pubblico ed in contesti internazionali50.
Uno dei cori con il quale sono entrato in contatto diretto, è
quello della città di mia madre, il “Coro Matteo Peru”51: è stato un
ritorno alle radici, visto che nella prima formazione cantava anche il
mio tr.is-nonno Pietro Sanna.
Le origini del coro di Aggius, così si chiama il paese della mia
famiglia materna, si perdono nella notte dei tempi. Il grande poeta
pescarese Gabriele D’Annunzio lo definisce “antico quanto l’alba”,
espressione che sta ad indicare origini molto lontane riferibili ai
primordi, all’alba della polifonia, del canto a più voci nato durante le
cerimonie religiose sulla base dei canti gregoriani. Ma della presenza
di un coro ufficiale in paese si ha notizia soltanto alla fine del
diciannovesimo secolo. Buio assoluto sul periodo precedente. Si può
ipotizzare che si cantasse già da molto tempo prima (qualcuno
propone addirittura il quattordicesimo secolo), durante le funzioni
50
A. Deplano, Tenores. Canto e comunicazione sociale in Sardegna, Edizioni AM&D, Cagliari,
1997.
51
http://www.coromatteoperu.it/
67
sacre in modo particolare quelle della Settimana Santa, nelle feste
campestri, nei banchetti nuziali, durante il lavoro dei campi. Ai cantori
poi era affidato il compito, prima della comparsa dell’organetto, di
segnare il ritmo dei balli tradizionali che si ripetevano in paese con
cadenza settimanale.
Il primo coro di Aggius, così lo chiameremo in quanto non si ha
nessun tipo di documentazione né scritta né orale riguardo ad altri
precedenti cori, era composto da:
•
•
•
•
•
Francesco Aunitu, bozi ;
Giorgio Spezzigu, tippi ;
A. Pietro Cannas, contra ;
Pietro Sanna, bassu ;
Pietro Paolo Peru, falzittu.
Fu l’etnomusicologo Gavino Gabriel a scoprire il profondo
messaggio che emanava da queste arcaiche melodie e fu lui che le fece
conoscere in tutta Italia portando il coro di Aggius nelle principali
città della penisola e offrendo dei concerti che egli stesso presentava
ed illustrava al pubblico.
Il secondo coro di Aggius era formato da:
•
•
•
•
•
Giuseppe Andrea Peru, bozi (sostituiva Francesco Aunitu);
Giorgio Spezzigu, tippi;
A. Pietro Cannas, contra;
Pietro Sanna, bassu;
Salvatore Stangoni, falzittu (sostituiva Pietro Paolo Peru).
Il secondo coro continuò la tournée del primo e fu ospite di
Gabriele D’Annunzio, nella sua villa chiamata “Il Vittoriale degli
italiani”. Il poeta rimase profondamente impressionato da queste
melodie e dai cantori che portavano dentro di loro il sentimento
primitivo e vergine del popolo sardo, il soffio del maestrale, il sapore
del mare incontaminato e il profumo intenso del mirto, del rosmarino,
del ginepro, del lentischio. Li trattenne alcuni giorni e, al momento del
congedo, si fece promettere che sarebbero tornati nella sua villa. A
Giuseppe Andrea Peru, da lui definito “Gallo di Gallura”, mandò in
seguito, sempre nello stesso anno (1927) una bella lettera soffusa di
nostalgia e di desiderio di pace da trovare in “un bosco di sòveri” dei
monti di Aggius, alla quale erano allegate delle sciarpe di lana “per
preservare le vostre gole”.
Con Matteo Peru, a partire dagli anni cinquanta, il coro di
Aggius raggiunse il massimo splendore. La formazione base era la
seguente:
68
•
•
•
•
•
Nanni Peru, bozi;
Matteo Peru, bozi, tippi e bozi solista;
Tonino Cassoni, contra;
Bacciccia Muzzeddu, bassu;
Andreino Biancareddu, falzittu.
Più tardi subentrò come contra Tonino Carta, al posto di Tonino
Cassoni e come bassu, al posto di Bacciccia Muzzeddu, Ivo
Biancareddu che si alternava col fratello Luciano.
Il coro di Matteo Peru ebbe occasione di girare il mondo: era
richiesto in tutta Italia e nella maggior parte delle nazioni europee,
arrivando a oltrepassare i confini del vecchio mondo con una serie di
concerti in Africa (Egitto).
Quasi contemporaneamente al coro di Matteo Peru, nasce quello
diretto dal galletto di Gallura, Salvatore Stangoni, la cui iniziale
formazione era la seguente:
•
•
•
•
Salvatore Stangoni (Balori Stangoni), bozi e falzittui;
Francesco Cossu (Ciccheddu), tippi;
Pietro Carta (Mascioni), contra;
Salvatore Cassoni (Balori Cascioni), bassu.
Anche il coro di Stangoni ebbe modo di farsi conoscere in
alcune città italiane, soprattutto al seguito dell’attore Dario Fo52.
Dopo un periodo di stasi dovuto, più che altro, all’inesorabile
azione del tempo che ha visto decadere o morire molti dei componenti
dei vecchi cori, nasce, nel 1995, il nuovo coro che, sotto la
supervisione di Matteo Peru, allora più che ottuagenario ma ancora
ottimo maestro, ripropone le antiche melodie nel rigoroso rispetto
delle tradizioni:
•
•
•
•
•
Giuseppe Peru, bozi solista e falzittu:
Giannetto Bianco, bozi;
Tonio Peru, tippi;
Andrea Biancareddu, contra;
Tonello Peru, bassu.
Ed è proprio questa ultima formazione che ho avuto la fortuna
di incontrare qualche anno fa in Sardegna, in una notte piena di canti e
di storie raccontate direttamente dalle loro voci.
52
M. Cappa, R. Nepoti, Dario Fo, Gremese Editore, Roma, 1997, pp. 68-69
69
Capitolo IV
Interviste ai maestri
Riporto di seguito le interviste che ho fatto ai maestri incontrati
nel mio percorso di ricerca vocale. Dopo le domande, metterò le
risposte ricevute da ognuno di loro.
Quando hai scoperto per la prima volta il canto armonico?
Andrea De Luca
Ascoltando una registrazione di Hykes, fine anni ‘80, subito
dopo “Cantare la voce” di Stratos. (In seguito i lavori di Vetter,
quindi l’incontro con Trân Quang Hai all’ inizio del ‘96 e
l’ascolto delle registrazioni delle musiche tradizionali).
Germana Giannini
Ascoltando del materiale di Roberto Laneri e successivamente
partecipando ad un seminario con gli Shudè, un gruppo di
cantori e musicisti di Tuva. Avevo 25 anni più o meno...
Trân Quang Hai
Nel 1969 al Dipartimento di Musica del Musée de l’Homme a
Parigi dove lavoravo, ho sentito una registrazione audio dalla
Mongolia registrata nel 1967 a Ulan Bator dal ricercatore
francese, prof. Roberte Hamayon. Non potevo credere che un
cantante potesse produrre 2 suoni allo stesso momento. Ma con
i risultati di un analizzatore acustico, ho potuto vedere due
distinte linee rinforzate: una era la fondamentale e la seconda
erano i differenti armonici che creavano una melodia della parte
superiore.
Marco Tonini
Ne sentii parlare alla fine degli anni ‘80.
Quanto ha contribuito studiare il canto armonico con una
persona in carne ed ossa rispetto all’apprendimento tramite
fonti sonore e musicali?
70
A.D.L.
Il primo (e unico, per ora) con cui ho studiato questa tecnica è
Trân Quang Hai, che ha un metodo semplice ed efficace di
trasmetterne gli elementi fondamentali: lavorare con lui ha
rappresentato, per me, un contributo decisivo per stabilire con
precisione quali sono i movimenti fisici necessari per produrre
determinati suoni. Le fonti consentono di confrontarsi con gli
stili e la sensibilità melodica delle tradizioni musicali in
questione, si può anche arrivare ad una buona realizzazione
imitativa, ma il contatto diretto mi sembra l’esperienza
migliore.
G.G.
Ha contribuito enormemente. Per me ascoltare il corpo del
cantore è fondamentale ma mi rendo conto che non è per tutti
così, dipende dalla propria sensibilità.
In particolar modo aver ascoltato un cantore di armonici
standogli accanto è stata una vicenda percettiva per me molto
forte. Sentire le diplofonie in modo così sensibile ed evidente è
stata un’esperienza che mi ha fatto ancora di più capire quanto il
corpo possa essere in grado di creare sonorità veramente
spettacolari, e ciò che per una cultura è familiare può essere
totalmente inedito (e quindi in-audito) in un’altra...
T.Q.H.
