STORIA CONTEMPORANEA 1CAPITOLO:VERSO LA SOCIETà DI

STORIA CONTEMPORANEA
1CAPITOLO:VERSO LA SOCIETà DI MASSA
Società di Massa: di massa, nel senso di aggregato omogeneo in cui i singoli tendono a scomparire
rispetto al gruppo, se ne parlava già dopo la Rivoluzione francese che aveva visto per la prima volta
il popolo come protagonista. Ma solo alla fine dell'800 si vengono a delineare i contorni di quella che
oggi chiamiamo società di massa. In essa la maggior parte della popolazione vive in agglomerati
urbani, si vive a più stretto contatto gli uni con gli altri, si hanno rapporti più frequenti e facili ma
sono più anonimi e impersonali. Il sistema delle relazione fa capo alle grandi istituzioni nazionali;
quasi tutti sono entrati nel circolo dell'economia di mercato. Essa, quindi, è una realtà complessa,
risultante dall'intreccio di una serie di processi economici, di trasformazioni politiche, di mutamenti
culturali.
1873-95 : caratterizzato da innovazioni tecnologiche, affermazione di settori “giovani”, acciaio,
chimica, elettricità e dalle nuove potenze industriali quali Germania e Stati Uniti.
1896-1913 : caratterizzati da uno sviluppo generalizzato della produzione in quasi tutti i settori e
toccò paesi “nuovi arrivati” come Russia e Italia. Aumentarono i prezzi ma anche i salari, aumentò il
reddito pro-capitale degli stati nonostante l'aumento della popolazione. La crescita dei redditi
determinò l'allargamento del mercato. Si sviluppò la fabbrica e quindi la produzione in serie di
prodotti.
1913 : la Ford introdusse la catena di montaggio, innovazione che consentiva di ridurre i tempi di
lavoro ma rendeva il lavoro ripetitivo e spersonalizzato. La Ford fu la prima a produrre automobili in
grande serie e si creò una nuova filosofia imprenditoriale basata sui consumi di massa, sui prezzi
competitivi e sugli alti salari.
Se da un lato la società di massa creava uniformità per una parte crescente della popolazione, dall'altra
complicava la stratificazione sociale. Ad esempio nella classe operaia vi era la distinzione tra
manodopera generica e lavoratori qualificati, fra il grosso operaio e le “aristocrazie operaie”. Tramite
lo sviluppo dei servizi e della burocrazia aumentò la consistenza del ceto medio urbano. La crescita
dei lavoratori autonomi fu dovuta sia alla moltiplicazione degli esercizi commerciali sia dall'emergere
di nuovi mestieri; la crescita dei dipendenti pubblici andava di pari passo con la crescita delle
competenze statali e delle amministrazione locali; la più rapida crescita fu quella dei dipendenti al
settore privato che vennero poi chiamati “colletti bianchi”. I ceti medi si avvicinavano più agli strati
privilegiati della classe operaia, ma dal punto di vista culturale, mentale e comportamentale la
distinzione era netta. Essi puntavano al merito individuale per progredire nella scala sociale, agli
ideali tipici operai (spirito di classe, solidarietà) contrapponevano i valori storici della borghesia:
individualismo, la proprietà privata e il risparmio, il senso della gerarchia e del patriottismo. Nel
frattempo la borghesia assumeva sempre più i modelli di comportamento delle classi aristocratiche.
Ultimi decenni dell' 800 : l'istruzione costituisce un'opportunità da cui nessuno deve essere escluso,è
un servizio da rendere alla collettività. Per assicurare tale servizio era necessario l'intervento dello
Stato e delle amministrazioni locali. La scolarizzazione poteva rappresentare non solo una
promozione sociale e un mezzo per educare il popolo e ridurre la criminalità, ma anche uno strumento
di nazionalizzazione delle masse attraverso cui lo Stato diffondeva ai giovani immagini e valori
patriottici. Dall'1870 tutti i governi europei si impegnarono a rendere l'istruzione elementare
obbligatoria e gratuita, il processo di laicizzazione e statizzazione del sistema scolastico fu diverso in
ogni paese. L'effetto immediato fu un aumento generalizzato della frequenza scolastica con
conseguente diminuzione dell'analfabetismo che intorno all'inizio del 900 era intorno al 10% . Legato
ai progressi dell'istruzione fu l'incremento nella diffusione della stampa quotidiana e periodica,
diventava più facile al cittadino informarsi in linea generale e crearsi una propria opinione.
Dal 1870 : riforme degli ordinamenti militari in tutta Europa spinti dall'impressione suscitata dalla
sconfitta francese nella guerra franco-prussiana. Il servizio militare divenne obbligatorio per la
popolazione maschile, ma all'attuazione di esso vi erano due ostacoli: 1- economico, non si potevano
mantenere tutti gli uomini considerati abili e quindi furono introdotti dei criteri di selezione basati sul
privilegio economico, era possibile comprare l'esonero o affidati alla sorte; 2- politico, non si poteva
negare il voto a coloro ai quali lo Stato chiedeva di mettere a repentaglio la vita e non si potevano
addestrare le masse potenzialmente rivoluzionarie, essendo la truppa di quasi totalità popolare e
contadina. Altri fattori però spingevano la riforma : 1-politico-militare, senza la massa non era
possibile avere un esercito indispensabile anche in tempo di pace; 2- la tecnologia e l'industria
consentivano la produzione in serie di armi e munizioni in grado di coprire le esigenze di grandi
eserciti, lo sviluppo ferroviario consentiva spostamenti e raduni veloci. Fra il 1870 e il 1914 l'impegno
degli Stati rese possibile la nascita dei moderni eserciti e servì ad estendere le capacità di controllo
dei poteri statali sulla società civile.
Tra la fine dell'800 e l'inizio del 900 : la società di massa si accompagna ad una più larga tendenza di
partecipazione alla vita politica. Nel 1890 il suffragio universale maschile era praticato solo in Francia,
Germania, Svizzera, nei venticinque anni successivi in quasi tutti i paesi europei vennero approvate
leggi che allargavano il corpo elettorale fino a comprendervi la quasi totalità dei maschi maggiorenni,
indipendentemente dal censo. Il suffragio universale maschile fu introdotto in Spagna nel 1890, in
Belgio nel 1893, in Norvegia nel 1989, in Austria e Finlandia nel 1907, in Italia nel 1912, in
Inghilterra e Olanda subito dopo la 1 guerra mondiale. Si affermò un nuovo modello di partito, che
fu proposto per la prima volta dai socialisti, basato sull'inquadramento di larghi strati della
popolazione attraverso una struttura permanente, articolata in organizzazioni locali (sedi, federazioni)
e facente capo a un unico centro dirigente. Un altro segno delle nuove dimensioni assunte dalla lotta
politica e sociale fu costituito dalla crescita delle organizzazioni sindacali. Sino alla fine dell' 800 il
sindacalismo operaio era presente e consolidato solo in Gran Bretagna con la Trade Unions. Negli
ultimi anni dell'800 , grazie all'impulso del movimento socialista, le organizzazioni dei lavoratori
crebbero in tutti i paesi europei e quasi ovunque riuscirono a far valere il proprio diritto all'esistenza
contro le resistenze degli imprenditori e delle classi dirigenti conservatrici e contro i pregiudizi della
dottrina liberista, che vedeva nei sindacati un ostacolo al libero gioco della contrattazione. I sindacati
si federarono in grandi organismi nazionali, i più importanti furono di ispirazione socialista; ma un
notevole sviluppo lo ebbero anche le associazioni sindacali cattoliche e non mancarono quelle a guida
liberale o conservatrice.
L'epoca della società di massa vide emergere anche la questione femminile. Alla fine dell' 800 le
donne erano escluse dappertutto dall'elettorato attivo e passivo e in molti paesi anche dalla possibilità
di accedere agli studi universitari e alle professioni. Il lavoro extra-domestico, per molte, era una dura
necessità, ma i maggiori contatto con l'esterno portarono le donne ad una più viva consapevolezza
dei loro diritti. Solo in Gran Bretagna il movimento femminile, guidato da Emmeline Pankhurst, si
impose nell'opinione pubblica concentrando la sua attività nell'agitazione per il diritto al suffragio
ricorrendo a varie forme di protesta. La lotta delle suffragette, che ottenne la concessione al voto nel
1918, trovò appoggio tra i parlamentari laburisti. I socialisti era sospetti perché credevano che ciò
avrebbe portato vantaggio ai partiti di ispirazione cristiana. In generale, le donne prima della 1 guerra
mondiale, avevano diritto al voto solo in Norvegia e Finlandia.
Tra la fine dell'800 e l'inizio del 900 furono introdotte nei maggiori Stati europei forme di legislazione
sociale ispirate a quelle adottate dalla Germani bismarkiana: assicurazioni contro gli infortuni e di
previdenza per la vecchiaia e, in alcuni casi, sussidi per i disoccupati; si stabilirono controlli per
l'igiene e la sicurezza nelle fabbriche. All'azione governativa si affiancò quella delle amministrazioni
locali, la novità fu la diffusione dei servizi pubblici ad opera dei comuni, ma la loro opera si esplicò
anche nel campo dell'istruzione, dell'assistenza e dell'edilizia popolare. Per sopperire alle spese
governi e amministrazioni ricorsero a nuove imposizioni fiscali, aumentando quelle delle imposte
dirette (sul reddito) a scapito di quelle indirette (quelle che colpiscono i consumi) e introducendo il
principio della progressività (aumento delle aliquote fiscali in relazione all'aumento della base
imponibile).
Alla fine dell'800 nei più importanti paesi europei e non europei, sorsero partiti socialisti che
cercavano di organizzarsi sul piano nazionale che affiancavano al proselitismo rivoluzionario
un'azione legale all'interno delle istituzioni, che partecipavano alle elezioni inviando rappresentanti
nei parlamenti. Furono essi a proporre il modello del partito di massa che si sarebbe affermato come
forma di organizzazione politica più diffusa nelle democrazie europee.
1875: 1 partito socialista, quello socialdemocratico tedesco. Guidato da August Bebel sotto l'ideologia
fornita dal marxismo fu un esempio per gli altri partiti nazionali.
1882: partito di ispirazione marxista in Francia guidato da Jules Guesde ma che si divise subito in
diversi tronconi, che si fecero concorrenza fino alla riunificazione in un nuovo partito, la Sfio (sezione
francese dell'internazionale operai) nel 1905.
In G.B. I gruppi marxisti non riuscirono a imporsi sull'organizzazione nella Trade Unions, ma furono
i dirigenti di quest'ultima a creare una formazione politica che fosse espressione del movimento
operaio. Nel 1906 nacque il partito laburista basato sull'adesione collettiva delle organizzazioni
sindacali ma privo di un'ideologia chiara.
Tutti i partiti operai proponevano il superamento del capitalismo e la gestione sociale dell'economia,
erano ispirati da ideali internazionalisti e pacifisti.
1864: 1 internazionale o associazione internazionale degli operai,unì i partiti di sinistra con le
organizzazioni dei lavoratori. Fondata a Londra. L'esperienza rivoluzionaria del 1848-49 aveva infatti
dimostrato come i problemi dei diversi paesi fossero strettamente legati tra loro. Inoltre veniva
considerato necessario un organismo che coordinasse la lotta a livello internazionale così come la
repressione veniva coordinata dalle alleanze tra stati. Si sciolse nel 1876.
1889: 2 internazionale, fondata a Parigi quando i rappresentanti di vari partito europei approvarono
alcune importanti deliberazioni fra cui quella che fissava come obbiettivo primario del movimento
operaio la giornata lavorativa di otto ore e fu proclamato il 1 maggio come giornata mondiale di lotta.
Ufficializzata nel 1891 a Bruxelles. Fu più che altro una federazione di partiti nazionali autonomi e
sovrani, ma svolse un'importante funzione di coordinamento e i suoi congressi erano luogo di incontro
e di discussione su grandi problemi di interesse comune ai partiti.
La dottrina ufficiale dei movimenti operai era il marxismo nella versione adattata alla nuova politica
europea, elaborata e divulgata da Engels che trovò uno dei suoi massimi interpreti in Karl Katusky;
veniva posto l'accento sulle fasi intermedie del processo rivoluzionario, sulla partecipazione alle
elezioni, sulle lotte per la democrazia e per le riforme. Col tempo si svilupparono due tendenze: 1quella a prendere atto dei mutamenti intervenuti nella situazione politica e sociale per valorizzare
l'aspetto democratico-riformistico dell'azione socialista; 2- il tentativo di bloccare le tentazioni
legalitarie e parlamentaristiche per tornare all'originaria impostazione rivoluzionaria del marxismo.
Il miglior interprete della 1 concezione fu Eduard Bernstein che partiva dalla costatazione di una serie
di fatti che andavano in senso contrario alle previsioni di Marx. “Tutto è nel movimento, niente è nel
fine”, queste tesi vennero definite revisioniste e accesero un grande dibattito nel movimento socialista
internazionale. Una dissidenza particolare fu quella che si sviluppò nella socialdemocrazia russa e
che ebbe come protagonista Nikolaj Lenin: egli contestava il modello tedesco e gli contrapponeva il
progetto di un partito votato alla lotta, composto da militanti scelti. Il partito russo si spaccò in due
correnti: quella bolscevica guidata da Lenin e quella menscevica guidata da Martov. Un dibattito
importante fu suscitato dalla nascita di un'altra dissidenza di sinistra che ebbe origine in Francia e
prese il nome di sindacalismo rivoluzionario: la teoria di base era sul compito dei sindacati che non
dovevano strappare concessioni economiche dalla controparte, ma soprattutto quello di addestrare i
lavoratori alla lotta contro la borghesia. Il momento più importante dell'azione operaia era lo sciopero,
utile a rendere i lavoratori consapevoli della loro forza e a prepararli al grande sciopero generale
rivoluzionario che avrebbe segnato la fine dell'ordine borghese.
1878: Leone XIII favorì l'impegno dei cattolici in campo sociale. Scrisse l'enciclica Rerum novarum
dove ribadiva la condanna del socialismo e riaffermava l'ideale della concordia fra le classi.
Significativa espressione dei fermenti in atto nel mondo cattolico fu l'emergere, soprattutto in Francia
e Italia, di movimenti democratico-cristiani e del modernismo: riforma religiosa che si proponeva di
reinterpretare la dottrina cattolica in chiave moderna, applicando i metodi della critica storica e
filologica allo studio delle Sacre Scritture.
Alla fine dell'800 si diffuse l'ideologia del nazionalismo, divenuto corrente nettamente conservatrice.
Insieme ad esso e grazie all'appello alle componenti irrazionali della psicologia collettiva, si diffusero
tendenza apertamente razziste e antisemite. In Germania e in Europa orientale il nazionalismo prese
forma di pangermanesimo e panslavismo. Espressione particolare in reazione dell'antisemitismo fu il
sionismo.
Sul piano culturale alla fine del secolo declinò il positivismo e si diffusero nuove correnti che
ponevano l'accento sul ruolo del soggetto. Le certezze del positivismo in campo scientifico entrarono
in crisi anche per le scoperte della fisica contemporanea.
2CAPITOLO: L'EUROPA TRA I DUE SECOLI
Bismark: 1862-1890 1° ministro della Prussia; 1867 capo del governo della confederazione tedesca
del Nord; 1871 cancelliere dell'impero tedesco; artefice dell'unione della Germania, riuscì a contenere
le dispute fra Austria e Russia.
A partire dal 1890 i rapporti fra le grandi potenze europee e mondiali si ruppero, dando luogo ad un
assetto bipolare fondato sulla contrapposizione fra due blocchi.
A mettere in crisi le vecchie alleanze furono: 1-la scelta del nuovo imperatore tedesco Guglielmo II;
2-la crescente difficoltà per la Germania di tenere uniti i suoi due maggiori alleati, impero austroungarico e russo in tensione nel settore balcanico.
1890: Il nuovo governo tedesco optò per l'alleanza con l'Austria, non rinnovando il trattato di controassicurazione con la Russia che la impegnava a non aiutare la Francia in caso di attacco alla Germania
e, a quest'ultima, a non unirsi con l'Austria in caso di guerra con la Russia.
1891-1894: primo accordo franco-russo, trasformatosi in alleanza militare. La Francia si impegnò in
una serie di ingenti prestiti alla Russia che voleva industrializzarsi.
Con questa alleanza la Germania si sentì costretta a premunirsi contro l'eventualità di una guerra, il
governo decise di costruire una potente flotta di guerra in grado di contrastare la potenza britannica
nel Mar del Nord, comportando un inasprimento nei rapporti tra i due paesi. Nell'intenzione del
governo la flotta serviva a incutere rispetto alla Gran Bretagna e renderla quindi più morbida in vista
di un'intesa generale. Ma il risultato fu spingere gli inglesi ad una corsa agli armamenti navali.
1904: accordo tra Inghilterra e Francia sulle vecchie vertenze coloniali in Africa, che prese il nome
di Intesa cordiale.
1907: Inghilterra e Russia regolarono i loro contrasti in Asia con un accordo che limitava le rispettive
sfere di influenza.
Del vecchio sistema di alleanze rimaneva in piedi la triplice alleanza, comprendendo i due imperi
centrali e l'appendice dell'Italia; ad esso venne contrapposto il blocco chiamato triplice
intesa,potenzialmente più forte per risorse e popolazione e unito dalla preoccupazione per la crescente
potenza tedesca. La Germania sviluppò il complesso di accerchiamento che la portò a essere più ostile
in politica estera.
L'Europa a cavallo tra i due secoli fu caratterizzato dalla tendenza all'aumento delle spese militari
accompagnato di pari passo dall'aumento della spesa sociale. Alle correnti militaristiche si
contrapponevano correnti pacifiste, i nuovi orientamenti della cultura non scalfirono il sostanziale
ottimismo della borghesia ottocentesca, ottimismo giustificato dallo slancio economico e dal
progresso materiale che era alla portata di tutti. Questo periodo viene ricordato come la belle époque,
un periodo di crescita complessiva della società europea, ma anche di forti contrasti politici e di grandi
conflitti sociali.
FRANCIA: alla fine dell'800 era sulla strada della democrazia, ma le istituzioni repubblicane
continuavano a essere oggetto di contestazione che prendeva o le forme di un esasperato nazionalismo
a sfondo militarista e bonapartista, o le forme della reazione clericale contro il laicismo delle classi
dirigenti, o le forme del tradizionalismo monarchico, o quelle di un antisemitismo con componenti
demagogico (un comportamento politico che attraverso la retorica e false promesse vicine ai desideri
del popolo mira ad accaparrarsi il suo favore. Spesso il demagogo fa leva su sentimenti irrazionali e
bisogni sociali latenti, alimentando la paura o l'odio nei confronti dell'avversario politico o di
minoranze utilizzate come "capro espiatore"). Queste correnti coagularono intorno al caso del
capitano Dreyfus, che divenne simbolo della spaccatura dell'opinione pubblica. 1899: esito delle
elezioni favorevole alle forze progressiste, ciò consentì la nascita di un governo di coalizione
repubblicana che comprendeva anche l'esponente socialista Alexandre Millerand. Riprese con vigore
la battaglia contro le posizioni di potere detenute dal clero cattolico e nel 1905 ci fu la rottura elle
relazioni diplomatiche tra Francia e Santa Sede e la completa separazione tra Stato e Chiesa. Tale
battaglia si concluse con un sostanziale successo e con un netto rafforzamento dei gruppi radicali. Fra
il 1906 e 1910 sotto la guida di Georges Clemencau e poi di Aristide Briand, vennero fatte importanti
riforme sociali (riposo settimanale, pensioni di vecchiaia) ma non riuscirono a imporre una imposta
sul reddito e dovettero scontrarsi con la protesta della classe lavoratrice. Lo spostamento a sinistra
del movimento sindacale e della Sfio provocò la rottura dell'alleanza fra socialisti e radicali e ridiede
spazio ai repubblicani-moderati che tornarono al potere fra il 1912 e il 1914 con Raymond Poincaré.
GRAN BRETAGNA: nel periodo a cavallo tra i due secoli fu governata dalla coalizione fra i
conservatori e i liberali “unionisti”, con Joseph Chamberlain ministro delle Colonie. Fra il 1897 e il
1905 furono varate leggi che stabilivano le responsabilità degli imprenditori in materia di infortuni
sul lavoro, aumentarono i finanziamenti scolastici e cercarono di favorire il collocamento per i
disoccupati. Chamberlain, infine, propose il protezionismo doganale, sotto forma di tariffa imperiale.
1906: i liberali conquistarono un'ampia maggioranza nelle elezioni, mentre per la prima volta entrò
alla Camera un gruppo di deputati laburisti. I liberali si caratterizzarono per una linea meno aggressiva
in campo coloniale e per una più energica politica di riforme sociali (istituzione di uffici di
collocamento ecc...) . l'aspetto più coraggioso fu il tentativo di sopperire alle spese per le riforme con
una politica fiscale progressiva, mirata a colpire i grandi patrimoni. Ciò comportò uno scontro con la
Camera dei Lords, che aveva il diritto di respingere le leggi votate alla Camera dei Comuni. I liberali
proposero allora un “progetto di legge parlamentare” che negava ai Lords di respingere le leggi di
bilancio e lasciava loro solo la facoltà di rinviarle due volte alla Camera dei Comuni. 1911: i Lords,
sotto le pressione del nuovo re Giorgio V, si piegarono ad accettare la legge finanziaria che
rappresentò un'enorme vittoria per le forze progressiste. I progressi della legislazione sociale, non
accompagnati da miglioramenti salariali, non smorzarono la combattività della classe lavoratrice,
protagonisti di una serie di scioperi che neanche la Trade Unions riuscì a controllare. 1911: il governo
Asquith presentò un progetto che prevedeva l'Irlanda autonoma, con un proprio governo e un proprio
parlamento, ma sempre dipendente dall'Inghilterra per le questioni di comune interesse. nel 1914 fu
approvato il progetto ma fu subito sospeso a causa dello scoppio della guerra.
GERMANIA: dopo la caduta del cancelliere di ferro, l'imperatore Guglielmo II iniziò un nuovo corso
per il paese e mostrò una chiara inclinazione alle soluzioni autoritarie e all'esercizio personale del
potere. I cancellieri continuarono a governare al di sopra dei partiti, a rendere conto del loro operato
all'imperatore e allo stato maggiore più che al Parlamento. Il passaggio dall'età bismarkiana all'età
guglielmina comportò forse solo un peso più accentuato e più scoperto dei vertici militari e dei gruppi
di interesse ad essi collegati. I nuovi orientamenti di politica estera contribuirono a rinsaldare
l'alleanza fra la casta agraria e militare degli Junker (aristocrazia terriera prussiana) e gli ambienti
della grande industria, industria che vantava ritmi di sviluppo tecnologico e di crescita produttiva
imparagonabile agli altri paesi europei. La coscienza di tale superiorità accentuò nella classe dirigente
le tendenza nazionaliste e imperialiste. La Germania, pure essendo un paese ricco di risorse naturali
non aveva una disponibilità di materie prime paragonabile all'Impero britannico o russo, così decise
di modificare a proprio vantaggio la distribuzione mondiale delle risorse e degli equilibri
internazionali, ciò la portò ad assumere una posizione antagonista rispetto alle altre potenze
imperialiste. I gruppi conservatori, nazional-liberali, i cattolici del Centro e i gruppi liberalprogressisti si schierarono a favore dei governi e degli stati maggiori; solo il gruppo
socialdemocratico si oppose e rimase per tutta l'età guglielmina in una condizione di assoluto
isolamento. Col passare del tempo anche questi ultimi attenuarono le loro forse oppositive e andarono
tacitamente a venire a patti con le ideologie nazional-imperialisriche. Alla base di questo
cambiamento c'era innanzitutto la volontà di uscire dall'isolamento e di non prestarsi alle manovre
conservatrici che indicavano la socialdemocrazia come il nemico interno, ma c'era anche un processo
di adattamento alla situazione esistente, che portava il gruppo dirigente socialdemocratico a
intravedere nel movimento operaio un apparato organizzativo sempre più complesso e radicato nella
società.
IMPERO ASBURGICO: dal punto di vista economico era un paese essenzialmente agricolo, più
povero di Germania e Francia e poco più ricco dell'Italia, ma con alcune parti altamente urbanizzate
e industrializzate: Vienna, la Boemia e in particolare Praga, il porto di Trieste nodo commerciale di
primaria importanza fra il Centro Europa e il mediterraneo. Da un punto di cista politico vi era un
sostanziale immobilismo del sistema e la persistenza delle strutture sociali tradizionali nella provincia
contadina, dominata dalla Chiesa e dai grandi proprietari. Il principale motivo di disagio era costituito
dalle tensioni, in Austria-Ungheria, fra i diversi gruppi etnici, nel 1867 la monarchia asburgica aveva
scelto, con la soluzione dualistica, la strada del compromesso col gruppo nazionale più forte, quello
magiaro (popolazione etnica di lingua urica, può essere sinonimo di ungherese). Tra la fine dell'800
e l'inizio del 900 si assisté a una crescita dei movimenti nazionali, tutti in forte contrasto gli uni con
gli altri, ma uniti contro il centralismo imperiale e dalla tendenza a radicalizzarsi, scivolando sul piano
delle rivendicazioni indipendentiste. Fra i cechi della Boemi e della Moravia si affermò, nel 1890, il
movimento dei giovani cechi che combatteva la politica di germanizzazione del governo viennese.
Tendenze nazionalistiche più radicali si manifestarono fra gli slavi del Sud, croati e serbi, che erano
soggetti al dominio ungherese e attratti dal Regno di Serbia, le limitate concessioni che i governi di
Vienna erano disposti a fare alle singole nazionalità non erano sufficienti a bloccare i fermenti
autonomistici, ma bastavano a suscitare le reazioni degli altri gruppi etnici. Una parte della classe
dirigente dei circoli di corte propose di trasformare la monarchia in trialistica: di staccare cioè gli
Slavi del Sud dall'Ungheria e di creare così un terzo polo nazionale accanto a quello tedesco e magiaro.
Questo progetto si scontrava però con gli ungheresi e con i nazionalisti serbi e croati che miravano
alla fondazione di un unico Stato slavo indipendente ed erano appoggiati dalla Serbia, a sua volta
appoggiata dalla Russia.
RUSSIA: alla fine dell'800 era l'unica a reggersi ancora su un sistema autocratico, sotto i successori
di Alessandro II, Alessandro III e Nicola II, ogni tentativo di occidentalizzazione delle istituzioni fu
accantonato. Furono ridotti i poteri degli zemstvo (governatorato locale come organo di consultazione
e amministrazione locale, gestito da rappresentanti di tutti i ceti), fu rafforzato il controllo
sull'istruzione e sulla giustizia, fu intensificata l'opera di russificazione delle minoranze nazionali e si
aggravò l'antisemitismo. Sul piano delle strutture politiche la Russia compiva il suo primo tentativo
di decollo industriale, iniziato negli anni '90 con le grandi costruzioni ferroviarie. Lo sviluppo ebbe
un impulso decisivo dalla politica di Sergej Vitte, ministro delle Finanze dal 1892 al 1903 e
successivamente primo ministro. Egli, da una parte aumentò il sostegno dello Stato alla produzione
nazionale inasprendo il protezionismo e moltiplicando gli investimenti pubblici, dall'altro incoraggiò
l'afflusso di capitali stranieri. Accadeva così che la Russia fosse al tempo stesso terreno di
penetrazione per l'imperialismo finanziario di altri paesi. Concentrato quindi più sul capitale straniero
che all'autonoma crescita di una borghesia imprenditoriale, l'industrializzazione risultò come calata
dall'alto e fortemente concentrata sia per la dislocazione geografica sia per le dimensioni delle
imprese. Pertanto la classe operaia russa si concentrò in poche zone e rimase isolata in un contesto in
cui dominava l'agricoltura. All'inizio del 900 la Russia era in testa alle classifiche dell'analfabetismo
e della mortalità infantile e il suo prodotto pro-capitale era meno della metà di quello francese o
tedesco. La protesta politica e sociale nella Russia zarista finì col coagularsi in un moto rivoluzionario:
a far precipitare gli eventi contribuì la guerra col Giappone che, provocando un brusco aumento dei
prezzi, fece subito salire la tensione sociale. 1905: a Pietroburgo un corteo di 150.000 persone
manifestò verso il palazzo d'inverno per presentare al sovrano una petizione, fu accolto a fucilate
dall'esercito. La repressione della “domenica di sangue” scatenò in tutto il paese un'ondata di
agitazioni, di sommosse e di ammutinamenti nelle stesse forze armate, inoltre le agitazioni si
intensificavano man mano che giungevano le notizie della disfatta della guerra. Fra la primavera e
l'autunno del 1905, la Russia visse in uno stato di semi-anarchia, di fronte alla crisi dei poteri costituiti
sorsero nuovi organismi rivoluzionari, i soviet (consigli) o rappresentanze popolari elette sui luoghi
di lavoro e costituite da membri continuamente revocabili, in base a un principio di democrazia
ispirato all'esperienza della Comune parigina; il più importante, quello di Pietroburgo, assunse la
guida del movimento rivoluzionario nella capitale e si trovò a esercitare un notevole potere in tutto il
paese. In ottobre lo zar promise libertà politiche e istituzioni rappresentative, ma segretamente le
autorità incoraggiavano la formazione di movimenti paramilitari di estrema destra (centurie nere) e
organizzavano spedizioni punitive contro i rivoluzionari e pogrom antiebraici. Fra novembre e
dicembre, infine, la corona e il governo fece arrestare quasi tutti i membri del soviet Pietroburgo,
schiacciando con durezza le successive rivolte della capitale o di Mosca. Ristabilito l'ordine, restava
l'impegno dello zar di convocare un'assemblea rappresentativa (DUMA) che avrebbe dovuto aprire
nuovi spazi alla libertà politica, speranza dei gruppi menscevichi; i bolscevichi, invece, non nutrivano
fiducia nelle istituzioni borghesi, convinti che la classe operaia dovesse guidare la rivoluzione in
prima persona, alleandosi con gli strati più poveri. 1906: eletta, a suffragio universale ma che
privilegiava i proprietari terrieri, la prima Duma che, dotata di un potere troppo limitato, risultò un
ostacolo per la restaurazione assolutista, quindi fu sciolta. 1907: il governo modificò la legge
elettorale in senso classista 1 voto di un grande proprietario = 500 voti operai. La Russia tornava ad
essere un regime assolutista. Stolypin 1° ministro nel 1906, attuò una repressione di ogni opposizione
politica e per guadagnare al regime una base di consenso avviò una riforma agraria, punto chiave
della riforma fu la dissoluzione della struttura comunitaria del mir, ovvero i contadini ebbero la facoltà
di uscire dalle comunità di villaggio diventando proprietari della terra che coltivavano e ebbero
facilitazioni economiche per l'acquisto di altre terre sottratte dai latifondisti. Lo scopo era di creare
un piccolo ceto borghese rurale, una parte andò ad ingrossare il numero dei contadini ricchi (kulaki)
ma la maggior parte non trovò condizioni di vita accettabili; ciò favorì l'esodo dalle campagne, ma
provocò nell'immediato una radicalizzazione dei contrasti sociali.
Il decennio precedente la 1° guerra mondiale vide un acuirsi dei contrasti internazionali. Dalle due
crisi marocchine (1905-1911) la Germania uscì sconfitta e gli venne data una parte del Congo francese,
mentre la Francia ottene un protettorato sul Marocco. I più gravi furono gli avvenimenti avvenuti
nella zona balcanica, dove la crisi dell'impero ottomano creava un'area di turbolenza; 1908
rivoluzione dei giovani turchi, costrinsero il sultano a concedere una costituzione, ciò portò ad
accentuare le spinte indipendentiste dei popoli slavi e la dissoluzione della presenza turca in Europa.
L'annessione della Bosnia-Erzegovina (1908) da parte dell'Austria, la guerra italo-turca (1911), le due
guerre balcaniche (1912-1913) segnarono un profondo rivolgimento degli equilibri in quest'area. La
Turchia venne definitivamente estromessa dall'Europa, mentre si acuiva il contrasto tra Austria e
Serbia.
1911: occupazione italiana della Tripolitania, guerra con la Turchia che ne uscì sconfitta.
1912: Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria strinsero una coalizione e mossero guerra all'Impero
Ottomano sconfiggendolo. Al momento della spartizione territoriale si ruppe l'alleanza tra questi stati,
nel 1913 ci fu la 2° guerra balcanica, dove la Bulgaria, considerandosi sacrificata nelle scelte di
spartizione, attaccò la Grecia e la Serbia. Contro l'aggressione bulgara si formò una nuova coalizione:
Serbia, Grecia, Romania e Turchia. La Bulgaria fu sconfitta e restituì alla Turchia una parte della
Tracia e alla Romania una striscia di territorio sul Mar Nero.
3CAPITOLO: IMPERIALISMO E RIVOLUZIONE NEI CONTINENTI EXTRAIl primo quindicennio del 900 vide il manifestarsi dei primi segni di un declino dell'Europa di fronte
all'emergere di popoli extraeuropei. Preoccupava in particolare la crescita dei paesi asiatici, Cina e
Giappone, facendo parlare di un pericolo giallo. Il Giappone era lanciato in una politica imperiale che
lo avrebbe portato a scontrarsi con la Russia, la Cina era insofferente allo stato di semi-soggezione
impostogli dalle potenze europee.
GUERRA RUSSO-GIAPPONESE: il contrastò si delineò negli ultimi anni dell'800, quando l'impero
nipponico, dopo la guerra vittoriosa con la Cina (1894), si era inserito di forza nella spartizione in
zone di influenza cinese, entrando in concorrenza con la Russia per il controllo delle regioni del NordEst. 1903: avendo l'appoggio della Gran Bretagna, il Giappone propose alla Russia un accordo per la
spartizione della Manciuria, ma i russi rifiutarono ogni trattativa preparandosi al conflitto, ma
l'iniziatica la presero i giapponesi. 1904: la flotta nipponica attaccò quella russa nel Mar Giallo ed
assediò la base di Port Arthur, in Manciuria. All'inizio del 1905, caduta Port Arthur, le forze
giapponesi penetrarono in Manciuria e sconfissero l'esercito russo nella battaglia di Mukden.
Successivamente la flotta Russa del Mar Baltico, giunse in guerra ma anch'essa fu distrutta. La Russia
firmò il trattato di Portsmouth: il Giappone otteneva la Manciuria meridionale ed una parte dell'isola
Sakhalin e si vide riconosciuto il protettorato sella Corea.
CINA: uno degli effetti della vittoria nipponica fu di dare un impulso alle lotte nazionali e anticoloniali dei popoli asiatici creando movimenti indipendentisti nell'Indocina francese, Indonesia
olandese e nelle Filippine controllate dagli Stati Uniti. Nell'India britannica ci fu il congresso
nazionale indiano in cui prevalse un'ala nazionalista radicale. In Cina la strada era aperta per
l'affermazione di un movimento di ispirazione democratica ed occidentalizzante; 1905: Sun Yat-Sen
fondò un organizzazione segreta con un programma basato sui tre principi del popolo: indipendenza
nazionale, democrazia rappresentativa, benessere del popolo. 1911: il governo decise di affidare a
imprese straniere il controllo dell'impresa ferroviaria cinese, provocando sommosse nelle provincie e
ammutinamento di parti dell'esercito. 1912: un'assemblea rivoluzionaria eleggeva Sun Yat-sen alla
presidenza della repubblica. Yuan Shi-kai si schierò dalla parte dei repubblicani ottenendo la
presidenza al posto di Yat-sen. Il fragile compromesso tra le forze democratiche organizzate nel nuovo
Partito Nazionale e i gruppi conservatori si ruppe, nel 1913 il nuovo presidente sciolse il Parlamento
appena eletto, mise fuori legge il Partito Nazionale, costrinse il vecchio presidente all'esilio e instaurò
una dittatura personale appoggiata dalle potenze straniere. Questo fu l'inizio della guerra civile poi
conclusa nel 1949 con la vittoria della rivoluzione comunista.
STATI UNITI: il ruolo degli Stati Uniti si fondava principalmente sullo sviluppo economico, la
crescita più imponente si verificò nell'industria. Per contrastare le tendenze monopolistiche e la
lievitazione dei prezzi nel 1890 fu varata una legge che vietava l'accordo sui prezzi per le imprese
operanti in uno stesso settore.,ciò indusse le imprese a fusioni. Progressi furono apportati anche
nell'agricoltura e nell'allevamento intensificando la rivoluzione agricola. Il rigido protezionismo
aumentò il malcontento dei contadini del Midwest, danneggiati dagli alti prezzi dei manufatti. La
principale protesta fu costituita dal Partito populista, a base contadina ispirati a principi democratici
e ugualitari, ottenendo successo negli Stati dell'Ovest e del Sud e vincendo quasi le elezioni
presidenziali del 1896. 1886: fondazione di una grande confederazione di sindacati autonomi, privi
di caratterizzazione politica. Le lotte sindacali si scontrarono con la durissima resistenza di un
padronato deciso a contrastare le richieste della controparte e furono costellate da conflitti. 1901: sale
al potere Theodore Roosvelte, esponente dell'ala progressista del Partito Repubblicano. Egli mostrò
decisione nella difesa degli interessi americani nel mondo, alternando la pressione economica alle
minacce di interventi armati. 1901: gli U.S.A ottennero dalla Colombia l'autorizzazione a costruire
un canale che tagliasse l'istmo di Panama, collegando l'Oceano Pacifico e Mar dei Caraibi. 1903: la
Colombia cambia idea, gli U.S.A. organizzano una sommossa, Panama divenne una Repubblica
indipendente sotto la tutela americana. La linea di Roosvelt si caratterizzò in politica interna per
un'apertura ai problemi sociali, si dovettero a egli i provvedimenti del governo federale nel campo
della legislazione sociale (tutela del lavoro minorile, assicurazione contro gli infortuni, ecc..) e le
prime affermazioni del diritto di intervento dei pubblici poteri nell'economia. Il presidente cercò di
limitare il potere dei grandi Trusts, accontentando le esigenze di borghesia, produttori e sindacati.
1908: lasciata la presidenza il partito repubblicano si spaccò. L'ala più progressista non si riconobbe
nella politica più conservatrice di Howard Taft. 1912: la divisione tra le file repubblicane favorì il
successo del candidato democratico Woodrow Wilson. Quest'ultimo fu contrario ad ogni limitazione
dell'autonomia dei singoli stati dell'unione, egli impostò la lotta contro i grandi monopoli
sull'abbassamento delle tariffe protettivi che furono ridotte nel 1913. nella politica estera egli era
convinto che il ruolo degli Stati Uniti dovesse fondarsi sulla capacità espansiva dell'economia e sulla
fedeltà ai principi della tradizione democratica.
AMERICA LATINA: nel trentennio precedente la Grande Guerra, i paesi dell'America Latina
conobbero uno sviluppo economico basato principalmente sull'esportazione di materie prime e
prodotti agricoli verso l'Europa; favorendo la crescita di grandi centri urbani, ma accentuò la tendenza
dell'agricoltura ad adottare il sistema della monocultura: ossia scegliendo una determinata produzione
in base alla richiesta del mercato. Ad essa si accompagnava la persistenza del latifondo e di condizioni
semi-servili delle masse contadine da parte di grandi proprietari, l'oligarchia terriera finiva con
l'essere arbitra della vita sociale dominando i meccanismi della lotta politica. Dal punto di vista
istituzionale questi stati erano retti da regimi parlamentari e repubblicani, ispirati esteriormente ai
modelli del liberalismo ottocentesco ma nascondendo una profonda corruzione e di esclusione delle
masse dalla vita politica. Nei periodi a cavallo tra i due secoli questi regimi assicurarono al continente
una stabilità politica, me negli anni precedenti la guerra questa calma fu interrotta da due rivoluzioni:
Argentina e Messico. Nel caso argentino fu una rivoluzione pacifica originato dall'introduzione, nel
1912, del suffragio universale e dalla successiva ascesa al potere dell'unione radicale, espressione
delle classi medie progressiste. In Messico la rivoluzione, scoppiata nel 1910, fu la più grande del
nostro secolo. Questa era contro il regime semi-dittatoriale di Porfirio Dìaz, guidata dai liberalprogressisti di Francisco Madero e accompagnata da un moto contadino (capi rivoluzionari Zapata e
Villa). 1911: Dìaz fu costretto ad abbandonare il paese, Madero venne eletto presidente. Si fece più
accentuato il contrasto tra le due componenti del fronte rivoluzionario: borghese e moderata mirante
soprattutto a una liberalizzazione delle istituzioni politiche, e quella contadina avente come
obbiettivo una totale riforma agraria. 1913: il presidente Madero fu eliminato da un colpo di stato che
portò al potere il generale Adolfo Huerta che aprì la strada ad un regime di spietata reazione. La
guerra civile si protrasse in un susseguirsi di rivolte e colpi di stato fino al 1921 con l'assunzione della
presidenza da parte del progressista Alvaro Obregòn . Egli varò una costituzione democratica e laica
aperta alle istanze di riforma sociale.
4CAPITOLO: L'ITALIA GIOLITTIANA
L'Italia Giolittiana: alla fine dell'800 l'Italia fu luogo di una crisi politico-istituzionale simile a quella
francese: l'evoluzione del regime liberale verteva verso forme di più avanzata democrazia. Lo scontro
si concluse con un'affermazione delle forze progressiste secondo modelli vicini a quelle delle liberaldemocrazie occidentali. A seguito delle dimissioni di Crispi (1888 Crispi istituì, sul modello tedesco,
la Segreteria della Presidenza del Consiglio dei ministri, 889 approvò il nuovo codice penale di
Giuseppe Zanardelli, che introduceva importanti novità in senso progressista, come la libertà di
associazione e di sciopero per la prima volta in Europa e l'abolizione della pena di morte) e il ritorno
al potere di Rudinì, le forze conservatrici formarono un fronte comune contro i nemici delle istituzioni,
socialisti, repubblicani o clericali che fossero. Tale tendenza si esprimeva nel tentativo di tornare ad
una interpretazione restrittiva dello Statuto che rendesse il governo responsabile davanti al Sovrano,
lasciando alle camere solo compiti legislativi, ed in una ripresa dei metodi crispini in materia di ordine
pubblico. 1898: improvviso aumento del pane che scatenò una serie di manifestazioni in tutto il paese,
la risposta del governo fu durissima. Rudinì rispose con massicci interventi della polizia proclamando
lo stato d'assedio, passando il potere alle autorità militari a Milano, Napoli e in Toscana. A Milano le
truppe del generale Beccaris fecero uso dell'artiglieria contro la folla, provocando centinaia di morti
e feriti e arrestando repubblicani, socialisti e radicali. Ripristinato l'ordine i gruppi conservatori,
appoggiati dal Re Umberto I, cercarono di dare una base legislativa alle azioni repressive, conducendo
lo scontro nelle aule parlamentari: tale tentativo crollò a seguito delle dimissioni di Rudinì, avvenute
per dissensi con il Re, e fu ripreso dal generale Pelloux, con la risposta da parte dei gruppi di sinistra
mettendo in atto la tecnica dell'ostruzionismo, consistente nel prolungare all'infinito le discussioni
paralizzando l'azione della maggioranza. Indebolito dall'opposizione dei gruppi liberali-progressisti,
facenti capo a Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti, Pelloux decise di sciogliere la camera. 1900:
nelle elezioni elettorali vinse il partito socialista, il presidente del consiglio preferì dimettersi, cedendo
il suo posto al senatore moderato Giuseppe Saracco. Il 29 Luglio il Re Umberto I cadde vittima di un
attentato da parte dell'anarchico Gaetano Bresci.
Il governo Saracco inaugurò una fase di distensione politica; il nuovo Re Vittorio Emanuele Terzo si
mostrò propenso ad assecondare le forze progressiste. Il governo fu costretto a dimettersi in seguito
ad uno sciopero generale dei lavoratori genovesi. 1901: il Re chiama alla guida del governo il leader
della sinistra liberale Zanardelli, che affidò il ministero degli interni Giovanni Giolitti. Egli seguì la
teoria secondo cui lo stato liberale aveva l'interesse a consentire il libero svolgimento delle
organizzazioni operaie; nei suoi tre anni di vita, questo governo, importò alcune riforme: estese le
norome che limitavano il lavoro femminile e minorile nell'industria, fu migliorata la legislazione
relativa alle assicurazioni per la vecchiaia e per gli infortuni sul lavoro, fu costituito un Consiglio
superiore del lavoro a cui partecipavano anche gli esponenti delle organizzazioni sindacali socialiste,
infine la legge che autorizzava la municipalizzazione dei servizi pubblici, inoltre mantenne una linea
di neutralità nei conflitti del settore privato. Le organizzazioni sindacali operaie e contadine si
svilupparono a dismisura: si costituirono le Camere del Lavoro, crebbero le organizzazioni di
categoria, le leghe rosse si riunirono nella federazione italiana dei lavoratori della terra (federterra),
a ciò si accompagnò un'impennata degli scioperi che interesso sia il settore industriale che agricolo,
facendo derivare un rialzo dei salari.
Negli ultimi anni dell'800 l'Italia conobbe il suo primo vero decollo industriale. La costruzione di una
rete ferroviaria, avviata negli anni della Destra, aveva favorito i processi di commercializzazione
dell'economia. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la crezione di una moderna
industria siderurgica. Il riordinamento del sistema bancario attuato dopo la crisi della Banca romana
aveva creato una struttura finanziaria abbastanza solida ed efficiente. 1894: costituzione, avvenuta
con l'incoraggiamento dello Stato e con l'apporto di capitali tedeschi, di due nuovi istituti di credito,
la Banca Commerciale e il Credito Italiano, entrambi ispirati al modello della “banca mista”. La
siderurgia, la più favorita dalle tariffe dell'87, vide la creazione, accanto alle Acciaierie di Terni, di
numerosi impianti per la lavorazione del ferro (i più importanti sorsero a Savona, Piombino, Bagnola,
Napoli). Tutto il settore era dominato da poche grandi società, strettamente legate ai maggiori istituti
bancari e dipendenti in larga misura dalle commense statali. Nel settore tessile i maggiori progressi
si ebbero nell'industria cotoniera, anch'essa altamente meccanizzata e favorita dalle tariffe doganali.
Nel setore agro-alimentare si assistè alla crescita rapidissima di un'altra industria protetta, quello dello
zucchero. Gli sviluppi ebbero sviluppi interessanti nel settore chimico soprattutto la gomma,
stabilimenti Pirelli; nel settore meccanico: questo giovò dell'accresciuta richiesta di materiale
ferroviario, di navi e di armamenti da parte dello Stato, nonché dalla domanda di macchinari indotta
dallo sviluppo industriale nel suo complesso. Il principale fatto nuovo nel campo della meccanica fu
costituito dall'affermazione dell'industria automobilistica, dove riuscirono a svilupparsi numerose
aziende. Il settore elettrico, che aveva mosso i primi passi in Italia nel 1980, conobbe un vero e proprio
boom all'inizio del '900, passando da una produzione di circa 100 milioni di chilowattora nel '89 a
oltre due miliardi e mezzo nel 1914. Il decollo industriale fece sentire anche i suoi effetti sul tenore
di vita della popolazione, la qualità della vita iniziava a mutare, sia pur lentamente e parzialmente, di
pari passo con lo sviluppo economico. Iniziò lo sviluppo dei servici pubblici, gestiti non di rado dagli
stessi comuni tramite apposite aziende municipalizzate, le condizioni abiitative dei lavoratori urbani
restavano ancora precarie, nonostante il varo delle prime iniziative organiche di edilizia popolare da
parte dei governi e delle amministrazioni locali. Le case operaie erano per lo più malsane e
sovraffollate; gli appartamenti dotati di servizi igenici autonomi restavano un'eccezione nelle grandi
città e rarissimi nei centri rurali; il riscaldamento centralizzato era un lusso, ma la diffusione
dell'acqua corrente nelle case e il miglioramento delle reti fognarie contribuirono in modo decisivo
alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive. Alla viglia della guerra il reddito procapitale era circa la metà di quello inglese e due terzi di quello tedesco; l'analfabetismo era molto
elevato; la quota della popolazione impiegata nelle campagne era ancora del 55%; l'emigrazione verso
l'estero era diffusissima, circa 8 milioni fra il 1900 e il 1914. Tutte le regioni erano coinvolte nel
fenomeno di emigrazione: quella delle regioni centro-settentrionali era soprattutto temporanea e
diretta verso i paesi europei, quello meridionale si indirizzava in prevalenza verso il Nord-America e
aveva carattere permanente. Dal punto di vista economico questo fenomeno ebbe alcuni effetti
positivi: allentò la pressione demografica, creò un rapporto più favorevole fra popolazione e risorse
attenuando le tensioni sociali, ma anche perchè alleviarono il disagio delle zone più depresse e
risultarono di non poco giovamento all'economia dell'intero paese. Dall'altra parte questo massiccio
fenomeno rappresentò un impoverimento, in termini di forza-lavoro e di energie intellettuali, per la
comunità nazionale.
Ovviamente gli effetti del progresso economico si fecero sentire soprattutto nelle regioni già
aviluppate, in particolare nel cosiddetto triangolo industriale che aveva come vertici Milano, Torino
e Genova. Anche i discreti progressi agricoli finirono col concentrarsi nel Nord, soprattutto nelle
aziende della Valle Padana, che seppero profittare della congiuntura favorevole e dell'elevata
protezione doganale sui cereali per migliorare le tecniche di coltivazione. Scarsi furono i progressi
dell'agricoltura meridionale, sfavorita dalle condizioni climatiche e idrologiche e dalla naturale
povertà di terreni di montagna, ma anche dalla permanenza di rapporti sociali consolidati e di
mentalità diffuse che ostacolavano il mutamento economico e sociale. L'analfabetismo diffuso, la
disgregazione sociale, lìassenza di una classe dirigente moderna, la suborinazione della piccola e
media borghesia agli interessi della grande proprietà terriera, il carattere clientelare e personalistico
della lotta politica. Per molti giovani la conquista di un impiego pubblico, raggiungibile tramite i
favori del
deputato locale, costituiva l'unica alternativa alla disoccupazione o all'emigrazione.
1903: dimissioni di Zanardelli, fu chiamato alla guida del governo Giolitti. Cercò di portare avanti
l'esperimento liberal-progressista allargandone le basi offrendo un posto nella compagnia governativa
al socialista Filippo Turati ( politico, avvocato e giornalista italiano, tra i primi e importanti leader del
socialismo italiano e tra i fondatori nel 1892 nel Partito Socialista Italiano). Il socialista rifiutò l'offerta
in quanto credeva di non essere seguito dal suo partito. Giolitti finì col costruire un ministero
nettamente spostato al centro e aperto alla partecipazione di elementi conservatori. 1904: prime leggi
speciali per il Mezzogiorno: quella per la Basilicata e per Napoli, volte a incoraggiare la
modernizzazione dell'agricoltura e , nel caso napoletano, lo sviluppo industriale mediante una serie
di stanziamenti statali e di agevolazioni fiscali e creditizie. Queste leggi, a cui seguirono quelle per la
Calabria e per le isole, avevano il limite di non incidere se non limitatamente slla struttura sociale del
Mezzogiorno, di curare i sintomi più che le vere cause del male; avevano però il vantaggio di essere
attuabili in tempi brevi e costituirono un precedente cui si sarebbe ispirata la pratica degli “interventi
speciali”dello Stato nelle aree depresse. 1904-5: progetto relativo la statizzazione delle ferrovie. Il
progetto riprendeva quello proposto nel 1876 da Minghetti ( tra il 1863 e il 1864 succedette a farini
nella carica di presidente del consiglio) ed incontrò diffuse opposizioni sia a destra sia a sinistra: i
socialisti lo avversarono perchè prevedeva il divieto di sciopero per i ferrovieri una volta diventati
dipendenti pubblici. Di fronte a questa difficoltà, Giolitti si dimise con un pretesto lasciando la guida
del governo ad Alessandro Fortis. Egli rimase al potere meno di un anno ma riuscì a far approvare la
legge sulla statizzazione delle ferrovie. Vita ancora più breve ( tre mesi) ebbe il successore Sidney
Sonnino che si presentava come il più autorevole antagonista di Giolitti. 1906: Giolitti torna alla guida
del governo e vi resò ininterrottamente per quasi tre anni e mezzo. Nello stesso anno fu realizzata la
cosidetta conversione della rendita, ossia la riduzione del tasso di interesse versato dallo Stato ai
possessori di titoli del debito pubblico, un provvedimento che serviva a ridurre gli oneri gravanti sul
bilancio statale. 1907: crisi internazionale che si tradusse in forti difficoltà per le banche e per le
imprese dipendenti dai loro crediti, nel 1908 la crescita riprese, ma le lotte sociale conobbero un forte
inasprimento. L'atteggiamento degli industriali, che nel 1910 si unirono nella Confederazione italiana
dell'industria (Confindustria), si fece più dura nei confronti della classe operaia e più diffidente
rispetto alle iniziative sociale dei pubblici poteri, il che contribuì a frenare l'azione riformatrice del
governo. 1910: Giolitti da le dimissioni, aprendo la strada ad un secondo governo Sonnino, destinato
a vita brevissima, e a un successivo governo Luzzati, che avviò fra l'altro un' importante riforma
scolastica. 1911: Giolitti torna al governo con un programma orienato a sinistra, la cui proposta era
di allargare il voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent'anni e a tutti i maggiorenni
che sapessero leggere e scrivere o che avessero prestato servizio militare. Un altro punto importante
del programma era l'istituzione di un monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi
sarebbero serviti a finanziare il fondo per le pensioni di invadilità e vecchiaia per i lavoratori. 1912:
approvata la legge sul suffragio, ma il loro significato politico fu oscurato dalla decisione del governo
di procedere alla conquista della Libia.
Quella esercitata da Giolitti fu una “dittatura parlamentare” simile, per le forme in cui si manifestava,
a quella realizzata da Depretis fra il 1876 e il 1887, anche se diversa e decisamente più aperta nei
contenuti. I tratti caratteristici dell'azione giolittiana furono: il sostegno costante alle forze più
moderne della società, borghesia industriale e proletariato oranizzato; il tentativo di condurre
nell'orbita del sistema liberale gruppi e movimenti fino a quel momento considerati nemici delle
istituzioni; la tenedenza ad allargare l'intervento dello Stato per correggere gli squilibri sociali.
Questa linea politica si esplicava in una dimensione liberal-parlamentare di stampo ottocentesco,
infatti il controllo delle camere ed una perfetta conoscenza della burocrazia statale costituirono
l'elemento fondamentale del sistema giolittiano: il controllo del parlamento era ottenuto a prezzo di
perpetuazione dei vecchi sistemi trasformistici e di un intervento del governo nelle lotte elettorali,
intervento che si esercitava soprattutto nel Mezzogiorno, in cui vi era un ambiente dominato dalle
lotte tra i notabili ed un'assenza di organizzazioni politiche moderne, ciò limitava gli aspetti
progressivi della politica giolittiana. Crtiche: per i socialisti rivoluzionari ed i cattolici democratici,
Giolitti era colpevole di far opera di corruzione all'interno di questi rispettivi movimenti, dividendoli
e unendo le componenti moderate all'interno del suo sistema di potere traasformista. I liberali
conservatori, come Sonnino e Albertini, accusavano Giolitti di attentare alle tradizioni risorgimentali
mettendo in pericolo l'autorità dello Stato, venendo a patti con i nemici delle istituzioni. Sonnino
contrappose al riformismo di Giolitti un programma di aperture sociali, concepito come iniziativa
autonoma della classe dirigente liberale anziché come frutto di un patteggiamento con le forze extracostituzionali. I meridionalisti, come Gaetano Salvemini che bollò Giolitti con l'epiteto di ministro
della malavita, criticavano la politica economico-governativa in quanto favoriva l'industria e le
oligarchie operaie del nord, ostacolando lo sviluppo economico del mezzogiorno. Queste critiche
erano eccessive e col tempo vennero ridimensionate dagli storici. Nonostante l'ampiezza delle
maggioranze parlamentari, Giolitti dovette fare i conti con una crescente impopolarità sintomo di
debolezza di tutto il sistema e di distacco tra classe dirigente e opinione pubblica. Le difficoltà del
sistema, delineatesi con la crisi economica del 1907, si fecero più evidenti nel 1911 quando il governo
decise di occupare la Libia. La decisione di impegnarsi nell'impresa coloniale è stata spesso
interpretata come una concessione fatta ai gruppi conservatori per bilanciare gli effetti del suffragio
universale e del monopolio delle assicurazioni.
Dopo la caduta di Crispi, 1896, la politica estera italiana cambiò rotta: fu attenuata la linea filo-tedesca;
nel 1898 ci fu la firma di un nuovo trattato di commercio con la Francia che pose fine alla guerra
doganale e nel 1902 un accordo per la divisione delle sfere di influenza in Africa settentrionale: l'Italia
ottenne diritti di priorità sulla Libia lasciando alla Francia la supremazia sul Marocco, decisione non
gradita dai tedeschi e meno ancora piacque agli italiani il modo in cui l'Austrai-Ungheria procedette
all'annessione della Bosnia-Erzegovina. Notando il poco rilievo occupato dall'Italia nella triplice,
all'interno del paese si determinò un clima di riscossa nazionale: rivendicazioni irredentiste sul
Trentino e la Venezia-Giulia mischiate alle richiete di una maggiore affermazione in campo coloniale.
Ebbe fortuna, in questo clima, la teoria elaborata da Enrico Corradini secondo cui il contrasto
fondamentale era tra paesi richhi e poveri, tra nazioni capitalistiche e proletarie: applicata all'Italia,
questa teoria, portava ad una contrapposizione del Paese nei confronti delle democrazie occidentali,ad
una ripresa dell'iniziativa coloniale e dall'interno al tentativo di contenere i conflitti sociali
indirizzando le masse verso obbiettivi imperiali. In questo clima sorse e si affermò un movimento
nazionalista, a cui si diede una struttura organizzativa alla fine del 1910 con la fondazione
dell'associazione nazionalista italiana, nata dalla confluenza di componenti democratiche e
reazionarie. L'associazione vide emergere un gruppo imperialisra e conservatore che, rifacendosi alle
teorie di Corradini, diede vita ad una campagna in favore della conquista della Libia. In questa
campagna i nazionalisti si allearono con i gruppi cattolico-moderati legati alla finanza Vaticana e al
Banco di Roma, da anni impegnato in un'opera di penetrazione economica in terra libica. La pressione
dei gruppi legati al Banco di Roma, la campagna della stampa nazionalista contribuirono a spingere
l'Italia sulla via dell'intervento; la spinta decisiva venne dagli sviluppi della seconda crisi marocchina,
1911. quando la Francia si apprestava ad imporre il suo protettorato sul Marocco, il governo italiano
inviò nel 1911 sulle coste libiche 35.000 uomini scontrandosi con l'Impero Turco che esercitava una
sovranità in cuei territori. I turchi fomentarono la guerriglia araba, l'Italia così dovette rinforzare il
corpo di spedizione ed estendere il teatro di guerra al mar Egeo, occupando l'isola di Rodi e
l'arcipelago del Dodecaneso. Nel 1912 i Turchi firmarono la pace di Losanna, rinunciando alla
sovranità politica sulla Libia e conservando per il sultano un'autorità religiosa sui musulmani. La pace
non valse a far cessare la resistenza araba; da ciò gli italiani trassero il pretesto per mantenere le
occupazioni di Rodi e del dodecaneso. La conquista della Libia da un punto di vista economico si
rivelò un pessimo affare: altissimi costi della guerra e scarse ricchezze naturali. Gli oppositori alla
guerra erano i socialisti, parte dei repubblicani e dei radicali e alcuni intellettuali; la maggior parte
dell'opinione pubblica borghese si schierò a favore dell'impresa. La gurerra di Libia scosse gli
equilibri e favorì il rafforzamento delle ali estreme all'interno del dibattito politico: destra liberale,
clerico-conservatori e nazionalisti contro socialisti.
Nel Psi la corrente riformista guardò con simpatia alla politica giolittiana e appoggiato in Parlamento
i governi che davano garanzie di muoversi su quella linea. Il grande sviluppo delle organizzazioni
operaie e contadine sembrò dar ragione a chi, come Turati, pensava che la via delle riforme e della
collaborazione con la borghesia progressista fosse per il movimento operaio l'unica capace di
assicurare il consolidamento dei risultati appena conseguiti. Ma le tesi di Turati iniziarono a
incontrare opposizioni crescenti man mano che si venivano delineando i limiti del liberismo
giolittiano. Per i socialisti rivoluzionari i conflitti fra lavoratori e forze pubbliche mostravano la vera
essenza dello Stato monarchico e borghese contro cui si doveva combattere. 1904: congresso di
Bologna: le correnti rivoluzionarie coalizzate presero la guida del partito al posto dei riformisti. Nel
settembre la protesta proletaria sfociò nel primo sciopero nazionale della storia italiana: questo
comportò un forte trauma per la borghesia e così ci furono delle forti pressioni sul governo affinchè
intervenisse militarmente contro gli scioperanti. Giolitti, fedele al suo metodo, lasciò che la
manifestazione si esaurisse da sola e in novembre convocò delle nuove elezioni, sfruttando le paure
dell'opinione pubblica moderata, dove le sinistre segnarono una battuta d'arresto. Per il movimento
operaio lo sciopero costituì una prova di forza ma anche una rivelazione di alcuni gravi limiti come
la distribuzione territorale squilibrata, l'assenza di un organo sindacale cntrale capace di guidare le
agitazioni. 1906 : fondazione della Confederazione generale del lavoro (1906), all'interno del partito
la corrente più estremista quella sindacalista-rivoluzionaria, fu definitamente allontanata dal Psi nel
1907 e si staccò anche dalla Cgil nel 1911 dando vita all'Usi. I riformisti ripresero il controllo del
partito ma conobbero le prime division interne: tendenze revisionista che faceva capo a Leonida
Bissolati e Ivanoe Bonomi e che, ispirati dai laburisti inglesi, prospettava la trasformazione del Psi in
un partito del lavoro disponibile per una collaborazione di governo con le forze democratico-liberali.
Nel congresso di Reggio Emilia del 1912, i rivoluzionari riuscirono a imporre l'espulsione dal Psi dei
riformisti di destra, che diedero vita al Partito socialista riformista italiano. I riformisti rimasti furono
ridotti in minoranzae la guida del partito tornò nelle mani degli intransigenti fra i quai venne
emergendo la figura di Benito Mussolino. Chiamato alla guida del quotidiano del partito “l'Avanti” ,
Mussolini portò alla propaganda socialista un nuovo stile, basato sull'appello diretto alle masse e sul
ricorso a formule agitatorie prese dal sindacalismo rivoluzionario.
