GIOBBE: LA RISPOSTA DI DIO (Gb 38-41) Premessa La problematica che il libro di Giobbe suscita da sempre continua ad essere dibattuta in modo vivace e instancabile. La cosa si spiega perché Giobbe è un classico della letteratura non solo biblica, ma anche universale, e, come tale, contiene una domanda che trascende i confini della semplice operazione letteraria. Certo, si continua a dibattere il ventaglio di questioni di ordine filologico, testuale, redazionale e storico, ma il dibattito attorno alla questione filosofica o teologica che il poema fa nascere è altrettanto prepotente e intenso, più che per ogni altra opera biblica. Difatti, in Giobbe si tratta di un problema che non è solo del libro né della sola letteratura biblica, bensì anche, essendo un classico, del problema del senso della nostra esistenza, di una realtà intrecciata in una rete di fattori che ci fanno chiedere: perché si soffre, soprattutto perché deve soffrire l’innocente? Connessa intrinsecamente con tale domanda è quella che in tono smarrito viene a formularsi così: se Dio esiste, chi è e che cosa fa? In particolare, chi è il Dio biblico di Giobbe? Un sovrano assoluto che agisce con arbitrio? Ma non è di costui che l’uomo ha bisogno, come dice Giobbe. Allora un Dio giusto che distribuisce premi ai buoni e castighi ai malvagi? Questo affermano i tre amici di Giobbe, ma è anche quello che Giobbe stesso pensa e che lo fa ribollire d’ira e di angoscia di fronte ad una patente ingiustizia consumata nei suoi confronti. La questione richiede necessariamente la risposta di Dio ed è su di essa che si appuntano le nostre aspettative. Un interessante indizio del carattere prioritario della risposta divina sta nella numerosa serie di studi che a tutt’oggi continuano a concentrarsi sugli ultimi capitoli di Giobbe, cioè sui due discorsi di Dio: Gb 38,1-39,30 e 40,1-42,6 (i due brevi interventi di Giobbe in 40,3-4 e 42,1-6 vanno letti con i due discorsi in quanto contribuiscono a illuminarli). Anche noi con questo contributo vogliamo compiere un’indagine su questi testi, tenendo conto di due fattori. Il primo è che bisogna ricordare pregiudizialmente che la risposta divina è data da un autore umano, come sottolinea bene Alonso Schökel1; il secondo fattore è che proprio per questo la risposta divina non va indagata all’esterno di essa, in base cioè alle nostre aspettative logiche o metafisiche, bensì all’interno di un testo scritto da un autore che si colloca tra il V e il IV sec. a.C. Ciò comporta che dobbiamo tenere presente anche il contesto storico-culturale entro il quale si situa l’operazione pur geniale dell’autore dell’opera. Il contesto è quello dell’interscambio a ondate continue tra il mondo vicino-orientale e il mondo greco. Di tale tema ha trattato ampiamente Martin L. West nel suo La filosofia greca arcaica e l’Oriente2. Se l’Oriente ha influenzato il pensiero e la 1 L. Alonso Schökel, Giobbe, in L. Alonso Schökel e altri, La Bibbia, parola di Dio scritta per noi, vol. 2, Marietti, Torino 1980, 95. 2 M.L. West nel suo La filosofia greca arcaica e l’Oriente, Il Mulino, Bologna 1993 (orig. inglese 1971). cultura greca arcaica, è avvenuto un fenomeno similare di ritorno specialmente nel periodo ellenistico: il pensiero greco può aver influenzato il pensiero vicino-orientale. Nostro intento non è quello di dare un’interpretazione totale e tanto meno definitiva del senso e del significato della risposta di Dio alla questione posta da Giobbe, bensì quello di vedere se è possibile considerare quella di Dio una risposta e se sì sulla base di quale pensiero filosofico e/o teologico. Approccio interpretativo corrente Il più delle volte viene spontaneo di leggere il libro di Giobbe con le sue istanze, seguendo un filo logico che è quello della cultura occidentale3. L’opera sembra porre una questione grave e difficile il cui oggetto è dibattuto in quella branca del pensiero filosofico che noi chiamiamo teodicea: Giobbe porrebbe in certo qual modo il problema del male nel mondo. Questo tipo d’interpretazione non è fuori luogo, perché il tema è fortemente presente nel poema; d’altra parte, esso non è sconosciuto né alla letteratura biblica (si legga ad esempio il Sal 73 e Qo 4,1-3) né alle altre culture mediorientali delle quali ogni introduzione a un commentario di Giobbe che si rispetti si premura di segnalare le opere affini4. Della letteratura egiziana si cita, tra altre testimonianze, il Dialogo di un disperato con la sua anima (ba) (circa 2190-2040 a.C.: Primo Periodo Intermedio), dove un uomo angosciato di fronte alla sua situazione esistenziale, ne parla con il suo ba e gli rivela che per lui è meglio suicidarsi. L’opera non offre una risposta finale, almeno secondo le nostre categorie concettuali. Si cita poi il cosiddetto “Giobbe sumerico”, cioè la Lamentazione di un uomo al suo dio, risalente a circa il 2000 a.C., in cui la sofferenza del protagonista trova linimento e soluzione felice nell’intervento della divinità alla quale egli ha elevato il lamento. Relativamente alla letteratura assiro-babilonese, si suole citare soprattutto il poema ludlul bēl nēmeqi (= “Voglio lodare il signore della sapienza”), molto diffuso nella cultura accadica. Come nel Giobbe sumerico, anche qui il protagonista, che sembra richiamare il Giobbe biblico, espone la sua situazione, per la quale non vi è risposta se non quella di accettare la volontà misteriosa degli dei e la loro benevolente salvezza. Simile a tale poema è l’ugaritico R.S. 25.460. Inoltre, si fa riferimento alla cosiddetta Teodicea babilonese (XV-X sec. a.C., probabilmente del periodo cassita), così chiamata dagli studiosi, perché forse è l’unica che dibatte in certo qual modo il problema del male. Qui un personaggio ne discute con un amico, senza arrivare ad una conclusione. In realtà, questi riferimenti vicino-orientali vengono segnalati dagli studiosi per alcune reminiscenze sia di ordine formale e 3 Di questa pubblicistica fanno una rassegna L. Alonso Schökel e J.L. Sicre Diaz, Giobbe, Borla, Roma 1985, 598-600; anche G. Ravasi, Giobbe, Borla, Roma 1984, 722-723, il quale afferma di aver registrato in relazione ai due discorsi di Dio in Giobbe più di un centinaio di studi, compresi alcuni giapponesi e russi. 4 J. Gray, The Book of Job in the Context of Near Eastern Literature, in ZAW 82 (1970), 251-269; L. Alonso Schökel, Giobbe, 19-37; G. Ravasi, Giobbe, 128-161; V. Morla Asensio, Libri sapienziali e altri scritti, (ISB 5), Paideia, Brescia 1997 (orig. spagnolo 1994), 127-128. letterario sia di contenuto, ma solo per concludere che il Giobbe biblico va studiato per se stesso come opera originale. Vi è da aggiungere tuttavia che qualcuno si è arrischiato ad evocare riferimenti alla cultura greca. Ultimamente lo ha fatto per il più ampio campo dell’Antico Testamento (AT) Jacques Trublet, il quale con acutezza afferma che, allorché si vuole usare il concetto di natura (φύσις) quando ci si riferisce all’AT, non si può non chiamare in campo la filosofia greca, nonostante che l’AT si differenzierebbe da essa per il concetto di creazione, sconosciuto al pensiero greco5. In definitiva, una numerosa rappresentanza dell’interpretazione corrente, dopo aver tentato d’interpellare la letteratura orientale e dopo averla congedata, tenta di seguire la «logica» del libro di Giobbe, apparentemente all’interno del poema stesso, in realtà, appoggiandosi ad un criterio esterno: la nostra logica. Difatti, fino ad oggi non è mai mancata l’affermazione che il Dio di Giobbe, e quindi il poema, non darebbe alcuna risposta o almeno una risposta sufficiente al problema posto dal protagonista, cioè quella razionale o logica6. Questo tipo d’interpretazione ha raggiunto il suo acme in posizioni estreme come ultimamente quella di D.J.A. Clines7, il quale presume che il povero Giobbe avrebbe bisogno di un quinto amico, oltre a Elifaz, Bildad, Sofar ed Elihu, a difenderlo dall’inaccettabile comportamento di Dio che lascerebbe in modo eticamente deplorevole Giobbe nella sua solitudine, senza offrirgli una risposta. Citiamo questo intervento solo come emblema di un atteggiamento estremo ed emotivo che non tiene forse sufficiente conto del tessuto culturale e concettuale del poema di Giobbe. Il risultato delle ricerche, pur senza raggiungere questo culmine, ruota in genere attorno a questa conclusione: Giobbe deve accettare il mistero di Dio, senza poter ricevere una risposta razionale. Le varie posizioni degli studiosi, in realtà, fondate sugli autentici problemi che il libro di Giobbe pone, si distinguono talora o per sfumature interpretative o per pregiudiziali concettuali che non rendono veramente differenti le une rispetto alle altre né entrambe d’altra parte sono da ritenersi false8. Si tratta piuttosto dell’aspetto discutibile della prospettiva, spesso esterna all’impianto culturale del testo. Due tipi di soluzione si staccano dal comune filone e preparano indirettamente la strada che conduce al nostro contributo. Il primo tipo è quello adottato da L. Alonso Schökel nel suo J. Trublet, Peut-on parler de nature dans l’Ancien Testament?, in RSR 98 (2010) 193-215. A.F. Campbell, The Book of Job: Two Questions, One Answer, in ABR 51 (2003) 15-25; E.L. Greenstein, Truth or Theodicy? Speaking Truth to Power in the Book of Job, in PSB 27 (2006) 238-258. 