Non ho avuto un insegnante quando ho imparato il canto
armonico. Tuttavia, ho incontrato Mr. Sundui, uno dei più
grandi cantanti Mongoli, nel 1984. Mi ha mostrato la vera
tecnica del canto armonico della Mongolia. Grazie a ciò, ho
migliorato la mia tecnica. L’ascolto di fonti musicali può aiutare
a capire la tecnica, ma con l’insegnante, l’apprendimento risulta
più efficace, perché può correggere i tuoi errori
immediatamente.
M.T.
Non ne ho idea dato che non ho mai studiato canto armonico
con persona alcuna; sicuramente l’ascolto sonoro ha favorito
l’approfondimento, ma io sono per la sperimentazione
indipendente, e per il confronto inteso come scambio di
informazioni, ovviamente.
In che misura gli strumenti elettronici ti hanno aiutato nello
studio di questa tecnica?
71
A.D.L.
La possibilità di visualizzare lo spettro frequenziale, per
esempio, è di grande aiuto per consolidare la conoscenza della
tecnica e per il suo affinamento.
G.G.
In nessun modo, non li ho mai usati...
T.Q.H.
L’analizzatore elettronico può facilitare il tuo compito: puoi
vedere lo spettro del tuo canto e capire come i tuoi armonici
appaiono nello schermo al fine di migliorare il tuo lavoro.
M.T.
Enormemente, non tanto nel risultato acustico quanto nella
crescita di una sempre maggior consapevolezza. Vi sono molti
overtone singers che attribuiscono a tale emissione un
significato più ludico-estetico, altri più introspettivo. In ogni
caso credo che la consapevolezza sia necessaria, e l’analisi
spettrografica può aiutare a capire “di fatto” quali aspetti
fisioacustici possono essere determinanti.
Quali strumenti elettronici e programmi usi per il suo
studio?
A.D.L.
Devo ammettere che il primo analizzatore di frequenza
(Frequency Analyzer) che ho usato, pur provenendo da Trân, mi
è stato fornito da te! Ora sul web si trovano strumenti di varia
complessità, per ogni esigenza di lavoro.
G.G.
Nessuno.
T.Q.H.
Ho usato il software “Frequency Analyzer” quando ho iniziato a
lavorare con software acustico. Recentemente ho usato il
software “Overtone Analyzer” inventato da Bodo Maass e
Wolfgang Saus. Overtone Analyzer è un software per chiunque
sia interessato al suono o alla musica. Può essere utilizzato
come un analizzatore di spettro e un tool visuale di feedback e
una visualizzazione interattiva di teoria musicale.
72
Originariamente realizzato da e per overtone singer, collega in
modo univoco la fisica del suono alla percezione della musica.
In particolare, evidenzia il ruolo di armonici naturali o
armoniche come un aspetto fondamentale della struttura del
suono. Utilizzando Overtone Analyzer si può approfondire la
conoscenza del suono e della musica e affinare le abilità
percettive.
Spectrum Analyzer
Al suo interno, Overtone Analyzer ha uno spettro di potenza ad
alta risoluzione e visualizzazione di spettrogramma. È possibile
registrare e analizzare i suoni in tempo reale, oppure è possibile
caricare e visualizzare le registrazioni esistenti. I risultati
vengono visualizzati in termini fisici e musicali al tempo
stesso.
Visual Feedback for Singer
Permette di vedere il tono e timbro della tua voce. Misurare la
qualità e la coerenza del vibrato. Migliorare la risonanza di
controllo di armoniche e formanti. La formazione di feedback
visivo può accelerare l’apprendimento di specifiche tecniche
vocali, ed è anche divertente. Overtone Analyzer è progettato
per registrare lezioni di canto e riprodurle in seguito per la
pratica.
Instrument Tuner
Con Overtone Analyzer, è possibile misurare con precisione
l’altezza del vostro strumento. A differenza di un sintonizzatore
normale che visualizza semplicemente la frequenza misurata
delle fondamentali, Overtone Analyzer permette di sintonizzare
il vostro strumento anche per le armoniche superiori, con molta
più precisione.
Tone Generator
Con la sua interfaccia semplice ed intuitiva, Overtone Analyzer
consente di configurare facilmente e giocare una qualsiasi
combinazione di onde sinusoidali. Questo può essere usato per
la taratura e collaudo, ma anche per esperimenti di psicoacustica, come toni di differenza e battiti binaurali. È anche
utile per imparare la sequenza armonica di un tono determinato.
Physics of Sound
73
Overtone Analyzer aiuta a comprendere la struttura fisica del
suono e della musica in un intuitivo e visivo. È possibile
cambiare all’istante fra spettrogrammi display in scala lineare di
frequenza e in scala logaritmica musicale. Consente lo zoom in
un brano di musica per vedere le vibrazioni individuale nella
visualizzazione della forma d’onda.
Music Theory
Confronta la sequenza armonica naturale con la scala musicale e
permette di saperne di più sul temperamento e accordature.
Aiuta a capire i motivi fisici per cui un’ottava e un quinto sono
gli intervalli più consoni, e a confrontare gli intervalli di
accordature diverse.
Psychoacoustics
È utile per saperne di più su come l’orecchio e il cervello
traducono le onde sonore in arrivo in campo musicale e per
svolgere esperimenti per esplorare la percezione uditiva.
Overtone Singing
Tutti questi aspetti rendono Overtone Analyzer uno strumento
perfetto per cantanti overtone che vogliono migliorare la propria
tecnica o di pezzi di studio specifico, ampliando la
comprensione di questa arte e fornisce un feedback preciso sulle
armoniche che vengono cantate.
M.T.
Mic Samson G Track USB, un vecchio mic da pochi euro, pc, e
per l’analisi audio vocale Overtone Analyzer e molti altri free
software, Madde, RTSect, SFSWin, RTSpect, VTDemo,
Esynth, Esystem, Speech Analyzer, Wave Surfer, e tanti altri.
Che senso ha per un occidentale l’apprendimento di questa
tecnica?
A.D.L.
Credo che, anzitutto, rappresenti un grande piacere, fisico ed
estetico insieme. È un fine esercizio di ascolto, grazie allo
spostamento dell’attenzione dalla fondamentale ai sovratoni
armonici. Dà la possibilità di ritrovare, a volte con sorpresa, il
libero utilizzo dei risuonatori nasale e faringeo, un tempo
patrimonio anche delle nostre tradizioni popolari, sebbene
utilizzati con finalità musicali differenti. Infine, esiste, ed è
74
ampiamente valorizzata in diversi campi terapeutici, una
valenza extra-musicale di questa tecnica: basandosi su emissioni
di fiato piuttosto lunghe, accompagnate dalla produzione e dalla
percezione di suoni molto acuti, favorisce rilassamento,
concentrazione e altre trasformazioni psicofisiche positive.
G.G.
Ognuno trova il suo personale, diciamo che per me ha una
valenza armonizzante lo stato d’animo e non amo cimentarmi in
pratiche più tecniche relative ad essa. Noto una differenza molto
grande fra l’approccio maschile o femminile a questo canto. Gli
uomini se ne interessano molto di più. Ci sono poche “maestre”
di canto armonico (io stessa non lo sono, il canto armonico è
solo un aspetto dell’interesse vocale che ho e il mio fuoco
d’insegnamento si concentra su altri campi canori) mentre ci
sono molti maestri di canto armonico, io stessa ne conosco
direttamente o indirettamente almeno una quindicina ed ho
praticato con 5 di loro. Una differenza enorme d’insegnamento.
Ho apprezzato molto l’incontro con i tuvani (molto istintivi e
poco capaci di trasmettere una dimensione consapevole della
loro vocalità), fantastico il lavoro con Trân Quang Hai che
unisce istinto, grande capacità comunicativa e di trasmissione e
consapevolezza musicale. Altre figure d’insegnanti non le ho
apprezzate affatto: ho incontrato un insegnamento freddo,
matematico, con tendenze esoteriche di grande effetto senza
però un serio studio a proposito.
T.Q.H.
L’obiettivo degli occidentali che vogliono studiare canto
armonico sono molti e diversi:
1. Imparare il canto armonico per piacere;
2. Applicarlo nella meditazione, nel rilassamento, l’esoterismo,
lo sciamanesimo, nella creazione musicale, e nella
musicoterapia.
M.T.
Ha senso comunque a prescindere. E poi perchè “per un
occidentale”? Spesso si contrappone il throat singing asiatico al
canto armonico cosiddetto “occidentale” (western style). Pur
condividendo alcuni aspetti tecnici e atteggiamenti del vocal
tract, hanno origini e obiettivi differenti.
Può un occidentale che non ha seguito un percorso di
75
educazione vocale fin da bambino, ricreare gli stessi suoni
che si trovano nelle città di origine del canto armonico?