Nel corso dell'età giolittiana anche il movimento cattolico conobbe trasformazioni di grande
importanza che lo portarono a eserecitare nella politica un peso reale crescente. Il fatto nuovo fi
l'affermazione del movimento democratico-cristiano, leader del movimento era il sacerdote Romolo
Murri che, dopo aver militato frra gli intransigenti, era approdato a posizioni riformatrici, in cui la
polemica contro il capitalismo e lo Stato borghese si riempiva di contenuti progressisti, all'inizio del
'900 si concentrarono su un'intensa attività organizzativa. Tollerata entro certi limiti da Leone XIII,
l'azione dei democratici-cristiani fu duramente osteggiata dal nuovo papa Pio X; nel 1904, temendo
che l'Opera dei congressi ( e dei comitati cattolici, 1° organismo unitario che raggruppava i cattolici
italiani solidali con il papa “prigioniero del Vaticano”) potesse finire sotto il loro controllo la sciolse
creando tre organizzazioni distinte dipendenti dalla gerarchia ecclesiastica: Unione popolare, unione
economico-sociale, Unione elettorale dopo riunite sotto la Direzione generale dell'Azione cattolica.
Romolo Murri fu sconfessato e sospeso dal sacerdozio. 1910: esistevano 375 leghe bianche
soprattutto concentrate in Lombardia e in Veneto fra gli operai tessili che diedero vita nel 1909 al
primo sindacato nazionale cattolico di categoria. Il Papa e i vescovi favorirono le tendenze
clericomoderali che si manifestarono all'interno del movimento cattolico e che miravano a ostacolare
con i partiti d'ordine l'avanzata delle sinistre. Alleanze di questo genere furono autorizzate dalle
autorità ecclesiastiche e incoraggiate da Giolitti: questo, pur ispirandosi ad una linea laica dei rapporti
fra Stato e Chiesa, vide negli atteggiamente dei cattolici la possibilità di allargare i suoi spazi di
manovra. Il non expedit ( disposizione della santa sede che consigliò ai cattolici italiani di non
partecipare alle elezioni e alla vita politica più in generale) fu sospeso in maniera ampia nel marzo
1909, dove fu autorizzata anche la presenza di candidature cattoliche ma solo a titolo personale:
cattolici deputati si, deputati cattolici no. Elezioni 1913: Ottorino Gentiloni, presidente dell'Unione
elettorale cattolica, invitò i militanti ad appoggiare quei candidati che si impegnavano alla tutela
dell'insegnamento privato, all'opposizione del divorzio. Molti candidati liberali accettarono
segretamente di sottoscrivere questi impegni, spinti dall'esigenza di assicurarsi i suffragi di un
elettorato di massa. Il patto Gentiloni rappresentò una netta battuta d'arresto e fu duramente criticato
dai democratici cristiani. Dalle elezioni del '13 i cattolici acquistarono una noteole capacità di
pressione sulla classe dirigente, con inoltre la presenza di oltre duecento deputati gentilonizzati il
Parlamento Italiano rischiava di incrinare la sua fisionomia laica.
Nonostante i progressi socialisti e dei cattolici dichiarti e nonostante l'ingresso di un piccolo gruppo
di nazionalisti, i liberali delle varie gradazioni conservavano un'ampia maggioranza. Maggioranza
più eterogenea che rendeva problemtica la mediazione giolittiana. Maggio 1914: Giolitti rassegnò le
dimissioni e proclamò Antonio Salandra come suo successore, uomo di punta della destra liberale. Il
progetto di Giolitti era il solito, esperienza di governo conservatore che si logorasse da solo e tornare
al potere a capo di un ministero orientato a sinistra. Ma la situzione era cmbiata: la guerra libica aveva
fortemente radicalizzato i contrsti politici e la situazione economica, a partire dal 1913, si era
deteriorata provocando un inasprimento delle tensioni sociali. La settimana rossa del 1914 fece pertire
varie manifestazioni in tutto il paese: nelle Marche e in Romagna la protesta, guidata dagli anarchici
e appoggiata dall'Avant di Mussolini, assunse un carattere insurrezionale. Priva di qualsiasi sbocco
concreto, non appoggiata dalla Cgil e fronteggiata dal governo, l'agitazione si esaurì in pochi giorni.
L'unico risultato fu quello di rafforzare le tendenze conservatrici. La Grande Guerra avrebbe reso
irreversibile la crisi del giolittismo e messo in luce la debolezza di una politica che aveva favorito la
democratizzazione, incoraggiando al tempo stesso lo sviluppo economico, ma che si rivelava
inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa.
5CAPITOLO: LA PRIMA GUERRA MONDIALE
28 giugno 1914: Gavrilo Princip, studente bosniaco uccise l'erede al trono d'Austria, l'arciduca
Francesco Ferdinando, e sua moglie mentre attraversavano in auto Sarajevo. Questo bastò a suscitare
la reazione del governo e dei circoli dirigenti austriaci, da tempo convinti di dovere impartire una
lezione alla Serbia.
In una situazione già critica per l'Europa, questo attentato fece esplodere tensione che potevano restare
latenti.
23 luglio 1914: l'Austria inviò alla Serbia un durissimo ultimatum. La Russia nel frattempo assicurò
il proprio sotegno alla Serbia, suo principale alleata nei Balcani. Sicura dell'appoggio russo la Serbia
accettò in arte l'ultimatum, rifiutando in particolare la clausola che prevedeva la partecipazione di
funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell'attentato.
28 luglio 1914: l'Austria dichiarò guerra alla Serbia. Immediata fu la risposta della Russia che il
giorno seguente ordinò la mobilitazione delle forze armate.
31 luglio 1914: la Germania interpretò l'azione russa come un atto di ostilità e così le inviò un
ultimatum intimandole l'immediata sospensione dei preparativi bellici. L'ultimatum non ebbe risposta
e così il giorno seguente a la Russia dichiarò lo stato di guerra.
1 agoso 1914: la Francia, alleata della Russia, mobilitò le proprie forze armate.
3 agosto 1914: la Germania rispose con un ulteriore ultimatum e con la successiva dichiarazione di
guerra alla Francia. La Germania già da tempo soffriva di un complesso di accerchiamento ritenendosi
soffocata nelle sue ambizioni internazionali, inoltre c'erano motivazioni militari per cui decise di
entrare in guerra. La strategia tedesca si basava sulla rapidità e sulla sorpresa, non ammetteva la
possibilità di lasciare l'iniziativa in mano agli avversarie costituivia quindi un fattore di accellerazione
della crisi e di ostacolo al negoziato. Il piano di guerra elaborato agli inizi del 900 da Alfred von
Schlieffen, prevedeva in primo luogo un massiccio attacco contro la Francia, che avrebbe dovuto
essere sconfitta in poche settimane. Raggiunto quaesto obiettivo, il grosso delle forze sarebbero state
impegnate contro la Russia, che era lenta a mettersi in azione. Presupposto per la riuscita del piano
era la rapidità dell'attacco alla Francia, a questo scopo era previsto il passaggio delle truppe attraverso
il Belgio neutrale.
4 agosto 1914: i primi contingenti tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia da nord-est.
4 agosto 1914: la Gran Bretagna, già preoccupata dall'eventuale successo tedesco, non poteva
tollerare l'invasione ad un paese neutrale che affacciava sulla Manica e così dichiarò guerra alla
Germania. L'intervento inglese rappresentò il primo grave scacco.
Tutti i governi sottovalutarono la gravità dello scontro che si andava preparando; fra gli stessi politici
era diffusa la convinzione che una guerra avrebbe contribuito a soffocare i contrasti sociali e a
rafforzare le posizioni di governi e classi dirigenti.
In quasi tutti gli Stati coinvolti nel conflitto le forze pacifiste trovarono poco appoggio in un'opinione
pubblica mobilitata a sostegno della causa nazionale e pronta a riconoscere le buone ragioni del
proprio paese. Le grandi città si riempirono di dimostrazioni belliciste, intellettuali e maestri di scuola
si adoperarono per spiegare al popolo la necessità della guerra, il richiamo al patriottismo mostrò tutta
la sua forza. Neanche i partiti socialisti si sottraerono al clima generale di unione sacra: i capi della
socialdemocrazia tedesca votarono in Parlamento a favore dei crediti di guerra, giustificando la loro
scelta col pericolo di una vittoria zarista; analogo atteggiamento fu quello dei socialdemocratici
austriaci; i socialisti francesi, dopo la morte del loro leader Jean Jaurès, rinunciarono alla protesta e
dopo pocoentrarono a far parte del governo; lo stesso fecero i laburisti inglesi. Solo in Russia e in
Serbia i socialisti mantennero un atteggiamento di opposizione. La Seconda Internazionale cessò
praticamente di esistere.
Nell'agosto del '14 la Germania schieròun milione e mezzo di uomini e la Francia ne contrappose più
di un milione; la Gran Bretagna era l'unica a non avere un esercito di leva ma ancor prima di introdurre
nel 1916 la leva obbligatoria, riusì a mobilitare oltre due milioni di volontari. La novità importante
era costituita dalle mitragliatrici automatiche capaci di sparare centinaia di colpi al minuto. Nessuna
nazione però aveva elaborato strategie diverse da quelle delle ultime guerre ottocenteche che si
fondavano sull'idea di una guerra di movimento, cioè sulla manovra offensiva, sullo spostamento
rapido di ingenti masse di uomini in vista di pochi e risolutivi scontri campali.
Agosto 1914: nelle ultime due settimane le truppe del Reich dilagarono nel nord-est costringendo i
francesi ad una precipitosa ritirata. Ai primi di settembre si attestarono lungo la Marna, a pochi
chilometri da Parigi. Il governo francese insieme a mezzo milione di cittadini, si affrettò a lasciare
Parigi. Nel frattempo sul fronte orientale le truppe tedesche guidate dal generale Hindenburg,
fermavano i Russi che tentavano di penetrare in Prussia orientale, sconfiggendoli fra agosto e
settembre nelle battagle di Tannenberg e dei Laghi Masuri.
6 settembre 1914: i francesi lanciarono un improvviso attacco ai tedeschi che li colse di sorpresa:
dopo una settimana di furiosi combattimenti, gli invasori furono costretti a ripiegare su una linea più
arretrata, in corrispondenza dei fiumi Aisne e Somme.
Alla fine di novembre gli eserciti si erano ormai attestati in trincee improvvisate su un fronte lungo
750 kilometri, che andava dal Mare del Nord al confine svizzero. Nei primi quattro mesi di guerra si
erano avuti 400.000 morti e ciò senza che nessuno dei due schieramenti fosse riuscito a conseguire
risultati decisivi sul piano strategico, la guerra di movimento si era risolta in una situazione di stallo;
aveva inizio una guerra di logoramento che vedeva due schieramenti praticamente immobili
affrontarsi in una serie di sterili e sanguinosi combattimenti, inframmezzati da lunghi periodi di stasi.
L'iniziale superiorità militare degli stati centrali passava in secondo piano, mentre diventava
essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva ettare sul campo le risorse del suo impero coloniale
e la sua superiorità navale, altrettanto importante si dimostrava l'apporto della Russia col suo enorme
potenziale umano.
Agosto 1914: il Giappone, richiamandosi al trattato di allenaza con la Gran Bretagna del 1902,
dichiarava guerra alla Germania, profittandone per impadronirsi dei suoi possedimenti in Estremo
Oriente.
Novembre 1914: la Turchia, alleata alla Germania da un trattato segreto, interveniva a favore degli
stati centrali.
Maggio 1915: l'Italia entrava in guerra contro l'Austria-Ungheria.
Settembre 1915: entra in guerra la Bulgaria a fianco degli stati centrali.
Marzo 1916; Agosto 1916; Giugno 1917: Portogallo, Romania, Grecia a fianco degli stati della
triplice intesa.
Aprile 1917: a favore dell'Intesa si schierarono gli Stati Uniti che si trascinarono dietro molti paesi
extraeuropei tra i quali Cina e Brasile, ill cui contributo fu irrilevante.
L'Italia entrò in guerra il 20 maggio del 1915 a fianco dell'Intesa contro l'Impero Austro-Ungarico fin
allora suo alleato. Il 2 agosto del 1914, a guerra già scoppiata, il governo di Antonio Salandra aveva
dichiarato la neutralità italiana, questa decisione aveva inizialmente trovato appoggio da tutte le
principali forze politiche. Una volta scartata l'ipotesi di un intervento a fianco degli imperi centrali
iniziò ad affacciarsi la possibilità opposta: quella di una gurra contro l'Austria cheavrebbe consentito
all'Italia di riunire alla patria il Trento e Trieste, ma anche di aiutare la causa delle nazionalità oppresse
e della stessa democrazia, che poteva essere minacciata da un'eventuale vittoria degli stati centrali.
Portavoce di questa idea furono gruppi e partiti della sinistra democratica, i repubblicani, i radicali, i
socialriformisti di Bissolati, le associazioni irredentiste. Ad esse si aggiunsero esponenti delle frange
estremiste del movimento operaio convertitesi alla causa sella guerra rivoluzionaria: guerra destinata,
nelle loro speranze, a rovesciare sia gli assetti internazionali sia gli equilibri sociali all'interno dei
paesi coinvolti. Fautori attivi dell'intervento erano i nazionalisti, in un primo momento schierati per
gli imperi centrali per poi passare al fronte antiaustriaco, affinchè l'Italia potesse affermare la sua
vocazione di grande potenza imperialista. Più graduale fu l'adesione di quei gruppi liberalconservatori che avevano la loro espressione più autorevole nel “ Corriere della Sera” di Luigi
Albertini e i loro punti di riferimento politici nel presidente del Consiglio Salandra e nel ministro
degli Esteri Sonnino. Quest'ultimi temevano che una mancata partecipazione al conflitto, in cui si
decidevano le sorti europee, avrebbe compromesso la posizione internazionale dell'Italia e il prestigio
della monarchia; una guerra vittoriosa avrebbe invece rafforzato le istituzioni e dato maggiore solidità
al governo. L'ala più consistente dello schieramento liberale, che faceva capo a Giolitti, era schierata
su una linea neutralista. Giolitti intuiva che la guerra sarebbe sttata lunga e logorante e non riteneva
il paese pronto ad affrontarla, inoltre credeva che come ricompensa della neutralità avrebbe potuto
ottenere dagli imperi centrale buona parte dei territori rivendicati. Ostili all'intervento erano i cattolici:
il nuovo papa Benedetto XV assunse un atteggiamento pacifista, atteggiamento che da un lato
interprtava i sentimenti delle masse cattoliche e dall'altro rappresentava la preoccupazione di una
guerra schierati con la Francia repubblicana e anticlericale contro la cattolica Austria-Ungheria. Ostili
all'intervento erano anche il Psi e la Cgil, posizione di condanna alla guerra che contrastava con la
scelta patriottica dei maggiori partiti socialisti europei, ma rispecchiava il pacifismo delle masse
operaie e contadine. L'unico a contratare questa idea era il direttore dell' “Avanti!” Benito Mussolini:
egli, dopo aver condotto una campagna per la neutralità assoluta, si scherò a favore dell'intervento.
Destituito dal suo incarico e espulso dal partito, Mussolini fondò nel novembre del 1914 un nuovo
quotidiano “ Il Popolo d'Italia”, che divenne la principale tribuna degli interventisti di sinistra. I
nutralisti, a livello di peso nella società, erano in netta prevalenza ma non rappresentavano un gruppo
omogeneo a livello politico. Il fronte interventista era unito da un obiettivo preciso, la guerra contro
l'Austria e l'avversione per la “dittatura” giolittiana. Le minoranze interventiste seppero impadronirsi
nei momenti decisivi del dominio delle piazze e quindi riuscirono ad imporsi come immagine del
paese reale i contrapposizione al Parlamento giolittiano, considerato imbelle e corrotto. Il partito della
guerra poteva contare sui settori più giovani e dinamici della società: studenti, insegnanti, impiegati,
professionisti, ovvero la piccola e media borghesia colta. Erano interventisti Benedetto Croce,
Giovanni Gentile, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini e Gabriele D'Annunzio: quest'ultimo
s'improvvisò capopopolo ed ebbe un ruolo di rilievo nelle manifestazioni in piazza a favore
dell'intervento.
Dall'autunno del 1914, dopo il fallimento del pino di guerra tedesco, Salandra e Sonnino allacciarono
contatti segretissimi con l'Intesa, continuando a trattare con gli imperi centrali per i compensi
territoriali in cambio della neutralità. Infine decisero, col solo consenso del re e senza informare né il
Parlamento né gli altri membri del governo, di accettare le proposte dell'Intesa firmando il 26 aprile
1915 il Patto di Londra. In caso di vittoria l'Italia avrebbe ottenuto il Trentino, il Sud Tirolo fino al
confine naturale del Brennero, la Venezia Giulia e la penisola istriana, una parte della Dalmazia e
numerose isole adriatiche. Restava da superare l'opposizione della maggioranza neutralista della
Camera, cui spettava la ratifica del trattato. Giolitti, all'oscuro del Patto di Londra, si pronunciò a
favore della continuazione delle trattative con l'Austria, trecento deputati lo seguirono, inducendo
Salandra a dare le dimissioni. La neutralità parlamentare fu scavalcata: da un lato dalla decisione del
re, che respinse le dimissioni di Salandra, dall'altro dalle manifestazioni di piazza che si fecero più
imponenti e minacciose. Il 20 maggio del 1915 la Camera, costretta a scegliere fra l'adesione alla
guerra e un voto contrario che sconfessasse lo stesso re, aprendo così una crisi istituzionale, approvò,
col voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri del governo, che la sera del 23
maggio dichiarava guerra all'Austria. Il 24 ebbero inizio le operazioni militari. I socialisti optarono
per “ nè aderire né sabotare.
Sul confine orientale le forze austro-ungariche , inferiori di numero, ripiegarono per pochi chilometri:
si attestarono sulle posizioni difensive più favorevoli, lungo il corso dell'Isonzo e sulle alture del
Carso. Contro esse le truppe di Luigi Cadorno sferrarono, durante il 1915, quattro sanguinose
offensive senza ottenere alcun successo: alla fine dell'anno dopo aver perso quasi 250.000 uomini gli
italiani si trovarono a combattere praticamente sulle stesse linee. Sul fronte francese gli schieramenti
rimasero pressochè immobili per tutto il 1915; in quell'anno gli unici successi furono ottenuti sul
fronte orientale dagli austro-tedeschi: prima contro i russi che furono costretti ad abbandonare buona
parte della Polonia, poi contro la Serbia che attacata simultaneamente da Austria e Bulgaria fu ivasa
e cancellata dal novero dei contendetni. Nel febbraio del 1916 i tedeschi ripresero l'attacco contro la
piazzaforte francese di Verdun, scopo dell'azione era il dissanguamento delle forze francesi.
Quest'ultimi riuscirono però a resistere sino alla fine di giugno, quando gli inglesi organizzarono una
controffensiva sulla Somme che ben presto si trasformò in una battaglia di logoramento. Nel giugno
del 1916 l'esercito austriaco passò all'attacco sul fronte italiano, tentando di penetrare dal Trentino e
di spezzare in due lo schieramento nemico. Gli italiano furono colti di sorpresa dall'offensiva che
venne chiamata Strafexpedition, ma riuscirono ad arrestarla sugli altipiani di Asiago e
successivamente a contrettaccare. L'Italia non subì alcuna perdita territoriale. Il governo Salandra fu
costretto a dimettersi e fu sostituito da un ministero di coalizione nazionale presieduto da Paolo
Boselli. Nel corso dell'anno vennero combattute altre cinque battaglie dell'Isonzo, tutte senza nessun
risultato tangibile salvo per la presa di Gorizia. Nel 1916 sul fronte orientale i russi, sollecitati dagli
alleati, lanciarono una violenta offensiva contro gli austro-tedeschi riuscendo a riprendere buona parte
dei territori perduti. I successi di questi spinsero la Romania a intervenire a fianco dell'Intesa, ma essa
subì le stesse sorti della Serbia cedendo ai nemici le sue risorse agricole e minerarie (grano e petrolio).
Gli imperi centrali rimasero comunque inferiori a quelli dell'Intesa per risorse economiche e umane,
nel maggio del 1916, la flotta tedesca aveva tentato di attaccare qualla inglese in prossimità della
penisola dello Jutland ma invano.
Sul piano tecnico, la trincea fu la vera protagonista del conflitto: la vita monotona ma pesante che vi
si svolgeva era interrotta solo, di quando in quando, da grandi sanguinose offensive, prive di risultati
decisivi. Da ciò, soprattutto nei soldati semplici, uno stato d'animo di rassegnazione e apatia che a
volte sfociava in forme di insubordinazione. Altra novità fu l'utilizzazione di nuove armi: gas, aerei,
carri armati, sottomarini. I carri armati furono sperimentati per la prima volta nel 1916 dagli inglesi,
utilizzati in modo massiccio e con discreto successo, sempre dagli inglesi, nel 1917. Il loro successo
non bastò a convincere i comandi alleati a farne uso. I nuovi modelli avevano le ruote con i cingoli,
mancanti nel precedente autoblindo, che servivano a muoversi su ogni tipo di terreno. I sottomarini
influirono in maniera significativa lo svolgimento della guerra: i tedeschi furono i primi a intuire la
possibilità del nuovo mezzo e a servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per
affondare senza preavviso le navi mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano rifornimenti verso
i porti dell'Intesa.
Anche i civili furono investiti dagli eventi bellici: ad esempio nella primavera-estate del 1915, mentre
Russia e Turchia si combattevano nella regione del Caucaso, gli armeni furono sottoposti a
deportazione, che per oltre un milione di loro si trasformò in sterminio. Cambiarono soprattutto il
mondo dell'economia e in particolare il settore industriale: quelle interessate alle forniture belliche
(siderurgiche, meccaniche e chimiche) conobbero uno sviluppo imponente, al di fuori di qualsiasi
legge di mercato. Il cliente principale era lo Stato che, pressato dalle urgenze belliche, si interessava
alla rapidità delle consegne, preoccupandosi poco dei prezzi. Vi fu una riorganizzazione dell'apparato
produttivo e una continua dilatazione dell'intervento statale. Interi settori dell'industria furono
sottoposti al controllo dei poteri pubblici, che distribuivano le materie prime a secondo delle necessità
e stabilivano quando e cosa produrre. La manodopera fu sottoposta a disciplina militare o semimilitare,
anche la produzione agricola fu assoggettata a un regime di requisizioni e di prezzi controllati. In
Germania si giunse addirittura a parlare di socialismo di guerra. Legate ai mutamenti nell'economia
furono le trasformazioni degli apparati statali, ovunque i governi furono investiti di nuove attribuzioni
e dovettero affrontare l'aumento della burocrazia. Il potere esecutivo si rafforzò a spese degli
organismi rappresentativi, per natura poco adatti alle esigenze di rapidità e segretezza nelle decisioni
imposte dallo stato di guerra. Gli stati maggiori avevano poteri pressochè assoluti per tutto ciò che
riguardava la conduzione della guerra e quindi influenzavano apertamente le scelte dei politici: la
dittatura militare vigente in Germania non differiva da quella “giacobina” instaurata in Francia o da
quella esercitata dal “gabinetto di guerra” in Gran Bretagna. In questi stati furono usati tutti i mezzi
per combattere i nemici interni e per mobilitare la popolazione verso l'obiettivo della vittoria. Per
questo obiettivo strumento essenziale era la propaganda: non si rivolgeva solo alle truppe ma cercava
di raggiungere la popolazione civile, si usavano strumenti rudimentali, come i manifesti murali, ma
rappresentavano la preoccupazione dei governi di curare l'opinione pubblica e nel cercarne l'appoggio.
Nel settembre del 1915 e nell'aprile del 1917 si tennero in Svizzera due conferenze socialiste
internazionali che approvarono documenti in cui si rinnovava la condanna della guerra e si chiedeva
una pace “senza annessioni e senza indennità”. Vi parteciparono i partiti socialisti dei paesi neutrali
( svizzeri, olandesi e scandinavi) e di quelli che da sempre avevano rifiutato la guerra. Col proptrarsi
della guerra vennero rafforzandosi i gruppi socialisti contrari alla guerra, ma al loro interno vi fu una
spaccatura netta tra il pacifismo delle sinistre riformiste, per le quali dopo la pace vi era un ritorno
alla vita democratica, e il disfattismo rivoluzionario dei gruppi più radicali, fra i quali gli “spartachisti”
tedeschi. In queste conferenze spiccò la figura di Lenin che aveva sostenuto la tesi secondo cui il
movimento operaio doveva profittare della guerra e della sofferenza delle masse per affrettare il crollo
dei regimi capitalistici.
Nei primi mesi del 1917 due fatti nuovi intervennero a mutare il corso della guerra. All'inizio di marzo
uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado si trasformò in una manifetsazione politica contro
l'impero zarista: quando i militari che dovevano ristabilire l'ordine si rifiutarono di sparere sulla massa
e fraternizzarono con i dimostranti la monarchia fu segnata. Il 15 marzo lo zar abdicò e pochi giorni
dopo fu arrestato con tutta la famiglia reale. In breve tempo seguì il collasso militare russo. Il 6 aprile
1917, gli Stati Uniti decidevano di entrare in guerra contro la Germania che , i primi di febbraio,
aveva ripreso la guerra sottomarina indiscriminata nel tentativo di chiudere l'economia dei paesi
nemici, sperando di chiudere la partita con i paesi dell'Intesa. Dal crollo degli zar molti repati militari
rifiutarono di riconoscere l'autorità degli ufficiali ed elessero organi di autogestione; molti soldaticontadini tornarono ai loro villaggi per partecipare alla probabile spartizione delle terre dei signori.
Vi fu il tentativo, da parte del governo provvisorio, di lanciare una nuova offensiva contro gli austrotedeschi in Galizia, ma fallì. I tedeschi penetrarono nel territorio dell'ex Impero zarista e, raggiunti i
propri obiettivi, trasferirono forti contingenti di truppe sul fronte occidentale. Per l'Intesa, in attesa
dell'apporto militare americano, i mesi fra la primavera e l'autunno del '17 furono i più difficili. A
queste difficoltà si aggiungevano quelle politico-psicologiche derivanti dalle ripercussioni degli
avvenimenti russi sulle masse lavoratrici e sul morale dei soldati al fronte. Si intensificarono le
manifestazioni, gli scioperi operai, gli ammutinamenti dei reparti combattenti. Ma anche gli imperi
centrali davano segni di stanchezza: in Germania e Austria vi furono una serie di scioperi; in maggio
si ammutinarono i marinai della flotta tedesca. Nell'Impero Austro-Ungarico l'andamento della guerra
ridiede forza alle aspirazioni indipendentiste delle nazionalità oppresse: vi fu la costituzione di un
governo cecoslovacco in esilio; nell'estate del '17 si accordarono serbi, croati e sloveni per costituire
la costituzione di uno Stato unitario degli slavi del Sud. Il nuovo imperatore Carlo I avviò negoziati
segreti in vista di una pace seperata, le sue proposte furono rifiutate dall'Intesa. Né ebbe miglior
fortuna la proposta di Benedetto XV che invitò i governi a porre fine a quell'inutile strage e a
considerare l'ipotesi di una pace senza annessioni. Tanto più cresceva la sofferenza della guerra, tanto
meno i responasibili degli Stati belligeranti erano disposti ad ammettere che ciò potesse essere
considerato inutile e ad accontentarsi di altro che della vittoria finale.
Fra maggio e settembre del '17 Cadorno ordinò una nuova serie di offensive sull'Isonzo, con risultati
modesti e grandi costi umani. Tra i soldati le manifestaioni di protesta e i gesti di insubordinazione si
fecero più frequenti; fra la popolazione civile si accrescevano i segni di malcontento per i disagi
causati dall'aumento dei prezzi e dalla carenza di generi alimentari. Per lo più erano manifestaioni
spontanee e quindi si esaurivano in poche ore, l'unico vero episodio insurrezionale si verificò a Torino
fra il 22 e il 26 agosto quando una protesta per la mancanza di pane si trasformò in una sommossa a
forte partecipazione operaia. In questa situazione di disagio, le truppe austro-tedesche profittarono
della disponibilità di truppe provenienti dalla Russia per attaccare l?italia. Il 24 ottobre del 1917
attaccarono le linee italiane sull'alto Isonzo nei pressi di Caporetto. Gli attaccanti usarono la nuova
tattica dell'infiltrazione che consentiva di penetrare più rapidamente in territorio nemico semza
consolidare le posizioni raggiunte. Gran perte delle truppe italine dovette lasciare posizioni che
tenevano dall'inizio della guerra: solo dopo due settimane un esercito riuscì ad assestarsi nel Piave,
nuova linea difensiva. Il generalre Cadorna, in seguito sostituito dal generale Armando Diaz, incolpò
i propri soldati della disfatta: la rottura sul fronte in realtà fu determinata dagli errori dei comandi,
colti di sorpresa dall'attacco sull'Isonzo. I soldati Italiani dimostrarono di combattere valorosamente
resistendo, sul Piave e sul Monte Grappa, all'avanzata degli austro-tedeschi, che cercavano di dilagare
nella Pianura Padana, evitando così la totale disfatta. Dopo l'attacco di Caporetto, i soldati si
ritrovarono a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio
nazionale: ciò contribuì a rendere più comprensibili gli scopi della guerra e ad aumentare il senso
patriottico. Intorno al nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele
Orlando, le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia: gli stessi leader dell'ala riformista
del Psi, guidati da Turati, assicurarono la loro solidarietà allo sforzo di resistenza del paese. Il nuovo
capo di stato maggiore si mostrò più attento alle esigenze dei soldati, il comando supremo mise in
atto vari provvedimenti per sollevare le condizioni materiali e morali dei soldati: vitto più abbondante,
licenze più frequenti, maggiori possibilità di svago. Dall'inizio del '18 vi fu un'operazione di
propaganda fra le truppe, attraverso la diffusione dei giornali di trincea e la creazione di un Servizio
P che si affidava all'opera degli ufficiali inferiori e si valeva della collaborazione di intellettuali di
prestigio. Attravero la propaganda si cercava di prospettare ai soldati la possibilità di vantaggi
materiali in caso di vittoria; ci si sforzò anche di presentare la guerra in una nuova cornice ideologica:
lotta per un migliore ordine interno e internazionale (idea di guerra democratica).
Fra il 6 e il 7 novembre (24-25 ottobre) 1917un'insurrezione guidata dai bolscevichi ribaltava il
governo provvisorio russo. Il governo fu assunto da un governo rivoluzionario presieduto da Lenin
che decise di porre fine alla guerra e dichiarò la sua volontà ad una pace senza annessioni e senza
indennità, firmando subito dopo l'armistizio con gli imperi centrali. La pace fu stipulata il 3 marzo
1918 a Brest-Litovsk e la Russia dovette accettare le durissime condizioni imposte dai tedeschi, che
comportavano la perdita di circa ¼ dei territori europei dell'Impero Russo. Con la pace salvò il nuovo
Stato Socialista e dimostrò al mondo che era possibile trasformare la guerra imperialista in guerra
rivoluzionaria, anche se ad elevato prezzo. Per rispondere a tale sfida gli Stati dell'Intesa dovettero
accentuare il carattere ideologico della guerra, presentandola sempre più come una crociata della
democrazia contro l'autoritarismo, come difesa della libertà dei popoli dai disegni egemonici
dell'imprialismo tedesco. Nell'aprile del 1917 Woodrow Wilson aveva dichiarato che gli Stati Uniti
avrebbero combattuto col solo obiettivo di ristabilire la libertà dei mari violata dai tedeschi, di
difendere i diritti delle nazioni e di instaurare un nuovo ordine internazionale basato sulla pace e
sull'accorso fra popoli liberi. Nel gennaio del 1918 Wilson precisò le linee della sua politica in un
programma di pace in 14 punti: abolizione della diplomazia segreta, abbassamento delle barriere
doganali, formulava alcune proposte concretevriguardo il nuovo assetto europeo che sarebbe uscito
dalla guerra: piena reintegrazione del Belgio, della Serbia, dell'Aslazia-Lorena, sviluppo autonomo
dei popolo soggetti all'Impero Austro-Ungarico e turcorettifica dei confini italiani secondo le linee
indicate dalla nazionalità. Infine si proponeva di istituire un organismo internazionale, la Società delle
Nazioni, per assicurare la pace fra i popoli. Questo programma fu accolto dall'opinione pubblica come
una sorta di “nuovo vangelo”, ma i governanti dell'Intesa lo condividevano solo in parte, in quanto
vincolati dai ,oro obiettivi di guerra. Fecero finta di accettarlo, bisognosi com'erano del sostegno
americano e credendo che i quattordici punti servissero anche a contrastare l'altro vangelo proveniente
dalla Russia.
La guerra decisiva si combatteva sul fronte francese: qui, lo stato maggiore tedesco impegnò tutte le
forze rese disponibili dalla pace con la Russia. Alla fine di marzo i tedeschi riuscirono a sfondare fra
Saint Quentin e Arras. In giugno l'esercito di Hindenburg era di nuovo sulla Marna e Parigi sotto il
tiro dei nuovi cannoni tedeschi a lunga gitata. Nel frattempo gli austriaci cercarono di sferrare il
colpo decisivo attaccando sul Piave ma furono respinti. L'offensiva tedesca cominciava a esaurirsi:
in luglio un ultimo attacco sulla Marna venne bloccato dagli anglo-francesi, che agivano sotto un
comando unificato affidato a Foch.
8 – 11 agosto: i tedeschi vengono gravemente sconfitti nella battaglia di Armiens. Da qusto momento
si cominciarono ad arretrare lentamente e si facevano evidenti i segni di stanchezza; i generali
capirono di aver perso la guerra e iniziarono a preoccuparsi di sbarazzarsi dei poteri così largamente
esercitato e di lasciare ai politici la responsabilità di un armistizio che sarebbe stato durissimo ma che
avrebbe permesso alla Germania di finire la guerra con l'esercito integro e con il territorio nazionale
intatto. Le trattative vennero aprte dal nuovo governo di coalizione democratica, formatosi con la
partecipazione dei socialisti e dei cattolici.
Mentre la Germania cercava un compromesso i suoi alleati crollavano militarmente o si disgregavano
all'interno: alla fine di settembre la Bulgaria; un mese dopo l'Impero turco chiedeva precipitosamente
l'armistizio; alla fine di ottobre crollò l'Impero Austro-Ungarico. Essi cercarono inutilmente a
trasformare l'Impero in una federazione di stati semiautonomi: Cecoslovacchi e slavi del Sud diedero
vita a Stati indipendenti. Il 24 ottobre gli italiani lanciarono un'offensiva sul Piave: l'Impero era in
piena crisi. Sconfitti nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austiraci non riuscirono a organizzare una
linea di resistenza e il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, vicino Padova, l'armistizio con l'Italia
entrato in vigore il giorno successivo.
Nel frattempo la situazione crollava anche in Germania: a novembre i marinai di Kiel, dov'era
concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e insieme agli operai delle città diedero
vita a consigli rivoluzionari di ispirazione russa. Il moto si dilagò a Berlino e in Baviera e ad esso
parteciparono anche i socialdemocratici. Uno di essi, Friedrich Ebert, fu proclamato il 9 novembre
capo del governo, mentre il Kaiser, seguito dall'Imperatore Carlo I, fu costretto a scappare in Olanda.
11 novembre 1918: i delegati del governo tedesco firmarono l'armistizio nel villaggio francese di
Rothondes, accettando le durissime condizione: consegna dell'armamento pesante e della flotta; ritiro
al di qua del Reno delle truppe; annullamento dei trattati con la Russia e la Romania; restituzione
unilaterale dei prigionieri.
La conferenza di pace iniziò a lavorare il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles e si protrassero
per oltre un anno e mezzo. Si doveva ridisegnare la carta politica del vecchio continente, si doveva
ricostruire un equilibrio europeo. Quando la conferenza si aprì si credeva che la sistemazione
dell'Europa si sarebbe basata sui quattordici punti di Wilson e che le nuove frontiere avrebbero tenuto
conto del principio di nazionalità e della volontà liberamente espressa dalle popolazioni interessate.
Ma la realizzazione del programma era complicata: in un'Europa popolata da gruppi etnici intrecciati
tra loro, non era facile applicare i principi di nazionalità e autodeterminazione senza rischiare di far
nascere nuovi irredentismi. In più quei principi non soddisfavano spesso l'esigenza di punire in
qualche modo gli sconfitti e di premiare i vincitori. Alla conferenza parteciparono i capi di governo
delle principali potenze vincitrici:Wilson, Clemenceau, Lloyd George, Orlando. Il contrasto fra
l'ideale di una pace democratica e l'obiettivo di una pace punitiva fu evidente soprattutto quando si
discussero le condizioni da imporre alla Germania. I francesi chiedevano, oltre alla restituzione
dell'Aslazia- Lorena, di spostare i propri confini fino alla riva sinistra del Reno: il che significava
l'annessione dei territori più ricchi e popolosi della Germania. Questi progetti trovarono l'opposizione
di Wilson e degli inglesiù. Clemenceau dovette accettare la rinuncia al confine sul Reno, in cambio
della promessa della garanzia anglo-americana delle nuove frontiere franco-tedesche.
28 giugno 1919: trattato di pace con la Germania: imposizione subita sotto la minaccia
dell'occupazione militare e del blocco economico. Oltre alla restituzione dell'Aslazia-Lorena alla
Francia, il passaggio alla riscostituita Polonia dell'alta Slesia, della Posnania e di una striscia della
Pomerania (corridoio polacco), che consentiva alla Polonia di affacciarsi sul Baltico e di accedere al
porto di Danzica. Anch'essa venne tolta alla Germania e si trasformò in “città libera” ; perse inoltre
le sue colonie che vennero spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone. Essa dovette impregnarsi
a rifondere ai vincitori i danni subiti dal conflitto, l'entità era chiaro che sarebbe stata tale da rendere
impossibile per molto tempo una ripresa economica tedesca. Infine fu costretta ad abolire il servizio
di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre il proprio esercito entro il limite di 100.000
uomini dotati solo di armamenti leggeri e a lasciare smilitarizzata l'intera valle del Reno che sarebbe
stata presidiata per quindici anni da truppe inglesi,francesi e belghe.
Un'altro problema era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla
dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico: i gruppi etnici tedesco e ungherese furno trattati alla
stregua dei popoli vinti. La nuova repubblica d'Austria si ritrovò in un territorio di appena 85.000
km/2 . Il trattato di pace stabiliva che l'indipendenza austriaca sarebbe stata affidata alla tutela della
Società delle nazioni: formula che serviva a nascondere l'opposizione delle potenze vincitrici ad una
possibile unificazione con la Germania.
Trattamento duro toccò anche all'Ungheria che, costituitasi in repubblica nel novembre del '18 perse
tutte le regioni slave fino a Budapest e anche alcuni territori abitati principalmente da magiari.
I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia.
I Boemi e gli Slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia.
Gli abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina (slavi del Sud) si unirono a Serbia
e Montenegro e diedero vita alla Jugoslavia.
Ingrandimento della Romania.
Ridimensionamento della Bulgaria.
Quasi completa estromissione dell'Impero Ottomano dall'Europa che, privato di tutti i suoi territori
arabi, si trasformava in Stato nazionale turco, conservando la penisola dell'Anatolia, tranne la regione
di Smirne assegnata alla Grecia.
Problema delicato era quello dei rapporti con la Russia: le potenze occidentali imposero alla
Germania l'annullamento del trattato di Brest-Litovsk, ma non riconobbero la Repubblica Socialista,
che cercarono di abbattere aiutando i gruppi controrivoluzionari. Furono riconosciute e protette le
nuove repubbliche formatesi, con l'appoggio tedesco, nei territori baltici perduti dalla Russia:
Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania. La Russia si trovò circondata da una cintura di Stati-cuscinetto
che le erano ostili: un cordone sanitario che fungeva come blocco l'eventuale spinta estensiva della
Repubblica Socilista e ogni possibile contagio rivoluzionario.
L'Europa contava otto stati nuovi e ad essi si aggiunse nel 1921 lo Stato Libero d'Irlanda. Il problema
era di di garantire il nuovo assetto territoriale, si procedette con la costituzione della Società delle
nazioni, accettata ufficialmente alla conferenza di Versailles. Questo prevedeva nel suo statuto la
rinuncia,da parte degli Stati membri, alla guerra come strumento di soluzione di contrasti, il ricorso
dell'arbitrato, l'adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori. Nasceva però
minato in partenza da contraddizioni, la più grave fu l'esclusione della Russia e dei paesi sconfitti. Il
paese che avrebbe dovuto costituire il principale pilastro della Società delle nazioni, respinse
l'adesione nel 1920, influenzato dall'opinione pubblica americana, facendo cadere così anche la
garanzia delle frontiere franco-tedesche. Cominciava per gli Stati Uniti un periodo di isolazionismo,
ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi continentale. La
Società delle Nazioni finì con l'essere egemonizzata da Gren Bretagna e Francia e non riuscì a
prevenire nessuna crisi internazionale negli anni fra le due guerre.
6CAPITOLO:LA RIVOLUZIONE RUSSA
Nel marzo del 1917 il regime zarista fu abbattuto dalla rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado,
la successione fu assunta da un governo provvisorio di orientamento liberale, costituito dai membri
della Duma e presieduto dal principe Georgij L'vov. L'obiettivo di questo governo era di continuare
la guerra a fianco dell'Intesa e di promuovere l'occidentalizzazione del paese sul piano politico e sullo
sviluppo economico. Quasta prospettiva era condivisa dai gruppi liberal-moderati che facevano capo
al partito dei cadetti, dai menscevichi di ispirazione socialdemocratica occidentale e dai socialisti
ricoluzionari che avevano radici nella parte contadina della popolazione. I socialrivoluzionari erano
divi in correnti molto eterogenee, dai democratico-radicali agli anarchici, ma quasi tutti ritenevano
inevitabile il passaggio per una fase democratica-borghese. Per ciò accettarono con i menscevichi di
far parte del secondo governo provvisorio. I bolscevichi rifiutarono la partecipazione, convinti che
solo la classe operaia alleata con gli strati più poveri delle masse rurali, potessero trasformare il paese.
Come era accaduto già nel 1905 al potere legale del governo si era affiancato e sovrapposto il potere
di fatto dei soviet: soprattutto di quello della capitale, che agiva come una sorta di parlamento
proletario, emanando ordini spesso in contrasto con le disposizioni governative. Nell'aprile del 1917
Lenin, leader dei bolscevichi rientrò in Russia dalla Svizzera attraverso l'Europa in guerra. Appena
giunto a Pietrogrado Lenin diffuse le tesi di aprile (documento in dieci punti) in cui rifiutava la
diagnosi corrente sul carattere borghese della fase rivoluzionaria in atto e poneva il problema della
presa del potere, rovesciando la tesi marxista ortodossa, che sosteneva che la rivoluzione sarebbe
avvenuta prima nei paesi già industrializzati, come risultato del sistema capitalistico giunto alla fine:
era invece la Russia, in quanto anello più debole della catena imperialista, a offrire le condizioni
migliori per una crisi del sistema. L'obiettivo era di conquistare la maggioranza nei soviet e di lanciare
la parola d'ordine della pace, del controllo sociale della produzione da parte dei consigli operai.
Questo programma consentì al Partito bolscevico di allargare i suoi consensi. Si approfondiva però
la rottura con gli altri gruppi socialisti che avevano accettato i termini del governo provvisorio. La
prima ribellione al governo provvisorio avvenne a Pietrogrado a metà luglio, quando soldati e operai
armati scesero in piazza per impedire la partenza al fronte di alcune truppe. I bolscevichi, contrari
inizialmente, cercarono di assumerne il controllo, ma l'insurrezione fallì per l'intervento di truppe
fedeli al governo. Alcuni leader bolscevichi furono arrestati o , come Lenin, costretti a fuggire. In
agorsto il principe L'vov si dimise e fu sostituito da Kerenskij: screditato dal fallimento dell'offensiva
contro gli austro-tedeschi da lui promossa, i suoi tentativi di portare avanti una politica personale gli
avevavo alienato sia le simpatie del suo stesso partito, il socialrivoluzionario, sia l'appoggio dei
moderati che gli contrapponevano il comandante dell'esercito generale Kornilov. Questo lanciò un
ultimatum al governo chiedendo il passaggio dei poteri alle autorità militari. Kerenskij fece appello
a tutte le forze socialiste, bolscevichi compresi; si distribuirono armi alla popolazione e si incitarono
alla rivolta le truppe di Kornilov: il tentativo di colpo di Stato militare fu stroncato.
I bolscevichi decisero di rovesciare con la forza il governo Kerenskij, il 23 ottobre, in una riunione
del Comitato centrale del partito dove Lenin dovette superare forti opposizioni. Contrari
all'insurrezione erano due fra i più autorevoli dirigenti del partito, Zinov'ev e Kamenev; favorevole
era un leader di grande prestigio, Bronstein noto come Trotzkij. Proveniente dalla sinistra menscevica,
eletto presidente dei soviet di Pietrogrado, egli fu l'organizzatore e la mente dell'insurrezione.
Kerenskij, per reazione, ordinò l'allontanamento dei reparti sovversivi e l'arresto dei dirigenti
bolscevichi, ma le truppe non obbedirono. Il 7 novembre (25 ottobre) soldati rivoluzionari e guardie
rosse (milizie operaie armate), dopo essersi assicurati la notte il controllo dei punti nevralgici della
capitale, circondarono il Palazzo d'Inverno, sede del governo provvisorio, e se ne impadronirono la
stessa sera, non incontrando resistenza dai reparti che avevano il compito di difenderlo.
Contemporaneamente si riuniva a Pietrogrado il Congresso panrusso dei soviet, ovvero l'assemblea
dei delegati dei soviet delle provincie dell'ex Impero. La coincidenza di date fu ricercata affinchè il
congresso potesse sanzionare l'avvenuta presa del potere. Il congresso approvò due decreti proposti
da Lenin: 1- appello a tutti i popoli dei paesi belligeranti per una pace giusta e democratica senza
annessioni e senza indennità; 2- abolizione della grande proprietà terriera senza alcun indennizzo. Il
nuovo potere si assicurava così l'appoggio, o la neutralità, delle masse contadine. Venne frattanto
costituito un nuovo governo rivoluzionario, composto solo da bolscevichi con presidente Lenin,
chiamato Consiglio dei commissari del popolo. La fulminea presa di potere disorientò tutte le altre
forze politiche:solo la minoranza della sinistra socialrivoluzionaria si schierò col nuovo governo ed
entrarono a farne parte; i menscevichi, i cadetti, e la maggioranza socialrivoluzionaria protestarono
ardentemente, ma non organizzarono un sabotaggio e preferirono optare sull'immediata convocazione
dell'Assemblea costituente, le cui elezioni, dopo molti rinvii, erano state fissate per la fine di
novembre. I risultati costituirono una grandissima delusione per i bolscevichi: ebbero meno di ¼ dei
seggi, 175 su 707; quasi scomparsi dalla scena i menscevichi e i cadetti, i veri trionfanti furono i
socialrivoluzionari che si assicurarono la maggiornaza con 400 seggi. Riunitasi la prima volta in
gennaio, la Costituente fu immediatamente sciolta grazie all'intervento dei militari bolscevichi,
comandati dal Congresso dei soviet. Questo atto era concorde alle idee di Lenin che non credeva nelle
regole della democrazia borghese e riconosceva al solo proletario il diritto di guidare il processo
rivoluzionario, attraverso le sue espressione dirette, i soviet, e la sua sedicente avanguardia
organizzata, il partito. Vennero poste così le premesse per l'instaurazione di una dittatura di partito.
Difficile era il compito di gestire il potere da loro conquistato, ovvero di amministrare un paese
immenso, di governare una società complessa ed arretrata, di affrontare i problemi ereditati dal
vecchio regime, primo fra tutti quello della guerra. Inoltre i bolscevichi non potevano contare né
sull'appoggio delle altre forze politiche, estromesse dal potere con violenza, né sulla collaborazione
degli strati sociali più alti: molti di essi lasciarono il paese, dando vita alla più grande emigrazione
politica mai verificatosi fin allora. Convinti di ricevere in breve tempo l'appoggio delle masse, dissero
di volere procedere velocemente alla costruzione di un nuovo Stato proletario ispirato alla Comune
di Parigi (La Comune di Parigi è stata una breve esperienza insurrezionale parigina. Tradizionalmente,
il termine fa riferimento al governo socialista che diresse Parigi dal 18 marzo (più formalmente dal
26 marzo) al 28 maggio 1871.In senso proprio, la "Comune di Parigi" era l'autorità locale (il consiglio
cittadino o distrettuale – in francese commune) che esercitò il potere a Parigi per appena due mesi
nella primavera del 1871. Ma le condizioni in cui si venne a formare, i suoi controversi decreti e la
sua fine tormentata, rendono la Comune uno dei più importanti avvenimenti politici dell'epoca),
secondo il modello espresso da Lenin in “Stato e Rivoluzione”. Egli riprendeva la definizione
marxiana di Stato inteso come strumento di dominio di una classe sulle altre e prevedeva che, una
volta scomparso questo dominio, lo Stato si sarebbe poi estinto. Nella società socialista le masse si
sarebbero autogovernate secondo i principi di democrazia diretta sperimentata dai soviet. A proposito
della guerra i bolscevichi ipotizzarono una sollevazione delle popolazioni europee, da cui sarebbe
scaturita la pace euqa: ciò non si realizzò e i capi rivoluzionari si trovarono a trattare in condizione di
inferiorità con una potenza che occupava dei territori dell'ex Impero: il 3 marzo 1918 fu firmata la
pace con la Germania nel durissimo trattato di Brest-Litovsk. Per imporla Lenin perse i loro unici
alleati, socialrivoluzionari compresa la corrente di sinistra che ritirò i suoi rappresentanti dal
Consiglio. Le potenze dell'Intesa considerarono la pace di Brest-Litovsk un tradimento, e così
cominciarono ad appoggiare concretamente le forze antibolsceviche che, già dalla fine del '17, si
erano organizzate in varie zone del paese, soprattutto sotto la guida degli ex ufficiali zaristi. Fra la
primavera e l'estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi prima nel Nord e poi sulle
coste del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi penetravano in Siberia. L'arrivo di questo
cintingenti contribuì a rafforzare l'opposizione al governo bolscevico e ad alimentare la guerra civile
in diverse zone del paese. L'ammiraglio zarista Kolciak assunse il controllo di vasti territori della
Siberia penetrando nella zona fra gli Urali e il Volga: in questa circostana lo zar e la sua famiglia fu
giustiziata per ordine del soviet locale per paura che fossero liberati dai controrivoluzionari. Altri
focolai di ribellione si svilupparono nel Nord della Russia, dov'era più forte la presenza dell'Intesa
soprattutto nella regione del Don , questa minaccia peraltro indusse il governo a spostare la capitale
da Pietrogrado a Mosca, dove era presente un movimento di guerriglia contadina ostile sia ai bianchi
che ai rossi. Frattanto il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari, lasciando le utopie
antimilitariste e i progetti di autogoverno del popolo. Si era iniziato nel '17 con la creazione di una
polizia politica, la Ceka, successivamente si era creato un Tribunale rivoluzionario centrale col
compito di processare chiunque disubbedisse al governo operaio e contadino: formulazione che
permetteva di perseguire anche gli oppositori, come i menscevichi, che non potevano essere imputati
di nessuna contestazione violenta. Nel giugno del 1918 tutti i partiti di opposizione vennero messi
fuori legge e fu reintrodotta la pena di morte, abolita dopo la rivoluzione d'ottobre si procedeva anche
nella riorganizzazione dell'esercito, riscostituito ufficialmente nel febbraio del '18 col nome di Rmata
rossa degli operai e dei contadini. Arteficie principale fu Trotzkij, che fece di quel che doveva essere
una milizia popolare una forte macchina da guerra. Ad assicurare la lealtà al governo provvedevano
i commissari politici, figure di nuova istituzione. La crezione dell'esercito permise ai bolscevichi di
resistere allo scontro con i numerosi nemici anche se superiori in quanto armati e riforniti dall'Intesa.
Le frorze controrivoluzionarie erano divise e mal coordinate, per motivi sia politici che di distanza
geografica, e non riuscirono a guadagnare l'appoggio delle masse contadine. Nell'estate nel 1919 i
bianchi persero l'appoggio diretto dei governi occidentali, preoccupati per le ripercussioni
dell'intervento sull'opinione pubblica e per la diffusione del contagio rivoluzionario fra i reaprti
mandati in Russia. Nella primavera del 1920 le armate bianche erano sconfitte e la parte più acuta
della guerra civile poteva considerarsi finita. Nell'aprile del 1920 i governanti della nuova Repubblica
Polacca, insoddisfatti per i confini definiti da Versailles, decisero di profitttare della debolezza del
nuovo governo russo, appena uscito dalla guerra civile, per recuperare i territori appartenuti alla
“grande Polonia” due o tre secoli prima. Fra maggio e giugno l'esercito polacco dilagò entro i confini
russi. La reazione fu rapida ed efficacia: ai primi di agosto l'armata rossa giunse fino alle porte di
Varsavia, ma a fine agosto, una controffensiva polacca costrinse i russi a una veloce ritirata. Si giunse,
nel dicembre del 1920, alla conclusione di un armistizio e quindi alla pace nel 1921. La Polonia
incorporò grandi zone della Bielorussia e dell'Ucraina. Questa guerra aveva sccresciuto, in Russia, il
senso di coesione nazionale, riavvicinando molti oppositori al regime sovietico, identificato con una
nuova “patria socialista” .
Con l'insurrezione d'ottobre e con la vittorua della guerra civile, i bolscevichi avevano fatto nascere
il primo Stato socialista in un paese profondamente arretrato e circondato da potenze ostili. I dirigenti
bolscevichi sostenevano che questa fosse una situazione transitoria e che a lungo andare il regime
comunista sarebbe potuto sopravvivere solo con l'aiuto del proletariato dell'Europa più progredita,
quello tedesco in particolare. In questo clima Lenin decise di sostituire la vecchia Internazionale
socialista con una nuova Internazionale comunista, che coordinasse gli sforzi dei partiti rivoluzionari
di tutto il mondo e rappresentasse la rottura definitiva con la socialdemocrazia europea. Già nel marzo
del 1918 i bolscevichi cambiarono il nome del partito in Partito comunista (bolscevico) di Russia. La
riunione costitutiva dell'Internazionale comunista, Terza Internazionale, ebbe luogo a Mosca nel 1920,
i partecipanti rappresentavano 69 partiti operai di ogni parte del mondo. Il problema principale del
congresso furono le condizioni a cui i partiti dovevano sottostare per essere ammessi
all'Internazionale, fu lo stesso Lenini a porre le condizioni in un documento di ventuno punti: i partiti
si sarebbero dovuti ispirare al modello bolcevico, cambiare il nome in Partito Comunista, difendere
tutte le cause della Russia sovietica, rompere le correnti riformiste. Fra la fine del '20 e l'inizio del '21
fu raggiunti lo scopo del II congresso: creare una rete mondiale di partiti ricalcati sul modello
bolcevico e fedeli alle direttive del partito guida; fare della Russia sovietica il centro del comunismo
mondiale; impegnare i partiti rivoluzionari di tutti i paesi a difesa della “patria del socialismo”. In
tutta l'Europa occidentale i partiti comunisti rimasero minoritari rispetto a quelli socialisti, per cui il
legame al Partito bolcevico e con la Repubblica dei soviet divenne un limite per l'espansione dei
partiti.
Quando i comunisti presero il potere l'economia russa si trovava in uno stato di gravissimo dissesto:
il decreto sulla terra aveva provocato la nascita di moltissime piccole aziende che producevano
soprattutto per l'autoconsumo; mole industrie furono lascite ai vecchi imprenditori, sotto la
sorveglianza dei consigli operai; altre furono gestite dagli stessi lavoratori; altre furono sottoposte al
controllo statale.Sul piano finanziario le banche furono nazionalizzate e i debiti esteri cancellati; il
governo però non riusciva a riscuotere tasse ed era costretto, per le esigenze più urgenti, a stampare
carta moneta priva di valore. Si finì col tronare al baratto e le retribuzioni vennero pagate in natura.
Dall'estate del '18 i bolscevichi cercarono di attuare in campo economico una politica energica ed
autoritaria, successivamente definita comunismo di guerra: inanzitutto si cercò di risolvere il
problema dell'approvigionamento alle città, così furono istituiti, in tutti i centri rurali, dei comitati col
compito di provvedere all'ammasso e alla distribuzione delle derrate. Fu incoraggiata, con scarco
successo, la formazione di comuni agricole volontarie, “fattorie collettive”, e furono istituite delle
fattorie sovietiche gestite dallo Stato o dai soviet locali. In campo industriale vi fu un decreto, nel
giugno del 1918, che nazionalizzava i settori più importanti, cio serviva per normalizzare la
produzione e per centralizzare le decisioni più importanti. Grazie al comunismo di guerra il governo
riuscì ad assicurare lo svolgimento di alcune funzioni essenziali della vita organizzata e ad armare e
nutrire il proprio esercito. Sul piano economico fu un totale fallimento: i tentativi di attuare un rigido
razionamento dei generi alimentari e di controllare gli scambi fra le città e la campagna si scontrava
con la scarsezza delle merci e con l'ostilità contadina. Per affrontare la necessità le autorità civili e
militari ricorrevano spesso a requisizioni indiscriminate, ma ciò portò solo ad aumentare il
malcontento generale: i contadini manifestarono sempre più la loro insofferenza dando vita,
nell'inverno del 1920-21, a vere e proprie sommosse. L'apice si ebbe nella primavera-estate del 1921
quando, a causa della guerra civile e della siccità, una terribile carestia colpì le campagne della Russia
e dell'Ucraina e causò almeno tre milioni di morti. Questo fu un duro colpo per l'immagine del regime
sovietico. Il dissenso cominciava a espandersi anche attraverso gli operai, stanchi per le privazioni
militari e delusi dalla gestione autoritaria dell'economia, dalla scomparsa dei sindacati e dal regime
di militarizzazione imposto nelle fabbriche. Nel marzo del 1921 si ribellarono i marinai della base di
Kronstadt, vecchia roccaforte dei bolscevichi. Alle richieste dei ribelli, che chiedevano maggiori
libertà politiche e sindacali, il governo rispose con una dura repressione militare. Nello stesso marzo
si tenne a Mosca il X Congresso del Partito comunista: sul piano politico segnò la fine di ogni aperta
dialettica all'interno del partito, vietando la costituzione di correnti organizzate; in materia economica
fu avviata una parziale liberalizzazione nella produzione e negli scambi. La nuova politica economica
(Nep) doveva soprattutto stimolare la produzione agricola e favorire l'approvigionamento alle città.
Ai contadini si consentiva di vendere le eventuali eccedenze, dopo aver consegnato agli organi statali
una quota fissa dei raccolti. La liberalizzazione si estese anche al commercio e alla piccola impresa
di beni di consumo. La Nep, però, ebbe diversi effetti sulla società: nelle campagne gli spazi concessi
all'iniziativa privata stimolarono la produzione, ma favorirono il riemergere dei contadini ricchi, che
arrivarono a controllare il mercato agricolo; la liberalizzazione del commercio produsse una nuova
classe di trafficanti più ricchi della maggioranza della popolazione urbana. Nelle città che si
ripopolavano aumentava la disoccupazione, e anche i lavoratori non avevano vita facile: i salari erano
bassi e la contrattazione era difficile a causa della mancanza dei sindacati,proprio la classe operaia,
principale sostegno del regime comunista, risultò la maggiore sacrificata dalle scelte della Nep.
La prima costituzione della Russia rivoluzionaria venne varata nel luglio del 1918 e rispiecchiava
l'originaria impostazione operaista e consiliare del gruppo dirigente bolscevico: si apriva con
“dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato”. Questa prevedeva, tra l'altro, che il nuovo
Stato avesse carattere federale, rispettasse l'autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all'unione,
su basi paritarie, con altre future repubbliche sovietiche. La prospettiva era di un'unica repubblica
socialista mondiale. Fra il '20 e il '22 si unirono la Repubblica Russa, comprendente anche la Siberia,
con l'Ucraina, la Bielorussia, l'Azerbaigian, l'Armenia e la Georgia, nelle quali i bolscevichi avevano
preso il potere dopo aver eliminato, con l'aiuto dell'Armata rossa, le altre forze politiche. Nel dicembre
del '22 i congressi dei soviet delle singole repubbliche decisero di dar vita all'Unione delle repubbliche
socialiste sovietiche, l'URSS. Approvata nel 1924, la nuova costituzione dell'Urss, dava vita ad una
complessa struttura istituzionale, il cui potere era affidato al Congresso dei soviet dell'Unione. Il
potere era in realtà nelle mani del partito, l'unico la cui esistenza era prevista dalla costituzione, esso
forniva le direttive idologiche e politiche, controllava la polizia politica, a proporre i candidati alle
elezioni dei soviet, che avvenivano su lista unica e con voto palese. Il partito era organizzato secondo
criteri di rigido centralismo; lo Stato , che si proclamava fondato sulla democrazia sovietica ossia
consiliare e sulla libera federazione fra diverse nazioni, finiva con l'essere governato dal gruppo
dirigente bolscevico. I comunisti miravano a cambiare la società nel profondo, a cancellare valori e
comportamenti tradizionali, a creare una nuova cultura. Lo sforzo dei bolscevichi si indirizzò su due
fronti: l'educazione della gioventù e la lotta contro la Chiesa ortodossa, in quanto istituzione e in
quanto espressione di una visione del mondo contrapposta a quella della dottrina marxista. La lotta
contro la Chiesa fu molto dura: confisca dei beni ecclesiastici, chiusura di chiese, arresti di capi
religiosi. La sua influenza non fu del tutto eliminata, essa, già prima della rivoluzione, era fortemente
indebolita e screditata per la lunga dipendenza dal vecchio ordine politico-sociale e non fu in grado
di opporre resistenza. A partire dal 1925 si adattò a vivere negli spazi limitati concessi dai comunisti.
Il governo stabilì fra i suoi primi atti il riconoscimento del solo matrimonio civile e semplificò al
massimo le procedure per il divorzio; nel '20 fu legalizzato l'aborto; fu proclamata l'assoluta parità tra
i sessi e la condizione dei figli illegittimi fu equiparata a quelli legitttimi. L'istruzione fu resa
obbligatoria fino ai 15 anni; la lotta contro l'analfabetismo venne accompagnata ad innovazioni nei
contenuti e nie metodi dell'insegnamento; si provò a collegare la scuola al mondo della produzione,
privilegiando l'istruzione tecnica a quella umanistica. Ci si preoccupò di formare ideologicamente i
giovani, incoraggiando l'iscrizione di massa all'Unione comunista della gioventù e facendo spazio in
tutti i livelli dell'istruzione dell'insegnamento della dottrina marxista. Parecchi intellettuali di
prestigio andarono a ingrandire la fila dell'emigrazione politica. Ma i più, soprattutto giovani,
cercarono di trasferire contenuti e valori rivoluzionari nei propri settori di attività: per alcuni la nuova
arte “proletaria” doveva essere al diretto servizio della politica di classe e aiutare i bisogni culturali
delle masse; per molti altri la rivoluzione nelle arti dveva essere parallela a quella politica e doveva
inanzitutto rompere con i canoni tradizionali e cercare nuove forme espressive. A partire dalla metà
degli anni '20 la libertà d'espressione artistica fu sempre più condizionata dalle preoccupazioni di
ordine propagandistico e dalla invadenza di un potere politico che diventava sempre più autoritario.
