Guerra, costruzioni dell'identità nazionale, dispositivo fotografico Saverio Marra, fante, 1915-'20 c. Courtesy of Museo Demologico di San Giovanni in Fiore (CS) Il nesso tra fotografia e guerra e, in particolare, per quel che più da vicino qui ci concerne, prima guerra mondiale, è stato piuttosto esplorato negli studi specifici, sia nel nostro Paese, che negli altri Paesi coinvolti nel conflitto1. Tali studi, però, mi sembra, Per il nostro Paese, in una letteratura più ampia, si vedano quantomeno C. Bertelli, G. Bollati, L’immagine fotografica, 1845-1945, Storia d'Italia - Annali, 2 voll., Torino, Einaudi, 1979, particolarmente vol. II, pp. 134136 e sez. V; G. De Luna, L'Italia in guerra, in AA. VV., Italia moderna. Immagini e storia di un'identità nazionale (a cura di O, Calabrese), 2 voll., II vol., Milano, Mondadori Electa, 1986; L. Fabi, La prima guerra mondiale, 1915-1918, Storia fotografica della società italiana, Roma, Editori Riuniti, 1998; M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani. Parole, immagini, ricordi, 1848-1945, Bologna, Il Mulino, 2005; A. Schwarz (a cura di), La guerra rappresentata, Quaderno della "Rivista di storia e critica della fotografia", Ivrea, ottobre 1980. Per un'analisi critica degli aspetti storico-antropologici che presiedono alla formazione dei tratti nazionali, si vedano W. Barberis, Il bisogno di patria, Torino, Einaudi, 2004; G. Bollati, L'Italiano. Il carattere nazionale come storia e come 1 1 hanno avuto, accanto a una loro indiscutibile attenzione filologica e attendibilità storiografica (nell'estrema difficoltà di districarsi tra fonti, documenti, archivi, diversi, disseminati, inagibili), una tenue incisività critica e tenui ricadute teoriche sul mezzo nel suo complesso. La riflessione sulle immagini relative al secondo conflitto mondiale, alle deportazioni di massa, alla proscrizione degli Ebrei e ai campi di sterminio e di internamento militare, ha comportato una frequente messa in causa del paradigma visuale che presiede alla fotografia, un radicale interrogativo circa il confine della visibilità, circa la soglia della rappresentazione, circa il rapporto tra ethos ed eidos, circa l'esito delle politiche di rimozione dello sguardo (e della memoria) nella costruzione delle culture occidentali, nella loro declinazione consenziente, come in quella dissenziente. Basti pensare a un'opera come Immagini malgrado tutto di Georges Didi-Hiberman, dedicato al tema della rappresentazione fotografica dell'irrappresentabile, la Shoah, per aver conferma di quanto affermo2. Questo non è accaduto in egual misura per il primo conflitto, per ragioni che non posso esaminare in questa sede, e al ripensamento radicale del grande corpus fotografico delle immagini di tale conflitto ovvero, sulla scorta di studi innovativi, tra cui quelli di Ernst Nolte e di Claudio Pavone3, della prima fase delle guerre civili europee, vorrei qui contribuire con qualche breve riflessione. Nella prospettiva di un'antropologia radicale. Una disciplina che, sul piano generale, deve tendere, nella mia prospettiva, a decostruire le opinioni rette dall'immediato compromesso esistenziale e dal senso comune (quel che David Foster Wallace definisce "pensare in modalità predefinita"4), e le opinioni elaborate dai sistemi di potere e di informazione, dagli altri apparati disciplinari che ragionano con diversi mezzi e perseguono differenti scopi. Una disciplina che, rispetto alla fotografia, deve rifiutare un'entificazione aprioristica del suo oggetto di studio, definizioni ontologistiche, dal punto di vista filosofico e date una volta per tutte, dal punto di vista storico. Per l'antropologia esistono soltanto le singole immagini e i singoli repertori, corpora concreti di determinazioni culturali e sociali, leggibili, in un'ottica relazionale, secondo coordinate complesse, e di volta in volta diverse, che occorre individuare. E, del resto, questo rifiuto nei confronti di un approccio ontologista alla fotografia (come ad altri tipi di immagine iconica), familiare all'antropologia dell'arte sin dai primordi boasiani, viene manifestato invenzione, Torino, Einaudi, 2011; M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell'Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 2010; M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, RomaBari, Laterza, 2001. Di particolare interesse si rivela lo spoglio della stampa quotidiana e periodica dell'epoca e, in particolare, delle annate de' "L’Illustrazione Italiana", 1915-1918. 