John Rawls (1921-2002)
1. i termini del problema
2. il modello politico
3. gli strumenti per la teoria
4. le questioni aperte
1. I termini del problema
In riferimento prioritario alle seguenti opere:
Rawls John 1971, 1999 Una teoria della giustizia, Milano Feltrinelli, 2008 (citato Rawls 1971)
Rawls John 1993 Liberalesimo politico, ed. di Comunità, Torino 1999 (citato Rawls 1993)
Rawls John 2005 Liberalismo politico. Nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2012 (citato
Rawls 2005)
Rawls John 2001 Giustizia come equità. Una riformulazione, Feltrinelli, Milano 2002 (citato Rawls
2001)
A sottolineare la rilevanza delle riflessione di Rawls, nel proporre la sua teoria politica, Robert
Nozick osserva: «I filosofi della politica devono oramai lavorare con Rawls oppure spiegare perché
non farlo.» (Nozik Robert 1974 Anarchia, Stato e Utopia, Le Monnier, Firenze 1981, 183; citato per
condivisione da Sen K. Amartya 1992 La diseguaglianza. Un riesame critico, il Mulino, Bologna
2002, 123 nota) e Sen afferma a sua volta: «sarebbe difficile oggi tentare di costruire una teoria
della giustizia che non fosse fondamentalmente influenzata dalle illuminazioni forniteci dalla
profonda e penetrante analisi di Rawls.» (ivi)
Come bilancio e progetto, tratto da uno degli ultimi scritti di Rawls, ispirato all’obiettivo di avviare
una revisione dell’opera Liberalesimo politico. In una lettera del 1998 Rawls afferma di considerare
quest’articolo come “la migliore esposizione delle sue idee sulla ragione pubblica e sul liberalismo
politico, soprattutto rispetto alla compatibilità tra ragione pubblica e credenze religiose” (Rawls
2005, 403)
«L’idea di ragione pubblica appartiene, nella mia interpretazione, alla concezione di una società
costituzionale democratica bene ordinata. La forma e il contenuto di tale ragione — in che modo i
cittadini la intendano e come essa interpreti le loro relazioni politiche — sono elementi della stessa
idea di democrazia. Questo perché una caratteristica di base di ogni società democratica è il fatto
del pluralismo: che in una tale società esista una molteplicità di dottrine comprensive ragionevoli tra
loro in conflitto (siano esse religiose, filosofiche o morali) è un risultato naturale della sua cultura di
libere istituzioni. I cittadini comprendono che è impossibile raggiungere un accordo, o quanto meno
aprire la strada a una reciproca intesa, sulla base delle inconciliabili dottrine comprensive che essi
difendono. Ciò che dunque hanno bisogno di fare è esaminare quali tipi di ragioni possano
ragionevolmente offrirsi l’un l’altro quando sono in gioco questioni politiche fondamentali. La mia
tesi è che nella ragione pubblica le dottrine comprensive della verità e del giusto siano sostituite da
un’idea del politicamente ragionevole che possa essere rivolta ai cittadini in quanto cittadini.
Un aspetto centrale dell’idea di ragione pubblica è che essa non critica né attacca nessuna dottrina
comprensiva, sia essa religiosa o di altro tipo, a meno che tale dottrina non sia incompatibile con gli
elementi essenziali della ragione pubblica e delle società democratiche. La condizione di base
imposta alle dottrine ragionevoli è che accettino le forme di governo a democrazia costituzionale e
l’idea di diritto legittimo che le accompagna. Per quanto le società democratiche siano l’una diversa
dall’altra riguardo alle particolari dottrine che all’interno di ciascuna godono di autorevolezza o
sono attive — si pensi alle democrazie dell’Europa occidentale, agli Stati Uniti, a Israele o all’India
—, trovare un’idea appropriata di ragione pubblica è un compito che tutte devono affrontare.
§ 1. L’idea di ragione pubblica. 1. L’idea di ragione pubblica definisce al livello più profondo i
valori morali e politici di base che in una società democratico-costituzionale devono dare forma al
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rapporto tra potere politico e cittadini, e tra un cittadino e l’altro. Si occupa, in breve, del modo in
cui devono essere intesi i rapporti politici.» (Rawls 2005, 406-407)
1.1. Fin dall’opera Liberalesimo politico, del 1993, Rawls va subito al cuore del problema politico
nell’età contemporanea: «Ora, il problema grave è questo: una società democratica moderna non è
caratterizzata soltanto da un pluralismo di dottrine religiose, filosofiche e morali comprensive, ma
da un pluralismo di dottrine comprensive incompatibili e tuttavia ragionevoli. Nessuna di queste
dottrine è universalmente accettata dai cittadini; né c’è da attendersi che in un futuro prevedibile
una di esse, oppure qualche altra dottrina ragionevole, sia mai affermata da tutti i cittadini, o da
quasi tutti. Il liberalismo politico assume che, ai fini della politica, una pluralità di dottrine
comprensive ragionevoli ma incompatibili sia il risultato normale dell’esercizio della ragione
umana entro le libere istituzioni di un regime democratico costituzionale; e assume anche che una
dottrina comprensiva ragionevole non respinga gli aspetti essenziali di un regime democratico.
Naturalmente una società può avere in sé anche dottrine comprensive irragionevoli e irrazionali, o
perfino folli; e in questo caso il problema è quello del contenimento, del fare in modo che tali
dottrine non minino l’unità e la giustizia della società.» (Rawls John 1993 Liberalesimo politico,
ed. di Comunità, Torino 1999, p. 5)
Osserva Žižek Slavoj 2011 Benvenuti in tempi interessanti, Adriano Salani Editore, Milano 2012,
p.108-109: «Le origini del liberalismo non devono essere cercate in un qualche individualismo
estremo; il liberalismo fu invece una risposta al problema di cosa fare in una tale situazione, quando
due gruppi etnici o religiosi che vivono a contatto l’uno con l’altro hanno stili di vita
incompatibili.» A margine del titolo del libro va notato però: «Dicono che in Cina, se si odia
veramente qualcuno, lo si maledice così: «Che tu possa vivere in tempi interessanti!» Storicamente i
«tempi interessanti» sono stati periodi di irrequietezza, guerra e lotte per il potete che hanno portato
sofferenze a milioni di innocenti. Oggi ci stiamo chiaramente avvicinando a una nuova epoca di
tempi interessanti. Dopo decenni di Stato sociale, in cui i tagli finanziari erano limitati a brevi
periodi ed erano sostenuti dalla promessa che le cose sarebbero ben presto tomate alla normalità,
stiamo entrando in un nuovo periodo in cui la crisi economica e diventata permanente, e ormai un
semplice modo di vita. Inoltre oggi le crisi interessano entrambi gli estremi della vita economica —
l’ecologia (l’esternalità naturale) e la speculazione finanziaria pura — e non il cuore del processo
produttivo. È per questo che è cruciale evitare la semplice e ovvia soluzione: «dobbiamo liberarci
degli speculatori, mettere ordine, e la produzione reale potrà continuare». La lezione del capitalismo
è che queste speculazioni «irreali» sono il reale; se le eliminiamo, ne soffre la realtà della
produzione.» (Žižek 2011, 9)
1.2. Lo sguardo è rivolto contemporaneamente a due ambiti: l’analisi sociologica delle
trasformazioni dominanti nell’età contemporanea, il problema principale che la politica è
chiamata a gestire. Rawls formula una opinione, poi molto condivisa, secondo la quale vanno in
parallelo due processi apparentemente tra loro opposti, la cui compresenza segna la contraddizione
o perlomeno l’ambivalenza delle attuali società presente: globalizzazione e particolarismi. Il dato
del pluralismo di dottrine comprensive incompatibili, chiamate ad essere ragionevoli nei confronti
delle regole del vivere sociale, trova la sua base in un tratto diffuso della società contemporanea a
sviluppo avanzato: con l’affermarsi del processo di globalizzazione crescono le spinte
particolaristiche interne al sociale.
1.2.1. Alcuni richiami per ravvivare il tema. «… Le società sviluppate appaiono oggi caratterizzate
da due tendenze, a prima vista contrapposte: da un lato, si vanno sempre più affermando processi
volti a costituire il mondo come unità globale, con il diffondersi di strutture e modelli culturali di
tipo omologante che dissolvono la diversità dei contesti sociali tradizionali [cfr. Robertson 1992;
Featherstone 1991]; dall’altro, sulla base del riconoscimento della pari dignità di ogni cultura, si va
accentuando la rivendicazione del diritto alla propria diversità, con il rafforzamento delle spinte di
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tipo particolaristico. Come cercherò di mostrare, queste tendenze sono, in realtà, interdipendenti ed
è solo tenendo conto della loro reciproca influenza che si può comprendere il carattere specifico
della dinamica attualmente in corso rispetto al problema dell’identità sia individuale che collettiva.»
Crespi, Franco 2004 Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, RomaBari p. 13
«Stiamo entrando, temo, in un’era problematica. Non saranno soltanto i terroristi, le banche e il
clima a sconvolgere il nostro senso di sicurezza e di stabilità. La globalizzazione stessa — la terra
"piatta" di tante fantasie ireniche — sarà fonte di paura e incertezza per miliardi di persone, che si
rivolgeranno ai loro leader in cerca di protezione. Le "identità" diventeranno rigide e meschine, via
via che l’indigente e lo sradicato batteranno contro le mura sempre più alte delle comunità recintate
e sorvegliate, da Delhi a Dallas.» (Judt Tony, Lo chalet della memoria, Laterza, Roma-Bari 2011
citazione da la Repubblica 25 novembre 2011)
«Non viviamo forse in una società mondializzata e globalizzata che pervade la vita pubblica e
privata della maggior parte di noi? Sembra dunque che all’interrogativo “Si può vivere insieme?” si
possa anzitutto dare una risposta semplice e formulata al presente: viviamo già insieme. Miliardi di
individui guardano gli stessi programmi televisivi, bevono le stesse bibite, indossano gli stessi abiti
e per comunicare da un paese all’altro usano anche la stessa lingua. Vediamo formarsi un’opinione
pubblica mondiale che discute in grandi assemblee internazionali, a Rio de Janeiro o a Pechino, e si
preoccupa in tutti i continenti dell’effetto serra, delle conseguenze degli esperimenti nucleari o della
diffusione dell’AIDS. Basta questo per dire che apparteniamo alla stessa società o alla stessa
cultura? No di certo. La peculiarità degli elementi globalizzati — siano essi beni di consumo o
mezzi di comunicazione, tecnologie o flussi finanziari — consiste nel fatto che sono svincolati da
una particolare organizzazione sociale. Globalizzazione significa che tecnologie, strumenti e
messaggi sono presenti ovunque, cioè da nessuna parte, non essendo legati ad alcuna società o
cultura particolari, come mostrano le immagini, sempre ricercate dal pubblico, che giustappongono
la pompa di benzina e il cammello, la Coca—Cola e il villaggio andino, i blue-jeans e il castello
principesco. Questa separazione fra circuiti e collettività, questa indifferenza dei segni della
modernità rispetto al lento lavoro di socializzazione compiuto dalla famiglia o dalla scuola,
insomma questa desocializzazione della cultura di massa, fa sì che viviamo insieme solo nella
misura in cui compiamo gli stessi gesti e utilizziamo gli stessi oggetti, ma senza esser capaci di
comunicare fra noi, al di là dello scambio dei segni della modernità. La nostra cultura non influenza
più la nostra organizzazione sociale che a sua volta non influenza più l’attività tecnica ed
economica. Cultura ed economia, mondo strumentale e mondo simbolico si stanno separando.
Mentre le nostre piccole società vanno a poco a poco amalgamandosi in una società mondiale,
assistiamo alla dissoluzione di quei complessi, politici e territoriali, sociali e culturali, che
chiamiamo società, civiltà o più semplicemente paesi. Vediamo separarsi, da un lato, l’universo
oggettivato dei segni della globalizzazione e, dall’altro, insiemi di valori, espressioni culturali e
luoghi della memoria, che non costituiscono più delle società nella misura in cui sono privati della
loro attività strumentale ormai globalizzata, e si chiudono quindi in se stessi dando sempre più la
priorità ai valori piuttosto che alle tecniche, alle tradizioni piuttosto che alle innovazioni. É vero che
viviamo un po’ insieme su tutto il pianeta, ma e altrettanto vero che ovunque si rafforzano e si
moltiplicano i gruppi identitari, le associazioni basate su una comune appartenenza, le sette, i culti, i
nazionalismi; le società ridiventano comunità allorché riuniscono strettamente in un determinato
territorio società, cultura e potere sotto un’autorità religiosa, culturale, etnica o politica che
potremmo definire carismatica, dato che essa trova la sua legittimità non nella sovranità popolare,
nell’efficacia economica oppure nella conquista militate, ma nelle divinità, nei miti o nelle
tradizioni di una comunità. Quando siamo tutti insieme non abbiamo quasi niente in comune,
mentre quando condividiamo delle credenze e una storia rifiutiamo chi è diverso da noi.
Viviamo insieme solo se perdiamo la nostra identità; mentre il ritorno delle comunità comporta un
richiamo all’omogeneità, alla purezza, all’unità, e la comunicazione viene sostituita dalla guerra tra
coloro che offrono sacrifici a divinità diverse, si richiamano a tradizioni estranee ed opposte fra loro
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e che talvolta si considerano biologicamente diversi dagli altri e superiori ad essi.» Touraine Alain
1997 Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, il Saggiatore, Milano 1998, 10-13
«È morta la società. Trionfa l’apparato. E sono in crescita (un’autentica resurrezione, dopo i disastri
prodotti nel passato dal trionfo delle logiche comunitarie: nazione, patria, razza, religione,
nazionalismo) le comunità: nelle retoriche del fare comunità quale via facile per avere un’identità e
per superare la paura della non identità; nelle retoriche delle comunità virtuali, diverse dalle
vecchie comunità perché faciliterebbero l’entrata e l’uscita, quindi sarebbero comunità aperte,
virtuose, condivise anche se dominate dalla liquidità e dall’instabilità. Morte le identità di classe
restano, come sottoprodotto della cosiddetta postmodernità (in realtà, nessuna postmodernità, ma
sempre, e sempre più, modernità), le identità di comunità (territoriali, etniche, virtuali, di fantasia,
di spettacolo; forti, potenti, ma ancora, come sempre, socialmente e politicamente pericolose; e poi
identità di marca, di brand, le merci, le cose). Anzi, in queste diverse modalità di ricerca e di
illusione/allusione di comunità si rafforza (viene fatta rafforzare, viene prodotta mediante
un’appropriata biopolitica) quella che Francesco Remotti ha definito come un’ossessione
identitaria. (F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010)» Demichelis Lelio
2010 Società o comunità. L’individuo, la libertà, il conflitto, l’empatia, la rete, Carocci editore,
Roma, p. 28)
«Perché se per Bauman l’identità è un «surrogato di comunità», per Remotti l’identità è soprattutto
una parola avvelenata, «perché promette ciò che non c’è, perché ci illude su ciò che non siamo;
perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione». Non di
riconoscimenti identitari avremmo bisogno (questa la biopolitica dominante), ma (ancora Remotti)
del riconoscimento delle esistenze dei soggetti, dei loro diritti, dei loro obiettivi, dei loro progetti,
delle loro diversità.» (Demichelis 2010, 28)
1.2.2. Globalizzazioni e rivendicazioni identitarie sono processi in opposizione in realtà sono
strettamente connessi. Le volontà identitarie sono reattive alle paure collegate e attribuite (più o
meno fondatamente) alla globalizzazione. Ma il timore per la globalizzazione non si traduce in
negazione dei vantaggi e delle opportunità che essa produce e a cui nessuno (nemmeno i no-global),
nei fatti, intende rinunciare. La possibilità di disporre di una libertà di movimento e di scelta di area
sempre più vasta, mondiale, riguardante merci e informazioni diventa spesso, paradossalmente,
strumento indispensabile per la costruzione e la rivendicazione pubblica di riconoscimenti identitari
e degli stessi movimenti antiglobalizzazione.
1.2.3. Contraddizioni e ambivalenze: torna il problema, logico e politico, di come muoversi, gestire
e stare tra gli estremi. Globalizzazione stimata e non rifiutata, rivendicazioni identitarie localistiche
ostentate ma nelle quali non si vive se non per altri fini si presentano come processi tra loro estremi.
Come gestirli. Gli estremi, correttamente gestiti all’interno di una razionalità di problem solving,
non sostengono scelte e progetti di estremizzazione (se non appunto in casi estremi, di chi
estremizza) ma indicano, in quanto estremi, l’ampiezza e i termini di un campo di azione in cui si
ragiona, si progetta e si opera: indicano l’area di gestione della politica contemporanea. Per questa
area occorre mettere a disposizione una adeguata strategia politica, ed è il filo conduttore della
analisi e proposta di John Rawls ispirate a un “liberalesimo democratico”.
1.2.4. L’atteggiamento politico da assumere come mentalità di valore indicato da Rawls fin
dall’inizio della sua riflessione richiama le posizioni “liberali democratiche” espresse da Locke
nella Lettera sulla tolleranza; occorre declinare e trasferire nella situazione contemporanea il modo
suggerito da Locke per regolare i rapporti tra Stato e Chiesa allo scopo di impedire sia la crisi della
religione che la crisi dello Stato: in un incontro dall’interno del loro modo di essere.
1.2.4.1. Locke propone la netta indipendenza tra Chiesa e Stato: se la Chiesa fa proprie forme
politiche, di legge e coercizione, cessa di essere una religione e diventa uno Stato comunitario nello
Stato civile mettendone a rischio la sovranità; se lo Stato gestisce in proprio i ruoli della Chiesa,
imponendo una fede, si delegittima come Stato: viene meno a quel patto sociale che lo istituisce
legittimamente ad esistere in quanto garante per tutti delle libertà naturali di vita, di pensiero e di
azione che, fatte salve le leggi, appartengono come diritti naturali ad ogni persona. La stessa
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relazione si applica al rapporto tra lo Stato e le Comunità (culturali, religiose… e di diverse svariate
finalità) che si costituiscono liberamente all’interno della società. Lo Stato non si fa “comunitario”,
non diventa uno Stato etico che decide modelli di vita e di pensiero da applicare e inculcare agli
individui e al loro spontaneo associarsi; una simile presenza si configura come totalitarismo,
dichiarato o implicito, ma sempre negante le libertà e i diritti personali.
1.2.4.2. Tuttavia, lo Stato promuove, riconosce e rispetta la libera associazione, vigila sulla diverse
comunità affinché rispettino le leggi. Nessuna comunità, nemmeno in nome del giuramento di
appartenenza dei suoi membri ad una fede o ideologia, può trasformare il ruolo di sostegno alla
persona per cui si dovrebbe essere formata in vincolo e obbligo che nega la libertà di pensiero delle
persone e la libertà di scelta delle appartenenze societarie. L’attuale moltiplicarsi di pulsioni
identitarie, con tendenze ad imporre ai propri membri una appartenenza di fede, giurata, pressoché
totale, fino a rivendicare per sé competenze e ruoli pubblici di diritto, di cultura e di valori, fa
riesplodere il problema politico del “bene comune”, della società civile, di come vivere insieme
senza essere privati delle proprie libertà individuali di relazione e di scelta. Occorre tornare a
ragionare sul ruolo e sul senso della democrazia come società civile di individui tra loro uniti ma
differenti; un’idea di democrazia come “comunità di dissidenti”, un ossimoro, certamente, ma
ineludibile se si vuole la democrazia “presa sul serio” (per un percorso analitico vedi anche Flores
D’Arcais Paolo 2006 Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Fazi editore, Roma,
228). Rimane sempre valido il monito di Aristotele: «Socrate ha distrutto la città volendo troppo la
sua unità» (Aristotele, Politica 2)
1.3. gli irrinunciabili (i principi)
1.3.1. l’irrinunciabilità del pluralismo. «Tale pluralismo non è visto come un disastro, ma come
l’esito naturale delle attività della ragione umana entro libere istituzioni durature; vedere il
pluralismo come un disastro significa vedere come un disastro l’esercizio della ragione in
condizioni di libertà. … La cultura politica di una società democratica è sempre contraddistinta da
una molteplicità di dottrine religiose, filosofiche e morali opposte e inconciliabili; alcune di esse
sono del tutto ragionevoli, e il liberalismo politico vede questa diversità fra dottrine ragionevoli
come l’inevitabile risultato a lungo termine dei poteri della ragione umana, quando operano sullo
sfondo di istituzioni libere e durature.» (Rawls 1993,12, 23)
Il pluralismo «non è un puro e semplice dato storico che possa venir meno in breve tempo, ma un
aspetto permanente della cultura pubblica della democrazia. Nelle condizioni politiche e sociali
garantite dai diritti e dalle libertà fondamentali di istituzioni libere dovrà nascere e persistere,
ammesso che non esista ancora, un’ampia varietà di dottrine comprensive contrapposte,
inconciliabili e – quel che più conta – ragionevoli.» (Rawls 1993, 47-48)
1.3.1.1. «Dobbiamo distinguere il fatto del pluralismo ragionevole dal fatto del pluralismo in quanto
tale. Non si tratta semplicemente del fatto che istituzioni libere tendono a generare un’ampia varietà
di dottrine e opinioni, com’è prevedibile data la diversità degli interessi degli uomini e la loro
tendenza ad adottare punti di vista limitati, ma del fatto che fra le opinioni che si sviluppano c’è
un’ampia varietà di dottrine comprensive ragionevoli. Sono queste le dottrine che i cittadini
ragionevoli sostengono, ed è di esse che deve occuparsi il liberalismo politico.» (Rawls 1993, 48)
1.3.1.2. « Dunque, il fatto del pluralismo ragionevole - benché le dottrine storiche non siano,
ovviamente, opera della sola ragione pratica - non è un aspetto sfortunato della condizione umana; e
nel dare alla nostra concezione politica una forma che possa, nel suo secondo stadio, conquistare
l’appoggio di dottrine comprensive ragionevoli, stiamo adattando questa concezione non alle forze
brute del mondo, ma agli esiti inevitabili della libera ragione umana. […] … un accordo collettivo e
duraturo su una sola dottrina comprensiva (religiosa, filosofica o morale) può essere conservato solo
con un uso oppressivo del potere statale.» (Rawls 1993, 48)
1.3.2. l’irrinunciabilità della globalizzazione: contesto contemporaneo di movimento culturale delle
persone e di sviluppo delle insospettate potenzialità individuali. Vale la tesi di Aristotele: l’uomo è
una complessità che giunge a evidenza e realizzazione nelle relazioni sociali e nell’ambito della loro
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ampiezza; il sociale è il luogo di scoperta e realizzazione progressive della propria natura come
natura complessa; della propria complessità. La globalizzazione può amplificare la tendenza etica
dell’uomo, indicata da Aristotele come sua specifica essenza dell’umano (e dell’animale), di
realizzarsi aprendosi alla propria complessità, alla perfezione della propria complessità.