Nell'aprile del '22 l'ex commissario alle Nazionalità Josif Djugasvili, detto Stalin, fu nominato
segretario generale del Partito comunista dell'Urss. Poco dopo Lenin fu colpito dal primo attacco della
malattia che lo avrebbe portato alla morte nel gennaio del 1924. Lenin aveva controllato saldamente
il partito e aveva impedito che i contrasti del gruppo generassero in scontri. Con la morte di Lenin e
l'ascesa di Stalin le cose cambiarono rapidamente: i dissensi interni si fecero più aspri e si
intrecciarono con la lotta per la successione. Il primo grave scontro ebbe come oggetto il problema
della centralizzazione e della burocratizzazione del partito e degli enormi poteri che si accumulavano
nelle mani di Stalin. Protagonista della battaglia volta a limitare le prerogative dell'apparato e a ridare
spazio alla democrazia sovietica nella conduzione del partito e dello Stato fu Trotzkij, egli era il più
autorevole e popolare dopo Lenin, ma era anche isolato rispetto agli altri leader, che respinsero le sue
critiche e fecero blocco col segretario generale, il quale rafforzò la sua posizione. Lo scontro fra
Trotzkij e Stalin, cominciato nel '23 e accentuatosi dopo la morte di Lenin, verteva non solo riguardo
la burocratizzazione. Trotzkij collegava l'involuzione del partito all'isolamento internazionale dello
Stato sovietico, per cui l'Unione sovietica doveva sia accellerare i suoi ritmi di industrializzazione,
sia favorire l'estendersi del processo rivoluzionario nell'Occidente capitalistico. Quasta tesi venne
coniata con l'espressione rivoluzione permanente. Stalin, d'altra parte, non rinnegando del tutto la
teoria tradizionale, sosteneva che, nei tempi brevi, la vittoria del socialismo in un solo paese era
possibile e probabile e che l'Unione sovietica aveva le forze sufficienti per fronteggiare l'ostilità del
mondo capitalistico. Questa teoria rompeva con il pensiero sempre affermato dai bolscevichi, ma si
adattava alla situazione reale, che non consentiva più l'illusione di una rivoluzione mondiale, e offriva
al paese lo stimolo di un richiamo patriottico. Fra il '24 e il '25 le potenze europee decisero di
riconoscere lo Stato sovietico e di instaurare con esso normali rapporti diplomatici. Ciò confermò le
tesi di Stalin, isolando ancora di più Trotzkij. Un'ulteriore scontro fu offerto dal dibattito sulla politica
economica. A partire dal '25 Zinov'ev e Kamenev si pronunciarono per un'interruzione della Nep, che
secondo loro stava facendo rinascere il capitalismo tra i contadini e proposero un rilancio
dell'industrializzazione a spese degli strati contadini privilegiati. La tesi opposta, favorevole al
prosecuzione della Nep e all'incoraggiamento alla piccola impresa agricola, fu sostenuta da Bucharin
appoggiato da Stalin. Zinov'ev e Kamenev si riaccostarono a Trotzkij e cercarono, con lui, di
organizzare un fronte unico di opposizione. I leader dell'opposizione furono dapprima allontanati
dall'Ufficio politico e dal Comitato centrale e nel '27 espulsi dal partito. I loro seguaci furono
persecuitati e incarcerati, Trotzkij fu deportato in una località dell'Asia centrale e poi espulso dall'Urss.
Con la sconfitta dell'opposizione di sinistra si chiudeva la prima fase della rivoluzione comunista, la
fase “eroica” della costituzione del nuovo Stato.
7CAPITOLO: L'EREDITà DELLA GRANDE GUERRA
La guerra era stata un'esperienza di massa senza precedenti e fece sentire i suoi effetti in ogni campo
della vita sociale; tutti i valori tradizionali ne furono scossi. Il problema maggiore che i governi si
trovarono di fronte fu quello dell'inserimento dei reduci. La politica si fece sempre più un fenomeno
di massa. Dappertutto si diffondevano le aspirazioni al cambiamento, sia di tipo rivoluzionario, sia
sotto forma di generiche aspirazioni alla pace e alla giustizia sociale.
Tutti i paesi belligeranti europei uscirono dal conflitto in condizioni di gravissimo dissesto economico:
in Italia, Francia, Germania le spese per il conflitto furono pari al doppio del prodotto nazionale
dell'ultimo anno di pace, in Gran Bretagna il triplo. Per far fronte alle spese i governi alzarono le tasse,
avevano fatto appello al patriottismo dei risparmiatori lanciando sottoscrizioni e prestiti nazionali e
allargando a dismisura il debito pubblico. Inoltre contrassero massici debiti con i paesi amici, in primo
luogo gli U.S.A. Né le tasse né i debiti riuscirono a coprire le spese di guerra. I governi quindi
sopperirono al fabbisogno di denaro stampando carta moneta in eccedenza e mettendo in moto un
rapido processo di inflazione, fenomeno quasi sconosciuto fino ad allora. Fra il 1915 e il 1918 i prezzi
crebbero di 3.5 in Francia, 2.5 in Italia, di 2 in Germania e Gran Bretagna. Nei primi due anni di
dopoguerra questo processo portò ad uno sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle
gerarchie sociali. La guerra aveva creato fortune improvvise agli industriali e agli speculatori,
l'inflazione però distruggeva posizioni economiche solidissime (proprietari di terre o di case) ed
erodeva i risparmi dei ceti medi; gli operai dell'industria riuscirono meglio a difendere le loro
retribuzioni reali meglio di impiegati e di dipendenti pubblici;ovviamente ci furono tensioni diffuse.
Inoltre i governi europei dovettero affrontare i complessi problemi legati al passaggio da un'economia
di guerra ad una di pace. Quattro anni di interruzione avevano colpito duramente la supremazia
commerciale europea: gli Stati Uniti e il Giappone avevano grandemente aumentato le esportazioni,
sostituendosi agli europei sui mercati dell'Asia e del Sud America. Paesi come l'Argentina, il Brasile,
il Canada, il Sud Africa e l'Australia, avevano sviluppato una loro industria allentando la dipendenza
dal vecchio continente. Gran Bretagna e Francia, tra l'altro, avevano perso molti partner commerciali
europei, economicamente stremat come la Germania, isolati come la Russia, smembrati come
l'Impero Austo-Ungarico. Invece del programma di libero mercato proposto da Wilson, si ebbe una
ripresa del nazionalismo economico e del protezionismo doganale, soprattutto da parte dei nuovi Stati
che volevano sviluppare la propria industria. Per non aggravare la situazione i governi dovettero
mantenere per tempi più o meno lunghi il blocco sui prezzi di prima necessità e sui canoni d'affitto.
Il sostegno dei poteri pubblici erano richiesti dagli industriali che dovevano riconvertirsi alle attività
di pace. Rimasero in vita molti apparati burocratici che si occupavano dal controllo dei prezzi alle
pensioni di guerra. Grazie al sostegno dello Stato, accordato, ad esempio, sotto forma di dazi protettivi
o di nuove commesse per la riscostruzione civile, l'industria europea riuscì in un primo tempo a
mantenere o incrementare i livelli produttivi degli anni di guerra. Questa espansione durò meno di
due anni e fu seguito da una fase depressiva che provocò la crisi di molte imprese e l'aumento della
disoccupazione.
Tra la fine del 1918 e l'inizio del 1920, il movimento operaio europeo fu protagonista di un'impetuosa
avanzata politica che assunse a tratti l'aspetto di una ventata rivoluzionaria. I lavoratori diedero vita
a un'imponente ondata di agitazioni che consentì agli operai dell'industria di difendere o migliorare i
livelli delle loro retribuzioni e di ottenere fra l'altro la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore
giornaliere a parità di salario. Le lotte operaie del biennio rosso non si esaurirono nelle rivendicazioni
sindacali: alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che investivano
direttamente il problema del potere nella fabbrica e nello Stato. Si formarono consigli operai che
scavalcavano le organizzazioni tradizionali e che, sull'esempio dei soviet, si proponevano come
rappresentanze del proletariato e come organi di governo della futura società socialista. In Francia e
Gran Bretagna le classi dirigenti riuscirono a contenere le pressioni del movimento operaio; in
Germania, Austria e Ungheria, dove le tensioni si sommavano ai traumi della sconfitta e del
cambiamento di regime, ci furono veri e propri tentativi rivoluzionari, rapidamente stroncati. Ciò che
era stato possibile in Russia non fu possibile i Europa, dove borghesia e capitalismo erano solo stati
trasformati dalla guerra e dove il movimento operaio era legato a una lunga esperienza di operazione
pacifica all'interno delle istituzioni. La rivoluzione Russa, se da un lato aveva ispirato le avanguardie
rivoluzionarie, dall'altro aveva accentuato la frattura fra queste avanguardie e il movimento operaio,
legato ai partiti socialdemocratici e alle grandi centrali sindacali.
GERMANIA: al momento della firma dell'armistizio, lo Stato tedesco si trovava in una situazione
rivoluzionaria. L'esercito, ripiegato sulle linee del Reno , si disgregò e molti soldati si portarono con
sé le armi. Il governo legale era esercitato da un Cosiglio dei commissari del popolo presieduto dal
socialdemocratico Ebert, composto solo dai socialisti. Nelle città padroneggiavano i consigli degli
operai e dei soldati, che occupavano aziende e sedi giornali, requisivano vivere da redistribuire alla
popolazione, dettavano le condizioni agli industriali e ai rappresentanti dei poteri legali. A Berlino si
susseguivano le manifestazioni e gli scontri in piazza. La situazione poteva sembrare simile a quella
Russa del '17 ma le differenze erano notevoli: c'erano gli eserciti vincitori schierati lungo il Reno
pronti a intervenire per bloccare ogni sviluppo rivoluzionario; mancava una mobilitazione delle masse
rurali, ostili ai movimenti urbani; la classe dirigente era, rispetto a quella russa, più numerosa e meglio
radicata nella società. Al contrario dei menscevichi, i socialdemocratici avevano una lunga tradizione
di lotte legali, controllavano le centrali sindacali, dopo la dissoluzione dell'esercito erano l'unica forza
organizzativa presente nel paese. I leader erano contrari erano contrari ad una rivoluzione come quella
dei bolscevichi, ma favorevoli a una democratizzazione del sistema politico entro il quadro delle
istituzioni parlamentari. Si creò una convergenza fra i capi della Spd e gli esponenti della vecchia
classe dirigente che vedevano nella forza socialdemocratica un argine efficacie contro la rivoluzione.
I capi dell'esercito stabilirono con i leader socialdemocratici una sorta di patto, impegnandosi a servire
lealmente le istituzioni repubblicane in cambio di garanzie circa la tutela dell'ordine pubblico e il
mantenimento della tradizionale struttura gerarchica delle forze armate. La linea della Spd si scontrò
con le correnti radicali del movimento operaio: gli indipendenti dell'Uspd e soprattutto i rivoluzionari
della Lega di Spartaco. Questi si opponevano alla convocazione della Costituente e puntavano tutto
sui consigli, visti come cellule di una nuova democrazia socialista. Il 5 e il 6 del 1919 centinaia di
migliaia di berlinese scesero in piazza contro la destituzione di un esponente della sinistra della carica
di capo della polizia della capitale. I dirigenti spartachisti e alcuni leader indipendenti ne
approfittarono per diffondere un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo.
Ciò non avvenne e la rivolta fu stroncata dal commissario alla Difesa Gustav Noske, che fece
intervenire squadre volontarie, i Freiskorps o corpi franchi, formate da soldati smobilitati e inquadrate
da ufficiali di orientamento nazionalista e conservatore. Essi schiacciarono col sangue la rivolta e i
leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, furono arrestati e uccisi. Il
19 gennaio si tennero le elezioni per l'Assemblea costituente: assenti i comunisti, i socialdemocratici
risultarono il partito più forte ma non ottennero la maggioranza, così dovettero cercare l'accordo con
i cattolici del Centro o i partiti di matrice liberale che avevano dominato il parlamento in età imperiale.
L'accordo fra socialisti, cattolici e democratici portò all'elezione di Ebert alla presidenza della
Repubblica e il varo della costituzione repubblicana. Essa prevedeva il mantenimento della struttura
federale dello Stato, il suffragio universale maschile e femminile, un governo responsabile di fronte
al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto dal popolo. All'inizio di Marzo vi furono nuovi
disordini a Berlino, repressi nuovamente col sangue, e in primavera il fulcro del movimento
rivoluzionario si spostò in Baviera, dove comunisti e indipendenti avevano proclamato una
Repubblica dei consigli, stroncata alla fine di aprile con l'intervento dell'esercito e dei corpi franchi.
Pericolosa era la minaccia dell'estrema destra: dai militari smobilitati inquadrati nei corpi franchi e
dai capi dell'esercito, inclini a dimenticare il loro impegno di lealtà alle istituzioni repubblicane.
Nell'autunno del '18 proprio quei generali, diffusero la leggenda della pugnalata alla schiena, secondo
cui l'esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse stato tradito da una parte
del paese; anche se era una leggenda servì comunque a gettare discredito aulla Repubblica nata dalla
sconfitta e sulla classe dirigente che aveva firmato la pace. Nelle elezione del giugno 1920 la Spd
subì una grave sconfitta e la guida del governo passò ai cattolici del Centro. Nonostante i drammatici
eventi che ne avevano segnato la nascita, la Repubblica di Weimar rappresentò un modello di
democrazia parlamentare aperta e avanzata, si respirava un clima di grande libertà e che faceva
contrato con l'atmosferma chiusa e conformista dell'età guglielmina. Molti erano però i fattori che
contribuivano a indebolire il sistema repubblicano: il più evidente stava nell'accentuata
frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi, e nell'assenza di una
potenza egemone, capace di di dominare le mobilitazioni sociali, di guidare il paese nella crisi di
trasformazione che stava attraversando. L'unica forza che poteva assumersi questo compito era la
socialdemocrazia che si riunì in un unico partito nell'estate del '22 con la confluenza dell'Uspd nella
Spd. Esso rimase il partito più forte e fece sempre sentire il suo peso nella vita politica ma non riuscì
mai ad allargare i suoi consensi oltre l'elettorato operaio. Le classi medie si riconoscevano nel Centro
cattolico e in parte maggiore nella destra conservatrice e moderata: Partito popolare tedesco-nazionale
e il partito tedesco-popolare. Il Partito democratico fu inizialmente appoggiato da numerosi
intellettuali e aveva lo scopo di avvicinare i ceti medi con le istituzioni repubblicane, in poco tempo
si ridusse ad una forza marginale. Tutto ciò dimostrava che anche buona parte della media e piccola
borghesia era diffidente nei confronti del sistema democratico. Per i ceti medi l'età imperiale veniva
visto come un periodo di tranquillità, di prosperità e rispetto per le tradizioni e le gerarchie consolidate;
al contrario la Repubblica era associata alla sconfitta, all'umiliazione di Versailles. Nella primavera
del 1921 si stabilì l'ammontare delle riparazioni che consisteva in 132 miliardi di marchi-oro da
pagare in 42 rate annuali, i tedeschi avrebbero dovuto privarsi per quasi mezzo secolo di ¼ del
prodotto nazionale per assolvere un impegno a cui la popolazione non riconosceva leggittimità. I
gruppi dell'estrema destra nazionalista scatenarono un'offensiva terroristica contro la classe dirigente
repubblicana colpevole di essersi piegata alle imposizioni dei vincitori: nel '21 fu ucciso il ministro
delle Finanze Matthias Erzberger, del Centro cattolico,in quanto aveva firmato l'armistizio; nel '22 fu
ucciso il ministro degli Esteri Walther Rathenau, esponente del partito democratico, che stava
cercando di raggiungere un accordo con le potenze vincitrici. I governi di coalizione che si
succedettero fra il '21 e il '23 pagarono comunque le prime rate, ma evitarono interventi drastici sulle
tasse e sulla spesa pubblica: quindi furono costretti ad aumentare la stampa di carta-moneta attivando
un rapido processo di inflazione (nel '21 1 dollaro = 15 marchi, nel '22 1 dollaro = 500 marchi)
AUSTRIA: furono i socialdemocratici, soprattutto a Vienna, a governare il paese nelle fasi del
trapasso di regime, mentre i comunisti tentarono più volte la carta dell'insurrezione. Nel 1920 le
elezioni videro prevalere il voto clericale e conservatore delle campagne e la maggioranza assoluta
andò al Parito cristiano-sociale.
UNGHERIA: i socialisti si unirono ai comunisti per instaurare, nel marzo del 1919,una Repubblica
sovietica, che attuò una politica di dura repressione nei confronti della borghesia e dell'aristocrazia
agraria. La Repubblica durò quattro mesi, ai primi di agosto, il regime guidato da Bèla Kun cadde
sotto le forze conservatrici guidate dall'ammiraglio Miklòs Horthy e delle truppe rumene, che avevano
invaso il paese con l'aiuto di Francia e Inghilterra. Horthy si insediò al potere scatenando un'ondata
di terrore bianco. Così il paese cadde sotto un regime autoritario sorretto dalla Chiesa e dai grandi
proprietari terrieri.
FRANCIA: la maggioranza di centro-destra che controllò il governo dal '19 in poi attuò una politica
fortemente conservatrice, che faceva ricadere sulle classi popolari il peso della ricostruzione. Nella
primavera del '24 i radicali di sinistra uniti ai socialisti in una coalizione elettorale (il cartello delle
sinistre), tolsero la maggioranza ai moderati e portarono alla presidenza del Consiglio il loro leader
Edouard Herriot. Il governo, però, non riuscì ad affrontare la gravissima crisi finanziaria, accentuata
dalla fuga di capitali verso l'estero. Così nel luglio del '26 la guida del governo fu assunta dal leader
dei moderati, l'ex presidente della Repubblica Raymond Poincarè. Egli riuscì a stabilizzare il corso
della moneta e a risanare il bilancio statale aumentando le pressioni fiscali sui consumi popolari. In
questi anni la Francia conobbe un vero boom economico, incrementando la produzione in alcuni
settori-chiave come il chimico e il meccanico.
GRAN BRETAGNA: generale ristagno produttivo protrattosi per tutti gli anni '20, nel '29 l'indice
della produzione industriale era pari a quello del 1914. Anche qui furono le forze moderate a guidare
il paese: fra il 1918 i il 1924 i conservatori furono al potere, salvo un breve intervallo nel 1924, quando
l'affermazione dei laburisti consentì la formazione di un governo guidato per la prima volta da un
esponente del Labour Party: James Ramsay Mac Donald. I conservatori riuscirono a spezzare la
maggioranza che lo appoggiava e riuscirono anche a provocare lo scioglimento della Camera e a
vincere le elezioni successive nel novembre del '24. Data la secca sconfitta dei liberali, i laburisti si
affermarono come unica opposizione ai conservatori. Essi avviarono una politica di austerità
finanziaria e di contenimento dei salari che li portò a un forte scontro con i sindacati. Nel 1926 un
milione di minatori entrò in sciopero chiedendo aumento dei salari e la nazionalizzazione del settore
minerario: dopo sette mesi di lotta, i minatori dovettero cedere. Il governo cercò, allora, di profittare
di questa sconfitta storica per minare le basi stesse dei laburisti: vietò gli scioperi di solidarietò e fu
dichiarata illegale la pratica per cui gli aderenti alla Trade Unions venivano iscritti direttamente al
Labour Party. I laburisti subirono un grave colpo, ma riuscirono ad affermarsi nuovamente nelle
elezioni del 19129: si formò un nuovo governo laburista con a capo sempre Mac Donald ma destinato
a vita breve per il sopraggiungere della crisi economica mondiali del 1929-30.
Nel gennaio del 1923, la Francia e il Belgio, traendo pretesto del mancato pagamento di alcune
riparazioni in natura, occuparono il bacino della Ruhr, la zona più ricca ed industrializzata della
Germania. Lo scopo ufficiale era di controllare la consegna dei materiali dovuti, ma il vero obiettivo
era di evitare ogni volontà tedesca di sottrarsi al pagamento delle riparazioni. Il governo incoraggiò
la resistenza passiva: imprenditori e operai di quelle zone abbandonarono le fabbriche rifiutando la
collaborazione con gli occupanti. Gruppi clandestini composti soprattutto da membri dei disciolti
corpi franchi organizzarono attentati e sabotaggio contro i franco-belgi che reagirono con fucilazioni
e arresti di massa. Questa occupazione rappresentò il definitivo tracollo finanziario, in quanto privava
il paese della parte più redditizia e costringeva il governo a nuove spese per la resistenza passiva con
sussidi a imprese e lavoratori. Il marco crollò ulteriormente: nel novembre 1 dollaro arrivò ad
equivalere a 4000 miliardi di marchi. Lo Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e
con valore nominale più alto, ma chi riceveva pagamenti in moneta svalutata se ne liberava prendendo
qualsiasi cosa e la circolazione di questi alimentava l'inflazione. Avvantaggiati furono i possessori di
beni reali, quali agricoltori, industriali e commercianti, e tutti quelli indebitati e doppiamente
avvantaggiati furono gli industriale che producevano per l'esportazione, pagati in moneta straniera;
l'industria tedesca, in questo periodo, riuscì a conquistarsi nuovi mercati e ad aumentare profitti e
investimenti. Nell'agosto del '23 si formò un governo di coalizione che comprendeva tutti i gruppi
costituzionali e presieduto da Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco-popolare: egli era
convinto che per far rialzare la Germania era necessario un accordo con le potenze vincitrici. In
settembre fu ordinata la fine della resistenza passiva e così vennero riallacciati i rapporti con la
Francia, subito dopo venne dichiarato lo stato d'emergenza e servì per sciogliere i governi regionali
di Sassonia e della Turingia, per bloccare l'insurrezione comunista ad Amburgo e per fronteggiare la
ribellione della destra nazionalista che aveva il suo centro in Baviera. A Monaco, nella notte fra l'8 e
il 9 novembre del '23, alcune migliaia di aderenti al Partito nazionalsocialista, cercarono di
organizzare un'insurrezione contro il governo. Il complotto non ottenne l'appoggio sperato dei militari
e delle autorità locali e fu represso. Hitler fu condannato a 5 anni di carcese. Nell'ottobre del '23 fu
emessa la nuova moneta Rentenmark, il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale
del paese; nel contempo fu attuata una politica deflazionistica. L'accordo con le potenze vincitrici fu
trovato all'inizio del '24, sulla base di un piano elaborato da un finanziere e politico americano:
Charles G.Dawes: la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se avesse potuto attivare
al meglio la sua macchina produttiva, quindi le rate furono diluite nel tempo e che la finanza
internazionale, soprattutto quella statunitense, sovvenzionasse lo Stato tedesco con una serie di
prestiti a lunga scadenza: l'industria tedesca tornò ai primi posti nel mondo per volume di produzione.
La coalizione guidata da Stresemann si ruppe alla fine del '23, le elezioni del '24 segnarono un calo
dei pertiti democratici e un aumento delle ale estreme, sia comuniste sia nazionaliste che avevano
impostato le campagne sul rifiuto del piano Dawes. Nel marzo del '25 nelle elezioni per eleggere il
successore Ebert, il cattolico Marx venne abbattuto dal maresciallo Hindenburg, capo dell'esercito e
simbolo del passato imperiale. I partiti di centro e centro-destra mantennero il potere fino al 1928,
quando i socialdemocratici riassunsero la guida del governo. Stresemann conservò fino alla morte
(1929) la carica di ministro degli Esteri, assicurando così la collaborazione con i vincitori.
In questo quadro la Francia si sentì tradita dai suoi avversari e cercò di costruirsi il proprio sistema di
sicurezza, legando a sé con una rete di alleanze con i paesi dell'Europa centro-orientale avvantaggiati
dal trattato di Versailles e contrari ad una possibile revisione dell'assetto europeo: Polonia,
Cecoslovacchia, Jugoslavia, Romania che nel '21 si erano unite in un'alleanza definita Piccola Intesa.
Ma questa non bastò e i governanti francesi pretesero il rispetto integrale delle clausole di Versailles.
Quando i tedeschi accettarono il piano di Dawes, si inaugurò una fase di distinzione e collaborazione
fra le due potenze che ebbe i suoi maggiori protagonisti in Stresemann e nell ministro degli Esteri
francese Aristide Briand. Avevano obiettivi ben diversi: Briand voleva fondare su basi stabili
l'equilibrio di Versailles mentre Stresemann cercava di superare quell'equilibrio per riportare la
Germania a una condizione di grande potenza. Alla base del loro patto vi era la volontà comune di
superare le fratture della guerra, di normalizzare i rapporti tra vincitori e vinti sulla base di impegni
leberamente sottoscritti in un quadro di sicurezza collettiva. Il risultato più importante dell'intesa
franco-tedesca fu rappresentata dagli accordi di Locarno dell'ottobre del 1925, dove venivano
riconosciuti da Germania, Francia e Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles e nell'impegno
di Gran Bretagna e Italia a farsi garanti contro violazioni. La Francia otteneva una garanzia
internazionale sui soi confini; la Germania accettava la perdita dell'Aslazia-Lorena. Nel 1926 la
Germania fu ammessa nella Società delle Nazioni e nel 1929 un nuovo piano, elaborato
dall'americano Owen D.Young, ridusse ulteriormente l'entità delle riparazioni e ne graduò il
pagamento in sessant'anni. Nel giugno del 1930 le ultime truppe francesi si ritirarono dalla Renania
e il governo tedesco rinnovò l'impegno di lasciare la regione smilitarizzata. Nell'estate del 1928 il
clima di distensione trovò conferma, quando i rappresentanti di quindici Stati, fra cui Germania e
Unione Sovietica, riuniti a Parigi su iniziativa di Briand e del segretario di Stato americano Frank
Kellog, firmarono un patto con cui si impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere
le contriversie. Nel settembre del 1930 la Francia diede il via alla costruzione di una fortificazione
difensiva (linea Maginot) lungo il confine con la Germania.
8CAPITOLO: IL DOPOGUERRA IN ITALIA E L'AVVENTO DEL FASCISMO.
Anche l'Italia presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme di alcuni settori
industriali con problemi di riconversione; sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo
del bilancio statale; inflazione. La classe operaia, tornata alla libertà sindacale e influenzata dalla
rivoluzione Russa, chiedeva miglioramenti economici e maggiore potere in fabbrica. I contadini,
tornati dalla guerra con maggiore consapevolezza dei propri diritti, erano insofferenti dei vecchi
equilibri sociali ed erano decisi ad ottenere dalla classe dirigente le promesse fatte nel corso del
conflitto. I ceti medi tendevano ad organizzarsi e a mobilitarsi per difendere i loro interessi e i loro
ideali patrottici. In Italia questi problema si presentarono in maniera più acuta rispetto agli altri paesi
anche perchè il processo di democratizzazione era agli inizi, il modo stesso in cui era stato deciso
l'intervento, contro l'orientamento delle masse popolari e della maggioranza parlamentare, aveva
provocato grandi fratture nel paese. A guerra finita la classe dirigente colepovele di essere entrata in
guerra, si trovò sempre più isolata e contestata e finì col perdere l'egemonia di cui aveva goduto fino
allora. Le forze socialiste e cattoliche risultarono favorite.
I cattolici diedero vita, nel 1919, ad una nuova formazione politica con il Partito popolare italiano,
Ppi, che ebbe come suo leader don Luigi Sturzo. Si presentava con un programma di impostazione
democratica e pur ispirandosi apertamente alla dottrina catollica si dichiarava aconfessionale, ma in
realtà era strettamente legato alla Chiesa e alla sua struttura. La sua nascita era correlata alla nuova
visione del papa e della gerarchia ecclesiastica, in quanto sentivano la minaccia socialista. Accanto
agli eredi della democrazia cristiana e ai capi delle leghe bianche erano confluiti anche gli esponenti
delle linee clerico-moderate che avevano guidato il movimento Cattolico nell'anteguerra. Esso
rappresentò una grande novità. L'altra grande novità fu l'espansione delle iscrizioni al Partito
Socialista che arrivò alla fine del '20 a 200.000 iscritti. All'interno prevalse l'ala massimalista su quella
riformista che conservava una posizione di forza nel gruppo parlamentare e nelle organizzazioni
economiche. I massimalisti, con leader il direttore dell' “Avanti!” Giacinto Menotti Serrati,si
ponevano di instaurare una repubblica socialista, su stampo bolscevico, fondato sulla dittatura del
proletariato: essi erano però passivi, infatti più che preparare la rivoluzione la aspettavano,
considerandola inevitabile. In polemica con essi, si formarono all'interno del Psi gruppi di estrema
sinistra che si battevano per un impegno rivoluzionario attivo ed ad una adesione più stretta all'
esempio russo. Ad esempio quello napoletano, con a capo Amedeo Bordiga e quello torinese, con a
capo Antonio Gramsci che operava attorno alla rivista “L'Ordine Nuovo”. Bordiga puntava alla
creazione di un nuovo partito rivoluzionario ricalcato sul modello bolscevico, Gramsci, invece, era
affascinato dall'esperienza dei soviet, visti come strumenti di lotta contro l'ordine borghese e come
embrioni della società socialista. Questa radicalizzazione però finì con l'isolare il movimento operaio
e col ridurne l'azione politica. Allo stesso tempo si formarono numerosi gruppi e gruppuscoli dell'
oltranzismo nazionalista che si proponevano di difendere i valori della vittoria: in particolare spiccava
quello fondato a Milano da Benito Mussolini il 23 marzo 1919 con il nome di Fasci di combattimento.
Questo si schierava a sinistra, chiedeva audaci riforme sociali e si dichiarava favorevole alla
repubblica. Ma si fece subito notare per il suo stile politico aggressivo e violento, insofferente di
vincoli ideologici e teso verso l'azione diretta. I fascisti furono protagonisti del primo episodio di
guerra civile postbellico: lo scontro con un corteo socialista a Milano il 15 aprile 1919 con conclusosi
con l' incendio della sede dell “Avanti!”.
L'Italia aveva raggiunto i sospirati confini naturali e inoltre aveva visto scomparire dalle sue frontiere
l'impero Asburgico. La dissoluzione dell'Austria-Ungheria poneva una serie di problemi non
contemplati durante la stipulazione del patto di Londra: in esso si stabiliva che la Dalmazia, abitata
soprattutto da slavi e rivendicata dalla Jugoslavia, fosse annessa all'Italia e che la città di Fiume,
abitata principalmente da italiani restasse all'impero Austro-Ungarico. Quindi i governanti italiani
dovevano scegliere se rispettare integralmente il patto di Londra o rinunciare ai vantaggi territoriali
in Dalmazia e puntare alla amicizia con la Jugoslavia. Alla conferenza di Versailles, presieduta dal
presidente del consiglio Orlando e dal ministro degli esteri Sonnino, si cercò di evitare questa scelta
chiedendo l'annessione di Fiume in base al principio di nazionalità, ma in aggiunta ai territori
promessi nel '15. Gli alleati in particolare Wilson si opposero e nell'aprile del '19, per protestare contro
l'atteggiamento del presidente americano, Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles e tornarono
in Italia, ma un mese dopo dovettero tornare a Parigi senza aver ottenuto nulla. Ciò segnò la fine del
governo Orlando che si dimise a metà giugno, nuovo ministero fu presieduto da Francesco Saverio
Nitti. Gli avvenimenti della primavera del '19 avevano suscitato in gran parte dell'opinione pubblica
borghese ostilità verso gli ex alleati, accusati di voler defraudare l'Italia dei frutti della vittoria, e verso
la stessa classe dirigente, considerato incapace di tutelare gli interessi nazionali. Si parlò di vittoria
mutilata: espressione coniata da Gabriele D'Annunzio, ormai assurto a ruolo di vate nazionale. Nel
settembre del '19 alcuni reparti militari ribelli insieme a gruppi volontari, sotto il comando di
D'Annunzio occuparono la città di Fiume e ne proclamarono l'annessione all' Italia. A Fiume si
diedero convegno i personaggi più disparati: da alti ufficiali inclini al colpo di stato a giovani idealisti
avventurieri, da nazionalisti e antichi sovversivi a esuli di diverse nazionalità che protestavano contro
il trattato di versailles. Inoltre a Fiume maturò il piano di una marcia che avrebbe dovuto concludersi
a Roma con la cacciata del governo.
Fra il '19 e il '20 l'Italia affrontò una serie di agitazioni sociali e di mutamenti negli equilibri politici.
Fra il '18 e il '20 i prezzi continuarono a salire e fra il giugno e il luglio del '19 nelle grandi città si
svilupparono tumulti contro il caro-vivere; in generale l'aumento del costo della vita sctenò un'ondata
di agitazioni sindacali riguardanti l'equilibrio tra salari e prezzi. Gli scioperi nell'industria passarono
da 300 nel '18 a 1660 nel '19; anche il settore dei servizi pubblici, meno sindacalizzato, fu
caratterizzato da numerosi scioperi, furono soprattutto questi che suscitarono disagio nell'opinione
pubblica e a provocare le prime reazioni contro la “scioperomania”. Inoltre vi erano le lotte dei
lavoratori agricoli: in Bassa Padania, dove prevaleva il bracciantato e dove le leghe rosse erano la
rappresentanza sindacale, e nelle altre aree del Centro-Nord, in cui dominavano la mezzadria e la
piccola proprità terriera in cui erano attive le leghe bianche cattoliche. Spesso si battevano entrambe
per le stesse rivendicazioni immediate ma erano assai differenti riguardo gli obiettivi a lungo termine:
le leghe rosse insistevano sul programma di socializzazione della terra, mentre le bianche difendevano
la mezzadria e le altre forme di compartecipazione e si battevano per lo sviluppo della piccola
proprietà contadina. L'aspirazione alla proprietà della terra interessò anche il movimento
dell'occupazione di terre incolte, sviluppatosi nel Centro-Sud. Nel novembre del 1919, si svolsero le
prime elezioni del dopoguerra: furono le prime elezioni tenute col metodo della rappresentanza
proporzionale con scrutinio di lista, metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito e che
assicurava alle liste un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti e favoriva i gruppi organizzati
su base nazionale. I gruppi liberal-democratici persero la maggioranza assoluta e passarono a 200
seggi; i socialisti si affermarono come primo partito con 156 seggi, seguiti dai popolari con 100
deputati. Ciò mostrava che il sistema politico non era capace né di reggersi secondo il vecchio
equilibrio né di esprimerne uno nuovo, anche a causa della nuova legge elettorale che, riproducendo
fedelmente la tendenza dell'elettorato, non favoriva la formazione di una maggioranza omogenea.
Dato che il Psi si rifiutò di lavorare con i gruppi borghesi, la maggioranza si basò sull'accordo fra
popolari e liberal-democratici.
Date le elezioni, il ministero Nitti si sciolse nel 1920 e fu chiamato, a costituire il nuovo governo,
Giolitti. Egli era rimasto ai margini della politica negli anni della guerra ed era rispuntato alla vigilia
delle elezioni pronunciando un discorso a Dronero, in Piemonte: in esoo si proponeva, fra l'altro, la
nominatività dei titoli azionari e un'imposta straordinaria sui sovraprofitti dell'industria bellica. I
risultati più importanti del governo Giolitti furono ottenuti in politica estera:il 12 novembre 1920
venne firmato il negoziato con la Jugoslavia, il trattato di Rapallo, dove si decise che l'Italia avrebbe
tenuto Trieste, Gorizia e tutta l'Istria e la Jugoslavia ebbe la Dalmazia, con l'esclusione della città di
Zara che fu assegnata all'Italia. Fiume fu dichiarata città libera e D'Annunzio annunciò una resistenza
ad oltranza, ma quando il 25 dicembre del 1920 le truppe regolari attaccarono la città dalla terra e dal
mare, abbandonò la partita. Molte difficoltà furono incontrate da Giolitti sulla politica interna: il
governo impose, nonostante le pretese dei socialisti, la liberalizzazione del prezzo del pane e avviò
così il risanamento del bilancio statale;non riuscì ad attuare i piani di tassazione dei titolari di azioni
e dei profitti di guerra. A fallire fu soprattutto il disegno politico che consisteva nel ridimensionare le
spinte rivoluzionarie del movimento operaio accogliendone in parte le istanze di riforme: i conflitti
sociali conobbero il loro episodio più drammatico con l'agitazione dei metalmeccanici culminato
nell'occupazione delle fabbriche. Da un lato vi erano gli industriali del settore metalmeccanico,
ingranditosi con la guerra, minacciato dai primi segni di una crisi produttiva; dall'altro vi era una
categoria operaia compatta e combattiva, organizzata dalla Fiom, aderenti alla Cgil, ma che aveva
visto organizzarsi al di fuori del sindacato, l'esperimento rivoluzionario dei consigli di fabbrica,
ispirati all'”Ordine Nuovo” di Torino. Il sindacato presentò una serie di richieste economiche e
normative che vennero rifiutate dagli industriali, e alla fine di agosto, in risposta alla chiusura degli
stabilimenti da parte di un'azienda milanese, la Fiom ordinò di occupare le fabbriche. I lavoratori
speravano che il moto rivoluzionario si allargasse oltre le officine occupate, ma in realtà il movimenti
non era in grado di allargarsi e di collegarsi ad altre lotte sociali in corso. Nemmeno i gruppi più
coerentemente rivoluzionari, come quello di Torino, avevano idee precise sul modo in cui spostare il
movimento dalla vertenza sindacale all'attacco allo Stato: prevalse, così, la linea della Cgil, che
intendevano impostare lo scontro sul piano economico e proponevano il controllo sindacale sulle
aziende. Giolitti, il 19 settembre, riuscì a far accettare agli industriali un accordo che accoglieva le
richieste economiche della Fiom e affidava ad una commissione paritetica l'elaborazione di un
progetto per il controllo sindacale. In seguito, i dirigenti della Cgil furono accusati di aver svenduto
la rivoluzione in cambio di un accordo sindacale, ma anche la direzione massimalista del Psi era
attaccata dai gruppi di estrema sinistra per la sua precedente incertezza. Queste polemiche si
intrecciarono con le fratture provocate dal II Congresso del Comintern, dove erano state fissate le
condizioni di ammissione dei partiti all'Internazionale comunista. Serrati e i massimalisti rifiutarono
di sottostare alle condizioni, sia perchè considerate lesive all'autonomia del partito, sia perchè
sapevano che espellendo i riformisti avrebbero perso buona parte dei suoi sindacali, deputati e
amministratori locali. Al congresso del partito, tenutosi a Livorno nel gennaio del '21, i riformisti non
furono espulsi ma a distaccarsi fu la minoranza di sinistra che diede vita al Partito Comunista d'Italia.
Gli ultimi accadimenti segnarono la fine del biennio rosso: la classe operaia cominciò ad accusare i
colpi della crisi recessiva che investì l'economia italiana ed europea e che si tradusse in un aumento
della disoccupazione e in una perdita di potere contrattuale per i lavoratori. Fino all'autunno del '20 il
fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella vita politica e i suoi sostenitori erano
fondamentalmente gruppetti di matrice interventista a base urbana, intellettuale e piccolo-borghese.
Tra la fine del '20 e l'inizio del '21 il movimento subì un rapido processo di mutazione che lo portò a
rifondare il suo programma su strutture paramilitari a a porsi come obiettivo la lotta spietata contro il
movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Valle Padana. Questa
trasformazione va ricollegata alla decisione di Mussolini di profittare del riflusso antisocialista, e alla
situazione delle campagne padane, luogo in cui regnava la presenza delle leghe rosse. Durante il
biennio rosso, queste leghe avevano ottenuto miglioramenti salariali e avevano creato un sistema
apparentemente inattaccabile: sttraverso gli uffici di collocamento, controllavano il mercato del
lavoro, contrattando con i propietari il numero di giornate lavorative di ogni fondo e distribuendone
il carico fra i propri associati. I socialisti possedevano una rete di cooperative e buona parte delle
amministrazioni comunali, con le quali sostenevano le lotte dei salariati agricoli. Questo sistema non
era privo di aspetti autoritari e celava al suo interno punti di debolezza, fra i quali il contrasto fra la
strategia delle organizzazioni socialiste, che privilegiavano il ruolo dei salariati senza terra e miravano
alla socializzazione, e gli interessi delle categorie intermedie, mezzadri e piccoli affittuari che
miravano a distinguere la propria posizione da quella dei braccianti e a traformarsi in proprietari. La
nascita del fascismo agrario si fa risalire ai “fatti di Palazzo d'Accursio”, a Bologna, del 21 novembre
1920: i fascisti cercarono di impedire la cerimonia d'insediamento della nuova amministrazione
comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie, i socialisti incaricati di difendere il palazzo
spararono sulla folla composta principalmente da loro sostenitori e uccisero una decina di persone.
Tramite ciò i fascisti scatenarono una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. I socialisti
furono colti di sorpresa e non riuscirono a reagire adeguatamente. I proprietari terrieri scoprirono nei
fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli. Il
movimento fascista vide affluire nelle sue file numerose reclute: dagli ufficiali smobilitati ai figli
della piccola borghesia a giovani e giovanissimi. Il fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le
provicie padane, estendendosi nelle zone mezzadrili della Toscana e dell'Umbria e facendo qualche
comparsa nelle grandi città del Centro-Nord. Obiettivo delle spedizioni erano i municipi, le Camere
del lavoro, le sedi delle leghe, le Case del Popolo e gli stessi dirigenti o militanti socialisti, sottoposti
a violenze e spesso costretti a lasciare il proprio paese. Centinaia di leghe vennero sciolte e molti dei
loro aderenti furono indotti ad aderire a nuove organizzazioni fasciste, che promettevano di
incoraggiare la formazione della piccola proprietà coltivatrice. Il movimento operaio, nel 1921-22, si
trovò a combattere imparimente contro un nemico che godeva della neutralità o dell'appoggio di parte
della classe dirigente e degli apparati statali. Pesanti furono le responsabilità del governo: Giolitti
guardò con compiacenza lo sviluppo del movimento fascista, pensando di servirsene per ridurre a più
miti pretese i socialisti e di poterlo in seguito costituzionalizzare assorbendolo nella maggioranza.
Così si decise di convocare nuove elezioni per il maggio del '21 e di favorire l'ingresso dei candidati
fascisti nei blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi (conservatori, liberali e
democratici) costituzionalizzati si unirono per impedire l'affermazione dei partiti di massa. La
campagna elettorale fornì lo spunto ai fasciti per intensificare intimidazioni e violenze contro gli
avversari. I socialisti passarono dal 32 al 25% dei voti; i popolari si rafforzarono; i gruppi liberaldemocratici migliorarono le loro posizioni ma non riacquistarono il completo controllo del Parlamenti
e i fascisti ebbero 35 deputati, capeggiati da Mussolini.
All'inizio di Luglio Giolitti si dimise e il suo psto venne preso dall'ex socialista Ivanoe Bonomi, che
tentò di trovare una tregua d'armi fra i socialisti e i fascisti. Una tregua teorica fu conclusa nell'agosto
del 1921 con la firma di un patto di pacificazione tra le due parti. Il patto prevedeva un generico
impegno per la rinuncia alla violenza da ambo le parti: esso rientrava nella strategia di Mussolini che
mirava ad inserirsi nel gioco politico ufficiale e temeva il diffondersi di una reazione popolare contro
lo squadrismo. I fascisti intransigenti (i ras), però, sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione
e misero in discussione la leadreship di Mussolini: egli si rese conto di non poter fare a meno dello
squadrismo agrario e sconfessò il patto di pacificazione. I ras riconobbero la guida in Mussolini e
accettarono la trasformazione del movimento in vero Partito e quindi nacque il Partito nazionale
fascista che contava alla sua nascita di 200.000 iscritti. Nel febbraio del '22 il governo passò nelle
mani di Luigi Facta. La scarsa autorità politica del nuovo governo finì per dare ulteriore spazio alla
violenza squadrista: il fascismo si rese protagonista. A partire dalla primavera del '22, di scorrerie che
coinvolgevano intere provincie, di occupazioni armate di grandi centri come Ferrara e Bologna.
All'offensiva del fascismo, che agiva tramite la violenza armata e la manovra politica, i socialisti non
trovarono risposte efficaci: alla fine di luglio il gruppo parlamentare socialista decise di ribellarsi alla
linea intransigente della direzione del Psi dichiarando il possibile appoggio ad un governo di
coalizione democratica. I dirigenti sindacali proclamarono il 1° agosto uno sciopero generale
legalitario in difesa delle libertà costituzionali, ma i fascisti lo colsero come pretesto per atteggiarsi a
custodi dell'ordine e per lanciare una violenta offensiva contro il movimento operaio. Ai primi di
ottobre del '22 in un congresso tenuto a Roma, i riformisti guidati da Turati si staccarono dal Psi e
formarono il Partito socialista unitario.
Il Partito fascista capì che solo insidiandosi al potere, avrebbe potuto andare incontro alle aspettative
delle masse e evitare il pericolo di una reazione di rigetto da parte di quelle forze moderate che,
avendo appoggiato lo squadrismo, avrebbero potuto ritenere esaurito il loro ruolo. Mussolini da un
lato intrecciò trattative con i maggiori esponenti liberali in vista della partecipazione fascista ad un
nuovo governo, dall'altro lasciò che l'apparato militare del fascismo si preparasse al colpo di Stato.
Si aprì il progetto della marcia su Roma, ossia una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste
con obiettivo la conquista del potere centrale: l'inizio della mobilitazione fu fissato per il 27 ottobre.
Lo stesso Mussolini credeva poco nella possibilità di un successo militare e pensava di sfruttarla, più
che altro, in un mezzo di pressione politica, contando sulla debolezza del governo e sulla neutralità
della corona e delle forze armate. Vittorio Emanuele III, o perchè non si curò della lealtà ai vertici
militare o perchè era deciso ad evitare una guerra civile, non firmò il decreto di stato di emergenze,
e quindi l'intervento dell'esercito, preparato dal governo già dimissionario. Mussolini non si
accontentò dell'idea del re e degli ambienti moderati, di partecipazione fascista a un governo guidato
da un esponente conservatore, ma chiese e ottenne di essere chiamato alla guida del governo. La
mattina del 30 ottobre, migliaia di squadristi cominciarono a entrare nella capitale senza trovare
resistenza, Mussolini fu ricevuto dal re. La sera il nuovo governo era pronto e ne facevano parte oltre
a cinque fascisti, i leberali giolittiani, i liberali di destra, i democratici e i popolari.
Una volta assunta la guida del governo, Mussolini continuò ad alternare la linea dura alla linea
morbida, le promesse di normalizzazione moderata alle minaccie di una seconda ondata
rivoluzionaria. Nel dicembre del '22 fu istituito il Gran consiglio del fascismo, che aveva il compito
di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da raccordo tra partito e governo. Nel
gennaio del '23 le squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza
nazionale, lo scopo era di proteggere gli inesorabili della rivoluzione e disciplinare e limitare il potere
dei ras. Inoltre vi era la repressione legale condotta dalla magistratura e dalla polizia mediante
sequestri di giornali, scioglimenti di amministrazioni locali, arresti preventivi di militanti. Le
maggiori vittime furono i comunisti, costretti dal '23 a una semiclandestinità. Il sindacato non fascista
resistette colo nelle categorie più compatte, come la Fiom: il numero degli scioperi scese
vertiginosamente, i salari tornarono quasi ai livelli dell'anteguerra. Furono allegerite le tasse gravanti
sulle imprese, fu abolito il monopolio statale delle assicurazione sulla vita istituito nel '12, si cercò di
ridurre la spesa pubblica con uno sfoltimento nei ruoli del pubblico impiego, che colpì soprattutto i
ferrovieri. La politica liberista, impersonata dal ministro delle Finanze De Stefani, parve ottenere
buoni successi: fra il '22 e il '25 vi fu un aumento della produzione e il bilancio statale tornò in
pareggio. Un sostegno decisivo Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica in cui, dopo l'elezione di
Papa Pio XI, stavano riprendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici. Anche la riforma
scolastica, varata nella primavera del '23 dal ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile,
sembrava andare incontro alle attese del mondo cattolico: la riforma prevedeva l'insegnamento della
religione nelle scuole elementari e l'introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi.
La prima vittima di questo avvicinamento alla Chiesa fu il Partito popolare, considerato dalla Chiesa
un ostacolo al miglioramento dei rapporti con lo Stato; nell'aprile del '23 Mussolini impose le
dimissioni dei ministri popolari e poco dopo don Sturzo,sotto le pressioni del Vaticano, lasciò la
segreteria del Ppi. Ora Mussolini aveva il problema di rafforzare la sua maggioranza parlamentare,
sanzionando al tempo stesso la posizione di dominanza del fascismo. Questo fu lo scopo della nuova
legge elettorale a maggioritaria, varata nel luglio del '23: la legge avvantaggiava vistosamente la lista
che avesse ottenuto la maggioranza relativa assegnandole i 2/3 dei seggi disponibili. Quando,
all'inizio del '24 la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali, tra cui Orlando e Salandra, e alcuni
cattolici e conservatori accettarono di candidarsi con i fascisti nelle liste nazionali, presentate tutte
col simbolo fascista. Le forze antifasciste erano invece divise: i due partiti socialisti, i comunisti, i
popolari e i liberali d'opposizione guidati da Giovanni Amendola e gli altri partiti minori si
presentarono ognuno con la propria lista. Le liste nazionali ottennero il 65% dei voti e più di ¾ dei
seggi.
Il 10 giugno 1924, il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario, fu rapito
a Roma da un gruppo di squadristi, caricato su un'auto e ucciso a pugnalate. Pochi giorni prima, aveva
proclamato alla Camera una durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandone le violenze e
contestandone la validità elettorale. Sebbene gli esecutori vennero arrestati pochi giorni dopo, non si
seppero mai i veri mandanti dell'esecuzione. L'accaduto scosse l'opinione pubblica e il fascismo si
trovò isolato, divise e distintivi del fascio scomparvero dalle strade,i giornalisti antifascisti
moltiplicarono le vendite. Ma l'opposizione, drasticamente ridimensionata alle elezioni, non poteva
mettere in minoranza il governo; la proposta dei comunisti di uno sciopero generale fu respinta dagli
altri partiti e dalla Cgil. L'unica azione concreta presa dall'opposizione fu quella di astenersi dai lavori
parlamentari e di riunirsi separatamente finchè non fosse stata rinstaurata la democrazia: la secessione
dell'Aventino aveva significato ideale ma era privo di qualsiasi efficacia pratica. Infatti i partiti
“aventiniani” agitavano, davanti l'opinione pubblica, solo una questione morale, sperando l'intervento
della corona o in uno sfaldamento della maggioranza fascista. Il re però non intervenne e i
fiancheggiatori di Mussolini, non tolsero l'appoggio del capo del governo. Per venire incontro alle
loro richieste, Mussolini si dimise da ministro degli Interni e sacrificò alcuni collaboratori vicini al
caso Matteotti. In pochi mesi l'ondata antifascista rifluì e Mussolini decise di contrattaccare. Il 3
gennaio 1925, in un discorso alla Camera, ruppe ogni cautela legalitaria e minacciò di usare la forza
contro le opposizioni. Nei giorni successivi un'ondata di arresti, perquisizioni e sequestri di abbattè
sui partiti d'opposizione e sui loro organismi di stampa.
Dopo il 3 gennaio la scelta era tra fascismo e antifascismo, tra dittatura e libertà. Molti intellettuali e
uomini politici, rimasti neutrali fino allora, sentirono la necessità di prendere posizione: si scatenò un
dibattito tra Giovanni Gentile e Benedetto Croce. Intanto il fascismo portava a compimento
l'occupazione dello Stato e chiudeva ogni residuo spazio di libertà politica e sindacale. Molti
esponenti antifascisti furono costretti a esiliare, gli organi di stampa dei partiti antifascisti furono
bloccati, i grandi quotidiani antifascisti furono fascistizzati con pressioni sui propietari. Nell'ottobre
del '25 si firmò il patto di Palazzo Vidono, in cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la
rappresentanza dei lavoratoti ai soli sindacati fascisti. Una serie di attentati falliti a Mussolini servì a
creare il clima per il varo della nuova legislazione, che ebbe il suo maggiore arteficie nel ministro
della Giustizia Alfredo Rocco. Nel dicembre del '25 ci fu la prima importante legge costituzionale
che rafforzava i poteri del capo del governo sia rispetto ai ministri che rispetto al Parlamento.
Nell'aprile del '26 una legge sindacale proibì lo sciopero e stabilì che solo i sindacati fascisti avevano
il diritto di stipulare contratti collettivi. Nel novembre del '26 una serie di provvedimenti repressivi
cancellavano la vita democratica. Furono sciolti tutti i partiti antifasciti e soppresse le pubblicazioni
contrarie al regime. Fu reintrodotta la pena di morte per i colpevoli di reati contro la sicurezza dello
Stato; fu istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato composto da ufficiali delle forze
armate e della Milizia. Nel 1928 fu varata una nuova legge elettorale che introduceva il sistema della
lista unica e lasciava agli elettori solo la scelta di approvarla o respingerla in blocco; la
costituzionalizzazione del Gran consiglio, che diventò un organo dello Stato, con il compito, fra gli
altri, di formare le liste elettorali.
9CAPITOLO: LA GRANDE CRISI, ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI '30
I rapporti fra le maggiori potenze attraversavano una fase di distensione: il problema tedesco
sembrava avviato a una soluzione equilibrata, che garantiva gli interessi delle potenze vincitrici e
assicurava il reinserimento pacifico della Germania fra i protagonisti della politica internazionale.
L'economia dell'Occidente capitalistico, trainata dall'espansione degli Stati Uniti, aveva ripreso a
svilupparsi con regolarità. Nell'autunno del '29, negli Stati Uniti scoppiò una crisi economica che si
prolungò per buona parte degli anni '30; la “grande crisi” fece sentire i suoi effetti anche sulla politica
e sulla cultura, sulle strutture sociali e sulle istituzioni statali, segnando una censura nello sviluppo
storico delle società occidentali. Diede un'ulteriore, decisiva spinta alla decadenza dell'Europa
liberale. Compromise seriamente gli equilibri internazionali.
Durante la Grande Guerra gli Stati Uniti, oltre a rinsaldare la loro posizione del primo paese
produttore, era diventato il maggiore esportatore di capitali, grazie ai prestiti concessi ai loro alleati
euoropei. Accanto al mercato finanziario di Londra cresceva di importanza quello di New York. Dal
1921 iniziò, per l'America, un periodo di grande prosperità: la diffusione della produzione in seire e
della razionalizzazione del lavoro in fabbrica secondo i principi del taylorismo favorì l'aumento della
produttività, che, ad esempio nel settore industriale, salì del 30% fra il '23 e il '29 e negli stessi tempi
il reddito nazionale salì quasi del 25%. nonostante gli incrementi produttivi il numero di occupati
nell'industria calò a causa della disoccupazione tecnologica: gli sviluppi della tecnica diminuivano la
necessità di manodopera. Parallelamente cresceva l'occupazione nel settore dei servizi:negli anni '20
il numero di occupati nel terziario superò quello degli addetti all'industria. La qualità della vita
aumentò, gli U.S.A. divennero il laboratorio in cui fu sperimentato, per la prima volta, un nuovo
modo di vivere, caratterizzato da una continua espansione dei consumi e da una loro progressiva
standardizzazione. Gli anni '20 furono segnati da un'egemonia del Partito Repubblicano, sostenitori
di un rigido liberismo economico ed erano convinti che l'accomulazione della ricchezza privata
costituisse la migliore garanzia di prosperità; attuarono una politica conservatrice: ridussero le
imposte dirette, aumentando quelle indirette; mantennero la spesa pubblica bassa, rinunciando ad
siutare le classi più povere; favorirono la crescita di gigantesche corporazioni industriali e finanziarie.
La distribuzione dei redditi era fortemente squilibrati e cio provocò l'emarginazione di consistenti
fasce della popolazione; il ritmo di aumento dei salari era inferiore a quello dei profitti. Mentre gli
operai di alcune industrie e altre minoranze di lavoratori qualificati erano favoriti sul piano retributivo
e assistenziale, assai misere rimanevano le condizioni di vita e di lavoro degli operai comuni e
soprattutto di lavoratori immigrati e di colore. Furono introdotte leggi limitative dell'immigrazione,
anche per impedire la contaminazione dei caratteri etnici della popolazione yankee e la diffusione di
ideologie sovversive di origine europea. Allo stesso tempo si inasprirono le pratiche discriminatorie
nei confronti della popolazione di colore e la setta Ku Klux Klan ragginuse negli Stati del Sud le
dimensioni di un'organizzazione di massa. Molte persone si chiusero in una difesa ottusa e fanatica
dei valori della civiltà bianca e protestante: anche gli eberei e i cattolici venivano visti con diffidenza.
Vi era, però, un sostanziale ottimismo della borghesia americana e la sua fiducia in una continua
moltiplicazione della ricchezza in un indefinito processo di crscita. La prima conseguenza di questo
clima fu la frenetica attività della borsa di Wall Street: attività consistente in gran parte in pure
operazioni speculative, incoraggiate dalla prospettiva di facili guadagni che si potevano ottenere
aquistando azioni e rivendendole a prezzo maggiorato. Questa euforia speculativa poggiava su
fondamenti fragili, come fragili erano le basi dell'intero processo di espansione: la domanda sostenuta
dai beni di consumo durevoli aveva sviluppato, nel settore industriale, una capacità produttiva
sproporzionata alla possibilità di assorbimento del mercato interno, limitato sia dalla natura dei beni
di consumo durevoli, sia dalla crisi del settore agricolo, che teneva bassi i redditi dei ceti rurali. La
generale ripresa dell'economia europea nella seconda metà degli anni '20 aveva consentito
all'industria statunutiense, protetta da elevate barriere doganali, di allargare la sua penetrazione nei
mercati europei, si era venuto, così, a creare uno stretto e proficuo rapporto di interdipendenza tra le
due economie: l'espansione americana finanziava la ripresa europea e questa alimentava con le sue
importazioni li sviluppo americano.
Il corso dei titoli di Wall Street raggiunse i livelli più elevati all'inizio di settembre del 1929; seguirono
settimane di incertezza durante le quali gli speculatori iniziarono a liquidare i propri pacchetti azionari
per realizzare i guadagni fin allora ottenuti. Il 24 ottobre, il “giovedì nero”, furono scambiati 13
milioni di titoli;il 29 le vendite ammontarono a 16 milioni. La corsa alle vendite detrminò una
precipitosa caduta del valore dei titoli, ditruggendo i sogni di ricchezza dei loro possessori. Il crollo
del mercato azionario colpì in primo luogoi ceti ricchi e benestanti, ma finì con l'avere conseguenze
disastrose sull'economia di tutto il paese e sull'intero sistema economico mondiale, che dipendeva in
gran parte da quello statunitense. Gli effetti furono aggravati dalla decisione degli Stati Uniti di
difendere inanzitutto la loro produzione, inasprendo il protezionismo e contemporaneamente
ridussero, fino a sospenderla, l'erogazione dei crediti all'estero. Fra il 1929 e il 1932 il valore del
commercio mondiale si contrasse dell'oltre 60%rispetto al triennio precedente. Attraverso la
contrazione degli scambi, la recessione economica si diffuse in tutto il mondo, ad eccezione dell'Urss.
Fra il '29 e il '32 la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30% e quella di materie prime del
26% ; i prezzi caddero bruscamente sia nel settore industriale ma soprattutto in quello agricolo; i
disoccupati raggiunsero i 14 milioni negli Stati Uniti e di 15 milioni in Europa, a cui si doveva
aggiungere la cifra dei sottoccupati.
I primi cenni di crisi in Europa si ebbero in Germania e Austria, dove si giunse al collasso del sistema
bancario seguito dalla crisi monetaria. I crollo verificatisi in questi paesi allarmarono la solidità delle
finanze inglesi, in quanto molti capitali britannici erano investiti in Austria e Germania,e sulla stessa
tenuta della sterlina. Le banche ritirarono precipitosamente i capitali stranieri e iniziarono a convertire
le sterline in oro. Nel settembre del '31, esauritesi le riserve auree della Banca d'Inghilterra, la
convertibilità fu sospesa e la valuta inglese fu svalutata. Analoghi metodi vennero adottati da molti
altri paesi, nella speranza che il deprezzamento della moneta favorisse le esportazioni e consentisse
di aprire varchi nelle barriere doganali ovunque frapposte alla circolazione delle merci. Quando la
crisi ebbe inizio, tutti i governi dei paesi industrializzati pensarono di potersi affidare ai principi della
scuola economica liberale: primo il pareggio del bilancio. Per ottenerlo, la spesa pubblica venne
tagliata e furono imposte nuove tasse. Nel '33 l'economia europea cominciò a migliorare, ma nella
maggior parte dei paesi la ripresa fu lenta: fu solo con il riarmo e la guerra che l'Europa e il mondo
uscirono dalla gande depressione.
GERMANIA: la crisi mise in difficoltà il governo di coalzione guidato dai socialdemocratici,
provocando un dissenso insanabile fra la Spd e i partiti di centro destra circa il destino dei servizi
sociali statali, che i moderati volevano ridimensionare sensibilmente. Nel marzo del '30 la guida del
governo passò al leader del centro cattolico Heirich Brüning, che attuò una severissima politica di
sacrifici, anche per rivelare al mondo l'intollerabile onere che la Germania era costretta a sostenere
per pagare le riparazioni. Nel 1932 una conferenza internazionale ridusse di molto l'entità delle
riparazioni e ne sospese il pagamento per tre anni, i pagamenti non furono mai più ripresi.
FRANCIA: la politica di aurterità fu applicata con rigore. La crisi giunse in ritardo, nella seconda
metà del '31 ma durò più o meno fino al '38, anche perchè i governi vollero legare il loro prestigio
alla difesa del franco, ritardando la sua svalutazione fino al '37. Fra l'ottobre del '29 e il giugno del
'36 si succedettero diciassette governi sia di centro destra sia di centro sinistra.
GRAN BRETAGNA: il ministero guidato dal laburista Ramsay Mac Donald cercò di fronteggiare la
crisi con un programma che prevedeva, tra l'altro, un drastico taglio ai sussidi dei disoccupati,
ovviamente incontrò la ferma opposizione della Trade Unions. Mac Donald decise allora di staccarsi
dal suo partito e, seguito solo da pochi deputati laburisti, si accordò con liberali e conservatori per
formare un governo nazionale presieduto da lui. Il Paese così optò per la svalutazione monetaria e
adottò un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali nell'ambito del
Commonwealt.nel '33-'34 l'Inghilterra iniziò ad uscire dalla crisi.