7 D.J.A. Clines, Job’s Fifth Friend: An Ethical Critique of the Book of Job, in BI 12 (2004) 233-250. 8 Citiamo tra gli studi migliori in questo contesto: A. Passaro, Domande e risposte sulla giustizia in Giobbe, in RivB 12 (2002) 119-136. Passaro fa questa bella riflessione in riferimento alla risposta divina a Giobbe: “…il Dio dell’esodo si rivolge a Giobbe, non riproponendo le grandi gesta salvifiche, ma invitandolo ad entrare nel mistero della creazione, come «luogo» del mistero di Dio, non solo nella sua onnipotenza: è la grande intuizione del libro di Giobbe. La riflessione sulla giustizia di Dio di fronte all’ingiustizia viene così sganciata da una prospettiva esclusivamente etica, collocandosi nell’orizzonte della teologia della creazione e non in una piatta visione antropocentrica”, p. 135. Lo studioso ha colto nel segno, ma perché, ci si chiede, è proprio la “teologia della creazione” la risposta? Noi vorremmo spingere in questo senso, facendo un passo ulteriore. Si veda anche D. Timmer, God’s Speeches, Job’s Responses, and the Problem of Coherence in the Book of Job: Sapiential Pedagogy Revisited, in CBQ 71 (2009) 286-305: l’autore considera la coerenza di un cammino pedagogico di Giobbe che lo porterebbe ad una comprensione di Dio. 5 6 commentario a Giobbe, dove aggredisce da par suo il testo biblico, esaminandolo dall’interno e seguendone l’articolazione formale-strutturale e i contenuti ad essa connessi9. Il secondo tipo trova il suo punto d’appoggio nel criterio dello spostamento di prospettiva che Dio opererebbe in Giobbe, cioè lo scivolamento da una prospettiva antropocentrica a una invece cosmo/teocentrica 10. Entrambi i tipi comunque ammettono decisamente che nel poema vi sia una risposta adeguata da parte di Dio e questo è il nostro assunto. Anche per noi nel libro di Giobbe viene data una risposta piena al problema che esso pone. Quando diciamo risposta non la intendiamo solo in senso letterario, come pure la intende Alonso e con lui G. Ravasi, il quale sottolinea che sotto questo aspetto non vi è oggigiorno quasi più alcun disaccordo tra gli studiosi (p. 723). A nostro parere, la risposta il libro la dà anche nell’ordine del contenuto, che definiremmo filosofico, come bene ha compreso P. Ricoeur, il quale però, a questo livello, curiosamente non la definisce una risposta da parte di Dio: “In cambio del suo silenzio è indirizzata a Giobbe una parola; questa parola non è una risposta al suo problema e non è per nulla la ricostruzione, a un grado superiore di sottigliezza, della visione etica del mondo. Il Dio che s’indirizza a Giobbe dalla tempesta gli mostra Behemot e Leviatan, le vestigia del caos vinto, divenute figure di una brutalità dominata e misurata dall’atto creatore; attraverso i simboli gli lascia capire che tutto è ordine, misura e bellezza; ordine inscrutabile, misura smisurata e bellezza terribile; un cammino è tracciato tra l’agnosticismo e la visione penale della storia e della vita: la via della fede inverificabile….Il poeta orientale, come Anassimandro ed Eraclito, annuncia un ordine al di là dell’ordine, una totalità piena di senso, all’interno della quale l’individuo deve collocare la sua recriminazione. La sofferenza non è spiegata né eticamente né altrimenti: ma la contemplazione del tutto abbozza un movimento che deve essere completato con l’abbandono di una pretesa; col sacrificio dell’esigenza che era all’origine della recriminazione, cioè la pretesa di formare solo per sé un isolotto di senso dell’universo, un impero in un impero”11. La lunga citazione si è resa necessaria, perché, come vedremo più tardi, Ricoeur ha da un lato visto giusto nel fissare lo sguardo all’interno dei discorsi di Dio, ma dall’altro ha emesso un giudizio discutibile, in quanto estrinseco all’economia culturale dell’opera. Ritorniamo perciò ai due tipi di soluzione ai quali abbiamo fatto riferimento. In relazione al primo tipo, Alonso Schökel afferma con forza che la risposta di Dio è richiesta innanzi tutto dall’economia del poema (discorsi degli amici: 15,22.34; 20,23.26-28; 22,16; 27,2021; discorsi di Giobbe: 13,13-23, in particolare il v. 22; 16,18,21; 19,27) e dalla relazione che il 9 L. Alonso Schökel, Giobbe, 597-673. A. Passaro, citato più sopra, può rientrare in questo secondo tipo; si veda inoltre R. Raphael, Things Too Wonderful: A disabled Reading of Job, in PRSt 31 (2004) 399-424; J.R. O’Brien, World, Winds, and Whirlwinds: The Voice of God Meets “the Vice of God”, in PRSt 30 (2003) 151-160; H. Reimer, Gerechtigkeit und Schöpfung. Ein Beitrag zum Verständnis des Hiobbuches, in C. Hardmeier u.a. (Hgg.), Freiheit und Recht, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2003, 414-428; L. Wilson, Job 38-39 and Biblical Theology, in RTR 62 (2003) 121-138. 