A.D.L.
Con lo studio si può fare moltissimo, ma ai luoghi appartengono
i corpi, le culture, dunque anche le abitudini timbriche, ritmiche,
melodiche, che non si possono assumere come si assume un
farmaco. Comunque studiando e possibilmente recandosi anche
sul posto o lavorando con cantori di tradizione si può fare
davvero molto.
G.G.
Credo che una persona con certe particolarità innate di tipo
vocal-creativo e appassionato della ricerca possa avvicinarsi ad
una vocalità simile. A me dispiace quando vedo che viene
“colto” il canto armonico nel suo aspetto più spettacolare, come
un grande effetto, senza capirne le radici della cultura a cui
appartiene. Fortunatamente ci sono però anche diverse persone
che si dedicano con passione a questo studio che richiede
peraltro molta energia, e, torno a dirlo, sono soprattutto maschi.
Credo che ciò derivi dalla forza che ha il suono nel corpo vocale
maschile che fa risaltare la grande differenza timbrica fra nota
di base e risalto degli armonici, una “distanza” vocale
particolarmente suggestiva.
T.Q.H.
Non è la stessa formazione. È possibile produrre armonici, ma
non saranno mai come quelli della gente dei luoghi di origine,
che spendono anni per impararlo dalla loro infanzia.
M.T.
Bisogna intendersi su quali siano le zone di origine del canto
armonico, comunque certamente si, alcune tecniche si possono
assimilare in breve tempo, ma come necessita qualsiasi
disciplina vi è poi bisogno di pratica e allenamento per
sviluppare e consolidare sonorità e sensazioni propriocettive.
Che rapporto c’è fra l’emissione vocale e il suo ascolto?
A.D.L.
Per il praticante, gradualmente, con una buona pratica del canto
difonico, diminuendo l’effetto di mascheramento della
fondamentale, l’ascolto si affina sempre di più verso la
76
percezione degli armonici e restituisce informazioni preziose
per l’emissione sempre più precisa e sicura dei sovratoni.
D’altra parte, l’ascolto di un canto, registrato o dal vivo, a causa
dell’alta frequenza e di un’impressione di “purezza” dei suoni
prodotti, spesso non rende manifesto il rilevante sforzo fisico
richiesto all’esecutore nella tecnica detta, secondo la
classificazione di Trân, “a due cavità”.
G.G.
...difficile da spiegare in poche parole.
T.Q.H.
Quando si producono armonici, l’effetto è più efficiente perché
questi vibrano dall’interno del corpo. Questo modo è molto
meglio che ascoltare semplicemente gli armonici. Uno è attivo
(dall’interno) e l’altro è passivo (da fuori).
M.T.
Fondamentale. Per me non ha senso praticare canto armonico ad
esempio all’aperto, o in luoghi dove non si ha un ritorno
acustico. Se ci si tappa le orecchie risulta impossibile
controllare il rapporto F0 e overtones, avvertiremo solo la
fondamentale appunto. L’ideale per la ricerca, la
sperimentazione e la pratica dovrebbe essere un luogo chiuso e
senza riverberazione di dimensioni ridotte, l’abitacolo dell’auto,
il bagno, ...
Sicuramente, una volta affinata la tecnica, risulta più
affascinante esercitarsi in luoghi con un riverbero molto lungo.
Perché l’apprendimento del canto armonico può essere
importante per un cantante?
A.D.L.
Parlando di cantanti occidentali, credo possa rivelarsi molto
utile apprendere una tecnica fondata su atteggiamenti vocali
opposti, come la compressione della fondamentale e l’uso
privilegiato dei risuonatori nasale e faringeo. Un ottimo apporto
può venire anche dall’affinamento dell’ascolto di cui parlavamo
prima e dalla gestione del fiato su emissioni lunghe.
G.G.
Perché apre l’ascolto e rende più consapevole la ricchezza
armonica, appunto, del suono vocale. Inoltre può aiutare a
77
tenere sotto controllo la stanchezza di una voce che nel tempo
logorandosi può perdere molti armonici. Secondo Thomatis poi,
anche lo stato energetico e il sistema neurovegetativo di un
individuo sono in stretta relazione con la sua capacità di
generare spontaneamente armonici e saperli ascoltare: di tutto
ciò a maggior ragione deve esserne consapevole un cantante.
T.Q.H.
Un cantante che impara a usare il canto armonico è in grado di
migliorare la propria voce aumentando i propri armonici. La sua
voce è più sonora, più forte, più impressionante per le persone
che ascoltano. La sua percezione audio è migliore. Può
riconoscere un suono piccolissimo della natura quando
cammina nel bosco. Ed è in grado di identificare la sottigliezza
della voce della persona che ascolta.
M.T.
Tale pratica è utile per imparare ad ascoltarsi, per l’intonazione
(gli armonici non stoneranno mai in relazione alla frequenza
fondamentale, essendo regolamentati da leggi fisio-acustiche),
per accrescere la conoscenza di sé e dei propri mezzi e limiti
vocali. Maggior controllo e maggior consapevolezza.
Che differenza c’è tra il canto armonico riprodotto da una
persona che lo impara in età adulta, e una persona che lo
impara da bambino?
A.D.L.
Immagino la stessa (cioè assai grande) che si ritrova in ogni
pratica di canto e musicale appresa in età così differenti.
G.G.
Un bambino lo incarna e lo vive istintivamente, un adulto lo
scopre e lo ricrea con una maggior consapevolezza di solito.
Cercare di tenere insieme istinto e consapevolezza è una
bellissima sfida.
T.Q.H.
Imparare il canto armonico da bambino è più veloce e più facile
perché i bambini non sono disturbati dalla nuova tecnica. Essi
possono assimilare cose nuove senza essere confusi da ciò che
sanno, come gli adulti. Per ogni disciplina (lingua straniera,
canto), i bambini imparano molto facilmente. Gli adulti
78
impiegano più tempo per acquisire un nuovo linguaggio, o
nuove canzoni, perché sono turbati da ciò che hanno conosciuto
prima.
M.T.
Il vocal tract di un pre-adolescente è di dimensioni ridotte,
diventa quindi più difficoltoso, ma non impossibile, ricercare e
ottenere armonici ben definiti acusticamente, proprio per la
difficoltà della lingua, ad esempio, nel ricreare le due zone
formantiche necessarie. Mettiamoci anche una maggior
difficoltà nel sensibilizzare, riconoscere e riproporre
determinate sensazioni propriocettive.
Quanto può influire la conformazione dell’individuo nella
emissione degli armonici?
A.D.L.
Credo che la conformazione e le dimensioni dei risuonatori
coinvolti abbiano un ruolo molto importante, ma non attribuisco
loro una rilevanza decisiva. Determinano piuttosto la qualità che
la possibilità dell’emissione stessa, realizzabile facilmente da
chiunque.
G.G.
Anche questa è una domanda alla quale non è facile rispondere
in maniera sintetica...
T.Q.H.
La forma del corpo non influisce sulle emissioni di armonici. Il
principale produttore del suono è la forma dell’interno della
bocca (palato, della lingua, della gola). Le popolazioni asiatiche
imparano meglio degli occidentali, perché la forma della loro
bocca è diversa. La lingua parlata è importante. I latini hanno
maggiori difficoltà di apprendimento rispetto agli anglosassoni
e ai popoli slavi, a causa della lingua.
M.T.
Totalmente; differenti conformazioni del vocal tract, ma
soprattutto delle due cavità di risonanza preposte grazie
all’intervento della lingua (e quindi della sua dimensione ed
elasticità), determinano acusticamente il grado di “pulizia” e
purezza acustica degli overtones, ammesso che questo sia poi
l’obiettivo, per me molto riduttivo, dell’overtone singer.
79
***
L’intervista che segue all’etno-musicologo Trân Quang Hai è
stata fatta da Albert Hera e Raffaella Buzzi nel 2002 a Genova in
occasione di un suo stage organizzato dall’Associazione EchoArt.
Penso sia molto interessante e quindi la riporto integralmente:
Leggendo nel suo sito e alcune e-mail giunte a noi, ci
domandavamo per quale ragione ci sono studiosi che
ritengono la sua conoscenza dello stile Kargiraa errata. Può
spiegarcelo?
Ritengono la mia conoscenza non corretta, perché io canto
diversamente. È vero o no che tutte le strade portano a Roma?