1.3.2.1. La globalizzazione diffonde a livello mondiale stili di vita omogenei servendosi di processi
che le sociologia indica con il termine “omologazione”. Contemporaneamente essa introduce, negli
ambiti in cui opera, una rivoluzione di orientamento, scelta, progetto tale da creare inattesi, talora
disorientanti, livelli di complessità. Perciò bisogna camminare con tre parole: globalizzazione,
omologazione, complessità. Ognuna indica dinamiche sociali diverse, ma si sorreggono e
correggono a vicenda impedendosi reciprocamente di imporsi con enfasi eccessiva e quindi
inopportuna se il loro scopo è guidare a comprendere la dinamica della società contemporanea. Si
tratta di una di quelle parole che, tolte dall’abuso e poste in connessione, fanno scorgere la
dimensione culturale e politica in cui ogni individuo, nel presente, è collocato. «L’individualismo
imposto dalla globalizzazione ha sradicato i movimenti di massa e ha reso inservibili le categorie
politiche e sociali con cui pensavamo noi stessi e gli altri: se le grandi narrazioni collettive sono
finite, la vita del soggetto acquista la stessa drammaticità della storia del mondo. Abbiamo bisogno
di un nuovo paradigma per capire il presente e, soprattutto, per rivendicare i nostri diritti.» Touraine
Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano 2008 (titolo originale in
traduzione letterale. Un nuovo paradigma. Per comprendere il mondo oggi).
1.3.3. l’irrinunciabilità all’identità: non come gabbia comunitaristica artificiale, ossessione
identitaria trappola mortale che ha come obiettivo creare appartenenze chiuse ed esercitare il
dominio sulla persona, né come destino di consumatori addomesticati o irretiti dentro un sogno di
rincorsa omologante di ciò che ora va per lo più, ma come libertà di gestire in proprio, secondo
personalizzazioni assolutamente singolari, quanto la realtà contemporanea mette a disposizione a
sostegno della realizzazione di sé. Tuttavia, «per essere cosmopoliti, bisogna avere una patria»
(Antonio Gramsci); e, anche espistemologicamente, una teoria scientifica non è mai frutto di un
rapporto diretto tra soggetto al mondo (osservo il mondo e costruisco una teoria), ma di un
passaggio da una teoria all’altra avendo come riferimento il mondo come un in sé pieno di dati e
informazioni senza fine; occorre avere un minimo di bagaglio teorico (un orientamento e una
“identità” culturale per cogliere e leggere i dati e magari mutare la propria teoria e visione del
mondo.)
1.3.4. l’irrinunciabilità dell’armonia (sociale, politica) e della vita civile ispirata a una condivisione
di criteri universali di giustizia e non a differenze di privilegio: «Il successo del costituzionalismo
liberale ha rappresentato, in effetti, la scoperta di una nuova possibilità sociale: quella di una società
pluralistica ragionevolmente armonica e stabile. Prima della pratica vittoriosa e pacifica della
tolleranza in società dotate di istituzioni liberali non c’era modo di conoscere questa possibilità; era
più naturale credere - e la secolare pratica dell’intolleranza sembrava confermarlo - che l’unità e la
concordia sociali richiedessero il consenso intorno a una dottrina, religiosa, filosofica o morale,
generale e comprensiva. L’intolleranza era accettata come condizione dell’ordine e della stabilità
sociale, e l’indebolimento di questa credenza ha aiutato ad aprire la via alle istituzioni liberali. E
forse la dottrina della libertà di fede è nata perché è difficile, se non impossibile, credere nella
dannazione di coloro con i quali abbiamo collaborato a lungo, in fiducia e sicurezza, per la
conservazione di una società giusta.» (Rawls 1993,12-13 passim)
Globalizzazione, complessità, volontà identitarie rendono più alto il prezzo da pagare per ottenere
unità e armonia, e un conflitto drammatico è stato introdotto nell’immagine della realtà sociale da
noi quotidianamente percepita e quotidianamente in imprevedibile alterazione, ma il centro della
vicenda è sempre rappresentato dall’esigenza di un’armonia che non si fondi su esclusioni
(impoverimento e violenza). Dunque occorre delineare un modello politico che porti in quella
direzione.
2. il modello politico
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2.1. rilancio (di nuovo) del progetto: «… il problema del liberalismo politico si pone in questi
termini: come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e
uguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili benché
ragionevoli? Detto in altro modo: come è possibile che dottrine comprensive profondamente
contrapposte, benché ragionevoli, convivano e sostengano tutte la concezione politica di un regime
costituzionale? Quali sono la struttura e il contenuto di una concezione politica capace di
conquistarsi il sostegno di un simile consenso per intersezione? Sono queste (insieme ad altre) le
domande cui cerca di rispondere il liberalismo politico. … Il problema del liberalismo politico è
quello di costruire una concezione della giustizia politica (per un regime democratico
costituzionale) che la pluralità delle dottrine ragionevoli - e questa pluralità è sempre un aspetto
della cultura di un regime libero e democratico - possa far propria. L’intenzione non è né quella di
sostituire tali visioni comprensive né quella di dar loro un fondamento vero.» (Rawls 1993,7)
2.1.1.01. nota bene: le parole “liberalismo democratico” indicano un procedere di metodo e non
assunzioni ideologiche o appartenenze politiche; esse rimandano alla situazione politica in cui le
diverse parti sociali concordano regole comuni di convivenza sulla base di principi formali e
dunque universali di giustizia.
2.1.1. il quadro in schema: la democrazia liberale
1. pluralismo di dottrine
comprensive
incompatibili (tra loro)
devono
diventare
ragionevoli
(distingui tra
razionale e
ragionevole)
consenso (alla democrazia)
per intersezione
2. stabilità sociale (società stabile e giusta)
distingui tra
società (imprescindibile)
comunità (libera: entrata/uscita)
sulla base della
giustizia (non bene [etica] ma giustizia politica)
pone limiti, non impone fini
criteri: equità:
velo di ignoranza
beni primari
principi :
valore delle differenze
condizioni :
progresso limitato
3. gli strumenti e la costruzione
«La volontà di dibattere pubblicamente e di tenere conto delle credenze e degli interessi di ciascuno
pone le fondamenta dei buoni rapporti civici, e modella l’ethos della cultura politica.» (Rawls 1971,
232) (in prima presentazione, prevalentemente da: Rawls John 1971, 1999, Una teoria della
giustizia, Feltrinelli, Milano 2008)
In premessa: democrazia o politica = norme di libertà. «Un sistema giuridico è un ordinamento
coercitivo di norme pubbliche rivolte a persone razionali, allo scopo di regolare la loro condotta e di
fornire la struttura della cooperazione sociale. Nel caso in cui queste norme sono giuste, esse
stabiliscono una base per le aspettative legittime. Costituiscono il fondamento su cui poggia la
reciproca fiducia delle persone e in base a cui possono avanzare giuste obiezioni quando le loro
aspettative non vengono soddisfatte. Se le basi di queste pretese sono incerte, altrettanto lo saranno i
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confini delle libertà umane. […] Queste caratteristiche riflettono semplicemente il fatto che il diritto
definisce la struttura di base all’interno della quale ha luogo l’esplicazione di tutte le altre attività.»
(Rawls 1971, 233-234) Dunque: giustizia come equità base per una società in cui le libertà personali
diventano progetto e realtà civile. E il diritto è dunque l’espressione formale della ragione pubblica.
Dalla Prefazione del curatore (Sebastiano Maffettone)
A Theory of Justice di John Rawls fu considerato fin dal suo apparire come il più importante libro di
filosofia politica in lingua inglese dopo il Leviatano di Hobbes. Questa impressione fu rafforzata
dalla enorme discussione critica che seguì la pubblicazione e che è durata praticamente ininterrotta
da allora a oggi, estendendo l’impatto del libro ben al di là dei confini del mondo anglosassone.
Come è stato detto più volte, si può sostenere che questo libro ha costituito una svolta epocale
nell’ambito della filosofia politica e morale del Novecento. In esso, il suo autore presenta una teoria
normativa della giustizia come equità (justice as fairness), che propone un'innovativa concezione
filosofica della liberal-democrazia. Il nucleo di questa teoria è costituito da principi di giustizia che
si suppone parti razionali sceglierebbero in condizioni ideali. La situazione di scelta iniziale viene
battezzata da Rawls “posizione originaria", e corrisponde allo status quo di una dottrina classica del
contratto sociale, cui la teoria della giustizia come equità si rifà. I due principi di giustizia sono
ispirati a ideali di libertà ed eguaglianza, opportunamente combinati tra loro all'interno di una
visione "liberal" della giustizia sociale. » (Rawls 1971, 7)
3.1. I fondamenti (gli obiettivi)
3.1.1. la giustizia: «La giustizia è la prima delle virtù sociali, così come la verità lo è dei sistemi di
pensiero. […] Di conseguenza, in una società giusta sono date per scontate eguali libertà di
cittadinanza, i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione
politica, né del calcolo degli interessi sociali. » (Rawls 1971, 26)
3.1.2. la condivisione: «Se la tendenza degli uomini verso il proprio interesse rende necessaria la
vigilanza reciproca, il loro senso pubblico di giustizia rende possibile una stabile associazione. In
mezzo a individui che hanno scopi e finalità diverse, una concezione condivisa di giustizia
stabilisce legami di convivenza civile; il generale desiderio di giustizia limita la ricerca di altri
obiettivi. » (Rawls 1971, 27)
3.1.3. il coordinamento: efficienza e stabilità: «… i piani degli individui devono essere resi
coerenti tra loro in modo che le loro attività siano compatibili le una con le altre, e in modo che i
piani possano essere realizzati senza che le legittime aspettative di alcuno vengano gravemente
disattese. […] In mancanza di un certo grado di accordo su ciò che è giusto o ingiusto, risulta più
difficile per gli individui coordinare efficacemente i propri piani in modo da assicurarsi il
mantenimento di accordi reciprocamente vantaggiosi. » (Rawls 1971, 28) [poi sul contratto; il
“neocontrattualismo”]
3.2. L’oggetto della giustizia come equità: la struttura di base e i beni primari
«Secondo noi l’oggetto principale della giustizia è la struttura di base della società, o più
esattamente il modo in cui le maggiori istituzioni sociali distribuiscono i doveri e i diritti
fondamentali e determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale. » (Rawls 1971,
28) (si può considerare una definizione della giustizia sociale)
3.2.1. la struttura di base: il problema delle ineguaglianze e la giustizia. «La struttura di base è
l’oggetto principale della giustizia poiché i suoi effetti sono molto profondi ed evidenti sin dagli
inizi. L’idea intuitiva è che questa struttura include differenti posizioni sociali e che persone nate in
differenti posizioni hanno diverse aspettative di vita, parzialmente determinate sia dal sistema
politico sia dalle circostanze economiche e sociali. In questo modo le istituzioni della società
privilegiano certe situazioni di partenza rispetto ad altre. Queste ineguaglianze sono particolarmente
profonde. Esse non soltanto sono assai diffuse, ma influenzano anche le opportunità iniziali che si
hanno nella vita; perciò non possono essere giustificate da un ipotetico richiamo alle nozioni di
merito o di valore. » (Rawls 1971, 29)
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3.2.2. la giustizia sociale: la giustizia della struttura di base. «È a queste ineguaglianze, che
probabilmente appartengono in modo inevitabile alla struttura di base di ogni società, che devono
essere innanzitutto applicati i principi della giustizia sociale. Questi principi regolano poi la scelta
di una costituzione politica e dei principali elementi del sistema economico e sociale. La giustizia di
uno schema sociale dipende essenzialmente dal modo in cui sono ripartiti i diritti e i doveri
fondamentali, dalle opportunità economiche e dalle condizioni sociali nei vari settori della società.»
(Rawls 1971, 29)
3.2.3. Nella sua concretezza la giustizia come equità è definita dalla precisazione dei beni primari:
«Una concezione politica efficace della giustizia comprenderà dunque un’intesa politica su ciò che
deve essere pubblicamente riconosciuto come bisogno dei cittadini, quindi come vantaggiosa per
tutti.» (Rawls 1993, 159)
Che cosa c’è nei “beni primari”. «Anche se i cittadini non sostengono tutti la stessa concezione
(permissibile), completa di finalità e lealtà ultime, perché ci sia un’idea condivisa di vantaggio
razionale bastano due cose: primo, che i cittadini abbiano tutti la stessa concezione politica di se
stessi, come persone libere e uguali; secondo, che la promozione delle loro concezioni (permissibili)
del bene, per quanto lontane nel contenuto e per le dottrine religiose e filosofiche a esse associate,
richieda grosso modo gli stessi beni primari, cioè gli stessi diritti e le stesse libertà e opportunità
fondamentali, e inoltre gli stessi mezzi onnivalenti, come il reddito e la ricchezza, nonché, a
sostegno di tutto ciò, le stesse basi sociali del rispetto di sé. Noi diciamo che questi beni sono cose
di cui i cittadini hanno bisogno in quanto persone libere e uguali, e che chi li rivendica li rivendica
correttamente.
L’elenco di base dei beni primari (che potremmo allungare, se fosse necessario) consta di queste
cinque voci:
a. diritti e libertà fondamentali, specificati a loro volta da un elenco;
b. libertà di movimento e libera scelta dell’occupazione in un contesto di occasioni diversificate;
c. poteri e prerogative delle cariche e delle posizioni di responsabilità nelle istituzioni politiche ed
economiche della struttura di base;
d. reddito e ricchezza; e, per finire,
e. le basi sociali del rispetto di sé.» (Rawls 1993, 160)
3.2.4. beni primari e la possibilità etica e politica, civile, di «farsi carico della propria vita»
«Arriviamo così all’idea che i cittadini, in quanto liberi e uguali, debbano farsi carico della propria
vita; ognuno di loro dovrà adattare la sua concezione del bene all’equa quota di beni primari che
prevede di avere, e gli altri si aspetteranno che lo faccia. L’unica restrizione ai piani di vita è che
siano compatibili con i principi pubblici della giustizia; inoltre potranno essere rivendicati solo certi
tipi di cose (beni primari), e solo in modi specificati da tali principi. Ciò implica che il sentire
fortemente certi fini e l’aspirarvi intensamente non daranno titolo, in quanto tali, né a risorse sociali
né a chiedere che le istituzioni pubbliche siano pensate in modo da raggiungere questi fini. Il
desiderio e la volontà, per quanto intensi, di per sé non sono ragioni in materia di elementi
costituzionali essenziali e di giustizia fondamentale. Il fatto di avere un desiderio imperioso non
dimostra che sia corretto soddisfarlo, così come la forza di una convinzione non dimostra la sua
verità. I principi di giustizia, uniti a un indice dei beni primari, isolano le ragioni della giustizia non
solo dal flusso e riflusso di desideri e voleri oscillanti, ma anche dai sentimenti e dagli impegni.
L’importanza di questo punto è esemplificata dalla tolleranza religiosa, che non dà alcun peso alla
forza delle convinzioni che possono portarci a contrastare le credenze e pratiche religiose degli
altri.» (Rawls 1993, 166-167)
3.2.4.1. “farsi carico di sé: dai diritti alle capacitazioni. La garanzia dei beni primari consente il
passaggio dai diritti alle “capacitazioni”; sorregge la partecipazione alla vita civile.
Confrontandosi con le tesi espresse da Sen Amartya 1999 Lo sviluppo è libertà (Mondadori, Milano
2001), Rawls specifica: «…secondo Sen l’utilitarismo sbaglia quando vede i beni solo come cose
che soddisfano desideri e preferenze individuali. Secondo lui è essenziale anche la loro relazione
con le capacità di base: i beni ci rendono possibile fare certe cose basilari come procurarci il vitto e
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il vestiario, cambiare luogo coi nostri soli mezzi, detenere una posizione o praticare un mestiere,
partecipare alle scelte politiche e alla vita pubblica della nostra comunità. Secondo Sen astrarre
dalla relazione dei beni con le capacità di base e mettere in primo piano i beni primari significa
imperniare l’indice di questi ultimi sulla cosa sbagliata. Vorrei rispondere sottolineando,
innanzitutto, che in realtà il nostro resoconto dei beni primari non astrae affatto dalle capacità di
base — quelle che i cittadini hanno in quanto persone libere e uguali e in virtù dei due poteri morali
— anzi ne tiene pienamente conto: sono i poteri morali a permettere ai cittadini di essere membri
normali e pienamente cooperanti della società per tutta la vita e di mantenersi liberi e uguali. Noi ci
basiamo proprio su una concezione delle capacità e dei bisogni fondamentali del cittadino, e gli
uguali diritti, come le uguali libertà, vengono specificati tenendo presenti i poteri morali. … Se
esaminiamo questo impianto, possiamo vedere che riconosce in pieno la relazione fondamentale fra
beni primari e capacità di base degli individui, tanto che l’indice dei beni primari viene preparato
chiedendosi quali siano, date le capacità di base comprese nella concezione (normativa) dei cittadini
come persone libere e uguali, le cose di cui essi hanno bisogno per conservarsi tali e per essere
membri normali e pienamente cooperanti della società.» (Rawls 2001, 88-189)
3.3. Il contratto all’origine e scelta dei principi di giustizia
Dalla Prefazione «Quello che ho cercato di fare è generalizzare e portare a un più alto livello di
astrazione la teoria tradizionale del contratto sociale di Locke, Rousseau e Kant. […] Le mie
ambizioni riguardo a questo libro saranno soddisfatte completamente se esso aiuterà a vedere più
chiaramente le principali caratteristiche strutturali della concezione alternativa della giustizia che è
implicita nella tradizione contrattualista e che può suggerire la direzione per sviluppi successivi.
Credo che, tra le teorie tradizionali, questa concezione costituisca la migliore approssimazione ai
nostri giudizi ponderati di giustizia e rappresenti la fondazione morale più adeguata per una società
democratica. »» (Rawls 1971, 18)
3.3.1. «L'idea guida è piuttosto quella che i principi di giustizia per la struttura di base della società
sono oggetto dell’accordo originario. Questi sono i principi che persone libere e razionali,
preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza
per definire i termini fondamentali della loro associazione. Questi principi devono regolare tutti gli
accordi successivi; essi specificano i tipi di cooperazione sociale che possono essere messi in atto e
le forme di governo che possono essere istituite. Chiamerò giustizia come equità questo modo di
considerare i principi di giustizia. » (Rawls 1971, 32-33)
3.3.1.1. È il contratto a rendere la società autosufficiente; nel contratto si colloca la scelta dei
principi; qui nasce la società come soggetto politico, societas, non come realtà fisica, multitudo.
«Dobbiamo perciò immaginare che coloro che si impegnano nella cooperazione sociale scelgano
insieme, con un solo atto collettivo, i principi che devono assegnare i diritti e i doveri fondamentali
e determinare la divisione dei benefici sociali. Gli individui devono decidere in anticipo in che
modo dirimere le loro pretese conflittuali e devono altresì decidere quale sarà lo statuto che fonda la
loro società. Così come ciascuno deve decidere, con una riflessione razionale, che cosa costituisce
un bene per lui, vale a dire quell'insieme di fini che è razionale ricercare, allo stesso modo un
gruppo di persone deve decidere una volta per tutte ciò che essi considereranno giusto o ingiusto.
La scelta che individui razionali farebbero in questa ipotetica situazione di uguale libertà,
assumendo per ora che questo problema di scelta abbia una soluzione, determina i principi di
giustizia. » (Rawls 1971, 33) «La teoria della giustizia come equità è un esempio di quella che ho
chiamato una teoria contrattualista. » (Rawls 1971, 36) «Il merito detta terminologia contrattualista
è di esprimere l’idea che i principi di giustizia possono essere concepiti come principi che
verrebbero scelti da persone razionali, e che le concezioni della giustizia possono essere spiegate e
giustificate in questo modo. » (Rawls 1971, 37)
3.4. Il velo di ignoranza nella posizione originaria e la razionalità delle parti.
Nota bene: si tratta di una «…concezione procedurale della posizione originaria» (Rawls 1971, 260)
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«La posizione originaria è un artificio analitico utilizzato per formulare una congettura.» (Rawls
2005, 348); ha gli stessi tratti del concetto di “stato di natura” dei pensatori politici dell’età
moderna, è definito per astrazione ideale e non per descrizione reale.
Le componenti del ragionare di Rawls: il velo di ignoranza e la razionalità delle parti nella
situazione originaria costituiscono la condizione per un contratto di giustizia come equità.