11 Citato in G. Ravasi, Giobbe, 732-733 da P. Ricoeur, La symbolique du mal, Paris 1960, 298. 10 libro crea con i lettori, i quali hanno di sicuro delle aspettative12. La risposta divina però disorienta13: se si segue una linea argomentativa chiusa (che è quella della logica occidentale), essa delude e viene rifiutata dal lettore; se invece si sceglie una linea aperta, il lettore sarà a pronto a orientarsi su un percorso diverso, quello che l’autore vuole offrire. La risposta di Dio va dunque valutata nel modo seguente. Gli amici basavano le loro argomentazioni sulla dottrina della retribuzione, ma Dio non la prende in considerazione, mentre curiosamente accusa Giobbe ugualmente, ma di presunzione e d’ignoranza. D’altra parte, seguendo l’impianto letterario, Dio accontenta Giobbe sotto tutti gli aspetti: questi voleva incontrare Dio (13,15s) e Dio lo accontenta; voleva parlare con lui (13,20-24) e anche in questo Dio gli dà soddisfazione, riprendendolo ironicamente con le sue stesse parole (38,3; 40,7, cf. 13,22). Alonso procede nella sua analisi in maniera serrata, considerando più avanti il contenuto dei discorsi divini, sempre attenendosi strettamente al testo. Egli ammette che nel dispiegarsi della descrizione della potenza di Dio nel cosmo sembri a tutta prima che non vi sia una risposta adeguata, se non quella di voler schiacciare Giobbe sotto il peso della sua onnipotenza cosmica. In realtà, Dio vuole solo renderlo cosciente della sua ignoranza e della sua impotenza, “non per schiacciarlo e lasciarlo sdegnosamente senza risposta, ma per collocarlo al suo posto esatto, con la prospettiva corretta per confrontarsi con Dio” (p. 606). Rimarrebbe però, obietterebbe qualcuno, il problema della giustizia. Il cosmo descritto da Dio sembrerebbe amorale. Ma anche qui Alonso sa dare la sua soluzione. Essa si fonda sull’assioma veterotestamentario che la giustizia divina è vincolata alla sapienza. La sapienza che Dio mostra nell’aver fatto il mondo in armonia, dopo aver vinto il caos, è anche la sua giustizia (a questo proposito si ricordi Is 51,9-11, il cui schema ripropone quello storico-salvifico che troverà un suo picco in Sap 10-19). Questo s’inscrive addirittura in un piano o disegno divino (cēƒâ) (Gb 38,2). È un fatto comunque che la risposta di Dio nei suoi due discorsi si avvale esclusivamente di uno stile descrittivo, tipico di uno scritto sapienziale o innico (Sal 65; 104; Sir 43), ma anche di una difesa forense, come Giobbe aveva spesso preteso nei suoi discorsi, citando Dio in giudizio. Così si esprime Alonso: “Per la curiosità questi capitoli (cioè 38,1-41,26) hanno un sapore sapienziale, per il tono ricordano inni religiosi, per la funzione sono parti di un dialogo forense” (p. 610). In altri termini, è proprio nel dispiegamento della sua onnipotenza cosmica che Dio mostra anche la sua giustizia, la quale è polivalente di fronte a quella monovalente che Giobbe pretenderebbe doversi realizzare: “Oseresti tu cancellare il mio giudizio, dare a me il torto per avere tu ragione? (ha’af tāfēr mišpā‰î taršîcēnî lemacan tiƒdāq) (40,8). Alonso dunque centra il nodo della questione, tenendo presente proprio la coincidenza veterotestamentaria tra sapienza e giustizia, un dato che 12 13 L. Alonso Schökel, Giobbe, 597s; cf. G. Ravasi, Giobbe, 723. L. Alonso Schökel, Giobbe, 600-610. peraltro aveva una sua diffusione molto antica nel mondo vicino-orientale14. Ci si può chiedere se non sarebbe possibile approfondire l’aspetto della fonte di tale concezione per raggiungere una migliore comprensione del testo di Giobbe. Un sostegno a questa domanda proviene dal secondo tipo di indirizzo risolutorio. Ormai è chiaro che bisogna spostare la nostra attenzione, come dicono gli autori citati alla nota 10, da un obiettivo antropocentrico a uno