Per esempio creano il suono in un certo modo (esempio sonoro)
e io lo creo in modo differente (esempio sonoro). Sono le
aritenoidi a creare la voce patologica. Pensate alle persone
malate di aritenoidi (mentre spiega, Trân Quang invita Alberto a
toccargli la gola e a sentire le differenze che si creano parlando
e cantando usando o non usando le aritenoidi). Non si usano le
corde vocali false, ma le aritenoidi. Grazie ad esse si ha un
suono molto potente al di fuori. Con questo canto, inoltre, si
potrebbero avere molti risultati nella rieducazione della parola
di quelle persone che non hanno più la voce. Mentre le persone
normalmente non parlano con le aritenoidi, io vi posso
dimostrare di saperlo fare. Come fa Popey di Braccio di ferro o
Louis Armstrong: questi aveva persino i polipi! (canta come
Louis Armstrong). Se sai dov’è la parte che fa vibrare la tua
voce puoi trasformarla. Pensate ai Monaci tibetani. Molte
persone sono convinte che essi preghino utilizzando i subarmonici, ma non è vero. Questi monaci pregano con la voce
vera e cantano fino a 65-70 hertz.
A questo punto Trân Quang Hai spiega le differenze e modi
di utilizzare le scale sugli armonici.
Esempio di scala diatonica e scala pentatonica quest’ultima
utilizzata dai cantanti della Repubblica di Tuva. Nel primo
esempio la scala avviene per progressione fino all’armonico 12°
nel secondo si omette l’armonico 11°. Poi evidenzia esempi
80
sull’utilizzo del fiato e su come omettere la fondamentale
spiegando che il segreto dell’omissione della fondamentale sta
nell’apnea...
Quali consigli darebbe a una persona che vuole avvicinarsi
al canto e allo studio del canto sia tradizionale che difonico?
Nel canto tutto dipende da quello che si vuole fare. Se si vuole
seguire il canto lirico, il canto classico, non bisogna occuparsi
del canto difonico, perché quest’ultimo permette di sviluppare
gli armonici, completamente estranei alla concezione armonica
classica. Introdurre gli armonici nella concezione classica
equivarrebbe a rovinare la voce: non si devono cantare o
scrivere note che non esistono nelle armoniche classiche. Il
canto difonico, invece, è molto utile per quelle persone che
vogliono avere una voce più bella; si pensi agli istitutori, agli
insegnanti, agli attori di teatro, ai politici, a quelle persone che
non sanno parlare. Bisogna lavorare per avere una voce che
catturi l’attenzione.
La tecnica è per lei una componente fondamentale?
La tecnica del canto difonico mi permette di avere un controllo
completo del mio corpo; mi permette di avere una
concentrazione e soprattutto di ampliare la mia capacità di
meditazione: la meditazione non è altro che fissarsi su una cosa
senza pensare a niente altro. Se voi provate a tenere un
armonico fisso senza farlo vibrare otterrete la concentrazione. Il
canto difonico mi permette di avere la concentrazione nella mia
meditazione.
Prima di un concerto è solito scaldare la voce oppure
scaldare l’anima, magari con la meditazione?
Non ho bisogno di cantare, perché lo faccio già sul
palcoscenico. Prima di un concerto mi lascio andare al
rilassamento, perché se si continua a cantare si rischia di
infiammare le corde vocali e dopo non si riesce più a cantare in
scena. È molto importante lasciare riposare le corde vocali
perché sono molto fragili.
Quanto tempo si allena al giorno?
81
Cinque minuti al giorno, perché il canto difonico non è come le
altre tecniche vocali. Dal momento che si gonfiano i muscoli
vocali si sprecano molte energie ed è come se si cantasse per
un’ora. Dunque, se ci si allenasse per molto tempo si
rischierebbe di avere le corde infiammate con il rischio di
parlare in modo afono. Questo avviene perché le corde
rimangono disunite. Le corde vocali non sono corde, ma
muscoli: attualmente vengono chiamate vocal phodes, pieghe
vocali.
Secondo lei, attualmente, in Europa, vi è una giusta
interpretazione del canto difonico o armonico?
Canto armonico, per me, non è affatto un buon termine, perché
tutte le voci sono armoniche. Senza gli armonici non avreste la
voce: quando parlate avete gli armonici, altrimenti non
uscirebbe suono. C’è confusione nell’uso del termine perché si
pensa ad armonici imposti. Sull’uso di quest’ultimi non discuto
perché ognuno fa le sue scelte. Ognuno utilizza gli armonici
come vuole, ma sul piano tecnico, acustico, curativo e
soprattutto musicale, quando c’è una voce senza armonici non è
più una voce: gli armonici sono suoni multipli del suono
fondamentale. Per questo motivo io parlo di canto difonico o
multiplo e non di canto armonico.
Nella raccolta “Le Voix Du Monde” vengono esaminati
diversi stili di canto, ad esempio quale, secondo lei, risulta
essere il più interessante dal punto di vista etimologico e dal
punto di vista artistico?
Tutto dipende dalla preferenza che una persona ha. Intendo dire
che non si può discutere né di gusto, né di colori. Non si può
discutere, perché c’è una vocazione, una direzione. Non c’è un
canto superiore o migliore di un altro; ma c’è una diversità delle
tecniche vocali, una diversità delle tradizioni musicali ed è
grazie a questi aspetti che si costruisce la ricchezza musicale. Vi
faccio un esempio. Pensate a un giardino e a un fiore in
particolare “la rosa” secondo voi il più bel fiore del mondo. Ora,
immaginate che nel vostro giardino abbiate piantato solo
alberelli di rose, che cosa provereste? Molto probabilmente, ad
un certo punto, vi accorgereste che, circondati solo da roseti, la
vostra dedizione a questo fiore si sta perdendo a poco a poco.
Ma, al contrario, immaginate il vostro giardino completamente
82
rinnovato dalle più svariate specie di fiori, non solo rose, ma
lillà, pronus, anche erba gramigna che cosa provate ora? Questo
giardino è un paesaggio e, in esso, ogni fiore, erba, albero
mostra il proprio fascino, la propria bellezza, la propria
caratteristica. Qual è il viso del vostro giardino? E le rose?
Quale importanza svolge la casualità e l’improvvisazione nei
suoi concerti?
L’improvvisazione è molto importante, perché dona ricchezza.
Improvvisare non significa, però, fare qualsiasi cosa. È
necessario pensare in anticipo. Io faccio un plan di
improvvisazione e segno questo al primo posto; quest’altro al
secondo posto e così via. Bisogna essere liberi nella disciplina,
non nell’anarchia dove è possibile ogni cosa e non c’è una
concezione. L’improvvisazione ha un tema: datemi un tema del
canto difonico e cinque minuti per produrre e io creerò un
determinato lavoro; datemi lo stesso tema e un’ora e vi creerò
un altro lavoro. L’improvvisazione in scena dura in media
cinque minuti e nell’arco di quel tempo a mia disposizione devo
creare un lavoro completo, cioè costituito da un inizio, un
centro e una conclusione. È importante che ci sia una
conclusione quando si improvvisa: altrimenti è come se facessi
un ritratto e disegnassi un corpo senza gambe. Nell’arco di
cinque minuti devo riuscire a disegnare una caricatura che
suggerisca l’idea di un’immagine chiara, di un ritratto appunto.
Ma se avete tempo, fate un vero ritratto e disegnate per mesi e
mesi: il risultato sarà stupefacente. Nelle esibizioni, tutto
dipende dal tempo imposto da qualcun altro e dalle regole
musicali. Per esempio, se improvvisate sul DO maggiore, non
potete mettere un accordo minore, perché altrimenti non
rispettereste la regola. Bisogna, quindi, rimanere in un
determinato quadro. Pensate a una piscina. Potete nuotare come
volete, a stile libero, a dorso, a farfalla, sott’acqua ma non
lasciate la piscina! Il quadro d’improvvisazione in quel caso è
costituito dalla piscina.
In quale modo si rapporta alla musica classica, così severa
nelle regole?
La mia formazione è classica. Ho studiato violino per dodici
anni; ho suonato Paganini in un’orchestra da camera. La mia
formazione al Conservatorio mi ha insegnato la disciplina da
83
adottare nel mio lavoro. Poi, alla disciplina, ho aggiunto lo
spirito: non mi sono limitato a copiare, ma ho messo lo spirito
di questa disciplina nei miei studi di musica tradizionale.
Bisogna ispirarsi allo spirito di qualcosa di bello per applicare
nelle altre tradizioni, escludendo il rischio di copiare solamente.
L’aspetto più importante è la nozione compatibile e
incompatibile. La nozione compatibile, ad esempio, per il
gruppo sanguigno: se avete 0, metterete 0; io ho A, metterò
quindi A oppure 0, ma non potrò mai mettere B e così via. Lo
stesso atteggiamento avviene per la tradizione: se mettete delle
cose simili vicine ad altre, voi arricchite la tradizione; ma se
mettete delle cose incompatibili, distruggerete la tradizione. Per
esempio, nella musica vietnamita non abbiamo la polifonia, ma
c’è la melodia; non abbiamo la concezione nel senso verticale,
ma una concezione eterofonica. Questo vuol dire che ogni
strumento crea una melodia e non suona esattamente le stesse
note insieme agli altri strumenti.