«Dal punto di vista della giustizia come equità la posizione originaria di eguaglianza corrisponde
allo stato di natura della teoria tradizionale del contratto sociale. Naturalmente questa posizione
originaria non è considerata come uno stato di cose storicamente reale, e meno ancora come una
condizione culturale primitiva. Va piuttosto considerata come una condizione puramente ipotetica,
caratterizzata in modo tale da condurre a una certa concezione della giustizia. Tra le caratteristiche
essenziali di questa situazione vi è il fatto che nessuno conosce il suo posto nella società, la sua
posizione di classe o il suo status sociale, la parte che il caso gli assegna nella suddivisione delle
doti naturali, la sua intelligenza, forza e simili. Assumerò anche che le parti contraenti non sappiano
nulla delle proprie concezioni del bene e delle proprie particolari propensioni psicologiche. I
principi di giustizia vengono scelti sotto un velo di ignoranza. Questo assicura che nella scelta dei
principi nessuno viene avvantaggiato o svantaggiato dal caso naturale o dalla contingenza delle
circostanze sociali. Poiché ognuno gode di un’identica condizione, e nessuno è in grado di proporre
dei principi che favoriscano la sua particolare situazione, i principi di giustizia sono il risultato di un
accordo o contrattazione equa. Infatti, date le circostanze della posizione originaria, e cioè la
simmetria delle relazioni di ciascuno con gli altri, questa situazione iniziale e equa tra gli individui
intesi come persone morali, vale a dire come esseri razionali che hanno fini propri e sono dotati,
come assumerò, di un senso di giustizia. Si potrebbe quindi dire che la posizione originaria è il
corretto status quo iniziale, e perciò che gli accordi fondamentali stipulati in essa sono equi. Questo
spiega l’appropriatezza del termine “giustizia come equità": esso porta con sé l’idea che i principi di
giustizia sono concordati in una situazione iniziale equa. L’espressione non implica l’identità dei
concetti di giustizia e di equità, più di quanto l’espressione “poesia come metafora" significhi che i
concetti di poesia e metafora sono i medesimi. […] Una delle caratteristiche della giustizia come
equità è il considerare le parti nella situazione iniziale come razionali e reciprocamente
disinteressate. » (Rawls 1971, 33-34)
3.4.1. Vi è una costante analogia formale tra stato originario di Rawls e stato di natura dei
giusnaturalisti; accade anche all’equiparazione stato di natura o indole naturale degli uomini; in
Rawls così suona: «In ogni caso la posizione originaria deve essere interpretata in modo che ognuno
possa, in ogni momento, adottarne la prospettiva. » (Rawls 1971, 144)
La relazione tra posizione originaria luogo del velo di ignoranza: «Nessuno conosce la propria
posizione nella società né le proprie doti naturali, e quindi nessuno si trova nella condizione di
adattare i principi a proprio vantaggio. » (Rawls 1971, 145) In altri termini la condizione di
disinteresse (Rawls 1971, 154); al velo di ignoranza si abbina la razionalità di ciascuno. «Ho finora
assunto che le persone nella posizione originaria sono razionali. » (Rawls 1971, 147) Ecco perché è
sempre possibile per ognuno posizionarsi in quello stato o situazione per affrontare il tema della
giustizia come fondamento della società; il velo di ignoranza può considerarsi una ripresa del
socratico “so di non sapere”: velo di ignoranza unito strettamente anzi definito dall’uso della
ragione, ragione fondativa del sociale.
3.4.1.1. dunque un doppio fondamento che determina l’autonomia della politica: consenso e
razionalità nella situazione originaria. «… l’idea dell’unanimità tra persone razionali è implicita in
tutta la tradizione della filosofia morale” » (Rawls 1971, 260) Poi, fuori dalla situazione originaria,
nella situazione storica reale: consenso (per intersezione; in forza della propria dottrina
onnicomprensiva) e ragionevolezza (in forza della ineliminabilità del pluralismo e delle sue
differenze); perciò una distinzione in due tappe della teoria della giustizia come equità: 1. una
situazione ideale, originaria (qui l’opera Una teoria della giustizia), 2. una situazione reale, storica
(qui le opere: 1993 Liberalismo politico, 2001 Giustizia come equità. Una riformulazione.)
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3.4.1.2. «Posizione originaria e giustificazione» (Rawls 1971, 38): la posizione originaria è il luogo
ideale della fondazione, giustificazione e quindi autonomia della teoria politica della giustizia come
equità. «Ho affermato che la posizione originaria è l’appropriato status quo iniziale che garantisce
l’equità degli accordi fondamentali in esso raggiunti. Questo fatto dà origine alla denominazione
"giustizia come equità". È quindi chiaro che intendo sostenere che una concezione di giustizia è più
ragionevole di un’altra, o meglio giustificabile rispetto a essa se, nella situazione iniziale, persone
razionali sceglierebbero i suoi principi piuttosto che quelli dell’altra per gli scopi della giustizia.
[…] … occorre chiarire quali principi sarebbe razionale adottare, data la situazione contrattuale. In
questo modo si connette la teoria della giustizia a quella della scelta razionale.» (Rawls 1971, 38)
3.4.1.3. contratto situazione iniziale e razionalità: non basta il concetto (di Smith) dell’osservatore
imparziale. « … secondo la teoria contrattualista non è possibile giungere al principio di scelta
sociale per mezzo della semplice estensione del principio di prudenza razionale al sistema dei
desideri costruito dall’osservatore imparziale. »» (Rawls 1971, 48)
3.4.2. in sintesi la funzione della posizione originaria come postulato di fondazione e di definizione;
gli elementi in composizione: i principi primi di giustizia rimandano ai temi accordo, situazione
iniziale, razionalità.
«L’idea della situazione iniziale ha un ruolo centrale nell’intera teoria, e le altre nozioni
fondamentali sono definite nei termini di questa. Di conseguenza, agire in modo autonomo significa
agire a partire dai principi cui acconsentiremmo in quanto esseri razionali liberi ed eguali, e che
dobbiamo intendere in questo modo. » (Rawls 1971, 485)
«L’idea intuitiva della giustizia come equità è quella di considerare i primi principi di giustizia
come oggetto di un accordo originario, in una situazione iniziale opportunamente definita. Questi
principi sono quelli che verrebbero accettati da persone razionali, che intendono promuovere i
propri interessi, per definire i termini fondamentali della loro associazione in una posizione di
eguaglianza. Occorre quindi dimostrare che i due principi di giustizia sono la soluzione al problema
di scelta presentato nella posizione originaria. Per raggiungere questo scopo occorre stabilire che,
date le circostanze in cui si trovano le parti, e le loro conoscenze, credenze e interessi, un accordo
su questi principi è il miglior modo che ciascuno ha per garantire i suoi fini in relazione alla
alternative a disposizione. […] È quindi chiaro che la posizione originaria è una situazione
puramente ipotetica. Nulla di simile a essa deve necessariamente avere luogo, anche se possiamo
simulare le riflessioni delle parti seguendo deliberatamente i vincoli da essa espressi. Non si
pretende che la concezione della posizione originaria serva a spiegare la condotta umana se non
nella misura in cui tende a rendere conto dei nostri giudizi morali e aiuta a spiegare il fatto che noi
possediamo un senso di giustizia. La giustizia come equità è una teoria dei nostri sentimenti morali,
in quanto espressi dai nostri giudizi ponderati in equilibrio riflessivo. È presumibile che questi
sentimenti influenzino in qualche misura i nostri pensieri e le nostre azioni. Così, mentre la
concezione della posizione originaria è una parte della teoria della condotta, ciò non implica
l’esistenza di alcuna situazione effettiva che le assomigli. Ciò che è necessario è solo che i principi
che verrebbero accettati giochino il ruolo richiesto nei nostri ragionamenti e nella nostra condotta
morale.» (Rawls 1971, 126-128)
L’impostazione contrattualista della teoria di Rawls si evidenzia anche nell’affermazione della
natura puramente ipotetica della situazione originaria, come accadeva o doveva accadere allo stato
di natura dei giusnaturalisti/contrattualisti moderni.
3.4.2.1. in riserva critica nei confronti della posizione del “velo di ignoranza” costruita da Rawls,
osserva Caillé Alain 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali,
(edizioni Dedalo Bari 1995, 177; riportando anche riserve di Raymond Boudon e Claude Lefort e
richiamando le obiezioni che Platone rivolgeva al “so di non sapere” di Socrate, affidandole a
Menone, in Menone) «Ma come decidere in stato di ignoranza? Come giudicare se non si conosce
concretamente ciò che significa essere ricchi o poveri, potenti o dominati, in questa o in quella
società? Poiché la scelta possa avere un senso bisogna supporre che sia operata con cognizione di
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causa.» Ma si tratta, in Rawls, credo, di un modus tollens stile scettico e cinico, operabile in
contesto politico, per la scoperta di ciò che è essenziale.
3.5. ragione e ragionevolezza. La ragione in politica è ragionevolezza: come porre «vincoli
ragionevoli alle loro ragioni».
«Nella giustizia come equità il ragionevole e il razionale sono due nozioni di base distinte e
indipendenti; distinte in quanto la giustizia come equità non pensa minimamente di derivarle l’una
dall’altra, e in particolare di derivare il ragionevole dal razionale.» (Rawls 1993, 59) Ma sono
nozioni anche collegate: «all’interno dell’idea di equa cooperazione il ragionevole e il razionale
sono invece due nozioni complementari. Ognuno dei due è elemento di questa idea fondamentale e
sta in rapporto con uno specifico potere morale - rispettivamente la capacità di avere senso di
giustizia e quella di concepire il bene; e funzionando in coppia definiscono l’idea degli equi termini
di cooperazione, tenendo conto del tipo di cooperazione sociale in gioco, della natura delle parti e
della loro posizione l’una rispetto all’altra. Essendo idee complementari, né il ragionevole né il
razionale possono reggersi l’uno senza l’altro. Agenti puramente ragionevoli non avrebbero scopi
propri da promuovere attraverso un’equa cooperazione; agenti puramente razionali non hanno il
senso di giustizia e non sanno riconoscere la validità indipendente delle pretese altrui.» (Rawls
1993, 60)
Le dottrine comprensive sono dette ragionevoli se non respingono gli elementi dei regimi
democratico-costituzionali. (Rawls 2005, 454)
Le varie dottrine comprensive (o complessive) espresse dalle diverse comunità o associazioni sono
al loro interno razionali (hanno una propria coerenza, non sono irrazionali o contraddittorie,
altrimenti portano a contrasti e estinzioni le comunità stesse), devono politicamente essere
ragionevoli, cioè riconoscere l’urgenza del problema sociale, in cui e di cui vivono, e rispettare le
regole che rendono possibile la democrazia e la convivenza sociale nel pluralismo («una chiesa, per
esempio, può scomunicare gli eretici, ma non bruciarli» (Rawls 2001,13) «… il liberalismo politico
non parla di verità, ma solo di ragionevolezza della propria concezione politica della giustizia; e
questa non è solo una questione verbale, ma ha due conseguenze. Innanzitutto, così facendo si mette
in chiaro che la concezione politica ha un punto di vista più limitato, definisce i valori politici e non
tutti i valori, e nello stesso tempo assicura una base pubblica di giustificazione; in secondo luogo, si
mette in luce il fatto che i principi e gli ideali della concezione politica stessa si basano sui principi
della ragione pratica, uniti a certe concezioni della società e della persona che però appartengono a
loro volta alla ragione pratica stessa (tali concezioni specificano la cornice entro la quale i principi
di quest’ultima hanno applicazione).» (Rawls 1993, 9)
3.5.1. la ragione. «Una società politica - anzi ogni agente ragionevole e razionale, che sia un
individuo, una famiglia, un’associazione o anche una confederazione di società politiche - ha un
certo modo di formulare i suoi piani, assegnare un ordine di priorità ai suoi fini e prendere le
proprie decisioni tenendone conto. Il modo in cui fa queste cose è la sua ragione; e anche la sua
capacità di farle lo è, benché in un senso diverso - quello di un potere morale e intellettuale le cui
radici stanno nelle capacità dei suoi membri umani. Non tutte le ragioni sono ragioni pubbliche: ci
sono anche quelle non pubbliche delle chiese, delle università e di molte altre associazioni della
società civile.» (Rawls 1993, 183)
Alla base del “liberalesimo democratico” viene ribadita l’affermazione della autonomia della
ragione in campo etico, tesi propria e condivisa dalla filosofia moderna (Hume, Kant), secondo cui
«l’ordine morale nasce in qualche modo, come ragione o sentimento, dalla stessa natura umana e
dalle condizioni della vita associata. Essi ritengono inoltre che la conoscenza o consapevolezza del
modo in cui si deve agire sia direttamente accessibile a ogni persona normalmente ragionevole e
coscienziosa; e ritengono, infine, che noi siamo formati in modo tale che nella nostra natura
esistono motivazioni sufficienti a portarci ad agire come dovremmo senza che siano necessarie
sanzioni esterne, almeno sotto forma di premi e pene imposti da Dio o dallo stato. Sia Hume sia
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Kant sono in effetti lontani, quanto si può esserlo, dall’idea che solo pochi possano avere una
conoscenza morale, e che tutti o quasi tutti debbano essere portati a fare ciò che è giusto per mezzo
di simili sanzioni. Da questo punto di vista le loro convinzioni appartengono a quello che chiamo
liberalismo comprensivo, ben distinto dal liberalismo politico.
Il liberalismo politico non è un liberalismo comprensivo. […] I problemi generali della filosofia
morale non interessano il liberalismo politico, se non in quanto influiscono sul modo in cui la
cultura di fondo e le sue dottrine comprensive tendono a sostenere un regime costituzionale.»
(Rawls 1993,12-15 passim)
3.5.2. la ragionevolezza. « … è grazie al ragionevole che entriamo da uguali nel mondo pubblico
degli altri, pronti a proporre o ad accettare, secondo i casi, equi termini di cooperazione con loro.»
(Rawls 1993, 61)
3.5.2.1. Non verità, né solo ragione, ma ragionevolezza. «I valori della ragione pubblica non
comprendono soltanto l’uso appropriato dei concetti fondamentali di giudizio, inferenza e prova
empirica, ma anche le virtù della ragionevolezza e dell’equità intellettuale, che si manifestano
nell’attenersi ai criteri e alle procedure della conoscenza di senso comune e nell’accettare, quando
non sono controversi, i metodi e le conclusioni della scienza. E dobbiamo rispetto anche ai precetti
che governano la discussione politica ragionevole. Questi valori, presi congiuntamente, esprimono
quell’ideale politico liberale secondo il quale il potere politico, essendo un potere coercitivo di
cittadini liberi e uguali in quanto corpo associato, quando sono in gioco elementi costituzionali
essenziali e questioni di giustizia fondamentale, dovrebbe essere esercitato solo in un modo tale che
ci si possa ragionevolmente aspettare che tutti i cittadini l’accettino alla luce della loro comune
ragione umana.» (Rawls 1993, 128)
3.5.2.2. L’armonia delle autonomie nel “contratto” sociale e perciò la condivisione e il consenso su
punti fermi, indispensabili per la comune convivenza e per l’universale esercizio della ragione, sono
fondati sulla ragionevolezza, vera e propria “virtù pubblica”. La domanda basilare era: «in che
modo cittadini che restano profondamente divisi per quanto riguarda le loro dottrine religiose
morali e filosofiche possono, ciononostante, mantenere una società democratica stabile e giusta? A
tale scopo è desiderabile, normalmente, che le posizioni filosofiche e morali comprensive alle quali
usiamo ricorrere quando dibattiamo questioni politiche fondamentali siano messe da parte nella vita
pubblica. La migliore guida della ragione pubblica - del ragionare dei cittadini, condotto nel foro
pubblico, sugli elementi costituzionali essenziali e sui problemi fondamentali della giustizia - è una
concezione politica tale che tutti i cittadini possano far propri i suoi principi e valori; una
concezione che dovrà essere, per così dire, politica e non metafisica.» (Rawls 1993,26, 28)
La ragione, attribuita in misura utile e sufficiente a tutti i cittadini, in ciò uguali, si caratterizza per i
seguenti elementi di base: «a) i due poteri morali, cioè le capacità di avere senso di giustizia e di
concepire il bene; b) i poteri intellettuali di giudizio, pensiero e inferenza, necessari per l’esercizio
dei precedenti; c) che i cittadini abbiano, in qualsiasi momento dato, una concezione determinata
del bene interpretata alla luce di una dottrina comprensiva (ragionevole); d) che essi abbiano le
capacità e abilità indispensabili per essere per tutta la vita membri normali e pienamente cooperativi
della società.» (Rawls 1993,83) La ragionevolezza fa riferimento ad altre caratteristiche: «a) la
disponibilità a proporre equi termini di cooperazione che ci si può ragionevolmente aspettare siano
accolti dagli altri, nonché ad attenervisi purché si possa contare sul fatto che anche gli altri vi si
attengano; b) i cittadini riconoscono gli oneri del giudizio e i limiti da essi imposti a ciò di cui ci si
può giustificare davanti agli altri, e sostengono solo dottrine comprensive ragionevoli; c) i cittadini
non solo siano dei membri normali e pienamente cooperativi della società, ma vogliano anche
esserlo ed essere riconosciuti come tali; d) i cittadini hanno quella che chiamo “psicologia morale
ragionevole”.» (Rawls 1993,83-84 passim)
3.5.2.3. La ragionevolezza di cui parla Rawls è densa di tradizione culturale. Richiama il concetto
aristotelico di phrònesis come virtù etica e metodo generale dell’etica e come logica politica quando
ha la priorità non la legge nella sua formulazione coerente ma il destinatario. Politica è infatti fare
leggi, ma anche applicarle gestendo la differenza, o il difetto di corrispondenza, tra la natura
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universale e astratta della legge e la situazione particolare unica degli eventi e delle persone; in tal
caso si impone una virtù dianoetica specifica: la ragionevolezza (saggezza). Le tesi di Rawls
richiamano anche l’impostazione di metodo generale della riflessione di Locke, che sottolinea la
natura probabile (e non certa) degli esiti cui giunge la mente quando, alla ricerca delle leggi della
realtà, gestisce con idee complesse il dato dell’esperienza. Nella definizione dei gradi di certezza
cui la mente umana può giungere Locke distingue tra la certezza degli esisti delle scienze pure
(luogo della ragione) e la probabilità, a diversi successi, delle scienze relative a dati d’esperienza:
qui sono in opera ragione e ragionevolezza.
3.5.2.4. Il ruolo indispensabile delle dottrine comprensive e del loro atteggiamento di
ragionevolezza per l’affermazione di una ragione politica pubblica, condivisa quindi ed efficace.
Se la cultura politica pubblica trova fondamento in se stessa e l’accettazione delle sue ragioni
diventa la clausola condizionale per la legittimazione e la funzione culturale delle dottrine
comprensive, è altrettanto vero però che, nell’accadere storico, la cultura politica pubblica trova il
proprio contesto di definizione e di diffusione, talora di difesa, proprio nella cultura di sfondo in cui
si trovano e di cui fanno parte le dottrine comprensive; la cultura politica pubblica è distinta dalla
cultura di sfondo ma la sua diffusione e la definizione (per differenza) di fatto (e non
razionalisticamente) trova diffusione e fruizione pubblica nel contesto delle dottrine comprensive in
quanto e quando queste, secondo ragionevolezza e per giustizia e reciprocità, esprimono nei suoi
confronti un consenso per intersezione. «Le dottrine comprensive ragionevoli che sostengono le
concezioni politiche ragionevoli della società possono essere considerate come le basi sociali
essenziali di queste concezioni: esse assicurano loro forza, vigore e solidità. Quando le dottrine
comprensive accettano la clausola condizionale, e solo allora entrano nel dibattito pubblico,
l’impegno a sostenere la democrazia costituzionale è manifestato pubblicamente.» (Rawls 2005,
429) «La cosa essenziale è che la ragione pubblica sia un’idea politica, che appartenga alla
categoria del politico.» (Rawls 2005, 452) E la reciprocità: «Questi vantaggi della consapevolezza
di ogni cittadino che ciascuno riconosce le dottrine comprensive ragionevoli di ogni altro,
rappresentano le ragioni positive per introdurre tali dottrine nella discussione pubblica…»(Rawls
2005, 430)
3.5.2.5. Si dà anche il caso di una irriducibile irragionevolezza. Non solo durezze di carattere
politico (si sa come «non è facile, per i duri e puri, trovare un partito alla loro altezza» Michele
Serra la Repubblica 03.08.2012), ma anche e soprattutto per associazioni e movimenti
dichiaratamente intolleranti e antidemocratici. In tal caso, osserva Rawls, in chiusura dell’ultima
edizione del proprio testo, Liberalesimo democratico: «Dati gli scopi della ragione pubblica quando
in gioco vi sono questioni politiche fondamentali, l’idea del politicamente ragionevole è sufficiente
a se stessa. Naturalmente, le dottrine religiose fondamentaliste, i governanti dispotici e i dittatori
respingeranno le idee di ragione pubblica e di democrazia deliberativa. Le prime diranno che la
democrazia conduce a una cultura contraria alla religione, i secondi che sopprime valori che solo un
regime autocratico o dittatoriale può assicurare. La loro idea è che il religiosamente o
filosoficamente vero passa sopra al politicamente ragionevole. Di tali dottrine diciamo
semplicemente che sono politicamente irragionevoli. All’interno del liberalismo politico, non è
necessario aggiungere altro.» (Rawls 2005, 455)
3.6. il contratto sociale è consenso per intersezione.
È sulla base della ragionevolezza che le varie parti sociali giungono ad un consenso, contratto,
accordo, patto sociale e si tratta di un “accordo per intersezione”.
«Abbiamo visto, proprio all’inizio, che il liberalismo politico cerca di rispondere alla domanda
«Come è possibile che esista una società stabile e giusta i cui cittadini, liberi e uguali, sono
profondamente divisi da dottrine religiose filosofiche e morali contrastanti e perfino incompatibili?»