AMERICA: nel novembre del '32 si tennero le elezioni presidenziali, il presidente uscente, Herbert
Hoover, non aveva ottenuto alcun risultato efficiente contro la crisi e inoltre aveva contribuito a creare
un'atmosfera di scoraggiamento e apatia. Vittorioso uscì il candidato democratico, il governatore dello
stato di New York Franklin Delano Roosvelt. Egli non aveva un programma organico ma, durante la
campagna, seppe instaurare con le masse un rapporto comunicativo e capì che il modo per vincere
era infondere speranza e coraggio alla popolazione. Nel marzo del '33, Roosvelt annunciò di voler
iniziare un New Deal nella politica economica e sociale: un nuovo stile governativo caratterizzato da
un energico intervento dello Stato nei processi economici e per l'associazione fra l'obiettivo della
ripresa economica e gli elementi di riforma sociale. Fu ristrutturato il sistema creditizio,fu svalutato
il dollaro per rendere competitive le esportazioni, furono aumentati i sussidi di disoccupazione e
furono concessi prestiti ai cittadini per esinguere le ipoteche sulle case. Vennero introdotti:
l'Agricultural Adjustment Act (Aaa), dove si proponeva di limitare la sovraproduzione nel settore
agricolo, assicurando denaro a coloro che avessero ridotto coltivazioni e allevamenti, essa arrestò la
caduta dei prezzi ma causò l'espulsione dalle campagne di masse di contadini senza lavoro; il National
Industrial Recovery Act (Nira), che imponeva alle imprese di vari settori codici di comportamento
per evitare una concorrenza troppo accanita e per tutelare diritti e salari dei lavoratori, questi codici
suscitarono la perplessità dei piccoli e medi operatori; il Tennessee Valley Authority (Tva), ente che
doveva sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee. Alla fine del '34 gli investimenti
erano ancora stagnanti, mentre la disoccupazione aumentò. Per rimediare il governo potenziò
l'iniziativa statale, varando vasti programmi di lavori pubblici e allargando i flussi della spesa
pubblica, nella convinzione che le difficoltà provenienti dal deficit si potessero compensare con
l'aumento della produzione e del reddito. Nel '35 furono varate una riforma fiscale; una legge sulla
sicurezza sociale, che garantì la pensione di vecchiaia e riorganizzò l'assistenza statale a favore dei
più poveri; una nuova disciplina dei rapporti di lavoro, che favorì le attività sindacali e tutelò il diritto
dei lavoratori alla contrattazione collettiva. Con questa politica il presidente si guadagnò l'appoggio
del movimento sindacale, ma si formò anche una grande coalizione antiroosveltiana. La Corte
Suprema cercò di bloccarlo, dichiarando anticostituzionali la Nira e l'Aaa: Roosvelt le ripresentò con
lievi modifiche.
La crisi del '29 fece sorgere problemi la cui soluzione si rivelò al di lò della capacità di recupero delle
forze economiche individuali. Ovunque fu lo Stato ad assumersi nuovi e importanti oneri:
dall'intensificazione delle tradizionali misure di sostegno esterno alle attività produttive si passò alla
adozione di più radicali forme di controllo e all'assunzione da parte dello Stato del ruolo di vero e
proprio soggetto attivo dell'espansione economica. In casi, come gli Stati Uniti, si agì attraverso il
potenziamento della domanda interna tramite l'espansione della spesa pubblica; in altri, come l'Italia,
si giunse all'assunzione diretta da parte dello Stato di imprese industriali in difficoltà; altrove, come
in Gran Bretagna, si puntò sull'elaborazione di programmi di sviluppo che si proponevano di orientare
l'attività economica verso obiettivi fissati dal potere politico. Gli schemi di sviluppo del capitalismo
liberale, fondati sull'autonoma iniziativa di soggetti individuali, furono modificati e sostituiti da
nuove forme di capitalismo diretto, che comportavano limitazioni alle scelte dei privati, ma queste
limitazioni non intaccarono il principio del profitto, scopo finale e molla fondamentale dell'attività
economica. Nel 1936 venne pubblicato un libro che cercava di sistematizzare teoricamente le nuove
trasformazioni, l'autore fu l'inglese John Maynard Keynes e il volume era “Occupazione,interesse e
moneta. Teoria generale”. In particolare sottolineò il ruolo della spesa pubblica ai fini dell'incremento
della domanda e del raggiungimento della piena occupazione.
Nei paese europei si verificò, proprio durante la crisi, uno sviluppo di quei consumi di massa che si
erano affermati negli Usa durante gli anni '20. Il processo di urbanizzazione si accellerò a causa della
crisi in cui versava il settore agricolo, ciò comportò un notevole sviluppo del settore edile che ebbe,
a sua volta, notevoli conseguenze sull'economia e sulla qualità della vita. Essendo principalmente
periferiche, le zone abitate resero necessario uno sviluppo dei trasporti pubblici e privati. Alla fine
della guerra la radio si trasformò da mezzo di comunicazione fra singoli soggetti a strumento di
irradiazione di programmi destinati a un pubblico, quindi divenne mezzo di informazione e di svago.
I primi programmi regolari di trasmissioni si ebbero negli Stati Uniti nel 1920, nei paesi europei si
svilupparono negli anni successivi, per lo più ad opera di enti che operavano sotto il controllo statale
e che facevano pagare agli utenti un canone di abbonamento. Con il suo prezzo d'acquisto
relativamente basso e il canone praticamente nullo, la radio divenne presto un fondamentale mezzo
di svago anche per le classi popolari. Proprio per la radio, a partire dagli anni '30, la stampa subì un
netto rallentamento, le persone più colte continuavano ad usufruirne ma fra la classe popolare era
praticamente scomparso. Per rimediare al calo, il settore della stampa sviluppò le riviste illustrate
dove la parte fotografica prevaleva sui testi. In questi anni vi fu l'affermazione anche del cinema: con
l'invenzione del sonoro negli anni '20 il cinema divenne uno spettacolo completo. Spettacolo popolare
per eccellenza, il cinema oltre ad essere un mezo di svago era anche un veicolo per imporre personaggi
e immagini: fenomeno del “divismo”. Inoltre poteva essere utilizzato come mezzo per diffondere
ideologie e visioni del mondo. La forma migliore di propaganda erano i cinegiornali d'attualità che
venivano proiettati prima del film.
Negli anni '20 e '30 vennero fatte alcune scoperte scientifiche destinate a segnare la storia del '900:
anzitutto quella dell'energia nucleare, studiata da un gruppo di scienziati di diversi paesi, tra cui Fermi,
Dirac e Chadwick. Sul piano delle applicazioni belliche alla scienza, sono da ricordare i grandi
sviluppi dell'areonautica, che portarono alla costruzione di caccia sempre più veloci, aerei da trasporto
sempre più capienti,bombardieri dotati di maggiore autonomia. Nella cultura europea si accentuarono
i fenomeni di disgregazione e di perdita dell'unità, tanto che nessuna delle correnti del periodo può
essere assunta, da sola, come particolarmente rappresentativa (il neopositivismo o l'esistenzialismo;
il futurismo e il surrealismo). Furono anni di grande contrapposizioni ideologiche per gli intellettuali,
liberalismo-comunismo e democrazia-fascismo, e di impegno politico. Durante i totalitarismo molti
intellettuali furono costretti a emigrare.
10CAPITOLO:L'ETà DEI TOTALITARISMI.
Nel corso degli anni '30, in ampi strati dell'opinione pubblica, si diffuse la convinzione che i sistemi
democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo insufficienti per
garantire il benessere dei cittadini, che la vera alternativa fosse quella fra il comunismo sovietico e i
regimi autoritari di destra. Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi fascisti era il
tentativo di porsi come artefici di una rivoluzione, di dar vita ad un nuovo ordine politico e sociale:
sul piano dell'organizzazione politica vi era l'accentramento del potere nelle mani di un capo, una
struttura gerarchica dello Stato ed un inquadramento della popolazione nelle organizzazioni di massa,
nonché uno stretto controllo sull'informazione e sulla cultura; sul piano economico e sociale, il
fascismo si vantava di aver indicato una terza via fra capitalismo e comunismo, in realtà consistente
solo nella soppressione della dialettica sindacale,ma essa esercitò una notevole attrazione tra gli strati
sociali intermedi. Infatti, mentre le classi popolari si piegarono di malvoglia ai regimi autoritari e la
grande borghesia li appoggiò per un calcolo utilitaristico, i ceti medi aderirono in gran massa spesso
in modo entusiastico. Ad essi il fascismo offriva la sensazione di appartenenza ad una comunità e di
riconoscersi in un capo, la convinzione di essere inseriti in una gerarchia basata sul merito,
l'identificazione certa di un nemico. Ciò sembrava una protezione contro i processi di massificazione,
quindi una risposta contro la società di massa, ma allo stesso tempo un'esaltazione di alcuni suoi
aspetti. Il fascismo seppe capire la società di massa, ne interpretò le componenti aggressive e violente,
ne sfruttò le tecniche e gli strumenti.
GERMANIA: fino al '29 il Partito nazionalsocialista rimase un gruppo minoritario e marginale, che
si collocava al di fuori della legalità repubblicana, si serviva della violenza contro gli avversari politici
e fondava la sua forza su una robusta organizzazione armata: le SA ( Sturm-Abteilungen, reparti
d'assalto) guidate dal capitano dell'esercito Ernst Röhm. Dopo il fallimenti di Monaco, Hitler,
ispiratosi alla vicenda di Mussolini, decise di dare al partito un volto più rispettabile: mise da parte le
rivendicazioni anticapitalistiche, come la riforma agraria, riuscendo ad assicurarsi un certo sostegno
economico da una parte della grande industria. Non aveva rinunciato al nucleo del vecchio
programma, ossia alla denuncia del trattato di Versailles, alla riunione dei tedeschi in una nuova
grande Germania, all'antisemitismo e alla fine del “parlamentarismo corruttore”. Al centro dei piani
di Hitler c'era un'utopia nazionalista e razzista: credeva nell'esistenza di una razza superiore e
conquistatrice, quella ariana, inquinatasi per la commistione con le razze inferiori. I caratteri originari
dell'arianesimo si erano conservati nei popoli nordici, in particolare in quello tedesco, che avrebbe
dovuto dominare l'Europa e il mondo. Inanzitutto si dovevano schiacciare i nemici interni, primi fra
tutti gli ebrei che, essendo un popolo senza patria, erano portatori della dissoluzione morale,
responsabili dei misfatti del capitale finanziario e di quelli del bolscevismo, causa e simbolo della
decadenza della civiltà europea. Ricostituita la propria unità in un nuovo Stato i tedeschi avrebbero
dovuto respingere le imposizioni di Versailles, recuperare i territori perduti ed estendersi verso est a
danno dei popoli slavi, considerati inferiori. Inizialmente trovò scarsi consensi: nelle elezioni del
dicembre del '24 prese il 3% dei voti; nel maggio del '28 il 2,5%. Con la crisi la maggioranza dei
tedeschi perse ogni fiducia nella Repubblica: a destra le forze conservatrici si sentirono sciolte da
ogni vincolo di lealtà verso le istituzioni repubblicane e si proposero di cambiare le regole del sistema
appoggiando le forze eversive, a cominciare dai nazisti; a sinistra, settori consistenti della classe
operaia si staccarono dalla socialdemocrazia per avvicinarsi ai comunisti, convinti che la rovina della
Repubblica avrebbe spianato la strada alla rivoluzione. I nazisti, in questa situazione, riuscirono a far
leva sulla paura della grande borghesia, sulla frustazione dei ceti medi e sulla rabbia dei disoccupati.
Hitler offriva la prospettiva della riconquista del primato della nazione tedesca, l'indicazione di capri
espiatori cui addossare le colpe delle disgrazie del paese,l'immagine di una forza politica in grado di
ristabilire l'ordine contro traditori e nemici interni. Nel settembre del 1930, quando il cancelliere
Brüning convocò le elezioni, i nazisti arrivarono al 18,3% di consensi, i comunisti guadagnarono
posizioni a discapito dei socialdemocratici, che rimasero comunque il primo partito. Il ministro
Brüning governò per ancora due anni grazie all'appoggio cocessogli dalla Spd e grazie al sostegno
del presidente Hindenburg, che si valse dei poteri straordinari previsti dalla costituzione in casi di
emergenza. Ma in quel periodo le istituzioni parlamentari si indebolirono ulteriormente e la situazione
economica precipitò: la prduzione industriale calò del 50% rispetto al '28 e la disoccupazione toccò
la metà delle famiglie tedesche, intanto i nazisti igrossavano le loro file (un milione e mezzo di iscritti)
e riempivano le piazze con comizi e cortei. Due crisi di governo e tre drammatiche consultazioni
elettorali non fecero che confermare la crescita delle forze eversive e l'impossibilità di formare una
maggioranza costituzionale. Nelle elezioni del '32 per la presidenza della Repubblica, per sbarrare
Hitler, i pariti democratici appoggiarono la rielezione del maresciallo Hindenburg, che fu rieletto.
Una volta cofermato nella carica, sotto le pressioni dei militari e della grande industria, congedò il
cancelliere Brüning e chiamò alla guida del governo prima il cattolico Franz von Papen, esponente
dell'aristocrazia terriera, e poi il generale Kurt von Schleicher, consegliere personale del presidente.
Entrambi furono un fallimento. Nelle due successive elezione che Papen fece convocare, nel luglio e
nel novembre del '32, i nazisti si affermarono come primo partito tedesco con il 37% dei voti in luglio
e il 33% in novembre. Il 30 gennaio del 1933, Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e
accettò di capeggiare un governo in cui i nazisti avevano tre ministri su undici e in cui erano
rappresentate tutte le più importanti componenti della destra.
L'occasione per la prima stretta repressiva fu offerta dall'incendio del Reichstag nella notte del 27
febbraio 1933: l'arresto di un comunicta olandese, indicato come l'autore materiale dell'incendio, fornì
al governo il pretesto per un'imponente operazione di polizia contro i comunisti, che culminò con
l'arresto di migliaia di dirigenti e militanti e la messa fuori legge del partito, e per una serie di misure
eccezionali che limitavano o annullavano la libertà di stampa e di riunione. Nelle elezioni del 5 marzo
1933, i nazisti non ottennero la maggioranza assoluta ma ottennero il 44% dei voti che, uniti a quelli
dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo un'ampia base parlamentare. Hitler
mirava all'abolizione del Parlamento e il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge
che conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di legiferare e di modificare la costituzione.
Assenti i deputati comunisti, votarono contro i soli socialdemocratici. Nel giugno del '33 la Spd,
accusata di altro tradimento, fu sciolta. Alla fine di giugno il Prtito tedesco-nazionale si autosciolse
su pressione dei nazisti, la stesa cosa fece il Centro cattolico. In luglio Hitler varò una legge che
proclamava il Partito nazionalsocialista l'unico consentito in Germania. In novembre una nuova
consultazione elettorale, di tipo plebiscitario su lista unica, registrò il 92% di voti favorevoli al
nazismo. Vi erano ancora due ostacoli: da una parte l'ala estremista del nazismo, rappresentata dalla
SA di Röhm, che invocavano una seconda ondata rivoluzionaria e non si volevano sottomettere ai
poteri legali; dall'altra la vecchia destra,impersonata da Hindenburg e dia capi dell'esercito, che
chiedevano a Hitler di frenare gli estremismi. Hitler, che temeva l'autonomia delle SA e che aveva
provveduto a formare una sua milizia personale, le SS ( Schutz-Staffeln, squadre di difesa), decise di
attaccare le SA nella notte ricordata come la “notte dei lunghi coltelli”, guidata dallo stesso Hitler che
arrestò Röhm, che fu poi assassinato insieme a tutto il suo stato maggiore dalle SS. Hitler profittò
dell'occasione per uccidere anche altri elementi sgraditi come l'ex cancelliere von Schleicher. In
cambio dell'uccisione di Röhn le forze armate promisero a Hitler il loro appoggio nella sua
candidatura alla presidenza della Repubblica, e così, quando Hindenburg morì nell'agosto del '33,
Hitler si trovò a cumulare le cariche di cancelliere e capo dello Stato.
Nasceva così il Terzo Reich (dopo il Sacro Romano Impero medioevale e quello nato nel 1871), nel
nuovo regime si realizzava il principio del capo che costituiva un punto cardinale nella dottrina nazista.
Al capo spettavano le dicisioni più importante e la fonte suprema del diritto, era la guida del popolo
e colui che sapeva esprimere le autentiche aspirazioni. Il rapporto fra capo e popolo doveva essere
diretto, l'unico tramite con le masse era costituito dal parito unico e da tutti gli organismi ad esso
collegati: come il Fronte del lavoro, che sostituiva i sindacati, o come le organizzazioni giovanili che
facevano capo alla Hitlerjugend. Il loro compito era di trasformare i cittadini in una “comunità di
popolo” compatta e disiplinata, da essa erano esclusi gli elementi antinazionali, i cittadini di origine
straniera o di discendenza non ariana e soprattutto gli ebrei. Allora gli ebrei erano circa 500.000 su
una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti ed erano concentrati soprattutto nelle grandi città. Nel
settembre del 1935 furono verate le leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la parità di diritti
conquistata nel 1848 e proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei. Alla discriminazione legale si
accompagnava quella sociale, il che spinse molti ebrei a emigrare dalla Germania. Nel novembre del
'38 venne ucciso un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo e da ciò i nazisti trassero il
pretesto per organizzare un gigantesco pogrom in tutta la Germania: nella notte tra l'8 e il 9 novembre
del '38, la notte dei cristalli, furono infrante molte vetrine di negozi apparteneti a ebrei, inoltre vennero
distrutte sinagoghe, devastate abitazioni e arrestati migliaia di ebrei. Nella difesa della razza era
prevista anche la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie eriditarie e la soppressione degli
infermi di mente classificati come incurabili.
L'opposizione comunista riuscì a mantenere in piedi solo pochi e isoltai nuclei clandestini; la
socialdemocrazia fece sentire la propria voce solo attraverso gli esuli; i cattolici finirono con
l'adattarsi al regime, incoraggiati snche dalla Chiesa di Roma che, nel luglio del '33, stipulò un
concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza dello Stato negli
affari interni al clero. Nel marzo del '37 papa Pio XI intervenne con un'enciclica in tedesco per
condannare dottrine e pratiche che rivelavano il loro carattere pagano. Deboli furono anche le
opposizioni della chiesa luterana, orientati in senso conservatore e tradizionalmente rispettosi al
potere, si piegarono alle imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà al Führer. Solo
una minoranza di ministri del culto si oppose attivamente alla nazificazione e fu duramente
perseguitata. L'opposizione più pericolosa venne dagli esponenti di quei gruppi conservatori e militari
che avevano partecipato all'ascesa del nazismo: in buona parte conservatori erano quegli ufficiali e
quei politici che, nel '44, cercarono di attentare alla vita di Hitler. La debolezza dell'opposizione era
anche dovuta alla vastità e all'efficienza dell'apparato repressivo terroristico: la Gestapo e le SS che
controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini; i Lager dove gli oppositori
venivano rinchiusi e sottoposti a lento annientamento. Il consenso del nazismo fu dovuto a molteplici
fattori: 1) i successi in politica estera: smontando la costruzione di Versailles e riportando la Germania
al ruolo di protagonista della politica europea, stimolò l'orgoglio patriottico dei tedeschi e fece provare
la sensazione di rivincita. 2) la ripresa economica: superato il momento più acuto della crisi nel '33,
l'economia, liberata dalle riparazioni, riprese slancio; la produzione industriale tornò in pochi anni a
quella del '28 per superarli nel '38-39;il piano di preparazione alla guerra ebbe l'effetto di rendere la
ripresa più rapida; stesso effetto ebbe il programma di lavori pubblici. Grazie ad essi la
disoccupazione diminuì rapidamente, alla vigilia della guerra si raggiunse la quasi piena occupazione.
Il regime cercò di incoraggiare l'iniziativa privata e di legarla al potere politico, di vincolarla ad alcuni
obbiettivi di fono, che si riassumevano nel porre il paese in condizione di poter affrontare una guerra.
In campo agricolo il regime si limitò a imporre una serie di norme che tutelavano la piccola e media
proprietà terriera senza intaccare i latifondi. Sottoposti a disciplina semimilitare e privati delle loro
autonome rappresentanze, i lavoratori dell'industria persero la capacità contrattuale e videro i loro
salari crescere in misura inferiore al costo della vita ma parteciparono al ritrovato benessere: fruirono
di migliori servizi e videro allontanarsi l'incubo della disoccupazione. 3) capacità del nazismo di porre
e imporre formule e miti capaci di toccare le forme profonde dell'anima popolare, la sua abilità nel
servirsi a questo scopo degli strumenti disponibile nell'età della comunicazione di massa. L'utopia
che proponeva era legata ad un mondo popolato da uomini belli e sani, legati alla loro terra; una
scocietà di contadini-guerrieri, liberi dagli orrori delle metropoli moderne e dalle malattie della civiltà
industriale. Questa idea contrastava con la prassi del regime, sospinto dalla sua logica bellicistica a
favorire lo sviluppo della grande industria. Quello nazista fu il primo governo che, in tempo di pace,
istituì un ministero per la propaganda che, affidato a Joseph Goebbels, divenne uno dei centri del
potere: la stampa fu sottoposta a strettissimo controllo e inglobata in un apparato alle dipendenze del
ministero; gli intellettuali inquadrati nella Camera di cultura del Reich e dovettero fare atto di
adesione al regime o lasciare il paese. Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono
scanditi da feste e cerimonie pubbliche.
UNGHERIA: l'ammiraglio Horty impose un regime rigidamente conservatore, in cui le libertà
politiche e sindacali erano state abolite.
POLONIA: nel 1926 l'ex socialista Jòzef Pilsudski organizzò una marcia su Varsavia per riformare la
costituzione in senso autoritario e dar vita a un governo sopra i partiti
GRECIA: il regime repubblicano nato nel '24 non funzionò regolarmente a causa dei continui
interventi militari e per la riccorrente minaccia dei gruppi monarchici.
BULGARIA: l'esperimento democratico avviato dal primo ministro Stambolijski, leader del partito
dei contadini e promotore di una riforma agraria, fu interrotto nel '23 da un colpo di Stato militare.
JUGOSLAVIA: la scena politica era dominata dal contrasto tra i vari gruppi etnici. Per dominare la
protesta dei croati il re Alessandro I attuò nel 1929 un colpo di Stato, col risultato di peggiorare i
contrasti e spingere il movimento separatista croato dulla via del terrorismo.
SPAGNA: Miguel Primo de Rivera, con l'appoggio del sovrano Alfonso XIII, attuò un colpo di Stato
nel 1923 ma nel 1930 fu costretto a dimettersi dopo una massiccia ondata di proteste popolari. Nelle
elezioni del 1931i democratici e i repubblicani conquistarono un grendissimo consenso che obbligò
il re a lasciare il paese: si formò la Repubblica
PORTOGALLO: nel 1926 i militari interruppero l'esperienza di una fragile democrazia parlamentare.
La guida del regime autoritario fu assunta dal cattolico Antonio Oliveira de Salazar.
AUSTRIA: nel febbraio del 1934, dopo avre soppresso sanguinosamente una rivolta operia scoppiata
a Vienna, il cancelliere cristiano-sociale Engelbert Dollfuss mise fuori legge il Partito
socialdemocratico e varò una nuova costituzione di ispirazione clericale e corporativa, vicina al
modello fascista.
URSS: grazie all'isolamento economico non venne toccata dalla crisi, anzi si rese protagonista di un
gigantesco sforzo di industrializzazione. La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e
di porre fine all'esprerienza della Nep, fu presa da Stalin tra il '27 e il '28, subito dopo la sconfitta
dell'opposizione di sinistra che sulla necessità di industrializzazione aveva impostato la sua battaglia.
L'idea dell'industrializzazione come presupposto della società socialista si univa alla convinzione che
solo un deciso impulso all'industria pesante avrebbe fatto dell'Urss una grande potenza militare. Un
primo ostacolo alla costruzione di un'economia totalmente collettivizzata e altamente industrializzata
fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki, accusati di arricchirsi alle spalle del popolo
e di affamare la città non consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta. Stalin proclamò,
nell'estate del '29, la necessità di procedere alla collettivizzazione del settore agricolo e di eliminare i
kulaki come classe: a ciò si oppose Nicolaj Bucharin, convinto teorico della Nep, che sosteneva la
necessità di non spezzare l'alleanza tra operai e contadini. La maggioranza del partito si schierò con
Stalin e Bucharin e i suoi amici, furono condannati nel 1930 come deviazionisti di destra. Il gruppo
dirigente comunista procedette alla collettivizzazione forzata: non solo i contadini ricchi ma anche
coloro che si opponevano alle requisizioni e resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive
furono considerati nemici del popolo. Migliaia furono i fucilati, centinaia gli arrestati, milioni i
contadini deportati in Siberia o in Russia settentrionale, chiusi in campi di lavoro forzato o
abbandonati in terre inospitali. Quella attuata nelle campagne fra il '29 e il '33 fu una gigantesca
“rivoluzione dall'alto” con il risultato dell'eliminazione dei kulaki. La maggioranza dei contadini fu
inserita nelle fattorie collettive (oltre il 90% nel '39) , l'eccesso della popolazione nelle campagne fu
ridotto dalle deportazioni e dalle emigrazioni nei centri industriali. Disorganizzazione e inefficienza
si sommarono alla resistenza dei contadini fino a provocare nel 1932-33 una carestia; dalla seconda
metà degli anni '30 la situazione si andò normalizzando e la produzione agricola superò i livelli della
Nep. Il vero scopo della collettivizzazione era quello di favorire l'industrializzazione del paese
mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane. Nel 1928 fu varato il primo piano
quinquennale per l'industria che fissava obiettivi tecnicamente impossibili da raggiungere, frutto di
una decisione politica. La crescita fu comunque imponente: nel '32 la produzione industriale era
aumentata, rispetto al '28, di circa il 50%, con punte del 200% per il carbone e l'acciaio e il numero
degli addetti all'industria salì a oltre 5 milioni. Col secondo piano quinquennale la produzione
aumentò di un altro 120% e il numero degli addetti arrivò a quasi 10 milioni. Questi risultati furono
consentiti anche da un clima di entusiasmo fra ideologico e patrottico che Stalin seppe suscitare alla
classe operaia intorno agli obiettivi del piano e che li aiutò a sopportare pesanti sacrifici in termini di
consumi individuali e di ritmi di lavoro. Gli operai furono sottoposti ad una disciplina severissima
ma furono anche stimolati con incentivi materiali che premiavano in modo vistoso i lavoratori più
produttivi.
Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco Stalin finì con l'assumere in Urss un
ruolo di capo carismatico: era il padre e la guida infallibile del suo popolo, era l'autorità politica
suprema e il depositario dell'autntica dottrina marxista e al tempo stesso il garante della sua corretta
applicazione. Le stesse attività culturali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei suoi interpreti
autorizzati. Tutta la cultura fu sottoposta a un regime di rigida censura e costretta a svolgere una
funzione propagandistico-pedagogica entro il realismo socialista, ovvero limitarsi alla descrizione
idealizzata della realtà sovietica. Stalin sviluppò, portandole alle estreme conseguenze, alcune
premesse autoritarie che esistevano nel pensiero di Lenin e nel sistema sovietico, vi aggiunse, però,
una dose di spietatezza: sterminò fisicamente i suoi oppositori politici reali o potenziali e insieme a
loro fece sterminare migliaia di quadri dirigenti del partito e un numero incalcolabile di semplici
cittadini sospetti del deviazionismo o solo invisi alla polozia politica. Il periodo delle grandi purghe
iniziò nel 1934, l'assasinio di Sergej Kirov, esponente di punta del gruppo dirigente comunista fornì
il pretesto per un'ondata di arresti che colpirono gli stessi quadri del parititofu una gigantesca
repressione poliziesca che colpì milioni di persone e che diede vita ad un immenso universo
concentrazionario formato dai campi di lavoro. In questo modo furono eliminati tutti gli oppositori
di Stalin, ma cnhe molti collaboratori del dittatore. Troskij, esule dal '29, fu ucciso in Messico da un
sicario di Stalin nel 1940. Si calcola che fra il '37 e il '38 furono uccisi circa 700.000 persone e fra
l'inizio della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra mondiale 10-11 milioni.
La prima importante decisione del governo nazista in politica estera fu, nell'ottobre del '33, il ritiro
della delegazione tedesca dalla Conferenza internazionali di Ginevra, dove le grandi potenze
cercavano di giungere ad un accordo sulla limitazione degli armamenti. Il giorno dopo la Germania
si ritirò dalla Società delle nazioni. Nel luglio del '34 alcuni gruppi nazisti tentarono, in Austria, di
impadronirsi del potere e uccisero il cancelliere Dollfuss per preparare l'unificazione fra Austria e
Germania. Mussolini schierò immediatamente quattro divisione al confine italo-austriaco ed Hitler,
non essendo ancora pronto per una guerra, fu costretto far marcia indietro sconfessando gli autori del
complotto. Nell'aprile del '35 di fronte all'iniziativa tedesca che reintrodusse la coscrizione
obbligatoria, vietata dal trattato di Versailles, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si
riunirono a Stresa per condannare il riarmo tedesco, per ribadire la validità dei patti di Locarno e per
riaffermare il loro interesse all'indipendenza dell'Austria. Pochi mesi dopo, l'aggressione italiana
all'Etiopia avrebbe rotto il fronte di Stresa e avrebbe avviato il processo di riavvicinamento italitedesco. Fino al '33 la politica estera dell'Urss si era ispirata ad una linea dura e spregiudicata: rifiuto
dei trattati di Versailles, nessuna distinzione fra Stati fascisti e democrazie borghesi. Dopo i successi
di Hitler le cose cambiarono: nel settembre del '34 l'Urss entrò nella Società delle nazioni e nel maggio
del '35 stipulò un'alleanza militare con la Francia. Fu improvvisamente accantonata la tattica della
contrapposizione frontale nei confronti delle forze democratico-borghesi e più ancora delle
socialdemocrazie: tattica che isolò il movimento comunista in Germania e contribuì a spianare la
strada al nazismo. Nel VII congresso nazionale del Comintern si parlò di lotta al fascismo, ai partiti
comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti sia con gli altri partiti operai sia con le forze
democratico-borghesi, di favorire la nascita di larghe coalizioni dette fronti popolari e di appoggiare
i governi democratici decisi a combattere il fascismo.
FRANCIA: l'instabilità governativa e il susseguirsi degli scandali politico-finanziari misero a dura
prova le istituzioni repubblicane, dando spazio alla destra reazionaria e dei movimenti filofascisti. Il
6 febbraio del 1934 l'estrema destra organizzò una marcia sul Parlamento per impedire l'isediamento
del nuovo governo presieduto dal radicale Daladier, socialisti e comunisti risposero con
manifestazioni unitarie. Questo movimento ebbe l'effetto di rinfrancare un movimento operaio
depresso da numerose sconfitte e di far rinascere la speranza che fosse possibile fronteggiare il
fascismo con l'unità fra tutte le forze di sinistra. Il solo risultato concreto della politica dei fronti
popolari fu quello di restituire un minimo di unità al movimento operaio europeo. In Francia il netto
successo elettorale delle sinistre aprì la strada alla formazione di un governo composto da radicali e
socialisti, sostenuto dall'esterno dai comunisti e presieduto dal socialista Leon Blum. L'insediamento
scatenò grandi manifestazioni di entusiasmo popolare, gli operai dell'industria avviarono un'ondata
di scioperi e di occupazioni delle fabbriche e nel giugno del 1936 si firmarono gli accordi di Palazzo
Matignon che prevedevano, oltre a consistenti aumenti di salario, la riduzione a uaranta ore lavorative
settimanali e quindici giorni di ferie pagate. Ma questi crearono ulteriori difficoltà alla situazione
economica: l'improvviso aumento del costo del lavoro pregiudicò la competività dei prodotti
industriali e innescò un rapido processo di inflazione. L'inflazione costrinse i governi a due
svalutazioni del franco.
SPAGNA: fra il 1936 e il 1939 la Spagna fu sconvolta da una drammatica e sanguinosa guerra civile.
Scoppiata in un momento di forti tensioni internazionali, la guerra civile spagnola contribuì ad
aggravarle. Dopo la fine della dittatura di Primo de Rivera e la caduta della monarchia, il paese
attraversò un periodo di grave instabilità economica e sociale: nell'estate del '32 vi era stato un fallito
colpo di Stato e nell'autunno del '34 un insurrezione anarchica repressa violentemente. In Spagna
qualsiasi tentativo riformatore si scontrava da una parte con l'ottusità del ceto dominante reazionario,
dall'altra con le tendenze sovversive e antistatali di un proletario influenzato dalle ideologie anarcosindacaliste, in quanto la maggior centrale sindacale (la Cnt) era controllata dagli anarchici. Ma era
anche uno Stato in cui si sentiva il peso dell'aristocrazia terriera che possedeva oltre il 40% delle terre
coltivabili ed era strettamente legata alla Chiesa. Nel febbraio del '36 le sinistre,(comunisti,
repubblicani e socialisti) unite in una coalizione di Fronte popolare si affermarono al governo e la
tensione esplose in tutto il paese: le masse proletarie vissero la vittoria come l'inizio di una rivoluzione
sociale; la vecchia classe dirigente si espresse prima nella violenza squadrista, affidata ai fascisti della
Falange, e dopo in un colpo di Stato messo in atto dai militari. Iniziata nel '36, la ribellione fu attuata
dalle truppe coloniali di stanza nel Marocco spagnolo e organizzata da cinque generali: fra essi
Francisco Franco, assurto al ruolo di capitano degli insorti. Inizialmente assunsero il controllo di gran
parte della Spagna occidentale, ma in queste prime fasi il governo repubblicano, appoggiato da una
parte delle stesse forze armate e sostenuto da un'intensa mobilitazione popolare, riuscì a mantenere il
controllo della capitale e delle regioni del Nord-Est. Italia e Germania aiutarono gli insorti franchisti:
l'Italia mandò un contingente di 50.000 volontari che erano in realtà reparti regolari e la Germania
inviò aerei e piloti e si servì della guerra per sperimentare la sua aviazione. I governi conservatori
inglesi si mantennero neutrali e il governo francese, preoccupato dal rischio di uno scontro aperto tra
gli Stati fascisti, si astenne da inviare aiuti ai repubblicani e cercò di bloccare quelli che arrivavano
al campo opposto promuovendo un accordo generale fra le grandi potenze per il non intervento nella
crisi spagnola. Nell'agosto del '36 fu sottoscritto anche da Italia e Germania ma fu rispettato solo da
Francia e Gran Bretagna. Aiuto efficacie alla Repubblica spagnola arrivò dall'Urss: rifornì il governo
di materiale bellico e, attraverso il Comintern, favorì la formazione delle Brigate internazionali,
reparti volontari formati da comunisti e aperti ad antifascisti di tutte le tendenze e di tutti i paesi.
Inferiori agli avversari sul piano militare, i repubblicani erano anche indeboliti politicamente dalle
loro divisioni interne. Franco, insignito del titolo di caudillo (duce), si guadagnò l'appoggio delle
gerarchie ecclesiastiche, dell'aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia moderata, inolrte
realizzò l'unità di tutte le destre in un unico partito chiamato Falange nazionalista. Mentre essi
instauravano nei loro territori uno Stato dai connotati autoritari, i repubblicani discutevano fra di loro
sull'organizzazione della società e sul modo di combattere la guerra: da una parte c'erano gli anarchici,
insofferenti alla disciplina militare e contrari a ogni compromesso politico, dall'altra gli altri partiti
della coalizione a cominciare dai comunisti che erano favorevoli a una linea relativamente moderata,
tale da non rompere l'unità con le forze democratico-borghesi. Nella primavera del '37, a Barcellona,
gli anarchici si scontrarono, armi alla mano, con i comunisti e l'esercito regolare repubblicano. I
comunisti, grazie al legame con l'Urss, adottarono metodi simili a quelli che utilizzò Stalin: fra il '37
e il '38 numerosi anarchici sparirono e il Poum, paritio nato dalla confluenza fra trotzkisti e anarcosindacalisti fu liquidato. La divisione del fronte repubblicano facilitò l'offensiva delle forze
nazionaliste, volta a eliminare ogni resistenza militare e ogni centro di dissidenza politica. Nella
primavera del '38 i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio controllato dai repubblicani
separando Madrid dalla Catalogna; all'inizio del '39 i nazionalisti sferrarono l'offensiva finale che si
concluse con la caduta di Madrid in marzo.
Il comportamento arrendevole della Gran Bretagna e della Francia in tutte le occasioni di confronto
con le potenze fasciste convinse Hitler, che contava sull'amicizia dell'Italia, di poter accellerare i
tempi per l'attuazione del suo piano, che prevedeva la distruzione dell'assetto europeo uscito da
Versailles, con la riunione di tutti i tedeschi in un unico grande Reich, poi l'espansione verso est ai
danni della Russia. Egli sperò fino all'ultimo di evitare uno scontro con gli inglesi, a patto che essi
lasciassero campo libero alle mire tedesche in Europa centro-orientale: fu incoraggiato dalla linea
politica assunta dai conservatori, guidati al governo dal '37 da Neville Chamberlain, sostenitore
dell'appeasement, politica basata sul presupposto che fosse possibile ammansire Hitler
accontentandolo nelle sue rivendicazioni più ragionevoli e risarcendo in qualche modo la Germania
del trattamento di Versailles. L'appeasement fu accolta con successo dall'opinione pubblica, in quanto
poco convinti dell'equità di Versailles e incline al pacifismo. L'opposizione a questa politica arrivò da
una minoranza di conservatori che facevano capo a Winston Churchill, egli sosteneva che l'unico
modo di bloccare Hitler fosse opporsi rigidamente a lui a costo di una guerra immediata. La Francia
fu attraversata in questo periodo, oltre che da profonde lacerazioni politiche, da una crisi morale che
minò le capacità di reazioni. Protetti dalla linea Maginot, i francesi si chiedevano se valesse la pena
rischiare la guerra per difendere la Russia o le alleanze dell'Est europeo; ad almentare le perplessità
concorrevano sia il pacifismo dei socialisti, sia il filofascismo di una destra spaventata dal Fronte
popolare. Così la Francia si adattò ad una politica sostanzialmente subalterna a quella inglese. Nel
1938 Hitler rilanciò la quastione dell'Anschluss dell'Austria, mobilitando i nazisti austriaci e
costringendo alle dimissioni il cancelliere Schuschnigg, Mussolini non si oppose alle pretese tedesche.
Né alcuna reazione venne dagli inglesi, che consideravano la questione austriaca fuori dai loro
interessi e ritenevano non del tutto infondata la rivendicazione dell'annessione. L'11 marzo del '38 il
capo dei nazisti austriaci Seyss-Inquart, nuovo capo del governo, chiese l'intervento militare
dell'esercito tedesco e il giorno dopo le truppe del Reich occuparono l'austria. Un mese dopo, un
plebiscito sanzionò a schiacciante maggioranza l'avvenuta unificazione. La seconda rivendicazione
di Hitler fu relativa ai sudeti, i tedechi che vivevano in Cecoslovacchia: anche qui mobilitò i nazisti
del luogo spingendoli a formulare richieste sempre più pesanti al governo, il quale, in un primo
momento, si mostrò incline alla concessione di più autonomie alla comunità tedesca. In realtà Hitler
mirava all'annesione della regione dei Sudeti e alla distruzione dello Stato cecoslovacco che era
democratico, industrializzato,forte militarmente e legata in alleanza alla Francia e all'Urss. La Russia
poteva intervenire solo se interveniva prima la Francia, questa era condizionata dall'atteggiamento
della Gran Bretagna ed essa si mostrò incline ad accontentare Hitler nella sua “ultima richiesta”. Il
20-30 settembre d1938 si svolse, a Monaco di Baviera, un incontro trai i capi di governo delle grandi
potenze europee con l'esclusione della Russia: nell'incontro Chamberlain e Daladier accettarono un
progetto presentato dall'Italia che accoglieva quasi alla lettera le pretese tedesche e che prevedeva
l'annessione totale del territorio dei Sudeti al Reich. I cecoslovacchi, non presenti né consultati,
dovettero accettare l'accordo che apriva la strada del dissolvimento della loro Repubblica; i sovietici,
anch'essi non presenti, capirono di non poter contare sulla solidarietà delle potenze occidentali in caso
si attacco tedesco e decisero di abbandonare le ultime alleanze.
11CAPITOLO: L'ITALIA FASCISTA.
La caratteristica essenziale era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella
dello Stato, che aveva conservato la struttura dello Stato monarchico, e quella del partito con le sue
numerose ramificazioni. Il punto di congiunzione era rappresentato dal Gran consiglio del fascismo.
Al di sopra di tutti si esercitava il potere di Mussolini, che aveva la qualifica di capo del governo e di
duce del fascismo. Nel fascismo lo Stato ebbe una netta preponderanza sulla macchina del parito: per
trasmettere la sua volontà dal centro alla periferia, il duce si servì dei prefetti piuttosto che degli
organi locali del Pnf; a controllare l'ordine politico e a reprimere il dissenso provvedeva la polizia di
Stato, mentre la Milizia aveva una funzione di corpo ausiliare. Dalla fine degli anni '20 l'iscrizione al
partito divenne una pratica di massa, quasi una formalità burocratica, necessaria fra l'altro per ottenere
un posto nell'amministrazione locale. Vennero istituiti: l'Opera nazionale dopolavoro nel '25, che si
occupava del tempo libero dei lavoratori; il Comitato olimpico nazionale (Coni) nel '27 allo scopo di
incoraggiare e controllare le attività sportive; i Fasci giovanile, i Gruppi universitari fascisti (Guf) e
l'Opera nazionale Balilla (Onb). Questa, nata nel '26, inquadrava i giovani dai 12 ai 18 anni e forniva
loro, oltre all'educazione fisica e qualche rudimento di istruzione premilitare, un minimo di
indottrinamento ideologico. Il tentativo del fascismo era quello di occupare, insieme allo Stato, anche
la società, di riplasmarla facendo leva soprattutto sui giovani. L'ostacolo maggiore era rappresentato
dalla Chiesa: in un paese in cui oltre il 99% della popolazione si dichiarava cattolica, in cui la pratica
religiosa era largamente diffusa, in cui le parrocchie erano l'unico centro di aggregazione sociale e
culturale, bisognava trovare con esse un modus vivendi. Le trattative fra governo e Santa Sede
iniziarono segretamente nell'estate del '26 e si conclusero l'11 febbraio del '29 con la firma, da parte
di Mussolini e del segretario di Stato vaticano cardinal Gasparri, dei Patti Lateranensi. I patti si
articolavano in tre parti: 1) trattato internazionale: la Santa Sede poneva fine alla “questione romana”
riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e vedendosi riconosciuta la sovranità sullo Stato della
Città del Vaticano. 2) convenzione finanziaria: l'Italia si impegnava a pagare al papa una indennità a
titolo di risarcimento per la perdita dello Stato pontificio. 3) concordato: regolava i rapporti tra Chiesa
e Regno d'Italia e stabiliva fra l'altro che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare, che
l'insegnamento della dottrina cattolica fosse considerato fondamento e coronamento dell'istruzione
pubblica, che le organizzazioni dell'Azione Cattolica potessero continuare a svolgere le proprie
attività sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito politico. Con i Patti
Lateranensi Mussolini rafforzò la sua area di consenso e la estese alla parte della popolazione rimasta
ostile o indifferente. Le elezioni plebiscitarie del '29 registrarono il 98% di voti favorevoli. La Chiesa
acquistò una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato e rafforzò la sua presenza nella società:
mantenendo le organizzazioni dell'Azione Cattolica, la gerarchia ecclesiastica manteneva un margine
di autonomia ed entrava i concorrenza col fascismo nel settore delle organizzazioni giovanili che li
usò per formare una classe dirigente capace, all'occorrenza, di prendere il posto di quella fascista.
Un'altro limite del fascismo era rappresentato dalla monarchia: Mussolini dovette fare i conti con
l'autorità del re, che non gli era in alcun modo subordinato e che non deriva dal fascismo i suoi titoli
di legittimità. Il re restava la più alta carica dello Stato, a lui spettavano il comando supremo delle
forze armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e revoca del capo del governo. Erano poteri
teorici finchè il regime fosse rimasto forte e compatto attorno al suo capo.
Durante il periodo fascista l'Italia continuò a muoversi e a svilupparsi secondo le linee di tendenze
comuni a tutti i paesi dell'Europa occidentale, con un ritmo più lento in confronto al ventennio
precedente. La popolazione salì da 38 a 44 milioni nel '39; si accentuò l'urbanizzazione; gli addetti
all'agricoltura sul totale della popolazione attiva calò da 58 al 51%, quella degli occupati nell'industria
passò da 23 al 26,5% e quella degli addetti al terziario dal 18 al 22%. Alla vigilia della guerra il paese
era ancora fortemente arretrato e non si era ridotto il suo distacco dalle grandi potenze europee.
L'Italiano medio si nutriva essenzialmente di farina, mangiava carne e beveva latte in quantità tre
volte inferiore a quello di un inglese, il caffè, il tè e lo zucchero erano considerati beni di lusso. Nel
'38 c'era 1 automobile ogni 100 abitanti, 1 telefono ogni 70 e una radio ogni 40. L'arretratezza
economica e civile aiutò il regime e l'ideologia fascista o perlomeno ne favorì le tendenze
conservatrici e tradizionaliste: predicò il ritorni alle campagne, esaltò la bellezza e la sanità della vita
campestre, lanciò la parola della ruralizzazione e tentò di scoraggiare l'afflusso nelle città. Difese ed
esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base dello
sviluppo demografico: furono aumentati gli assegni familiari dei lavoratori,nel '27 fu imposta una
tassa sui celibi. Il regime ostacolò il processo di emancipazione femminile: vennero introdotti i Fasci
femminili, le piccole italiane, le giovani italiane e , la più importante, le massaie rurali. Erano
organismi poco vitali, la cui funzione principale stava nel valorizzare le virtù domestiche delle donne,
nel ribadirne l'immagine tradizionale diffusa attraverso la stampa, la letteratura fascista e i testi per le
scuole. In un'altro lato il regime era proiettato verso il futuro, verso la creazione di un uomo nuovo,
verso un sistema totalitario moderno, in cui la popolazione era inquadrata nelle strutture del regime,
pronta a combattere per la grandezza nazionale. Il processo era reso difficile dalla scarsezza delle
risorse a disposizione della società che impediva al fascismo di praticare una politica economica e
salariale tale da poter far breccia tra le classi lavoratrici. Nel 1927 fu varata la Carta del lavoro che
prevedeva, fra l'altro, l'uguaglianza giuridica fra imprenditori e prestatori d'opera e di solidarietà fra
i vari settori della produzione. In realtà vi fu un calo costante dei salari e la conseguente compressione
dei consumi alimentari che andarono contraendosi negli anni '30. I maggiori successi in termini di
consenso, il regime li ottenne dalla media e piccola borghesia che furono favoriti dalle scelte
economiche del regime, si videro aprire nuovi canali di ascesa sociale dalla moltiplicazione degli
apparati burocratici ed erano i più sensibili ai valori del fascismo. Il regime riuscì a cambiare i
comportamenti pubblici e le forme di partecipazione collettiva, ma non gli schemi mentale e le
strutture sociali.
Il fascismo dedicò un'attenzione particolare al mondo della cultura e della scuola: la scuola fu
profondamente ristrutturata nel '23 con la riforma Gentile, ispirata ai principi della pedagogia
idealistica, che cercava di accentuare la severità degli studi e sanciva il primato delle discipline
umanistiche su quelle tecniche. Il regime, una volta consolidatosi, si preoccupò di fascistizzare
l'istruzione sia attraverso una stretta sorveglianza sugli insegnanti, sia attraverso il controllo dei libri
scolastici e l'imposizione, dal 1930, di un testo unico per le elementari. L'università godette di
maggiore autonomia, ma non la usò per contestare il fascismo: quando, nel 1931, fu imposto il
giuramento di fedeltà al regime, solo 12 insegnanti su 1200 rifiutarono perdendo le loro cattedre. Vi
furono insegnanti non fascisti o antifascisti che si piegarono all'imposizione solo per non perdere il
loro ruolo. In generale, gli ambienti dell'alta cultura si allinearono su una posizione di adesione al
regime: da Pirandello a Marconi da Mascagni a Volpe. Quasi tutti, comunque, accettarono di inserirsi
nelle istituzioni culturali pubbliche, godendo delle gratificazioni materiali e dei riconoscimenti di cui
il fascismo fu prodigo nei suoi confronti. Sulle attività culturali che si rivolgevano ad un pubblico
specialistico il controllo del fascismo si esercitò in forme blande, ben più diretto fu il controllo nel
campo della cultura e dei mezzi di comunicazioni di massa. Il settore della stampa politica fu
sottoposto ad un controllo sempre più stretto e soffocante da parte del potere centrale che interveniva
con precise direttive sul merito degli articoli. Affidata istituzionalmente a un apposito ufficio
dipendente dalla presidenza del Consiglio e infine assorbito dal ministero per la Cultura popolare
creato nel '37, il controllo della stampa lo esercitava direttamente Mussolini. Il controllo sulle
trasmissioni radiofoniche fu affidato dal '27 a un ente di Stato denominato Eiar. Dopo il '35 la radio
si affermò come essenziale canale di propaganda, grazie anche all'installazione degli apparecchi nelle
scuole, negli uffici pubblici e nelle sedi dell'organizzazione di partito, e solo negli ultimi anni '30
entrò stabilmente nelle case della classe media. Anche il cinema fu oggetto delle attenzioni del regime
e ne ricevette generosi sovvenzioni che avevano lo scopo di favorire la produzione nazionale, il
controllo fu piuttosto elastico, volto più a bandire dalle pellicole qualsiasi argomento politicamente e
socialmente scabroso. Per la propaganda bastavano i cinegiornali, prodotti dall'Istituto Luce, e
proiettati obbligatoriamente nelle sale prima di ogni spettacolo.
L'idea della “terza via” fu individuata nel corporativismo, il quale affondava le sue radici nel
Medioevo, nell'esperienza delle corporazioni di arti e mestieri. Il corporativismo avrebbe dovuto
significare gestione diretta dell'economia da parte delle categorie produttive, organizzate in
corporazioni distinte per settori di attività e comprendenti sia gli imprenditori sia i lavoratori
dipendenti. Questo sistema non venne mai veramente attuato, infatti, nel '34, quando vennero istituite
tutto si risolse nella creazione di una burocrazia sovrapposta a quella già esistente (statali, parastatali,
sindacali). Nei primi anni del governo, 1922-1925 il fascismo adottò una linea liberista e produttivista,
volta a rilanciare la produzione incoraggiando l'iniziativa privata e allentando i controlli statali, il
risultato fu il riaccendersi dell'inflazione, un deficit crescente verso l'estero e un forte deterioramenti
della lira che arrivò al livello di 145 lire per una sterlina. Nel 1925 il ruolo di ministro delle Finanze
passò a Giuseppe Volpi che inaugurò una politica fondata sul protezionismo, sulla deflazione, sulla
stabilizzazione monetaria e su un più energico intervento statale nell'economia. Nel '25 fu introdotto
l'inasprimento del dazio sui cereali: misura già inserita nel 1887 ma accompagnata da una campagna
propagandistica detta battaglia del grano. Scopo della battaglia era il raggiungimento
dell'autosufficienza del settore cerealicolo, attraverso l'aumento della superficie coltivata a grano e
tramite l'impiego di tecniche più avanzate. Alla fine degli anni '30 la produzione era aumentata del
50% e le importazioni si erano ridotte a 1/3 rispetto a quindici anni prima. La seconda battaglia fu
quella della rivalutazione della lira: nell'agosto del '26 Mussolini fissò l'obiettivo a 90 lire per una
sterlina; alla base c'era il desiderio di dare al paese un'immagine di stabilità monetaria oltre che
politica. L'obiettivo fu raggiunto in poco più di un anno, tramite una serie di provvedimenti che
limitavano drasticamente il credito e con l'aiuto di un prestito concessogli dalle banche statunitensi.
I prezzi interni diminuirono per effetto della politica deflazionistica e del minor costo delle
importazioni e la lira recuperò il potere d'acquisto. Le industrie che lavoravano per l'esportazione
furono le più colpite, in quanto la sopravalutazione della lira diminuì la competività dei loro prodotti;
le industrie operanti sul mercato interno poterono giovarsi della contrazione del costo del lavoro,
degli sgravi fiscali concessi dal governo e dell'aumento del costo delle commesse pubbliche. Ciò
favorì le grandi imprese e i processi di concentrazione aziendale, ma mise in crisi molte piccole e
medie aziende, sorte nei primi anni '20, che furono strozzate dalle restrizioni del credito, oltre che del
calo generale dei prezzi agricoli.
Le conseguenze della grande crisi mondiale si fece sentire meno in Italia, anche perchè con la nuova
politica economica del '25, che aveva accentuato la produzione del mercato interno, aveva in qualche
modo anticipato gli effetti negativi della depressione. In ogni caso il commercio con l'estero si ridusse
drasticamente, l'agricoltura subì un nuovo duro colpo a causa del calo delle esportazioni e
dell'ulteriore tracollo dei prezzi, le imprese industriali accusarono gravi difficoltà inducendo il
governo a decretare un nuovo taglio dei salari, la disoccupazione passò da 300.000 del '29 a 1.300.000
nel '33. La risposta del regime si attuò tramite: lo sviluppo dei lavori pubblici e l'intervento, diretto o
indiretto, dello Stato a sostegno dei settori in crisi. La prima ebbe il suo maggiore sviluppo a metà
degli anni '30: fu varato il risanamento del centro storico della capitale; un gigantesco programma di
bonifica integrale che fu attuato solo parzialmente ma si concluse in tre anni (dal '31 al '34). La sua
parte più impegnativa e spettacolare fu la bonifica dell'Agro Pontino: furono recuperati alle colture
circa 60.000 ettari; furono creati 3.000 nuovi poderi dove vennero insediati contadini provenienti
soprattutto dalla zona più depressa del Centro-Nord; furono costituiti villaggi rurali e nuove città
come Sabaudia e Latina. La bonifica delle Paludi Pontine rappresentò un grosso successo
propagandistico per il regime. Nel settore dell'industria e del credito, sotto la spinta di una crisi che
minacciava di provocare un collasso dell'intero sistema bancario: colpite dalla crisi erano in
particolare le grandi banche miste, Banca commerciale e Credito Italiano che, create alla fine dell'800
con lo scopo di sostenere gli investimenti nell'industria, controllavano quote azionarie sempre più
consistenti di importanti gruppi industriali. Per salvare le banche dal fallimento, il regime creò nel
1931 un istituto di credito pubblico (Imi, Istituto mobiliare italiano) col compito di sostituire le banche
nel sostegno alle industrie in crisi e, nel 1933, l'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). L'Iri
divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne rilevò le partecipazioni industriali, nei
progetti originari il compito dell'Iri doveva essere transitorio, accadde invece che la riprivatizzazione
risultò impraticabile e l'Iri diventò, nel '37, un ente permanente. Così lo Stato Italiano diventò Statoimprenditoriale e Stato-banchiere. I maggiori gruppi privati furono aiutati a rafforzarsi e a ingrandirsi
e accolsero con favore l'intervento statale, che finiva con l'accollare alla collettività i costi della crisi
industriale e bancaria. Mussolini non si servì di personale proveniente dal partito ma si affidò a
tecnici puri, come l'esperto d'agraria Arrigo Serpieri, massimo ispiratore della bonifica integrale, o
come Alberto Beneduce, fondatore e primo presidente dell'Iri. Intorno alla metà degli anni '30, l'Italia
uscì dalla fase più acuta della crisi e ne uscì prima e meglio rispetto alla maggior parte delle potenze
industriali. Il regime però, giunti a questo punto, non profittò della ripresa per mettere in moto un
processo di sviluppo, ma , a partire dal '31, Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese
militari che sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi e accentuò l'isolamento
economico del paese.
Diversamente della Germania, l'Italia non aveva da avanzare rivendicazioni territoriali plausibili,
capaci di mobilitare l'opinione pubblica. Vi fu una polemica ricorrente contro le democrazia
“plutocratiche”( predominio nella vita pubblica di individui o gruppi finanziari che, grazie all'ampia
disponibilità di capitali, sono in grado di influenzare in maniera determinante gli indirizzi politici dei
rispettivi governi), contrapposte, all'Italia proletaria, ricca di popolazione ma scarsa di risorse. Ciò
contribuì a rendere più tesi i rapporti con la Francia ma non impedì a mantenere buoni i rapporti con
la Gran Bretagna e di restare, nel complesso, all'interno del sistema di sicurezza collettiva fondato
sull'accordo fra le potenze vincitrici della guerra. Mentre si accordava, nell'accordo di Stresa, con le
potenze occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già preparando l'aggressione
all'Impero etiopico. Con la guerra d'Etiopia Mussolini voleva inanzitutto dare sfogo alla vocazione
imperiale del fascismo, vendicando lo scacco subito nel 1896 con la sconfitta di Adua e mostrando
che il suo regime poteva là dove la classe dirigente liberale aveva fallito. Voleva anche creare una
nuova mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economico-sociali del
paese. I governi inglesi e francesi erano disposti ad assecondare, in parte, le mire italiane, ma non
potevano accettare che uno Stato indipendente, membro della Società delle nazioni, fosse cancellato
da un atto di aggressione. I primi di ottobre del '35 l'Italia diede inizio all'invasione dell'Etiopia senza
farla precedere da una dichiarazione di guerra e i governi francesi e inglesi condannarono l'azione e
proposero al Consiglio delle Società delle nazioni l'adozione di sanzioni consistenti nel divieto di
esportare in Italia merci necessarie all'industria bellica. Le sanzioni non furono efficaci sia perchè il
blocco non era esteso alle materie prime sia perchè non impegnava gli Stati che non facevano parte
della Società delle nazioni, come gli Stati Uniti o la Germania. Ma ebbero l'effetto di approfondire il
contrasto tra il regime fascista e le democrazie europee e consentirono a Mussolini di montare una
campagna propagandistica tesa a presentare l'Italia come vittima di una congiura internazionale. Tutto
ciò smosse l'opinione pubblica, comprese le classi popolari che intravedevano nuovi posti di lavoro
e nuove possibilità di ricchezza. Inoltre la guerra venne presentata con scopo umanitari, una crociata
per liberare la popolazione etiopica da un regime corrotto e schiavista. Gli etiopici si batterono con
accanimento sotto la guida di Hailé Selassié, ma il loro esercito non poteva competere contro un corpo
di spedizione che giunse a impegnare quasi 400.000 uomini e che fece ampio ricorso ai mezzi
corazzati e all'aviazione. Il 5 maggio del 1936, le truppe italiane condotte dal maresciallo Badoglio,
entrarono in Addis Abeda. Da un punto di vista economico l'Etiopia, povero di risorse naturali e poco
adatto agli insediamenti agricolo, risultò un peso non indifferente, aggravato dai problemi delle
sanzioni. Sul piano politico, portando a termine una campagna coloniale vittoriosa, imponendo la
propria volontà alle democrazie occidentali e costringendole ad accettare il fatto compiuto, infatti le
sanzioni furono ritirate nell'estate del '36 e, successivamente, Gran Bretagna e Francia riconobbero
l'Impero italiano in Africa orientale. Nell'ottobre del 1936 ci fu la firma di un patto d'amicizia con la
Germania denominato Asse Roma-Berlino. Rafforzato dal comune impegno nella guerra civile
spagnola e, nel '37, dall'adesione al Patto anticomintern, stipulato anni prima fra Germania e
Giappone. Mussolini considerava l'avvicinamento della Germania come un mezzo di pressione sulle
potenze occidentale e che le consentisse di lucrare ulteriore vantaggio in campo coloniale. Credendo
di potersi servire dell'amicizia tedesca, ma in realtà il duce ne fu in realtà sempre più condizionato, al
punto di accettare le iniziative di Hitler. Nel maggio del '39 fu firmato il patto d'acciaio, patto formale
di alleanza.
A partire dagli anni '25-'26, quando il dissenso politico fu proibito per legge,un numero crescente di
italiani affrontarono il carecere o il confine politico,l'esilio o la clandestinità. La maggior parte degli
antifascisti si appartarono in volontario silenzio o sfruttarono i ristretti spazi di autonomia culturale.
Se i cattolici potevano contare su qualche forme di tacito e prudente appoggio da parte della Chiesa,
alleata del fascismo ma non a tal punto da rompere i rapporti con i vecchi militanti del Ppi, i liberali
trovarono un punto di riferimento in Benedetto Croce. Protetto dalla notorietà internazionale e da una
precisa scelta del regime, il filosofo proseguì senza grandi fastidi la sua attività culturale pubblicista.
Tramite i suoi libri e la sua rivista “La Critica”, molti intellettuali poterono conoscere e mantenere in
vita la tradizione dell'idealismo liberale, anche se questa attività fu possibile in quanto rinunciava alla
politica. I comunisti si occuparono dell'agitazione clandestina in patria, essi erano gli unici preparati
all'attività cospiratoria, sia per le caratteristiche della loro struttura organizzativa, sia perchè erano
stati i primi a ricevere la repressione sistematica da parte del regime. Durante il ventennio il Pci riuscì
a tenere in piedi e ad alimentare dall'interno e dall'esterno una propria rete clandestina, a diffondere
giornali e volantini di propaganda e ad infiltrare uomini nelle organizzazioni fasciste. Anche gli altri
gruppi antifascisti cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clandestino, ma la loro attività
si svolse soprattutto in Francia, dove molti esponenti antifascisti, tra cui Turati e Treves, si erano
rifugiati fra il '25 e il '27 e dove il Partito repubblicano e la Confederazione del lavoro ricostituirono
i loro organi dirigenti. Nel '27 questi gruppi si unirono nella Confederazione antifascista, che si
ricollegava all'esperienza dell'Aventino, ereditandone con il contenuto ideale anche i limiti pratici e
le divisioni interne, ma svolsero un'attività importante a livello di testimonianza e di propaganda,
fecero sentire la voce dell'Italia antifascista nelle organizzazioni internazionali, proseguirono in esilio
le elaborazioni ideologiche e i dibattiti politici iniziati in patria sulle ragioni della loro sconfitta e sui
fattori di una riscossa democratica. Nel 1930 il dibattito autocritico dei socialisti scaturì, in un
congresso tenuto a Parigi, nella riunificazione dei due tronconi in sui il Psi si era diviso nel '22.
Nell'estate del '29 fu fondato, per opera di Emilio Lussu e Carlo Rosselli, il movimento Giustizia e
Libertà, che voleva essere un organismo di lotta sul tipo del Partito d'azione mazziniano e si
proponeva come punto di raccordo fra i socialisti, i repubblicani e i liberali, come nucleo che sapesse
congiungere gli ideali di libertà politica e di giustizia sociale, ricomponendo le fratture fra liberismo
e marxismo, seguendo le linee indicate da Rosselli in un libro del '30 intitolato Socialismo liberale.
Fortemente polemici verso i partiti della Concentrazione e ostili ai tentativi di GL erano i comunisti,
anch'essi avevano un centro estero con sede a Parigi: esso dipendeva dai dirigenti che risiedevano a
Mosca, a contatto con i vertici dell'Internazionale comunista. Palmiro Togliatti, il leader che aveva
sostituito Gramsci e che guidò il partito negli anni dell'esilio e della clandestinità, era anche un
dirigente di primo piano del Comintern. A metà degli anni '30, la svolta dei fronti popolari inaugurò
per l'antifascismo italiano una fase nuova, che vide il Pci riannodare i contatti con le altre forze
d'opposizione, partecipare alle manifestazioni unitarie contro il fascismo, stringere nel '34 un patto
d'unità d'azione con i socialisti. Il fallimento del Fronte popolare in Francia, le lotte interne allo
schieramento repubblicano in Spagna, gli echi delle purghe staliniane, la rottura dell'Urss e le
democrazie occidentali culminata nel patto tedesco-sovietico del '39: tutti si ripercossero
negativamente sull'unità del movimento antifascista italiano, che fu colto disorientato e diviso dallo
scoppio del conflitto. Il movimento antifascista, fra il '26 e il '43, un ruolo di importanza politica oltre
che morale.