Ha mai pensato di cambiare direzione? Se sì, in quale
periodo della sua vita?
Verso gli anni Settanta ho scoperto che vi erano altre ricchezze
della voce. Prima avevo appreso il canto corale, il bel canto, il
canto lirico, l’opera di Pechino, l’opera giapponese; avevo fatto
jazz, la voce basso. Quando ho scoperto il canto difonico ho
lasciato perdere tutto, perché in una vita non si può fare tutto.
Grazie al canto difonico ho avuto la possibilità di lavorare sulla
produzione energetica.
Secondo lei, gli armonici possono essere utilizzati al fine
curativo (suonoterapia)? Che cosa pensa, appunto, della
suonoterapia?
Sì, nella musicoterapia e in altre terapie, soprattutto per curare
le persone che sono timide. Le persone che parlano di gola,
quelle che non riescono a far uscire la voce. La voce riflette il
profilo psicologico di una persona: una voce molto dolce che
non esce dalla gola è sintomo di una persona che ha molti
problemi. In questo caso, bisogna lavorare per aumentare le
frequenze per avere una voce sicura: è un lavoro di
rieducazione, un lavoro terapico.
84
Ha mai avuto durante la sua esistenza un momento di
sconforto a livello artistico? Se sì, come l’ha superato?
Sì, tutti gli artisti hanno dei momenti difficili, perché si ha un
blocco, non si trova un modo per andare avanti, non si riesce
più a progredire e si rimane sempre allo stesso punto. C’è stato
un momento per me in cui non volevo più continuare e volevo
lasciare perdere tutto. A poco a poco però sono ritornato a fare
concerti, perché prima di essere ricercatore, ero stato un
musicista professionista e in trentasette anni avevo dato almeno
tremila concerti. Sulla scena suono quindici strumenti come
musicista professionista e sono compositore di musica e di
musica elettroacustica. Ho depositato seicento canzoni.
Che cosa pensa di Demetrio Stratos?
Aveva imparato da me nel 1977 in Francia. Venne da me con un
impresario che mi disse che il maestro Demetrio Stratos voleva
apprendere le mie tecniche di canto. Rimase con me per due ore
e imparò tutto. Dopodiché, tornato in Italia, utilizzò gli esercizi
appresi per le sue ricerche personali.
85
Note Biografiche
Andrea De Luca
Andrea de Luca, attore e cantante nato a Lecce nel 1966,
frequenta corsi e laboratori di teatro diretti da Dario Fo, Massimo De
Vita, Leo De Berardinis, Alfonso Santagata e studia tecniche vocali
con il Roy Hart Théatre, canto difonico con Trân Quang Hai, canto
classico con Maria Minetto e Massimo Sardi.
In teatro lavora, fra gli altri, con Leo de Berardinis (I giganti
della montagna), Elena Bucci e Marco Sgrosso (L’amore delle pietre,
Macbeth), Luciano Nattino e Antonio Catalano (Moby Dick), Claudio
Zulian (Macbeth siempre!), Gigi Dall’Aglio e Assia Djebar (Figlie
d’Ismaele nel vento e nella tempesta).
Dirige e interpreta in assolo gli spettacoli Sangue, Martyrium,
Anima dai sogni oscuri. Per un Torquato Tasso, Non certo – Omaggio
a Luigi Nono, Esiste la primavera – Omaggio a Franco Fortini,
Roberto Altemps, in collaborazione con Carluccio Rossi (spazio
scenico) e con Lorenzo Brusci-Timet (ricerca e realizzazione sonora).
Come vocalista, con il compositore Lorenzo Brusci, realizza il
cd Shadows e partecipa a diversi cd e concerti. Con il Tacitevoci
Ensemble diretto dal compositore Bruno De Franceschi canta alla
Biennale Musica di Zagabria e al Festival Nuova Consonanza di
Roma, partecipa al cd La mutazione e a vari concerti.
Come attore e cantante lavora in produzioni di teatro musicale
con il Teatro di Pisa, La Baracca di Bologna, Opera Bazar di Lucca.
Ha diretto corsi e laboratori sulle tecniche vocali per
associazioni e istituzioni culturali, scuole e gruppi teatrali.
È stato per alcuni anni corresponsabile dell’ideazione e
realizzazione della manifestazione culturale “Comunicare fa male”, a
Fivizzano (Ms).
Germana Giannini
Germana Giannini nasce a Genova nel 1963, città nella quale ha
potuto “respirare” da subito una dimensione multiculturale e
multietnica ma che, d’altra parte, a causa della sua struttura
urbanistica “priva di un centro chiaro”, dava a Germana un senso di
“dispersione”. Nel 1982 per motivi di studio si trasferisce a Bologna,
città che - grazie alla sua conformazione urbanistica circolare, con
aperture-porte ai suoi confini e un centro aperto, la sua piazza - “ha
86
rappresentato una metafora rispetto all’immaginario sul corpo che
avrei sviluppato in seguito”. La rilevanza che Germana presta
all’aspetto urbano è rappresentativa dell’attenzione che ha nei
confronti dei diversi aspetti della vita “quotidiana” che s’intreccia,
indissolubilmente, con il suo percorso artistico.
A Genova, Germana intraprende gli studi artistici: frequenta
prima il liceo artistico e, successivamente, si iscrive all’Accademia di
Belle Arti. In questi primi anni si delinea un interesse chiaro verso le
personalità degli artisti, Germana si dedica alle loro biografie, agli
epistolari, cercando la relazione tra l’espressione artistica, l’opera
d’arte “visibile”, fruibile dal pubblico e gli aspetti della loro vita
privata.
A Bologna, dove prosegue gli studi in accademia,
parallelamente s’iscrive al D.A.M.S. seguendo l’indirizzo artistico.
L’orientamento degli studi universitari è di tipo antropologico e
filosofico: agli studi universitari, prevalentemente teorici, Germana,
integra l’esercizio pratico del canto e del teatro, dove l’interesse
principale è rivolto soprattutto all’effetto che la vibrazione della voce
può generare sia nell’artista che nello spettatore-ascoltatore.
Nel 1988 insieme a Roberta Gandolfi, Tommaso Correale e
Giorgio De Gasperi fonda il gruppo Runa. Compagnia teatrale che si
dedica ad animazioni e temi sociali in ambito urbano, dove il rapporto
diretto con il pubblico è elemento fondamentale.
Nel 1988 si laurea in filosofia del linguaggio, con una tesi
comparativa tra processi classificatori del pensiero occidentale e i
contenitori che li rappresentano, in senso strutturale, costitutivo (come
il museo e l’enciclopedia) e come la trasformazione del pensiero
determini la trasformazione strutturale del luogo che “lo contiene e lo
rappresenta”.
Inizia ad insegnare canto a venticinque anni, “sicuramente ho
avuto una maggiore spinta ad esprimermi come insegnante che come
artista di scena”, appassionando gli altri a ciò di cui era appassionata:
“conoscere il proprio mondo interiore tramite le voci del mondo”;
infatti gli anni a seguire li ha dedicati ad una ricerca fatta d’incontri
con tanti cantori di differenti etnie e di trasmissione di questi canti
altri ad allievi altri.
Con un gruppo di compagni d’università fonda nel 1992,
sempre a Bologna, la Scuola Popolare di Musica Ivan Illich, che si
rivela essere “un luogo fertile al raccolto vocale che portavo”. In
quegli anni tiene corsi sulla voce nei quali, in linea con lo spirito della
scuola, sperimenta molto nell’ambito dell’improvvisazione.
Per studiare voci e canti d’altri luoghi del mondo si reca, in
quegli anni, regolarmente a Liegi, in Belgio, dove si svolgevano i
87
Festival Voix de femmes. In quelle occasioni si tenevano sessioni di
quindici giorni durante i quali le cantanti più rappresentative di
tradizione di differenti culture, insegnavano i loro canti ad altre donne.
In queste occasioni Germana ha avuto la possibilità d’incontrare le
canzoni tradizionali di Corsica, Andalusia, Iran, India, Marocco... e
soprattutto “d’incontrare figure di donne che sapevano trasmettere i
canti con grande passione e rispetto”. Proprio in una di queste
occasioni, Germana ha ascoltato per la prima volta un canto indiano,
che ha determinato un punto fondamentale per la sua formazione e che
ha fatto nascere in lei il desiderio di recarsi in India ad approfondire lo
studio sul canto. Questo percorso di carattere musicale, pedagogico e
spirituale, che Germana ha scelto di seguire negli anni, è affiancato da
un altro iter, più orientato alla dimensione terapeutica.