[…] Per capire come una società bene ordinata possa essere unita e stabile introduciamo perciò
un’altra idea fondamentale del liberalismo politico, che accompagnerà quella di concezione politica
della giustizia: l’idea di consenso per intersezione di dottrine comprensive ragionevoli. Entro un
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simile consenso le dottrine ragionevoli fanno propria, ciascuna dal suo punto di vista, la concezione
politica. L’unità sociale si basa su un consenso intorno alla concezione politica; la stabilità è
possibile quando le dottrine che compongono questo consenso sono affermate dai cittadini
politicamente attivi e il conflitto fra i requisiti della giustizia e gli interessi essenziali dei cittadini,
creati e incoraggiati dai loro assetti sociali, non è troppo acuto.» (Rawls 1993, 123)
3.6.1. ragionevolezza e consenso. Una concezione della giustizia politica si traduce in una
concezione politica ragionevole che pone, cioè, alla diverse visioni etiche, religiose, economiche,
alle molte dottrine che vengono formulate, «il vincolo della ragionevolezza. Tale vincolo non è una
particolarità della concezione politica, e si applica a tutte le dottrine che possiamo ragionevolmente
aspettarci di includere in un consenso per intersezione. L’aspetto cruciale di questi vincoli è che o
sono quelli universali della ragione, teoretica o pratica, oppure sono parte della giustizia come
equità in quanto concezione politica. Essi invocano le idee di ragionevolezza e razionalità, applicate
ai cittadini e manifestantisi nell’esercizio dei loro poteri morali; e non si riferiscono al contenuto
sostanziale delle concezioni comprensive del bene, anche se lo limitano.» (Rawls 1993, 182)
3.6.1.1. la ragionevolezza è consenso al vivere civile se condotto sul presupposto comune di un
“velo di ignoranza”. Se i contraenti si avvicinano alle ipotesi di accordo sulla base delle proprie
posizioni, naturali o sociali, particolari e uniche (a partire dalla propria forza e dal proprio peso)
allora l’accordo è fin dall’origine sorretto e viziato da una logica secondo cui nell’accordo si
vogliono far pesare e far passare le proprie posizioni di forza e di privilegio. Un vero accordo
mirante a porre le basi del vivere sociale civile (che non trascini nel sociale lo stato di guerra
“naturale” – inteso alla Hobbes) presuppone che ognuno dei contraenti si collochi in una posizione
di “velo di ignoranza” nei confronti dei «vantaggi contingenti e influssi accidentali provenienti dal
passato». È la centralità della «idea di posizione originaria» a definire l’impostazione neocontrattualistica di Rawls sul tema classico del contratto sociale. L’idea della «posizione originaria
(o originale)» richiama come strumento teoretico, non certo come ipotesi storica, l’idea di uno stato
ipotetico di eguaglianza primordiale in cui si presume che gli individui (senza sapere esattamente
chi sono destinati a diventare; in un “velo di ignoranza” nel confronto del sociale che per ipotesi
non c’è) scelgano fra principi alternativi che dovranno governare le strutture fondamentali della
società. (così la ricostruzione del concetto di Rawls in Sen K. Amartya 1992 La diseguaglianza. Un
riesame critico, il Mulino, Bologna 2002, 109)
«La giustizia come equità riprende e modifica la dottrina del contratto sociale, adottando una
variante dell’ultima risposta: gli equi termini della cooperazione sociale sono concepiti come frutto
di un accordo fra le persone impegnate nella cooperazione stessa, cioè fra cittadini liberi e uguali
nati nella società nella quale vivono le loro vite. Ma il loro accordo, come qualsiasi accordo valido,
deve essere concluso in condizioni appropriate, e tali condizioni devono, in particolare, mettere
persone libere e uguali in una posizione equa, e non devono concedere ad alcune di esse un
vantaggio negoziale sulle altre. Vanno inoltre esclusi la minaccia della forza e della coercizione
l’inganno, la frode e simili. […] La difficoltà è questa: dobbiamo trovare un punto di vista che si
distanzi dagli aspetti particolari del quadro di fondo onnicomprensivo, che non sia distorto da tali
aspetti, e a partire dal quale si possa raggiungere un accordo equo fra persone considerate libere e
uguali.
È la posizione originaria, con quelle sue caratteristiche che ho chiamato «velo d’ignoranza», a darci
questo punto di vista. La ragione per cui la posizione originaria deve fare astrazione dagli aspetti
contingenti del mondo sociale e non deve esserne influenzata è che le condizioni di un accordo equo
sui principi della giustizia politica fra persone libere e uguali devono togliere di mezzo quei
vantaggi negoziali che nascono, inevitabilmente, entro le istituzioni di fondo di qualsiasi società per
l’accumularsi di tendenze sociali, storiche e naturali. Questi vantaggi contingenti e influssi
accidentali provenienti dal passato non devono avere a che fare con un accordo sui principi destinati
a regolare, nel presente e nel futuro, le istituzioni della struttura di base.» (Rawls 1993, 38)
3.6.1.2. La valenza universalistica del contratto stipulato in situazioni definite dal “velo di
ignoranza”. «L’idea guida è che la posizione originaria connette la concezione della persona e
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quella, a essa legata, della cooperazione sociale con certi particolari principi di giustizia (che
specificano quelli che sopra ho chiamato «equi termini della cooperazione sociale»). Il nesso fra
queste due concezioni filosofiche e principi di giustizia specifici viene stabilito così: le parti in
posizione originaria sono caratterizzate come rappresentanti, razionalmente autonomi, dei cittadini
della società.» (Rawls 1993, 254-255)
Osserva Ronald Dworkin «Credo non sia necessario descrivere nel dettaglio la famosa idea della
posizione originaria di John Rawls [1971 Una teoria della giustizia]. Questa fa riferimento a un
gruppo di persone che si riuniscono per stipulare un contratto sociale. Sin qui essa somiglia agli
incontri immaginari delle teorie classiche del contratto sociale. Tuttavia la posizione originaria
differisce da queste teorie nella sua descrizione delle parti. Si tratta di soggetti, persone, con normali
preferenze, capacità, ambizioni e convinzioni: ma ciascuno ignora temporaneamente queste
caratteristiche della sua personalità, e deve trovare un accordo su un contratto sociale prima che
riaffiori la coscienza del proprio Sé. Rawls cerca di dimostrare che se queste persone fossero
razionali e agissero solo sulla base del proprio interesse, sceglierebbero i suoi due principi di
giustizia. Questi stabiliscono, grosso modo, che ognuno deve avere la più ampia libertà politica
compatibile con una pari libertà per tutti gli altri, e che le disuguaglianze di potere, benessere,
reddito e di altre risorse non devono esistere, se non nella misura in cui esse operano ad assoluto
vantaggio dei membri più svantaggiati della società.» (Dworkin Ronald 1977 I diritti presi sul
serio, il Mulino, Bologna 2010, 223; al tema vengono dedicate analitiche riflessioni nel capitolo La
giustizia e i diritti, pp. 223-268).
3.6.2. consenso “per intersezione”: il riconoscimento delle regole comuni, affinché si presenti in
forma stabile e duratura, quindi fondato non solo su una costrizione esterna (politico-poliziesca), ma
su una convinzione interna (motivata), deve avvenire “per intersezione”: cioè è accettato e
(ri)formulato dai vari gruppi o movimenti a partire dall’interno delle loro dottrine, pur comprensive,
pur diverse e contrastanti nei confronti di altre; quindi deve avvenire razionalmente e per
ragionevolezza (deriva da un ragionare stimolato e promosso dalle esigenze di ragionevolezza) .
È questo il nuovo patto / contratto sociale: partecipare alla vita sociale e politica attraverso il
consenso per intersezione. «Ciò posto osservo brevemente che una società democratica bene
ordinata soddisfa una condizione necessaria (ma di sicuro non sufficiente) di realismo e stabilità.
Una simile società può essere bene ordinata da una concezione politica della giustizia purché:
primo, quei cittadini che sostengono dottrine comprensive ragionevoli ma opposte partecipino a un
consenso per intersezione (cioè purché facciano in generale propria quella concezione della
giustizia, in quanto corrisponde al contenuto dei loro giudizi politici sulle istituzioni di base);
secondo, le dottrine comprensive irragionevoli (che assumiamo esistere sempre) non si diffondano
al punto di minare l’essenziale giustizia della società. Queste condizioni non ci impongono
l’irrealistico (per non dire utopistico) requisito che tutti i cittadini sostengano la stessa dottrina
comprensiva, ma solo che accettino la stessa concezione pubblica della giustizia, come appunto nel
liberalismo politico.» (Rawls 1993, p. 23)
3.6.2.1. «L’idea di consenso per intersezione viene introdotta per rendere più realistica e adeguare
alle condizioni storiche e sociali delle società democratiche, che comprendono il fatto del
pluralismo ragionevole, la nozione di società bene ordinata. In una società bene ordinata tutti i
cittadini sostengono la stessa concezione politica della giustizia: tuttavia noi non supponiamo che lo
facciano per ragioni identiche dall’inizio alla fine. I cittadini hanno idee religiose, filosofiche e
morali contrastanti, per cui giungono a sostenere tale concezione politica partendo da dottrine
comprensive diverse e addirittura incompatibili e quindi, almeno in parte, per ragioni diverse: ma
ciò non impedisce alla concezione politica stessa di costituire un punto di vista comune utilizzabile
per risolvere tutti insieme i problemi relativi agli elementi costituzionali essenziali. … Se un
cittadino ha una dottrina comprensiva ben strutturata e altamente sistematica arriverà alla
concezione politica della giustizia dal suo interno (cioè partendo dalle sue assunzioni di base). I
concetti, i principi e le virtù fondamentali della concezione politica saranno, per così dire, teoremi
della sua visione comprensiva.» (Rawls 2001, 36-37)
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3.6.2.2. «Nel costruire una concezione politica della giustizia capace di conquistarsi un consenso
per intersezione, noi adattiamo tale concezione non alla non-ragione esistente, ma al fatto del
pluralismo ragionevole, che poi è il risultato del libero esercizio della libera ragione umana in
condizioni di libertà.» (Rawls 1993, 7) «Il problema, dunque, è quello di costruire una concezione
della giustizia per un regime costituzionale tale che coloro che sostengono quel tipo di regime, o
potrebbero essere indotti a sostenerlo, possano anche far propria la concezione politica, a patto che
non contrasti troppo nettamente con le loro opinioni comprensive; giungiamo così all’idea di
concezione politica della giustizia come posizione autonoma, che parta dall’idea fondamentale di
società democratica e non presupponga una determinata dottrina più generale. E non mettiamo
ostacoli alla sua capacità di conquistarsi seguaci, fino a essere sostenuta da un consenso per
intersezione ragionevole e duraturo.» (Rawls 1993, 50) «Questi valori, presi congiuntamente,
esprimono quell’ideale politico liberale secondo il quale il potere politico, essendo un potere
coercitivo di cittadini liberi e uguali in quanto corpo associato, quando sono in gioco elementi
costituzionali essenziali e questioni di giustizia fondamentale, dovrebbe essere esercitato solo in un
modo tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che tutti i cittadini l’accettino alla luce della
loro comune ragione umana.» (Rawls 1993, 128)
3.6.2.3. i limiti “giusti” (politici e non morali: il giusto, non il bene) del liberalesimo democratico.
«Il problema del liberalismo politico è quello di costruire una concezione della giustizia politica
(per un regime democratico costituzionale) che la pluralità delle dottrine ragionevoli - e questa
pluralità è sempre un aspetto della cultura di un regime libero e democratico - possa far propria.
L’intenzione non è né quella di sostituire tali visioni comprensive né quella di dar loro un
fondamento vero.» (Rawls 1993, 7) Quindi, “dobbiamo vedere l’unità sociale come il risultato di un
consenso per intersezione intorno a una concezione politica della giustizia” fondata sull’idea di una
struttura di base, cioè il complesso di istituzioni “politiche, sociali ed economiche di una società e il
modo in cui esse si combinano in un sistema unificato di cooperazione sociale esteso da una
generazione all’altra… quindi stabile”.
3.6.3. nel consenso per intersezione prende forma una particolare relazione tra ragione e
ragionevolezza e vengono messi in risalto l’autonomia, il valore e la centralità politica del
ragionevole. Rawls esprime nettamente il proprio dissenso nel confronti del progetto di far
discendere la ragionevolezza dalla ragione: «Secondo questi pensatori, se è possibile derivare il
ragionevole dal razionale, ovvero principi di giustizia ben definiti dalle preferenze, dalle decisioni o
dagli accordi di agenti puramente razionali in circostanze opportunamente specificate, si dà
finalmente al ragionevole un solido fondamento; e si risponde, inoltre, allo scettico morale.
La giustizia come equità respinge questa idea e non cerca di derivare il ragionevole dal razionale.
Un tentativo in questo senso potrebbe far pensare che il ragionevole non sia fondamentale e abbia
bisogno di un fondamento in un senso in cui il razionale non ne ha; ma all’interno dell’idea di equa
cooperazione il ragionevole e il razionale sono invece due nozioni complementari. […] Essendo
idee complementari, né il ragionevole né il razionale possono reggersi l’uno senza l’altro.» (Rawls
1993, 60) Due pericoli da evitare: la riduzione, la separazione: a) dedurre il ragionevole dal
razionale significa annullare il ragionevole, la sua specificità e funzione, quindi il contesto della sua
manovra, cioè l’intero ambito politico fondato sul rispetto sia del pluralismo che dell’armonia
sociale; b) escludere una cooperazione tra i due è rendere inapplicata la ragione e immotivata la
ragionevolezza. La cooperazione che qui prende forma è allora biunivoca: a) stare nella virtù
politica della ragionevolezza significa “farsene una ragione”, declinare secondo ragione la propria
ragionevolezza; b) ma è in atto anche il movimento contrario: farsene una ragione è portare la
ragionevolezza nella ragione, non per dedurre il ragionevole dalla ragione, al contrario per scoprire
spazi ignoti, incompletezze e incoerenze della ragione stessa poco attenta a quella complessità del
reale che solo la ragionevolezza è in grado di tenere in cura. Proprio da questo movimento
biunivoco deriva la possibilità di un consenso non basato (prevalentemente) sulla costrizione e
sull’obbligo, ma “per intersezione”, collocato sulla base dei principi e valori di ciascuno
opportunamente spinti all’apertura dalla ragionevolezza. Si tratta (per tornare al parallelo) del
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ragionamento che Locke svolge nella Lettera sulla tolleranza. Si guadagna con certezza il
comportamento delle Chiese alla tolleranza, liberandole dal dogmatismo fanatico, non quando lo
Stato interviene con i propri mezzi costrittivi imponendo il rispetto della tolleranza, ma quando la
Chiesa capisce che la tolleranza è l’essenza della vera religione; non è un obbligo esterno ma il
compito della sua missione e la ragione della sua fedeltà a Dio.
3.6.4. Ragionevolezza, consenso per intersezione (rilettura delle teorie politiche che pongono un
contratto di società all’origine dello Stato) presuppongono il principio della neutralità pubblica. È
un principio evidente nella avvertenza preliminare e centrale con cui Rawls ricorda come non il
bene ma la giustizia (e giustizia politica come equità) costituiscono la ragion d’essere dello Stato.
«Sul piano teorico questa idea è stata presa in considerazione soprattutto dal liberalismo politico
contemporaneo. Il filosofo americano John Rawls ha posto per primo i termini del dibattito nel 1971
nella sua Teoria della giustizia e poi nel 1993 in Liberalismo politico. […] Per Rawls la
giustificazione del suo sistema dei principi della giustizia passa attraverso una rielaborazione delle
teorie tradizionali del contratto sociale. […] Da questo punto di vista Rawls si pone quindi nella
tradizione delle teorie liberali, che spesso ci propongono di immaginare uno «stato di natura» a
partire dal quale si può pensare — senza tener conto delle circostanze, dei tempi e dei luoghi —
l’organizzazione politica ideale e stabile della società.
Hobbes, Locke o Rousseau si chiedevano quale tipo di contratto gli individui avrebbero concluso se
si fossero trovati in uno stato di natura. Il presupposto era — ed è ancora con Rawls — che
attraverso l’individuazione dei termini del contratto saremmo portati a definire i diritti e gli obblighi
degli individui, così come i limiti dell’autorità legittima dello stato. Rawls non si pone tuttavia
come semplice erede di questa tradizione, ma vuole perfezionarla.
Ciò si avverte innanzi tutto nel passaggio dalla tematica dello stato di natura a quella della
«posizione originaria». Rawls abbandona il linguaggio della natura per fare della nozione di
contratto un esplicito strumento di riflessione sulle implicazioni di alcune convinzioni morali. Così
il filosofo americano cerca di distinguere le implicazioni politiche dall’idea di uguaglianza morale
fra gli individui: «Gli uomini nascono liberi e uguali», non è il contratto sociale che ci dà questa
convinzione. Ma è questa convinzione che ci orienta verso la nozione di contratto come principio
dell’ordine politico.» (Savidan Patrick 2009 Il multiculturalismo, il Mulino, Bologna 2010, 56-58
passim)
3.6.5. Ragionevolezza, consenso per intersezione e laicità dello Stato.
[Nell’ambito di un confronto tra John Rawls e Jürgen Habermas] Il liberalismo politico e la sua
laicità, intesa come indipendenza da dottrine e tesi religiose sia da visioni complessive, ideologiche
e filosofiche, dell’uomo, della storia, della natura… In senso più ampio il liberalismo politico attua,
rispetta e difende la laicità della politica, e c’è una relazione stretta tra la laicità della politica e la
sua autonomia.
La posizione di Rawls è ribadita con chiarezza nell’edizione del 2005 Liberalismo politico. Nuova
edizione ampliata, in occasione di un confronto con le osservazioni espresse da Jürgen Habermas
sulle tesi di Rawls (si tratta del penultimo capitolo (Lezione IX) Risposta a Habermas). Il confronto
coinvolge più temi: 1. la precisazione del diverso punto di partenza, fondamento, ambito e sviluppo
delle due teorie; 2. la definizione del luogo specifico e riservato del politico come caratteristica
propria della teoria liberale, del liberalismo politico e della sua laicità intesa, tale laicità, sia in senso
religioso che in senso ideologico; 3. se vi è relazione tra le concezioni politiche, espresse in
autonomia, e le dottrine filosofiche o le ideologie di carattere comprensivo o complessivo circolanti
in moltitudine nelle società che si caratterizzano per un pluralismo dottrinale insopprimibile e
irrinunciabile, questa relazione avviene correttamente nel consenso per intersezione, espresso dalle
molte ideologie o dottrine comprensive, nei confronti delle regole politiche o delle decisioni
politiche democraticamente adottate; la ripercussione di un simile consenso espresso per
intersezione è la condivisione delle regole democratiche politiche da parte delle varie posizione
ideologiche a partire dalle proprie posizioni e sulla base della ragionevolezza che rende possibile il
vivere sociale e la sua armonia; dal consenso per intersezione non deriva una giustificazione del
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politico (in senso strettamente politico o avente valore giuridico), che gode di una piena autonomia
e di propri criteri di legittimazione, ma deriva una partecipazione convinta, culturalmente anche
giustificata o considerata ragionevole e non costrittiva del cittadino al vivere sociale, quindi una
partecipazione molto più convinta e propositiva di quella che può derivare dal solo senso
dell’obbligo, dalla costrizione e dalla minaccia penale. Sono qui in opera i concetti di
ragionevolezza e di consenso per intersezione da parte di dottrine complessive (comprensive).
[N.B. qui la parola complessive va intesa, credo, come sinonimo o equivalente a comprensivo]
3.6.5.1. [ad 1.] «… l’artificio espositivo utilizzato da Habermas è la situazione discorsiva ideale
inclusa nella sua teoria dell’agire comunicativo e il mio è la posizione originaria.» (Rawls 2005,
341)
«… le differenze tra i due artifici espositivi analitici — la situazione discorsiva ideale e la posizione
originaria — riflettono la diversità dei contesti in cui si collocano i due artifici stessi, l’uno
all’interno di una dottrina complessiva, l’altro nell’ambito limitato del politico. » (Rawls 2005, 348)
3.6.5.2. [ad 2.] «Considero il liberalismo politico una dottrina che rientra nella categoria del
politico. Funziona interamente all’interno di quell’ambito e non poggia su alcunché di esterno. La
concezione più familiare della filosofia politica presenta i suoi concetti, principi e ideali, e altri
elementi, come conseguenze di dottrine complessive, religiose, metafisiche e morali. Per contro, la
filosofia politica, come è intesa all’interno del liberalismo politico, consiste in gran parte di diverse
concezioni politiche del giusto e della giustizia considerate come concezioni autonome
(freestanding). Così mentre naturalmente il liberalismo politico è liberale, alcune concezioni
politiche del giusto e della giustizia che appartengono alla filosofia politica possono essere
conservatrici o radicali; possono appartenere alla filosofia politica anche concezioni del diritto
divino dei re, o persino della dittatura. […] L’idea centrale è che il liberalismo politico si muove
all’interno della categoria del politico e lascia la filosofia così come la trova. Non comporta
conseguenze per nessun tipo di dottrine religiose, metafisiche e morali ciascuna con la sua lunga
tradizione di sviluppo e interpretazione. La filosofia politica opera indipendentemente da tutte le
dottrine del genere, e si presenta come autonoma. Quindi non può giustificarsi né invocando
nessuna delle dottrine complessive, né criticandole, né rigettandole — fintanto che, naturalmente,
queste dottrine sono ragionevoli da un punto di vista politico.» (Rawls 2005, 341-343)
«Nel liberalismo politico la concezione filosofica della persona è sostituita dalla concezione politica
dei cittadini come liberi ed eguali.» (Rawls 2005, 347)
«Indirizzandosi, come ogni altra dottrina democratica, a questo pubblico di cittadini raccolti nella
società civile la giustizia come equità esplicita varie concezioni politiche fondamentali — quella
della società come equo sistema di cooperazione, quella dei cittadini come liberi ed eguali e quella
di una società bene ordinata — e poi spera di combinarle in una ragionevole e completa concezione
politica della giustizia che valga per la struttura di base di una democrazia costituzionale. Questo è
il suo scopo principale: essere presentata e compresa dal pubblico della società civile affinché venga
presa in esame. Il criterio generale del ragionevole è l’equilibrio riflessivo generale e ampio;
mentre, come abbiamo visto, nella concezione habermasiana il test della verità o validità morale è
l’accettazione pienamente razionale all’interno della situazione discorsiva ideale, quando tutti i
requisiti sono soddisfatti. » (Rawls 2005, 351)
3.6.5.3. [ad 3.] «… il cittadino accetta una concezione politica e ne formula la giustificazione
inserendo in qualche modo tale concezione nella propria dottrina complessiva intesa come vera o
ragionevole, a seconda di ciò che la dottrina consente. È dunque prerogativa di ciascun cittadino,
considerato come singolo o insieme ad altri con cui si associa, lo stabilire quale peso si debba
attribuire alle ragioni della giustizia politica rispetto ai valori non politici. […] [in situazione
ideale:] La giustificazione pubblica ha luogo quando tutti i membri ragionevoli della società politica
elaborano una giustificazione della concezione politica condivisa inserendola all’interno delle loro
diverse concezioni complessive ragionevoli. […] La concezione politica della giustizia intrattenuta
dalla società politica può essere giustificata pubblicamente, sebbene mai in modo conclusivo, solo
quando esiste un ragionevole consenso per intersezione. […] In una società democratica
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contraddistinta dal pluralismo ragionevole, la giustificazione pubblica comporta anche il mostrare
che la stabilità per le giuste ragioni è almeno possibile. Il motivo è che quando i cittadini
sostengono dottrine complessive ragionevoli benché diverse, il verificare la possibilità di un
consenso per intersezione intorno alla concezione politica diventa un modo di verificare se esistono
ragioni sufficienti per proporre la giustizia come equità (o qualche altra dottrina ragionevole), le
quali possono essere sinceramente difese davanti agli altri senza con ciò criticare o rifiutare i loro
più profondi convincimenti religiosi e filosofici.» (Rawls 2005, 353-356).