cosmocentrico, nel quale anche il primo ritrova il suo senso. Di sicuro questo spostamento dovrebbe rispondere meglio alla concezione del mondo e della realtà che l’Israele antico ha condiviso con le società mediorientali. Tale visione è solo parzialmente testimoniata dalla letteratura biblica, la quale, come si sa, è selettiva in quanto opera di alcune élites intellettuali. E tuttavia l’attenzione al mondo naturale non manca nell’AT, come dimostra proprio il libro di Giobbe; solo che, a nostro parere, esso non registra semplicemente l’antico pensiero orientale che un considerevole influsso ha avuto sul pensiero greco arcaico15, bensì soprattutto la sua rielaborazione originale in ambito greco, come viene attestata dalla filosofia presocratica. In Giobbe quindi, avremmo un influsso greco di ritorno, dovuto con ogni probabilità al milieu ellenistico. Un’attenzione degli studiosi in tal senso è ben documentata ultimamente. Di un interscambio culturale tra i due mondi, quello orientale e quello greco hanno trattato B. Halpern e M.B. Dick 16. Per il primo, Giobbe attesterebbe un momento storico di dialogo politico-culturale tra la società assira e quella del pensiero presocratico; per il secondo, nella risposta che Dio dà a Giobbe vi sarebbe una posizione intermedia tra la concezione assira e quella greca epicurea. Dio sarebbe colui che domina e controlla il caos così com’è da sempre. A questo punto interviene provvidenziale quel testo di P. Ricoeur che abbiamo citato più sopra (vedi nota 11). Il filosofo, pur negando che quella di Dio a Giobbe si possa considerare una risposta, cita come referenti del pensiero presente nei discorsi divini Anassimandro ed Eraclito. Di questi due filosofi presocratici vogliamo occuparci ora per vedere se il loro pensiero possa essere supposto sullo sfondo della risposta di Dio a Giobbe e se sì in che senso e fino a qual punto. Un esempio viene dal detto citato ultimamente da S. Seminara, La “scienza”mesopotamica della catalogazione: le raccolte di proverbi sumerici tra lessicografia e letteratura sapienziale, in Or 78 (2009) 379-393: níg-gi-na-da a-ba inda-sá nam-ti ì-ù-tu : “Chi può stare alla pari con la giustizia (rappresentata dal dio Utu)? La vita (stessa) ne è creata (1.1), p. 391. 15 Vedi la tesi di M.L. West, La filosofia greca arcaica; inoltre, AA.VV., Éléments orientaux dans la religion grecque ancienne, Paris 1960; R.Mondi, Greek Mythic Thought in the Light of the Near East, in L. Edmunds (ed.), Approaches to Greek Myth,Baltimore 1990, 142-198; W. Burkert, The Orientalizing Revolution: Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge-Mass. 1992; J. Duchemin, Mythes grecs et sources orientales,Paris 1995; J. Bottero-C. Herrenschmidt-J.-P. Vernant, L’Orient ancien et nous: L’écriture, la raison, les dieux, Éd. A. Michel, Paris 1996; E. Cingano, Introduzione, in Esiodo, Teogonia, a cura di E. Vasta, Mondadori, Milano 2004, XXII-XXV. 16 B. Halpern, Assyrian and Pre-Socratic Astronomies and the Location of the Book of Job, in U. Hübner u.a. (Hrsg.), Klein Land für sich allein, (OBO 196), Universitätsverlag, Freiburg-Schweiz 2002, 255-264; M.B. Dick, The NeoAssyrian Royal Hunt and Yahweh’s Answer to Job, in JBL 125 (2006) 243-270. 14 Anassimandro, Eraclito e la risposta di Dio a Giobbe Qualunque sia il tipo di spiegazione che gli studiosi danno della risposta di Dio a Giobbe, dopo il percorso che il poema ha fatto loro seguire, essa è sempre il frutto di uno sforzo rilevante che vuole venire a capo di un’apparente incongruenza, almeno per la nostra logica occidentale e in particolare per quella filosofia antropocentrica e individualista che da noi si è sviluppata a partire da Cartesio. Chi si dispone a leggere il poema di Giobbe, ne segue le linee che esso stesso traccia. Il libro parla del dolore dell’innocente che non trova sufficiente spiegazione nella razionalità di una soluzione retributiva, così come la difendono i tre (quattro con Elihu) amici del protagonista. Il lettore si aspetta quindi una risposta dall’unico che possa risolvere la questione: Dio stesso. E sotto questo aspetto, abbiamo visto più sopra, come la risposta vi sia a livello letterario. Ma non a livello logico! Così almeno appare a noi. Da qui i molti tentativi talora imbarazzati di “giustificare” Dio con vari distinguo, soprattutto tra il piano razionale e quello emotivo-confessionale della fiducia richiesta da Dio nella sua onnipotenza misteriosa che rifiuterebbe qualsiasi