2 Cfr. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005. E. Nolte, La guerra civile europea, 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo, introduzione di G. E. Rusconi, Milano, BUR, Rizzoli, 2004; C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. 3 Cfr. D. Foster Wallace, This Is Water: Some Thoughts, Delivered on a Significant Occasion, about Living a Compassionate Life, New York, Little, Brown and Company, 2009 [trad. it., G. Granato, Questa è l'acqua, Torino, Einaudi, 2009, in particolare pp. 143-166]. 4 2 oggi anche da studiosi vicini alla nostra prospettiva, quali a esempio, ancora DidiHuberman. Lo storico dell'arte, nel rifiutare con fermezza definizioni apodittiche dell'immagine, e in particolare di quella fotografica5, ricorda la sostanziale aporia dell'opzione ontologica; se l'immagine, egli ricorda, è "prima di tutto l'immagine di qualcos'altro, non ci può essere un'ontologia dell'immagine"6. Personalmente, ho studiato le immagini, quali oggetti privilegiati del mio lavoro antropologico, perché mi è sembrato che esse costituissero una chiave di accesso privilegiata ai sistemi culturali e sociali nelle quali sono inserite. Attraverso oggetti concreti agiti da uomini concreti che fanno cose concrete (per chiosare estensivamente la notissima formula di Sherry B. Hortner), mi è sembrato possibile approcciare l'enigma costituito dalla struttura sociale di un dato gruppo umano. Le fotografie, tra le immagini, per la loro modernità, per il loro tratto agentivo, per la loro attitudine relazionale, mi sembra costituiscano una classe privilegiata di oggetti iconici, particolarmente adatta a svelare la complessità del corpo sociale in cui sono inserite. Esse sono, inoltre, cose, e possono porsi, tra altre cose, contribuendo a disegnare la trama concreta della vita sociale, ma sono anche rappresentazioni, che introducono al carattere fittizio di molte cose concrete e all'eterno cabotaggio che i gruppi umani compiono, nel tessere la rete dei loro rapporti sociali, tra realtà e finzione (in questo senso esse costituiscono un prezioso strumento, per l'antropologo, al fine di prendere le distanze dai presupposti realistici e oggettivistici che hanno caratterizzato, per decenni, la sua riflessione). Ciò premesso, vorrei qui rapportarmi alle immagini della prima guerra mondiale, nel loro insieme, nella loro funzione di dispositivo. La nozione foucaultiana di dispositivo, malgrado la sua relativa indefinitezza, sovente notata dalla critica, già è utile, in buona misura, per la nostra specifica riflessione. Come si ricorderà, per Michel Foucault, un dispositivo è qualcosa che possiede qualità, in relazione alla natura non soltanto brutale del Potere; il dispositivo produce soggettività e “libertà” del soggetto, la sua assunzione di responsabilità di fronte a se stesso e di fronte al contesto sociale in cui è inserito. Mentre le teorie classiche del Potere ruotano intorno a una concezione di forza che tende a identificarsi, necessariamente e in ultima istanza, con la violenza e la repressione, Foucault mostra come le condizioni di esercizio effettivo del Potere abbiano come obbiettivo, in particolare durante l'epoca moderna, la costituzione della libertà del soggetto. Lo studioso, insomma, ricorda come il Potere non sia il luogo della violenza bruta, e come al contrario esso agisca tramite oggetti e prassi che funzionano nel senso della produzione di una soggettività consenziente7. Già per Foucault, "Non si può dire l'immagine è questa o è quella. Si può dire solamente: questa immagine lavora come questa o come quella, trasforma questa o quella, si trasforma come questa o come quella" G. Didi-Huberman, La condizione delle immagini, cit., p. 72 (i corsivi sono dell'autore). 