Dal 1994 al 1998 ha insegnato stabilmente alla scuola di
medicina naturale La scuola del senso e dell’essenza53, fondata a
Roma dal maestro Leonardo Bianchi. Per Germana è stata
un’esperienza fondamentale in campo pedagogico perché le ha
permesso di connettere la dimensione della trasmissione della
vibrazione vocale con il piano psico-fisico.
Nel 1995 nasce il Teatro della voce, compagnia di ricerca
fondata con Eleonora Fumagalli. La compagnia è composta da alcuni
giovani artisti che accompagnano Germana Giannini nella ricerca
vocale e da una “dramaturg”, Eleonora Fumagalli appunto, che si
occupa di scrittura teatrale e di conduzione di laboratori sulla
drammaturgia e l’uso della parola in teatro. Da questa collaborazione
e dal felice incontro con Luciano Violante nasce lo spettacolo: La
cantata per la festa dei bambini morti di mafia54. Lo spettacolo
parteciperà a diversi eventi sul territorio nazionale che hanno avuto
come tema la mafia in Italia. Tra gli artisti che recitano accanto a
Germana Giannini c’è Andrea de Luca, collega della Giannini e figura
con la quale ha condiviso momenti di ricerca vocale, insegnamento e
diverse messe in scena. Con Eleonora Fumagalli, Germana conduce
per due anni dei laboratori teatrali al C.I.M.E.S. dell’università di
Bologna, creando due spettacoli con gli studenti. Il percorso di ricerca
con Eleonora si conclude nel 1997, dato che entrambe avevano
interesse a sviluppare personali direzioni artistiche non più coincidenti
o complementari.
Il teatro della voce, inizialmente costituito da quattordici
persone ha continuato a dedicarsi ai concerti durante i quali venivano
53
L’istituto si propone di formare terapeuti secondo gli insegnamenti della medicina tradizionale
cinese, integrando nel programma la ricerca sulla voce ritenendola complementare alle altre
materie.
54
Il testo dello spettacolo è stato scritto da Luciano Violante.
88
riproposti canti di altre culture legati da alcuni temi comuni: la
navigazione come metafora della vita, l’amore, il dolore, l’infanzia e il
gioco. Alcune donne della compagnia hanno lavorato per anni in
stretta collaborazione, sia sul piano artistico che pedagogico, tenendo
seminari condotti anche da quattro o cinque artiste/insegnanti che
intrecciavano diverse linee d’insegnamento.
Dal 2001 il lavoro laboratoriale e attoriale è stato condiviso in
particolar modo con Sandra Passarello, che attualmente è la colaboratrice più stretta di Germana. Le due artiste hanno lavorato
insieme al teatro Testoni di Bologna, partecipando alla messa in scena
di diversi spettacoli musicali per il teatro ragazzi. Ricordiamo:
Verdetrovatore, Orfeo, La musica delle parole… (in Verdetrovatore
ed Orfeo le due artiste sono presenti in scena come attrici-cantanti).
Nel 2002 Germana, con le compagne del “Teatro della voce”,
Sandra Passarello, Barbara Valentino, Cristina Alioto, Francesca
Valente e Claudia Guarducci, incide il CD Affrontando il mare che
raccoglie alcune improvvisazioni e diverse composizioni. Durante la
registrazione del CD nasce in Germana l’esigenza di andare ancora
più a fondo nella dimensione artistica che “accompagno e che mi
accompagna”, perciò ritiene necessario “liberare” il gruppo per non
forzarlo in una direzione che sente “non necessariamente condivisa in
quanto estremamente personale”. Così nasce il progetto AcCanto che
vuole mantenere (per chi lo desidera del gruppo) una modalità
prevalentemente musicale/canora e si scioglie il “Teatro della voce”.
Nel 2003 Germana Giannini e Sandra Passarello fondano “La
voce in ascolto”, luogo di rinascita personale, luogo che si occupa di
voce in ambito ritual-teatrale. Cambia lo spirito con cui si conducono i
seminari e nasce “l’evocazione teatrale”: Fede, che è l’ultimo
processo creativo. In questi anni di ricerca su diverse forme vocali,
Germana Giannini ha avvicinato il canto al teatro. Grazie all’incontro
con maestri cantori di differenti etnie ha raccolto tutti quei canti di
tradizione classica, popolare o sacra, che hanno evocato in lei
profonde emozioni, tramite l’elemento essenziale della voce umana. A
questa ricerca, nel corso del tempo, si sono intrecciati gli studi
sull’improvvisazione, la sperimentazione vocale e la composizione di
canti tramite idiomi immaginari e frammenti poetici.
Successivamente sono state create “azioni sceniche cantate” con
l’intenzione di dare vita alle immagini che la lunga pratica di canti ha
suggerito. La forma di spettacolo a cui Germana Giannini si è dedicata
è quella del “concerto vocale in azione”. I canti e le improvvisazioni
vengono agiti sulla scena attraverso modalità e movimenti nello
spazio. Luogo della performance non è necessariamente il
palcoscenico, ma “ogni tipo di ambiente che possa essere trasformato
89
dall’azione creativa”. Il pubblico diventa così elemento indispensabile
ed integrato per “quell’architettura umana che, con la sua presenza e
partecipazione, configura lo spazio vivo dell’evento artistico”.
Albert Hera
Albert Hera è un artista che vive la musica in ogni istante della
propria esistenza; un cantante sensibile e profondo che possiede la
naturale capacità di regalare entusiasmo e felicità attraverso un
personale linguaggio artistico; un fantastico insegnante di canto che
ama conoscere la persona che ha di fronte, per aiutarla a scoprire e
recuperare la propria arte, la propria voce.
Non si tratta però solamente di arte. Il canto ha bisogno di
costanza nell’allenamento e nello studio: il bel canto sta appunto nel
giusto mezzo fra arte e tecnica. Proprio per raggiungere quel
compromesso fra l’aspetto artistico e quello tecnico, Albert Hera ha
trascorso anni della sua vita studiando canto con alcuni fra i migliori
insegnanti italiani di canto lirico. Si è poi dedicato, con
l’etnomusicologo Trân Quang Hai, all’approfondimento dei concetti
del canto difonico che permette la riproduzione di più suoni simultanei
con una sola formante, e alla ricerca di sonorità appartenenti a culture
differenti, scoprendo così il ruolo fondamentale della conoscenza
dell’antropologia vocale nella formazione e nel cammino di crescita di
un cantante.
Gli anni di studi e di ricerche hanno permesso ad Albert Hera di
sviluppare una propria identità in ambito musicale e una personale
filosofia sulla didattica: “Il Cantar Naturale” propone una visione del
canto come emissione libera, alla base della quale risulta
fondamentale la ricerca scrupolosa di una coordinazione e
sintonizzazione acustica del suono puro, al fine di generare una
globale armonia tra corpo e mente.
È nel 2002 che Albert Hera sente la necessità di far conoscere
pubblicamente il proprio pensiero attraverso la creazione del primo
portale sulla voce: www.voiceart.net. Più precisamente il portale
nasce per promuovere e diffondere l’applicazione delle principali
forme artistiche, quali la voce in tutte le sue espressioni, la musica, la
danza, il teatro, la pittura, la letteratura e ha come scopo la
divulgazione e la salvaguardia della purezza dell’arte e della cultura.
La crescita del cantante va di pari passo con quella
d’insegnante: Albert Hera è stato docente di canto moderno presso
numerose scuole di musica d’Italia, attualmente è docente di canto
moderno e responsabile del dipartimento di vocalità presso l’Istituto
90
Civico V. Baravalle di Fossano; nella medesima scuola, è
organizzatore di un importante progetto europeo sulla coralità, accanto
al professor Andrea Figallo. Il progetto didattico è proposto non
solamente all’interno dell’Istituto, ma anche in masterclass, seminari e
workshop di tecnica vocale e d’improvvisazione corale in molte
scuole italiane, citiamo un importante appuntamento mensile presso la
scuola l’Ottava di Roma; appuntamenti di formazione e
approfondimento che si basano sul pensiero vocale dell’insegnante.
“Positive Consciousness” è il titolo del suo primo album di
musica sperimentale uscito nel 2005; un disco che raccoglie anni di
ricerca e di esperimenti, otto brani eseguiti lasciando da parte qualsiasi
forma dimostrativa e didattica, vizi di forma che spesso rendono
queste tipologie progettuali di difficile assimilazione; otto brani che
dimostrano la bravura, la preparazione e il guizzante genio di uno dei
migliori artisti della scena sperimentale internazionale. Le canzoni
presenti nell’album sono riproposte, accanto ad altri brani di pari
intensità e bellezza, all’interno dei concerti dell’artista, nei quali si
incontrano e si intrecciano tre aspetti che rendono lo spettacolo
un’esplosione d’energia e vitalità: in primo luogo il forte legame con
il mondo delle sperimentazioni di Demetrio Stratos, al quale si
aggiunge il concetto di “One Man Band” proprio di Bobby McFerrin.