chiarificazione. Si può ammettere comunque che la distinzione tra il piano razionale e quello mistico-esperienziale, assunta da noi contemporanei come criterio esterno, possa trovare accettazione, qualora quello interno di cui presto parleremo non corrisponderà alle nostre aspettative moderne. La natura del linguaggio è tale che anche la nostra lettura contemporanea di Giobbe può inserirsi nel solco tracciato per la prima volta tanti secoli fa dall’autore del poema. Si tratta del fenomeno della “semiosi illimitata” di cui parlano i linguisti moderni, che rende scientificamente ragione della validità del diritto all’attualizzazione del testo biblico. Ma non è a questo livello che vuole svolgersi ora il nostro discorso, bensì a quello che passa all’interno di un’opera letteraria scritta tra il V e il IV secolo a.C. Ripetiamo ancora una volta in che cosa consista il problema. Dio dà una risposta razionale al problema posto da Giobbe? Nostro intento è quello di rispondere sì, non estrapolando dalle categorie di pensiero che lo stesso poema adopera e che costituiscono il contesto culturale speculativo dell’epoca dell’autore. In tal modo, saremo obbligati a non confondere il fatto che la risposta possa non soddisfare la nostra logica o la nostra filosofia, con il fatto che nel poema non venga data una risposta razionale, anzi filosofica, al problema di Giobbe. Per poter inoltre meglio indirizzare la nostra ermeneutica, dobbiamo ricordare che un libro biblico è innanzi tutto una creazione culturale, temporalmente determinata, che non può né deve coprirsi con l’intera gamma di valori da noi oggi condivisi nell’ordine della speculazione sia metafisica che etica. E veniamo al nostro problema. Il poema di Giobbe ha una sua configurazione letteraria originale che conferisce all’opera un senso ben definito. Esso si presenta come un anello prezioso (la favola di cornice che apre e chiude il libro) nel quale è incastonato un diamante (le serie di dialoghi tra Giobbe e gli amici e il dialogo tra Dio e Giobbe). Tra la cornice narrativa e il corpo dialogico vi è una stretta connessione di senso. L’una esplica l’altro in modo popolare ed immediato, con i colori della favola e con le affermazioni nette che poi andranno verificate nello svolgersi intermedio del dramma. Allorché Giobbe viene toccato per la seconda volta dalla disgrazia e la moglie lo incita a maledire Dio e a morire, così egli risponde: “Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (gam ‘et ha‰‰ôv neqabbēl mē’ēt hā’elōhîm we’et hārāc lō’ neqabbēl) (2,10). Quella che appare un’umile confessione di fede del credente, è in realtà un’affermazione molto raffinata su Dio. Come può una fede orientata in senso monoteistico credere che possa esistere qualcosa che sfugga a Dio e che da lui non dipenda? Certo, l’affermazione qualche problema lo suscita, ma bisogna esaminare come l’autore del poema imposti la questione. All’affermazione di Gb 2,10 può essere posto come pendant il già citato Gb 40,8: ha’af tāfēr mišpā‰î taršîcēnî lemacan tiƒdāq. Anche qui abbiamo una dichiarazione su Dio. Il fatto che da Dio tutto provenga (2,10) non va interpretato con il criterio di etica antropocentrica “se io sono giusto, allora tu sei in torto”. In tal modo, Dio verrebbe ridotto al livello dell’uomo, cioè alla parte per il tutto. Non è l’uomo il criterio da cui partire, ma un altro al quale anche l’uomo sia soggetto. L’autore sembra sviluppare nei due discorsi di Dio a Giobbe un manifesto teologico che ruota attorno ad un criterio simile a quello che il pensiero presocratico del VI-V sec. a.C. aveva adoperato: il criterio di una φύσις, cioè di una “natura” o di un “cosmo” che si origina da un principio primo, un’αρχή che tutto partorisce e tutto regge con un’operazione ordinatrice. Quest’ordine d’idee in realtà era una razionalizzazione correttiva che partiva da lontano, fin dai tempi della Teogonia di Esiodo (VIII sec. a.C.), dove il grande poeta raccontava il mito del processo di nascita del cosmo attraverso una lotta condotta da Zeus, il padre degli dei e degli uomini (un corrispettivo dell ‘ El capo del pantheon semitico) contro i Titani17: eÃnqa qeoiì Tith=nej u(po\ zo/f% h)ero/enti kekru/fatai boulv=si Dio\j nefelhgere/tao, xw¯r% e)n eu)rw¯enti, pelw¯rhj eÃsxata gai¿hj. toiÍj ou)k e)cito/n e)sti, qu/raj d' e)pe/qhke Poseide/wn xalkei¿aj, teiÍxoj d' e)pelh/latai a)mfote/rwqen. [eÃnqa Gu/ghj Ko/ttoj te kaiì ¹Obria/rewj mega/qumoj nai¿ousin, fu/lakej pistoiì Dio\j