3.7. I due principi di giustizia
«Quando si delinea la concezione della giustizia come equità, uno degli obiettivi principali è quello
di determinare con chiarezza quali principi di giustizia verrebbero scelti nella posizione originaria. »
(Rawls 1971, 35)
«Affermo invece che le persone nella situazione iniziale sceglierebbero due principi piuttosto
differenti: il primo richiede l’eguaglianza nell’assegnazione dei diritti e dei doveri fondamentali, il
secondo sostiene che le ineguaglianze economiche e sociali, come quelle di ricchezza e di potere,
sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ciascuno, e in particolare per i membri
meno avvantaggiati della società. Questi principi escludono la possibilità di giustificare le
istituzioni in base al fatto che i sacrifici di alcuni sono compensati da un maggior bene aggregato. Il
fatto che alcuni abbiano meno affinché altri prosperino può essere utile, ma non è giusto. Invece i
maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un’ingiustizia, a condizione che anche la
situazione delle persone meno fortunate migliori in questo modo.» (Rawls 1971, 35-36; principi
richiamati e riformulati a p. 49,76, 247, 293-294)
«La prima enunciazione dei due principi è la seguente.
Primo: Ogni persona ha un eguale diritto al più esteso schema di eguali libertà fondamentali
compatibilmente con un simile schema di libertà per gli altri;
Secondo: le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere combinate in modo da essere (a)
ragionevolmente previste a vantaggio di ciascuno; (b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti. »
(Rawls 1971, 76) Alcune considerazioni e sviluppi sui due principi.
3.7.1. L’eguaglianza delle opportunità si realizza e si rispetta solo considerando le differenze (di
partenza, in situazioni reali). «L’eguaglianza democratica e il principio di differenza.
L’interpretazione democratica si ottiene… combinando il principio dell’equa eguaglianza di
opportunità con il principio di differenza. Quest’ultimo elimina l’indeterminatezza del principio di
efficienza, identificando una particolare posizione dalla quale devono essere giudicate le
ineguaglianze economiche e sociali della struttura di base. Se assumiamo come data la struttura
delle istituzioni richiesta dall’eguale libertà e dall'equa eguaglianza di opportunità, le aspettative di
coloro che sono in una situazione migliore sono giuste se e solo se funzionano come parte di uno
schema che migliora le aspettative dei membri meno avvantaggiati della società. L’idea intuitiva è
che l’ordine sociale non deve determinare e garantire le prospettive più attraenti di quelli che stanno
meglio, a meno che ciò non vada anche a vantaggio dei memo fortunati. » (Rawls 1971, 114)
3.7.2. il principio della differenza e l’interpretazione del principio di fraternità; come comporre
interessi, differenze e “amicalità civica”. «Un altro merito del principio di differenza è quello di
fornire un'interpretazione del principio di fraternità. Nel confronto con quelle di libertà e di
eguaglianza, l’idea di fraternità ha sempre avuto un ruolo secondario nella teoria della democrazia.
La si pensa come un concetto meno specificamente politico degli altri, poiché non definisce di per
sé alcuno dei diritti democratici, ma include certi atteggiamenti mentali e certe linee di condotta
senza le quali perderemmo di vista i valori espressi da questi diritti. Oppure, non diversamente, si
crede che la fraternità rappresenti una certa eguaglianza di stima sociale, evidente in varie
convenzioni pubbliche e nella mancanza di comportamenti deferenti o servili. Senza dubbio la
fraternità implica tutte queste cose, cui va aggiunto il senso della amicalità civica e della solidarietà
sociale; ma, se intesa in questo modo, non esprime alcun requisito definito. Dobbiamo ancora
trovare un principio di giustizia che renda fedelmente l’idea sottostante. Nondimeno, il principio di
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differenza sembra corrispondere al significato naturale della fraternità; cioè, all’idea di non
desiderare maggiori vantaggi, a meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno bene.
La famiglia, in termini ideali, ma spesso anche in pratica, è uno dei luoghi in cui il principio di
massimizzare la somma dei vantaggi è rifiutato. In generale, i membri di una famiglia non
desiderano avere dei vantaggi, a meno che ciò non promuova gli interessi dei membri restanti. Il
voler agire secondo il principio di differenza ha esattamente le stesse conseguenze. Coloro che si
trovano nelle condizioni migliori desiderano ottenere maggiori benefici soltanto all’interno di uno
schema in cui ciò va a vantaggio dei meno fortunati. In alcuni casi si pensa che l'ideale della
fraternità implichi legami affettivi e sentimenti che non è realistico attendersi dai membri di una
società più ampia. Questa è certo un'altra spiegazione del suo relativo abbandono da parte della
teoria della democrazia. Secondo molti, esso non ha uno spazio appropriato nei problemi politici.
Ma se viene interpretato in modo da includere il requisito del principio di differenza, allora non è
più una concezione impraticabile. Sembra che le istituzioni e le scelte politiche che consideriamo
giuste con maggior fiducia soddisfino le sue richieste, quantomeno nel senso che le ineguaglianze
da esse consentite contribuiscono al benessere dei meno favoriti. … Quindi, secondo questa
interpretazione, il principio di fraternità è uno standard perfettamente accettabile. Una volta
accettato, possiamo associare alle tradizionali idee di libertà, fraternità ed eguaglianza
l’interpretazione democratica dei due principi di giustizia nel modo che segue: la libertà corrisponde
al primo principio, l’eguaglianza all’idea di eguaglianza del primo principio unita all’eguaglianza di
equa opportunità, e la fraternità al principio di differenza. In questo modo abbiamo trovato uno
spazio per il concetto di fraternità all’interno dell’interpretazione democratica dei due principi, e
notiamo che essa impone una condizione definita alla struttura di base della società. Anche gli
aspetti della fraternità non vanno dimenticati, ma è il principio di differenza a esprimere il suo
significato principale dal punto di vista della giustizia sociale. » (Rawls 1971, 114-115)
3.7.3. I due principi di giustizia come equità e il recupero del valore della fraternità impongono un
radicale ripensamento del modello di sviluppo e di crescita cui sembra consegnarsi il progresso
nella società che mirano economicamente ad una produzione dai profitti in perenne incremento. «I
beni primari sociali come base delle aspettative» (Rawls 1971, 101) e non l’idea di un progresso
senza limiti, ad oltranza, fonte di diseguaglianze crescenti (qui il tema della decrescita).
«L’argomento per i due principi di giustizia non assume che le parti abbiano fini particolari, ma
soltanto che desiderino certi beni primari. Questi ultimi sono cose che è razionale volere, qualunque
altra cosa si desideri.» (Rawls 1971, 250) « … la società potrebbe verosimilmente preoccuparsi
sempre più di aumentare la produttività e migliorare l’efficienza economica. E questi obiettivi
potrebbero diventare dominanti al punto da rendere incerta la priorità della libertà. […] Non
esistono … forti tendenze che li inducono a ridurre le proprie libertà a vantaggio di un maggior
benessere economico, assoluto o relativo. » (Rawls 1971, 509- 510) In Giustizia come equità Rawls
torna sull’ipotesi dell’arresto della crescita economica (che non è né regresso, né negazione dello
sviluppo) come condizione di libertà e di giustizia [il tema verrà ripreso qui tra le questioni aperte e
proposte; 4.2.].
3.8. Il bene e il giusto (e il problema della loro natura formale e una questione di priorità).
Non il bene ma la giustizia: è questa la competenza della politica.
Nell’introduzione all’opera di Rawls John 1993 Liberalismo politico (Edizioni di Comunità, Torino
1999) Salvatore Veca osserva: «La priorità del giusto sul bene resta un punto fermo per la teoria
della giustizia nell’ambito del politico. Tuttavia, essa deve essere rispondente alla varietà dei valori
e degli ideali, alle differenti concezioni del bene che uomini e donne non aspirano semplicemente a
vedere riconosciute, quanto a vedere riconosciute come egualmente degne di essere riconosciute. »
(Rawls 1993, p.X)
3.8.01. La Repubblica di Platone, dialogo in cui espone il progetto politico della sua filosofia, è
dominata in prospettiva dalla ricerca del bene; ricerca che, nel corso del dialogo, né altrove, non
giunge a buon fine; il bene non trova alcuna definizione. Ciò che resta è la definizione di giustizia
22
non presentata come una nozione in sé e in astratto ma presentata attraverso la costruzione dello
stato giusto. Rawls si inserisce in questa tradizione ma riprende il tema dichiarando da subito come
non sia compito della politica definire cosa sia il bene ma presentare la giustizia. (Se si vuole porre
in relazione bene e giusto in campo politico, per prevenire equivoci, si può dire che il bene dello
Stato è la giustizia; in questo il dialogo di Platone è in piano accordo: è dominato dall’idea del bene
ma è impostato sulla ricerca della giustizia, che si traduce immediatamente nella costruzione dello
Stato giusto). «…il problema del liberalismo, come ho già detto, è: come può esistere
continuativamente nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente
divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli? È un problema di giustizia politica, non
un problema che riguardi il sommo bene.» (Rawls 1993, 13)
3.8.02. una precisazione e avvertenza preliminare (a sostegno della tesi di Rawls) sulla distinzione
separazione tra il bene e il giusto o, in altri termini, tra valori e politica (nella distinzione tra società
e politica). «Stiamo parlando della varie teorie formali del diritto. In questo caso il primato nella
produzione dei valori spetta in genere alla «società civile», mentre la sfera pubblica si limita (o si
dovrebbe limitare) a organizzare i rapporti entro quadri regolamentari…» (Pombeni Paolo 2010 La
ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa contemporanea, il Mulino Bologna, 549)
La distinzione politica e valori non significa che la politica ne sia priva (anche se talora e magari
frequentemente capita) ma che non ne è di per sé (per se stessa) fonte. Ne è garante e può esserne
anche fonte ma solo in quanto parte ed espressione della società civile che la pone ad esistenza in
forza di un contratto sociale.
3.8.03. Preliminarmente si può accettare la seguente distinzione: sistema totalitario = priorità del
bene sul giusto; sistema democratico = priorità del giusto sul bene. Qui la logica è: la politica (lo
Stato) non dice (impone) quale è il bene, ma ti mette ognuno nelle condizioni ragionevoli di poter
realizzare il bene razionalmente concepito, sulla base dei due principi di giustizia. Il politico è
dunque garanzia del giusto, della giustizia.
3.8.1. Priorità del giusto e idee del bene (da Rawls, 1993, Liberalesimo politico, Lezione V)
«L’idea di priorità del giusto è un elemento essenziale di quello che ho chiamato «liberalismo
politico» e ha un ruolo centrale nella giustizia come equità in quanto forma, appunto, di liberalismo
politico. Tale priorità può essere fonte di equivoci; si potrebbe pensare, per esempio, che implichi
che una concezione politica liberale della giustizia non possa usare alcuna idea del bene, tranne
forse quelle di natura puramente strumentale, oppure quelle che dipendono da gusti e scelte
personali. Questo non può essere vero, perché il giusto e il bene sono complementari; una
concezione della giustizia non potrà mai valersi esclusivamente dell’uno o dell’altro, ma li dovrà
combinare insieme in un modo ben definito - e la priorità del giusto non lo nega.» (Rawls 1993,155)
Precisazioni e distinzioni [1.] una distinzione basilare «fra concezione politica della giustizia e
dottrina comprensiva - religiosa, filosofica o morale»; [2.] «una concezione politica deve utilizzare
varie idee del bene - e a questo punto dobbiamo chiederci sotto quali restrizioni possa farlo il
liberalismo politico. La restrizione più importante sembra essere quella che le idee del bene prese in
considerazione siano idee politiche, ovvero che appartengano a una concezione politica della
giustizia ragionevole, così che si possa assumere a. che siano o possano essere condivise da cittadini
considerati liberi e uguali, e b. che non presuppongano alcuna particolare dottrina pienamente (o
parzialmente) comprensiva. Nella giustizia come equità questa restrizione è espressa dalla priorità
del giusto; nella sua accezione più generale tale priorità dice che le idee del bene ammissibili
devono rispettare i limiti della concezione politica della giustizia e svolgere un ruolo al suo
interno.» (Rawls 1993,157)
3.8.1.1. bene e giusto concetti generali dell’etica.
«I due concetti principali dell’etica sono quelli di giusto e di bene; credo che il concetto di persona
moralmente degna sia derivato da essi. La struttura di una teoria etica è perciò determinata in larga
misura dal modo in cui definisce e mette in relazione queste due nozioni fondamentali. Ora, sembra
che il modo più semplice di far ciò sia quello delle teorie teleologiche; il bene è definito
indipendentemente dal giusto, e il giusto è successivamente definito come ciò che massimizza il
23
bene. Più precisamente, sono giusti quegli atti e istituzioni che in un insieme di alternative
disponibili ottengono il maggior bene, o che almeno ne ottengono tanto quanto qualunque altro atto
o istituzione che sia dato come possibilità reale (una clausola che è necessaria quando la classe
massimale non è composta da un solo membro). » (Rawls 1971, 44)
3.8.1.2. bene e giusto concetti generali della politica: i concetti vanno distinti; il rapporto va
ribaltato e occorre ridefinire la loro relazione. «Secondo molti filosofi, e ciò sembra confermato
anche dalle convinzioni del senso comune, noi distinguiamo in linea di principio tra le pretese di
libertà e di giustizia da una parte, e la desiderabilità di aumentare il benessere sociale aggregato
dall’altra. Si ritiene che ogni membro della società possieda un’inviolabilità fondata sulla giustizia,
o come dicono alcuni, sul diritto naturale, sulla quale il benessere di qualunque altro individuo non
può prevalere. La giustizia nega la possibilità che la perdita di libertà per qualcuno sia giustificata
da un maggior bene condiviso da altri. » (Rawls 1971, 47) «… nella giustizia come equità il
concetto di giusto è prioritario rispetto a quello di bene. » (Rawls 1971, 377-378) e se il bene può
rivendicare una priorità è perché è ricondotto dal giusto alla sua condizione formale: “il bene come
razionalità” capitolo VII; “il bene della giustizia” capitolo IX.
3.8.1.3. La priorità della giustizia sul bene è la condizione di uno stato laico, liberale, democratico,
pluralistico e tollerante; se vi è un rapporto tra bene e giusto va inteso in senso ribaltato nei
confronti di quanto sostengono teorie teleologiche: il giusto è il massimo bene sociale di contro
all’impostazione che afferma che la definizione e la concezione del bene decidono di ciò che è
giusto o no. Nella società non il bene decide del giusto, ma il giusto definisce il bene dello stato e
permette la realizzazione (una realizzazione consensuale su basi razionali) e condivisione sociale
del bene. Tale ribaltamento è attribuibile allo stesso Platone che, nella Repubblica, avviata la ricerca
della definizione di bene, abbandona l’obiettivo e finisce per dedicarsi alla costruzione di uno stato
giusto o dello Stato come luogo, naturale e unico, della giustizia, se pensato in condizioni ideali e
non consegnato a strategie manipolative di carattere demagogico.
3.8.2. La giustizia dello stato non è morale, ma politica. Allo stato (alla società come corpo
collettivo) non compete la definizione di bene (in senso etico), che resta compito, diritto, fine e
risultato della libertà individuale, ma la definizione di quelle regole che, condivise, permettono al
cittadino la libertà e quindi il pieno esercizio del proprio agire morale. Se di bene si vuole parlare in
campo politico, valgono le precisazioni sopra riportate; una nozione di bene universalmente
compatibile. «Innanzitutto i cittadini sono liberi in quanto riconoscono a se stessi, e si riconoscono
reciprocamente, il potere morale di concepire il bene. Ciò non significa che faccia parte della loro
concezione politica il considerarsi inevitabilmente vincolati al perseguimento di quella particolare
concezione del bene che, in un qualsiasi momento dato, sostengono; significa piuttosto che, in
quanto cittadini, sono considerati capaci di rivedere e modificare questa concezione per motivi
ragionevoli e razionali, e possono farlo se lo desiderano. In quanto persone libere, i cittadini
rivendicano il diritto di considerare la propria persona indipendente da ognuna di queste concezioni
particolari, col suo sistema di fini ultimi, e non identificabile con essa. Poiché possiedono il potere
morale di formare, rivedere e perseguire razionalmente una concezione del bene, la loro identità
pubblica di persone libere non risente del fatto che la loro particolare concezione del bene cambi
nel tempo. … i cittadini si considerano liberi sta nel vedere se stessi come fonti autoautenticanti di
rivendicazioni valide … i cittadini sono considerati liberi [perché] sono considerati capaci di
assumersi la responsabilità dei propri fini.» (Rawls 1993, p. 42-43, 44,45) L’ipotetico spazio
politico per l’idea di bene: «le idee del bene possono essere introdotte liberamente, se necessario,
per integrare la concezione politica della giustizia: ma solo finché sono idee politiche, vale a dire
finché appartengono a una concezione politica ragionevole della giustizia (per un regime
costituzionale). Questo ci permette, infatti, di assumere che siano condivise dai cittadini e non
dipendano da una particolare dottrina comprensiva. Poiché gli ideali associati alle virtù politiche
sono legati ai principi della giustizia politica e alle forme di giudizio e condotta indispensabili per
un’equa cooperazione sociale che duri nel tempo, tali ideali e virtù sono compatibili con il
liberalismo politico; caratterizzano l’ideale del buon cittadino di uno stato democratico (cioè un
24
ruolo specificato dalle istituzioni politiche di quest’ultimo). Perciò le virtù politiche vanno distinte
dalle virtù che caratterizzano modi di vita appartenenti a dottrine religiose e filosofiche
comprensive, da quelle che ricadono sotto vari ideali associativi (gli ideali delle chiese e delle
università, delle occupazioni e delle vocazioni, dei circoli e delle squadre sportive) e da quelle che
si addicono ai ruoli familiari e ai rapporti personali. […] Supponiamo che una certa religione, e
quindi la concezione del bene che le appartiene, possa sopravvivere solo se controlla la macchina
dello stato ed è in grado di praticare efficacemente l’intolleranza; nella società bene ordinata del
liberalismo politico questa religione cesserà di esistere.» (Rawls 1993,170, 171)
3.8.3. quindi: la natura formale del giusto e, poi, la natura formale del bene [3.8.4.] «I vincoli
formali del concetto di giusto» (Rawls 1971, 136 titolo di paragrafo)
«L’appropriatezza delle condizioni formali deriva dal ruolo che hanno i principi del giusto nel
trattare le pretese che le persone avanzano reciprocamente nei confronti delle istituzioni. » (Rawls
1971, 137) [viene ribadita la natura formale del giusto e in esso del bene nella definizione
programmatica socratica: “Il bene come razionalità”, titolo del cap. VII, primo capitolo della terza
parte: FINI; e platonica: “Il bene della giustizia”, titolo del capitolo IX e ultimo].