5 6 Ibidem. La nozione di dispositivo attraversa parte cospicua dell'opera foucaultiana. Espressioni importanti in Le parole e le cose: un'archeologia delle scienze umane (1966), trad. E. Panaitescu, Milano, Rizzoli, 1967; L'ordine del discorso: i meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola (1971), trad. A. Fontana, Torin,o Einaudi, 1972; Sorvegliare e punire: nascita della prigione (1975), trad. A. Tarchetti, Torino, Einaudi, 1976; La volontà di 7 3 dunque, il dispositivo è essenzialmente un elemento di fattura ibrida (nel senso che è creato dal Potere stesso ma anche da coloro che sono coinvolti nelle sue dinamiche), che permette una manipolazione della realtà e il suo adeguamento a una strategia di desiderio condiviso. Ma è anche sulle osservazioni di Giorgio Agamben (a loro volta stimolate dalla riflessione su Foucault di Gilles Deleuze) che mi sembra utile soffermarmi in questa sede. Perché, nella sua lettura del dispositivo foucaultiano, Agamben pone l’accento sul carattere di costruzione e decostruzione della soggettività svolto dai mezzi di comunicazione di massa. Mezzi che comportano, al contempo, la creazione della soggettività ma anche la sua trasformazione in esperienza illusoria (attenzione agli dedica, in questa prospettiva, soprattutto alla televisione e al suo consumo)8. Ecco, a me pare che il mezzo fotografico, sin dal suo nascere, e nel suo molteplice e attuale volgersi tecnologico, abbia le caratteristiche fondamentali del dispositivo, così come si sono andate definendo lungo la traiettoria Foucault-Deleuze-Agamben. Qualcosa che lavora nel senso della mediazione e della condivisione culturale, nella prospettive egemonica del sistema che ne detiene le chiavi. In particolare, la funzione di dispositivo si esercita nel creare un luogo di significato molteplice e condiviso, attraverso la consapevole e consenziente (nell’autore, nel sistema di espressione editoriale, nello spettatore) manipolazione delle coordinate sociali, spaziali e temporali. Ma in particolare, ancora, tale manipolazione e la soggettività consenziente che ne deriva trasla il soggetto dal campo della realtà sociale in cui si dovrebbe esercitare il proprio interesse al campo dell'esperienza illusoria: la realtà sociale è perduta a favore di un'altra forma di realtà ulteriore o seconda, che è quella della rappresentazione. L'antropologia può aiutare a leggere le modalità concrete attraverso cui le fotografie si pongono, nei processi sociali e culturali, nella loro funzione di dispositivo, individuando le rete di possibili nessi che ne consentono l'azione. Ciò vuol dire essenzialmente decifrare l'inferenza "occidentale" quale sapere (1976), trad. P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978Per un approfondimento critico si veda E. Redaelli, L'incanto del dispositivo. Foucault dalla microfisica alla semiotica del potere, Pisa, Ets, 2011. Rinvio a G. Agamben, Che cos'è un dispositivo?, Roma, Nottetempo, 2006, e a G. Deleuze, Che cos'è un dispositivo?, Napoli, Cronopio, 2010. Riporto passi essenziali della definizione di dispositivo in rapporto con il pensiero di Foucault di Deleuze ("noi apparteniamo a dei dispositivi ed agiamo in essi. La novità di un dispositivo rispetto a quelli precedenti, la chiamiamo la sua attualità, la nostra attualità. Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo divenendo, cioè l’Altro, il nostro divenir-altro". p.27); e di Agamben ("chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. Non soltanto, quindi, le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole, la confessione, le fabbriche, le discipline, le misure giuridiche, eccetera, la cui connessione con il potere è in un certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e — perché no — il linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi, in cui migliaia e migliaia di anni fa un primate — probabilmente senza rendersi conto delle conseguenze cui andava incontro — ebbe l’incoscienza di farsi catturare. [...] Chiamerò soggetto ciò che risulta dalla relazione e, per così dire, dal corpo a corpo fra i viventi e i dispositivi". pp. 21-22). 