La politica fascista, sempre più ispirata a motivi di prestigio nazionale e condizionata dal peso delle
spese militari, che oltretutto servivano a domare i focolai di guerriglia in Etiopia e a sostenere
il'intervento in Spagna. Alla fine del '35, Mussolini decise di intensificare la politica dell'autarchia
che mirava ad una maggiore autosufficienza economica, soprattutto riguardante le materie prime
indispensabili in caso di guerra. L'autarchia si tradusse in una ulteriore stretta protezionistica, in uno
sfruttamento del sottosuolo e un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nelle fibre e nei
combustibili sintetici. L'industria chimica, metallurgica, meccanica e mineraria, trassero
dall'autarchia cospicui vantaggi. L'autosufficienza non si raggiunse mai: la produzione crebbe
lentamente, crebbero anche i prezzi che comportò un peggioramento di vita nelle classi popolari. A
livello di politica estera, Mussolini nominò Galeazzo Ciano alla carica di ministro degli Esteri. Ciò
non suscitò consenso nell'opinione pubblica e ancor meno piacque l'amicizia con la Germania,
amicizia che rompeva le tradizioni del Risorgimento e della grande guerra, e soprattutto andava
contro la generale antipatia per il regime nazista. Il duce auspicava per l'Italia un avvenire di
conquiste e di confronti militari. Mussolini pensava che gli italiani avrebbero dovuto rinnovarsi nel
profondo, trasformandosi in un popolo di attitudini e di tradizioni guerriere: ciò implicava da parte
del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti della popolazione, in particolare della
borghesia, inteso come atteggiamento mentale che doveva essere estirpato dal costume nazionale.
Venne creato il ministero per la Cultura popolare, vennero accorpate le organizzazioni giovanili nella
Gioventù italiana del littorio, vennero ampliate le funzioni del Pnf e nel 1939 venne sostituita la
Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione
elettorale, si entrava semplicemente in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime. Vennero
inoltre introdotte: la campagna contro l'uso del lei e contro tutti i termini stranieri; l'imposizione della
divisa ai funzionari pubblici; l'adozione del passo romano. Nell'autunno del 1938, vennero varate una
serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, preannunciata da un manifesto di sedicenti
scienziati che sosteneva l'esistenza di una pura razza italiana di indiscutibile origine ariana. Adottando
queste misure, Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell'orgoglio razziale
e di fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma, anziché suscitare
consenso e mobilitazione, le leggi razziali suscitarono sconcerto o perplessità nell'opinione pubblica
e aprirono un contrasto con la Chiesa, contraria alla discriminazione su base biologico-razziale.
L'unico settore in cui Mussolini ottenne qualche successo di rilievo fu quello giovanile, ma con lo
scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici, i giovani, diventati soldati e ufficiali e che quindi
vissero in prima persona al fallimento di un regime che, avendo puntato tutto sulla politica di potenza
e sull'esaltazione bellica, si dimostrò incapace di preparare sul serio la guerra.
12CAPITOLO: IL TRAMONTO DEL CONLONIALISMO. L'ASIA E L'AMERICA LATINA.
Gran Bretagna e Francia si illusero per molto tempo di poter continuare a svolgere il loro ruolo di
potenze mondiali, grazie alla scelta isolazionista degli Stati Uniti e grazie anche al fatto che i loro
domini d'oltre mare si erano moltiplicati, all'uscita dalla guerra, con l'acquisto delle colonie tedesche
e di alcuni territori dell'ex Impero ottomano. Per tutta la guerra, i francesi e gli inglesi, avevano fatto
ampio ricorso all'aiuto delle loro colonie, sotto forma sia di materie prime sia di uomini da mandare
al fronte. Il contatto con uomini provenienti da altre nazionalità influì in modo determinante lo
sviluppo dei movimenti indipendentisti in Asia e Africa, senza dimenticare gli echi della rivoluzione
russa. I bolscevichi promossero una politica di autonomie amministrative dei territori non russi
appartenenti all'Impero zarista, ma cercavano di dare all'esperienza rivoluzionaria il valore di un
messaggio universale, promuovendo la liberazione dei popoli dell'imperialismo e sostenendo
apertamente i movimenti anticoloniali. Inoltre si diffuse l'ideologia wilsoniana, che teoricamente
riconosceva a tutti i popoli il diritto dell'autodeterminazione. Alla conferenze di pace gli Stati Uniti
si batterono perchè l'assegnazione dei territori appartenenti alla Germania e all'Impero ottomano fosse
sotto forma di mandato: di un'amministrazione a carattere temporaneo che avrebbe dovuto preparare
i popoli “immaturi” alla piena indipendenza.
AREA MEDIO-ORIENTALE: gli impegni contraddittori assunti dalle potenze dell'Intesa sul destino
dei territori abitati da popolazioni arabe determinarono una situazione intricata. Gli inglesi avevano
giocato la carta del nazionalismo arabo: nel 1915-16 l'alto commissario britannico per l'Egitto, Mac
Mahon, si accordò con lo sceriffo della Mecca Hussein, promettendo, in cambio di una collaborazione
militare contro l'Impero ottomano, l'appoggio del suo governo alla creazione di un grande regno arabo
indipendente comprendente l'Arabia, la Mesopotamia e la Siria. Nel 1916 Hussein lanciò le sue truppe
in una “guerra santa” contro i turchi, che si accompagnò alla campagna dell'esercito inglese. Alla
guida delle truppe vo erano i figli di Hussein, Abdallah e Feisal; loro consigliere era il colonnello
Thomas Edward Lawrence. Gli inglesi non sapevano però delle rivendicazioni territoriali della
Francia: nel maggio del 1916 i due paesi si spartirono la zona compresa fra la Turchia e la penisola
arabica, alla Francia la Siria e il Libano, all'Inghilterra la Mesopotamia e la Palestina. A guerra finita,
nonostante le proteste degli arabi, la spartizione fu attuata sottoforma di mandato. Come compenso
per la rinuncia al grande regno arabo, la Gran Bretagna creò, nella sua zona, due nuovi stati, l'Iraq e
la Transgiordania. Nel 1917 il ministro degli esteri inglese, Balfour, riconobbe il diritto del
movimento sionista in Palestina a creare una sede nazionale per il popolo ebraico. Con la
“dichiarazione di Balfour” venne leggittimata, in termini ambigui, l'immigrazione sionista, con essa
si ebbero, nel '20-'21 i primi violenti scontri fra ebrei e residenti arabi, insofferenti della minaccia ai
loro diritti sulla Palestina.
TURCHIA: il risveglio nazionale arabo fu causa ed effetto del definitivo collasso dell'Impero
ottomano. Drasticamente ridimensionato territorialmente, amputato del suo nucleo storico (l'Anatolia)
dall'occupazione greca di Smirne, era anche oggetto di spartizione in zone di influenza da parte di
Gran Bretagna e Francia, che occupavano militarmente alcune regioni costiere e manovravano il
governo centrale inefficiente e corrotto. Mustafà Kemal, un generale che aveva partecipato al
moviemto dei giovani turchi e aveva combattuto con gli inglesi durante la guerra, assunse la guida
del movimento di riscossa nazionale. Un'Assemblea nazionale riunita ad Ankara nella primavera del
'20, affidò a Kemal il compito di liberare il suolo turco dagli stranieri. Inglesi e francesi rinunciarono
ai loro progetti di penetrazione economica e lasciarono la Grecia da sola contro i turchi: fra il '21 e il
'22 l'eserciti di Kemal sconfisse ripetutamente quello greco e li costrinse a lasciare la zona di Smirne.
La Turchia ebbe riconosciuta la sua sovranità in tutta l'Anatolia e si vide restituita la Tracia orientale,
recuperando così il controllo degli stretti. Nel novembre del '22 venne abolito il sultanato e l'anno
dopo fu proclamata la repubblica turca: Kemal venne nominato presidente con poteri semidittoriali e
avviò una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato che lo portò a scontrarsi con i
musulmani tradizionalisti.
IMPERO BRITANNICO E INDIA: già verso il '20 gli inglesi allentarono i vincoli tra la madre patria
e i territori d'oltre mare. Nel '22 rinunciò al protettorato sull'Egitto, che si trasformò in regno
autonomo e ottenne nel '36 la piena indipendenza, pur restando nell'orbita dell'Inghilterra che
mantenne un buon controllo sul Canale di Suez. Nella conferenza imperiale, tenuta a Londra nel '26,
il Canada, il Sudafrica e l'Australia, che già vivevano in condizione di semi-indipendenza, furono
riconosciute come “comunità autonome ed eguali in seno all'Impero”, ovvero legate in fedeltà alla
corona e “liberamente associate come membri del Commonwealth britannico”. Il processo di
emancipazione più difficile fu affrontato dall'India che era la più importante colonia britannica sul
piano economico e strategico. Durante il conflitto mondiale, il governo inglese aveva premiato il
lealismo della classe dirigente locale promettendo ufficialmente, nel 1917, una crescente associazione
degli indiani nell'amministrazione e uno sviluppo graduale di autogoverno. Queste promesse furono
attuate in modo lento e parziale e non bastarono a fermare il movimento indipendentistico indiano.
Quando, nel '19, una manifestazione popolare ad Amristar fu repressa duramente col sangue, il
distacco tra colonizzatori e coloni fu incurabile: il movimento nazionalista indiano, organizzatosi nel
'20 nel Partito del Congresso, iniziò a riscuotere grandi consensi grazie alle predicazioni del nuovo
leader Mohandas Karamchand Gandhi, che predicava la non violenza, la resistenza passiva, il rifiuto
di qualsiasi forma di collaborazione con i dominatori e coniugò la battaglia per l'indipendenza con
quella per la rottura del sistema delle caste: fece del nazionalismo indiano un movimento di massa. A
ciò gli inglesi risposero alternando gli interventi repressivi alle concessioni: nel '21, col Government
of India Act, fu dato maggiore spazio agli indiani all'interno dell'amministrazione, fu attuato un
limitato decentramento e fu consentita a una ristretta minoranza della popolazione l'elezione dei
propri organismi rappresentativi.
CINA: negli anni fra le due guerre la Cina fu teatro di una lunga guerra civile. Impostosi nel 1913 il
regime autoritario da Yuan Shi-kai, dopo la sua morte avvenuta nel '16, il governo non riuscì a imporre
la sua autorità alle provincie, dove i governatori militari, i cosiddetti signori della guerra, si
comportavano come capi feudali, arruolavano milizie e imponenevano tributi;nè ebbero la forza di
contrastare il Giappone, entrato in guerra contro la Germania, che mirava a sostituirsi alle potenze
europee nel controllo delle zone più ricche della Cina. Il governo allora decise , nel '17, di entrare in
guerra a fianco dell'Intesa, ma le potenze occidentali riconobbero il diritto al Giappone di subentrare
alla Germania nel controllo economico della regione dello Shantung. Ciò risvegliò l'agitazione
nazionalista che si raccolse nuovamente intorno al Kuomintang e al suo leader Sun Yat-sen, ed esplose
nel maggio del 1919 in una serie di dimostrazioni iniziate dalle università e propagatesi in tutte le
grandi città. Alla base c'era l'alleanza fra gioventù intellettuale, la nascente borghesia industriale e
commerciale insofferente dall'invadenza straniera e quei nuclei di classe operaia che si erano formati
nelle regioni più soggette alle penetrazioni del capitale europeo. La lotta intrapresa da Sun Yat-sen,
che nel '21 formò un proprio governo a Canton, ebbe l'appoggio del Partito comunista cinese, fondato
nel '21 da un gruppo di intellettuale, fra i quali Mao Tse-tung, e dopo influenzati dalla rivoluzione
russa. L'Unione Sovietica sostenne attivamente la lotta di Sun Yat-sen, inviò aiuti economici e militari
al governo di Canton e indusse il Partito comunista ad aderire in blocco al Kuomintang. L'alleanza
fra nazionalisti e comunisti non sopravvisse alla morte, nel '25, di Sun Yat-sen: il successore, Chang
Kai-shek, esponente dell'ala moderata del Kuomintang, era molto meno aperto alle riforme sociali e
più diffidente nei riguardi dei comunisti, che suscitavano preoccupazioni anche nei ceti borghesi. Nel
1926 l'esercito guidato da Chang Kai-shek, iniziò la campagna per riunificare il paese e scacciare il
governo legale di Pechino. Nell'aprile del '27 a Shangai, massimo centro industriale cinese e
roccaforte dei comunisti, le milizie operaie armate furono sconfitte dalle truppe di Chang Kai-shek ;
in dicembre, un'insurrezione operai a Canton fu repressa col sangue, il Partito comunista messo fuori
legge e molti dirigenti incarcerati. Chang Kai-shek cercò di riorganizzare l'economia e l'apparato
statale secondo modelli occidentalisti. Il progetto si scontrava però davanti ad un paese enorme e
profondamente diviso: da un lato c'erano i comunisti che cominciarono a organizzare “basi rosse”
nelle campagne; dall'altro sopravvivevano in alcune provincie le velleità atonomiste dei “signori della
guerra” aiutati dal Giappone, che voleva espandersi nel Paese e voleva consalidare un potere statale.
Nel 1931 i giapponesi invasero la Manciuria e vi crearono uno Stato-fantoccio, il Manchu-kuo, che
sarebbe servito come base per un'ulteriore espansione sul continente. Intanto decisiva per le fortune
del Partito comunista si rivelava la strategia contadina imposta soprattutto da Mao Tse-tung: strategia
che individuava nelle masse rurali il vero protagonista del processo rivoluzionario e rovesciava la
teoria marxista ortodossa in modo più radicale di quanto avesse fatto Lenin. All'inizio degli anni '30
i comunisti allargarono le loro basi in molte zone agricole e fondarono una “Repubblica societica
cinese” con centro nella regione del Kiang-si. Chang Kai-shek decise di dare la priorità alla lotta
contro i comunisti e lanciò, fra il '31 e il '34, una serie di sanguinose campagne militari contro le zone
da loro controlalte. I comunisti dovettero abbandonare molte delle loro posizioni: nell'ottobre del '34
circa 100.000 comunisti accerchiati nello Hunan decisero di evacuare la zona e di trasferirsi nella
regione dello Shanxi, giudicata meglio difendibile. Ne giunsero a destinazione meno di 10.000, dopo
una marcia durata cisca un anno attraverso l'interno della cina. La lunga marcia di Mao Tse-tung,
leader incontrastato del partito, riuscì a salvare il nucleo dorogente comunista e a ricostruire la sua
Repubblica sovietica nelle zone in cui era più forte la minaccia giapponese. Nel '36 Chang Kai-shek
decise di lanciare una nuova campagna contro i comunisti, ma si scontrò con la dissidenza di una
parte dell'esercito che chiedeva la fine della guerra civile e l'unione di tutte le forze nazionali contro
l'aggressione giapponese. All'inizio del '37 ci fu un accordo tra nazionalisti e comunisti, con cui le
due parti si impegnavano a costruire un fronte unito contro l'imperialismo straniero; nell'estate del'37
i giapponesi sferrarono un'attacco contro l'intero territorio cinese, questa volta la resistenza fu accanita
ma non bastò a fermare i giapponesi. Nell'estate del '38 il Giappone controllava buona parte della
zona costiera, tutto il Nord-est industrializzato e quasi tutte le città importanti.
GIAPPONE: la partecipazione alla grande guerra consentì al Paese di consolidare la sua posizione di
massima potenza asiatica e di rafforzare la sua forza produttiva, grazie alla conquista di nuovi mercati
non più raggiungibili alle potenze europee impegnate nel conflitto. Il dinamismo dell'economia, in
particolare delle grandi concentrazioni industriali-finanziarie, gli zaibatsu, la cescita demografica, la
struttura “prussiana” della classe dirigente, imperniata sull'unione fra grande industria, grande
proprietà terriera e alti gradi militari, spingevano il Giappone verso una politica imperialistica nel
Pacifico e nell'intera Asia orientale. Negli anni '20 fecero la loro comparsa movimenti autoritari di
destra, da una parte ispirati al modello dei fascismo occidentali, in parte impregnati di cultira
tradizionalista. Alla fine degli anni '20 furono favoriti sia dalle conseguenze della grande crisi sia
dalle preoccupazioni suscitate nella classe dirigente dai progressi delle sinistre nelle prime elezioni a
suffragio universale che si tennero nel '28. Cominciò una stagione di crescente autoritarismo ma che
non sfociò mai in forme esplicitamente fasciste: nel '36 un tentativo di colpo di Stao dei gruppi di
estrema destra fu stroncato dall'esercito; nel '40 fu istituito un regime a partito unico. In ogni caso
venne chiuso ogni spazio di opposizione legale, vennero attuate repressioni antioperaie, il controllo
venne preso dai generali e dagli esponenti degli zaibatsu, con la copertura del nuovo imperatore
Hirohito. Essi decisero per la guerra in Cina e successivamente per l'entrata nella seconda guerra
mondiale.
AMERICA LATINA: la grande crisi mise in difficoltà le economie di tutti i paesi del continente che
si fondavano sulle esportazioni di minerali, carne e prodotti agricoli. Brasile, Argentina, Cile e
Messico reagirono promuovendo un processo di diversificazione produttiva che li portò a sviluppare
alcuni settori di industria manifatturiera e a dar vita anche a qualche nucleo di industria pesante. Nei
paesi che erano riusciti a svincolarsi dal vecchio modello della monocultura continuarono a prevalere
le vecchie oligarchie terriere, in un alternarsi di regimi liberali e di dittature personali gestite da
militari: 1930 Trujillo a Santo Domingo; 1933 Batista a Cuba; 1936 Somoza in Nicaragua. Gli Stati
in cui la diversificazione produttiva aveva messo in moto nuovi processi di crescita e favorito
l'emergere della classe operaia, conobbero sviluppi più complessi in cui l'emergere di nuove istanze
sociali si intrecciava con la crisi dei valori liberal-democratici arrivati dall'Europa. Nell'autunno del
'30 due sommovimenti politici quasi contemporanei si ebbero in Brasile e in Argentina. In
quest'ultima un colpo di Stato militare rovesciò il presidente Yrigoyen e seguirono, per oltre un
decennio, una serie di governi conservatori tenuti sotto controllo dai generali e dalle oligarchie terriere.
In Brasile una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie portò al potere Getúlio Vargas: egli diede
vita ad un regime autoritario e populista basato sulla comunicazione diretta tra capo e masse,
intervento statale a sostegno della produzione, concessione di una legislazione sociale abbastanza
avanzata per i lavoratori urbani. Simile al fascismo lo era per l'approvazione di una costituzione di
tipo corporativo e per la proclamazione di un Estado nuovo, se ne differenziò per il carattere blando
del suo autotitarismo e per il sostegno di cui godeva fra i lavoratori organizzati.
13CAPITOLO: LA SECONDA GUERRA MONDIALE.
Le democrazie occidentali si erano illuse, a Monaco, di aver placato la Germania con la cessione dei
Sudeti. Ma già nell'ottobre del '39 Hitler aveva pronti i piani per l'occupazione della Boemia e della
Moravia: l'operazione scattò nel marzo del '39 e fu facilitata dallo sfaldamento della compagine statale
cecoslovacca, indebolita dalla perdita dei Sudeti e dalle lotte fra le diverse nazionalità. Mentre la
Slovacchia si proclamò indipendente con l'aiuto dei tedeschi, Hitler dava vita al protettorato di
Boemia e Moravia. Fra il marzo e il maggio del 1939 Gran Bretagna e Francia diedero vita ad un
offensiva diplomatica per contenere l'aggressività delle potenze dell'Asse con una rete di alleanze
estesa: patti di assistenza militare furono fatti con Belgio,Olanda,Grecia, Romania e Turchia. Il più
importante fu quello con la Polonia che costituiva il primo obiettivo nell'espansione tedesca, già in
Marzo, infatti, Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso il
“corridoio” che univa la città al territorio polacco. In questa situazione Mussolini cercò dapprima di
contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa unilaterale: nell'aprile del 1939 occupò il
Regno di Albania, considerato base per una possibile penetrazione nei Balcani, ma ebbe il risultato
di accrescere la tensione fra l'Italia e le democrazie occidentali. Nel maggio del '39 Mussolini decise
di accettare le pesanti richieste tedesche di trasformare l'Asse Roma-Berlino in una vera alleanza
militare, che fu chiamata patto d'acciaio: questo stabiliva che, se una delle due parti si fosse trovata
impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi, anche in veste d'aggressore quindi, l'altra sarebbe
entrata per forza in campo al suo fianco. Mussolini e Ciano accettarono pur sapendo che l'Italia non
era pronta militarmente a un conflitto europeo, fidandosi delle assicurazioni verbali di Hitler circa la
sua intenzione di non scatenare la guerra prima di due o tre anni. Nel maggio del '39 la Germania
stava preparando i piani per l'invasione della Polonia. Le trattative delle potenze alleate con l'Urss
furono compromesse da una serie di reciproche diffidenze: i sovietici sospettavano che gli occidentali
mirassero a scatenare su di loro l'aggressività della Germania; gli occidentali attribuivano ai sovietici
mire egemoniche sull'Europa dell'Est; inoltre i polacchi non volevano concedere alle truppe dell'Urss
il permesso di attraversare il proprio territorio in caso di attacco da parte della Germania. Il 23 agosto
1939, inaspettatamente, i ministri degli Esteri Ribbentrop e Molotov firmavano, a Mosca, un patto di
non aggressione fra Germania e Russia. Così l'Urss non solo allontanava momentaneamente la
minaccia tedesca dai suoi confini, ma otteneva anche, mediante protocollo segreto, un riconoscimento
delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della Romania e della Polonia, di cui
si prevedeva la spartizione. Hitler, d'altra parte, doveva cambiare la sua strategia di fondo rinviando
lo scontro contro il nemico storico, ma intanto poteva risolvere la questione polacca senza correre il
rischio della guerra su due fronti. Il 1° settembre 1939, le truppe tedesche attaccavano la Polonia; il
3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiaravano guerra alla Germania, mentre l'Italia, il giorno
stesso dello scoppio delle ostilità, dichiarò la sua non belligeranza.
Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia e per
offrire al mondo un'impressionante dimostrazione di efficienza bellica. Fu la prima applicazione della
guerra-lampo, nuovo metodo che si basava sull'uso congiunto dell'aviazione e delle forze corazzate,
affidando a queste ultime il peso principale dell'attacco. A metà settembre le armate del Reich
assediavano Varsavia che capitolò alla fine del mese. Frattanto i russi, in base alle clausole del patto
Motolov-Ribbentrop, si impadronivano delle regioni orientali del paese. Tedeschi e sovietici
imponenevano nei territori sotto il loro controllo uno spietato regime di occupazione. La Repubblica
polacca cessava così di esistere, senza aver ricevuto dall'alleanza alcun aiuto concreto. Per i successivi
sette mesi, la guerra in occidente restò congelata, ma il teatro di guerra si spostò nell'Europa del Nord:
il 30 novembre l'Urss attaccò la Finlandia, colpevole di aver rifiutato alcune rettifiche di confine. I
finlandesi resistettero per più di tre mesi ma, nel marzo del '40 divette cedere alle richieste sovietiche,
conservando tuttavia la sua indipendenza. Il 9 aprile del 1940, la Germania lanciò un attacco
improvviso alla Danimarca e alla Norvegia. La prima si arrese senza combattere, la seconda oppose
una certa resistenza, aiutata anche da un tardivo sbarco alleato nel Nord, ma non riuscì a vincere.
Nella primavera del '40 Hitler controllava buona parte dell'Europa centro-settentrionale.
Il 10 maggio del 1940 iniziò l'offensiva occidentale e la Germania attaccò la Francia. A provocare la
sconfitta furono gli errori dei comandi francesi, ancora legati a una concezione statica della guerra e
troppo fiduciosi nell'efficacia delle fortificazioni difensive che costituivano la linea Maginot:
fortificazioni che copriva solo la frontiera franco-tedesca, lasciando scoperto il confine col Belgio e
con Lussemburgo. I tedeschi iniziarono l'attacco violando la neutralità degli Stati confinanti e
invasero anche, oltre al Belgio, Olanda e Lussemburgo. Fra il 12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato
la foresta delle Ardenne, considerata dai francesi invalicabile dai carri armati, i reparti corazzati
tedeschi sfondarono le linee nemiche nei pressi di Sedan. Colpito nel punto più debole, lo
schieramento alleato cedette: i tedeschi dilagarono in pianura e puntarono verso il mare, chiudendo
in una sacca molti reparti francesi e belgi e l'intero corpo di spedizione inglese. Iniziò una sosta
tedesca, dovuta in parte, all'esigenza di riorganizzare le forze in vista del definitivo attacco alla
Francia, in parte a un calcolo politico di Hitler, che voleva lasciarsi aperta la strada di un accordo con
la Gran Bretagna. Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi e il Presidente del Consiglio Philippe
Pétain aprì le trattative per l'armistizio. Il generale Charles de Gaulle lanciò invano da Londra, il 18
giugno,un appello ai francesi per incitarli a combattere a fianco degli alleati. L'armistizio fu firmato
il 22 giugno nel villaggio di Rethondes e nello stesso vagone ferroviario che nel '18 avevano visto i
tedeschi piegarsi ai vincitori di allora. In base all'armistizio il governo conservava la sua sovranità
sulla metà centro-meridionale del paese e sulle colonie, il resto della Francia restava sotto
l'occupazione tedesca. Questo accadimento segnò anche la fine della Terza Repubblica francese: il 9
luglio l'Assemblea nazionale, riunita a Vichy, affidava al presidente del Consiglio il compito di
promulgare una nuova costituzione. Pétain attribuiva le responsabilità della sconfitta alla classe
dirigente repubblicana e al sistema democratico-parlamentare e così promosse la “rivoluzione
nazionale” che prevedeva, tra l'altro, il culto dell'autorità,la difesa della religione e della famiglia.
Ogni rapporto con la Gran Bretagna fu chiuso il 3 luglio dopo che la flotta francese, ancorata nella
baia di Mers el Kebir in Algeria, fu distrutta da quella inglese per evitare che cadesse in mano ai
tedeschi.
Allo scoppio della guerra l'Italia dovette necessariamente dichiarare la sua non belligeranza dovuta
anche dal fatto che l'equipaggiamento delle forze armate, già scarso e antiquato, era stato
ulteriormente impoverito dalle imprese di Etiopia e Spagna. Il crollo repentino della Francia spinse
via le esitazione di Mussolini e di quei settori della classe dirigente fin allora contrari alla guerra: il
re, i gerarchi dell'ala moderata, gli industriali e i vertici militari. Anche l'opinione pubblica cambiò
orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria da ottenere con pochissimo sforzo. Il 10 giugno
del 1940 Mussolini annunciava l'entrata in guerra “contro le democrazie plutocratiche e reazionarie
dell'Occidente”. L'offensiva sulle Alpi, sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità
numerica contro un avversario praticamente già sconfitto, si risolse in una grossa prova di inefficienza:
la penetrazione in Francia fu limitatissima e ci furono 5000 fra morti e feriti. La Francia chiese
l'armistizio che fu firmato il 24 giugno e prevedeva solo qualche minima rettifica di confine e la
smilitarizzazione di una fascia di territorio francese profonda 50 km. Nel Mediterraneo la flotta
italiana subì, in luglio, due successive sconfitte da quella britannica, sulle coste della Calabria e nei
pressi di Creta. In Africa settentrionale, l'attacco lanciato in settembre dal territorio libico contro le
forze inglesi in Egitto dovette arrestarsi a causa dell'insufficienza dei mezzi corazzati. Un'offerta
d'aiuto offerta dalla Germania fu rifiutata da Mussolini convinto che l'Italia dovesse combattere una
guerra parallela e non coincidente con quella tedesca.
Dal giugno del '40, la Gran Bretagna era rimasta sola a combattere contro la Germania e i suoi alleati.
Ogni ipotesi di tregua trovò un ostacolo insuperabile nella volontà della classe dirigente e del popolo
britannico di continuare la lotta, fidando sulla forza marittima ancora intatta e sul sostegno del
Commonwealth. Interprete e ispiratore di questa volontà di lotta fu il primo ministro conservatore
Winston Churchill, chiamato nel maggio del '40 a guidare il nuovo governo di coalizione nazionale
che annunciò: “la guerra per mare, per terra e nell'aria, con tutte le nostre energie......la vittoria a tutti
i costi, per quanto lunga e dura possa essere la strada”. All'inizio di luglio Hitler dava il via al progetto
per l'invasione dell'Inghilterra, l'operazione leone marino: per circa tre mesi l'aviazione tedesca,
Luftwaffe, effettuò continue incursioni in territorio britannico, prima contro obiettivi militari e poi
contro i principali centri industriali. Gli attacchi furono efficaciemente contrastata dai caccia della
Royal Air Force, Raf, che tra l'altro possedevano un ottimo sistema di informazione e di avvistamento
radar. Era chiaro che l'Inghilterra non era stata piegata e l'operazione leone marino fu rinviata.
Il 28 ottobre del 1940 l'esercito italiano attaccava improvvisamente la Grecia, un paese con regime
semifascista con cui l'Italia aveva mantenuto buoni rapporti. L'attacco fu determinato soprattutto da
ragioni di concorrenza con la Germania che aveva appena iniziato la penetrazione militare in Romania.
L'offensiva italiana si scontrò con una resistenza molto più dura del previsto e alla fine di novembre,
i greci passarono al cotrattacco e gli italiani furono costretti a ripiegare in territorio albanese e a
schierarsi sulla difensiva. Le notizie provenienti dal fronte albanese diedero un durissimo colpo
all'immagine guerriera del regime e alla popolarità di Mussolini. Nel dicembre del '40 gli inglesi erano
passati al contrattacco in Africa e in meno di due mesi avevano conquistato l'intera Cirenaica.
Mussolini fu costretto ad accettare l'aiuto tedesco e in marzo, con l'arrivo dei primi reparti tedeschi
comandati da un brillante stratega di movimento, il generale Erwin Rommel, le truppe dell'Asse
cominciarono la controffensiva che portò alla riconquista della Cirenaica. Ma Etiopia, Somalia e
Eritrea, sotto il controllo italiano, stava cadendo nelle mani degli inglesi che, il 6 aprile 1941,
occuparono Addis Abeda. Nell'aprile del 1941 la Jugoslavia e la Grecia, attaccate simultaneamente
da truppe tedesche e italiane, furono rapidamente travolte, mentre gli inglesi erano costretti a ritirarsi.
Quindi nella primavera-estate del 1941 restava aperto solo il fronte nordafricano.
All'inizio dell'estate del 1941 la Germania attaccò l'Urss. Il movimento comunista internazionale,
schierato dopo l'agosto del '39 su una posizione di condanna dei due “opposti imperialismi”, si
riconvertì all'alleanza con la democrazia e alla lotta contro il fascismo. Stalin si era illuso che Hitler
non avrebbe mai attaccato la Russia prima di aver sconfitto la Gran Bretagna, così quando il 22 giugno
del 1941 l'offensiva tedesca, operazione Barbarossa, scattò su un fronte che andava dal Baltico al Mar
Nero, i russi furono colti impreparati, ed essa fu aggravata dal fatto che le grandi purghe del '37
avevano privato l'Armata rossa dei suoi migliori comandanti. In due settimane i tedeschi penetrarono
per centinaia di km nel territorio russo e misero fuori combattimento 600.000 avversari. L'offensiva,
cui prese parte anche un corpo di spedizione italiano, continuò per tutta l'estate su due versanti: a nord,
attraverso le regioni baltiche,e a sud, attraverso l'Ucraina con l'obiettivo di raggiungere il Caucaso.
L'attacco decisivo verso Mosca fu sferrato troppo tardi e fu bloccato a poche decine di km dalla
capitale. In dicembre i sovietici lanciavano la prima controffensiva, allontanando la minaccia da
Mosca. All'inizio dell'inverno i tedeschi erano ancora padroni dell'Ucraina, della Bielorussia e delle
regioni baltiche, ma Hitler era costretto a tenere il grosso del suo esercito immobilizzato nelle pianure
russe. Guidata da Stalin la resistenza dei sovietici risultò più efficacie del previsto, attingendo a un
grandissimo serbatoio umano e riorganizzando la produzione industriale. Anche la guerra
meccanizzata diventava così guerra d'usura, in cui l'elemento decisivo era la capacità di compensare
rapidamente il logorio degli uomini e dei materiali. In una guerra simile la Germania era destinata a
perdere il suo vantaggio iniziale, dovuto alla superiorità tecnica e strategica.
Rieletto per la terza volta, nel 1940, presidente degli Stati Uniti, Roosvelt si impegnò in una politica
di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna. Nel marzo del 1941 venne varata la legge “degli
affitti e prestiti” che consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni molto favorevoli a quegli
Stati la cui difesa fosse considerata vitale per gli interessi americani. In maggio gli U.S.A ruppero i
rapposti diplomatici con Germania e Italia e in maggio la marina militare USA fu incaricata di scortare
fino all'Islansa i convogli che trasportavano aiuti e autorizzati a rispondere a eventuali attacchi. Questa
politica ebbe il suo suggello ufficiale nell'incontro fra Roosvelt e Churchill avvenuto il 14 agosto
1941: frutto dell'incontro fu la Carta atlantica, documento in otto punti in cui i due statisti ribadivano
la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costituire a
guerra finita. Nel tanto il Giappone era la maggiore potenza dell'emisfero orientale e il principale
alleato asiatico di Germania e Italia cui era legato, dal settembre del '40, nel patto tripartito. Quando
nel luglio del '41, invasero l'Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il
blocco delle esportazioni verso il Giappone. L'Impero asiatico, allora, poteva scegliere o di piegarsi
alle richieste delle potenze occidentali, che esigevano il ritiro delle truppe dall'Indocina e dalla Cina,
o scatenare la guerra per conquistare nuovi territori e procurarsi così le materie prime necessarie alla
sua politica di grande potenza: il governo scelse la guerra. Il 7 dicembre 1941, l'aviazione giapponese
attaccò, senza dichiarazione di guerra precedente, la flotta americana ancorata a Pearl Harbor e la
distrusse in buona parte. Nel maggio del '42 controllavano le Filippine, la Malesia e la Birmania
britanniche, l'Indonesia olandese ed erano in grado di minacciare l'Australia e l'India, costringendo la
Gran Bretagna a distogliere forze preziose dal Medio-Oriente. Poco dopo l'attacco di Pearl Harbor
anche Italia e Germania dichiaravano guerra agli Stati Uniti.
Nella primavera-estate del '42, le potenze del Tripartito raggiunsero la loro massima espansione
territoriale: il Giappone dominava su tutto il Sud-est asiatico, su vaste zone della Cina e su molte isole
del Pacifico; in Europa le forze dell'Asse controllavano, direttamente o indirettamente, un territorio
di circa sei milioni di chilometri quadrati con oltre 350 milioni di abitanti. Attorno a Germania e Italia
ruotavano gli alleati minori: Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Serbia e Francia di Vichy. In
Olanda, in Norvegia e in Boemia governavano alti commissari tedeschi. Poi c'erano Spagna, Turchia
e Svezia formalemente neutre ma in realtà incluse nella sfera politico-economica dell'Asse. Sia la
Germania che il Giappone cercarono di costituire nelle zone occupate un nuovo ordine basato sulla
supremazia della nazione eletta e sulla rigida subordinazione degli altri popoli alle esigenze dei
dominatori. Il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti locali e fece propria la causa della
lotta contro l'imperialismo europeo; la Germania con concesse nulla alle esigenze di indipendenza e
di autogoverno dei popoli ad essa soggetti. Per Hitler tutta l'Europa orientale doveva diventare una
colonia agricola del Grande Reich, ogni traccia di industrializzazione e di urbanizzazione doveva
essere cancellata, ogni forma di istruzione superiore bandita, le élite e gli intellettuali eliminati
fisicamente. Circa 6 milioni di civili sovietici e 2 milioni e mezzo di polacchi morirono durante
l'occupazione tedesca ,inoltre, con la soluzione finale del problema ebraico, progettata e avviata da
Hitler nel '41 e affidata principalmente alle SS, morirono tra i 5 e i 6 milioni di israeliti. Il sistema di
terrore, sfruttamento e di sterminio portò grandi vantaggi alla Germania: una riserva inesauribile di
forza-lavoro gratuita, un flusso continuo di materie prime, un enorme prelievo di ricchezze e di beni
di consumo che permise ai cittadini tedeschi di mantenere, almeno fino al '43, un alto livello di vita
in confronto agli altri popoli europei. Episodi di resistenza all'occupazione nazista si manifestarono
già nella prima fase della guerra in tutti i paesi invasi. Fu soprattutto con la primavera-estate del '41
che la resistenza assunse in molti paesi dimensioni rilevanti, veri movimenti popolari si svilupparono
in Jugoslavia e in Grecia. Un salto decisivo fu rappresentato dall'attacco tedesco all'Urss, che portò i
comunisti in tutta europa a impegnarsi attivamente nella lotta armata contro i nazisti. Nonostante
avessero adottato una strategia che subordinava ogni obiettivo rivoluzionario alla lotta di liberazione
nazionale, voluta soprattutto da Stalin che, nel maggio del '43, a garanzia della nuova linea sciolse il
Comintern, i comunisti erano guardati con sospetto dagli anglo-americani e dalle componenti
moderate del fronte anti-fascista. La collaborazione fu impossibile in quei paesi dove era più diffuso
il timore che i pariti comunisti fungessero da strumento per i piani egemonici dell'Urss. In Jugoslavia
l'esercito popolare guidato dal comunista Josip Broz, battaglia di Tito, prevalse nettamente sui gruppi
nazionalsocialisti e monarchici. In tutti i paesi invasi dalla Germania o controllati da essa, vi fu una
parte consistente della popolazione che, per opportunismo o convinzione, accettò di collaborare con
i dominatori. Il caso più importante fu quello della Francia di Vichy, la cui sottomissione ai tedeschi
si accentuò nella primavera del '42, quando il governo passò a Pierre Laval. La sua accondiscenza
verso la Germania non sevì a evitare che, dopo lo sbarco alleato in Nord Africa alla fine del '42, i
tedeschi occupassero anche la parte meridionale del paese ponendo fine a ogni simulacro di
indipendenza.
Nel maggio-giugno del '42 la spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani nelle due
battaglie del Mar dei Coralli e delle isole Midway. Dopo che, nel febbraio del '43, i marines americani
ebbero conquistato l'isola di Guadalacanal, i giapponesi rininciarono alle azioni offensive di ampio
respiro, limitandosi a difendere le posizioni raggiunte dall'inizio della guerra. Tra la fine del '42 e
l'inizio del '43 gli alleati riuscirono a limitare le predite, grazie a una serie di innocazioni tecniche e
grazie a una migliore organizzazione tattica che consisteva nel concentrare le forze nella difesa dei
convogli. In agosto i tedeschi inziarono l'assedio di Stalingrado, ma nel novembre del '42 i sovietici
contrattaccarono sui fianchi dello schieramento nemico e chiusero i tedeschi in una morsa. Hitler
ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando un'intera armata che all'inizio di febbraio fu costretto ad
arrendersi. Per i sovietici e per gli antifascisti di tutto il mondo, Stalingrado divenne un simbolo di
riscossa. Nel frattempo l'esercito britannico era impegnato nel deserto del Nord Africa contro il
contingente italo-tedesco del generale Rommel, che era giunto ad El Alamein, a 80km da Alessandria.
Ai primi di novembre gli italo-tedeschi avevano perso la battaglia e cominciarono la lunga ritirata.
Nel novembre del '42 un contingente alleato era sbarcato in Algeria e in Marocco: le truppe dell'Asse
dovettero arrendersi nel maggio del '43. nella conferenza tenuta a Washington fra il dicembre '41 e il
gennaio '42, tutte le 26 nazioni in guerra contro il Tripartito si erano riunite per sottoscrivere il patto
delle Nazioni Unite: i contraenti si impegnavano a tener fede ai principi della Carta atlantica, a
combattere le potenze fasciste, a non concludere armistizi o paci separate. Il contrasto più grave
riguardava i tempi e i modi con cui procedere all'apertura di un secondo fronte in Europa. Stalin lo
avrebbe voluto subito, possibilmente nell'Europa del Nord, per alleggerire la pressione tedesca
sull'Urss; Churchill voleva prima chiudere la partita in Africa e pensava a un nuovo sbraco
nell'Europa meridionale. Prevalse alla fine il piano degli inglesi. Nella conferenza di casablanca, nel
gennaio del '43, inglesi e americani decisero che, una volta chiuso il fronte africano, lo sbarco sarebbe
avvenuto in Italia, considerato l'obiettivo più facile sia per motivi logistici sia per ragioni politicomilitari. Inoltre si accordarono sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari.
La campagna d'Italia ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista alleata dell'isola di Pantelleria; il
10 luglio i primi contingenti anglo-americani sbarcarono in Sicilia e in poche settimane si
impadronirono dell'isola. Lo sbarco anglo-americano rappresentò il colpo di grazia per il regime
fascista che, screditato dagli insuccessi militari,vedeva già da tempo al suo interno segni di
malcontento e di crisi: nel marzo del '43 c'erano stati dei grandi scioperi operai che erano partiti da
Torino e si erano sparsi in tutti i maggiori centri industriali del Nord. A determinare la caduta di
Mussolini fu una sorta di congiura che faceva capo alla corona, unica fonte di potere formalmente
indipendente dal fascismo, e vedeva le componenti moderate del regime (industriali, moderati,
gerarchi dell'ala monarchico-conservatrice) unite ad alcuni esponenti del mondo politico prefascista
nel tentativo di portare il paese fuori dalla guerra e di assicurare la sopravvivenza della monarchia. Il
pretesto fu offerto da una riunione del Gran Consiglio del fascismo, tenutasi nella notte fra il 24 e il
25 luglio 1943 e conclusasi con l'approvazione a forte maggioranza di un ordine del giorno presentato
da Dino Grandi, che invitava il re a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze
armate. Il pomeriggio del 25 luglio, Mussolini fu convocato da Vittorio Emanuele III, invitato a
rassegnare le dimissioni e immediatamente arrestato dai carabinieri. Capo del governo fu nominato il
maresciallo Pietro Badoglio. La caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con incontenibili
manifestazioni di esultanza. Quello del fascismo fu un crollo repentino e inglorioso, spiegabile in
parte con le debolezze interne di un apparato privo di autonomia e di iniziativa politica, in parte col
discredito che negli anni di guerra si era accumulato sul regime e sul capo. Nel frattempo i tedeschi,
che avevano già inviato in Italia contingenti di truppe per contrastare l'avanzata alleata, rafforzarono
la loro presenza militare per prevenire la defezione. Il governo Badoglio proclamò che l'impegno
bellico italiano sarebbe andato avanti, ma intanto allacciò trattative segretissime son gli alleati per
giungere a una pace sperata. Data la posizione degli anglo-americani l'armistizio, firmato il 3
settembre e reso noto l'8, fu un atto di resa incondizionata senza nessuna garanzia per il futuro.
L'annuncio dell'armistizio gettò l'Italia nel caos: mentre il re e il governo abbandonavano la capitale
per andare a Brindisi, i tedeschi procedevano ad una occupazione di tutta la parte centro-settentrionale
dell'Italia. Gli episodi di aperta resistenza furono puniti dai tedeschi con veri e propri massacri: il più
grave fu nell'isola di Cefalonia dove fu sterminato un'intera divisione italiana che aveva rifiutato di
arrendersi. Attestatisi su una linea difensiva, linea Gustav, che andava da Gaeta alla foce del Sangro
e aveva il punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l'offensiva fino alla
primavera del '44.
A partire dall'autunno del '43 l'Italia fu spezzata in due entità statali distinte, l'una in guerra contro
l'altra. Nel Sud sopravviveva la monarchia col suo governo e la sua burocrazia, esercitando la sua
sovranità sotto il controllo alleato; nell'Italia settentrionale il fascismo risorgeva sotto la protezione
nazista. Il 12 settembre del 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini
dalla prigionia di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Pochi giorni dopo, il duce annunciò la sua
intenzione di dar vita, nell'Italia occupata dai tedeschi, a un nuovo Stato fascista, che prese il nome
di Repubblica sociale italiana, a un nuovo Partito fascista repubblicano e a un nuovo esercito che
continuasse a combattere con gli antichi alleati. Il Partito si proponeva innanzitutto di combattere gli
artefici del tradimento del 25 luglio, monarchici, badogliani e fascisti moderati:cinque dei generali
che avevano votato l'ordine del giorno Grandi, fra cui Ciano, furono fucilati a Verona nel gennaio del
'44. Il nuovo stato repubblicano trasferì i suoi uffici e le sue rappresentanze a Nord, tra la Lombardia
e il Veneto, alcuni ministeri furono spostati sulle rive del Lago di Garda da cui la denominazione di
Repubblica di Salò; Mussolini ribadì la sua fedeltà all'alleato tedesco e si propose come unico
legittimo rappresentante d'Italia. Il regime cercò di riguadagnare consensi lanciando un programma
di socializzazione delle imprese industriali, che non decollò mai. In generale la Repubblica non
acquistò mai una vera credibilità per la sua totale dipendenze dai tedeschi, che si comportavano a tutti
gli effetti come un esercito di occupazione, praticando un intenso sfruttamento delle risorse
economiche e umane e applicandovi le politiche razziali. La principale funzione effettivamente svolta
dal governo di Salò fu quella di reprimere e combattere il movimento partigiano che stava nascendo
per opporsi ai tedeschi. Le prime formazioni armate si raccolsero sulle montagne dell'Italia centrosettentrionale subito dopo l'8 settembre e nacquero dall'incontro fra i piccolo nuclei di militanti
antifascisti già attivi nel paese e i gruppi di militari sbandati che non avevano voluto consegnarsi ai
tedeschi. I partigiani agivano soprattutto lontano dai centri abitati con attacchi improvvisi ai reparti
tedeschi e con azioni di sabotaggio e disturbo; nelle città erano presenti con i Gruppi di azione
patriottica, piccole formazioni di tre o quattro uomini che compivano attentati contro militari o singoli
personalità tedesche e “repubblichini”: in alcuni casi i tedeschi risposero con spietate rappresaglie.
Con il tempo le bande partigiane si andarono organizzando in base all'orientamento politico
prevalente fra i membri: le Brigate Garibaldi erano formate in maggioranza da comunisti; le
formazioni di Giustizia e Libertà si ricollegavano all'omonimo movimento antifascista degli anni '30
e al nuovo Partito d'azione che ne aveva raccolto l'eredità; le Brigate Matteotti erano legate ai
socialisti; inoltre vi erano formazioni cattoliche e liberali e bande autonome composte soprattutto da
militari di orientamento monarchico. Prima della caduta del fascismo erano sorti: dalla confluenza di
diversi gruppi che si collocavano in aree intermedie fra il liberalismo progressista e il socialismo, il
Partito d'azione (Pda); numerosi esponenti cattolici, per lo più ex popolari, avevano elaborato con
l'aiuto delle gerarchie ecclesiastiche il programma di una nuova formazione che avrebbe raccolto
l'eredità del Partito popolare, la Democrazia Cristiana. Dopo il 25 luglio fu costituito il Partito liberale
(Pli) e rinaquero il Partito repubblicano (Pri) e quello socialista col nome di Partito socialista di unità
proletaria (Psiup). I comunisti riuscirono a ricostituire buona parte del loro gruppo dirigente,
soprattutto dopo la liberazione di molti leader dal carcere o dal confine. Nei giorni successivi all'8
settembre gli esponenti di Pci, Psiup, Dc, Pli, democrazia del lavoro fondata da Ivanoe Bonomi, si
riunurono a Roma e si costituirono in Comitato di liberazione nazionale (Cln). I partiti antifascisti si
proponevano come guida e rappresentanza dell'Italia democratica, in conrapposizione anche al
sovrano, corresponsabile della dittatura e della guerra, e al governo Badoglio, di cui il Cln chiese la
sostituzione. Nati per lo più dall'iniziativa isolata di piccoli gruppi, il nascente movimento partigiano,
divisi fra un'ala di sinistra ( Pci, Psiup, Pda) e una di centro destra ( Dc, Pli, Democrazia del lavoro),
i partiti del Cln non avevano la forza di imporre il loro punto di vista: il governo Badoglio godeva
della fiducia degli alleati, in quanto garante dell'armistizio. Nell'ottobre del '43 il governo italiano
dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l'Italia la qualifica di cobelligerante; un Corpo italiano di
liberazione combattè a fianco degli alleati. Al ritorno, nel marzo del '44, di Palmiro Togliatti,
scavalcando la posizione del Cln, propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re e contro
Badoglio e di formare un governo di unità nazionale capace di concentrare le sue energie sul problema
della guerra e della lotta al fascismo. La svolta di Salerno, capitale provvisoria del Regno del Sud,
era in armonia con le scelte dell'Urss, ma serviva anche a legittimare il Pci agli occhi degli alleati e
dell'opinione pubblica moderata. Il 24 aprile, si formò il primo governo di unità nazionale, presieduto
da Badoglio e comprendente i rappresentanti dei partiti del Cln. Vittorio Emanuele III si impegnò,
una volta liberata Roma, di passare provvisoriamente i poteri al figlio Umberto, in attesa che il popolo
decidesse le sorti della monarchia. Nel giugno del '44 Umberto assunse la luogotenenza generale del
Regno. Badoglio si dimise e lasciò il posto a Ivanoe Bonomi. Le formazioni partigiane, che già dal
gennaio avevano la loro guida politica nel Cln Alta Italia (Clnai), si diedero anche una direzione
militare con la costituzione, nel giugno del '44, con un comando unificato. Le loro azioni militari
divennero più ampie e più frequenti, nonostante le rappresaglie effettuate dai tedeschi. Molte città,
fra cui Firenze, furono liberate prima dell'arrivo degli alleati; in alcune zone dell'Italia settentrionale
la Resistenza riuscì a creare delle “repubbliche partigiane”, amministrate secondo modelli di
autogoverno popolare. La loro forza militare era però limitata sia dai contrasti che attraversavano il
movimento partigiano sia dall'obiettiva difficoltà di coinvolgere e di mobilitare il grosso della
popolazione, che era traumatizzata dagli eventi bellici e incline a non prendere partito in uno scontro
il cui esito era affidato all'azione delle armate anglo-americane. I limiti e le contraddizioni del
movimento vennero alla luce nell'autunno del '44, quando l'offensiva sul fronte italiano si bloccò
lungo la linea gotica, fra Rimini e La Spezia. Il proclama del generale inglese Alexander, che invitava
i partigiani a sospendere le operazioni su vasta scala, provocò malintesi e polemiche fra i capi della
Resistenza da una parte, gli alleati e il governo di Roma dall'altra. In dicembre il ministero Bonomi
riconobbe il Clnai come suo rappresentante dell'Italia occupata: nonostante i rastrellamenti dei
tedeschi e dei repubblichini che rioccuparono una dopo l'altra le zone liberate, il movimento resistette
fino all'inverno del '44-'45. Nella primavera del '45, con la ripresa dell'offensiva alleata e il cedimento
delle forze tedesche la Resistenza avrebbe promosso la generale insurrezione contro gli occupanti.
Dopo aver respinto, nel luglio '43, l'ultimo attacco in forze tedesco, l'Armata rossa iniziò una lenta
avanza conclusasi nell'aprile-maggio del '45 con la presa di Berlino. Le vittorie sovietiche
consentirono all'Unione Sovietica di accrescere notevolmente il suo peso contrattuale in seno alla
grande alleanza. Il nuovo ruolo dell'Urss emerse dalla conferenza di Theran nel novembre-dicembre
del '43, la prima in cui Roosvelt, Stalin e Churchill si incontrarono personalmente: Stalin ottenne
l'impegno, da tempo sollecitato, di uno sbarco in forza sulle coste francesi, da attuarsi nella primavera
del '44. Per attuare il piano, che prevedeva lo sbarco in Normandia, furono necessari un lungo lavoro
di preparazione e un eccezionale spiegamento di mezzi per assicurare agli alleati, guidati da
Eisenhower, una schiacciante superiorità aeronavale. L'operazione Overlord scattò all'alba del 6
giugno 1944, preparata da un'impressionante serie di bombardamenti e da un nutrito lancio di
paracadutisti. Gli alleati riuscirono a far sbarcare in territorio francese, nelle successive quattro
settimane, oltre un milione e mezzo di alleati e alla fine di luglio riuscirono a sfondare le difese
tedesche e a dilagare nel Nord della Francia. Il 25 agosto, gli anglo-americani e i reparti di De Gaulle
entravano a Parigi, già liberata dai partigiani. In settembre la Francia era quasi completamente liberata.
Ma a questo punto, per una serie di errori dei comandi alleati, l'offensiva si arrestò e i tedeschi
poterono riorganizzare le loro forze su una linea molto vicina al confine del '39.
Nell'autunno del '44 la Germania poteva considerarsi sconfitta. In agosto, la Romania aveva cambiato
fronte, seguita dalla Bulgaria; fra agosto e ottobre la Finlandia e l'Ungheria avevano chiesto
l'armistizio all'Urss; in ottobre, i russi e i partigiani jugoslavi erano entrati in Belgrado libera, mentre
gli inglesi erano sbarcati in Grecia. Il territorio del Reich non era ancora stato toccato ma era
sottoposto a continui bombardamenti, con lo scopo sia di colpire la popolazione industriale e il
sistema di comunicazione, sia di demoralizzare il popolo tedesco fino a minare la capacità di
resistenza. Hitler, da una lato, era deciso a rifiutare ogni ipotesi di resa e a far si che l'intero popolo
tedesco condividesse fino in fondo la sorte del regime nazista; dall'altro, continuò a illudersi di poter
rovesciare la situazione bellica grazie all'impiego di armi segrete o per un'improvvisa rottura
dell'innaturale alleanza fra l'Urss e le democrazie occidentali. Nella conferenza di Mosca dell'ottobre
'44, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d'influenza dei paesi balcanici che, in
contrasto con le proclamazioni della Carta atlantica, non teneva conto della volontà dei paesi
interessati: Romania e Bulgaria all'Urss, Grecia alla Gran Bretagna e una situazione di equilibrio in
Jugoslavia e Ungheria. I tre grandi tornarono a incontrarsi a Yalta, in Crimea, nel febbraio del '45: fu
anche stabilito che la Germania sarebbe stata divisa in quattro zone di occupazione e sottoposta a
radicali misure di “denazificazione”; che i popoli dei paesi liberati avrebbero potuto esprimersi
mediante libere elezioni; che, riguardo alla Polonia, il governo sarebbe dovuto nascere da un accordo
fra la componente comunista e quella filo-occidentale. L'Urss si impegnò a entrare in guerra col
Giappone. A metà gennaio, dopo un'ultima controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli alleati
riprendevano l'iniziativa su tutti i fronti: l'Armata rossa cacciava i tedeschi dall'Ungheria per poi
raggiungere Vienna, il 23 aprile, e Praga, liberata il 4 maggio. Gli anglo-americani attaccavano il
Reno, attraversato poi il 22 marzo, e dilagavano nel cuore della Germania incontrando una
scarsissima resistenza da parte dei tedeschi che continuavano a combattere con disperato accanimento
sul fronte orientale. Il 25 aprile gli alleati raggiungevano l'Elba e si congiungevano coi soldati
sovietici che accerchiavano Berlino. Il 25 aprile, mentre il Cln lanciava l'ordine dell'insurrezione
generale contro il nemico in ritirata, i tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini, che crecava di
fuggire, fu catturato e fucilato dai partigiani il 28, assieme ad altri gerarchi: il suo cadavere fu esposto
per alcune ore a piazza Loreto, a Milano. Il 30 aprile, mentre i russi entravano a Berlino, Hitler si
suicidò nel bunker sotterraneo dove era stata trasferita la sede del governo, lasciando la presidenza
del Reich all'ammiraglio Karl Dönitz, che chiese la resa agli alleati. Il 7 maggio 1945, nel quartier
generale alleato a Reims, fu firmato l'atto di capitolazione delle forze armate tedesche, le ostilià
cessarono fra l'8 e il 9 maggio.
A partire dal '43 gli Stati Uniti avevano iniziato una lenta riconquista delle posizioni perdute nel
Pacifico, valendo di una superiorità che si faceva netta mano mano che l'industria dispiegava tutto il
suo enorme potenziale. Decisivo fu l'apporto delle grandi portaerei e dei bombardieri strategici che,
dalla fine del '44, cominciarono a bombardare sistematicamente il territorio nipponico. Nell'estate del
'45 gli alleati erano pronti a portare l'attacco nel territorio nemico: un nemico che continuava a
combattere con accanimento e che si rifiutava di arrendersi facendo ampio uso dell'azione dei
kamikaze. Il nuovo presidente americano Harry Truman decise di impegnare contro il Giappone la
bomba atomica, decisione che serviva inanzitutto ad abbreviare una guerra che si annunciava ancora
lunga e sanguinosa, ma che serviva anche a dimostrare al mondo, soprattutto ai sovietici, la
dimostrazione della potenza militare americana. Il 6 agosto 1945 fu sganciata la prima bomba a
Hiroshima, dove morirono 100.000 persone; il 9 agosto fu sganciata la seconda a Nagasaki, dove
morirono 60.000 persone. Il 15 agosto, dopo che l'Urss aveva dichiarato guerra al Giappone,
l'imperatore Hirohito offrì agli alleati la resa incondizionata. Con la firma, il 2 settembre 1945, si
concludeva il secondo conflitto mondiale.
14CAPITOLO: IL MONDO DIVISO.
La Germania era stata sconfitta; la Francia, riammessa al tavolo dei vincitori, e la Gran Bretagna
vittoriosa uscivano dalla guerra gravemente indebolite, incapaci di mantenere i loro imperi coloniali
e di conservare il loro ruolo di potenze mondiali. Le due potenze mondiali erano gli Stati Uniti, forti
di un'indiscussa superiorità economica e di un'altrettanto supremazia militare, e l'Unione Sovietica,
che usciva dalla guerra dissanguata sul piano economico e demografico, ma restava potenzialmente
fortissima e già padrona di mezza Europa. Entrambe erano entità continentali e multietniche, erano
dotate di immense risorse naturali e di un massiccio apparato industriale, avevano interessi di
dimensione mondiale, erano portatrici di una cultura, di un proprio messaggio globale, totalmente
contrapposto l'uno all'altro, sul modo di assicurare il benessere e il progresso dei popoli. Il messaggio
americano era quello dell'espansione della democrazia liberale, in regime di pluralismo politico, di
concorrenza economica e di libertà individuale, in base a un'etica del successo a sfondo
individualistico; il messaggio sovietico era quello della trasformazione dei vecchi assetti politicosociali in nome del modello collettivistico, fondato sul partito unico e sulla pianificazione
centralizzata, di un'etica anti-individualista della disciplina e del sacrificio, mossa dall'ideale di una
nuova società. Di conseguenza si giunse a un nuovo sistema mondiale bipolare, con influenze
determinanti sulle vite dei singoli Stati. Dai traumi della guerra si produsse un diffuso bisogno di
cambiamento, un generale desiderio di rifondare su basi più stabili il sistema delle relazioni
internazionali e di mutarne le regole. Il pocesso di Norimberga (1945-46) fu la vera prima
applicazione del settore penale al diritto internazionale; a farsi garanti e promotori del progetto del
nuovo sistema mondiale furono soprattutto gli Stati Uniti: gli USA diventarono per l'Europa
occidentale il principale punto di riferimento sia materiale, ma anche ideale e culturale in senso lato.
L'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) fu creata dalla conferenza di San Francisco nell'aprilegiugno del '45 al posto della Società delle nazioni, con l'obiettivo di “salvare le generazioni future dal
flagello della guerra” e di impiegare “strumenti internazionali per promuovere il progresso economico
e sociale di tutti i popoli”. Ispirato ai principi della Carta atlantica, lo statuto reca l'impronta di due
concezioni: da un lato quella dell'utopia democratica wilsoniana, dall'altra quella, più propriamente
roosveltiana, della necessità di un “direttorio” delle grandi potenze come strumento efficacie di
governo degli affari mondiali. I principi dell'universalità e dell'uguaglianza delle nazioni sono
rispecchiati nell'Assemblea generale degli Stati membri e ha il potere di adottare risoluzioni che però
hanno il solo valore di raccomandazioni. Il meccanismo del “direttorio” è riflesso nel Consiglio di
sicurezza, organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni
vincolanti per gli Stati e di adottare misure che possono giungere all'intervento armato. Il consiglio
è composto da 15 membri: le cinque potenze vincitrici ( Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina)
sono membri permanenti di diritto, gli altri dieci vengono eletti a turno. I membri permanenti godono
di un diritto di veto, col quale possono paralizzare l'azione del Consiglio quando la rintengano
contraria ai propri interessi o ai propri convincimenti. Altri organi dell'Onu sono il Consiglio
economico e sociale, da cui dipendono le “agenzie specializzate” per la cooperazione nei vari campi,
come la Fao o l'Unesco, e la Corte internazionale di giustizia, cui spetta di dirimere le controversie
fra gli Stati. In realtà l'Onu è stata fin dall'inizio solo lo specchio fedele del carattere conflittuale della
comunità internazionale, ha spesso finito per essere inadempiente al suo compito principale: quello
di prevenire e contenere le crisi. Inoltre, con gli accordi della conferenza di Bretton Woods del luglio
del 1944, fu creato il Fondo monetario internazionale, con lo scopo di costituire un adeguato
ammonatare di riserve valutarie mondiali e di assicurare dei cambi fra le monete, accordandoli non
solo all'oro ma anche al dollaro. Si venne così a consolidare il primato della moneta americana come
valuta internazionale per gli scambi e come valuta di riserva per le banche centrali di tutto il mondo.
Al Fondo monetario fu affiancata la Banca mondiale, col compito di concedere prestiti a medio e
lungo termine ai singoli Stati per favorirne la ricostruzione e lo sviluppo. Sul piano commerciale fu
instaurato dall'Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (Gatt) un sistema fondamentelmente
liberoscambista, stipulato a Ginevra nell'ottobre del '47, che prevedeva un generale abbassamento dei
dazi doganali.