L’ultimo e fondamentale elemento dello spettacolo è
l’inserimento dei caratteri personali di Albert Hera, della sua
esperienza nel campo dell’antropologia vocale, dell’estrema
sensibilità ed espressività artistica ed umana; a completare il tutto la
presenza di uno strumento che accompagna Hera dall’età di otto anni:
il sax soprano. Il concerto vanta la presenza di Pietro Ponzone,
percussionista e batterista di grande esperienza, e di un coro formato
da sette elementi, con il compito di mostrare al pubblico il concetto di
improvvisazione corale naturalmente diretta e controllata dalla figura
principale dello spettacolo.
Un concerto estremamente particolare, al di fuori della solita
concezione di live music; uno spettacolo in cui emerge una gran
voglia di fare musica, di cantare; uno spazio in cui vengono espressi i
concetti artistici di essenza e unicità vocale, di semplicità ed amore
verso quello che viene definito il “Mondo Canto”.
Trân Quang Hai
Trân Quang Hai è nato il 13 maggio 1944 in Vietnam.
Musicista di talento e di fama, proviene da una famiglia di cinque
generazioni di musicisti. Ha studiato al Conservatorio Nazionale di
91
Musica a Saigon prima di andare in Francia nel 1961 dove ha studiato
teoria e pratica della musica orientale con suo padre, prof. dr. Trân
Van Khe presso il Centro Studi di Musica Orientale a Parigi.
Per molti anni, ha anche partecipato a seminari di Etnomusicologia
presso la Scuola di Alti Studi delle Scienze Sociali (dove ha ottenuto il
Master e il Dottorato), e di Acustica con il prof. Emile Leipp.
Suona una quindicina di strumenti musicali provenienti dal Vietnam,
Cina, India, Iran, Indonesia ed Europa. Dal 1966, ha fatto più di 2.500
concerti in 50 paesi, e ha preso parte a un centinaio di festival
internazionali di musica tradizionale. Ha partecipato a trasmissioni
alla radio e in televisione in Europa, America, Asia, Africa e
Australia. Ha lavorato presso il Centro Nazionale per la Ricerca
Scientifica (CNRS) in Francia dal 1968, che è ora collegata al
Dipartimento di Etnomusicologia al Musée de l’Homme (Parigi). È
stato docente in South East Asian Music presso l’Università di Paris X
- Nanterre (1988-1995). A parte la sua attività artistica, si è inoltre
interessato alla ricerca musicale. Ha migliorato la tecnica del gioco del
cucchiaio e dell’arpa giudaica. Nel 1970 ha trovato la chiave per la
tecnica del canto armonico. Il film “Le Chant des Harmoniques” (The
Song of Harmonics), che ha co-prodotto con Hugo Zemp, e in cui era
l’attore principale e compositore della musica da film, ha vinto quattro
premi a livello internazionale al festival del cinema scientifico in
Estonia (1990), Francia (1990) e Canada (1991). Egli è considerato
come il più grande specialista in overtone singing nel mondo. Ha
scritto numerosi articoli sulla musica vietnamita e asiatica (New
Grove Dictionary of Music and Musicians, New Grove
Dictionary degli Strumenti Musicali, Algemeine Muziekencyclopedie,
Encyclopaedia Universalis). Ha anche registrato 15 LP e 2 CD (uno
dei quali ha ottenuto il Grand Prix de l’Academie Charles Cros de
Disque nel 1983). Ha composto centinaia di canzoni popolari. La sua
esperienza musicale è molto varia: musica contemporanea, musica
elettro-acustica, improvvisazione, colonne sonore. Continua a
preservare e sviluppare la musica tradizionale vietnamita (numerose
composizioni per la cetra a 16 corde tranh Dan). Ha ricevuto la
Medaglia d’Oro per la musica dalla Accademia Culturale Asiatica,
e dottorati honoris causa dalla International University Foundation
(USA) e dalla Albert Einstein International Academy (USA). Trân
Quang Hai lavora con la moglie Bach Yen, grande cantante folk
vietnamita. Ha ottenuto oltre 20 premi e awards. È stato nominato
Presidente della Giuria Internazionale del Festival Khoomei Throat
Singing (Tuva, 1995), ha ottenuto la Medaglia Cristal del Centro
Nazionale per la Ricerca Scientifica (Francia, 1996). È stato anche
Presidente d’Onore del Festival d’Auch: Eclats de Voix (1999) e il
92
Festival de Perouges / Au Fil de la voix (2000). È stato membro della
Giuria del Concorso Song Contest 2000 “Una canzone per la Pace nel
Mondo” a Roma (2000). E nel giugno 2002, ha ricevuto la medaglia
di Cavaliere della Legione d’Onore dal presidente francese Jacques
Chirac. È l’unico vietnamita ad aver preso parte come esecutore o
compositore a grandi eventi storici come la celebrazione del
Bicentenario Australia (1988), il Bicentenario della Rivoluzione
Francese a Parigi (1989), il 700° anniversario della nascita della
Svizzera (1991), il 350° anniversario della fondazione di Montreal
(1992), il 500° anniversario della scoperta dell’America (1992), i 600
anni di Seoul - Corea (1994), il Giubileo del re della Thailandia
(1996), i 1000 anni di Trondheim in Norvegia (1997), i 100 anni di
indipendenza della Norvegia (2005).
Ha partecipato a più di 3.000 concerti in 70 paesi in giro per il
mondo dal 1966 e a più di 1.300 concerti di scuole di musica
organizzate dal JMF (Jeunesses Musicales de France), JMB
(Jeunesses Musicales de Belgique), JMS (Jeunesses Musicales de
Suisse) e Rikskonsertene (Norvegia e Svezia).
Marco Tonini
Marco Tonini è nato a Padova nel 1963, studioso e ricercatore
sulle tecniche sia tradizionali sia sperimentali dell’emissione vocale.
Negli anni ’80 frequenta il Corso Straordinario di Musica Elettronica
presso il Conservatorio “Pollini” di Padova, presso il quale in seguito
si diploma in Pianoforte e in Musica Corale e Direzione di Coro.
Laureato a pieni voti in Composizione Multimediale con una tesi sulla
formante alta di canto e sulla fisiologia acustica dell’apparato vocale
umano, affianca all’attività concertistica come direttore di coro,
d’orchestra e di compositore a quella di analisi e studio della fisioacustica del suono vocale mediante l’utilizzo e lo sviluppo delle
tecnologie informatiche. Conduce workshop sulla vocalità lirica,
moderna e sperimentale cercando di portare l’attenzione al rapporto
ciclico emissione vocale/ascolto/auto-correzione (Tertium Auris).
Artisticamente ha partecipato a produzioni liriche e sinfoniche con
artisti quali Wilhelmina Fernandez, Marie Ange Todorovitch, Bruna
Baglioni, Giuseppe Giacomini, Gianfranco Cecchele, Mario
Malagnini, Rolando Panerai, Bonaldo Giaiotti ed altri, partecipando a
Stagioni e Festival Lirici in Italia, Egitto, Libano, Francia, Germania e
Svizzera.
Si è perfezionato in direzione d’orchestra e di coro con Julius
Kalmar, Ludmil Descev e Peter Erdej, è stato direttore del Coro del
93
Teatro Verdi di Padova, del Coro Città di Verona, del Coro e
Orchestra dell’Accademia d’Arte Musicale di Padova, ha collaborato
come direttore ospite con la Corale Giuseppe Verdi di Parma, la
Compagnia di Canto Lirico Lombarda, il Coro Lirico di Bergamo,
l’Orchestra Filarmonica di Stato Moldova di Jasij, l’Orchestra da
Camera di Sòfia, l’Orchestra Hans Swarovsky di Milano, l’Orchestra
Sinfonica Città di Verona, l’Orchestra degli Allievi del Conservatorio
Dall’Abaco di Verona e l’Orchestra Giovanile del medesimo istituto.
Dal 1986 è maestro accompagnatore al pianoforte per cantanti lirici.
A composizioni di stampo accademico-modale (video soundtracks, un
Piccolo Requiem per coro e orchestra, due Messe per coro e tastiera,
un Concerto per pianoforte e orchestra, una Sinfonia Terribile, una
Sinfonia Semplice, numerosi lavori per coro sacro, sinfonico e a
cappella, arie e duetti per pianoforte e voce) affianca varie
composizioni elettroacustiche con l’elaborazione digitale di campioni
esclusivamente vocali, utilizzando suoni vocali in overtone singing,
operistici, onomatopeici e in seguito processati digitalmente.