8 4 si esprime nei processi di dominio e controllo sociale, sia sul versante domestico che su quello esotico, presenti nella struttura degli Stati nazionali moderni. La prima guerra mondiale appartiene, a buon diritto, alla dinamica conflittuale fondante (o rifondativa) dei moderni Nation-State9. Rappresenta l'epilogo di lunghe e sanguinose lotte per la loro affermazione, che hanno visto come scenario l'Europa per molti secoli. Un epilogo monco, come molti storici non hanno mancato di rilevare, che troverà il suo catastrofico epilogo una ventina di anni dopo. Ma una guerra, per poter essere dichiarata, svolta, vinta, necessita di quella produzione di soggettività consenziente, di cui abbiamo visto con Foucault. E i dispositivi mass-mediatici, e in particolare, all'epoca, la fotografia, hanno svolto, in questa prospettiva, una funzione centrale. Tutto l'apparato di costruzione fotografica relativa al conflitto, funge da colossale dispositivo atto a produrre soggettività, consenso, illusorietà, in un momento in cui lo Stato nazionale richiede massificazione e riduzione drastica dei margini di libertà e dissenso. Per poter gestire lo sforzo bellico occorre certamente che un insieme di individui caratterizzati ancora dalla condizione di sudditi (per quel che ci riguarda), ma bel lontani dalle sudditanze di ancien régime, sia ridotto a un collettivo solidale. Ma per fare ciò occorre, innanzitutto, costruire in ciascuno un processo di soggettivizzazione della guerra che consenta una confluenza responsabile nel gruppo. La guerra non può essere condotta deportando ogni singolo soldato al fronte e ponendo in campi di concentramento disseminati i suoi parenti. La guerra si può fare anche con la fucilazione degli irriducibili dissidenti, ma questa deve essere operazione circoscritta ed eccezionale, dotata di un alto valore d'esemplarità proprio per la sua straordinarietà, altrimenti la guerra sarebbe persa prima di essere intrapresa. La costruzione della soggettività appare, in definitiva, indispensabile. Ciascuno deve fare la propria parte, ciascuno deve fare la propria guerra e la guerra in proprio, anche se tale emergere della soggettività conflittuale va poi disciplinato e orientato, canalizzato. E ciascuno deve essere indotto allo sforzo bellico con il consenso. Ogni consenso acquisito costituisce una possibilità in più di vittoria finale, Il mio riferimento, qui implicito, al Nation-State come esito di continue strategie di fondazione e rifondazione, di continue dinamiche manipolative, di continui processi di inclusione ed esclusione, di aggregazione e differenziazione; quale ordinatore di principi sociali nascosti, dell'ordine e del dominio; quale political legitimacy, fonda sulla riflessione di Pierre Bourdieu e di correnti importanti dell'antropologia anglofona contemporanea. Per quel che riguardo Bourdieu, fondamentale il rinvio al suo corso triennale tenuto al Collège de France dal 1989 al 1990. Si veda P. Bourdieu, Sullo Stato. Corso al Collège de France, 19891990, vol. I, Milano, Feltrinelli, 2013. Si vedano, poi, in una letteratura ben più ampia, J. Faubion, Modern Greek Lessons. A Primer in Historical Constructivism, Princeton, Princeton University Press, 1993; E. Gellner, Nations and Nationalism, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1983; R. Handler, Nationalism and the Politics of Culture in Quebec, Madison, The University of Wisconsin Press, 1988; M. Herzfeld, Ours Once More. Folklore, Ideology, and the Making of Modern Greece, New York, Pella, 1986; Id., Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2003; Id., Evicted from Eternity. The Restructuring of Modern Rome, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2009. 9 5 ogni consenziente procura un defunto nelle file nemiche. Ogni dissenziente è, d'altro canto, un nemico, in una logica che radicalmente non ammette alcuna neutralità. E' questo un territorio elettivo della fotografia. Non soltanto di quella propagandistica, si badi bene, o di quella prodotta dalle agenzie istituzionali di produzione del consenso militare. Tutta la fotografia s'inserisce con naturalezza nel processo che ho descritto. Lo fa quella, così frequente, di tipo per così dire paesaggistico, prodotta da quelle agenzie, come dai mille ufficiali, sottufficiali e fanti, fotografi a tempo perso, che illustrano le bellezze della Patria perduta e della Patria da conquistare. Quell'italica armonia delle forme rurali e quell'asprezza rude delle cime innevate e dei dirupi montani, quella sequela di aguzzi campanili e di borghi contadini, di limpidi fiumi, confine, valico e difesa estrema, servono a creare, anche in chi vive lontano, in angoli di Paese assai difformi, un senso di condivisione e di appartenenza. E servono per testimoniare un'unità e una continuità transnazionale. Quei ritratti e quelle istantanee