ai¹gio/xoio. eÃnqa de\ gh=j dnoferh=j kaiì tarta/rou h)ero/entoj po/ntou t' a)truge/toio kaiì ou)ranou= a)stero/entoj e(cei¿hj pa/ntwn phgaiì kaiì pei¿rat' eÃasin (Teogonia, 729-738) “Là gli dei Titani sotto una caligine oscura sono tenuti nascosti per volere di Zeus adunatore di nembi, in una cupa regione, all’estremità della terra smisurata. A loro non è data via d’uscita, ma Poseidon vi pose porte 17 In realtà, Esiodo pone come primo elemento di generazione il Kaos (Teogonia, 116.123-125), un principio che suppone già un alto grado di astrazione (cf. E. Vasta in Esiodo, Teogonia, Mondadori, Milano 2004, 78-79). di bronzo e un muro corre intorno da entrambe le parti. Là Gige, Cotto e Briareo magnanimo vivono, custodi fidati di Zeus egioco. Là della terra nera e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, nell’ordine, vi sono le sorgenti e i confini di tutti…” 18. Nell’antico testo poetico, che peraltro usa immagini che ricordano Gb 38,4-1119, si ha un avvicendarsi di figure mitologiche che nel pensiero razionale del VI sec. a.C. impallidiranno a favore di una descrizione demitizzata dell’origine, della struttura e del senso dell’universo. Tra i filosofi presocratici che più sembrano offrire un termine di confronto per l’ordine d’idee ipotizzabile nella risposta di Dio a Giobbe, sono da menzionare Anassimandro di Mileto ed Eraclito di Efeso, come ha del resto affermato anche P. Ricoeur (vedi nota 11). Anassimandro – Anassimandro di Mileto20 per primo pone all’inizio del cosmo un principio, un’αρχή, che non sembra avere un semplice significato temporale o cronologico, nel senso di ciò che è venuto per primo, bensì in un senso che potremmo definire metafisico, anche se non è escluso che tale tipo di comprensione sia stata accentuata soprattutto da Aristotele o da Teofrasto21; tuttavia, essi hanno tutt’al più posto in evidenza ciò che Anassimandro aveva voluto esprimere col principio che chiama to\ aÃpeiron, cioè l’infinito, l’illimitato, come riportano Simplicio e Ippolito22: A. ... <a)rxh\n> .... eiãrhke <tw½n oÃntwn to\ aÃpeiron .... e)c wÒn de\ h( ge/nesi¿j e)sti toiÍj ouÅsi, kaiì th\n fqora\n ei¹j tau=ta gi¿nesqai kata\ to\ xrew¯n: dido/nai ga\r au)ta\ di¿khn kaiì ti¿sin a)llh/loij th=j a)diki¿aj kata\ th\n tou= xro/nou ta/cin.> (Simplic. Phys. 24,13, cf. A 9). “Anassimandro ha detto che principio degli esseri è l’infinito…Da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità; poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo il decreto del tempo”. 18 Diamo la traduzione curata da E. Vasta in Esiodo, Teogonia, , 51. Per gl’influssi orientali, cf. ancora E. Cingano, Introduzione, XXII-XXV. 20 C. Kahn, Anaximander and the Origin of Greek Cosmology, Columbia University Press, New York 1960; E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano 1984, 37-39; R. Laurenti, Introduzione a Talete, Anassimadro, Anassimene, Laterz, Bari-Roma 62000. 21 M.L. West, La filosofia greca arcaica, 117ss.. 22 Si citerà perlopiù la traduzione dei passi che dà il West nell’opera citata, anche se si terrà presente pure quella offerta da A. Lami, I Presocratici. Testimonianze e frammenti. Da Talete a Empedocle (Classici BUR), Rizzoli, Milano 1991, a fronte del testo greco riprodotto da H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 61951-1952, oltre naturalmente a dare qua e là la nostra. 19 ouÂtoj a)rxh\n eÃfh tw½n oÃntwn fu/sin tina\ tou= a)pei¿rou, e)c hÂj gi¿nesqai tou\j ou)ranou\j kaiì tou\j e)n au)toiÍj ko/smouj. tau/thn de\ a)i¿dion eiånai kaiì a)gh/rw, hÁn kaiì pa/ntaj perie/xein tou\j ko/smouj …… ouÂtoj me\n ouÅn a)rxh\n kaiì stoixeiÍon eiãrhken tw½n oÃntwn to\ aÃpeiron, prw½toj touÃnoma kale/saj th=j a)rxh=j (Hipp., Ref. 1,6,1-2). “Costui diceva che principio degli esseri era una certa natura dell’infinito, dalla quale provengono i cieli e i mondi dentro di essi, e che essa è eterna e insenescente e abbraccia tutti i mondi….Egli ha detto che principio e elemento degli esseri è l’infinito, il primo ad averlo chiamato col nome del principio” . Da queste affermazioni ricaviamo, come dice il West23, che i πείρατα, cioè i ”limiti” costituiti da quel che rappresentano la terra, il mare e il cielo, hanno la loro origine “in un aldilà infinito, inesauribile e immortale”, di tale natura che non si può fare certo di Anassimandro un monista. Ma c’è un dato in particolare nell’affermazione riportata da Simplicio, che avvicina il pensiero di Anassimandro alla logica dei discorsi di Dio