Gli Stati Uniti, che godevano di un primato economico soverchiante e avevano sofferto meno degli
altri gli effetti della guerra, puntavano più alla ricostruzione e alla ricerca di uno stabile ordine
mondiale che non alla punizione dei vinti. Per l'Unione Sovietica, che aveva subito perdite e
devastazioni spaventose, si trattava inanzitutto di esigere il prezzo della vittoria in termini politici,
economici e di sicurezza. Ciò implicava l'esigenza di non avere nazioni ostili ai confini,
particolarmente riguardante la Polonia, nonché un'insistenza martellante sulla questione delle
riparazioni, che per l'Urss avevano valore pratico e simbolico. Le esigenze di sicurezza sovietiche,
che Roosvelt riteneva per molti versi legittime, avrebbero potuto essere assicurate, nei paesi
dell'Europa orientale, da regimi favorevoli all'Urss ma non “sovietizzati”. Bisognava creare un nuovo
ordine europeo in cui anche l'Urss avrebbe avuto un ruolo importante, presentandosi come forza
d'ordine in un'area tradizionalmente turbolenta. Questo disegno di cooperazione tra USA e Urss morì
con Roosvelt: l'avvento di Truman alla presidenza degli Stati Uniti, nell'aprile del '45, coincise con
un brusco cambiamento del clima e con un generale irrigidimento americano nei confronti dei
sovietici. Nella conferenza di Potsdam, luglio-agosto '45, emersero i nodi fondamentali del contrasto:
il futuro della Germania sconfitta e gli sviluppi in Europa orientale, dove già stava prendendo corpo
il disegno stanliniano di assoggettamento. Per imporre la propria egemonia, l'Urss non trovò altro
mezzo che imporre al potere i partiti comunisti locali, con l'appoggio dell'esercito sovietico e con una
serie di crescenti forzature sui meccanismi democratici. Nel marzo del '46 Churchill, non più capo
del governo, pronunciò, a Fulton, un discorso in cui denunciava il comportamento dei sovietici in
Europa orientale, Stalin replicò dando a Churchill del guerrafondaio e paragonandolo a Hitler. Alla
conferenza di Parigi, che si tenne fra luglio e ottobre del '46, si giunse a un accordo tra i vincitori solo
relativamente ai trattati con l'Italia, la Bulgaria, la Romania, l'Ungheria e la Finlandia. Furono anche
ratificati i nuovi confini fra Urss, Polonia e Germania: l'Unione Sovietica incamerava Estonia,
Lituania, Lettonia, parte della Polonia dell'Est e della Prussia orientale; la Polonia si rifaceva a ovest
a spese della Germania, portando il suo confine alla linea segnata dai fiumi Oder e Neisse.
Nell'agosto del '46 una grave crisi fu innescata dal contrasto fra l'Unione Sovietica e la Turchia,
appoggiata dagli Stati Uniti, a proposito dello stretto dei Dardanelli. Convinto che un cedimento sulla
questione avrebbe consegnato all'influenza russa non solo la Turchia ma anche la Grecia, Truman
inviò la flotta americana nel Mar Egeo per appoggiare la Turchia. Fu la prima applicazione del
containment che sosteneva la necessità di contenere l'espansionismo dell'Urss con la forza. Questa
linea fu ufficialmente fatta propria dall'amministrazione americano in un discorso tenuto da Truman
al Congresso, nel marzo del '47, in base al quale gli Stati Uniti si impegnavano a intervenire, quando
necessario, “per sostenere i popoli liberi nella resistenza all'asservimento da parte di minoranze
armate o pressioni straniere”: ciò equivaleva ad aprire un confronto globale con l'Urss. Nel giugno
del '47 gli americani lanciarono un programma di aiuti economici all'Europa, che prese il nome di
European Recovery Program, o piano Marshall. I sovietici respinsero il piano e imposero ai loro
satelliti di fare altrettanto, mentre i partiti comunisti occidentali promossero agitazioni contro gli aiuti
americani. Fra il '48 e il '52 vennero dati all'Europa 13 miliardi di dollari che aiutarono la ricostruzione
e che avviarono un forte rilancio delle economie dell'Europa occidentale. Ciò avvenne in un quadro
complessivo di economia liberista e comportò un rafforzamento delle tendenze moderate in politica,
un'attenuazione dei conflitti sociali e lo stabilimento di più stretti legami con gli USA. Nel settembre
del '47 fu costituito un Ufficio d'informazione dei partiti comunisti (Cominform), una sorta di
riedizione della Terza Internazionale, ciò comportò un'ulteriore fattore di tensione. Il dialogo fra le
due potenze era cessato, al suo posto subentrò la guerra fredda, una irriducibile ostilità tra due blocchi
contrapposti di Stati. In Grecia la resistenza comunista fu debellata nel 1949; in Francia e Italia i
comunisti furono estromessi dai governi di coalizione a partire dal 1947. Il più importante scontro fu
la questione della Germania, divisa alla fine della guerra in quattro zone di occupazione: la capitale,
che si trovava all'interno dell'area sovietica, era a sua volta divisa in quattro zone. Stati Uniti e Gran
Bretagna integrarono, all'inizio del '47, le loro zone attuandovi una riforma monetaria, liberalizzando
l'economia e rivitalizzandola con gli aiuti del piano Marshall. Stalin reagì con la prova di forza del
blocco di Berlino: nel giugno del '48, l'Urss chiuse gli accessi alla città impedendone il rifornimento,
nella speranza di far abbandonare la zona ovest dagli occidentali. Gli americani organizzarono un
gigantesco ponte aereo per rifornire la città, finchè, nel maggio del '49, i sovietici tolsero il blocco.
Le tre zone occidentali della Germania vennero unificate nella Repubblica federale tedesca, con
capitale Bonn; i sovietici, allora, crearono nella parte orientale del paese, la Repubblica democratica
tedesca, con capitale Pankow. Nell'aprile del '49 fu firmato a Washington il Patto atlantico, alleanza
difensiva fra Francia, Gran Bretagna, Italia, Belgio,Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca,
Islanda, Portogallo, Stati Uniti e Canada. Il patto prevedeva un dispositivo militare integrato
composto da contingenti dei singoli paesi membri: la Nato ( Organizzazione del trattato del Nord
Atlantico). Nel 1951 aderirono al patto Grecia e Turchia, nel '55 la Germania federale. A seguito di
questa entrata, l'Urss rispose stringendo con i paesi satelliti un'alleanza militare, il Patto di Varsavia,
basato sempre su un'organizzazione militare integrata. Nel 1953 morì Stalin.
URSS: lo stanlinismo rispose alle necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal confronto con
l'Occidente accenutando i suoi connotati autocratici e repressivi. L'intera vita nazionale fu subordinata
alle esigenze di una ricostruzione attuata senza aiuti esterni, in un clima di conflitto con l'Occidente.
Gli apporti di capitale straniero vennero, sotto forma di riparazioni, imposte ai paesi ex nemici
controllati dall'Armata rossa: la ricostruzione economica fu molto rapida, nel '50 la produzione
industriale superò del 70% il livello del '40. La priorità andò all'industria pesante e, sacrificando il
tenore di vita della popolazione, l'Unione Sovietica diventò una grande potenza industriale e uno dei
massimi produttori mondiali di materie prime e di energie, nonché una grande potenza militare: nel
'49 fece esplodere la prima bomba atomica, levando così il monopolio nucleare americano. Riguardo
alla politica estera attuò una trasformazione dei paesi dell'Europa orientale occupati dall'Armata rossa
durante la guerra in democrazie popolari: formula che mascherava l'imposizione del sistema politico
e sociale e la loro riduzione a paesi satelliti. Gli inglesi consideravano l'indipendenza polacca come
un punto d'onore, ma per Stalin la Polonia rappresentava un problema di sicurezza ed era quindi
indispensabile che a Varsavia si costituisse un governo amichevolmente disposto nei confronti
dell'Urss. Nel gennaio del '45 si insediò a Varsavia un governo presieduto dal socialista Morawski,
ma controllato in realtà dai comunisti: questi si impadronirono dei principali centri di potere che,
nell'imminenza delle elezioni del '47, ruppero la coalizione con i partiti borghesi. Le elezioni si
svolsero sotto il controllo dei comunisti e si risolsero in una loro schiacciante vittoria, dando il via ad
una campagna di liquidazione delle altre forze politiche. Tenaci furono le resistenze alle forze non
comuniste in Ungheria, soprattutto dal Partito dei contadini che aveva ottenuto il 60% dei voti nelle
elzioni del novembre '45. Fin dal '46 i comunisti, che per imposizione sovietica che controllavano il
Ministero degli Interni, iniziarono una campagna di arresti e intimidazioni contro i loro avversari e
modificarono il rapporto di forze nelle elezioni dell'agosto del '47: il processo di sovietizzazione del
paese si accellerò culminando nelle elezioni a lista unica nel maggio del '49. La Cecoslovacchia paese
socialmente ed economicamente sviluppato, di tradizione democratica, in politica estera non ostile
all'Urss e in cui i comunisti avevano ottenuto il 38% dei suffragi nelle elezioni del '46, il governo che
si formò guidato dal leader comunista Klement Gott Wald si fonsava sull'alleanza dei partiti di sinistra.
La coalizione si ruppe all'inizio del '48, in relazione all'accettazione del piano Marshall, sostenuto dai
socialisti e dalle forze borghesi, e osteggiata dai comunisti. Allora i comunisti lanciarono una violenta
campagna contro le altre forze politiche, provocando le dimissioni di 12 ministri e costringendo, sotto
la minaccia della guerra civile, il presidente della Repubblica Edward Benes, ad affidare il potere ad
un nuovo governo da loro controllato: in marzo il ministro degli Esteri socialista ,Jan Masaryk, morì.
Le elezioni del '48 si tennero con il sistema della lista unica e il presidente Benes si dimise, non
firmando la nuova costituzione, che trasformava il Paese in una democrazia popolare. In Albania e in
Jugoslavia, la presa del potere da parte di comunisti si compì senza problemi: qui i comunisti, sotto
la guida di Tito, si imposero alla guida del paese, con l'autorità e il prestigio acquistati durante la
resistenza che aveva permesso di liberare il territorio nazionale senza l'aiuto dell'Armata Rossa.
Nell'Europa dell'Est, molte regioni arretrate, conobbero un periodo di modernizzazione e di relativo
decollo economico. I latifondisti furono spazzati via dalle riforme agrarie e dalla collettivizzazione
dell'agricoltura; il ceto contadino si ridusse in parallelo all'espansione di quello operaio; fra il '46 e il
'48 furono nazionalizzate le miniere, le industrie siderurgiche e meccaniche, le banche e l'intero
settore commerciale. Sul modello sovietico i piani di sviluppo relegavano la priorità all'industria
pesante, questo fu condizionato dalla subordinazione dell'economia dei paesi satelliti a quella dello
stato guida: gli obiettivi di produzione furono scelti risultando complementari a quelli dell'Urss; i
tassi di cambio all'interno dell'area del rublo, nonché la quantità e i prezzi dei beni scambiati furono
regolati attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), fondato a Varsavia nel '49
con l'adesione di tutti i paesi del blocco orientale. Tutto ciò contribuì a far nascere agitazioni sociali
e moti di rivolta antisovietica, in risposta l'Urss avrebbe dovuto controllare i paesi satelliti, sia sul
piano militare e diplomatico sia attravero il Cominform su quello delle relazioni tra i partiti comunisti.
L'unico che cercò di sottrarsi all'egemonia sovietica fu il regime Jugoslavo, nel '48 si consumò la
rottura: in seguito alle resistenze di Tito ai piani di divisione del lavoro, l'Urss sospese ogni
collaborazione economica e in giugno condannò ufficialmente i comunisti Jugoslavi, accusandoli di
deviazionismo e di collusione con l'imperialismo ed escludendoli dal Cominform. Quindi la dirigenza
Jugoslava sperimentò una linea autonoma in politica estera basata sull'equidistanza dai due blocchi e
un nuovo corso in politica interna relativo alla ricerca di un equilibrio tra statalizzazione ed economia
di mercato. Il modello jugoslavo si basava sull'autogestione delle imprese da parte delle direzioni
aziendali e dei consigli di fabbrica e sulla loro reciproca concorrenza in un sistema di prezzi liberi.
Lo scisma jugoslavo provocò una stretta repressiva estesa a tutto il mondo comunista, per evitare che
l'eresia di Tito si espandesse, furono attuate delle purghe nei confronti dei dirigenti comunisti dell'est
europeo sospettati di velleità autonomistica.
STATI UNITI: il presidente Truman, sul piano interno attuò il programma di Fair Deal, che si
proponeva di portare avanti la politica riformista roosveltiana ma che si realizzò solo in parte a causa
delle resistenze del Congresso a maggioranza repubblicana e dei democratici del Sud. Il forte deficit
del bilancio statale comportò un'aumento del costo della vita, ne seguì un'ondata di rivendicazioni
salariali e agitazioni operaie cui il Congresso rispose adottando nel '47, contro il volere del presidente,
il Taft- Hartley-Act: legge di impronta conservatrice e antisindacale che limitava la libertà di sciopero
nelle industrie. Le conquiste del New Deal vennero salvaguardate e,dopo la rielezione di Truman nel
'48, si ebbe un incremento dei programmi di assistenza sociale. Dal '49, dopo la bomba nucleare
sovietica, si scatenò una campagna anti-comunista che prese la forma di una caccia alle streghe, il cui
principale ispiratore fu il repubblicano Joseph McCarthy (maccartismo), presidente di una
commissione parlamentare istituita per reprimere le attività antiamericane. Nel '50 il Congresso
adottò l'Internal Security Act, che costituì strumento giuridico per emarginare i sospettati di filo-
comunismo o di simpatizzare la sinistra. Gli eccessi del maccartismo arrivarono al '55 quando il
senatore accusò indiscriminatamente anche l'esercito, il chè lo costrinse a uscire di scena.
GRAN BRETAGNA: nel '45 Churchill venne battuto dai laburisti di Clement Attlee, che nazionalizzò
la Banca d'Inghilterra, le industrie elletriche e carbonifere, la siderurgia e i trasporti; introdusse il
salario minimo e il servizio sanitario nazionale. Riformò in senso progressivo la fiscalità e il sistema
di sicurezza sociale; furono gettate le basi di uno stato del benessere, Welfare State, che aveva
l'ambizione di assistere il cittadino “dalla culla alla tomba”. Queste riforme furono attuate in un
momento di difficile congiuntura economica, comportando e favorendo nel '51 il ritorno al potere dei
conservatori.
FRANCIA: nazionalizzazione e programmi di sicurezza sociale furono varati dal governo provvisorio
presieduto da De Gaulle, fra il '44 e il '45, e dai successivi ministeri di coalizione basati sull'accordo
tra i tre partiti di massa: Partito comunista, la Sfio e il movimento Repubblicano popolare. Nel '46 fu
varato il piano quadriennale Monnet, che contemperava un'ispirazione liberista di fondo, con aspetti
riformatori e dirigistici. Nello stesso anno un'Assemblea costituente varò una nuova costituzione di
stampo democratico parlamentare, alla qualle De Gaulle nel '47 contrappose un proprio movimento
di raggruppamento del popolo francese, che aveva come obiettivo la riforma della costituzione. Nello
stesso anno l'alleanza tra i tre partiti si ruppe a causa delle tensioni tra i comunisti e gli altri, che
avevano origine da questioni di politica sindacale e riflettevano le tensioni della guerra fredda. In
seguito furono estromessi i comunisti dal governo e si succedettero numerosi governi caratterizzati
da instabilità.
GERMANIA: situazione disastrosa da tutti i punti di vista. Nel '49 aveva perso la sua unità ed era
stata divisa in due stati: la Repubblica federale retta da una costituzione democratico-parlamentare e
federale, governata dai Cristiano Democratici del cancelliere Adenauer; la Repubblica democratica
sul modello delle democrazie popolari e sottoposto a un regime a partito unico, la Sed, nato dalla
confluenza tra comunisti e i socialdemocratici di sinistra. L'economia tedesca ebbe un0enorme
capacità di recupero, la Germania ovest fu favorita dall'integrazione nel blocco occidentale: gli Stati
Uniti volevano fare della Repubblica federale una sorta di vetrina del benessere capitalistico,
contrapposto al modello spartano dei paesi dell'Est. La macchina produttiva tedesco occidentale
riprese a girare a pieno ritmo: nel '51 il prodotto nazionale era tornato ai livelli del '38. Nella zona
orientale la ripresa fu frenata dal peso delle riparazioni imposto dall'Urss e dalla forzata
collettivizzazione dell'apparato produttivo.
GIAPPONE: si affermò, per iniziativa degli occupanti americani, un modello di organizzazione
politica e sociale di tipo liberale e occidentale. Sottoposto al controllo del generale Mac Arthur, il
paese si vide imporre nel '46 una nuova costituzione redatta dai funzionari americani, che trasformava
l'autocrazia imperiale in monarchia costituzionale e introduceva un sistema parlamentare. Nel '46 fu
varata una riforma agraria, ma vi era la necessità per gli occupanti di non indebolire i ceti conservatori
che gli servivano per legare a sé il paese. A partire dagli anni '50 le grandi concentrazioni industriali
sarebbero diventate il motore principale di una rapidissima ripresa economica, favorita dall'assistenza
degli Stati Uniti e da una stabilità politica fondata sull'egemonia dei gruppi moderati, raccolti nel
Partito liberal-democratico. La quasi assenza di spese militari imposte dal trattato di pace, insieme a
una politica economica fondata sul contenimento delle spese e sul rilancio produttivo, consentì un
tasso di investimento elevatissimo. Il sistema delle imprese, basato su pochi grandissimi complessi
industrial-finanziari e di una miriade di piccole e medie aziende, si rilevò adatto agli scopi di sviluppo:
gli imprenditori puntarono sui settori in crescita, siderurgia, automobile e elettronica, e sulle
tecnologie di avanguardia. Tra gli anni '50 e '70 mantenne un tasso di sviluppo medio del 15% annuo,
invase i mercati mondiali con i suoi prodotti, compensando anche le spese per le importazioni di
materie prime e nel corso degli anni 60 divenne la terza potenza al mondo.
CINA: la precaria alleanza che i comunisti di Mao Tse-Tung e i nazionalisti di Chang Kai-Shek
avevano stretto nel '37 contro l'aggressione giapponese, entrò in crisi con lo scoppio della guerra nel
Pacifico. Dal '41 il governo di Chang cominciò a trascurare la lotta contro gli occupanti stranieri per
prepararsi alla lotto con i comunisti, che occupavano e amministravano ampie zone dell'interno. Ciò
contribuì a discreditare un regime che aveva già perso il contatto con gli strati più dinamici della
società e di era ridotto a espressione dei proprietari terrieri; un regime che, incapace di fare la guerra
ai giapponesi, concentrava le sue risorse nella repressione del dissenso interno. Invece, nei territori
da loro controllati, i comunisti combatterono un'efficacie guerriglia contro i giapponesi e seppero
rafforzare i loro legami con le masse contadine e con i ceti medi, attuando ampie riforme agrarie. A
guerra finita gli americani proposero un nuovo accordo tra i due schieramenti, ma Chang Kai-shek,
consapevole di poter contare sull'appoggio Usa, rifiutò ogni compromesso e lanciò contro i comunisti
una campagna militare, utilizzando gli aiuti ricevuti dagli alleati durante e dopo la guerra.
Inizialmente i nazionalisti ebbero il sopravvento, ma i comunisti riuscirono a riorganizzarsi e
contrattaccare, contando sull'appoggio dei contadini che consentivano loro di usare le tecniche della
guerriglia. Nel corso del '48 le forze nazionaliste, poco motivate e disciplinate, prive di sostegno
popolare e disperse su un territorio troppo vasto, cominciarono a sbandarsi o a disertare, mentre
l'esercito di Mao si rafforzava: nel febbraio del '49 i comunisti entrarono a Pechino. Chang Kei-Shak
riparo, sotto la protezione della flotta statunitense, nell'isola di Taiwan. Il 1° ottobre del '49 fu
proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare cinese, riconosciuta da Urss e Gran
Bretagna, ma non dagli Stati Uniti che continuarono a considerare legittimo il governo di Taiwan, che
occupò fino al '71 il seggio della Cina all'Onu. La nuova Repubblica procedette a radicali misure di
socializzazione: le banche, le grandi e medie industrie e il commercio con l'estero vennero
nazionalizzate, la terra distribuita ai contadini, lasciando però un limitato spazio al privato. Nel
febbraio del '50 la Cina di Mao stipulò con l'Urss un trattato di amicizia e mutua assistenza: la sfida
al mondo capitalistico diventava più ampio e temibile. In base agli accordi interalleati, la Corea era
stata divisa in due zone, delimitate dal 38° parallelo: la Corea del Nord era governata da un regime
comunista guidato da Kim Il Sung, nella Corea del Sud si era insidiato un governo nazionalista
appoggiato dagli americani. Nel giugno del '50 le forze nordcoreane, armate dai sovietici, invasero il
Sud: gli Stati Uniti reagirono inviando in Corea un forte contingente di truppe. Gli americani, che
agivano sotto la bandiera dell'Onu, respinsero i nordcoreani e in ottobre oltrepassarono il 38° parallelo.
A questo punto la Cina di Mao intervenì in sostegno dei comunisti, con un massiccio invio di volontari,
che in poche settimane penetrarono nella Corea del Sud. Nell'aprile del '51 Truman accettò di aprire
le trattative: i negoziati, e con essi la guerra, si trascinarono per due anni, per concludersi nel '53 con
il ritorno del confine al 38° parallelo.
Con la fine della presidenza Truman nel novembre del '52 e la morte di Stalin nel marzo del '53, la
guerra fredda inziò ad assumere nuove forme. La direzione collegiale succeduta a Stalin alla guida
dell'Urss non fece alcun gesto di apertura nei confronti dell'occidente, né allentò il controllo sui suoi
paesi satelliti: la rivolta del '53 degli operai della Berlino Est fu repressa col sangue. Negli Usa la
nuova amministrazionerepubblicana guidata da Eisenhower sembrava accentuare l'atteggiamento di
sfida globale nei confronti dell'Urss. In questi anni venne però maturando un nuovo atteggiamento di
accettazione reciproca, che, pur non comportando alcuna tregua nel confronto ideologico, costituiva
la premessa per una coesistenza pacifica fra i due blocchi. Nel corso del '55 si ebbero da ambo le parti
significativi gesti di distensione: in marzo i sovietici decisero di ritirare le proprie truppe di
occupazione dall'Austria in cambio dell'impegno occidentale a garantire la neutralità del paese,
impegno sancito in maggio con la firma del trattato di Vienna. Nella conferenza di Ginevra, non
furono raggiunti accordi.
URSS: dopo una serie di scontri, il segretario del Pcus, Nikita Kruscëv, si impose come leader
indiscusso del paese, giungendo a cumulare, nel '57, le cariche di segretario del partito e primo
ministro. Egli si fece promotore di alcune significative aperture in politica estera e interna. Anzitutto
il trattato di Vienna e l'incontro di Ginevra, ma anche la riconciliazione con i comunisti jugoslavi, nel
maggio del '55, e lo scioglimento del Cominform nel '56. in politica interna non introdusse mutamenti
sostanziali nella struttura autoritaria del potere sovietico e nella gestione centralizzata dell'economia,
ma segnò la fine delle grandi purghe e comportò un rilancio dell'agricoltura e una maggiore attenzione
alle condizioni di vita dei cittadini. Demolì la figura di Stalin attraverso una sistematica denuncia
degli errori e dei crimini commessi in Unione Sovietica a partire dagli anni '30. In un rapporto al XX
congresso del Pcus, febbraio '56, attribuiva gli errori e le deviazioni dell'Urss alla figura di Stalin, al
culto della pesonalità che lo aveva circondato e alle troppe frequenti violazioni della legalità socialista,
non mettendo in discussione la validità del modello sovietico e della dottrina leniana. Le conseguenze
più forti della destalinizzazione si ebbero nell'Europa dell'Est, in particolare in Polonia e Ungheria: il
rapporto di Kruscëv fece nascere l'illusione che l'egemonia russa sui paesi satelliti potesse indebolirsi
o sparire del tutto. In Polonia gli operai si resero interpreti delle aspirazioni al cambiamento, dando
vita ad una serie di agitazioni culminate, nel giugno del '56, con il grande sciopero di Poznan: lo
sciopero venne stroncato duramente con l'intervento di truppe sovietiche. Le agitazioni continuarono
durante l'estate sfociando in un generale moto di protesta – l'ottobre polacco – in cui le istanze di
democratizzazione si mischiavano al risentimento antisovietico. I dirigenti dell'Urss, allora,
puntarono a un ricambio ai vertici del partito e del governo, favorendo l'ascesa di Wladyslaw
Gomulka, il quale promosse una politica di liberalizzazione e riconciliazione con la Chiesa,
impegnandosi a mantenere l'alleanza con l'Urss e l'appartenenza della Polonia al campo socialista. In
Ungheria vi furono, per tutta l'estate del '56, agitazioni e proteste animate da intellettuali e studenti.
In ottobre sfociarono in una vera e propria insurrezione, con ampia partecipazione dei lavoratori: si
formarono in tutte le fabbriche consigli operai, a capo del governo fu chiamato Imre Nagy, comunista
dell'ala liberale già espulso dal partito. Quando esso, il 1° novembre '56, comunicò l'uscita
dell'Ungheria dal Patto di Varsavia, il segretario del Partito comunista Jànos Kàdàr invocò l'intervento
sovietico. L'armata rossa occupò Budapest e stroncarono le resistenze popolari: pochi mesi dopo
Nagy venne fucilato e Kàdàr assumeva la guida del paese.
Nel frattempo, i maggiori Stati dell'Europa occidentale vivevano il difficile passaggio a condizione
di potenze di secondo rango, di dipendenza dall'America. In Gran Bretagna la smobilitazione
dell'Impero si attuò in un quadro di notevole stabiltà politica: rimasti al governo, tra il '52 e il '64, i
conservatori non smantellarono l'edificio del Welfare State, riprivatizzarono il settore siderurgico non
impedendo il ristagno del declino economico. Nella Germania federale, i governi a guida cristianodemocratica, applicarono un modello di economia sociale di mercato che combinava gli interventi sul
terreno sociale con un'ispirazione liberistica e produttivistica: il Pil crebbe, negli anni '50, del 6%
annuo e la disoccupazione venne quasi del tutto riassorbita; il marco divenne la più forte tra le monete
europee. Alla base del miracolo tedesco vi erano: disponibilità di manodopera fornita dai profughi;
moderazione dei sindacati; stabilità politica, in parte dovuta alla costituzione del '49 che prevedeva
meccanismi atti a penalizzare i piccoli partiti ed evitare le crisi parlamentari, in parte alla messa fuori
legge del partito comunista e dei movimenti neonazisti, in parte alla scelta degli elettori uniti dalla
comune accettazione delle regole liberal-democratiche. L'Unione Cristiano-democratica, federata
con l'Unione cristiano-sociale bavarese, mantenne fino al '63 la guida del governo con Adenauer, in
coalizione col Partito liberale. Il Partito socialdemocratico svolse il ruolo di opposizione
costituzionale, abbandonando ufficialmente nel Congresso di Bad Goderberg del '59 la base teorica
marxista di tipo democratico riformista. L'ideale di un'Europa Unita nel segno della pace fu fatta
propria nel dopoguerra da conservatori come Churchill, cattolici come De Gaperi, Adenauer e
Schumann, socialisti come Blum e Spaak. La prima realizzazione sul cammino dell'Unità si ebbe nel
'51 con la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell'Accaio (Ceca), con compito di
coordinare produzione e prezzi nei settori della grande industria. Il suo successo incoraggiò i governi
a perseguire la strada di un accordo e di coordinamento in ambito di politica economica e la creazione
di un'area di libero scambio. Nel marzo 1957 si giunse alla firma del Trattato di Roma, tra i
rappresentanti di Francia, Italia, Germania federale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, che istituiva la
comunità economica europea (Cee). Scopo era quello di creare un mercato comune europeo (Mec)
mediante l'abbassamento delle tariffe doganali e la libera circolazione della forza lavoro e dei capitali,
il coordinamento delle politiche industriali e agricole e l'intervento delle autorità comunitarie in
favore delle aree depresse e dei settori in crisi. Organi principali della Cee: la Commissione con
compito tecnico di proporre i piani di intervento e di disporne l'attuazione; il Consiglio dei Ministri,
formato da delegati dei paesi membri, cui spettano le decisioni finali; la Corte di Giustizia per
dirimere le controversie tra Stati; il Parlamento Europeo con funzioni consultive, composto
inizialmente da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dal '79 eletto dai cittadini. Sul piano
economico, la Mec ottenne inizialmente buoni risultati; sul piano politico, la spinta all'integrazione
rallentò in pochi anni frenata dagli egoismi nazionali.
FRANCIA: unico Stato a sperimentare una grave crisi istituzionale. I governi instabili che si
avvicendarono dopo la rottura, nel '47, della coalizione tra i tre Partiti di massa, si trovarono ad
affrontare numerosi problemi. Nel maggio del '58, al culmine della crisi legata al problema algerino,
i militari di stanza in Algeria minacciarono un colpo di Stato. Fu chiamato alla guida del governo De
Gaulle per redigere una nuova costituzione: la nuova costituzione con cui nasceva la quinta repubblica,
lasciava intatte le strutture democratico-rappresentative, introducendovi elementi di rafforzamento
dell'esecutivo. Il capo dello Stato, eletto dal '62 dai cittadini, aveva il potere di nominare il capo del
governo, che per restare in carica doveva godere dell'appoggio della maggioranza parlamentare; di
sciogliere le camere quando lo ritenesse opportuno e di sottoporre a referendum le questioni più
importanti. La costituzione fu approvata nel '58 dall'80% dei francesi. Eletto alla presidenza della
Repubblica, nel dicembre del '58, De Gaulle deluse le aspettative della destra colonialista, che ne
avevano favorito l'avvento al potere: avviò alla sua logica soluzione l'affare algerino e stroncò i
tentativi di sedizione. Obbedendo alla sua vocazione nazionalista, si fece promotore di una politica
estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con gli Stati Uniti e a proporla come
guida di una futura europa indipendente dai due blocchi. Volle che la Francia si dotasse di una propria
forza d'urto nucleare, ritirò nel '66 le truppe francesi dalla Nato, pur restando fedele all'alleanza
atlantica; contestò la supremazia del dollaro proponendo il ritorno al sistema della convertibilità in
oro; si oppose ai progetti di integrazione politica tra i paesi della Cee; mise il veto all'ingresso della
Gran Brtagna nel Mec.
15CAPITOLO: LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO.
Lo smantellamento del sistema coloniale e l'accesso all'indipendenza dei popoli afro-asiatici sono tra
i fenomeni più importanti di qeusto secolo. Il processo di decolonizzazione ricevette la spinta decisiva
dal secondo conflitto mondiale. I gruppi indipendentisti acquistarono un prestigio maggiore: in Asia
erano stati sostenuti dai giapponesi in funzione anti-francese e anti-inglese, ma in molti casi erano
passati alla guerriglia contro l'occupazione nipponica, in ogni caso queste forze rimasero mobilitate
per battersi contro il dominio coloniale. Fattore di grande importanza fu la pressione congiunta di
Stati Uniti e Urss, per scalzare gli europei dall'Asia e dall'Africa e facendo pesare la loro egemonia
su questi paesi, anche se in forme diverse: essenzialmente economiche gli americani, soprattutto
politico militari i sovitici. Gli alleati avevano proclamato, con la Carta Atlantica del '41, il diritto di
tutti i popoli a scegliere la forma di governo da cui intendono essere retti: il principio di
autodeterminazione dei popoli si impose come base di un nuovo codice etico-politico internazionale,
a cui l'Europa non poteva sottrarsi. I costi del mantenimento delle colonie unito alla pressione dei
movimenti indipendentisti, non compensavano i benefici economici del colonialismo: quindi il
processo di decolonozzazione si compì attraverso vicende che risentirono sia dei nazionalismi locali,
sia della consistenza numerica della colonizzazione bianca, sia delle politiche dei paesi europei. La
Gran Bretagna preparò i popoli soggetti all'indipendenza,mediante la concessione di costituzioni e di
organismi rappresentativi e cercando di trasformare l'Impero in una comunità di nazioni sovrane,
liberamente associate nel Commonwealth. La Francia oppose resistenza ai movimenti indipendesti e
praticò fino all'ultimo una politica assimilatrice, che pretendeva di riunire la madre patria e le colonie
in un unico Stato e concedeva ai popoli soggetti una formale parità di diritti. Sia nei casi dei domini
francesi sia in quelli britannici, olandesi, belgi e portoghesi, lo sbocco obbligato fu l'indipendenza. Il
rapporto con l'Europa per i popoli afro-asiatici fu un fattore di modernizzazione sia sul piano
materiale , sia su quello delle abitudini, della cultura e della lingua; sul piano delle istituzioni politiche,
la costituzione parlamentare di tipo europeo si affermò in pochi paesi, tra le ragioni il fatto che
l'Europa aveva mostrato, in Africa e in Asia, il suo volto autoritario e la difficoltà di avviare un
processo di sviluppo in condizioni di grave arretratezza economica. Il risultato fu la prevalenza di
regimi di stampo autoritario, di sistemi a partito unico, di dittature militari.
ASIA: primo continente a raggiungere l'indipendenza, precedendo l'Africa di quasi dieci anni. Essa,
ricca di un'importante patrimonio etico-filosofico e legata ad un sistema di valori e costumi, aveva
recepito gli influssi europei senza perdere la propria identità, forte di tradizioni nazionali. Le
campagne, nonostante l'arretratezza tecnica e di un regime di stampo feudale, erano a uno stadio più
avanzato delle società tribali africane. I contatti con gli europei avevano favorito la formazione di
elitè locali, educate nelle università occidentali ma comunque legate alla propria identità nazionale.
INDIA: la crescita del movimento nazionalista si era legata all'affermazione del Paritio del Congresso,
espressione della borghesia indiana e dell'influenza di Ghandi, che con una serie di campagne di
disobbedienza civile e di boicottaggio delle istituzioni inglesi, aveva ottenuto numerose concessioni
come la costituzione federale del '35. Durante la guerra il Partito del Congresso, guidato dal '41 da
Javaharlal Nehru, promosse un movimento di resistenza pacifico alla guerra, strappando agli inglesi
la promessa di concedere all'India lo status di dominium, indipendenza di fatto. A guerra finita, mentre
Ghandi si batteva per uno stato unitario laico dove potessero convivere musulmani e indù, questi
reclamavano la separazione che fu accordata dagli inglesi, dopo un lungo negoziato, nell'agosto 1947
e dal quale sorsero due Stati: il Pakistan musulmano diviso in due tronconi situati alle opposte
estremità della penisola indiana, quello orientale si sarebbe separato nel '71 col nome di Bangladesh,
e l'Unione indiana a maggioranza indù. L'epopea di un movimento di liberazione nazionale,
affermatosi con mezzi pacifici, si concluse con oltre 100.000 morti e con il trasferimento da uno Stato
all'altro di 17 milioni di persone. Lo stesso Ghandi fu vittima del clima di violenza e di odio religioso,
fu assassinato da un estremista indù nel gennaio 1948. Il primo ministro Nehru, rimase fino al 1964,
anno della sua morte, alla guida del paese, con gravi problemi interni: povertà delle campagne,
sovraccarico demografico, tensioni etniche e religiose, divisioni legate al vecchio sistema delle caste.
Problemi che avrebbero afflitto il paese anche negli anni '70-'80, nonostante il relativo sviluppo
economico e tecnologico che consentì di risolvere i più drammatici problemi alimentari. Malgrado
alcuni aspetti autoritari del potere esercitati da Nehru e poi dalla figlia Indira Ghandi (primo ministro
dal '66 al '77 e poi dall '81 al '84 quando morì per mano di un militante sikh)le istituzioni democraticoparlamentari ressero al confronto con i problemi del paese. Diversa fu la situazione in Pakistan, retto
da dittature militari negli anni '58-'72, '77-'88.
BIRMANIA E MALESIA: indipendenti rispettivamente nel '48 e nel '57, prevalsero le forze
nazionaliste e la guerriglia comunista fu sconfitta duramente.
INDONESIA: il movimento nazionalista, giudato da Sukarno, ottenne l'indipendenza nel '49 e seguì
una politica di non allineamento e di emancipazione economica dai capitali stranieri, resistendo alle
pressioni contrapposte della destra militare e dei comunisti. Nel '65, a seguito di un fallito tentativo
rivoluzionario dei comunisti, Sukarno fu costretto a cedere il potere ai militari del generale Suharto.
THAILANDIA: l'ex Siam fu l'unico tra gli Stati della regione a mantenere l'indipendenza. Le forze
moderate della Thailandia mantennero sempre il potere in un'alternarsi di regimi militari e di governi
civili.
FILIPPINE: ottennero l'indipendenza dagli Stati Uniti nel '46. Governi di carattere autoritario, come
quello di Ferdinand Marcos al potere dal '65 al '86, dovettero fronteggiare la guerriglia condotta dai
comunisti e dalla forze sepratiste musulmane.
INDOCINA: prevalenza di comunisti negli stati sorti dalla dissoluzione dell'Impero francese.
VIETNAM: i comunisti sotto la guida del leader Ho Chi-Minh, avevano assunto il ruolo di
preminenza nella lega per l'indipendenza, Vietmin, costituita dalle forze patriottiche nel '41 e che
aveva condotto la guerra contro i giapponesi e contro i francesi di Vichy. A guerra finita, nel '45, Ho
Chi-Minh proclamò ad Hanoi la Repubblica democratica del Vietnam, ma i francesi non la
riconobbero, rioccupando la parte meridionale del paese. La guerra si concluse nel '54, quando la
piazzaforte di Dien Bien Phu la Francia fu costretta a capitolare, dopo tre mesi di assedio. Gli accordi
di Ginerva, luglio '54, sanzionarono il ritiro dei francesi da tutta la penisola indocinese, compresi
Cambogia e Laos, e la divisione provvisoria del Vietnam in due stati: uno comunista a Nord, l'altro
filo-occidentale al Sud. In realtà, la crisi indocinese si inserì nel contrasto Est Ovest, portando i germi
di un contrasto di più ampia proporzione.
MEDIO ORIENTE: al suo interno si era sviluppato un movimento nazionale arabo che, rivolto
inizialmente contro la dominazione ottomana, si era poi indirizzato contro le potenze europee. In
questo vi erano due componenti: una tradizionalista, fautrice di una reislamizzazione della società
mediante l'applicazione integrale dei precetti coranici (integralismo islamico), l'altro laico e
nazionalista, attento alle esigenze di modernizzazione economica. Questa tendenza, sostenuta prima
dai capi dinastici e poi, in chiave progressista, dai militari e dalle borghesie locali, finì col prevalere
su quello fondamentalista. La seconda guerra mondiale accellerò il processo di emancipazione,
obbligando gli europei a venire a patti con gli arabi: nel '46 la Gran Bretagna riconobbe l'indipendenza
della Transgiordania e la Francia ritirò le truppe dalla Siria e dal Libano. L'Iraq aveva ottenuto
l'indipendenza dagli inglesi nel '32 e insieme a Egitto, Arabia Saudita e Yemen, aveva formato, nel
'45, la Lega degli Stati arabi.
PALESTINA: nel '39 aveva strappato agli inglesi la promessa dell'indipendenza in dieci anni, ma era
ancora contesa fra arabi ed ebrei. Negli anni della guerra, la pressione del movimento sionista per la
creazione di uno Stato ebraico si fece più forte, alimentata dalla forte immigrazione degli ebrei
europei, e l'aspirazione a un “focolare nazionale” ricevette una potente leggittimazione presso
l'opinione pubblica democratica dopo la rivelazione sugli orrori dei campi di sterminio. La causa
sionista trovò un potente alleato negli Stati Uniti, ma fu ostacolata dagli inglesi, preoccupati di
inemicarsi gli arabi. Nel frattempo le organizzazioni militari ebraiche in Palestina passavano alla lotta
armata, contro arabi e inglesi: nel '47 la Gran Bretagna annunciò il ritiro delle truppe dalla Palestina
il 15 maggio del '48 e lasciò alle Nazioni Unite il compito di trovare una soluzione al problema. L'Onu
propose una divisione in due dello Stato, ma venne rifiutata dagli arabi. Nel maggio '48, alla partenza
degli inglesi, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato di Israele e gli Stati della Lega araba
attaccarono militarmente: la prima guerra arabo-israeliana, maggio '48-gennaio '49, si risolse con la
sconfitta araba e segnò la definitiva affermazione del nuovo Stato ebraico. Stato moderno, ispirato ai
modelli occidentali, dotato di strutture sociale e civili molto avanzate e di un'organizzazione
economica in cui il capitalismo industriale conviveva con la cooperazione delle comunità agricole,
Israele rivelò una forza insospettata. Con la guerra del '48, lo Stato ebraico si ingrandì rispetto ai
confini dati dall'Onu, occupando anche la parte occidentale di Gerusalemme. La Transgiordania, che
mutò il suo nome in Giordania, incamerò i territori occupati dalle sue truppe durante il conflitto,
sottraendoli all'ipotetico Stato arabo di Palestina.
EGITTO: dalgi anni '50 il nazionalismo arabo trovò in questo paese il suo centro e la sua guida: il più
importante tra gli Stati del Medio Oriente per popolazione, posizione strategica e tradizioni storiche.
Indipendente dal '22, la spinta nazionalista sembrava essersi esaurita negli anni '30 in un
compromesso con gli inglesi, che avevano rinunciato al controllo sulla politica estera, ma avevano
mantenuto i militari nella zona del Canale di Suez. La monarchia, quindi, restava legata alla Gran
Bretagna e teneva in piedi, con l'aiuto inglese, un sistema di governo sempre più corrotto e inefficiente,
contrastato dalla borghesia progressista e dalle forze integraliste islamiche che facevano capo alla
setta dei Fratelli musulmani. Nel luglio del '52, un Comitato di ufficiali liberi guidato da Mohammed
Neguib e Gamal Abdel Nasser assunse il potere. Nel '54, Nasser allontanò il moderato Neguib: il
nuovo regime avviò riforme in senso socialista (redistribuzione della terra) e provò a promuovere un
processo di industrializzazione. In politica estera Nasser si mosse per tagliare ogni legame con le ex
potenze coloniali e rivelò l'ambizione di assumere la guida dei paesi arabi nella lotta contro Israele.
Ottenne finanziamenti dall'Urss e lo sgombero delle truppe inglesi dalla zona del Canale; gli Stati
Uniti risposero bloccando, nel '56, il finanziamento della Banca mondiale per la costruzione della
diga di Assuan, necessaria per l'elittrificazione del paese. Nasser rispose nazionalizzando la
Compagnia del Canale di Suez, dove inglesi e francesi avevano forti interessi: nel '56, in accordo con
Londra e Parigi, Israele attaccò l'Egitto e lo sconfisse, penetrando nella penisola del Sinai, mentre
truppe inglesi e francesi occupavano la zona del Canale. Gli Stati Uniti condannarono apertamente
l'impresa e l'Urss inviò un ultimatum alla Francia, all'Inghilterra e a Israele. Le due vecchie potenze
dovettero cedere e mentre Israele si ritirava dal Sinai, le truppe franco-inglesi abbandonavano il
Canale. Ciò rafforzò la posizione dell'Egitto e di Nasser: rilanciando la causa del panarabismo, il
leader acquistò popolarità presso le masse popolari e la borghesia intellettuale di tutto il mondo
islamico e diede all'Egitto una posizione di preminenza fra i paesi in via di sviluppo.
SIRIA: nel '54 si era affermato un regime militare di ispirazione panaraba che, nel '58, accettò la
fusione con l'Egitto, nell'ambito della Repubblica araba unita sotto la presidenza di Nasser. La fusione
fu annulata nel '61.
IRAQ: i militari nazionalisti presero il potere, rovesciando la monarchia.
LIBIA: di ispirazione nasseriana fu la rivoluzione del '69, che depose la monarchia e portò al potere
i militari del colonnello Muhammar Gheddafi. Il regime nazionalizzò le compagnie petrolifere
straniere ed espulse la numerosa comunità italiana residente nel paese; cercò di realizzare un'inedita
forma di socialismo islamico. In politica estera appoggiò la causa di tutti i movimenti di guerriglia
anti-imperialisti e si inserì nei conflitti dei vari paesi africani, creando uno stato permanente di
tensione con i regimi arabi moderati e con gli Stati Uniti.
MAGHREB: parte occidentale del Nord Africa comprendente Marocco, Algeria e Tunisia. All'inizio
degli anni '50 i nazionalisti arabi si continuavano a scontrare con la dominazione coloniale francese.
MAROCCO E TUNISIA: la guida del movimento indipendentista fu assunta da forze di ispirazione
occidentalizzante: l'Istiqlal, Partito d'indipendenza, appoggiato dal sultano Ben Yussef in Marocco, e
il Neo-Destur, guidato da Habib Burghiba, in Tunisia. I francesi, dopo una successione di repressioni
e proporste di parziale autogoverno, furono costretti a concedere, nel '56, la piena indipendenza a
entrambi i paesi, che avrebbero seguito una posizione moderata e filo-occidentale in politica estera.
ALGERIA: con l'inizio degli anni '50 e dopo la rivoluzione egiziana, il movimento nazionalista si
radicò: uscirono di scena i capi tradizionali e i leader moderati e si affermò il Fronte di liberazione
nazionale (Fln) guidato da Mohammed Ben Bella, organizzazione clandestina radicata nelle città e
volenti la piena indipendenza. Lo scontrò con i francesi culminò., nel '57, con la battaglia d'Algeri,
che durò quasi nove mesi e vide l'intera città stringersi intorno ai combattenti del Fln. I francesi
piegarono l'insurrezione con un massiccio invio di reparti speciali e la repressione fu condotta con
metodi brutali e suscitò sdegno e proteste nell'opinione pubblica del mondo politico francese. Nel '58
i coloni più oltrazionisti, con l'appoggio di parte dell'esercito, costituirono ad Algeri un Comitato di
salute pubblica. Questa iniziativa, che sembrava preludere a un colpo di Sato in Francia, portò al
definitivo decloni della Quarta Repubblica e la salita al potere di De Gaulle. Il generale stabilì i primi
contatti con l'Fln e stroncò, nel '61, un tentato colpo di Stato militare ad Algeri. Nel marzo del '62,
dopo un anno di trattative, il governo francese e il governo rivoluzionario provvisorio si accordarono
a Evian su un progetto di indipendenza da sottoporre a referendum alla popolazione algerina. I coloni
abbandonarono in massa il paese. Prima sotto la guida di Ben Bella, poi, dal '65 al '79, sotto quella
del più moderato Hauri Baumedien, l'Algeria si diede un ordinamento interno autoritario e
centralizzato, un'economia in parte statizzata e si schierò con i paesi arabi. Mantenne la
collaborazione economica con la Francia e con gli altri Stati occidentali e riuscì, grazie all'abbondanza
di materie prime, a mettere in moto un relativo buon processo di sviluppo.
AFRICA A SUD DEL SAHARA: alla fine degli anni '50, le potenze europee assecondarono il
processo di decolonizzazione.
GHANA: indipendenza dagli inglesi nel '57, si affermò un movimento nazionalista guidato da
Nkwame Nkrumah.
GUINEA: indipendenza dai francesi nel '58, sotto la guida di Seku Turè.
1960: anno dell'Africa; indipendenza di diciassette paesi frai i quali Nigeria, Congo Belga (Zaire),
Senegal e Somalia.
KENYA: prima dell'indipendenza nel '63, ci fu una feroce campagna terroristica condotta dalla setta
dei Mau-Mau e una repressione altrettanto feroce degli inglesi.
RODHESIA DEL SUD: la minoranza bianca, per mantenere le sue posizioni, ruppe con la Gran
Bretagna. Nel '65 il governo razzista di Ian Smith proclamò unilateralmente l'indipendeza e l'uscita
del Commonwealth. Nell'80 il paese fu restituita alla maggioranza indigena e prese il nome di
Zimbabwe.
UNIONE SUDAFRICANA: negli anni '50 e '60, fu inasprito il regime di apartheid ai danni della
maggioranza nera della popolazione. Né la condanna della comunità internazionale né le ricorrenti
rivolte alla gente di colore, riuscirono a intaccare il monopolio politico della minoranza bianca. Una
soluzione pacifica era problematica a causa sia dei contrasti politici e tribali, sia dall'entità della posta
in gioco, sia dalla consistenza della comunità bianca, soprattutto boera, portata a considerarlo come
la propria patria.
CONGO: lasciato dalla dominazione belga in condizioni di spaventosa arretratezza. L'indipendenza,
ottenuta nel '60 senza preparazione politica e istituzionale, si accompagnò ad una sanguinosa guerra
civile e al tentativo di secessione della ricca provincia mineraria del Katanga, fomentato con l'invio
di mercenari delle compagnie di sfruttamento belghe. Il capo del governo congolese e leader del
movimento indipendentista, il nazionalista di sinistra Patrice Lumumba, fu fatto prigioniero e ucciso
dai secessionisti. L'unità del paese, dove si affermò un regime militare guidato dal generale Mobutu,
fu ristabilita con l'intervento di truppe delle Nazioni Unite.
ETIOPIA: lotte degli indipendentisti eritrei contro il governo etiopico, inaspritasi dopo il colpo di
Stato che, nel '74, rovesciò il vecchio imperatore Hailè Selassiè, portando al potere i militari di sinistra
capeggiati dal colonello Menghistu.
Per ottenere l'indipendenza, i leader nazionalisti avevano finito con l'accettare le frontiere e gli stessi
apparati amministrativi eriditati dall'epoca coloniale. Rispetto alla frammentazione sociale,
l'organizzazione statale appariva come un principio di aggregazione più avanzato e consentì un
ridimensionamento del potere dei capi tribù. Era inevitabile che il tentativo di imporre strutture da
Stato-nazione a popolazioni eterogenee per etnia e religione, lingua e treadizioni incontrasse grandi
difficoltà. Nella maggioranza dei casi, dopo pochi anni questi istituti lasciarono il postoa regimi
militari autoritari e dispotici. A ciò si aggiungeva la condizione di grave debolezza economica, che
rischiava di provocare una rinnovata dipendenza dai paesi industrializzati. Contro queste forme di
neocolonialismo si fecero pià forti, a partire dalla metà degli anni '60, le spinte a una decolonizzazione
più radicale, ispirata al socialismo marxista e appoggiata dall'Unione Sovietica. Paesi come la
Tanzania, il Congo Brazzaville e il Beni o Dahomey scelsero la via della rottura con i paesi
dell'occidente industrializzato, a favore di uno sviluppo basato sul mercati interno e interamente
pilotato dallo Stato. Snche il regime etiopico di Menghistu e soprattutto l'Angola e il Mozambico,
giunti all'indipendenza nel '75, dopo una lunga lotta contro il dominio porteghese, e protagonisti della
“seconda decolonizzazione” africana.
Sul piano della politica internazionale, i paesi di nuova indipendenza cercarono una piattaforma
comune, a partire dalla conferenza di Bandung del '55, nel “non allineamento”. Progressivamente,
però, tale neutralismo rispetto al contrasto Est-Ovest lasciò il campo, nella realtà, allo schieramento
di molti paesi non allineati in senso filo-comunista o filo-occidentale. Sul piano economico, il Terzo
Mondo era accomunato dalla realtà del sottosviluppo, ovvero dall'incapacità a risolvere i problemi di
arretratezza economica resi ancor più gravi dall'aumento assai apido della popolazione.
AMERICA LATINA: i problemi che si ponevano dopo la seconda guerra mondiale derivavano da
uno sviluppo socio-economico in parte già avviato, che scontava ancora il peso di una diffusa
arretratezza e di una forte dipendenza dagli Stati Uniti. L'influenza americana in alcuni casi, come in
Messico, concorse nella crescita industriale; in altri casi, soprattutto nei paesi più arretrati del Centro
America le cui economie basate sulle monoculture agricole erano dominio riservato alle grandi
corporazioni come la United Fruit Company, i gruppi di interesse e lo stesso governo di Washington
si trovarono alleati alle oligarchie terriere locali nel combattere ogni forma di rinnovamento. In
generale gli USA si arrogarono una funzione di tutela sul continente: sotto il loro impulso, nel '48, fu
creata l'Organizzazione degli Stati americani, che doveva realizzare una più stretta cooperazione
economica fra i paesi del continente, ma doveva anche impedire che l'aggravarsi dell'instabilità
politica e il riacutizzarsi delle tensioni sociale aprissero spazi ai comunisti. Gli anni della seconda
guerra mondiale e della guerra di Corea, furono anni di sviluppo economico per i paesi latinoamericani, che si avvantaggiarono dell'aumento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli
e riuscirono a far crascere le industrie nazionali. Questa fase rafforzò i nuclei di proletariato
industriale, ma vide soprattutto la crescita del ceto medio urbano: avverso alle oligarchie tradizionali,
diviso fra le aspirazioni al rinnovamento e l'esigenza di gerantirsi contro le spinte dal basso, portato
ad allinearsi ora con le classi più povere, ora con gli strati più abbienti.
ARGENTINA: di stampo populista-autoritario fu il regime instaurato nel '46 dal colonnello Juan
Domingo Perón. Attuando una politica di incentivi all'industria, di aumenti salariali, di lotta contro i
monopoli e di nazionalizzazione dei servizi pubblici, si guadagnò un largo consenso in tutti i ceti
della società e soprattutto fra i sindacati operai. Il riformismo sociale si accompagnava a una prassi
politica autoritaria, che ricordava per molti aspetti quella dei regimi fascisti, come il culto carismatico
della figura del presidente e di quella di sua moglie Evita. Sul piano economico ebbe successo fino
all'inizio degli anni '50, quando si assistè a un continuo aumento dell'inflazione e a una crisi della
produzione agricola, danneggiata dal calo delle esportazioni. Osteggiato dai conservatori, dai vertici
delle forze armate e dalle gerarchie ecclesiastiche e alla fine anche dai ceti medi Perón fu rovesciato
nel '55 da un colpo di Stato militare. Nei dieci anni successivi, il paese fu lasciato nelle mani di
governi civili e nel '66 i generali attuarono un nuovo colpo di Stato, instaurando una ferrea dittatura
di destra.
BRASILE: negli anni '30 si era sviluppato il primo e più importante esperimento populista
dell'America Latina, quello di Gétulio Vargas. Rovesciato nel '45 dai militari, tornò al potere nel '50
e nel '54 si suicidò. I successori cercarono di riprenderne l'eredità, assummendo una linea di non
allineamento in politica estera e rilanciando i progetti di industrializzazione e modernizzazione. Ma
non riuscirono a svincolare il Paese dalla dipendenza con l'estero né a cancellare gli squilibri sociali:
nel '64 un nuovo colpo di Stato appoggiato dagli Stati Uniti riportò al potere i militari, che imposero
un regime di repressione e sperimentarono un nuovo modello di sviluppo, basato sul blocco dei
conflitti sociali e sull'incoraggiamento ai capitali stranieri.
Negli anni '50 e '60, regimi militari si affermarono anche in Venezuela e Colombia; in Paraguay
cominciò nel '54 una lunga dittatura sotto il generale Stroessner; in Bolivia il laburista Victor Paz
Estenssoro, che aveva nazionalizzato le compagnie minerarie straniere, fu rovesciato dall'esercito nel
'64. In Perù il potere, nel '68, fu assunto da militari di orientamento populista e riformista; le istituzioni
democratiche tennero, anche se con molte difficoltà, in Uruguay, Cile e Messico, dove la stabilità
politica era essicurata dal dominio incontrastato del Partito rivoluzionario istituzionale.
CUBA: la dittatura di Fulgencio Batista venne ribaltata nel '59, dopo una guerriglia iniziata tre anni
prima sulle montagne della Sierra Maestra, da un movimento rivoluzionario guidato da Fidel Castro.
Egli avviò una riforma agraria che colpiva direttamente il monopolio esercitato dalla United Fruit
sulla coltivazione della canna da zucchero. Gli Stati Uniti assunsero un atteggiamento ostile: Castro
si rivolse all'Urss, sfidando il boicottaggio economico americano e rompendo le relazioni
diplomatiche con gli Usa. Il regime cubano si orientò sempre più decisamente in senso socialista:
l'economia fu in gran parte statizzata e fu istituito un regime a partito unico. Era un regime che
muoveva da posizioni radicali e nazionaliste, operava una netta scelta in senso marxista e filosovietico
e che mirava apertamente a esportare il suo modello rivoluzionario nel resto dell'America Latina e
nel Terzo Mondo. Uno dei più stretti collaboratori di Castro era Ernesto “Che” Guevara: si impegnava
in prima persona nel vano tentativo di suscitare fuochi di guerriglia in tutta l'America Latina e fu
catturato e ucciso nel 1967 dai militari in Bolivia, dove cercava di organizzare un moviemtno
rivoluzionario. Alla sfida politica cubana gli USA risposero da un lato cercando di reprimere il regime
di Castro, dall'altro lanciando, nel '61, l'Alleanza per il progresso: programma di aiuti ai paesi latinoamericani.
16CAPITOLO: L'ITALIA DOPO IL FASCISMO.
Le condizioni in cui versava l'Italia alla fine della guerra erano gravissime: se le industrie non erano
state eccessivamente danneggiate (il 20%), era però stata fortemente colpita l'argicoltura: la
produzione era diminuita del 60% rispetto al '38 e il patrimonio zootecnico era atato distrutto per i ¾.
Ingenti anche i danni all'edilizia e ai trasporti, con conseguenze disastrose sul movimento delle merci.
La maggioranza della popolazione risentiva della scarsità di cibo e abitazioni e dall'alta
disoccupazione; un serio problema era poi quello degli ex partigiani, riluttanti a deporre le armi e a
volte inclini ad adottare misure di giustizia sommaria nei confronti di repubblichini o di ex gerarchi
fasciti. Nelle regio del Centro-Sud, fin dalla primavera del '44, contadini e braccianti occupavano
terre incolte e latifondi e il movimento si protrasse negli anni nonostante i tentativi delle autorità di
disciplinarlo e legalizzarlo. Nel Mezzogiorno e nelle isole, la minaccia maggiore proveniva dalla
malavita, spesso legata al contrabbando e alla borsa nera: in Sicilia vi fu una grandissima ripresa della
mafia, favorita anche dal composrtamento degli alleati che, al momento dello sbarco nell'isola si erano
serviti di noti esponenti mafiosi italo-americani per stabilire contatti con la popolazione. Sempre negli
anni dell'occupazione, si era sviluppato in Sicilia un movimento indipendentista, legato agli agrari e
alla vecchia classe dirigente prefascista e condizionato da una forte presenza mafiosa. Il movimento
fu affrontato e stroncato dai governi postliberazione. Inoltre vi era il separatismo tra Nord e Sud per
il fatto di aver vissuto, negli ultimi anni di guerra, due realtà differenti: al Nord l'occupazione tedesca
e a Sud l'occupazione alleata.
Il ritorno alla dialettica democratica si era acompagnato a un'impetuosa crescita della partecipazione
politica. Il Partito Socialista, chiamato Psiup dal '43, assumeva un ruolo da protagonista grazie anche
alla popolarità del leader Pietro Nenni: il gruppo era diviso fra le spinte rivoluzionarie, che lo
portavano a essere legato ai comunisti, e il richiamo alla tradizione riformista, che lo spingeva ad
assumere una posizione intermedia fra Pci e i Partiti borghesi. Il Partito Comunista traeva forza e
credibilità grazie al proprio contributo alla lotta antifascista e su questo fondava i suoi titoli di
legittimità per presentarsi come forza nazionale e di governo. Il nuovo partito, che Togliatti aveva
costruito dopo la “svolta di Salerno” era un partito di massa (nel '46 contava 1.700.000 iscritti) che
tendeva ad allargare i suoi consensi verso i contadini, i ceti medi e gli intelluttuali; inoltre cercava di
inserirsi attivamente nelle istituzioni democratico-parlamentari, senza rinnegare il suo legame
privilegiato con l'Urss e senza cessare di incarnare le aspettative rivoluzionarie della classe operaia.
La Democrazia Cristiana si richiamava direttamente all'esperienza del Partito popolare di Sturzo, ne
ricalcava il programma (ispirato alla dottrina sociale cattolica, avverso alla lotta di classe, rispettoso
del diritto di proprietà ma aperto alle istnze di riforma), e ne ereditava la base contadina e piccoloborghese. Anche il gruppo dirigente, a cominciare da De Gasperi, veniva in buona parte da quel
partito, rafforzato dall'afflusso delle nuove leve cresciute politicamente durante il ventennio nelle file
dell'Azione Cattolica. La Dc godeva del massiccio appoggio da parte della Chiesa e in virtù di esso,
si presentava come il principale perno del fronte moderato. Il Partito Liberale poteva contare su una
serie di adesioni illustri, come Einaudi e Croce, oltre che del sostegno della grande industria e dei
proprietari terrieri, ma il rapporto fra i leader e la loro base elettorale, rapporto di tipo personale e
clientare, era ormai compromesso. Il Partito Repubblicano era intransigente sulla questione
istituzionale,aveva infatti respinto ogni compromesso con la monarchia, rifiutando di partecipare al
Cln. Al confine tra liberal-democratici e socialisti, si era collocato il Partito d'Azione: forte del
prestigio che gli veniva dall'adesione di molti leader dell'antifascismo, di molti intellettuali e dai suoi
militanti alla lotta partigiana, si presentava come una forza nuova e moderata e si faceva promotore
di ampie riforme sociali e istituzionali, come la nazionalizzazione dei grandi complessi industriali.
Nel febbraio del '46 vi fu una scissione che da lì a poco l'avrebbe portato allo scioglimento. Solo nel
dicembra del '46 si sarebbe costituito il Msi, Movimento sociale italiano, ma i gruppi di destra, forti
soprattutto nel Mezzogiorno, andarono a ingrossare le file della Dc e del Pli, in parte si raccolsero
sotto le bandiere monarchiche e in parte contribuirono all'affermazione del nuovo movimento
L'Uomo Comune: fondato nel '45 dal commediografo Guglielmo Giannini sull'onda del successo
ottenuto dall'omonimo giornale, il movimento qualunquista rifiutava la caratterizzazione ideologica
e si limitava ad assumere le difese del cittadino medio, ora minacciato dai partiti del Cln. Già a partire
dal '47 il fenomeno iniziò a sgonfiarsi soprattutto per la confluenza dell'opinione pubblica attorno alla
Dc. La Cgil, costituita su basi unitarie nel '44, nella Roma ancora occupata dai nazisti, contava di
socialisti, comunisti e cattolici, che erano rappresentati pariteticamente negli organi dirigenti, ma
molto squilibrati nel peso numerico. La loro convivenza non era facile e richiese un grande lavoro di
mediazioni politica: riuscì a realizzare il riconoscimento delle commissioni interne, che
rappresentavano il sindacato all'interno delle aziende; a introdurre un meccanismo di scala mobile per
l'adeguamento dei salari al costo della vita.
Successore di Bonomi, dopo un lungo braccio di ferro tra socialisti e democristiani, fu Ferruccio Parri,
leader del Partito d'azione e investito di un grande prestigio personale in quanto era capo dei militari
della Resistenza. Formato un ministero con la partecipazione di tutti i partiti del Cln, Parri cercò di
promuovere un processo di normalizzazione e mise all'ordine del giorno il problema dell'epurazione
da applicare sia ai funzionari statali che agli esponenti del potere economico più compromessia al
fascismo. Annunciò una serie di provvedimenti volti a colpire con forti tasse le grandi imprese e a
favorire la ripresa delle piccole e medie aziende, per ciò Parri suscitò l'opposizione delle forze
moderate, in particolare del Pli, che nel novembre del '45 ritirò la fiducia al governo, determinandone
la caduta. La Dc riuscì a imporre la candidatura di Alcide De Gasperi: il nuovo governo si reggeva
comunque sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln. I progetti di riforme economiche vennero
accantonati: quasi tutti i prefetti nominati dal Cln nell'Italia settentrionale furono sostituiti da
funzionari di carriera. L'epurazione fu rallentata finchè, nel giugno del '46, lo stesso Togliatti, nella
qualità di ministro della Giustizia, varò una larga amnistia che in pratica metteva fine ad un'operazione
difficile da condurre con equità, anche per l'ampiezza delle adesioni di cui il fascismo aveva goduto.