dal fronte, dove, pur nella sua evidente indigenza e precarietà, il congiunto è lì che sorride e, sul retro, indirizza parole di saluto e rassicurazione, comunicano consenso e chiedono condivisione del consenso. Quei ritratti da soldato, fatti ancor prima di partire, nello studio arcaico del fotografo di paese, sorta di rito di iniziazione alla guerra e alla partenza, all'esercizio permanente della diaspora contadina, sono una manifestazione di soggettività consenziente, destinata a rifrangersi su tutti coloro cui l'immagine è indirizzata. Non è soltanto la fotografia bellica e di guerra che assolve alla sua indispensabile funzione di dispositivo; sono tutte le forme di fotografia che vengono praticate nella guerra e al suo intorno, nel lasso di tempo esteso del suo svolgimento, a svolgere tale funzione. Anche nei casi, in vero rari e circoscritti, di un suo indirizzo critico, l'immagine tende a essere inscritta nella pratiche di una soggettività consenziente, quando addita ad altri che vorrebbe coinvolgere, i dolori e le atrocità del conflitto, la condizione ingiusta dei fanti e degli ufficiali subalterni (penso, a esempio, alle crude immagini che accompagnano le note realistiche e amare di Carlo Salsa nel suo Trincee. Confidenze di un fante, libro pubblicato per la prima volta nel 1924 e poi reiteratamente e pesantemente censurato10). Naturalmente questi processi sono contrari all'interesse sociale del suddito e del soldato. E, da qui, con Agamben, una sapiente manipolazione che approda a quel territorio dell'esperienza illusoria a cui la fotografia sa guidare con sapienza, si tratti di dimostrare la giustezza a l'inevitabilità del conflitto patriottico, si tratti di additare l'orientale arretratezza del Mezzogiorno, si tratti di sostenere l'atemporalità delle società esotiche, si tratti di magnificare le futuristiche sorti progressive di una nuova declinazione dello Stato nazionale. In quest'ottica complessiva ciò che particolarmente colpisce la mia attenzione e suscita il mio interesse sono proprio quelle immagini disseminate e spontanee che partecipano, con diversi mezzi, stili, canoni estetici, ma con convergente tensione consensuale, alla celebrazione della condizione militare. Cfr. C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Mursia, 2011. Lettura integrativa esemplare, quella delle memorie di V. Rabito, Terra matta, Torino, Einaudi, 2007, pp. 45-135. 10 6 Prenderò quale piccolo esempio un circoscritto gruppo di fotografie eseguite nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale da Saverio Marra, artigiano calabrese di notevole tempra, al cui archivio ho dedicato costante attenzione nel corso del tempo (qualche sua immagine ho avuto modo di mostrare proprio qui a Ravenna nel convegno sulle forme di famiglia e di rappresentazione fotografica di qualche anno fa)11. E' interessante notare, preliminarmente, come tutta la formazione professionale del giovane fotografo sia avvenuta in ambito bellico: un ambito che dà a lui, piccolo carpentiere con la terza elementare, la possibilità di crescere culturalmente e socialmente praticando il mezzo. Primi rudimenti ed esperienze nelle spedizioni coloniali in Libia, nel 1912-13; impiego avanzato nella guerra '15-'18. Qui, incontrato un capitano medico, anch’egli dedito alla fotografia, riuscì con il suo aiuto a farsi assegnare al Servizio Sanitario, presso l’ospedaletto da campo di Latisana, nei pressi di Udine. L’intesa con il capitano, di cui Marra divenne attendente, fu forte e il giovane apprese da lui ulteriori, e più specialistiche, nozioni di fotografia, oltre che di chimica, di medicina e di tecnica sanitaria. Durante gli anni del conflitto, Marra eseguì ritratti di medici e infermieri, oltre che di numerosi feriti e, sotto la guida dell’ufficiale, documentò gli effetti dei combattimenti sui soldati e, soprattutto, gli interventi chirurgici effettuati nel nosocomio. Un percorso, direi esemplare, di nascita della fotografia dalle pratiche belliche e di pieno adeguamento alla sua funzione di dispositivo. Le tre immagini di soldati che qui esemplarmente presento, tratte da una selezione ben più ampia, sono state realizzate in una realtà agro-pastorale dura e povera, all'interno di una società marginale ed emarginata (il paese d'altopiano di San Giovanni in Fiore, in