3.8.3.1. Segue, nel testo di Rawls, la presentazione delle caratteristiche delle condizioni formali allo
scopo di garantirne l’adeguatezza: devono essere 1. generali, 2. universali per l’applicazione
(distingui generali da universali: possono valere per una intera classe sociale, sono allora generali
ma non universali), 3. dotati di pubblicità (essere noti), 4. impongono un ordinamento alle pretese
conflittuali, 5. avere carattere definitivo (137-141) In sintesi: «Se consideriamo complessivamente
queste condizioni e le concezioni del giusto, abbiamo il seguente risultato: una concezione del
giusto è un insieme di principi di forma generale e di applicazione universale, che devono essere
collettivamente riconosciuti come corte d'appello definitiva per imporre un ordinamento alle pretese
conflittuali di persone morali. I principi di giustizia vengono identificati in base al loro ruolo
particolare e alla materia cui si applicano. Di per sé, le cinque condizioni non escludono alcuna
delle tradizionali concezioni della giustizia. Occorre invece osservare che eliminano tutte le varianti
elencate dell’egoismo. » (Rawls 1971, 141) Si tratta di una «…giustizia procedurale pura come base
della teoria. » (Rawls 1971, 142)
3.8.3.2. «Per esporre in dettaglio il significato della priorità del giusto, enunciata in questa forma
generale, considererò come le condizioni a-b siano soddisfatte da cinque idee del bene presenti nella
giustizia come equità. Queste idee sono, nell’ordine in cui verranno discusse, a) l’idea della bontà
come razionalità, b) l’idea dei beni primari, c) l’idea delle concezioni comprensive del bene
ammissibili (che sono quelle associate alle dottrine comprensive), d) l’idea delle virtù politiche, e)
l’idea del bene di una società (politica) bene ordinata.» (Rawls 1993, 157) Il criterio da rispettare è
il seguente: il bene della società politica deve essere definito «restando completamente all’interno
della concezione politica.» (Rawls 1993, 174) Il motivo: «Poiché non esiste una dottrina religiosa,
filosofica o morale ragionevole affermata da tutti i cittadini, la concezione della giustizia affermata
in una società democratica bene ordinata deve essere limitata a quello che chiamerò «ambito del
politico» e ai suoi valori; e l’idea di società democratica bene ordinata va costruita tenendo conto di
questo.» (Rawls 1993, 23)
3.8.4. la natura formale del bene. «La definizione del bene è puramente formale. Afferma
semplicemente che il bene di una persona è determinato dal piano razionale di vita che essa
sceglierebbe con razionalità deliberativa nella classe massimale di piani. Sebbene la nozione di
razionalità deliberativa e i principi di scelta razionale dipendano da concetti di considerevole
complessità, tuttavia non possiamo ricavare dalla sola definizione di piani razionali quale sia il
genere di obiettivi che è probabile che questi piani debbano favorire. Allo scopo di raggiungere
delle conclusioni riguardo a questi obiettivi, è necessario fare attenzione a certi fatti generali. In
primo luogo, ci sono le caratteristiche generali dei desideri e dei bisogni umani, la loro relativa
urgenza e il loro andamento ciclico, e le loro fasi di sviluppo influenzate da circostanze fisiologiche
e di altro genere. In secondo luogo, i piani devono corrispondere alle esigenze delle capacità e
abilità umane, al loro corso di maturazione e crescita, e al modo in cui sono meglio esercitate e
25
coltivate per questo o quello scopo. Terzo, postulerò un principio fondamentale di motivazione che
chiamerò principio aristotelico. Infine, dobbiamo fare i conti con i fatti generali della
interdipendenza sociale. La struttura di base della società è destinata a favorire e a sostenere certi
generi di piani piuttosto che altri, remunerando i suoi membri per il loro contributo al bene comune
in modi conformi alla giustizia » (Rawls 1971, 403)
3.8.4.1. «… il principio aristotelico dice quanto segue: a parità di condizioni, gli esseri umani
provano piacere nell’esercitare le loro capacità effettive (le loro doti innate o acquisite), e il loro
piacere aumenta via via che la capacità si realizza o cresce la sua complessità. L’idea intuitiva qui
esposta è che gli esseri umani provano maggior piacere nel fare una cosa quando aumenta la loro
competenza nel farla, e di due attività che svolgono ugualmente bene essi preferiscono quella che si
avvale di un più ampio repertorio di distinzioni più sottili e complesse. Gli scacchi, per esempio,
sono un gioco più complesso e raffinato della dama, e l’algebra è più complicata dell’aritmetica
elementare. Quindi il principio afferma che una persona che li conosce entrambi generalmente
preferisce giocare a scacchi che a dama, e che studierà l'algebra piuttosto che l'aritmetica. Non c'è
bisogno di spiegare perché il principio aristotelico sia vero. Probabilmente le attività complesse
sono più piacevoli perché soddisfano il desiderio di esperienze nuove e diverse, e lasciano spazio
all'ingegnosità e all’inventiva. Evocano anche il piacere dell’anticipazione e della sorpresa, e spesso
la configurazione complessiva dell’attività, il suo sviluppo strutturale, è bella e affascinante. Le
attività più elementari, inoltre, escludono la possibilità di stile individuale e di espressione personale
che le attività complesse consentono o addirittura richiedono; perché come potremmo farle tutti
nello stesso modo? Sembra inevitabile che seguiamo la nostra inclinazione personale e le lezioni
della nostra esperienza precedente se dobbiamo davvero trovare la nostra strada. Ciascuna di queste
caratteristiche è ben illustrata dal gioco degli scacchi e anche dal fatto che i grandi campioni hanno
un loro caratteristico stile di gioco.» (Rawls 1971,403- 405) È un principio che indica e spiega
l’evoluzione nel tempo di capacità, attività, impegno, progetti, decisioni da parte del singolo
individuo e rende indefinibile, quindi formale, la sua concezione di bene. «Il criterio formale è che
un individuo razionale seleziona uno schema preferito di attività (compatibili con il principio di
giustizia) e avanza lungo ciascuna delle sue catene fino al punto in cui nessun miglioramento
ulteriore risulta da un qualunque cambiamento attuabile nel programma. Questo standard globale
non ci dice, naturalmente, come decidere; rileva piuttosto le limitate risorse di tempo ed energie, e
spiega perché certe attività vengono trascurate a favore di altre anche se, nella forma in cui si
intraprendono, consentono ulteriori elaborazioni. » (Rawls 1971, 409) «Un secondo contrasto
esistente tra il giusto e il bene è che è buona cosa, in generale, che le concezioni che gli individui
hanno del loro bene differiscano tra loro in maniera significativa, mentre non così per le concezioni
di giusto. » (Rawls 1971, 424) «La terza differenza esistente è che numerose applicazioni dei
principi di giustizia sono limitate dal velo di ignoranza, laddove la valutazione del bene di una
persona può avvalersi di una completa conoscenza dei fatti. » (Rawls 1971, 425)
3.8.5. singolo e società: dalla chiarificazione della natura formale del giusto e del bene e dalla
gestione del rapporto tra bene e giusto dipende sia la diversità tra le teorie politiche sia la
definizione del rapporto tra singolo e società. «… la teoria della giustizia presuppone una teoria del
bene ma, entro limiti ampi, ciò non pregiudica la scelta del tipo di persone che gli individui
vogliono essere. » (Rawls 1971, 257)
3.8.5.1. le teorie utilitaristiche sono impostate metodologicamente sulla estensione del singolo, dalla
persona individuale, allo stato, al principio sociale. «Il principio di scelta per un’associazione di
uomini è interpretato come un’estensione del principio di scelta per un singolo uomo. […] Il
metodo più naturale per giungere all’utilitarismo … è quello di adottare per la società nel suo
complesso il principio della scelta razionale per un solo uomo. » (Rawls 1971, 43-46); se il singolo
ricerca il massimo utile per sé, la società ne trae beneficio e benessere; in questo contesto il
principio del bene, del bene e del benessere individuale prevalgono sul giusto, lo produrrebbero
automaticamente, con “mano invisibile”; con una immagine fornita da Rawls: «allo stesso modo in
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cui, viaggiando sull’autostrada, ha la propria destinazione. » (Rawls 1971, 490); viaggiano insieme
ma si ignorano, ognuno ha la propria “strada”, direzione, meta.
3.8.5.2. l’estensione della logica individuale al campo sociale, come avviene nel caso citato delle
tesi utilitaristiche, è una analogia che a) ignora la conflittualità, la nega in partenza, la consegna ad
un concetto di armonia prestabilita con tutti i presupposti umani (simpatia) e divini (astuzia della
ragione); b) impedisce di cogliere la specificità del sociale, la sua non riducibilità alla semplice
somma materiale degli individui; c) impone un criterio irraggiungibile di massimizzazione
distruttivo per il benessere sociale e privo di giustizia. «Il problema di raggiungere il massimo
saldo netto possibile di utilità non si pone mai per la giustizia come equità; questo principio di
massimizzazione non viene mai usato. » (Rawls 1971, 49 ); d) non tiene conto del fatto che nel
passaggio dall’individuo al sociale si passa da un principio direttivo ad un altro: dal bene al giusto
(ricorda Platone: non esiste una giustizia privata). Quindi, di nuovo, afferma perentoriamente
Rawls: «La priorità del giusto rispetto al bene, all’interno della giustizia come equità, risulta essere
una delle caratteristiche centrali di questa concezione.» (Rawls 1971, 50)
3.8.6. la questione della priorità tra principi nell’ambito della giustizia come equità.
Il problema: «Occorre riconoscere la possibilità che non esista un modo per andare al di là di una
pluralità di principi. … se gli uomini valutano diversamente i propri principi ultimi, come spesso
presumibilmente accade, allora sono differenti anche le loro concezioni della giustizia. Una
valutazione comparativa è una parte essenziale e non secondaria di una concezione della giustizia. »
(Rawls 1971, 59-60) In sintesi: la pluralità di principi pone il problema di una priorità interna dalla
quale derivano diverse concezioni della giustizia sociale; più che una definizione stabile della
priorità si richiede un giudizio ponderato sulla loro sequenza, facendo affidamento sulla intuizione e
sul ragionamento, strategie per un «equilibrio riflessivo» (Rawls 1971, 65) [sul tema § 46 Altri casi
di priorità, 290-294]
3.9. I fini della teoria della giustizia come equità e la definizione di società di socievolezza.
Come un manifesto.
«Dovremmo considerare una teoria della giustizia come una struttura orientativa il cui scopo è di
mettere in risalto la nostra sensibilità morale, così come quello di proporre alle nostre capacità
intuitive una materia di giudizio più circoscritta e comprensibile. I principi di giustizia classificano
certe considerazioni come moralmente rilevanti, e le regole di priorità prescrivono il corretto ordine
in caso di contrasto tra di loro, mentre la concezione della posizione originaria definisce l’idea
sottostante che caratterizza le nostre decisioni. Se questo schema nel suo complesso sembra chiarire
e mettere ordine nei nostri pensieri, e se tende a ridurre la misura del disaccordo, uniformando
convinzioni eterogenee, allora ha fatto tutto ciò che ci si poteva ragionevolmente aspettare da esso.
Le numerose semplificazioni proposte possono essere giustificate in via provvisoria, poiché
costituiscono gli elementi di una struttura che sembra essere efficace. » (Rawls 1971, 69) La
riflessione organica va giocata sulle tre componenti della morale: principi, regole, decisioni.
3.9.1. gli assetti giusti di una società contribuiscono al bene dei suoi membri, alla autonomia, alla
libertà, alla stabilità, alla fraternità (il capitolo conclusivo come bilancio e programma: IX Il bene
della giustizia, 482ss. Le pagine 49-52 e 490-497 si configurano come un manifesto programmatico
politico del volto di una società fondata sulla giustizia come equità).
«La socievolezza degli esseri umani non deve essere intesa in modo banale. Essa non implica
soltanto che la società è necessaria alla vita umana, o che grazie a una vita comunitaria si
acquisiscono bisogni e interessi che spingono a lavorare insieme per il vantaggio reciproco, in
determinati modi specifici consentiti e incoraggiati dalle loro istituzioni. Essa non è neppure
espressa dal truismo secondo cui la vita sociale è una condizione affinché si sviluppi la capacità di
pensare e di parlare e di prendere parte alle comuni attività sociali e culturali. Senza dubbio, anche i
concetti che impieghiamo per descrivere i nostri progetti e la nostra situazione, o per dare voce alle
nostre esigenze e agli scopi personali, spesso presuppongono tanto uno sfondo sociale quanto un
sistema di pensiero e di credenze che sia il risultato degli sforzi collettivi di una lunga tradizione.
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Questi fatti, certamente, non sono banali: ma usarli per caratterizzare i nostri legami reciproci
significa dare un’interpretazione banale della socievolezza umana. Queste cose, infatti, valgono
egualmente per tutte le persone che considerano i propri rapporti in modo puramente strumentale. Si
può vedere più facilmente la natura sociale dell’umanità se la si pone in contrasto con la concezione
della società privata. In questo modo gli esseri umani hanno effettivamente condiviso i propri scopi
finali, e valutano le proprie istituzioni e attività comuni come beni in se stessi. Abbiamo un
reciproco bisogno gli uni degli altri in quanto soci, per i modi di vita cui partecipiamo per il loro
valore intrinseco, e i successi e il godimento degli altri sono necessari e complementari per il nostro
stesso bene. Queste cose sono abbastanza evidenti, ma richiedono un’elaborazione ulteriore. Nella
discussione del bene come razionalità ci siamo familiarizzati con la conclusione che, di norma, i
piani razionali di vita provvedono allo sviluppo di almeno una delle capacità di una persona. Il
principio aristotelico si muove in questa direzione. Però, una delle caratteristiche degli esseri umani
è che nessuno può fare tutto ciò che potrebbe fare; a fortiori, nessuno può fare tutto ciò che una
qualunque altra persona può fare. Le potenzialità di ciascun individuo sono maggiori di quelle che
egli può sperare di realizzare; ed esse sono di gran lunga più ridotte delle capacità degli uomini in
generale. Ognuno deve perciò selezionare quali tra le sue abilità e possibili interessi desidera
incoraggiare; deve pianificare la loro formazione e il loro esercizio, e stabilire in modo ordinato la
loro ricerca. Persone differenti con capacità simili o complementari possono per così dire cooperare
nella realizzazione della loro natura. Quando gli individui godono della sicurezza di esercitare i
propri poteri tendono ad apprezzare le perfezioni degli altri, specialmente quando le loro numerose
forme di eccellenza hanno una posizione accettata in una forma di vita di cui tutti accettano i fini.
Possiamo quindi affermare, seguendo Humboldt, che è attraverso l'unione sociale fondata sui
bisogni e le potenzialità dei suoi membri che ciascuno può partecipare alla somma totale dei beni
naturali altrui realizzati. Siamo condotti verso la nozione di comunità del genere umano, i cui
membri godono reciprocamente delle perfezioni reciproche e dell’individualità, stimolate dalle
libere istituzioni, e riconoscono il bene di ciascuno come un elemento dell’attività dell'intero
schema che è oggetto di consenso e dà gioia a tutti. Si può anche immaginare che questa comunità
si estenda nel tempo, e sia quindi possibile, nella storia di una società, concepire in modo simile i
contributi delle generazioni successive. Quando i nostri predecessori hanno conquistato certe cose,
ci hanno lasciato il compito di portarle più oltre; i loro risultati influenzano la nostra scelta di
tentativi, e definiscono uno sfondo più ampio in base al quale possiamo comprendere i nostri scopi.
Affermare che l’uomo è un essere storico, significa dire che la realizzazione dei poteri degli
individui che hanno vissuto in un qualunque periodo comprende la cooperazione di numerose
generazioni (o addirittura di società) in un lungo arco di tempo. Implica anche che questa
cooperazione sia guidata in ogni momento dalla comprensione di ciò che è stato fatto nel passato,
secondo l’interpretazione della tradizione sociale. A differenza del genere umano, ogni animale per
la maggior parte può e fa ciò che potrebbe fare, o che qualsiasi altro della sua specie che viva nello
stesso tempo potrebbe o può fare. L’ambito delle capacità realizzate di un singolo individuo di una
specie non è in genere materialmente inferiore alle potenzialità dei suoi simili. […]
Partendo da queste osservazioni, possiamo vedere in che modo i principi di giustizia sono correlati
alla socialità umana. L’idea principale è semplicemente quella per cui una società bene-ordinata
(corrispondente alla giustizia come equità) è essa stessa una forma di unione sociale. In effetti, è
un’unione sociale di unioni sociali. [ricorda il racconto di Tempus e Hora nella costruzione di un
orologio] Vi sono presenti entrambi i tratti caratteristici: una positiva realizzazione delle istituzioni
giuste costituisce il fine ultimo condiviso da tutti i membri della società, e queste forme istituzionali
sono considerate come buone in se stesse. » (Rawls 1971,490- 495 passim e cfr. p. 534]
3.9.2. Società politica non comunità politica
«… la giustizia come equità lascia effettivamente cadere l’ideale di comunità politica, se per
quest’ultima s’intende una società politica unita intorno a una sola dottrina (parzialmente o
pienamente) comprensiva, religiosa, filosofica o morale. Questa concezione dell’unità sociale è
esclusa dal fatto del pluralismo ragionevole, e non è più una possibilità politica per chi accetta il
28
vincolo di libertà e tolleranza delle istituzioni democratiche. Il liberalismo politico, come abbiamo
visto, concepisce l’unità sociale in un altro modo: la fa discendere, cioè, da un consenso per
intersezione intorno a una concezione politica della giustizia adatta a un regime costituzionale. […]
Dunque una società bene ordinata così definita non è una società privata; infatti nella società bene
ordinata della giustizia come equità i cittadini hanno realmente fini ultimi in comune. È vero che
non affermano la stessa dottrina comprensiva; ma affermano la stessa concezione politica della
giustizia, e ciò significa che hanno in comune un fine politico fra i più fondamentali e con
un’altissima priorità, quello di sostenere istituzioni giuste e, di conseguenza, di rendersi giustizia
l’un l’altro - per non parlare dei molti altri fini che dovranno condividere e realizzare attraverso i
loro assetti politici. Inoltre, il fine della giustizia politica può anche essere uno degli obiettivi più
fondamentali dei cittadini, la pietra di paragone del tipo di persona che essi vogliono intensamente
essere.» (Rawls 1993, 174,175)
3.9.3. lo Stato è l’idea (la politica è il progetto) di una società ben ordinata
Il modello politico, spesso costruito in autonomia dal sociale e come una architettura razionale
giuridica e amministrativa, rivendica una propria autonomia pratica e teorica (da Hobbes a Hegel)
sulla quale tende, talvolta, a giustificare un’idea di Stato e di politica capace di portare in sé e
proporre un’idea di società e di società giusta come sua derivazione e creazione. È il vezzo
platonico del filosofo-re che, disponendo di modelli ideali come principi universali, intende la
politica in senso strettamente costruttivistico e lavora all’utopia di una Stato che crea, a partire dai
propri principi, la società giusta e perfetta. Utopia di lunga durata che opera ancora nell’età
contemporanea, clamorosamente nei regimi totalitari, più subdolamente nelle politiche (culturali,
morali, religiose, economiche) autoritarie. Rawls, in coerente fedeltà con la tradizione liberale e
democratica, rovescia radicalmente la relazione: il punto di partenza è la società, e la società
contemporanea nei suoi aspetti irrinunciabili (pluralismo, globalizzazione, individualità,
identitarismi…); la politica e lo stato si definiscono e si riducono alla nota domanda (e non è cosa o
progetto di poco conto): «come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di
cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili
benché ragionevoli?» (Rawls 1993, 7)
3.9.3.1. armonia sociale: alla confluenza di libertà e stabilità (un nuovo ossimoro, una nuova
ambivalenza del vivere civile, si spera non una contraddizione o un impossibile) nella concezione
pubblica della giustizia; cioè della giustizia come equità. .
«Ho detto che nella giustizia come equità l’idea fondamentale della società come equo sistema di
cooperazione attraverso le generazioni viene sviluppata insieme a due idee collaterali: quella dei
cittadini come persone libere e uguali e quella di società bene ordinata come società regolata
efficacemente da una concezione politica pubblica della giustizia.
Dicendo che una società è bene ordinata si intendono tre cose. Primo: che (come implica l’idea di
concezione della giustizia pubblicamente riconosciuta) è una società nella quale ognuno accetta, e
sa che tutti gli altri accettano gli stessi esattamente principi di giustizia. Secondo: che (come implica
l’idea di regolazione efficace da parte di una tale concezione) l’opinione pubblica sa, o ha buone
ragioni di credere, che la sua struttura di base - cioè le sue principali istituzioni politiche e sociali e
il modo in cui esse si articolano l’una con l’altra formando un sistema di cooperazione unitario soddisfa questi principi. Terzo: che i suoi cittadini hanno un senso efficace della giustizia
normalmente sviluppato, per cui obbediscono in genere alle istituzioni di base della società, che
considerano giuste. In una società di questo genere la concezione della giustizia pubblicamente
riconosciuta determina un punto di vista collettivo dal quale è possibile formulare giudizi sulle
rivendicazioni dei cittadini nei confronti della società stessa.» (Rawls 1993, 46-47)
3.9.3.2. «La stabilità comporta due problemi: il primo è se le persone che crescono entro istituzioni
giuste (nel senso definito dalla concezione politica) acquisiscano un senso di giustizia sufficiente (in
condizioni normali), così da potersi adeguare, in generale, a tali istituzioni. Il secondo è se,
considerati i tratti generali che caratterizzano la cultura politica pubblica di una democrazia, e in
particolare il fatto del pluralismo ragionevole, la concezione politica possa essere il centro focale di
29
un consenso per intersezione. Assumo che tale consenso sia formato da dottrine comprensive
ragionevoli che abbiano buone probabilità di durare e di conquistarsi seguaci entro una struttura di
base giusta (nel senso definito dalla concezione politica).» (Rawls 1993, 129)
3.9.3.3. né comunità, né associazione ma vita civile partecipata.
«L’idea di base è che, senza un’ampia partecipazione alla vita democratica di una collettività di
cittadini vigorosa e bene informata, e con assoluta certezza se c’è un ritiro generalizzato a vita
privata, anche le istituzioni politiche meglio congegnate cadranno in mano a gente che cerca di
dominare e di imporre la propria volontà attraverso l’apparato statale, vuoi per desiderio di potere e
di gloria militare vuoi per ragioni di classe e di interesse economico, per non parlare
dell’espansionismo religioso e del fanatismo nazionalista. La sicurezza delle istituzioni
democratiche richiede la partecipazione attiva dei cittadini che possiedono le virtù politiche
necessarie a sostenere un regime costituzionale.» (Rawls 1993, 177-178)
3.9.3.3.1. «Una società democratica bene ordinata non è né una comunità né, più in generale,
un’associazione. Le differenze fra una società democratica e un’associazione sono due. La prima è
che abbiamo postulato che una società democratica sia da considerare, come qualsiasi società
politica, un sistema sociale completo e chiuso: completo nel senso che è autosufficiente e in esso
c’è posto per tutti i più importanti scopi della vita umana, chiuso nel senso che, come ho già detto,
vi si entra solo per nascita e se ne esce solo alla morte. Non abbiamo un’identità che preceda il
nostro essere nella società; non è come se vi arrivassimo da qualche altro posto, ma ci troviamo a
crescere in questa società e in questa posizione sociale, con i relativi vantaggi e svantaggi, secondo
quanto ha deciso la nostra buona o cattiva sorte. Per il momento mettiamo completamente da parte i
rapporti con altre società e rinviamo tutti i problemi di giustizia fra i popoli a quando avremo a
disposizione una concezione della giustizia per una società bene ordinata. Non supponiamo,
insomma, di entrare nella società all’età della ragione, così come si può entrare in un’associazione,
ma di nascere in quella società in cui vivremo tutta la vita.
Penseremo dunque i principi della giustizia come principi destinati a formare quel mondo sociale
nel quale acquisiamo, fin dall’inizio, il carattere, la nostra concezione di noi stessi come persone e
le nostre opinioni comprensive, con le relative concezioni del bene, e nel quale devono essere
realizzati - se in qualche modo lo devono - i nostri poteri morali. Tali principi dovranno dare la
priorità a quelle libertà e opportunità di base, entro le istituzioni di fondo della società civile, che ci
consentono innanzitutto di diventare cittadini liberi e uguali, e inoltre di comprendere il nostro ruolo
di persone con questo status.