Il riflusso delle prospettive di radicale rinnovamento che avevano accompagnato la liberazione lasciò
nei militanti di sinistra un forte senso di delusione, ma il Pci e Psiup non potevano appoggiare questo
risentimento, sia perchè non volevano rompere la solidarietà di governo, sia perchè speravano in un
successo elettorale per assumere la guida del governo. Esso aveva fissato per il 2 giugno 1946 la data
per le elezioni dell'Assemblea costituente: erano le prime elezioni in cui avevano diritto a votare
anche le donne; i cittadini nello stesso giorno erano chiamati a decidere, mediante referendum, se
mantenere in vita l'istituto monarchico o fare dell'Italia una repubblica. Il 9 maggio, Vittorio
Emanuele III, tentò di risollevare le sorti della dinastia sabauda, abdicando in favore del figlio
Umberto II, che dal giugno del '44 aveva svolto le funzioni di luogotenente del Regno. Nelle elezioni
del 2 giugno, caratterizzate da un'affluenza senza precedenti ovvero di circa il 90% aventi diritto al
voto, la repubblica si affermò con 12.700.00 voti contro 10.700.000 per la monarchia: il 13 giugno
Umberto II partì per l'esilio in Portogallo. Nelle elezioni per la Costituente, la Dc si affermò come il
primo partito con 35,2% di voti, seguita dal Psiup col 20,7% e dal Pci col 19%. L'Unione democratica
nazionale, che raccoglieva i liberali, i “demolaburisti” di Bonomi e i maggiori esponenti della classe
dirigente prefascista, non andò oltre il 6,8%, poco più dei qualunquisti che presero il 5,3% e dei
repubblicani col 4,4%. I monarchici presero il 2,8% e il Partito d'azione ebbe solo l'1,5% dei voti.
Nel periodo tra il 2 giugno '46 e il 18 aprile '48, l'Italia definì il suo nuovo assetto istituzionale col
varo della Costituzione, riorganizzò l'economia secondo i modelli tipici del sistema capitalistico
occidentale, si diede un equilibrio politico. Dopo le elezioni per la Costituente, democristiani,
socialisti e comunisti continuarono a governare insieme; si accordarono sull'elezione del primo
presidente della Repubblica, il giurista liberale Enrico De Nicola; diedero vita a un secondo governo
De Gasperi, basato sull'accordo fra i tre partiti di massa. I contrasti tra la Dc e le sinistre originavano
da un lato dall'inasprirsi dello scontro sociale, dall'altro dal profilarsi della guerra fredda che contribuì
a esasperare le divisioni politiche già esistenti. La Dc tendeva ad assumere sempre più il ruolo di
garante dell'ordine sociale e della collocazione del paese nel campo occidentale, i comunisti si
ponevano alla testa delle lotte opraie e contadine accentuando il loro allineamento all'Urss. Alla fine
del '46 si erano delineati in seno al Psiup due schieramenti contrapposti: il primo, con capo Nenni,
voleva mantenere al partito i suoi caratteri classisti e rivoluzionari, era favorevole all'unità d'azione
col Pci e puntava all'alleanza fra l'Urss e le sinistre occidentali; il secondo, con capo Giuseppe Sargat,
si batteva per un allentamento dei legami col Pci e non nascondeva la sua ostilità verso il comunismo
sovietico. Nel gennaio del '47, in occasione del XXV congresso del partito, che si teneva a Roma, i
seguaci di Sargat abbandonarono il Psiup (che riassunse il nome di Psi) e si riunirono a palazzo
Barberini per fondare il Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) e che, qualche anno dopo,
avrebbe assunto il nome di Partito socialdemocratico italiano (Psdi). Nell'immediato ci fu una crisi di
governo, per il ritiro dei rappresentati del Psli e la formazione di un nuovo gabinetto tripartito (Dc,
Psi, Pci), presieduto da De Gasperi: in maggio De Gasperi diede le dimissioni e, ottenuto il reincarico
dopo una lunga crisi, formò un governo di soli democristiani, rafforzato dall'apporto di tecnici di area
liberale come Einaudi al Bilancio e Sforza agli Esteri.
L'Assemblea costituente incaricata di dare al paese una nuova legge fondamentale, dopo lo Statuo
Albertino di cento anni prima, cominciò i suoi lavori il 24 giugno '46 e li concluse il 22 dicembre '47
con l'approvazione del testo costituzionale, che entrò in vigore il 1° gennaio del '48. la Costituzione
repubblicana si ispirava ai modelli democratici ottocenteschi per la parte riguardante le istituzioni e i
diritti politici: dava vita a un sistema di tipo parlamentare, col governo responsabile di fronte alle due
Camere, titolari di potere legislativo, elette a suffragio universale e incaricate di scegliere un capo
dello Stato con mandato settennale. Era previsto anche che un Consiglio superiore della magistratura
vigilasse sulla conformità delle leggi alla Costituzione, che le leggi potessero essere sottoposte a
raferendum abrogativo, che la vecchia struttura centralistica dello Stato fosse spezzata creando il
nuovo istituto della regione, dotato di ampi poteri. Queste norme rimasero inattuate per molti anni,
anche perchè, per volontà delle forze moderate, la Costituente non era stata investita di poteri
legislativi ordinari, che rimasero in via provvisoria affidati al governo e non ebbe dunque la possibilità
di tradurre immediatamente in leggi applicative le norme del dettato costituzionale. La scelta in favore
di un modello parlamentare, unita a una legge elettorale proporzionale, faceva dei partiti, già titolari
del potere di fatto a partire dalla nascita del Cln, i veri destinatari del consenso popolare e dunque gli
arbitri incontrastati della politica italiana. La Costituzione rappresentò un compromesso equilibrato
fra le istanze delle diverse forze politiche che avevano contribuito a realizzarla.
Dall'inizio del '48, i partiti si impegnarono in una gara sempre più accanita per conquistarsi i favori
dell'elettorato, in vista delle elezioni politiche convocate per il 18 aprile di quell'anno, che avrebbero
dato alla Repubblica il suo primo Parlamento. Vi erano lo schieramento d'opposizione, egemonizzato
dal Pci, e quello governativo, guidato dalla Dc e comprendente anche il Psli e il Pri che erano entrati
nel dicembre del '47 nel ministero di De Gasperi. Il Partito socialista decise, nel dicembre '47, di
presentare liste comuni col Pci sotto l'insegna del Fronte popolare: gli elettori si trovarono così di
fronte a un'alternativa secca. La Dc impostò la sua battaglia in termini di scontro di civiltà, di
schieramenti internazionali e di sistemi economici: nella sua campagna elettorale giovò dell'aiuto
della Chiesa, a partire da Pio XII che si impegnò in prima persona in una crociata anticomunista e
mobilitò tutto le sue organizzazioni in una propaganda efficacie a sostegno della Dc; e dell'appoggio
degli Stati Uniti, che consentì ai democristiani di presentarsi come i più accreditati della massima
potenza mondiale e di agitare la minaccia di una sospensione degli aiuti del piano Marshall in caso di
vittoria delle sinistre. Socialisti e comunisti fecero appello ai lavoratori e ai ceti disagiati e mettendo
in primo piano i toni democratico-populisti, rispetto a quelli classisti e rivoluzionari. La loro
propaganda fu danneggiata profondamente da una stretta adesione alla causa dell'Urss e a lla politica
estera di Stalin. A favore della Dc erano le prospettive di sviluppo e di benessere, associate nella
stessa mentalità popolare al legame con gli USA, il desiderio di ordine e tranquillità e la paura di
mutamenti radicali, il tradizionale ossequio alla Chiesa di Roma. Le elezioni del 18 aprile videro il
successo della Dc con il 48,5% di voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Bruciante fu
la sconfitta dei due partiti oprai, che ottennero il 31% dei voti: il peso della sconfitta ricadeva sul Psi,
che vedeva dimezzata la sua rappresentanza parlamentare e pagava così l'eccessiva identificazione
con le posizioni del Pci. Il 14 luglio '48, uno studente di destra sparò e ferì gravemente Togliatti: ciò
portò a manifestazioni di operai e militanti comunisti che si scontrarono con le forze dell'ordine. In
pochi giorni l'agitazione si esaurì, grazie anche al comportamento prudente dei dirigenti comunisti e
dei capi sindacali. Una delle conseguenze delle giornate del luglio '48 fu la rottura fra le maggiori
forze politiche all'interno del sindacato: la decisione della maggioranza social-comunista della Cgil
di proclamare uno sciopero generale per protesta contro l'attentato a Togliatti, fornì alla componente
cattolica il pretesto per staccarsi e dar vita a una nuova confederazione che avrebbe assunto il nome
di Confederazione italiana sidacati lavoratori (Cisl). Anche i sindacalisti repubblicani e
socialdemocratici abbandonarono la Cgil, fondando l'Unione italiana del lavoro (Uil).
Sul terreno della politica economica, le forze moderate riuscirono a prendere il sopravvento fin dai
primi mesi del dopo-liberazione, bloccando i tentativi delle sinistre di introdurre nel sistema forti
elementi di trasformazione. Nel maggio del '47, con l'estromissione delle sinistre dal governo e la
formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, in cui il ministero del Bilancio era tenuto da Einaudi, le
sinistre si impegnarono in una impopolare battaglia contro il piano Marshall ed Einaudi attuava una
manovra economica che aveva come scopi principale la fine dell'inflazione, il ritorno alla stabilità
monetaria e il risanamento del bilancio statale. La manovra si attuà su tre livelli: una serie di
inasprimenti fiscali e tariffari; una svalutazione della lira che doveva favorire le esportazioni e
incoraggiare il rientro di capitali; una energica restrizione del credito che limitò la circolazione della
moneta e costrinse imprenditori e commercianti a gettare sul mercato le scorte accumulate in attesa
di aumento dei prezzi. Questa linea ottenne i risultati prefissati, ma ebbe forti costi sociali, soprattutto
sul versante della disoccupazione che, abolito il blocco dei licenziamenti, superò nel '48 i due milioni
di unità. I fondi del piano Marshall furono utilizzati per finanziare le importazioni di derrate
alimentari e materie prime, ma non per sviluppare la domanda interna. Gli strumenti di controllo
dell'economia furono sottoutilizzati, ma non cancellati: l'Iri fu potenziato con nuovi finanziamenti e
l'Agip fu rilanciato dalla scoperta di giacimenti idrocarburi in Val Padana.
Il trattato di pace fra l'Italia e gli alleati fu firmato a Parigi nel febbraio del '47 e ratificato dalla
Costituzione nel luglio dello stesso anno. Da nazione dichiarata sconfitta doveva impegnarsi a pagare
le riparazioni agli Stati che aveva attaccato ( Russia, Grecia, Jugosliavia, Albania, Etiopia) e a ridurre
la consistenza delle sue forze armate, rinunciava inoltre a tutte le colonie. A ovest l'Italia non subì
mutilazioni di rilievo, salvo alcune rettifiche secondarie (Briga, Tenda e il Moncenisio) a favore della
Francia; a nord potè avvantaggiarsi della posizione di inferiorità dell'Austria per mantenere l'Alto
Adige, impegnandosi con gli accordi De Geasperi-Gruber del '46, a concedere ampie autonomie
amministrative e linguidtiche della provincia di Bolzano. I problemi si presentarono sul confine
orientale, dove gli jugoslavi avevano occupato nel '45 buona parte della Venezia Giulia e
rivendicavano Trieste: alla fine del '46 fu attuata una sistemazione provvisoria, che lasciava alla
Jugoslavia la penisola istriana, ad eccetto di una striscia comprendente Trieste e Capodistria, che
avrebbero dovuto costituire il Territorio libero di Trieste. Il territorio fu diviso in una zona A ( Trieste
e dintroni) occupato dagli alleati e in una zona B tenuta dagli jugoslavi. Nell'ottobre del '54 si giunse
a una spartizione di fatto, che sanciva il controllo jugoslavo sulla zona B e il passaggio
all'amministrazione italiana della zona A, ossia di Trieste: con il trattato di Osimo del novembre 1975
le due parti riconoscevano la resiproca sovranità sui territori in questione. Il contrasto fra slavi e
italiani, esasperato durante il fascismo dalla dura repressione contro le minoranze etniche condotta
dal regime, culminò nell'esecuzione di migliaia si persone, gettate nelle foibe (fosse naturali del
Carso): un gran numero di giuliani e dalmati erano stati costretti a riparare in Italia, contribuendo a
tener desta la polemica contro il trattato di pace. Per un paese sconfitto, economicamente debole e
privo di qualsiasi autonoma forza militare, il problema capitale era quello di schierarsi con uno dei
due blocchi: la scelta, in buona parte condizionata da fattori esterni, diventò netta ed esplicita dopo
l'estromissione delle sinistre dal governo e l'accettazione del piano Marshall, per essere poi sancita
dall'elettorato il 18 aprile '48. Quando, alla fine del '48, furono gettate le basi per il Patto atlantico,
l'ipotesi di un'adesione dell'Italia suscitò non solo la dura opposizione di socialisti e comunisti, ma
anche la perplessità di una parte del mondo cattolico e dei partiti laici di centro-sinistra. Prevalse alla
fine la volontà di De Gasperi e del ministro degli Esteri Carlo Sforza, che vedevano nell'alleanza uno
strumento per garantire all'Italia una integrazione maggiore con l'Occidente: l'adesione fu approvata
dal Parlamento nel marzo del '48.
nonostante potesse contare sulla maggioranza assoluta dei seggi della Camera, la Dc continuò a
puntare sull'alleanza coi partiti laici minori; appoggiò la candidatura a presidente della Repubblica
del liberale Einaudi, eletto nel maggio del '48; associò ai suoi governi rappresentanti del Pli, del Pri
e del Psdi: fu questa la formula del centrismo. Componente essenziale di questa politica era una
moderata dose di riformismo che, senza troppo sconvolgere gli equilibri sociali, conservasse al
governo il consenso delle masse popolari, soprattutto contadine. Fra il maggio e il dicembre '50 fu
attuata la riforma agraria, che fissava norme per l'esproprio e il frazionamento di una parte delle grandi
proprietà terriere di ampie aree geografiche: il delta del Po, la Maremma, la Sila, parte del Molise,
della Campania, della Sardegna e delle Puglie, l'intera Sicilia. La riforma dava un duro colpo al potere
della grande proprietà assenteista; andava incontro alle attese delle masse rurali del Centro-Sud
protagoniste di alcuni drammatici episodi di lotta per la terra. Lo scopo immediato era quello di
rimuovere una causa di scontento e protesta sociale, l'obiettivo a lungo termine stava nell'
incrementare la piccola impresa agricola: ovvero rafforzare il ceto dei contadini indipendenti,
considerato garanzia di ordine e di stabilità sociale ed egemonizzato dalla Dc attraverso la
Confederazione dei coltivatori diretti (Coldiretti). La riforma non servì a contenere il fenomeno dell'
immigrazione dalle campagne, iniziato negli anni '50 con i primi segni di ripresa industriale.
Nell'agosto del '50 fu varata una legge che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, nuovo ente pubblico
con lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali attraverso il
finanziamento statale per le infrastrutture e il credito agevolato alle industrie delle aree depresse:
l'impegno fu di 1500 miliardi nei primi dieci anni, ma la cassa fu sciolta nell' '83. I risultati non
corrisposero alle attese: si ebbero effetti positivi sull'economia meridionale e sul tenore di vita della
popolazione, ma non bastò a dare il via ad un auotonomo processo di modernizzazione, né a cambiare
i lineamenti della società, né a colmare il divario con le regioni del nord. Tra le riforme varate dai
governi centristi vi erano anche la legge Fanfani sul finanziamento alle case popolari e la riforma
Vanoni che introduceva l'obbligo della dichiarazione annuale dei redditi, entrambe duramente
avversate dalla destra. Le sinistre continuarono a condurre contro i governi De Gasperi una dura
opposizione, motivata anche dallo stato di disagio delle classi lavoratrici. La politica economica del
governo continuava a basarsi sull'austerità finanziaria e sul contenimento dei consumi privati; la
disoccupazione si mantenne elevata e i salari rimasero bassi. La sinistra e la CGIL reagirono
mobilitando le masse operaie in scioperi e manifestazioni che spesso si concludevano in scontri con
le forze dell'ordine; a sua volta il governo rispose intensificando l'uso dei mezzi repressivi. La polizia
fu potenziata con la creazione dei reparti celeri, impiegati esclusivamente nei servizi di ordine
pubblico. Prefetti e questori cercarono di limitare la libertà di riunione valendosi di leggi e
regolamenti varati in epoca fascista: comunisti e socialisti furono schedati e a volte discriminati negli
impieghi pubblici; il ministro degli Interni Mario Scelba divenne, agli occhi dei militanti di sinistra,
il simbolo di una politica illiberale e repressiva. De Gasperi e i suoi alleati tentarono, nell'imminenza
delle elezioni del '53, di rendere inattaccabile la coalizione centrista attraverso una modifica dei
meccanismi elettorali in senso maggioritario. Il sistema scelto fu quello di assegnare il 65% dei seggi
alla Camera a quel gruppo di partiti “apparentati” che ottenesse almeno la metà più uno dei voti. Dato
che né la sinistra né la destra potevano raggiungere un simile risultato, il sistema sembrava costruito
su misura per la maggioranza. La legge, ribattezzata “legge truffa”, fu approvata nel marzo '53, ma
nelle elezioni, che si tennero in giugno, la coalizione di governo fu sorprendentemente sconfitta: sia
la Dc che i suoi alleati mancarono per poche decine di migliaia di voti l'obiettivo del 50%. Il premio
di maggioranza non scattò.
Con le elezioni del '53 iniziò una lunga fase di transizione e di ricerca di nuovi equilivri politici; il
paese cominciava a modernizzarsi; la ripresa economica si consolidava e si rafforzavano, grazie alla
completa liberalizzazione degli scambi con l'estero attuata dal ministro repubblicano Ugo La Malfa,
i rapporti con l'Europa avanzata: legami ribaditi, nel marzo del '57, dall'adesione italiana al mercato
comune europeo. Dimessosi De Gasperi nel Luglio '53 in seguito ad un voto contrario della Camera,
i successivi governi democristiani continuarono ad appoggiarsi sulla maggioranza quadripartita. Nel
'55 fu presentato in parlamento il piano Vanoni (all'ora ministro del Bilancio), che rappresentava il
primo tentativo di programmazione economica. Nel dicembre '56 fu creato il ministero delle
Partecipazioni statali, col compito di coordinare l'attività delle aziende di stato: segno di un nuovo
rilievo assunto dagli enti a partecipazione statale (soprattutto L'Iri e L'Eni, Ente nazionali idrocarburi
fondata nel '53) e di una nuova volontà del potere politico di intervenire nella gestione dell'economia.
Nell'aprile del'56 fu insediata la Corte costituzionale, nel '58 il consiglio superiore della magistratura.
Nella Dc le elezioni del '53 segnarono la sconfitta di De Gasperi, che morì nell'estate del '54 ma anche
la progressiva emarginazione del gruppo dirigente de gasperiano e l'emergere della nuova generazione
formatasi nell'Azione cattolica negli anni '20 e '30. Questa generazione era favorevole all'intervento
statale nell' economia: esponenti principali erano Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Mario Rumor e
Amintore Fanfani. Diventato nel '54 segretario della Dc Fanfani cercò di rafforzare la struttura
organizzativa e di svincolare il partito dai condizionamenti della Confindustria collegandola
all'industria di stato e in particolare ad Enrico Mattei. Questa scelta contribuì a svecchiare la Dc ma
creò le premesse dell'intreccio tra economia pubblica e potere partitico. Dopo le elezioni presidenziali
del '55 con la vittoria di Giovanni Gronchi democristiano di sinistra sostenuto da una parte della Dc
e appoggiato da socialisti e comunisti, si manifestò nel partito una maggiore consapevolezza della
fragilità della coalizione quadripartita e una nuova attenzione a quanto stava cambiando nella sinistra,
in particolare nel partito socialista. Negli anni '54 '55 il Psi aveva iniziato una revisione della politica
frontista, allentato i legami col Pci e auspicato l'aprirsi di un dialogo con i cattolici. Un accelerazione
al processo di autonomia fu impressa dai fatti del '56: la denuncia dei crimini di Stalin al XX
congresso del Partito comunista sovietico e l'invasione sovietica dell'Ungheria costituirono un trauma
per tutti i militanti di sinistra. Mentre il Pci si mantenne sostanzialmente al modello sovietico, il Psi
se ne distaccò in modo definitivo. Fu Nenni a guidare la svolta autonomista: il Psi non rinunciava alla
prospettiva di una radicale trasformazione della società, ma si dichiarava disposto a collaborare ad
una politica di riforme. Nelle elezioni del'58 il Psi registrò un netto progresso, pur restando distante
dalla Dc e Pci.
17CAPITOLO: LA SOCIETà DEL BENESSERE.
Negli anni '50 e '60, l'economia capitalistica attraversò un periodo di sviluppo senza precedenti per
intensità, per durata e per ampiezza nell'area geografica interessata. Nei paesi industrializzati, fra il
'50 e il '73, il tasso medio annuo di incremento reale del prodotto pro-capite fu del 3,8%, quasi tre
volte superiore a quello del 1896-1913. L'espansione fu caratterizzata da maggiore continuità: tanto
da far apparire lo sviluppo economico e l'aumento del benessere come la condizione nirmale delle
società industriali. Il boom cominciò negli USA e, dall'inizio degli anni '50, si estese ai paesi
dell'Europa occidentale e in Giappone: superate le difficoltà postbelliche questi paesi si svilupparono,
nel ventennio successivo, a ritmi mediamente superiori a quelli degli USA. Lo sviluppo riguardò in
primo luogo l'industria, soprattutto i settori legati da un lato all'uso di tecnologie avanzate, dall'altro
alla produzione di quei beni di consumo durevoli che raggiunsero una diffusione di massa.
L'agricoltura ebbe uno sviluppo più lento, ma il processo di modernizzazione del settore si estese e si
consolidò, consentendo fortissimi aumenti di produttività: in tutti i paesi sviluppati la produzione
agricola crebbe costantemente, mentre il numero degli addetti al settore diminuiva, fino a scendere
stabilmente sotto il 15% della popolazione attiva. Nel frattempo si accresceva la quota degli occupanti
nel settore terziario, che nei paesi più avanzati, all'inizio degli anni '70, era superiore anche a quella
degli addetti nell'industria. Uno dei principali fattori che portarono allo sviluppo fu l'esplosione
demografica che significò un allargamento dei beni di consumo, di abitazioni, di strutture sociali e
l'immissione nei processi produttivi di nuova forza-lavoro più giovane e meglio qualificato. Gli
apparati industriali poterono giovarsi di alcuni fattori favorevoli come il costo relativamente basso
delle più importanti materie prime, in particolare del petrolio diventata principale fonte di energia al
posto del carbone. Crebbero, in numero e in dimensioni, le grandi multinazionali. Un altro fattore di
sviluppo fu rappresentato dalla liberalizzazione degli scambi internazionali che si realizzò nel
secondo dopo guerra: fra il '50 e il '70, il volume complessivo del commercio mondiale aumentò di
ben cinque volte, grazie anche alla migliore efficienza dei trasporti e alla stabilità dei cambi fra le
monete, frutto degli accordi di Bretton Woods.
L'applicazione delle scoperte scientifiche alla produzione divenne velocissima. Nel campo della
chimica si svilupparono le materie plastiche e le fibre sintetiche. In medicina c'è da segnalare la
produzione di nuovi farmaci (antibiotici, ormoni, psicofarmaci, anticoncezionali) e i grandi progressi
della chirurgia come il trapianto d'organi. Le conseguenze dello sviluppo tecnologico si fece sentire
nel campo dei trasporti (motorizzazione privata, sviluppo dell'aviazione civile), contribuendo a
modificare radicalmente le abitudini di vita. Nel '57, col lancio del primo satellite artificiale sovietico,
iniziava la conquista dello spazio (del '69 è il primo sbarco dell'uomo sulla Luna), che avrebbe
determinato una ricaduta di tecnologia in tutti i settori produttivi.
Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (anzitutto della televisione) ha rappresentato, tra i
prodotti dello sviluppo tecnologico, quello che più di ogni altro ha condizionato la vita quotidiana e
i modelli di comportamento delle società industrializzate, e in parte anche di quelle meno sviluppate.
Una caratteristica dei decenni del dopoguerra è il forte aumento della popolazione, concentrato però
soprattutto nel Terzo Mondo, dove al calo della mortalità si è accompagnato un tasso di natalità
notevolmente elevato. Nei paesi industrializzati l'aumento demografico è stato invece molto
contenuto e in alcuni di essi si è giunti ormai alla “crescita zaro” della popolazione.
La notevole espansione dei consumi superflui è ormai caratteristica fondamentale delle società
avanzate, ove ha suscitato fenomeni estesi di rifiuto ideologico, nonché di critica da parte di alcune
correnti intellettuali, anzitutto della Scuola di Francoforte.
La contestazione nei confronti della società del benessere trovò la più larga eco fra coloro che di
quella società erano figli: i giovani nati nei primi anni del dopoguerra. Inizialmente si espresse in
forma di rifiuto delle convenzioni, di vera e propria fuga dalla società industrializzata e quindi nella
creazione di una cultura alternativa, in cui confluivano pratica della non-violenza e religiosità
orientale, consumo di droghe leggere e messaggi della nuova musica. In segiuto assunse forme più
politicizzate e trovò i suoi centri propulsori nelle università, dove la scolarizzazione di massa aveva
concentrato un centro studentesco più numeroso e socialmente più articolato. Il fenomeno prese
l'avvio dagli Stati Uniti, dove la mobilitazione, iniziata con l'occupazione dell'università di Berkley,
si intrecciò con la protesta contro la guerra del Vietnam e col movimento contro la segregazione
razziale. La mobilitazione dei neri esplose fra il '65 e il '67 in una serie di aspre rivolte dei ghetti
metropolitani, ispirate all'ideologia rivoluzionaria e separatista del Balck Power. A partire dal '66-'67
la rivolta si estese in Europa occidentale, dove prese forme più radicali e ideologizzate, ispirandosi
ora alle correnti radicali del marxismo, ora a modelli terzomondisti, ora all'esempio della rivoluzione
culturale nella Cina di Mao. Elementi unificatori furono la lotta contro l'autoritarismo, considerato un
tratto distintivo delle società industriali avanzate, e la mobilitazione contro l'imperialismo americano.
In Germania la rivoltà si concentrò contro le misure del governo di grande coalizione e contro la
grande stampa controllata dalla destra, dando vita a organizzazioni politiche che si definirono
extraparlamentari. In Francia il coagulo fra i diversi movimenti di estrema sinistra, che cercavano di
coniugare il tradizionale impegno rivoluzionario con nuove forme di lotta antiautoritaria diede luogo
a una guerriglia urbana, nel quartiere latino di Parigi, che vide contrapposti studenti e forze di polizia.
Il movimento riuscì a coinvolgere sindacati e partiti di sinistra, uniti nell'opposizione contro De
Gaulle, che sembrò vacillare sotto l'urto di un'imponente ondata di scioperi. Il generale, muovendo
l'opinione pubblica, ottenne un vistoso successo nelle elezioni e, con una riforma universitaria di
segno efficientista, riuscì a esaurire la protesta studentesca.
Negli stessi anni si sviluppava un nuovo femminismo che, raggiunta la parità tra i sessi sul piano dei
diritti politici, criticava la divisione dei ruoli tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro, e più in
generale rifiutava i valori maschilisti dominanti nelle società industrializzate. A partire dagli anni '70,
l'ondata di ribellione femminile entrò in una fase di ripiegamento, ma i suoi effetti di ripensamento e
di trasformazione del ruolo della donna sono tuttora operanti.
Negli anni '60 i cattolici costituivano ancora la più numerosa fra le comunità religiose, con oltre 500
milioni di fedeli. Guardavano con preoccupazione il pogressivo declino delle pratiche religiose
tradizionali nelle aree industrializzate, dell'affermarsi di mentalità e valori tipicamente materialisti,
del diffondersi di comportamenti e costumi contrari agli insegnamenti della Chiesa. Invece di
chiudersi in un arroccamento dottrinario, la reazione sfociò in un tentativo di rinnovamento interno,
accompagnato da una maggiore attenzione alla mutata realtà sociale e internazionale. Il nuovo corso
ebbe inizio con papa Giovanni XXIII, il quale cercò di rilanciare il ruolo ecumenico della Chiesa e di
instaurare un dialogo con le realtà esterne al mondo cattolico. La svolta fu sancita in due celebri
encicliche: nella prima, la Mater et magistra del '61, si richiamava al Rerum novarum di Leone XII
per rilanciare il filone sociale del pensiero cattolico, per incoraggiare il riformismo politico ed
economico; nella seconda, la Pacem in terris del '63, si parlava dei rapporti internazionali e conteneva
una significativa apertura verso i nuovi paesi indipendenti e una proposta di dialogo con le religioni
non cattoliche e con i non credenti. Fu convocato il Concilio Vaticano II che, apertosi nell'ottobre del
'62, si prolungò per oltre tre anni, sotto il pontificato di Paolo VI, che consolidò e continuò la svolta
del suo predecessore. Dal Concilio la Chiesa uscì riformata sia nell'organizzazione interna, sia nella
liturgia. Fu ribadita l'importanza delle Sacre Scritture come fonti della rivelazione e fu affermata la
necessità del dialogo con le altre religioni e con le altre chiese cristiane, in vista di una possibile futura
riunificazione della cristianità. In America Latina, la partecipazione di sacerdoti e gruppi cattolici alla
lotta contro le dittature e le oligarchie conservatrici fu all'origine di una nuova teologia (teologia della
liberazione), che reinterpretava il messaggio cristiano e le stesse Scritture nel quadro di una
concezione marxista della storia: fu ufficialmente condannata dalla Chiesa.
18CAPITOLO: DISTENSIONE E CONFRONTO.
Gli anni '60 sono spesso ricordati come un decennio felice, come un periodo di grande sviluppo
economico e civile e di grande speranza. Sia sul piano degli equilibri interni che di equilibri
intrernazionali alle società industrializzate, il periodo che va dagli anni '50 ai primi anni '70, offre un
quadro abbastanza agitato e per molti aspetti contradditorio. Lo sviluppo economico in qualche caso
acuì i conflitti politici e sociali e la diffusione di più elevati livelli di benessere si accompagnò al
rilancio alle ideologie rivoluzionarie. La coesistenza fra i due blocchi si consolidò e confermò: la
coesistenza si basava sul sostanziale equilibrio fra gli armamenti nucleari in possesso dei due blocchi
e sulla consapevolezza di entrambe di non poter prevalere sull'avversario se non mettendo a
repentaglio la sopravvivenza propria e dell'intera umanità. Dunque un equilibrio del terrore che non
impedì né il maniferstarsi di tensioni all'interno dei due blocchi, né lo scatenarsi di conflitti locali
nelle numerose aree calde del mondo.
STATI UNITI: nel novembre del '60 John Fitzgerlad Kennedy salì alla presidenza degli Stati Uniti.
Kennedy, eletto a 44 anni, fu il più giovane presidente e anche il primo cattolico a entrare alla Casa
Bianca: suscitò immediatamente molti consensi intorno alla sua persona, riallacciandosi alla
tradizione progressista di Wilson e Roosvelt e aggiornandola con una nuova frontier, spirituale,
culturale e scientifica. In politica esterna, lo slancio riformatore si tradusse in un forte incremento
della spesa pubblica, assorbito in parte dai programmi sociale e dalle esplorazioni spaziali; ma anche
nel tentativo di imporre l'integrazione razziale negli Stati del Sud. In politica estera, l'enfasi venne
posta sui temi della pace con l'Est ma si univa a una sostanziale intransigenza sulle questioni ritenute
essenziali a una difesa degli interessi americani nel mondo. Il primo incontro fra Kennedy e Kruscëv,
avvenuto a Vienna nel giugno '61 e dedicato al problema di Berlino Ovest, si risolse in un fallimento.
Gli Usa riaffermarono il loro impegno in difesa di Berlino Ovest e i sovietici risposero innalzando un
muro che separava le due parti della città. Il muro di Berlino divenne il simbolo più visibile della
Germania, dell'Europa e del mondo. Riguardo all'America Latina, Kennedy tentò di soffocare il
regime socialista di Castro, sia boiccotandolo economicamente, sia appoggiando i gruppi esuli
anticastristi che tentarono, nel '61, una spedizione armata nell'isola. Lo sbarco avvenne nella Baia dei
porci e avrebbe dovuto suscitare un'insurrezione contro Castro, si risolse in un totale fallimento e in
un gravissimo scacco per l'amministrazione Kennedy. Nella tensione si inserì l'Urss che non solo offrì
aiuti economici e militari, ma iniziò l'installazione nell'isola di alcune basi di lancio per missili
nucleari. Quando, nel '62, le basi furono scoperte dall'America, Kennedy ordinò un blocco navale
attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche il raggiungimento dell'isola. Per 6 giorni si temette
una nuova guerra, ma alla fine Kruscëv cedette e acconsentì a smantellare le basi in cambio
dell'impegno americano di astenersi da azioni militari contro Cuba. Nel '63, Usa e Urss firmarono un
trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell'atmosfera, al quale non aderirono Francia
e Cina. Nello stesso periodo Usa e Urss si accordarono per l'installazione di una linea diretta di
telescriventi (la linea rossa), fra la Casa Bianca e il Cremlino, che serviva a scongiurare il pericolo di
una guerra “per errore”. Kruscëv accentuò in questi anni il tono pacifista dei suoi interventi e
interpretò il confronto fra i due blocchi in chiave di competizione economica fra i due sistemi: avrebbe
vinto quello che avrebbe assicurato il maggior grado di benessere e di giustizia sociale. Questo
eccesso di ottimismo russo, destinato di lì a poco a essere smentito dall'andamento dell'economia,
non fu estraneo all'improvvisa caduta di Kruscëv che, nell'ottobre del '64, fu estromesso dalle sue
cariche. Il 22 novembre 1963 Kennedy fu ucciso a Dallas; nel '68 furono uccisi Robert Kennedy,
probabile candidato democratico e Martin Luther King. A Kennedy subentrò Lyndon Johnson,
esponente di formazione roosveltiana, che ebbe il merito di tradurre in atto e di ampliare molti progetti
di legislazione sociale, come l'assistenza medica e i sussidi ai poveri, e di imprimere una spinta
decisiva all'integrazione razziale nel Sud.
CINA: tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 si venne delineando un contrasto sempre più
forte tra Unione Sovietica e Cina: all'origine della rottura c'era un intreccio di rivalità statuali e di
divergenze politico-ideologiche che investivano sia le strategie internazionali sia le grandi scelte di
politica interna. L'Urss si proponeva come garante di un ordine mondiale bipolare, la Cina tendeva a
contestare lo status quo internazionale, ad appoggiare i movimenti rivoluzionari mondiali e a porsi
come guida dei paesi in via di sviluppo contro l'imperialismo. L'Urss intendeva mantenere fermo il
suo ruolo di Stato-guida e di unica potenza socialista, la Cina rivendicava maggior peso sulla scena
internazionale e maggior voce in capitolo sulle questioni di interesse comune. In Urss la
destalinizzazione diede luogo ad una timida apertura in senso liberale, in Cina si accentuavano dei
tratti radicali e collettivistici del regime. Nel corso degli anni '50 la Cina comunista aveva
progressivamente nazionalizzato i settori industriale e commerciale, si era dotato di una propria
industria pesante, aiutata da numerosi tecnici sovietici; aveva proceduto alla collettivizzazione
dell'agricoltura, pur distaccandosi dall'esperienza russa per un maggiore rispetto dei caratteri rurali
della società. Il regime, con la riforma agraria del '50, aveva dapprima redistribuito le terre ai
contadini, in seguito aveva incoraggiato e poi obbligato, le famiglie contadine a riunirsi in cooperative,
di fatto controllate dalle autorità statali. Nel settore industriale si era ottenuta una crescita molto rapida,
quasi il 20% annuo; meno soddisfaciente i risultati nel settore agricolo, sul quale incombeva l'onere
di sfamare una popolazione in continuo aumento. Per promuovere un rilancio dell'agricoltura, venne
varata nel '58, una nuova strategia che fu definita del grande balzo in avanti, che avrebbe dovuto
realizzarsi soprattutto grazie a un grande sforzo di volontà collettiva. Le cooperative furono riunite in
comuni popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all'autosufficienza economica, producendo in
proprio quanto le era necessario. La popolazione fu sottoposta a controllo più stretto e mobilitata con
una martellante campagna propagandistica. L'esperimento si risolse in un colossale fallimento: la
produzione agricola crollò, provocando una grave carestia e costringendo il paese a massiccie
importazioni di cereali. I sovietici criticarono aspramente la linea del “gran balzo in avanti” e, fra il
'59 e il '60, richiamarono i loro tecnici infliggendo un duro colpo all'economia cinese.
Contemporaneamente l'Urss rifiutò di fornire qualsiasi aiuto nel campo nucleare, ma la Cina fece
esplodere la sua prima bomba nel '64. i sovietici accusarono i cinesi di avventurismo e settarismo,
cercando, senza riuscirci, di ottenere una solenne condanna al maoismo da parte dell'intero
movimento comunista internazionale. I cinesi replicarono con accuse di revisionismo e di acquiscenza
all'imperialismo e giusero a definire i sovietici “nuovi zar” e a rimettere in discussione i confini fra
Cina e Russia definiti nell'800. Nel '69 la tensione sfociò in episodici scontri armati lungo il fiume
Ussuri, ai confini tra Siberia e Manciuria. Il fallimento del “grande balzo in avanti” ebbe contraccolpi
anche sul piano interno, dando spazio alle componenti più moderate e meno antisovietiche del gruppo
dirigente comunista, a partire dal presidente della Repubblica Liu Shao-chi. Mao ricorse a una nuova
forma di lotta: avvalendosi del sostegno dell'esercito, controllato dal ministro della Difesa Lin Piao,
mobilitò contro i suoi avversari le generazioni più giovani, esprtandoli a combattere contro i dirigenti
sospetti di percorrere la “via capitalistica”. La mobilitazione culminò, fra il '66 e il '68, nella
rivoluzione culturale: rivolta giovanile, orchestrata dall'alto, che, richiamandosi all'autentico pensiero
di Mao, contestava ogni potere burocratico e ogni autorità basata sulla competenza tecnica. Nelle
scuole e nei luoghi di lavoro, nel partito e negli organi di governo locale, gruppi do giovani guardie
rosse mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e artisti: molti vennero
mandati in campi di rieducazione e sottoposti a torture fisiche e psicologiche. L'intento era di
provocare un mutamento nella cultura e nella mentalità collettiva e di superare così tutti gli ostacoli
della realizzazione del comunismo. Anche in Europa occidentale, e in altri paesi, si formarono gruppi
giovanili ispirati alle guardie rosse e al pensiero di Mao. La rivoluzione culturale si esaurì nel giro di
due o tre anni: quanti furono necessari per eliminare dai posti di responsabilità i dirigenti contrari alla
linea maoista, a cominciare da Liu Shao-chi. A partire dal '68 Mao cominciò a porre un freno al
movimento da lui suscitato che stava provocando profonde spaccature nella base comunista e
rischiava di gettare nel caos l'economia: le guardie rosse furono allontanate dalle città, i leader più
radicali furono emarginati, mentre riacquistarono peso tecnici ed esperti. Un ruolo importante fu
svolto da Chou En-lai, braccio destro di Mao, che ricoprì ininterrottamente dal '49 la carica di primo
ministro e che rappresentò la continuità del potere istituzionale. Egli avviò, all'inizio degli anni '70,
una linea di normalizzazione anche in campo internazionale, resa necessaria dall'isolamento
economico e diplomatico in cui il paese si trovava. Dati i rapporti con l'Urss, si avvicinò agli Stati
Uniti, apertura sancita, nel'72, da un viaggio di Nixon a Pechino e dell'ammisione della Cina
comunista all'Onu. Nell'autunno del '71 il maresciallo Lin Piao, protagonista della rivoluzione
culturale, scomparve in un incidente aereo e fu successivamente accusato di aver tentato di fuggire in
Russia, dopo un colpo fallito antimaosita: con questo episodio si chiuse il periodo della rivoluzione
culturale e iniziava una fase destinata a sfociare, dopo la morte di Mao e di Chou En-lai ('76), in un
radicale mutamento di rotta anche sul piano interno.
VIRTNAM: gli accordi di Ginevra del '54 avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella del
Nord era retta dai comunisti di Ho Chi-minh, quella del Sud dal regime semidittatoriale del cattolico
Ngo Dinh Diem, appoggiato dagli americani. Contro il governo del Sud si sviluppò un moviemento
di guerriglia, il Vietcong, guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato nordvietnamita. Preoccupati
dalla prospettiva di un'Indocina comunista, gli Stati Uniti inviarono nel Vietnam del Sud un
contingente che, durante Kennedy, raggiunse le 30.000 unità. Sotto la presidenza Johnson la presenza
Usa si trasformò in intervento bellico. A partire dall'estate del '64, il corpo di spedizione fu
continuamente rinforzato, fino a contare, nel '68-'69, oltre mezzo milione di uomini. Nel febbraio del
'65 ebbe inizio una serie di violenti bombardamenti contro il Vietnam del Nord: la contiunua
dilatazione dell'impegno americano non fu sufficiente nè a domare la lotta dei vietcong, appoggiati
fra le masse contadine, né a piegare la resistenza della Repubblica nordvietnamita, aiutata da Russia
e Cina. Di fronte a un nemico inafferrabile, l'esercito statunitense entrò in profonda crisi, originata
sia da fattori tecnici che da un crescente disagio morale. Negli Stati Uniti il conflitto vietnamita
apparve a larghi starti dell'opinione pubblica come una guerra fondamentalmente ingiusta, contraria
alle tradizioni della democrazia americana, e i cuoi costi, economici e umani, diventarono
insostenibili. Vi furono imponenti manifestazioni di protesta e molti giovani rifiutarono di indossare
la divisa. Ai movimenti rivoluzionari di tutto il mondo i successi dei Vietcong apparvero come la
prova del fatto che la più potente macchina militare poteva essere tenuta in mano da una guerra di
popolo; tutta l'opinione pubblica di sinistra si mobilitò in favore del popolo vietnamita, e ciò contribuì
ad accrescere l'isolamento della presidenza americana. La svolta della guerra si ebbe all'inizio del '68,
quando i vietcong lanciarono contro le principali città del Sud una grande offensiva che mostrò tutta
la vitalità della guerriglia. Nel marzo del '68 Johnson decise di sospendere i bombardamenti sul Nord
e annunciò la sua intenzione di non ripresentarsi alle elezioni: gli successe il repubblicano Nixon che
avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e ridusse progressivamente l'impegno militare
americano. Nel contempo però, cercò, senza fortuna, di potenziare l'esercito sudvietnamita e allargò
le operazioni belliche agli Stati confinanti, Cambogia e Laos, nel tentativo di tagliare ai vietcong le
vie di rifornimento. Nel gennaio del '73, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio,
che prevedeva il graduale ritiro delle forze americane. Dopo il ritiro la guerra durò per altri due anni,
fino a che, nel '75, i vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud. Pochi
giorni prima, i guerriglieri comunisti avevano conquistato Phnom Pehn, capitale della Cambogia,
cacciandone il governo filoamericano del generale Lon Nol. Nell'agosto del '75 era il Laos a cadere
nelle mani dei partigiani del Pathet Lao: tutta l'Indocina era così diventata comunista.
URSS: dopo l'allontanamento di Kruscëv, l'Unione sovietica fu retta da una direzione collegiale
formata da e collaboratori di Leonid Breznev, che divenne segretario del Pcus, Aleksej Kossighin,
che assunse la guida del governo, e Michail Suslov, che rappresentò la massima autorità in campo
ideologico. Anche questa volta fu il segretario del Partito a emergere sugli altri dirigenti e ad
affermarsi come il leader indiscusso del paese. Il nuovo gruppo dirigente mutò lo stile della politica
precedente, ma non il contenuto. Si accentuò la repressione di ogni forma di dissenso, che colpì
soprattutto gli intellettuali. In economia, fu varata una riforma che accordava alle imprese più ampi
margini di autonomia, compensati da un più stretto controllo del potere centrale sui singoli settori
produttivi. In politica estera, non vi fu alcun miglioramento dei rapporti con la Cina; la linea di
coesistenza con l'Occidente non fu messa in discussione, ma si accompagnò a una politica di riarmo
che assorbì quote crescenti del bilancio, a scapito del tenore di vita della popolazione. In relazione ai
rapporti con i paesi dell'Europa dell'Est, solo la Romania, guidata da Nicolae Ceausescu, riuscì a
conquistare una certa autonomia, sia sul piano delle scelte economiche sia su quello di politica estera:
i dirigenti sovietici tollerarono la dissidenza rumena, che non metteva in discussione la struttura
interna del regime.
CECOSLOVACCHIA: nel gennaio del '68, il segretario del partito, Antonin Novotny, superstite
dell'età staliniana, fu sostituito da Aleksander Dubcek, leader dell'ala innovatrice. Premuto da
un'opinione pubblica in fermento, appoggiato dagli intellettuali, dagli studenti e dagli operai, Dubcek
spinse il processo di rinnovamento. Il programma d'azione varato in aprile dal Partito comunista,
cercava di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l'introduzione di elementi
di pluralismo economico e politico e con la più ampia libertà di stampa e di opinione. Fra la primavera
e l'estate del '68, il Paese visse una stagione di radicale rinnovamento politico e di esaltante fermento
intellettuale. L'esperienza cecoslovacca del '68 fu sempre guidata dai comunisti e non mise mai in
discussione la collocazione del paese nel sistema di alleanze sovietico, ma costituì gradualmente una
minaccia insostenibile per l'Urss, preoccupata di un possibile contagio agli altri paesi. Il 21 agosto
del '68, truppe dell'Urss e di altri quattro paesi del Patto di Varsavia (Germania Est, Polonia, Ungheria
e Bulgaria) occuparono Praga e il resto del Paese: Dubcek fu arrestato e venne formato un governo
filosovietico. I dirigenti cechi promossero un'efficace resistenza passiva, che isolò politicamente e
moralmente gli occupanti. Trovatisi così in una situazione imbarazzante, i sovietici costrinsero
Dubcek e gli altri dirigenti a riprendere il loro posto, ma sotto il controllo degli occupanti che, in
pochi mesi, riuscirono a imporre un rovesciamento dei rapporti di forza nel partito. I dirigenti liberali
furono emarginati e, dal '69, allontanati dai loro incarichi. Con la rimozione di Dubcek, sostituito da
Guastav Husak, cominciò la fine della normalizzazione: intellettuali e comunisti furono in gran parte
costretti a emigrare o a cercarsi un lavoro manuale. A condannare l'intervento sovietico, furono interi
partiti comunisti occidentali, ma anche di quello cinese, jugoslavo e rumeno.
POLONIA: nel dicembre '70, gli operai di Danzica e Stettino, diedero vita a un'insurrezione per
protestare contro la politica di austerità e di aumento di prezzi decisa da Gomulka. La crisi fu risolta
con un aumento dei salari e con l'allontanamento di Gomulka, sostituito da Edward Gierek.
I paesi dell’Europa occidentale, negli anni 60 70, presentarono un periodo di complessiva prosperità
e di mutamenti politici. In Italia, in Germania occidentale e in Gran Bretagna, questa fase coincise
con l’entrata al governo dei socialisti, da soli o in coalizione.
FRANCIA: gruppi di obbedienza gaullista mantennero la guida del governo. Mantenuta con le
presidenze di Geroges Pomidou e di Valery Giscard d’Estainge, anche dopo l’uscita di de Gaulle che
si dimise nell’agosto del 69.
GERMANIA FEDERALE: il governo dei cristiano-democratici si interruppe nel ’66, quando,
dovendo affrontare una congiuntura economica, e non trovando un accordo coi liberali, formò una
grande coalizione insieme ai social-democratici guidati da Willy Brandt. Insieme affrontarono da un
lato una temporanea riviviscenza della destra neonazista, dall’altro l’ondata di contestazioni del ’68.
Nel ’69, placatesi le contestazioni e con l’economia in ripresa, i social-democratici ruppero la grande
coalizione e si allearono con i liberarli. La stagione dei governi social-liberali, si caratterizzò per una
nuova politica estera, impersonata dal cancelliere Brandt e dal ministro degli esteri Scheel: politica
che tendeva a una normalizzazione nei rapporti e i paesi del blocco comunista e che riproponeva il
problema di una futura riunificazione fra le due Germanie. Questa politica orientale si concretò
nell’istaurazione di rapporti diplomatici coi paesi comunisti, nel riconoscimento, stabilito da trattati
con Polonia e l’Urss, dei confini fissati dopo la seconda guerra mondiale e in un primo scambio
ufficiale di contatti con i tedeschi dell’est.
GRAN BRETAGNA: i laburisti inglesi, guidati da Harold Wilson, nel novembre del ’64 erano risaliti
al potere. Trovatosi a gestire una congiuntura economica difficile e costretto a d attuare una politica
di austerità, il governo Wilson dovette fronteggiare il riacutizzarsi della questione irlandese. Nell’
Ulster, Irlanda del Nord, la minoranza cattolica che rappresentava la parte più povera della
popolazione, diede vita a una serie di violenta agitazioni. In queste agitazioni le rivendicazioni
dell’unità irlandese si mescolava la protesta sociale. Le difficoltà economiche e politiche, insieme
all’abbandono di Malta, Singapore, Aden, attenuarono il rifiuto della classe dirigente e dell’opinione
pubblica ad aderire alla Comunità europea. Nel ’67 il governo Wilson aprì un difficile negoziate che
si concluse nel ’72, con l’ingresso della Gran Bretagna insieme a Irlanda e Danimarca nella Cee.
L’adesione inglese al Mercato comune non fu sufficiente a risolvere i problemi dell’economia
britannica, né a rilanciare il processo di integrazione politica fra gli stati del vecchio continente.
MEDIO ORIENTE: pericoloso focolaio di tensione locale, a causa della permanente ostilità fra
Israele e i Paesi arabi, ma anche terreno di scontro fra l’Unione Sovietica, protettrice dell’Egitto e gli
Stati Uniti, che sostenevano Israele.
EGITTO: nel ’67 il presidente Nasser chiese il ritiro delle forze-cuscinetto dell’ONU che
presidiavano il confine del Sinai, chiuse il Golfo di Aqaba, vitale per gli approvvigionamenti
israeliani, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli israeliani risposero sferrando un attacco
preventivo contro Egitto, Giordania e Siria. La guerra durò sei giorni, con la distruzione al suolo
dell’intera aviazione egiziana. L’Egitto perse la penisola del Sinai, la Giordania tutti i territori della
riva occidentale del Giordano e infatti, inclusa la parte orientale di Gerusalemme, la Siria le alture del
Golan. Gli arabi contarono più di 30.000 morti e 400.000 palestinesi ripararono in Giordania e negli
altri paesi arabi. La disfatta della guerra segnò il declino di Nasser e della sua politica di oltrazionismo
panarabo; indusse ad un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri stati moderati; determinò
il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell’Organizzazione per la liberazione della
Palestina, dalla tutela dei regimi arabi. Guidati dal ’69 da Yasir Arafat, già leader del gruppo di Al
Fatah, l’Olp pose le sue basi in Giordania creandovi una sorta di Stato nello Stato. Il re di Giordania
Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati dei feddayan (combattenti
palestinesi) reagì mobilitando, nel settembre del ’70 contro i feddayn e i profughi palestinesi che
furono costretti a riparare il Libano. Da allora l’Olp estese la lotta terroristica sul piano internazionale.
Nel ’70 Nasser morì e il suo successore, Anwar Sadat procedette a una cauta revisione della politica
egiziana. Deciso a recuperare il Sinai, il 6 ottobre del ’73, giorno dello Yom Kippur, le truppe egiziane
attaccarono di sorpresa le linee israeliane, dilagando nel Sinai. Israele riuscì a capovolgere le sorti del
conflitto grazie anche ai massicci aiuti americani, e a respingere gli attaccanti. La guerra del Kippur
ebbe risultati sul piano politico e psicologico: da un lato fu scosso il mito dell’invincibilità israeliana
e gli egiziani poterono sostenere di aver rivendicato i fatti del ’67; dall’altro la chiusura del Canale di
Suez e il blocco petrolifero, decretato dagli Stati Arabi contro i paesi occidentali amici di Israele,
diedero alla crisi una dimensione globale.
L’aumento del prezzo del petrolio nel ’73, che si inseriva in una fase di instabilità monetaria
internazionale inaugurata nel ’71 dalla sospensione della convertibilità del dollaro, generò una crisi
economica internazionale di vaste proporzioni. A differenza delle crisi del passato, la crescita della
disoccupazione si sommava a un elevato tasso di inflazione. La gravità della crisi, soprattutto sul
piano psicologico prima ancora che economico, indusse ad interrogarsi sui fondamenti stessi della
civiltà nata con la rivoluzione industriale.
19 CAPITOLO: APOGEO E CRISI DEL BIPOLARISMO.
Gli eventi succedutisi nella prima metà degli anni ’70 possono essere considerati come le premesse
di una crisi del sistema di rapporti internazionali e della cultura politica ad esso legata. Le
trasformazioni economiche e sociali degli anni 70 si accompagnarono ad un mutamento profondo
delle ideologie e della cultura politica corrente. Nei primi anni ’70 la cultura di sinistra era stata la
cultura egemone: sia nella versione riformista, che accettava la società del benessere e cercava di
guidarla a maggiore giustizia sociale, sia nella versione rivoluzionaria, che rifiutava quella società e
contestava il riformismo gradualista. Entrambe si basavano sul presupposto di un’illimitata capacità
espansiva del sistema economico e sulla possibilità di controllare i processi sociali con la politica.
Queste certezze cominciavano a venir meno: la crisi energetica metteva in discussione la prospettiva
di uno sviluppo industriale continuo; le trasformazioni dell’economia avevano ridimensionato il peso
numerico e politico della classe operaia; le vicende dei paesi comunisti mostravano l’incapacità dei
regimi ispirati al modello leninista e collettivista di offrire soluzioni ai problemi della società
contemporanea. L’Unione Sovietica vide la sua immagine deteriorarsi progressivamente, sia per le
denunce sulla repressione interna, sia per l’intervento in Afghanista, sia per gli insuccessi in campo
economico. Gli stessi partiti comunisti dell’Europa occidentale accentuarono in questo periodo le
prese di distanza dall’Urss. La crisi colpì anche il versante riformista della sinistra: il modello del
Welfare State cominciò a mostrare, alla fine degli anni ’70, evidenti segni di difficoltà; la crescita dei
costi obbligava a far crescere la pressione fiscale e ciò suscitava un crescendo di critiche controllo
Sato assistenziale e contro l’eccessivo statalismo nella gestione dell’economia e un ritorno delle
dottrine liberiste e del monetarismo. L’avvento del potere dei conservatori con Margaret Thatcher, in
Gran Bretagna nel ’79 e l’elezione alla presidenza degli USA del repubblicano Ronald Reagan dell’80,
entrambe presentatesi con un programma decisamente liberista e con promesse dei tagli delle spese e
delle tasse furono anche prodotto di questa ventata antistatalista e antifiscale. Il grande riflusso era
un fenomeno più vasto, che attraversava i gruppi tradizionale e coinvolgeva anche, alloro interno, le
forze di sinistra: veniva messo in discussione non solo la validità del programma ma la stessa capacità
dei grandi sistemi ideologici di fornire risposte valide alle esigenze reali della gente.
La caduta della tensione politica, negli anni ’70, lasciò isolate le punte estreme dei movimenti
rivoluzionari dei paesi industrializzati che avevano iniziato a praticare forme organizzate di lotta
armata: si assistè a un’esplosione di terrorismo politico, piccoli gruppi clandestini che agivano sulla
base di parole d’ordine ispirate a una versione estremizzata del marxismo-leninismo e colpivano quei
personaggi o quelle istituzioni che ai loro occhi si identificavano col sistema da abbattere. Poco
seguiti dalle masse lavoratrici, in nome delle quali affermavano di agire, i gruppi terroristici italiani
e tedeschi furono sconfitti prima politicamente, per il fallimento del loro tentativo di mobilitare la
classe operaia, poi sul piano della repressione, con l’arresto di gran parte dei loro componenti. Ma il
terrorismo come fenomeno internazionale, spesso finanziato e strumentalizzato da Stati contro altri
Stati, non scomparve.
Tutti i Paesi della Cee, con la parziale eccezione della Gran Bretagna, furono duramente colpiti dal
rincaro dei prezzi e del petrolio e tutti dovettero affrontare i problemi del declino di alcuni settori
industriali, il minerario e soprattutto il siderurgico. Si inasprirono così le tensioni sociali e accentuate
le tentazioni protezionistiche e le spinte nei confronti di un processo di integrazioni.
Nel ’79 fu istituiti il Sistema monetario europeo (Sme), ossia un sistema di cambi fissi fra le singole
monete nazionali. Inoltre la sua dipendenza militare dall’alleato di oltre Atlantico si accentuò man
mano che seguiva il livello tecnologico del confronto fra i due blocchi. Sul piano delle politiche
interne la crisi mise in difficoltà le social democrazie dell’Europa settentrionale.
GRAN BRETAGNA: i laburisti inglesi, ripreso il potere nel ’74, lo persero nel ’79 a favore dei
conservatori. Il governo di Margaret Thatcher, presentatosi sul livello di intransigente liberismo,
lanciò un duro attacco contro il potere della Trade Unions; mise in discussione i fondamenti del
Welfare State, privatizzò settori importanti dell’industria pubblica. Questa linea fu premiata dagli
elettori, che confermarono la maggioranza ai conservatori sia nell’83 che nell’87. Nel ’90 la Thatcher
lasciò il potere a un altro conservatore, Jhon Major.
PAESI SCANDINAVI: le social democrazie videro interrotto un dominio che durava da oltre un
trentennio.
GERMANIA FEDERALE: l’era dei governi social-democratici, guidati da Brandt e da Schmidt, si
concluse nell’83 con la rottura dell’alleanza coi liberali e l’ascesa al governo del cristiano-
democratico Helmut Koahl. La rottura con i liberali e la successiva sconfitta elettorale della Spd
furono determinati da contrasti di politica estera in particolare riguardo l’installazione degli
euromissili in Germania.
FRANCIA: l’unione delle sinistre si impose nelle elezioni dell’81 portando alla presidenza il
socialista Mitterand: partita fra grandi entusiasmi la loro esperienza politica finì in parte col deludere
le attese dei sostenitori. Le difficoltà dell’economia indussero i socialisti ad adottare una serie di
misure restrittive, il che contribuì alla rottura con un partito comunista, ma la rottura non impedì a
Mitterand di ottenere nell’88 il suo secondo mandato presidenziale né al partito socialista di governare
per oltre un decennio, fino alla sconfitta del ’93.
PORTOGALLO: fu la prima dittatura a cadere, sopravvissuta per pochi anni alla morte del suo
fondatore Salazar. I militari realizzarono, nella primavera del ’74, un incruento colpo di stato, anche
incitato dall’insofferenza dell’opinione pubblica e degli stessi militari contro una costo guerra
coloniale con l’Angola e il Mozambico. Il potere fu assunto dapprima dall’ala moderata delle forze
armate, poi da un gruppo di ufficiali di sinistra appoggiati dal partito comunista. Dall’autunno del ’75
i militari più radicali vennero emarginati e il paese fu restituito a un normale regime parlamentare e
pluripartitico.
GRECIA: i militari, nel ’67, rovesciarono con un colpo di stato il regime liberale, attuando poi una
durissima repressione sull’opposizione democratica. Nel ’74 la dittatura dei colonnelli finì a causa
dell’esito disastroso di una tentata annessione alla Grecia dell’isola di Cipro. La Turchia reagì
occupando una parte dell’isola. Dato l’insuccesso i militari dovettero lasciare il potere ai partiti
democratici: la nuova democrazia di Costantin Karamanlis, espressione della destra moderata, e il
partito socialista di Andreas Papandreu. Nel ’74 un referendum popolare aveva sancito la fine della
monarchia, già estromessa dalla dittatura dei colonnelli.
SPAGNA: il re Juan Carlos di Borbone, insediato nel ’75 dopo la morte di Franco, seppe pilotare con
abilità il passaggio alla democrazia di un paese che, fin dagli anni ’60 aveva conosciuto un rapido
sviluppo economico. Il re chiamò alla guida del governo Adolfo Suarez, giovane convinto della
necessità di un radicale rinnovamento politico, che legalizzò i partiti e i sindacati liberi e fece
approvare con un referendum nel ’78 una costituzione democratica. Nonostante le azioni terroristiche
dei separatisti baschi, la democrazia si consolidò rapidamente e sopportò il cambio di potere, nell’82,
con la vittoria elettorale dei socialisti di Felipe Gonzalez.
USA: nel '74 ci fu il caso Watergate che costrinse alle dimissioni Nixon, accusato di un'efficace
campagna giornalistica di aver coperto i comportamenti illegali di alcuni suoi collaboratori,
responsabili di un'operazione di spionaggio ai danni del Partito democratico. Il democratico Jimmy
Carter, salito al potere nel '76, cercò di risollevare il prestigio del paese e di restituire fiducia ai
cittadini recuperando i valori della tradizione progressista americana e tornando a una linea
wilsoniana, basata sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani
nel mondo. Linea portata avanti in modo incerto e che, se da un lato rendeva ancor più tesi i rapporti
con l'Urss, dall'altro criticata perchè lasciava spazio all'affermazione di regimi ostili agli Usa come in
Etiopia, Mozambico, Angola, Iran, Nicaragua. Il senso di frustazione diffusasi da questi episodi
sull'opinioni pubblica, contribuì alla sconfitta di Carter e all'affermazione di Ronald Reagan. Egli si
presentò con un programma liberista in economia e promise di adottare, in politica estera, di adottare
una linea più dura con l'Urss e con gli altri paesi nemici dellAmerica. Così riuscì a incarnare l'orgoglio
nazionalista e la voglia di rivincita dell'opinione pubblica, desiderosa di riprendersi dal trauma del
Vietnam. Reagan venne rieletto nell'84, grazie anche alla ripresa economica fra l'83-86. In quegli anni
le disuguaglianze sociali si accentuarono in seguito al taglio delle spese per l'assistenza pubblica, in
compenso l'inflazione fu contenuta e la disoccupazione in parte riassorbita; il dollaro tornò a essere
la moneta forte dell'economia mondiale. Il mantenimento di un alto livello di armamenti costituì un
elemento essenziale della strategia internazionale di Reagan, sia per riacquisire forza nel confronto
con l'Urss, sia per far sentire la presenza americana in tutti i punti caldi del pianeta. Sotto il primo
aspetto, Raegan appoggiò l'iniziativa di difesa strategica (Sdi), progetto teso a creare una sorta di
scudo elettronico spaziale, capace di neutralizzare qualsiasi minaccia missilistica; progetto criticato
sia per la sua realizzabilità, sia perchè rischiava di mettere in moto una incontrollabile spirale di spese
militari in entrambe le superpotenze. Per quanto riguarda la presenza americana nel mondo, si
concretizzò nel sostegno in armi e materiali forniti in contras del Nicaragua, nella sfida ai regimi
integralisti del Medio Oriente, la Libia di Gheddafi e l'Iran di Khomeini. Nel marzo '86 l'aviazione
americana bombardò il quartier generale di Gheddafi, a Tripolo. Nell'estate dell'87, una squadra
navale fu inviata nel Golfo Persico per proteggere le rotte petrolifere minacciate dallo scontro fra Iran
e Iraq. Nell'88 venne eletto George Bush, vicepresidente con Reagan, esponente dell'ala moderata del
suo partito. Egli riprese la linea di Reagan, ma con uno stile più prudente ed equilibrato. Bush si prese
la responsabilità dell'intervento militare a Panama nel dicembre '89, per prendere il dittatore Manuel
Noriega, e quello contro l'Iraq di Saddam Hussein, nel 91-92;assistè, tra il '91-'92, alla dissoluzione
dell'Urss e a sancire la definitiva vittoria degli Usa.