Chiamato a sostenere il ruolo di esperto moderatore in conferenze,
seminari e web-forum sulla didattica e sperimentazione dell’emissione
vocale, su richiesta di colleghi, studenti e appassionati ha istituito il
blog sulla sperimentazione audio-vocale Tertium Auris. Ha fondato
il Canto Armonico Network e il Tertium Auris Network ed è admin
dell’Overtone Music Network. Tra i vari musicisti che ha frequentato,
pochissimi hanno lasciato un segno positivo, e solo due hanno
contribuito ad aumentare la sua apertura mentale in ambito
musicale, Alfonso Belfiore e Mauro Graziani. Attualmente è direttore
del Coro Lirico di Verona e del Coro di voci bianche A.d’A.Mus. di
Verona, e sta lavorando alla stesura di un libro sul rapporto tra canto
armonico e canto lirico.
94
Conclusioni
Una tesi non può certo esaurire l’argomento “Canto Armonico”,
può soltanto fornire qualche indicazione su questa tecnica che è anche
una filosofia e fa parte della cultura dei vari popoli in cui è presente.
Come abbiamo visto nel corso della ricerca, può essere utile
conoscere elementi di acustica musicale per essere consapevoli delle
dinamiche che segue questo tipo di fenomeno, al fine di applicarlo
anche all’interno di composizioni musicali, come è già stato fatto
negli anni ’60 e ’70, cercando sempre nuovi modi per dare vita a
nuove “contaminazioni” fra generi.
Attraverso le definizioni di “Voce” e di “Ascolto”, abbiamo
voluto creare un panorama generale all’interno del quale si colloca
questo fenomeno, presente ogni giorno nella nostra vita: all’interno
dei nostri canti, del nostro parlato, ma che non siamo abituati a
percepire, e quindi a distinguere.
Oltre a questo aspetto più strettamente musicale, abbiamo
potuto notare che il canto armonico, avendo radici in tempi molto
remoti e antichi, accomuna diverse culture, anche lontane tra loro, in
Oriente e in Occidente.
Abbiamo cercato di fornire un quadro storico per ogni zona in
cui abbiamo analizzato il canto armonico: Mongolia, Tibet e Tuva per
quanto riguarda l’Oriente e Canada, Sudafrica e Sardegna per quanto
riguarda l’Occidente.
In questo modo ci siamo spinti a osservare un po’ più a fondo
da dove provengono questi popoli con le loro usanze, perché “per
capire la storia, non basta sapere come stanno le cose, ma come sono
giunte a stare così”55.
Abbiamo riscontrato una serie di elementi che ritornano, come
il contatto con la natura, più presente in passato per quel che riguarda
l’Occidente, e quindi un rapporto più “organico” col proprio corpo in
relazione alla voce: è per questo che nel mio percorso vocale, iniziato
con Germana Giannini, si va alla ricerca degli elementi originari che
hanno accompagnato i vari tipi di canto nelle culture diverse, per
imparare a cantare partendo dal corpo, e non dalla mente, come
accade invece nella cultura musicale occidentale moderna.
E questo vale anche per il canto armonico: soprattutto in
Oriente è nato come imitazione dei suoni della natura (dell’acqua in
genere): per questo motivo è più semplice impararli partendo da questi
suoni, e incontrando direttamente maestri in modo da sentire dal vivo
55
F. Boas, The Methods of Ethnology, in C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore,
Milano 1990.
95
gli armonici prodotti da essi: questo porterà a una sorta di empatia che
ci può aiutare nell’apprendimento.
Inoltre risulta piuttosto piacevole scoprire, una volta entrati in
questo mondo, che ci sono tantissime persone disposte a condividere
le proprie esperienze, aiutando chi comincia a studiare il canto
armonico a perfezionare e a cercare le risorse che ci permettono di
approfondire anche a livello teorico la conoscenza di questo
fenomeno.
Sto pensando a persone come Roberto Laneri, che dal 1972
studia le culture musicali extra-europee, e che ha fondato l’EVT
(Extended Vocal Techniques), collegato con il Center for Music
Experiment, presso l’Università di California, e che nel 1973 fonda il
gruppo PRIMA MATERIA. Egli usa tecniche vocali dell’Asia
centrale e Tibet in lunghe improvvisazioni di grande fascino e
intensità: gli ho scritto per chiedere informazioni sul suo libro, e ho
trovato una persona disponibile e cordiale.
Per non parlare di Trân Quang Hai, che è rimasto in continuo
contatto tramite internet e mi ha spedito prontamente le risposte alle
mie domande fatte nel capitolo “Interviste ai maestri”: ogni volta che
avevo una domanda, la sua risposta è stata veloce ed esaustiva.
Anche maestri incontrati più di recente, come Marco Tonini ed
Albert Hera, si sono dimostrati disponibili e pronti a rispondere alle
mie domande, e oltretutto curiosi del lavoro e della ricerca che sto
portando avanti.
Sembra quasi che la ricerca sul canto armonico, oltre ad un
aspetto formativo di carattere più tecnico e musicale, abbia anche un
aspetto comunitario, di passaggio da maestro ad allievo come lo si
trova ancora in Oriente, al fine di mantenere questa tradizione e farla
vivere nel tempo.
E come abbiamo detto precedentemente, aiuta ad espandere il
proprio ascolto, sia in termini sensitivi che assoluti, allenandoci a
sentire suoni che non siamo abituati a percepire, e di conseguenza
aumentando anche il nostro grado di concentrazione.
Infinite sono le applicazioni alle quali si può accedere con
questa tecnica: concentrazione, meditazione, ascolto, senso musicale,
intonazione, ricarica, rilassamento, e tante altre. II canto con gli
armonici non lascia mai indifferenti, sembra anzi avviare un processo
di purificazione profonda. L’attivazione di frequenze acute permette
inoltre una “ricarica” della corteccia cerebrale (come fu teorizzato da
Tomatis), prevenendo così stress, ansia, fatica.
Ogni corpo vibra con una frequenza precisa e le diverse
frequenze degli armonici naturali mettono in moto meccanismi di
ricarica e di armonizzazione: in origine il canto armonico,
96
coscientemente o meno, era legato a questo aspetto organico che univa
corpo e mente.
Purtroppo in Occidente sono ormai pochi i casi nei quali si
incontra questo fenomeno, e in molti di questi, come in Sardegna, il
canto si è trasformato negli anni, si è “ingentilito” e forse ha perso
quella che era la sua forza, rendendosi più omogeneo al modello
occidentale: se in passato questi canti erano legati a riti di passaggio e
a lavori legati alla pastorizia e alla terra, oggi rimangono legati alla
sola pratica musicale, anche se ci sono ancora maestri che cercano di
passare questo “sapere” tenendolo indissolubilmente legato alla
tradizione dalla quale nasce.
Non vi è quindi un modo oggettivo attraverso il quale si muove
e si caratterizza il Canto Armonico: in alcuni casi è più legato al
fattore religioso o esoterico, mentre in altri è più legato al fattore
performativo.
Attraverso le interviste presenti in questa tesi, possiamo infatti
notare come l’approccio dei vari maestri incontrati si differenzia
anche di molto: c’è chi vede il canto armonico come porta per un
mondo interiore, e c’è chi invece lo vede come possibilità di affinare il
proprio ascolto e la propria ricchezza musicale.
Sicuramente c’è un elemento sempre presente in ogni persona
che si avvicina a questo fenomeno: la curiosità.
La possibilità di essere più coscienti di quello che accade
all’interno e all’esterno del nostro corpo, è uno degli elementi
ricorrenti in tutti i ricercatori vocali, presenti e passati.
Personalmente, il motivo principale che mi ha spinto verso
questo mondo, è stato il bisogno della ricerca e della riscoperta delle
mie radici, e il voler trovare un punto di incontro tra le varie
esperienze che sto attraversando in questi anni.
L’inizio della mia ricerca vocale con Germana Giannini,
l’incontro con sonorità lontane, e il riavvicinamento a sonorità vicine
legate alle mie origini materne (canto a tenore), ha messo in moto una
serie di meccanismi che mi hanno portato alla ricerca di un punto di
incontro tra queste diverse culture, così lontane ma così vicine.
Questa tesi vuole quindi essere un’occasione per unire la ricerca
vocale pratica a quella teorica: per chiarire e documentare il percorso
svolto fino ad ora, e per potere continuare il mio percorso che non si
esaurisce con questo lavoro, ma che continua e continuerà fino a
quando ci saranno nuove cose da imparare.
97
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