3.9.3.3.2. Un’altra differenza basilare fra una società democratica bene ordinata e un’associazione è
che la prima non ha scopi e fini ultimi come le persone o le associazioni (parlo di quegli scopi e fini
che hanno una posizione privilegiata nelle dottrine comprensive). I fini costituzionalmente specifici
della società, come quelli indicati nel preambolo di una carta costituzionale - una giustizia più
perfetta, le gioie della libertà, la difesa comune - cadono invece sotto una concezione pubblica della
giustizia e della sua ragione pubblica; questo significa che i cittadini non pensano che esistano fini
sociali antecedenti i quali giustifichino la convinzione che alcune persone abbiano per la società più
(o meno) valore di altre, e la conseguente concessione di diritti fondamentali e privilegi diversi a
queste persone. Molte società del passato la pensavano in modo diverso, perseguivano come fini
ultimi la religione e l’impero, il dominio e la gloria, e i diritti e lo status dei singoli e delle classi
dipendevano dal loro ruolo nel conseguimento di tali fini. Sotto questo aspetto, tali società
concepivano se stesse come associazioni.
Una società democratica, al contrario, ha una concezione politica per cui non si concepisce affatto
come un’associazione. Non è autorizzata (mentre le associazioni esistenti al suo interno
generalmente lo sono) a offrire ai suoi membri (cioè a coloro che vi nascono) condizioni diverse a
seconda del loro contributo potenziale alla società nel suo insieme, o agli scopi di quelli che ne
fanno già parte. E se questo è possibile per le associazioni, lo è perché ai loro membri, candidati o
effettivi, è già garantita la condizione di cittadini liberi e uguali, e le istituzioni della giustizia di
fondo della società assicurano loro la possibilità di accedere ad altre alternative.
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3.9.3.3.3. Non solo una società democratica bene ordinata non è un’associazione, ma non è
nemmeno una comunità, se per comunità intendiamo una società governata da una dottrina
comprensiva condivisa - religiosa, filosofica o morale. Questo è un fatto cruciale per l’idea di
ragione pubblica di una società bene ordinata: se pensiamo una democrazia come una comunità
(così definita) dimentichiamo l’ambito limitato della sua ragione pubblica, fondata su di una
concezione politica della giustizia; concepiamo scorrettamente il tipo di unità che un regime
costituzionale è in grado di realizzare senza violare i principi democratici più basilari. Lo zelo della
verità nella sua interezza ci espone alla tentazione di un’unità più ampia e profonda, che la ragione
pubblica non può giustificare.» (Rawls 1993, 49-52)
3.9.3.3.4. «Solo nella sfera della “ragione pubblica” possono attivarsi procedure deliberative e si
può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possono apparire
ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede
religiosa o di fede politica.» (G. Zagrebelsky, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del
vivere comune, Einaudi, Torino 2009, p. 32 , citato in De Monticelli Roberta 2010 La questione
morale, Raffaello Cortina editore, Milano, 129)
4. le questioni aperte (e le proposte)
4.1. uguaglianza e differenza i due principi della giustizia come equità.
4.1.01. richiamando il concetto di giustizia come concezione politica: la giustizia come equità è una
concezione della giustizia politica, non una concezione generale delle giustizia; è condizione di
stabilità generale per le opportunità fondamentali che garantisce.
4.1.1. il principio dell’uguaglianza delle libertà di base: «Ogni persona ha lo stesso titolo
indefettibile a uno schema pienamente adeguato di uguali libertà di base compatibile con un
identico schema di libertà per tutti gli altri.» (Rawls 2001, 49) (principio di uguaglianza).
4.1.2. il principio della differenza: «Le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due
condizioni: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa
uguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno
avvantaggiati della società (principio di differenza).» (Rawls 1993, 49) Si tratta di un concetto
cardine introdotto da Rawls e operativo nel dibattito politico contemporaneo; osserva Sen: «la
letteratura sulla valutazione della diseguaglianza non è più stata la stessa da quando la classica
opera di Rawls [La teoria della giustizia 1971] ha fatto la sua prima apparizione. (Sen 1992 La
diseguaglianza, 115).
4.1.2.1. Una difesa “anomala” della differenza (insolita, solitamente si pone in atto la battaglia per
l’uguaglianza, magari considerando la difesa della differenza come una difesa di privilegi): occorre
mettere in guardia da una negazione delle differenze (da un concetto di uguaglianza come
negazione delle individualità) che annulla la ricchezza del pluralismo e i benefici del confronto
negli svariati campi sociali dell’economia, della politica, della cultura ecc. La de-differenziazione,
con la negazione della differenza, diventa la negazione del confronto, del mutamento, del controllo
democratico. (È bene richiamare le tesi espresse da Alexis de Tocqueville in La democrazia in
America)
4.1.2.2. quale differenza è democraticamente accettabile: «Una concezione politica della
giustizia deve prendere in considerazione le esigenze dell’organizzazione sociale e dell’efficienza
economica, e le parti sarebbero dispostissime ad accettare le disuguaglianze di reddito e ricchezza
purché contribuiscano efficacemente a migliorare la situazione di ognuno rispetto al punto di
partenza della divisione paritaria. Ora, questo fa pensare proprio al principio di differenza: se
prendiamo come termine di paragone la divisione in parti uguali, chi guadagna di più dovrà farlo a
condizioni accettabili per chi guadagna di meno, e in particolare per chi ha il reddito più basso. […]
Ricapitolando, il principio di differenza esprime l’idea che, prendendo come punto di partenza la
divisione paritaria, in nessun momento i più avvantaggiati devono stare meglio a detrimento di chi
sta peggio. Ma poiché questo principio vale anche per la struttura di base, in esso è implicita
un’idea di reciprocità più profonda: che le istituzioni sociali non devono utilizzare fattori
31
contingenti come le dotazioni naturali iniziali, la posizione sociale di partenza e la buona o cattiva
fortuna nel corso della vita se non in modi che vadano a beneficio di ognuno, compresi i meno
favoriti. E questo è un modo equo in cui i cittadini, in quanto persone libere e uguali, possono
confrontarsi con tali inevitabili fattori contingenti. […] … i più dotati (quelli che nella
distribuzione delle dotazioni naturali hanno un posto che non si sono meritati moralmente) sono
incoraggiati a cercare benefici ancora più grandi — loro che già sono favoriti da una posizione più
fortunata nella distribuzione — a patto di affinare e usare le proprie doti in modo da contribuire al
bene di tutti e in particolare dei meno dotati (quelli che nella distribuzione hanno un posto —
neanche questo meritato moralmente — meno fortunato). D’altronde una simile nozione di
reciprocità è implicita nell’idea che la distribuzione delle dotazioni naturali iniziali sia da
considerare un patrimonio comune. Per fattori contingenti come la posizione sociale e la buona o
cattiva fortuna valgono considerazioni parallele, benché non identiche.» (Rawls 2001, 137, 138139)
4.1.3. il principio della differenza nella gestione del tema identità e multiculturalismo. La tesi:
l’accettazione (e gestione) del dato storico di una società pluralistica è accettazione (e sostegno)
della libertà di identità (del diritto alla “metamorfosi”, al “diritto di uscita”).
La constatazione del moltiplicarsi di movimenti e gruppi diversi e spesso opposti nel sociale,
l’affermazione del valore delle differenze (non disuguaglianze), la politica attribuita alla
ragionevolezza e al conseguente contratto sociale espresso in termini di consenso per intersezione
permettono di impostare il problema attuale del multiculturalismo in uscita da visioni o proposte
identitarie di tipo essenzialistico, da “conventicole” (cfr. Locke, Lettera sulla tolleranza) segnate
dall’intolleranza e dalla contrapposizione. Le impostazioni identitarie di tipo comunitaristico
sembrano esaltare, difendere e salvare (imporre) visioni e forme culturali associative altrimenti
destinate alla scomparsa, in realtà finiscono per negare il potenziale civile universalistico che
posseggono. Infatti, l’opposizione tra esclusioni monoculturali e fanatismi multiculturalistici si
traduce nella costruzione di microunità sociali rigidamente monoculturali, comunità chiuse e
rivendicanti per sé diritti senza doveri in nome di una propria presunta, in realtà inventata e
enfatizzata ad hoc, specificità culturale; ne deriva l’assoluta intolleranza/ignoranza nei confronti
della società presente e dell’uomo o meglio dell’umanità.
L’indicazione che deriva dalle riflessioni di Rawls (e dai due principi della giustizia come equità
sociale e politica) formula il problema in termini di apertura e non di rinserramento essenzialistico:
come coniugare differenze e universalità delle molte dottrine (che non a caso si distinguono /
oppongono ma si presentano tutte come comprensive, depositarie di visioni globali / totali).
Un’osservazione e una posizione, sul tema, espresse da Patrick Savidan. «La questione che bisogna
quindi porsi è la seguente: come riconoscere le differenze senza ridursi a una dinamica che
porterebbe alla ri-essenzializzazione di queste ultime in termini di esclusione (dell’altro)? In altre
parole, si tratta di definire prima di tutto quale statuto conferire alla particolarità etnoculturale e di
determinare se questo statuto giustifica la possibilità di considerare tale particolarità da un punto di
vista istituzionale e politico, sapendo che questo riconoscimento — i teorici liberali del
multiculturalismo sono concordi su questo punto — non può comprometterne l’universalità (che si
esprime in particolare nelle diverse figure della solidarietà e dell’equità). I mutamenti che
intervengono nel modo in cui gli individui tendono a concepire la loro identità sollevano una
questione delicata, che è alla base di tutte le polemiche: il riconoscimento, e le politiche
dell’identità che cercano di dargli corpo, sono in grado di non contraddire l’ideale moderno di
uguaglianza morale e giuridica degli uomini e presentarsi come un modo (indispensabile?) per
realizzare meglio questo ideale?
In base alla tipologia proposta da Mesure e Renaut e nella prospettiva sostenuta da Michel
Wieviorka, ciò ci condurrebbe a quello che può essere considerato un nuovo modello, un modello
contemporaneo che si basa su un’esperienza dell’altro più complessa, in quanto si deve tenere conto
delle differenze senza provocare delle disuguaglianze, e questo per resistere a una tendenza forte
delle società democratiche «illuminate», nelle quali l’affermazione dell’universalità tende sempre a
32
farsi a scapito delle differenze (attraverso un loro svilimento o, più violentemente, attraverso la loro
pura e semplice eliminazione). In altre parole, «si tratta di inserire la differenza al centro
dell’identità», di «restituire all’uguale la sua differenza», sapendo che è la ricerca stessa
dell’uguaglianza, insita nella dinamica democratica, che trascende se stessa in una ricerca del
riconoscimento delle differenze. L’affermazione delle differenze non sarebbe quindi contraria ai
principi sui quali sono costruite le società democratiche, ma deriverebbe dalla dinamica
dell’uguaglianza e si presenterebbe sotto la forma inedita di un’uguaglianza nella differenza.»
Savidan Patrick 2009 Il multiculturalismo, il Mulino, Bologna 2010 p. 31-32
4.1.3.1. Il processo in atto viene presentato da Savidan con i termini: «Le metamorfosi democratiche
dell’identità» e si tratta di un processo dalla chiara radice filosofica: «Per quale motivo oggi si dà
per scontato che esista un legame particolare fra il riconoscimento e l’identità? Da tempo gli
scrittori, i filosofi, gli psicologi hanno sottolineato che l’esperienza di sé rimanda a un’esperienza
dell’altro (e a un’esperienza del «Sé» come «altro»).»(Savidan 2010, 28); rimanda all’etica del
riconoscimento.
4.1.3.2. Metamorfosi democratica dell’identità (il “diritto di uscita” da vincoli identitari,
comunitaristici…) e etica del riconoscimento sulla base della giustizia intesa anche come neutralità
dello Stato: « per Rawls significa che lo stato non decide fra diverse dottrine morali comprensive.
L’idea è invece quella di presentare una concezione della giustizia politica fondata sulle idee di base
della cultura pubblica specifica di una democrazia. I cittadini, nella loro vita privata o «nella vita
interna dei gruppi ai quali appartengono», possono concepire «i propri fini ultimi e i propri impegni
in modo molto diverso da quello che presuppone la concezione politica», ma per Rawls questo non
ha molta importanza una volta che essi abbiano aderito al nucleo comune della cultura pubblica. La
loro «identità non pubblica», determinata dalle convinzioni morali, filosofiche o religiose
sostanziali, non deve essere presa in considerazione. In questo modo la giustizia come equità potrà
essere realizzata attraverso un «consenso per intersezione». Rawls ammette «il pluralismo» e
sottolinea anche che «la varietà delle dottrine comprensive ragionevoli (religiose, filosofiche e
morali) presenti nelle società democratiche moderne non è un puro e semplice dato storico che
possa venir meno in breve tempo, ma un aspetto permanente della cultura pubblica della
democrazia. […] Nel 1978 Ronald Dworkin ha dato a questa idea una formulazione molto precisa,
mettendo in evidenza il legame fra l’esigenza del governo di trattare tutti i cittadini come individui
uguali e la necessità di rimanere «neutrali sulla “questione del buon stile di vita”», «Poiché i
cittadini di una società differiscono nelle loro concezioni, il governo non li tratta come eguali se
preferisce una concezione a un’altra, o perché i funzionari la credono intrinsecamente superiore, o
perché è sostenuta dal gruppo più numeroso o più potente».» (Savidan 2010, 60-61)
4.1.3.3. la rilevanza democratica del multiculturalismo sta nel “diritto di uscita”. «Questa tesi, che
permette di riaffermare il valore sociale della tolleranza, contribuisce a fondare l’idea di un primato
del concetto di ciò che è giusto sulle rappresentazioni concorrenti dell’idea di ciò che è bene in una
«società ben ordinata». Questo «diritto di uscita» è assolutamente determinante e costituisce uno
strumento importante di pressione sulle minoranze illiberali. Esso contribuisce in ogni caso a
definire la base a partire dalla quale risolvere un problema che l’opposizione fra diritti soggettivi e
diritti collettivi aveva la tendenza a esasperare. […] Quando non sono irrigidite dai conflitti e dal
disprezzo sociale, le culture non sono quelle potenze deificate, invincibili, impermeabili e refrattaria
a qualunque valutazione normativa.» (Savidan 2010, 97,99)
4.1.3.4. Multiculturalismo luogo di riflessione e rifondazione dei termini della democrazia e del
diritto. «Il multiculturalismo in quanto problematica illustra molto bene la necessità di pensare i
principi in un rapporto constante con i contesti della loro scoperta e della loro applicazione, John
Rawls, con il metodo dell’«equilibrio riflessivo» ha indicato un percorso possibile.» (Savidan 2010,
106)
4.1.4. differenza e uguaglianza nella giustizia come equità o come uscire da antiche esagerate
(false) antinomie (ma, forse, utili ambivalenze?). Considerazioni di Slavoj Žižek intorno a Rawls e
in nota critica alla tesi delle condizioni per l’accettazione civile delle differenze.
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«L’egoismo, ovvero l’interesse per il proprio bene, non si contrappone al bene comune, dato che
dall’interesse egoistico si possono facilmente dedurre norme altruistiche. Individualismo contro
collettivismo, utilitarismo contro l’asserzione di norme universali sono false antinomie, dato che le
due opzioni contrapposte finiscono per combaciare nei loro esiti. I critici che si lamentano di come,
nell’odierna società edonistico-egoistica, manchino i valori autentici, sono completamente fuori
strada. Il vero opposto dell’egoistico amore di sé non è l’altruismo, l’interesse per il bene comune,
ma l’invidia, il risentimento che mi fa agire contro i miei stessi interessi. Freud lo sapeva bene: la
pulsione di morte si contrappone tanto al principio di piacere quanto al principio di realtà. Il vero
male, che è la pulsione di morte, comporta un atto di sabotaggio rivolto contro noi stessi. Ci fa agire
contro i nostri stessi interessi. Il problema del desiderio umano è che, come diceva Lacan, è sempre
un «desiderio dell’Altro», in tutti i significati che può assumere questa frase: desiderio dell’Altro,
desiderio di essere desiderati dall’Altro e, soprattutto desiderio di ciò che l’Altro desidera.
Quest’ultimo fa dell’invidia, che include il risentimento, una componente costitutiva del desiderio
umano, come Agostino sapeva bene. Ricordate il passo delle Confessioni, citato spesso da Lacan, in
cui egli descrive la scena di un bambino geloso del fratello che succhia al seno della madre: «Io ho
visto e considerato a lungo un piccino in preda alla gelosia: non parlava ancora e già guardava
livido, torvo, il suo compagno di latte».
Sulla base di questa intuizione, Jean-Pierre Dupuy avanza una critica convincente alla teoria della
giustizia di John Rawls. Nel modello rawlsiano di una società giusta, le disuguaglianze sociali sono
tollerate solo se aiutano coloro che si trovano in fondo alla scala sociale, e se non si basano su
gerarchie ereditate ma su disuguaglianze naturali, considerate contingenti, non di merito. Oggi
perfino i conservatori inglesi sembrano disposti ad avallare la concezione rawlsiana di giustizia: nel
dicembre 2005 David Cameron, appena eletto leader dei Tories, segnalò che era sua intenzione
trasformare il Partito conservatore nel paladino dei diseredati, dichiarando: «Penso che per
verificare la bontà di ogni nostra scelta politica dovremmo porci questa domanda: che cosa fa per la
gente che ha meno, per la gente che si trova sul gradino più basso della scala?». Ma quello di cui
Rawls non si rende conto è il fatto che una società di questo tipo creerebbe le condizioni per
un’incontrollabile esplosione di risentimento: vivendo in una tale società, saprei che il mio status è
pienamente «giustificato», e perciò non potrei ricorrere al sotterfugio di attribuire il mio fallimento
all’ingiustizia sociale.
Dunque Rawls propone un modello terrificante di società in cui la gerarchia trova una
legittimazione diretta in alcune proprietà naturali, e in tal modo non riesce a cogliere la semplice
lezione che una storiella su un contadino sloveno rende chiara e tangibile. Una fata buona offre al
contadino una scelta: darà a lui una vacca e due al suo vicino, oppure toglierà una vacca a lui e due
al suo vicino, il contadino sceglie senza indugi la seconda opzione. Gore Vidal illustra il concetto in
modo succinto: «Vincere non mi basta; l’altro deve perdere». Il problema dell’invidia/risentimento
è che non solo avalla il principio del gioco a somma zero in cui la mia vittoria eguaglia la sconfitta
dell’altro. Comporta anche una disuguaglianza tra le due parti che non è positiva (possiamo vincere
tutti senza che nessuno perda), bensì negativa. Se devo scegliere tra un guadagno per me e una
perdita per il mio avversario, preferisco la perdita del mio avversario anche se questo significa una
perdita anche per me. È come se il mio guadagno finale derivante dalla perdita del mio avversario
fosse una sorta di elemento patologico che macchia la purezza della mia vittoria.
Friedrich Hayek sapeva che è molto più facile accettare le disuguaglianze quando si può sostenere
che sono prodotte da una forza cieca e impersonale: l’aspetto buono dell’«irrazionalità» del mercato
e del successo o del fallimento nel capitalismo sta proprio nel fatto che mi permettono di percepire
il mio fallimento o il mio successo come «immeritati», «contingenti.» Ricordate il vecchio adagio
secondo cui il mercato è la versione moderna di un destino imponderabile? Il fatto che il
capitalismo non sia «giusto» è dunque la caratteristica fondamentale che lo rende accettabile alla
maggioranza. Posso vivere il mio fallimento molto più facilmente se so che non è dovuto alle mie
scarse qualità ma al caso.» (Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007, 91-93)
4.1.4.1. noterella critica alla nota critica di Slavoj Žižek (con riferimento particolare alla storiella
34
del contadino sloveno e alle relative vacche). Cipolla Carlo M. (1988 Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino Bologna), dopo aver offerto il seguente catalogatore sociologico: «che
gli esseri umani rientrino in una di quattro categorie fondamentali: gli sprovveduti, gli intelligenti, i
banditi, gli stupidi», così definisce la stupidità in una sua legge “aurea” (la terza): «La Terza Legge
Fondamentale chiarisce esplicitamente che: Una persona stupida è una persona che causa un danno
ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé ad
addirittura subendo una perdita.» (Cipolla 1988, 57-58)
4.1.4.2. ma, riprendendo il ragionamento di Žižek, così si costruirebbe: dal punto di vista
matematico-geometrico il ragionamento di Rawls appare estremamente corretto e produce un esito
complessivo positivo (vincono tutti senza che nessuno perda), ma dal punto di vista psicologico e
delle relazioni sociali sembra non funzionare o essere poco applicabile e poco garantista; perché:
a) considera naturali le differenze trascurandone la componente e l’origine sociale (poiché le
differenze individuali nel sociale sono comunque risultato di considerazioni e stime sociali);
b) trascura il ruolo rassicurante per il soggetto se può attribuire al sociale le ragioni della propria
collocazione nella gerarchia delle differenze;
c) non è costruttivo ma distruttivo del sociale tenuto conto del fattore invidia che risulta distruttivo
sia dell’egoismo sia dell’altruismo; è infatti solo dalla somma di egoismo e di altruismo (che non
possono dunque essere considerati antitetici né tanto meno opposti) che può derivare un risultato
sociale positivo.