Sila), in cui erano forti tensioni sociali, espresse in una microconflittualità di classe e in movimenti di protesta e di rivendicazione di terre. Marra fotografava molto i suoi concittadini, in rapporto ai bisogni relazionali e comunicativi connessi con l'emigrazione, che aveva falcidiato e falcidiava il paese. Il modulo di queste fotografie trascrive in immagine le tensioni sociali e individuali dei singoli ritratti, con evidenza e senza infingimenti. Contadini, pastori e operai forestali sono ritratti nella loro nudità sociale e con le insegne del loro mestiere in quello che appare una sorta di micro censimento alla Menschen des 20. Jahrhunderts, di August Sander; il dispositivo, in questo caso, appare operare in altre direzioni e per sostenere ordini visuali e ordini sociali di differente tipo e di diverso livello. Ma queste fotografie di soldati sono lì a testimoniare la capillare penetrazione delle strategie sociali connesse alla guerra e l'efficacia simbolica (per ricordare Claude LéviStrauss) che promana dal dispositivo. A differenza degli altri ritratti in abiti civili, qui domina l'impassibilità e la diffidenza. La maschera militare è stata indossata e tale maschera sottrae all'universo anonimo e indifferenziato dei contadini poveri e dei braccianti forestali, restituisce una soggettività e, al contempo, un'identità collettiva Ho descritto la figura di Marra, sia negli aspetti più immediatamente legati alla sua vita e alla sua produzione fotografica, sia in quelli legati al destino sociale delle sue immagini in F. Faeta (a cura di), Saverio Marra fotografo. Immagini del mondo popolare silano nei primi decenni del secolo, Milano, Electa, 1984; Id., (a cura di), Gente di San Giovanni in Fiore. Ritratti di Saverio Marra /People of San Giovanni in Fiore. Portraits of Saverio Marra, Firenze, Alinari, 2007. 11 7 definita. L'ostentazione della divisa, unita all'imperscrutabilità delle emozioni che percorrono il corpo, ha il compito di segnalare un reclutamento, cioè l'ingresso in una comunità nazionale in cui non si è mai realmente stati, e l'avvenuta produzione di una soggettività consenziente. L'ostentazione della divisa inscrive, ancora, il soggetto consenziente in uno spazio illusorio (uno spazio che esita verso la morte o verso un ritorno alla triste condizione originaria). E ancora per la produzione di una realtà illusoria lavora il telone con paesaggio esotico (reperto ereditato da altra guerra, quella coloniale), qui impiegato per edulcorare il messaggio spaesante che potrebbe promanare dagli aspri paesaggi del Nord. La condizione militare si staglia sullo sfondo di un dolce scenario di acque e palme, non su quello di cime innevate e dirupi impervi. Il sigaro e la sigaretta in mano parlano di un compenso possibile, di uno status e di piccoli privilegi acquisiti, in un mondo in cui tali beni voluttuari sono moneta sonante. Le divise sono tutto sommato abiti ordinati e puliti, ben lontani dall'ordinaria povertà patchwork degli indumenti rurali. Il braccio poggiato suggerisce pacatezza, dominio di sé, senso di responsabilità. E, suprema finzione, nel nuovo status è possibile introdurre, quando vi sono, la propria moglie e i propri figlioletti. La dura separazione che attende esorcizzata dall'eterna (forse proprio tale) presenza sul cassettone della cucina della coppia unita. Il figlioletto maschio? Ancora poco più che infante, indossa un vestitino borghese della festa, (come la sorellina, del resto, ornata del gioiello avito che ne sancisce la condizione di futura sposa con dote), ma il cappelluccio di foggia militaresca e soprattutto il fucile, poggiato al piede e tenuto per la canna, in una verosimile imitazione della militaresca posizione di riposo, dicono di un bisogno, di un'eventualità, di continuità, di una possibilità di sostituzione e prosecuzione, di una nuova possibile, illusoria, soggettività consenziente. Saverio Marra, caporale di fanteria e sua moglie, 1915-'20 circa, courtesy of Museo Demologico di San Giovanni in Fiore (CS) 8 Saverio Marra, caporale di fanteria con i suoi bambini, 1915-'20 circa, courtesy of Museo Demologico di San Giovanni in Fiore (CS) Francesco Faeta Università degli Studi di Messina Dipartimento di civiltà antiche e moderne [email protected]; [email protected] ww2.unime.it/antropologia 9