URSS: per tutti gli anni '70, guidati da Leonid Breznev, il paese riuscì a mascherare i disagi interni
grazie a un accentuato il dinamismo in politica estera: pur essendo afflitto da notevoli difficoltà
economiche, profittò della relativa incertezza di leadership degli Usa per avvantaggiarsi nella corsa
agli armamenti e per allargare la sua sfera di influenza in tutti i continenti, dall'America Latina
all'Africa, al Medio Oriente. Un successo effimero fu quello ottenuto in Afghanistan, Stato cuscinetto
e in posizione chiave per il controllo del Golfo Persico. Per imporre al paese un governo fedele alle
loro direttive, i sovietici inviarono in Afghanistan, alla fine del '79, un forte contingente di truppe che
si dovette scontrare, per quasi dieci anni, contro l'accanita resistenza dei gruppi guerriglieri islamici,
sostenuti dal Pakistan, dall'Iran e dagli Usa. Alla stagnazione economica e al rinnovato dinamismo in
politica estera faceva riscontro a un'accentuazione dei tratti burocratico-autoritari del regime interno:
soprattuto si inasprì la repressione nei confronti degli intellettuali dissidenti, molti dei quali furono
condannati a pene detentive o internati in cliniche psichiatriche. Nel '75 l'Urss partecipò alla
conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) e ne sottoscrisse gli accordi
finali che garantivano anche il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà politiche fondamentali.
Nell'85, dopo la morte di Breznev nell'82 e un breve periodo che vide salire alla guida del Partito e
dello Stato Yuri Andropov e Kostantin Cerenko, la segreteria fu assunta da Michail Gorbacev. In
politica economica il suo nome si legò alla parola perestrojka, riforma, proponendo una serie di
interventi nel segno della liberalizzazione che lasciava spazio a un limitato pluralismo, distinguendo
più chiaramente le strutture dello Stato da quelle del partito. Le elezioni del congresso dei Soviet
tenutesi nel marzo '89 inaugurarono un sistema di candidature plurime, ma sempre a lista unica, e
consentirono l'ingresso nel massimo organo rappresentativo di alcuni esponenti del dissesnso: nel
maggio '9, il congresso elesse Gorbaciev presidente dell'Urss. Riforme economiche e liberalizzazione
interna da un lato giovarono all'immagine dell'Urss, dall'altro evidenziarono e acutizzarono alcune
contraddizioni che erano rimaste soffocate nell'età di Breznev: i tentativi di riforma economica
finirono col suscitare malumori e con l'aggravare il dissesto di un sistema inefficiente. Allarmante era
l'emergere di movimenti autonomisti o indipendentisti fra le popolazioni non russe già facenti parte
dell'impero zarista e poi inglobate entro i confini dell'Urss: le prime furono le repubblicche baltiche
(Estonia, Lettonia, Lituania) annesse dopo il patto russo-tedesco del '39; poi ci furono nelle
repubbliche caucasiche (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e nelle regioni dell'Asia centrale. A volte
esplosero in sanguinosi scontri come quelli che, a partire dell'88, opposero i cattolici armeni ai
musulmani azeri. Nel '90 la repubblica russa rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed
elesse alla presidenza il riformista radicale Boris Eltsin, la cui leadership fu confermata nel '91 da
un'elezione popolare a suffragio diretto. Più importante fu il processo di liberalizzazione interna
condotto all'insegna della glasnot (libertà d'espressione), che consentì lo svilupparsi di un dibattito
politico-culturale impensabile fino allora. Ci fu un rilancio del dialogo con l'Occidente, imposto anche
dall'incapacità del sistema sovietico di sospendere alla sfida globale lanciata dall'America e dalla
necessità di frenare la corsa agli armamenti per poter destinare maggiori risorse ai consumi individuali.
Due successivi incontri fra Reagan e Gorbacev, a Ginevra nel'85 e a Reykjavik nel'86, inaugurarono
un clima più disteso fra Urss e Usa. Nell'aprile del'88 l'Urss si impegnò a ritirare le sue truppe
dall'Afghanistan, ritiro ultimato nel gennaio '89. Nuovi incontri fra Gorbacev e Bush, a Malta nell'89
e a Washington nel'90, consentirono di porre le basi per uletriori accordi sulla riduzione degli
armamenti strategici. A Parigi, nel novembre del '90, nell'ambito di una nuova riunione della
Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, i paesi della Nato e del Patto di Varsavia,
con la significativa partecipazione della Germania riunificata, firmarono un trattato di non
aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali.
POLONIA: aveva già conosciuto una inattesa stagione di cambiamenti fra l'80 e l'81, quando era
sorto e affermato un sindacato indipendente chiamato Solidarnosc, appoggiato e ispirato al clero
cattolico e guidato dal leader operaio Lech Walsea. Il movimento, inizialmente tollerato dalle autorità,
fu messo fuori legge in seguito al colpo di stato dell'81, attuato dal generale Jaruzelski, già segretario
del Partito operaio polacco. In seguito Jaruzelski aveva allentato le repressioni e riallacciato il dialogo
con la Chiesa e con il sindacato indipendente, dialogo culminato negli accordi di Danzica del 1988,
con i quali il capo di Stato si impegnava a una riforma costituzionale che avrebbe consentito lo
svolgimento, nel giugno '89, delle prime libere elezioni e la formazione di un governo di coalizione
presieduto da un esponente del sindacato indipendente, Tadeusz Mazowiecki. Questi avvenimenti
erano prodotto di fattori specifici come la grande influenza di un clero cattolico reso più autorevole
dall'ascesa di Karol Wojtyla al soglio pontificio nel '78, ma furono anche conseguenze del nuovo
corso della politica sovietica. Le elezioni presidenziali del novembre-dicembre '90 videro la divisione
del movimento di Solidarnosc, che comunque portò alla guida dello Stato il suo leader Walesa.
UNGHERIA: all'inizio dell'89 era stato deposto il vecchio Kádár, protagonista della repressione del
'56, ma anche del successivo trentennio di relativo benessere e di graduale liberalizzazione. Nell'89,
i nuovi dirigenti comunisti, decisi a respingere il processo riformatore, riabilitarono i protagonisti
della rovolta del '56, legalizzarono i partiti e indissero libere elezioni per l'anno successivo. La
decisione più importante presa dai dirigenti ungheresi fu la rimozione dei controlli polizieschi e delle
barriere di filo spinato al confine con l'Austria. A partire dall'89 migliaia di cittadini della Germania
orientale abbandonarono il loro paese per raggiungere la epubblica federale tedesca. Le prime elezioni
libere (aprile-maggio '90), segnarono l'affermazione di un partito di centro-destra, il Forum
democratico, e la sconfitta degli ex comunisti.
La fuga in massa, accompagnata da imponenti menifestazioni di massa nelle principali città tedescoorientali, costrinse alle dimissioni il vecchio segretario di partito Enrich Honecker. I nuovi dirigenti
avviarono un processo di riforme interne e liberalizzarono la concessione dei visti d'uscita e dei
permessi d'espatrio. Il 9 novembre 1989 furono aperti i confini fra le due Germanie, compresi i
passaggi attraverso il muro di Berlino: la caduta del muro rappresentò un evento epocale.
CECOSLOVACCHIA: una serie di imponenti manifestazioni, che videro tornare sulla scena anche
Aleksander Dubcek, determinarono la caduta del gruppo dirigente comunista legato alla
“normalizzazione” del dopo '68 e l'apertura di un processo di democratizzazione: il Parlamento,
presieduto da Dubcek, elesse alla presidenza della Repubblica lo scrittore Vaclav Havel. Le prime
elezioni libere, le elezioni di giugno, videro la vittoria di una formazione di centro-sinistra, il Forum
civico del presidente avel.
ROMANIA: il mutamento di regime ebbe sviluppi drammatici per la resistenza opposta dalla dittatura
personale di Nicolae Caeusescu, abbattuta nel dicembre '89 da un'insurrezione popolare. Il dittatore
fu catturato insieme alla moglie Elena e messo a morte.
Alla fine dell'89 fu avviato il processo di liberalizzazione anche in BULGARIA e un anno dopo in
ALBANIA. Anche in questi paesi gli eredi dei partiti comunisti persero le elezioni.
JUGOSLAVIA: dopo la morte di Tito, 1980, era in atto una grave crisi economica e istituzionale.
L'esito delle prime elezioni libere, che si tennero nel corso del '90, accentuò le spinte centrifughe già
operanti all'interno dello Stato federativo.
SLOVENIA E CROAZIA: vittoria ai partiti autonomisti.
SERBIA: prevaleva il neocomunismo nazionalista di Milosevic, deciso a riaffermare il ruolo
egemone dei serbi in Jugoslavia unita.
GERMANIA DEMOCRATICA: le elezioni del marzo '90 punirono gli ex comunisti, i socialdemocratici e gli altri gruppi di sinistra, mostratisi troppo timidi di fronte alla prospettiva di
un'immediata unificazione tedesca nel segno dell'economia di mercato e della democrazia liberale.
La vittoria andò ai cristiano-democratici che accellerarono per la liquidazione della Repubblica
democratica tedesca, ormai priva di ogni legittimità e svuotata dalla funzione storica. Il capo di
governo Kohl riuscì a preparare in pochi mesi l'assorbimento della Germania orientale nelle strutture
istituzionale ed economiche della Repubblica federale tedesca e a fare accettare all'Urss e ai paesi
dell'Est la nuova Germania unita e integrata nell'Alleanza atlantica. In maggio i due governi firmarono
un trattato per l'unificazione economiza e monetaria. Il 3 ottobre '90, dopo che Gorbacev aveva dato
il suo assenso alla riunificazione e dopo che i due Parlamenti tedeschi circa l'inviolabilità delle
frontiere uscite dalla seconda guerra mondiale, entrò in vigore il vero trattato di unificazione e la
Germania tornò a essere uno Stato unitario.
AMERICA LATINA: gli anni fra il '73 e l'89 segnarono la massima espansione e la successiva caduta
delle dittature militari. Quasi tutti i paesi furono travagliati dall'inflazione, con tassi di aumento dei
prezzi a volte vertiginosi, e dovettero anche far fronte a un pesantissimo carico di debiti con l'estero,
debiti cotratti per finanziare ambiziosi progetti di sviluppo e cresciuti negli anni al punto di assorbire
spesso l'intero valore delle esportazioni.
URUGUAY: il regime libero democratico, indebolito da una grave crisi economica e da azioni di
guerriglia urbana messa in atto dal movimento clandestino dei tupamaros, fu rovesciato nel '73 dai
militari. Le prime elezioni libere si svolsero fra l'84 e l'85 come anche in Bolivia.
CILE: nel '70 il socialista Salvador Allende aveva assunto la presidenza, a capo di un governo di
Unità popolare. Egli tentò di realizzare un programma di nazionalizzazioni e di ampie riforme sociali,
ma dovette scontrarsi con una situazione economica ai limiti del dissesto, con l'opposizione della
borghesia e con l'aperta ostilità degli Stati Uniti, oltre che con le intemperanze estremiste di una parte
dei suoi seguaci. Nel settembre '73 Allende fu rovesciato da un colpo di Stato militare e ucciso mentre
tentava la resistenza nel palazzo presidenziale. Il potere fu assunto dal generale Augusto Pinochet.
Nell'88 Pinochet fu sconfitto in un referendum indetto dallo stesso dittatore e le elezioni presidenziali,
dicembre '89, videro la vittoria del democratico Patricio Aylwin.
ARGENTINA: nel '72, il regime militare che aveva assunto il potere 6 anni prima, non riuscendo a
dominare una situazione delicata soprattuto sotto il profilo dell'economia e dell'ordine pubblico, dove
erano attivi diversi gruppi di guerriglia sia di ispirazione marxista che di obbedienza peronista, si
accordò con l'ex dittatore Péron. Eletto alla presidenza della Repubblica nel settembre '73, Péron fallì
il compito di riportare l'ordine nel paese e sul piano economico fece ripetere l'esito disastroso della
sua precedente esperienza di governo. Alla sua morte, luglio '74, la presidenza passò alla sua seconda
moglie Isabelita, ma nel marzo del '76 i militari decisero di deporre la presidentessa e di riprendere il
potere. La dittatura militare usò metodi estremamente brutali, ma nemmeno il loro pugno di ferro
riuscì a rimettere in sesto l'economia e a fermare l'inflazione. Nel '82 il governo argentino procedette
a occupare le isole Malvine (Falkland), tenute da secoli dalla Gran Bretagna: il governo inglese
mandò navi, aerei e truppe che, dopo poche settimane, ricacciarono gli argentini dall'arcipelago.
Investiti da un'ondata di impopolarità, i generali furono costretti a dimmetersi e a convocare libere
elezioni che, nell'83, videro la vittoria del radicale Raul Alfonsin. Le conseguenze di un'inflazione
catastrofica logorarono l'esperimento di Alfonsin e determinarono, nelle elezioni dell'89, la sconfitta
dei radicali e l'affermazione del candidato peronista Carlos Meném.
BRASILE:prime elezioni libere nell'85. Un'inflazione inarrestabile fece da sfondo a una serie di crsi
istituzionali, che vide il presidente Fernando Collor de Mello, eletto nell'89, messo sotto accusa per
corruzione e costretto a dimettersi nel '92.
PERÚ: prime elezioni libere fra l'84 e l'85. Un movimento di guerriglia di ispirazione maoista
( Sendero luminoso) si era reso protagonista di una serie di azioni sanguinose e spietate, fu lo stesso
presidente Alberto Fujimori a farsi promotore, nel '92, di un colpo di Stato incruento, sospendendo la
costituzione ed esautornado il Parlamento.
COLOMBIA: istituzioni liberal-democratiche come anche in Venezuela ed Ecuador; la minaccia era
rappresentata dai narcotrafficanti, che raffinavano ed esportavano sui mercati statunitensi e europei
la cocaina ma che dato che la coltivazione della coca rappresenta la principale risorsa di intere regioni
poverissime, potevano condizionare, con la corruzione e con la violenza, l'operato dei poteri locali e
degli stessi governi di molti paesi.
AMERICA CENTRALE: la fine delle ultime dittature, Somoza in Nicaragua nel '79, Duvalier a Haiti
nell'86, non si tradusse in una stabile affermazione della democrazia; fragili regimi liberaldemocratici,
come quelli di Honduras, Salvador, Guatemala e Santo Domingo, erano soggetti al rischio di scivolare
nella dittatura militare e nel contempo divevano subire gli attacchi della guerriglia di estrema sinistra.
NICARAGUA: negli anni '80 un moviemento rivoluzionario di sinistra, movimento sandinista, prese
il potere nell'79 rovesciando la dittatura di Anastasio Somoza. Gli Stati Uniti non intervennero fino a
che il nuovo regime accentuò i suoi tratti socialisti in politica interna e internazionale, e così
appoggiarono, sotto la presidenza Reagan, i movimenti armati antisandinisti, i contras. Nell'89 si
giunse ad una tregua, in seguito alla quale i contras sospero la guerriglia in cambio della promessa
del governo di convocare libere elezioni: elezioni tenutesi nel febbraio '90 e vinte dagli antisedentisti.
Ciò accentuava l'isolamento di Cuba, dove Fidel Castro era messo in difficoltà dalla caduta dell'Urss.
20CAPITOLO: L'ITALIA DAL MIRACOLO ECONOMICO ALLA CRISI DELLA PRIMA
REPUBBLICA.
Fra il '58 e il '63 ci fu il miracolo economico: anni in cui l'Italia ridusse significativamente il divario
che la separava dalla maggior parte dei paesi più industrializzati. Il Pil crebbe fra il '51 e il '58 un
tasso medio annuo del 5,3%, nei cinque anni successivi progredì a un ritmo del 6,5%. Lo sviluppo
interessò principalmente l'industria manufatturiera, che nel '61 triplicò la sua produzione; incremento
ci fu anche nei settori siderurgico, meccanico e chimico dove vi fu un rinnovamento degli impianti e
delle tecnologie. Tra i fattori che contribuirono al miracolo vi era lo scarto che si venne a creare fra
l'aumento della produttività e il basso livello dei salari, che consentì alti profitti e tassi di investimento
molto elevati. La compressione salariale degli anni '50 era il risultato di una larga disponibilità di
manodopera a basso costo, disponibilità dovuta dall'estesa disoccupazione. L'agricoltura, nel '51,
assorbiva quasi il 45% degli occupati, dopo dieci anni il 30%; l'industria saliva dal 29% al 37% e i
servizi dal 27% al 32%. Limitata la modernizzazione delle attività agricole, che mantennero in questi
anni un tasso di sviluppo modesto (3%) e una scarsa produttività. La crescita dei consumi fu resa
possibile dall'aumento generalizzato delle redistribuzioni che si verificò a partire dalla fine degli anni
'50; il calo della disoccupazione accrebbe la capacità contrattuale dei lavoratori che, con una serie di
lotte sindacali, riuscirono a ottenere miglioramenti salariali: fra il '58 e il '63 il costo del lavoro
nell'industria aumentò di circa il 60%, aumenti che misero in moto un processo inflazionistico. Così
nel '63-'64 il miracolo ebbe una battuta d'arresto: gli investimenti si ridussero drasticamente; lo
sviluppo subì una brusca frenata, accentuata dalla politica deflazionistica messa in atto dal governo e
dalle autorità monetarie. A partire dal '66 la crescita riprese a ritmi più lenti.
Negli anni '50 e '60 la società italiana subì una serie di profonde trasformazioni; col miracolo
economico entrò nella civiltà dei consumi; vi fu un massiccio esodo dal Sud verso il Nord e dalle
campagne verso le città. La crescita delle città si accompagnò fra il '51 e il '63 a un fortissimo
incremento dell'occupazione nei settori del commercio ( +100%) e dell'edilizia ( +84%). L'espansione
avvenne in forme caotiche, senza piani regolari e senza un adeguato intervento dei poteri pubblici nel
campo dell'edilizia popolare: ciò favorì la speculazione e il disordine urbano, con conseguenze
negative sia sulla struttura dei nuovi quartieri sia sui centri storici. Inizò un processo di integrazione
tra le popolazioni legato alle eperienze comuni lavorative e favorito dalle generazioni più giovani,
dalla scolarizzazione e dalla diffusione di alcuni consumi di massa. I primi televisori appervero alla
metà degli anni '50, con l'inizio di regolari trasmissioni da parte della Rai. Il vero boom si verificò
alla fine del decennio. Se la tv fu il maggiore strumento di unificazione linguistica e culturale,
l'automobile fu l'espressione di una supposta parificazione economica e sociale. L'espansione
dell'industria automobilistica fu incoraggiata anche dallo Stato, sia attraverso una politica fiscale che
favoriva i modelli di piccola cilindrata, sia attraverso la costruzione di una grande rete autostradale
che, progettata nel '55, sarebbe stata completata a metà degli anni '70.
All'inizio degli anni '60 si allargarono le basi del sistema politico con l'ingresso dei socialisti nell'area
di governo: primo importante mutamento negli equilibri politici italiano dopo la rottura della
coalizione tripartitica nel '47 e il trionfo della Dc nel '48. I due anni seguiti alle elezioni del '58 videro
frapporsi numerosi ostacoli sulla difficile apertura a sinistra, ancora osteggiata a una larga parte della
Dc, dal Vaticano e negli ambienti politici statunitensi. Nella primavera del '60, il democristiano
Fernando Tambroni, non trovando un accordo con socialdemocratici e repubblicani, formò un
governo monocolare con l'appoggio del Moviemnto sociale: il che suscitò le proteste della stessa
sinistra Dc, i cui rappresentanti si dimisero dal governo. Il governo autorizzò il Msi a tenere il suo
congresso nazionale a Genova, ciò suscitò un'autentica rivolta popolare: operai e militanti antifacisti
si scontrarono con la polizia e durò tre giorni. Alla fine il governo cedette e il congresso fu rinviato,
ma altre manifestazioni antigovernative furono represse aspramente, in qualche caso con le armi:
Tambroni fu sconfessato dalla stessa Dc e fu costretto a dimettersi. Un nuovo governo monocolare
presieduto da Fanfani, ottenne, nel '60, l'astensione dei socialisti in Parlamento, aprendo la stagione
politica del centro-sinistra: la nuova alleanza fu sancita dal congresso della Dc che si tenne nel
gennaio '62, grazie alla regia del segretario Aldo Moro, che riuscì a far accettare la svolta al suo parito.
Un nuovo governo Fanfani, formatosi nel '62 e composto da Dc, Pri e Psdi, si presentò con un
programma concordato col Psi, che si impegnava a dare il suo appoggio a singoli progetti legislativi.
Il programma prevedeva l'unificazione della scuola media, l'attuazione dell'ordinamenti regionale
previsto dalla Costituzione, l'imposizione fiscale nominativa sui titoli azionari e la nazionalizzazione
dell'industria elettrica: quest'ultime miravano a introdurre dei correttivi nella struttura del capitalismo
italiano e si inquadravano nel tentativo di dare avvio a una programmazione economica, disegno che
mirava a potenziare gli strumenti dell'intervento statale sull'economia al fine di ridurre gli squilibri
della società italiana. Nel novembre '62 la nazionalizzazione dell'industria elettrica fu portata a
compimento con la creazione dell Enel. Nel dicembre '62 fu approvata la legge di unificazione delle
medie, abolendo gli istituti di avvio professionale. Quanto alla politica di programmazione non si
tradusse mai in pratica: il contrasto riguardava non solo la quantità e la portata delle riforme, ma
anche le priorità da introdurre nella politica di progrmmazione, per i socialisti doveva privilegiare gli
investimenti e la spesa sociale, per i repubblicani, guidati dal ministro del Bilancio Ugo La Malfa,
comportava anche un controllo sulla dinamica salariale (politica dei redditi). I contrasti furono
esasperati dalle elezioni del '63: la perdita dei voti della Dc e del Psi, il successo dei liberali,
rafforzamento dei comunisti. Un governo organico di centro-sinistra si formò nel dicembre '63 sotto
la presidenza di Aldo Moro: il processo riformatore fu praticamente bloccato, anche a causa dell'inizio
della crisi economica, inoltre il peso delle forze ostili al centro-sinistra, che annovarva la destra
economica e le alte gerarchie militari e lo stesso presidente della Repubblica Antonio Segni. Gli
ostacoli più seri a una politica innovatrice venivano all'interno della coalizione di governo e in
particolare dalle esigenza della Dc di mantenere unito il composito fronte di forze economiche e
sociali, fronte in cui le istanze di rinnovamento erano minoritarie rispetto al peso dei gruppi moderati
che avevano accettato la politica di centro-sinistra. La Dc mantenne così la sua unità, il Psi pagò la
partecipazione al governo con una riacutizzazione dei dissensi interni e con una nuova scissione: nel
gennaio '64, la minoranza di sinistra, che non voleva rinunciare all'alleanza col Pci, diede vita al
Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Nella maggioranza del Psi vi erano due linee: una,
impersonata da Riccardo Lombardi, sosteneva che le riforme dovevano essere di struttura e fungere
per modificare il sistema economico-sociale; l'altra, presieduta da Pietro Nenni, era attenta alla
modifica degli equilibri politici e mirava all'unificazione col Psdi. La fusione avvenne nell'ottobre del
'66 ma si separarono nel '69.
La fine degli anni '60 fu caratterizzata da una radicalizzazione dello scontro sociale che ebbe come
protagonisti gli studenti e gli operai. La contestazione giovanile, mentre riprendeva temi e obiettivi
presenti negli altri movimenti studenteschi, assunse una forte ideologizzazione in senso marxista e
rivoluzionario; andava contro il sistema capitalistico e della cultura borghese. La critica alla società
borghese divenne rifiuto della prassi politica tradizionale, esaltazione della democrazia di base e del
momento assembleare, dell'egualitarismo e della spontaneità. A partire dall'autunno del '68 il
movimento individuò il suo interlocutore privilegiato nella classe operaia, il che derivava in parte
dall'influenza di gruppi intellettuali da tempo schierati su posizioni operaiste, ma più in generale era
dovuto alla presenza di una forte tradizione marxista della cultura della sinistra italiana. L'operaismo
fu anche il tratto distintivo di alcuni nuovi gruppi politici che naquero fra il '68 e il '70 e che, per
sottolineare il distacco dai partiti in Parlamento, furono chiamati extraparlamentari: Potere operaio,
Lotta continua, Avanguardia operaia. Caratteritiche ideologiche e organizzative diverse ebbe l'Unione
dei marxisti-leninisti, che si ispirava alla Cina di Mao. Legata al '68 fu la nascita del Manifesto,
gruppo costituitosi nel '69, attorno all'omonima rivista. Un'intensa stagione di lotte dei lavoratori
dell'industria, iniziata nel '69 culminò nell'autunno caldo: le lotte ebbero come principale protagonista
la figura dell'operaio-massa, ossia del lavoratore scarsamente qualificato spesso immigrato. Questi
conflitti si caratterizzarono per l'adozione dell'assemblea come momento decisionale, per l'elevata
partecipazione e per la radicalità delle richieste, incentrate sull'egualitarismo e sulla messa in
discussione dell'organizzazione del lavoro in fabbrica. Cgil, Cisl e Uil riuscirono a prendere la
direzione delle lotte e a pilotarle verso la conclusione di una serie di contratti nazionali che
assicurarono ai lavoratori dell'industria vantaggi salariali. L'impegno comune nelle lotte servì ad
avviare un processo di parziale unificazione (sfociato nel '72 dalla costituzione di una Federazione
unitaria, interrotto alla fine del decennio) e rinnovarono le loro organizzazione con la creazione di
consigli di fabbrica. Comincò allora una fase in cui i sindacati assunsero un peso crescente nella vita
del paese, trattando direttamente col governo e invadendo non di rado il campo d'azione dei partiti.
Nella primavera del '70 fu approvato lo Statuto dei Lavoratori: una serie di norme che garantivano le
libertà sindacali e i diritti dei lavoratori all'interno delle aziende. L'unico intervento di rilievo nel
campo dell'istruzione fu la liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie. Fra il '68 e il '70
furono approvati i provvedimenti relativi all'istituzione delle regioni, previsto dalla Costituzione, e
nel '70 si tennero le prime elezioni regionale. Nel divembre dello stesso anno fu approvata la legge
Fortuna-Balsini, che introduceva il divorzio.
Il 12 dicembre 1969 esplose una bomba a Milano, in Piazza Fontana, nella sede della Banca Nazionale
dell'agricoltura, provocò 17 morti e 100 feriti. L'incapacità degli apparati statali di risolvere il caso fu
malgiudicata dall'opinione pubblica e dalla stampa di sinistra, che individuò la matrice nell'estrema
destra e denunciò le responsabilità dei servizi di sicurezza nel deviare le indagini verso una pista
anarchica. Si parlò di strategia della tensione messa in atto dalle forze dell'estrema destra per incrinare
le basi dello Stato democratico. Nell'estate del '70 vennero confermati i pericoli corsi dalle istituzioni,
la rivolta di Reggio Calabria vide un'intera città esplodere in vilente dimostrazioni culminate in una
rivolta guidata da esponenti del Msi. Mentre ampi settori della Dc e del Psdi tendevano a farsi
interpreti di un'opinione pubblica moderata (maggioranza silenziosa) e a spostare l'asse della
maggioranza politica verso destra, il Psi mirava a equilibri più avanzati,cioè al progressivo
coinvolgimento del Pci nel governo. Il ricorso a elezioni anticipate nel '72 si rilevò inutile: né il
governo centrista tripartitico guidato da Andreotti ('72-'73) né i successivi governi di centro-sinistra
presieduti da Mariano Rumor ('73-'74)furono in grado di prendere decisioni politiche di ampio respiro
e di affrontare con efficacia una situazione economica che stava ricadendo. Le difficoltà economiche
furono aggravate dalla guerra del Kippur del '73 e ad esse si aggiungeva un crescente disagio morale,
provocato da una serie di scandali che coinvolsero numerosi esponenti della maggioranza, accusati
di aver favorito gruppi di pressione italiani e stranieri in cambio di tangenti destinate a finanziare i
rispettivi partiti. La rapdia adozione, nel '74, di una legge sul finanziamento pubblico dei partiti non
servì a sanare la frattura tra la società e la politica. Nel '74 la legge sul divorzio fu sottoposta a
referendum abrogativo per iniziativa di gruppi cattolici appoggiati dalla Dc e dal Msi, osteggiato da
una grande mobilitazione appoggiata dalle forze laiche, soprattuto dal Partito radicale di Marco
Pannella: il referendum vide il successo dei divorzisti (quasi il 60%) il che mostrò il cambiamento
della società e il ridimensionamento del peso della Chiesa. Nel '75 furono approvate: la riforma del
diritto di famiglia, che sanciva la parità giuridica fra i coniugi; l'abbassamento della maggiore età dai
21 ai 18 anni. Nel giugno '78 il Parlamento approvò la legge che disciplinava l'interruzione di
gravidanza. Il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, sostenne la necessità di giungere a un
compromesso storico, ossia a un accordo di lungo periodo fra le forze comuniste, socialiste e
cattoliche, come unica via per evitare rischi di soluzioni autoritarie e per allargare le basi dell'azione
riformatrice. In seguito il Pci stabilì contatti con i comunisti francesi e spagnoli per avviare una
politica comune in Europa (eurocomunismo). La persona di Berlinguer e la persistente diversità che
deriva dalle origini rivoluzionarie fecero del Pci il punto di convergenza delle eterogenee e numerose
istanze di trasformazioni che si agitavano nella società. Nelle elezioni regionali del '75 il Pci passò
dal 27,9% al 33,4% e la Dc scese dal 37,9% al 35,3%, si giunse così al disimpegno socialista dal
governo, che segnò in pratica la fine dell'esperienza del centro-sinistra, non trovando un accordo si
ricorse nuovamente ad elezioni anticipate, che si tennero nel '76. La Dc recuperò i voti perduti nelle
regionali; il Pci avanzò ulteriormente, toccando il suo massimo storico (34,4%); il Psi, col 9,6%,
registrò una sconfitta che portò all'ascesa alla segreteria di Bettino Craxi.
L'esito delle elezioni del '76 lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo: l'unica
soluzione praticabile stava nel coinvolgimento del Pci nella maggioranza. Si giunse alla cotituzione
di un governo monocolare democratico guidato da Giulio Andreotti, che ottenne l'astensione in
Parlamento di tutti gli altri partiti tranne Msi e radicali. Nel frattempo si dilagò il terrorismo
ideologico, nero e rosso, con diverso modo anche di operare: il tratto distintivo del terrorismo di
destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, col probabile scopo di diffondere il
panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria: vi furono le bombe in Piazza della Loggia a
Firenze, nel maggio '74, e quello sul treno Italicus nell'agosto dello stesso anno, l'attentato alla
Stazione di Bologna nell'agosto '80. Al potere politico spetta la responsabilità di non aver saputo
indirizzare l'azione dei servizi segreti. L'immagine di uno Stato debole e la presenza di un terrorismo
di destra e la psicosi di un colpo di Stato, contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra,
composto per lo più da giovani provenienti dalle milizie del movimento studentesco che volevano
mobilitare la classe operaia per il rovesciamento del sistema capitalistico e dello Stato borghese. Fra
il '72 e il '75 seguirono a isolati attentati sequestri di dirigenti industriali e di magistrati. Nel '76, con
l'uccisione del procuratore generale di Genova Coco e dei due uomini della sua scorta, si giunse
all'assassinio programmato: gli autori appartenevano alle Brigate Rosse, attivo fino all'88, ad esso si
affiancarono, fra il '75 e il '76, i Nuclei armati proletari e Prima linea. Oltre a occuparsi di essi, il
governo dovette fronteggiare una nuova crisi economica: nel '75 il Pil si ridusse al 3,6%, l'anno
successivo ci fu una leggera ripresa, ma il tasso di inflazione rimase fra il 17% e il 19%. L'inflazione
era dovuta in parte all'aumento del prezzo del petrolio, in parte alla dilatazione dei consumi e alla
crescita della spesa pubblica e i suoi effetti furono amplificati dal nuovo meccanismo di scala mobile
introdotto dal '75 da un accordo fra sindacati e Confindustria. Il problema sociale più preoccupante
era rappresentato dalla disoccupazione, soprattutto giovanile e questo disagio si espresse, nel '77, in
occupazioni delle università e in scontri di piazza, dove per la prima volta i manifestanti usarono le
armi da fuoco. Protagonisti degli scontri di piazza furono i gruppi di Autonomia operaia, coagulo
provvisorio di una serie di gruppi e movimenti, accomunati solo dallo spontaneismo e da una
radicalizzazione esasperata. Bersaglio principale della contestazione fu la sinistra tradizionale,
soprattutto il Pci e i sindacati: a febbraio, all'università di Roma avvenne l'aggressione di un gruppo
di autonomi a un comizio del segretario della Cgil Lama. Nel '77 vi furono 287 attentati rivendicati
da 77 sigle diverse; nel '79 salirono a 805 e le sigle a 217. Il 16 marzo, giorno della presentazione in
Parlamento di un nuovo governo Andreotti, un commando di brigatisi rapì Aldo Moro, presidente
della Dc e artefice della nuova politica di solidarietà nazionale, uccidendo i cinque uomini della sua
scorta. A quella giornata seguirono 55 giorni di attesa e di polemiche di fronte alla decisione del
governo di non trattare con le Brigate, decisione appoggiata dal Pci e contrastata dal Psi e da altri
gruppi minori della sinistra. Il 9 maggio Moro fu ucciso e il cadavere abbandonato in Via Caetani, a
Roma. Nel non facile clima creatosi, il buovo governo di solidarietà nazionale cercò di avviare il
risanamento dell'economia, aiutato dai comunisti che si fecero sostenitori di una linea di austrità. Nel
'78 l'inflazione scese al 13,9%; la situazione finanziaria diede segni di miglioramento, grazie
all'adozione di nuove imposte indirette e grazie anche agli effetti della riforma fiscale varata nel '74,
che aveva reso più razionale ed efficiente il sistema della tassazione diretta. Nel '78 fu varata la legge
sull'equo canone, per regolare il livello degli affitti. Nello stesso anno fu varata la riforma sanitaria,
che sanciva la gratuità delle cure e riordinava la medicina pubblica, affidandone la gestione ad
appositi orgnismi ( Usl) dipendenti dalle regioni. L'ingresso dei comunisti nella maggioranza non
servì a mettere in moto di un processo di trasformazione sociale e a risanare la vita pubblica. Gli
scandali giunsero a toccare la presidenza della Repubblica, costringendo alle dimissioni, nel giugno
'78, il democristiano Giovanni Leone, accusato di connivenza con gruppi affaristici; al suo posto fu
eletto Sandro Pertini. Il nuovo corso impresso da Craxi alla politica socialista, recupero della
tradizione riformistta in aperta polemica col Pci e insofferente dei vincoli imposti dalla grande
coalizione, rendeva sempre più complicata la collaborazione della maggioranza e ricreava le
condizioni per una nuova allenaza fra il Psi e i partiti di centro. Nel gennaio '79, il Pci, in polemica
con gli altri partiti anche su problemi di politica estera ed economica abbandonò la maggioranza. La
crisi che seguì portò a nuove elezioni anticipate.
I risultati del giugno '79, e quelli delle successive elezioni anticipate del giugno '83, segnarono
notevoli mutamenti: il Pci, nel '79, scese al 30%: la Dc, stabile nel '79, scese al 32,9% nelle elezioni
dell'83; il Psi ebbe il 9,8% nel '79 e l' 11,4% nell'83. Sul piano degli equilibri di governo le elezioni
verificarono solo i reciproci rapporti di forza. Si tornò alla coalizione di centro-sinistra (Dc, Psi, Pri,
Psdi), allargata nell'81 anche al Partito liberale. La guida del governo, per la prima volta dal '45, fu
lasciata dalla Dc al segretario repubblucano Giovanni Spadolini e, dopo le elezioni dell'83, a Bettino
Craxi: presidenza caratterizzata dal tentativo di potenziare il ruolo dell'esecutivo e di affermare una
più incisiva presenza dell'Italia nella politica internazionale. Nel febbraio '84 venne firmato un nuovo
concordato con la Chiesa, che ritoccava gli accordi del '29. La Dc iniziò un tentativo di rinnovamento
interno con il segretario Ciriaco De Mita, il quale cercò di restituire al partiro credibilità ed efficienza,
cercando di cancellare la logorata immagine della Dc. Anche per il Pci i primi anni '80 furono segnati
dall'emergere di gravi problemi, legati sia al ridimensionamento elettorale sia alla difficoltà di
spingere il processo di revisione ideologica, di elaborare una politica originale e aggiornata:
l'immagine del parito “dalle mani pulite” e il carisma personale di Berlinguer conservarono
comunque una larga base elettorale. L'emozione per l'improvvisa morte del segretario comunista, nel
giugno '84, fu forse fra i fattori che portarono il Pci, nelle elezioni europee tenutesi pochi giorni dopo,
a raggiungere per la prima volta, col 33,3% l'obiettivo del sorpasso della Dc; nelle elezioni
amministrative dell'85 i comunisti tornarono sotto il 30% e l'estensione dell'accordo di pentapartito
alle amministrazioni locali li allontanò dal governo di molte regioni e città conquistate dal '75.
Nell'autunno '80, i sindacati subirono la loro prima grave sconfitta nella vertenza apertasi con la Fiat
sul problema della riduzione della manodopera: l'azienda riuscì a imporre le proprie scelte di
razionalizzazione produttiva con l'improvviso ausilio di una ampia mobilitazione di piazza dei quadri
intermedi (marcia dei quarantamila); da qui ebbe inizio una progressiva riduzione del ruolo del
sindacato, ma rimasero gli interlocutori privilegiati del governo in materia di politica economica: il
principale contrasto era rappresentato dal costo del lavoro, in particolare dal meccanismo di scala
mobile messo in discussione sia dagli imprenditori che dal governo, impegnato nella lotta
all'inflazione. Lo scontro si radicalizzò all'inizio dell'84, quando il governo Craxi, con l'accordo dei
sindacati non comunisti, varò un decreto legge che tagliava alcuni punti della scala mobile e che fu
approvato in giugno dopo una lunga battaglia parlamentare. I comunisti promossero un referendum
abrogativo, giugno '85, ma ne uscirono sconfitti; in seguito la scala mobile fu parzialmente modificata
con l'assenso delle confederazioni sindacali e della Confindustria. Anche in Italia, come in tutto il
mondo occidentale, gli anni '80 videro svilupparsi una polemica che, partendo dalla denuncia degli
eccessi di assistenzialismo, giungeva a mettere in discussione alcune strutture portanti del Welfare
State. Queste difficoltà vennero in parte compensate da una certa ripresa dell'economia che saliva
grazie all'aumento delle esportazioni e al profondo rinnovamento tecnologico di alcuni settori
industriali. Gran parte delle trasformazioni operate nell'industria pubblica e privata finirono col
gravare sulla collettività, sia in termini di disoccupazione, salita nell'85 a circa l'11%, sia in termini
di spesa dello Stato per la cassa integrazione guadagni. Il sistema economico italiano manifestava nel
decennio '80-'90 una vitalità notevole, nonostante non apparisse sull'andamento della produzione e
del reddito: il fenomeno si spiegava con la crescita dell'economia sommersa, ossia dalle piccole
imprese disseminate nella provincia e caratterizzata da alta produttività, da bassi costi e da una
notevole capacità di adattamento alle esigenze del mercato. Un'espansione articolata caratterizzò
anche il settore terziario, al primo posto anche per il nuomero degli addetti (54,2%). Il fenomeno della
corruzione politica rivelò un nuovo volto all'inizio degli anni '80 con lo scandalo della Loggia P2:
specie di branca segreta della massoneria, ben inserita nel mondo politico, nella burocrazia e nei
vertici militari e sospettata di perseguire, oltre a scopi di lucro e di carriera per i suoi associati, anche
il fine di una ristrutturazione autoritaria dello Stato; la loggia venne sciolta nel decreto dell'81 dal
governo Spadolini. Nel frattempo dilagò il fenomeno della mafia e della camorra che spesso si
tradusse in aperta sfida ai poteri dello Stato: nel settembre '82 fu assassinato il generale Carlo Alberto
Dalla Chiesa, inviato come prefetto a Palermo per coordinare la lotta alla mafia. In seguito vi fu
l'attentato del dicembre '84 su un treno nella galleria direttissima fra Firenze e Bologna. Se la risposta
dello Stato alla criminalità mafiosa non conseguì risultati decisivi, esiti migliori ebbe la lotta al terrori
di sinistra: nell'80 alcuni terroristi arrestati denunciarono i compagni in libertà e il numero di pentiti
andò sempre aumentando, grazie anche alla legge approvata nell'80 che concedeva forti sconti di pena
come compenso per il contributo allo svolgimento delle indagini.
L'esaurirsi delle ideologie e dei sistemi di valori fondati sull'impegno politico, se da un lato toglieva
spazio alle ipotesi eversive, dall'altro contribuiva a distaccare ulteriormente la società civile e la classe
politica, a rafforzare la diffidenza nei confronti dei partiti e a esaltare la polemica contro le disfunzioni
del sistema: la lentezza delle procedure parlamentari, l'instabilità di una maggioranza troppo
composita, la mancanza di alternative alle coalizione di governo. Nel luglio '85 venne eletto a
presidenza della Repubblica il democristiano Francesco Cossiga. La rivalità di fondo era tra i due
maggiori partner della coalizione, socialisti e democristiani, decisi a rivendicare, in quanto partito di
maggioranza relativa, la guida del governo. Nella primavera dell'87 si giunse alla crisi del governo
Craxi e al quinto scioglimenti anticipato delle Camere: le elezioni dell'87 segnarono una affermazione
del Psi ( dall'11,4 al 14,3%) e un nuovo calo dei comunisti (dal 29.9% al 26,6%) e la Dc salì (dal 32,9
al 34,3%); spuntarono anche nuovi gruppi, i Verdi e le Lege regionali. Queste ultime, impostando la
loro propaganda su una polemica contro il centralismo statale, la fiscalità e la corruzione politica,
avrebbero ottenuto notevoli successi nelle consultazioni amministrative dell'anno successivo. Dopo
le elezioni, la maggioranza di pentapartito si ricostituì faticosamente grazie a un accordo sul
programma, che consentì la formazione di due succesivi governi a guida democristiana: il primo
presieduto da Giovanni Goria (luglio '87-marzo '88), il secondo guidato da Ciriaco De Mita. Entrambi
non raggiunsero i risultati sperati né sul piano del risanamento finanziario, né su quello delle
annunciate riforme istituzionali (tranne la riforma dei regolamenti parlamentari dell'88 che limitava
la pratica del voto segreto, al fine di dare maggiore stabilità alla maggioranza). Il governo De Mita si
trovò in difficoltà sia per le conflittualità fra i partner della coalizione governativa, sia per i contrasti
interni alla stessa Dc, contrasti che portarono, nel congresso di Roma di febbraio '89, alla fine della
segretaria De Mita, sostituito da Arnaldo Forlani. Nel maggio '89 fu anche costretto a dimettersi dalla
guida del governo: la crisi si risolse in luglio con la ricostituzione dell'alleanza a cinque e la
formazione di un nuovo governo a guida democristiana, affidata ad Andreotti. Nemmeno egli riuscì
a riportare la compattezza nella maggioranza, che anzi doveva affrontare una nuova crisi nella
primavera del '91 perdendo il Partito repubblicano.
21CAPITOLO: LA SOCIETà POST-INDUSTRIALE.
La crisi petrolifera del '73 suscitò nel mondo industrializzato una serie di interrogativi sui limiti dello
sviluppo economico e sulla distruzione di risorse naturali da esso provocata. Grande diffusione ebbero
di conseguenza le tematiche ecologiche e la ricerca di fonti alternative. Il successivo calo del prezzo
del petrolio ha però indotto a ridimensionare la portata della crisi.
Gli ultimi decenni del secolo XX hanno segnato nuove trasformazioni nell'economia, che hanno avuto
il loro centro propulsore nelle crescenti applicazioni dell'elettronica e delle scienze ad essa collegata
(informatica, cibernetica, robotica, telematica). Queste trasformazioni hanno prodotto effetti rilevanti
anche sui consumi e sulla vita quotidiana delle società industrializzate.
Gli sviluppi dell'elettronica e dell'informatica hanno accellerato la transizione verso una società postindustriale, caratterizzata dalla prevalenza del terziario, dalla fine della centralità della fabbrica, dal
ruolo crescente dell'informazione. Si è accresciuta nel contempo, grazie alla velocità delle
comunicazioni, la tendenza verso l'integrazione economica e finanziaria a livello planetario, il che ha
fatto parlare di un processo di globalizzazione.
Nonostante gli importanti mutamenti intervenuti in molte aree del Terzo mondo ( fra i produttori di
petrolio, nei paesi di nuova industrializzazione del Sud-Est asiatico) il divario fra i paesi ricchi e paesi
poveri si è complessivamente approfondito. In molti paesi africani si sono registrate vere e proprie
tragedie della fame. Il problema del debito è divenuto sempre più pressante. Alla fine degli anni '90
è nato un movimento internazionale di contestazione di molti aspetti della globalizzazione.
Alla fine degli anni '90 la popolazione mondiale ha continuato ad aumentare, ma si è registrato un
certo rallentamento dei ritmi di crescita nelle aree più povere. Nei paesi dell'Europa occidentale la
crescita zero della popolazione ha aumentato la quota degli anziani creando difficoltà ai sistemi
pensionistici.
I crescenti squilibri economici fra le diverse parti del pianeta e la facilità delle comunicazioni hanno
fatto aumentare i flussi migratori verso le aree ricche del pianeta. Ciò ha determinato da un lato la
spinta verso una società multietnica, caratterizzata dalla compresenza di diverse culture, dall'altro la
tendenza alla difesa delle identità nazionali e delle tradizioni locali.
Nel mondo contemporaneo è ancora forte la presenza delle confessioni religiose, in primo luogo del
cristianesimo e dell'Islam. La Chiesa cattolica ha conosciuto un rilancio mondiale sotto il pontificato
di Giovanni Paolo II. Nel mondo musulmano (ma anche in altre relogioni) hanno assunto rilievo le
correnti integraliste, o fondamentaliste.
Ai progressi della medicina nella cura delle più diffuse malattie ha fatto riscontro negli ultimi decenni
la comparsa di nuovi virus, fra cui quello che provoca la Sindrome da immunodeficienza acquisita
(Aids). Gli sviluppi della medicina e della genetica hanno aperto nuovi problemi nei rapporti fra
scienza ed etica. I limiti degli interventi sulla natura e sulla vita costituiscono il campo di riflessione
della bioetica.
22CAPITOLO: IL MONDO CONTEMPORANEO
Le spinte centrifughe messe in atto dal processo di liberalizzazione avviato nei paesi comunisti
finirono col provocare il crollo della stessa Urss. Dal vuoto politico e ideologico creato dalla
scomparsa dell'Urss e del sistema ad esso legato emersero tendenze politiche e credenze religiose
rimaste a lungo soffocate e soprattutto nuovi nazionalismi pronti a scontrarsi fra loro e a far valere le
proprie ragioni con la forza. La crisi dell'equilibrio bipolare lasciò spazio allo scoppio di conflitti
locali e la fine dello scontro tra sistema comunista e “mondo libero” fece emrgere nuovi scontri come
quello fra il Nord ricco e il Sud povero o quella fra Occidente e mondo islamico.
URSS: la crisi del regime si acutizzò fra il '90 e il '91, in concomitanza dell'aggravarsi della situazione
economica. Gorbacev cercò di reagire mediando fra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell'ala
dura del partito e delle forze armate, e alternando le concessioni agli interventi repressivi. L'equilibrio
si ruppe nel '91, quando un gruppo di esponenti del Prtito comunista, del governo e delle forze armate
tentò un colpo di Stato, esautorando lo stesso presidente, sequestrato nella sua casa in Crimea. Essi
speravano di sfruttare il malcontento generale e anche in un avallo di Gorbacev: il golpe fallì
clamorosamente di fronte a un'inattesa protesta popolare e al mancato sostegno dell'esercito. A Mosca,
fra il 19 e il 20 agosto, una grande folla si raccolse a presidio delle libere istituzioni, ponendo i golpisti
di fronte alla scelta di una sanguinosa repressione e un'ingloriosa ritirata. Decisivo fu il ruolo del
Presidente della Repubblica Elstin che, dopo aver capeggiato la resistenza popolare e aver imposto la
liberazione di Gorbacev, si propose come il vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo
stesso presidente sovietico. Il tentato golpe accellerò ulteriormente la crisi dell'autorità centrale: la
riforma economica non riuscì a decollare, mentre il sistema degli scambi all'interno dell'Unione
entrava in crisi aggravando i problemi di distruzione delle merci e soprattutto delle derrate alimentari.
Dopo le tre repubbliche baltiche, la cui indipendenza era ormai fuori discussione, anche la Georgia,
l'Armenia e la Moldavia (strappata alla Romania dopo il secondo conflitto) proclamarono
unilateralmente la loro secessione dall'Unione Sovietica; lo stesso fece l'Ucraina, legata alla Russia
sia da vincoli socio-culturali, sia da rapposti di interdipendenza economica. Gorbacev tentò di
bloccare questo processo proponendo un nuovo trattato di unione tale da assicurare l'esistenza
dell'Urss come Stato, come entità militare e come soggetto di politica internazionale. La sua iniziativa
fu scavalcata da quella dei presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, che si accordarono sull'ipotesi
di una comunità di Stati sovrani, e su questa ipotesi ottennero il consenso delle altre repubbliche ex
sovietiche, esclusi gli Stati baltici. Il 21 dicembre 1991, ad Alma Ata, capitale del Kazakistan, i
rappresentanti di undici repubbliche diedero vita alla nuova Comunità degli Stati indipendenti (Csi)
e sancirono la morte dell'Unione Sovietica. Il 25 dicembre, Gorbacev trasse le consegenze da quanto
era accaduto e annunciò in un discorso televisivo le sue dimissioni. Il giorno stesso, la bandiera
sovietica fu ammainata dal Cremlino e sostituita da quella russa.
La dissoluzione dell'Urss suscitò interrogativi e motivi di inquietudini: le preoccupazioni maggiori
riguardavano il destino dell'immenso arsenale nucleare sovietico, dislocato anche fuori dai confini
della Repubblica russa. La Russia di Elstin cercò di accreditarsi come l'erede del ruolo di grande
potenza già svolto dall'Urss, in questo fu appoggiata dagli Usa e dalla comunità internazionale, che
le riconobbero il diritto di occupare il seggio dell'Unione Sovietica in seno al Consiglio di sicurezza
dell'Onu. Nel gennaio 1993 Bush firmava a Mosca con Elstin un nuovo importante trattato per la
riduzione degli armamenti nucleari strategici. Ma la posizione egemonica della Russia era contestata
dalle altre repubbliche ex sovietiche, in particolare dall'Ucraina, riluttante a cedere la sua quota di
armi atomiche. Riguardo la Comunità degli Stati indipendenti essa non riuscì a darsi una
organizzazione efficiente né a bloccare i ricorrenti contrasti fra le diverse repubbliche o i violenti
conflitti etnici e politici all'interno dei singoli Stati: dalla Georgia, dilaniata dalla guerra civile, alla
repubblica del Tagikistan, contestata fra ex comunisti e movimenti islamici, dalla Moldavia, teatro di
scontro fra nazionalisti e minoranza russofana alla stessa Repubblica Russa, ordinata in forma di
federalismo e comprendente nei suoi confino etnie e culture diverse.
RUSSIA: dovette affrontare una drammatica crisi economica, sociale e politica che la portò sull'orlo
della guerra civile. All'origine della crisi, il tentativo di Elstin di accellerare il processo di transizione
verso il capitalismo e l'economia di mercato. In assenza di un vero ceto imprenditoriale, il processo
di privatizzazione non riusciva a decollare, mentre l'inflazione praticamente cancellava il potere
d'acquisto del rublo. Il risultato fu l'emergere di tendenze ostili a Elstin: il composito fronte degli
avversari delle riforme trovò un luogo di aggregazione nel Congresso del popolo, il Parlamento russo
eletto, secondo la vecchia costituzione, nel marzo del '90. il conflitto esplose nel 093, quando Elstin,
non riuscendo a superare l'ostrazionismo del Parlmaneto, lo sciolse, indicendo nuove elezioni per
dicembre. Il Parlamento rispose destituendo Elstin. Il 3 ottobre i sostenitori del Parlamento assalirono
il Municipio di Mosca e la sede televisiva. Dopo poco, Elstin riassunse il controllo della situazione,
decretando lo stato di emergenza: il giorno dopo, reparti speciali delle forze armate espugnavano il
Parlamento con spargimento di sangue e arrestavano i capi della rivolta. Elstin tentò di rafforzare il
suo potere varando, in dicembre, una nuova costituzione dai tratti presidenziali. L'esito delle elezioni
politiche non fu favorevole alle forze riformatrici e segnò una preoccupante crescita dei gruppi
ultranazionalisti e una buona affermazione degli ex comunisti. Probabilmente allo scopo di non
lasciare spazio ai nazionalisti, oltre che per le pressioni dei militari e per il timore di uno sfaldamento
dell'intera Federazione russa, Elstin decise, nel dicembre '94, di intervenire militarmente in Cecenia,
repubblica autonoma del Caucaso. Mal preparata e duramente contrastata, l'operazione si trasformò
in un lungo conflitto, costellato di cruente azioni di guerriglia e di crudeli rappresaglie sulla
popolazione civile. L'esito dell'intervento non solo rivelava la perdita di efficienza della macchina
militare russa, ma era il risultato di una profonda crisi dell'intero apparato statale e di una crescente
disgregazione della società civile. Questa crisi apriva nuovi spazi alle forze di opposizione: in primo
luogo ai neocuministi, che divennero partito di maggioranza relativa nelle elezioni del '95. Nelle
elezioni presidenziali a suffragio popolare che si tennero nel '96 Elstin riuscì a prevalere sul leader
neocomunista Gennadij Zjuganov. In agosto fu concluso con gli indipendentisti ceceni un difficile
accordo, basato sulla concessione di ampie autonomie e sul rinvio della decisione circa l'eventuale
indipendenza. I problemi più gravi per i russi arrivavano dall'economia che registrava un continuo
calo produttivo. Il passaggio ai privati di grandi concentrazioni industriali e finanziarie e la nascita di
un capitalismo dai tratti fortemente speculativi finirono coll'avvantaggiare solo gruppi ristretti, spesso
legati alla malavita, mentre le condizioni della maggioranza della popolazione peggiorava
sensibilmente, anche perchè lo Stato non disponeva di un'eficiente apparato fiscale e non era in grado
di pagare puntualmente gli stipendi ai dipendenti pubblici. La crisi giunse il culmine nell'estate del
'98, travolgendo il rublo che si deprezzò del 60% rispetto alle altre valute e dando un duro colpo alla
popolarità di Elstin. Nell'autunno '99 riprendeva la guerra in Cecenia, invasa dalle truppe russe perchè
accusata di dare ospitalità a gruppi terroristici islamici. Fu per contrastare la guerriglia dei ceceni e le
azioni terroristiche da essi messe in atto cnhe nella capitale russa, che Elstin decise, nell'agosto '99,
un cambio di governo, designando come primo ministro Vladmir Putin. Elstin si dimse alla fine
dell'anno e, nelle elezioni presidenziali del 2000, Putin si impose con largo margine. La sua presidenza
si è caratterizzata per il tentativo di restituire efficienza alla macchina dello Stati e di ridare slancio
all'economia che manifestò nel 2000 qualche segno di stabilizzazione finanziaria e di ripresa
produttiva. In politica estera si assisteva a una certa ripresa di iniziativa della diplomazia russa, nel
tentativo di riassumere da un lato una posizione egemonica nei confronti delle repubbliche ex
sovietiche, di riacquistare dall'altro una posizione di forza nel confronto con i paesi occidentali, di cui
pure si continuava a cercare la collaborazione e l'assistenza economica. Putin cercò di accreditarsi
come partner affidabile sia sul piano strategico, nonostante i contrasti emersi in tema di armamenti
nucleari, sia su quello degli scambi commerciali. Putin favor' anche un significativo avvicinamento
tra la Russia e la Nato: nel maggio 2002, in un vertice a Pratica di Mare, fu firmato un accordo per la
costituzione di un nuovo organismo di consultazione e collaborazione per fronteggiare i pericoli
comuni del terrorismo internazionale e della proliferazione delle armi di ditruzione di massa.
Rimaneva irrisolta la questione cecena, dove il ristabilimento formale dell'autorità russa suscitava
gravi reazioni da parte del movimento indipendentista legato al fondamentalismo islamico.
Nell'ottobre 2002 i terroristi si impadronivano di un teatro di Mosca, per poi essere sopraffatti
dall'intervento delle forze speciali, che provocava quasi 100 morti fra gli ostaggi; nel 2004 fu
sequestrata una scuola elementare a Beslan, nella piccola Repubblica caucasica dell'Ossezia, dove lo
scontro fra terroristi e militari russi causò 400 morti, soprattutto bambini.
Ovunque il passaggio all'economia di mercato si rilevò un processo lugno e costellato di disagi
immediati e quasi ovunque, nei primi anni '90, le delusioni suscitate da queste difficoltà portarono al
rilancio e al ristabilimento al potere i partiti ex comunisti, profondamente rinnovati nelle sigle e nei
programmi.
POLONIA: le elezioni del '91 registrarono una frammentazione politica, tale da rendere problematica
la formazione di una maggioranza; le successive consultazioni del '93 portarono al potere una
coalizione dominata dagli ex comunisti, vincitori anche nelle presidenziali del novembre '95 che
videro la sconfitta di Lech Walesa, leader storico di Solidarnosc, da parte di Aleksander Kwasniewski.
CECOSLOVACCHIA: si svilupparono tendenze separatiste che, mescolandosi con i contrasti politici
ed economici, portarono, nel '92, a una sorta di separazione consensuale e alla creazione di due
repubbliche: una ceca, comprendente Boemia e Moravia e governata dai partiti di ispirazione liberale,
e una slovacca, egemonizzata dai gruppi ex comunisti.
JUGOSLAVIA: la crisi del regime a partito unico fece saltare i precari equilibri fra le nazionalità e
portò allo scontro armato e alla disgregazione dello Stato Federale. La crisi precipitò in seguito al
contrasto fra le aspirazioni egemoniche della Serbia di Milosevic e la volontà autonomistica delle
repubbliche di Slovenia e Croazia. Fra il '90 e il '91 prima la Slovenia e poi la Croazia
proclamarono la propria indipendenza, facendola sazionare da plebisciti. Lo stesso fece la
Repubblica di Macedonia, da sempre oggetto di contesa fra serbi, bulgari e greci. Gli organi federali
e i vertici militari, controllati dalla componente serba, accettarono il fatto compiuto
dell'indipendenza slovena e macedone, ma reagirono duramente all'analoga iniziativa della
repubblica croata, mobilitando forze armate e milizie irregolari. Ne nacque una vera guerra, che
aveva come tema principale i territori contesi fra le due repubbliche e che non risparmiava le
popolzioni civili. A partire dalla primavera del '92, il centro del conflitto si spostò in Bosnia: ex
repubblica jugoslava, in marzo aveva proclamato la sua indipendenza. Abitata da musulmani, croati
cattolici e serbi ortodossi, la Bosnia divenne teatro di una guerra crudelissima, provocata soprattutto
dalla reazione della componente serba, appoggiata dal regime di Milosevic e dalle sue forze armate.
Una guerra combattuta all'insegna della pulizia etnica, dunque costellata di assedi, massacri,
deportazioni. Né gli sforzi di mediazione della Comunità europea, né le iniziative dell'Onu, che
impose l'embargo alla Serbia e inviò in Bosnia contingenti di pace, ottennero alcun esito. Le stesse
iniziative umanitarie volte a soccorrere la popolazione furono ostacolate dalla ferocia dei
combattimenti. Per giungere a una tregua d'armi, fu necessario l'impegno diretto, diplomatico e
militare, della maggiore potenza mondiale, gli Usa, che agirono sotto la copertura della'Alleanza
atlantica. Fra maggio e settembre 1995, la Nato attuò una serie di raid aerei contro le posizioni
serbo-bosniaci e in agosto i successi militari croati imposero una soluzione negoziata. In ottobre fu
imposto il cessate il fuoco e furono avviate trattative dirette fra i governanti della Serbia, della
Croazia e della Bosnia musulmana. Il 21 novembre un accordo di pace fu siglato a Dayton, negli
Usa. L’accordo prevedeva il mantenimento di uno stato bosniaco, diviso in una repubblica serba e in
una federazione croata-musulmana.
FEDERAZIONE JUGOSLAVA: comprendente Serbia e Montenegro, fra gli anni '96 e '97 conobbe
una lunga stagione di agitazioni promosse dalle forze di opposizione contro lo strapotere del
presidente Milosevic e degli ex comunisti del Partito socialista serbo. In Croazia, governata dalle
froze di matrice nazionalista e anticomunista, non mancavano le contestazioni all'autoritarismo del
presidente Franjo Tudjman. Nel '98 si ripropose il problema del Kosovo. In risposta alla protesta
autonomista della popolazione di origine albanese e alla nascita di un movimento di guerriglia
indipendentistica (l'Ulk), i serbi scatenarono una durissima repressione che colpì, come d'abitudine,
soprattuto i civili. Di nuovo furono i paesi della Nato, fra cui l'Italia, a intervenire, prima facendo
pressioni sul presidente Milosevic perchè ponesse fine alla repressione e restituisse al Kosovo le
autonomie di cui godeva prima dell'89; poi, di fronte alla resistenza dei serbi, dando il via a
un'operazione militare aerea su larga scala, il cui peso maggiore fu sostenuto dagli Stati Uniti. Per
oltre due mesi