4.2. l’ipotesi di uno sviluppo in termini di decrescita condizione di giustizia come equità e
condizione di stabilità e armonia sociale
In Giustizia come equità Rawls torna sull’ipotesi dell’arresto della crescita economica (che non è né
regresso, né negazione dello sviluppo) come condizione di libertà e di giustizia:
«Un’altra caratteristica del principio di differenza è che esso non impone una crescita economica
ininterrotta, generazione dopo generazione, che spinga indefinitamente verso l’alto le aspettative dei
meno avvantaggiati (misurate in termini di reddito e ricchezza). Questa non sarebbe una concezione
della giustizia ragionevole; non dobbiamo escludere l’idea di Mill di una società in uno stato
stazionario giusto nella quale l’accumulazione (reale) di capitale possa cessare, e una società bene
ordinata è definita in modo da ammettere anche questa possibilità. Quello che il principio richiede,
caso mai, è che (nel corso di un intervallo temporale adeguato) le variazioni del reddito e della
ricchezza guadagnati creando il prodotto sociale siano tali che se le aspettative legittime del gruppo
meno avvantaggiato sono minori, siano minori anche quelle del gruppo più avvantaggiato… La
stessa questione può essere vista anche sotto un altro aspetto: il principio di differenza esige che,
per grandi che siano i dislivelli di ricchezza e reddito, e per quanto le persone siano disposte a
lavorare per guadagnarsi una quota di prodotto maggiore, le disuguaglianze esistenti contribuiscano
efficacemente al bene dei meno avvantaggiati; in caso contrario sono inammissibili. Il livello
generale di ricchezza della società, ivi compreso il benessere dei meno avvantaggiati, dipende da
come le persone decidono di vivere, e la priorità della libertà implica che nessuno può essere
costretto a fare un lavoro caratterizzato da un’alta produttività materiale. Spetta a ogni singola
persona decidere, alla luce degli incentivi offerti dalla società, che genere di lavoro fare e quanto
impegnarcisi; e quello che il principio di differenza richiede è che, qualunque sia - alto o basso - il
livello generale di ricchezza, le disuguaglianze esistenti soddisfino la condizione di andare a
beneficio anche di altri, e non solo di noi stessi. È una condizione che chiarisce come il principio di
differenza, pur usando l’idea di massimizzazione delle aspettative dei meno avvantaggiati, sia
essenzialmente un principio di reciprocità.» (Rawls Giustizia come equità, o.c.p.72-73)
L’idea e la prassi di uno sviluppo senza fine (cioè senza scopo e arresto), moltiplica le differenze
senza vantaggi sociali, è fonte di insicurezza e di instabilità individuale e sociale, è alla radice di
spinte populiste all’insegna del risentimento, annulla la responsabilità nei confronti del futuro. (E si
tratta di uno stile che, adottando i criteri espressi da Locke e da Kant, non possono dirsi morali: lo
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stile di vita occidentale non può essere universalmente esteso senza gravi e irreversibili distruzioni
degli attuali equilibri ambientali.)
4.2.1. sulla “spinta disgregante della competizione estrema” (Tomelleri), afferma Holmes S. 1993
Anatomia dell’antiliberalismo, Edizioni di Comunità, Milano 1995: «La responsabilità della crisi
attuale grava pesantemente sulla crescita economica e sulla scienza naturale. Noi abbiamo
trascinato la nostra società sull’orlo di un precipizio, perché abbiamo fatto nostro l’obiettivo
meschino di un’abbondanza illimitata e della “prosperità per tutti”. I seguaci di Adam Smith e quelli
di Karl Marx litigano fra loro sulla tattica, ma, quando si tratta di indicare il fine ultimo
dell’umanità, sono in perfetto accordo: si tratta di creare una società cosmopolita in cui la
tecnologia venga messa liberamente a frutto per soddisfare i bisogni umani.» (p. 182)
Prosegue Tomelleri Stefano 2009 Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento,
(Carocci, Roma, p. 93): «Le situazioni strutturali di rischio portano con sé inoltre una serie di gravi
“effetti collaterali” di ordine ecologico. La crescente fiducia nella competenza tecnico-scientifica
produce un circolo vizioso in forza del quale i risentimenti individualistici e competitivi cui essa
vorrebbe trovare soluzione vengono al contrario alimentati e moltiplicati: elevando il livello delle
aspettative sociali fino a lambire l’utopia della risolvibilità di ogni problema e il superamento di
ogni limite, incluso quello della mortalità. Essa alimenta profonde delusioni e frustrazioni, destinate
a riversarsi nella qualità delle interazioni quotidiane .»
4.2.2. Una regola generale: non la regola del massimo sviluppo possibile, ad ogni costo e con
effetti contraddittori di crisi, ma la regola del maximin (maximum minimorum: il massimo delle
cose minime). «La regola del maximin può essere formulata così: dobbiamo individuare l’esito
peggiore di ogni alternativa possibile e adottare poi quell’alternativa il cui esito peggiore è migliore
degli esiti peggiori di tutte le altre.» (Rawls 2001, 109); «migliorare il più possibile la situazione di
coloro che stanno peggio» (richiama Sen 1992, La diseguaglianza, 131).
4.3. la tolleranza principio di una società pluralistica e stabile, fondata sulla giustizia come
equità.
La tolleranza e i suoi “limiti” (limiti che la rafforzano e ne consentono l’esistenza).
Il tema ripreso e posto in parallelo con Locke Lettera sulla tolleranza.
Tornando al tema centrale nella riflessione di Rawls: «una società democratica moderna non è
caratterizzata soltanto da un pluralismo di dottrine religiose, filosofiche e morali comprensive, ma
da un pluralismo di dottrine comprensive incompatibili e tuttavia ragionevoli.» In realtà in quel
pluralismo compaiono anche dottrine comprensive irrazionali e irragionevoli; ospitano sia il
carattere dell’irrazionalità per le contraddizioni interne che producono e di cui vivono, sia il
carattere della non ragionevolezza: non intendono procedere verso nessun consenso al vivere
sociale e civile che ospiti e sostenga cose diverse da quelle sostenute nel loro movimento; ostentano
l’assoluta intolleranza e la presentano come un valore di coerenza e fedeltà.
Afferma Rawls: «Naturalmente una società può avere in sé anche dottrine comprensive
irragionevoli e irrazionali, o perfino folli; e in questo caso il problema è quello del contenimento,
del fare in modo che tali dottrine non minino l’unità e la giustizia della società.» (Rawls 1993, 6)
4.3.1. solo per esemplificare, i movimenti neonazisti negli Usa, la loro dichiarata intolleranza e il
Primo emendamento. Dice Jeff Schoep, a guida di uno dei più noti schieramenti neonazisti
d’America: «Se noi siamo un gruppo portatore di odio, allora anche Martin Luther King era un
razzista.» Si tratta del partito Aryan Nation, che si apparenta ad altri analoghi movimenti National
Socialist Movement [l’ideologia è nazista al di là del e nel nome], American Nazi Party e storici
movimenti razzisti: Ku Klux Klan… Aggrappati al Primo emendamento, i Tribunali d’America
hanno concesso a simili movimenti di costituirsi come partiti e dato loro la facoltà di manifestare.
Passa così come giurisprudenza (alla ricerca di una coerenza totale) una follia sociale, una totale
aggressione dei diritti dell’uomo (in nome di quegli stessi diritti che vengono così ad annullarsi), un
assenza totale di senso morale e una estrema separazione anzi opposizione tra diritto e morale
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(diritti senza morale). [note che fanno riferimento all’articolo di Angelo Aquaro, Paradossi Usa, in
la Repubblica, inserto D, 4 febbraio 2012].
4.3.2. Allora il quesito: si può tollerare l’intolleranza? (ripresa del tema di Locke) L’espressione
«tollerare l’intolleranza» rimanda ai giochi linguistici noti, fondati sulla tecnica dei cortocircuiti
secondo i quali un enunciato diventa totale al punto da comprendere se stesso. In tal modo
l’enunciato abbandona ogni riferimento esterno, ogni fondamento sia empirico (se mai vi esistesse),
sia logico. Diventa tautologico, è espressione sonora, flatus vocis, è privo di portata denotativa
perché nel cortocircuito che crea annulla se stesso.
4.3.2.1. Nella storia della filosofia ha una lunga storia in quanto diventa un tema di analisi a partire
da Socrate e Platone (lo studio delle forme e del ruolo dell’eristica, vedi dialoghi Menone, Gorgia,
Protagora, Sofista) e per tutta la tradizione scettica (intesa in senso etimologico di ricerca critica)
che nasce con loro e ancora oggi è continua, trasversalmente diffusa, come prassi irrinunciabile.
Enunciati come “so di non sapere” (quindi so, ma non so perché ciò che so è nulla), “nulla è vero”
(quindi non è vero nemmeno che nulla è vero; ma anche questa frase è falsa), “tutto è vero” (quindi
è vero anche che nulla è vero, ma questa frase nega se stessa…) annullano se stessi ma in una
situazione di circolo che rimanda all’infinito e rimbalza in continuazione attraverso enunciati che si
generano paratatticamente l’un dall’altro. La tradizione scettica lo sapeva bene: «l’espressione
“tutte le cose sono false” afferma, insieme con la falsità di tutto il resto anche la falsità di se stessa
(altrettanto dicasi dell’espressione “nulla è vero” ).» Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, Laterza,
Bari 1988)
4.3.3. qual è la loro portata politica: in questo procedere all’infinito questi enunciati mangiano tutto
(come un vero e proprio virus logico lanciato da astuti e rozzi hakers) e tendono ad annullare ogni
differenza fino a proclamare le fatidiche frasi: “siamo tutti uguali”, “tutti rubano”, “tutti agiscono
per interesse” … sono infatti tutte frasi che essendo totali, si chiudono in circolo, annullano se
stesse nel fondamento ma, nel loro movimento totale, includono tutto, azzerano differenze, rifiutano
giudizi, proclamano la propria logica come unica e giustificano la propria esistenza e la propria
azione senza possibilità di controllo e senza limiti; insomma la frase “rubano tutti”, che include
l’operato anche di chi la afferma, ha l’effetto di autorizzare o incoraggiare il furto.
4.3.4. Il problema, politico, giuridico e morale, è dunque il seguente: la tolleranza può tollerare
l’intolleranza? La tolleranza che, per estremo di coerenza logica (come sembra), per fedeltà alla
propria definizione tollera l’intolleranza annulla se stessa. In generale: è la libertà che rischia
l’annullamento; un autoannullamento; anche se un simile processo può poggiare sul gioco logico
sopra richiamato (tragico gioco per gli effetti sociali e per la inconsistenza logica). La libertà
annulla se stessa nel proclamare la libertà di potersi annullare; un impeto di coerenza che diventa
prassi autodistruttiva che dunque diventa incoerenza. Per evitare virtuosismi “eristici” forse si può
concludere che tollerare l’intolleranza è negare la tolleranza. Dunque in una società pluralistica di
fatto, in cui l’essenza della armonia sociale consiste nel principio della tolleranza, non è possibile
tollerare l’intolleranza. Tale impossibilità è giuridica, politica, morale e logica. La tesi è già
chiaramente enunciata nella Lettera sulla tolleranza di John Locke; la tesi, proprio in quella lettera
sulla tolleranza, della impossibilità di tollerare l’intolleranza non lascia dubbi: «Ma se qualcuno si
azzardasse a violare quelle leggi giuste ed eque della comunità, emanate per conservare i beni dei
singoli, la di lui temerarietà dovrebbe essere repressa dalla pena che dovrebbe consistere nella
privazione totale o parziale di quei beni civili dei quali diversamente egli stesso avrebbe dovuto o
potuto godere.» (Locke, Tolleranza,44)
4.4. lo scenario è più ampio e la logica di Rawls si riferisce e si applica a problemi di equilibri
tra le nazioni e di diritto internazionale. Le note sono tratte da Gozzi Gustavo 2010 Diritti e
civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, il Mulino, Bologna
4.4.1. Diritto dei popoli e diritto internazionale. Il diritto dei popoli secondo John Rawls
«Il diritto dei popoli comprende l’insieme dei principi del diritto internazionale positivo. Questa
distinzione è stata introdotta da John Rawls nel saggio intitolato The law of peoples del 1993 e
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successivamente in un volume dallo stesso titolo apparso nel 1999 [Il diritto dei popoli, Milano,
Edizioni di Comunità, 2001].
Al fondo di quest’opera vi è un’idea liberale di giustizia, giacché Rawls ritiene che i grandi mali che
affliggono il genere umano siano dovuti all’ingiustizia politica. Egli riprende la prospettiva kantiana
di un ordinamento internazionale giusto capace di garantire le condizioni di coesistenza tra i popoli.
Tuttavia la prima condizione per la realizzazione di questo ordine internazionale è, come per Kant,
l’esistenza di un giusto ordinamento giuridico interno suscettibile di assicurare la libertà dei
cittadini. Esso corrisponde ad una democrazia costituzionale che garantisca un pluralismo
ragionevole. L’intento di Rawls è quello di estendere analogicamente questo modello ad una società
internazionale dei popoli.
Sono ampiamente note e discusse le caratteristiche della società giusta ipotizzata da Rawls; essa si
compone di individui liberi ed uguali all’interno di un equo sistema di cooperazione. Rawls precisa
che intende estendere questo modello ai popoli, non agli Stati, e ciò perché è possibile attribuire ai
popoli (ma non certamente agli Stati) dei «moventi morali» (moral motives).» (Gozzi 2010, 231)
In conclusione e sintesi si può così esplicitare la posizione di Rawls: un ordinamento internazionale
sulla base del diritto si può attuare solo in quanto si accompagna (e dunque implica) a una
situazione di giustizia interna ai vari Stati; in tal senso il diritto umano è sovranazionale, i diritti
umani sono sovrastatali e “stabiliscono uno standard necessario” per le singole società, ma vanno
realizzati e applicati secondo un percorso di autonomia interna dei vari popoli (come attraverso un
consenso per intersezione) e di conseguenza dei vari Stati.
4.4.2. «L’ipotesi che guida la ricerca di Rawls affonda le sue radici nella filosofia kantiana. Come
Kant aveva posto tra le condizioni della «pace perpetua» l’affermazione di forme di governo
«repubblicane», così Rawls costruisce la sua concezione di una società dei popoli a partire dalla
rappresentazione del popoli liberali che sono connotati da tre caratteristiche: 1) un governo
democratico costituzionale; 2) l’omogeneità culturale; 3) la condivisione di una stessa concezione
del giusto e della giustizia.» (Gozzi 2010, 232)
4.4.3. «La scelta della prospettiva dei popoli, invece di quella degli Stati, implica anche una rilettura
del concetto di sovranità, giacché l’attributo fondamentale della sovranità, ossia il diritto di
dichiarare guerra (ius ad bellum), nella prospettiva dei popoli deve essere riformulato come potere
di guerra (war power) compatibile con un diritto ragionevole dei popoli. Ciò significa che il diritto
di dichiarare guerra deve essere limitato all’autodifesa.
In altri termini: ponendo l’accento sui popoli anziché sugli Stati, si mira a sottolineare il carattere
morale e la natura ragionevolmente giusta dei loro regimi. Rawls intende riferirsi a popoli «giusti» o
«decenti» i quali non sono spinti solo da criteri razionali, ossia dal perseguimento dei propri
interessi, ma anche dai criteri di una ragionevole giustizia, ossia sono disposti a realizzare un’equa
cooperazione.
Il modo di procedere di Rawls intende dapprima costruire, all’interno di una teoria ideale, i principi
del diritto dei popoli per poi discuterli nella prospettiva di una teoria non ideale.
All’interno di una teoria ideale Rawls costruisce il parallelismo tra una giusta società dei popoli e
una società liberale abitata da soggetti ragionevoli e razionali, che si identificano con dottrine
comprensive, tutte perfettamente ragionevoli, e dunque suscettibili di dar vita al noto «consenso per
intersezione».» (Gozzi 2010, 232- 233)
4.4.4. Il problema dei «popoli non liberali» «Il primo problema che si pone rispetto alle società non
liberali è se esse debbano essere tollerate. La risposta di Rawls è positiva alla condizione che tali
società siano rette da istituzioni tali da soddisfare i criteri della giustizia politica che sono al
fondamento del diritto dei popoli. […] Rawls distingue i diritti umani dai diritti costituzionali, ossia
dai diritti posti dalle costituzioni, così come dai diritti di cittadinanza (diritti civili e diritti politici).
Si deve dunque ritenere che Rawls concepisca i diritti umani essenzialmente come diritti
sovrastatali, così come sono stati formulati dal diritto internazionale a partire dal secondo
dopoguerra. «I diritti umani — afferma Rawls — stabiliscono uno standard necessario, anche se
non sufficiente, per la decenza di istituzioni politiche e sociali delle singole società. In questo senso
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delimitano quello che è il diritto ammissibile all’interno di società» che facciano parte «a pieno
titolo di una società dei popoli ragionevolmente giusta». Infatti, a suo giudizio, il criterio del
rispetto dei diritti umani, da una parte, pone un limite al pluralismo dei popoli e, dall’altra, è
sufficiente per escludere l’intervento esterno di altri popoli con sanzioni economiche e diplomatiche
o mediante l’uso della forza militare.» (Gozzi 2010, 234-235) A sviluppare infatti il principio della
differenza e la sua funzione democratica di giustizia a livello internazionale o sovranazionale è «la
dipendenza economica reciproca degli Stati che impone obblighi di redistribuzione dei benefici
derivanti da una disuguale distribuzione delle risorse». (Gozzi 2010, 241 nota 25) Cioè, secondo il
principio di Rawls, una diseguaglianza è accettata e tollerabile se diventa un beneficio per la
collettività.
4.4.4.1. nota di metodo: Rawls procede con idealità e empiria, elementi che permettono passaggi
analogici di scoperta e applicazione pratica, fino a dare senso, ancora positivo, all’aspetto di utopia
presente in ogni modello politico. Se si vuole si tratta di un metodo che viene da lontano: un metodo
“aristotelico” e di lunga presenza nella storia della scienza e della filosofia, che unisce un doppio
ricorso: a idee e ideali da una parte, alla loro comparazione con il dato empirico dall’altra. Con
Aristotele Rawls si lega anche e soprattutto per l’osservazione e la conservazione di una pluralità di
scelte culturali, di associazioni e di dottrine, e con la scelta di far base sulla ragionevolezza, che,
distinta dalla ragione, può essere intesa come il corrispettivo della phrònesis. Tale concezione
suggerisce e sorregge il passaggio analogico dalla teoria dello Stato alla teoria di una giustizia
internazionale. «Come nell’elaborazione di A theory of Justice Rawls era partito dalla
considerazione delle persone come sono e dall’ipotesi delle leggi costituzionali come potrebbero
essere, così dopo aver individuato i principi del diritto dei popoli, Rawls si misura con «le
condizioni decisamente non ideali del mondo in cui viviamo» nel tentativo di precisare le finalità
della politica estera di una società liberal-democratica. […] Egli è convinto di aver formulato una
«utopia realistica» che si pone in linea di continuità con il pensiero di Kant.» (Gozzi 2010, 237,241)
4.5. come conclusione: pluralismo, consenso per intersezione e tolleranza costituiscono
l’essenza della democrazia liberale che non può autonegarsi.
4.5.1. il modello di democrazia liberale permette di ricordare la natura di una (di ogni) teoria
politica: «Una concezione politica è, nel migliore dei casi, solo uno schema di base che ci guida nel
deliberare e riflettere e ci aiuta a raggiungere un accordo politico almeno sugli elementi
costituzionali essenziali e sui problemi fondamentali della giustizia. Se ci ha chiarito le idee e ha
reso più coerenti le nostre convinzioni meditate, se ha ridotto le distanze fra le cose di cui sono
convinti, in coscienza, coloro che accettano le idee basilari di un regime costituzionale, ha svolto il
suo compito politico pratico.» (Rawls 1993, 140)
4.5.2. non prevalebunt «Le virtù della cooperazione politica che rendono possibile un regime
costituzionale sono quindi grandissime virtù; ho in mente, per esempio, la virtù della tolleranza, la
disponibilità ad andare incontro agli altri, la virtù della ragionevolezza, il senso dell’equità. Quando
sono molto diffuse nella società e sostengono la sua concezione politica della giustizia, queste virtù
costituiscono un grandissimo bene pubblico, una parte del capitale politico della società. Perciò è
normale che i valori che contrastano con la concezione politica della giustizia e con le virtù che la
sostengono non prevalgano, perché sono in conflitto con le condizioni stesse che rendono possibile
un’equa cooperazione sociale basata sul rispetto reciproco.» (Rawls 1993, 141)
4.5.2.1. A conclusione e approfondimento le riflessioni di Appadurai sul tema delle interrelazioni
tra sfere pubbliche diasporiche in una globalizzazione fondata sulle migrazioni di massa e sulle
mediazione elettroniche dei mass media, che determinano il tramonto degli stati nazionali, tanto più
delle loro forme identitarie.
«Le sfere pubbliche diasporiche, tra loro diverse, sono i crogioli di un ordine politico
transnazionale. I motori del loro discorso sono i mass media (interattivi ed espressivi) e i movimenti
di profughi, attivisti, studiosi e lavoratori. Può darsi benissimo che l’ordine postnazionale
emergente si riveli non tanto un sistema di elementi omogenei (così com’è nell’attuale sistema degli
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stati nazionali), quanto piuttosto un sistema basato su relazioni tra elementi eterogenei: movimenti
sociali, gruppi di pressione, corpi professionali, organizzazioni non governative, forze armate di
polizia, corpi giudiziari. Quest’ordine emergente dovrà rispondere a una difficile domanda: riuscirà
questa eterogeneità a combinarsi con alcune convenzioni minime sulle norme e sui valori, che non
richiedano una stretta adesione al contratto sociale liberale della modernità occidentale? Tale
questione decisiva non verrà risolta per decreto accademico, ma attraverso le negoziazioni
(pacifiche e violente) tra i mondi immaginati da questi differenti interessi e movimenti. Nel breve
periodo, come possiamo già vedere, sarà probabilmente un mondo caratterizzato da sempre maggior
barbarie e violenza. Sul lungo periodo, una volta liberate dalle costrizioni della forma nazionale,
potremo forse scoprire che la libertà culturale e la giustizia nel mondo non presuppongono
l’esistenza uniforme e generale dello stato nazionale. Questa eventualità perturbante potrebbe essere
il lascito più eccitante per aver vissuto nella modernità in polvere.» Appadurai Arjun 1996
Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Raffaello Cortina editore, Milano
2012, 35 (nota al titolo originale e alla sua traduzione italiana: Modernity at Large: Cultural
dimension of Globalization: at large= nel suo insieme, come affrontare un argomento nel suo
insieme; o = alla macchia, libero, senza permesso, come prigionieri alla macchia dopo l’evasione;
qui in polvere = frantumata ma anche perché intesa come materiale pronto per ricomposizioni [così
liberamente da nota 7 p. 257-8], oppure, o meglio: modernità diffusa, come indica Wikipedia o, si
potrebbe dire, in evasione, in fuga, in dilatazione, che ha preso il largo…).
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