in Giobbe. All’interno (non in senso spaziale, ma metafisico) dell’Infinito, ma distinto da esso, si svolge un processo simmetrico di originedistruzione, nascita-morte. Per queste simmetrie tra gli esseri che nascono, si annientano e vengono di nuovo alla luce, vengono adoperate delle espressioni etiche attinenti alla giustizia. La distruzione è un “pagare la pena per l’ingiustizia”. Quel che possiamo arguire da tale terminologia è che le categorie della moralità nel pensiero anassimandreo rientrerebbero intrinsecamente nella costituzione dell’universo come φύσις. Non vi è da meravigliarsi. Nel mondo antico non si faceva una distinzione netta tra la sfera naturale e quella etica, dato che la realtà veniva considerata come un tutto unico, nel quale varie forze si agitano in movimento dialettico. Del resto, l’immaginario che svela tale concezione è chiaramente presente anche nell’AT. In Es 15, le acque che sommergono i carri egiziani adombrano le acque primordiali (v. 5) e trovano anche una variante sinonimica nei popoli stranieri aggressori che si fanno da parte per lasciar passare il popolo eletto di Dio (vv. 1316). Una concezione simile è presente anche in Is 51,9-11. Il Principio-Dio è colui che nel tempo (la storia) e nello spazio (il cosmo) mette in regola le cose ripianando, armonizzando, facendo giustizia, come leggiamo in Gb 40,8-14: ִֵ ר ְִּ ת ןַ עַ מ ִר י ָּ ֵףְׁ רְ ֵַּ פ ִַ ָּ ְֵׁ פא ֵר פ ת ףַ ַא ה ל ֵעְְר ַָּ ל ַא ָּרע ת תרב וְך ַת לת רָּ ַף ןו רַ ָּ ִּא ְו אׁשָֽ ן ררע ר ִֹּ עַ לה רל ַֹ ְךַ ל ַן לָֽ ל ןר ָֽר ָּ ִֵ ת ר ִּה ְׁו 23 M.L. West, La filosofia greca arcaica, 119s. פת ןוו ִּ ְֵ ְׁ ַןר י פא ְך ַָּ לר עַ פְ ֵּ וָּ ע ן רא תְ עפ ן ל ן ָּ ע ן רא תְ עפ ן ןַ א ֵר פא ןו ַל ׁשן ַָֽ ב ְָּׁר אֵ פְ ִַ כ ר ִִּ ְו רא רי ָּ פרכַ ָֽ ְ ר פןפ ְ ׁשכ ְַךְׁ הַ יר ִּף והוַּר ף רְ הפ לְׁ ַא ת ֵּ פ ֵף פפרִּגֵּו ֵ ַל ְְַֹ ׁשע ֵר פ עַ לָֽפ רע ֵ ִָּּ פְר “Oseresti tu cancellare il mio giudizio, dare a me il torto per avere tu la ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio E puoi tuonare con voce pari alla sua? Su, ornati pure di maestà e di grandezza, rivestiti do splendore e di gloria! Effondi pure i furori della tua collera, guarda ogni superbo e abbattilo, guarda ogni superbo e umilialo, schiaccia i malvagi ovunque si trovino; sprofondali nella polvere tutti insieme e rinchiudi i loro volti nel buio! Allora anch’io ti loderò, perché hai trionfato con la tua destra”. L’ironia del v. 14 si rileva dal fatto che si fa riferimento al Sal 89,1, dove si esalta la natura del Dio d’Israele nella sua valenza di principio dominatore della natura e della storia. In altri termini, Dio chiede ironicamente a Giobbe se egli, abbandonando la sua logica unilaterale, sia capace di dominare la multilateralità delle pagine del libro cosmico: se lo farà, sarà Dio. Eraclito – Un universo concettuale ancora più ricco e più proficuo per i nostri scopi lo troviamo nel pensiero di Eraclito di Efeso. Certo, non per stabilire un rapporto diretto tra il filosofo greco e il testo biblico né qualsiasi relazione di causa-effetto, bensì per mostrare qualche elemento di parentela concettuale tra il mondo eracliteo e quello di Giobbe. Eraclito è stato senza dubbio una delle menti più profonde dell’antico pensiero greco e l’influenza delle sue idee, perlomeno come punto di partenza, giunge fino ai nostri giorni24. Eraclito presenta la realtà come un’unicum che ingloba un gioco dialettico tra opposti, per il quale usa il termine metaforico di πόλεμος = “guerra”: 24 Per i testi eraclitei A. Lami, I presocratici, 199-237; per il pensiero, M.L. West, La filosofia greca arcaica, 157-258; E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano 1984, 41-45; H. Flashar, La saggezza arcaica: Talete, Eraclito, Empedocle, in S. Settis (ed.), Storia Einaudi dei Greci e dei Romani. IV. Diversità e unità della Grecia, Einaudi, Torino 1996, 1238-1244 (con una essenziale bibliografia); H.G. Gadamer, Eraclito, ermeneutica e mondo antico, Donzelli, Roma 2004; M. Heidegger, Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale. Logica. La dottrina eraclitea del logos, Mursia, Milano 1993; un interessante e stimolante commento al pensiero heideggeriano, relativamente ad Eraclito in U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 42008, 152-156. Fr. 67 ®o( qeo\j h(me/rh eu)fro/nh, xeimwÜn qe/roj, po/lemoj ei¹rh/nh, ko/roj limo/j> (ta)nanti¿a aÀpanta: ouÂtoj o( nou=jŸ, <a)lloiou=tai de\ oÀkwsper <pu=r>, o(po/tan summigh=i quw¯masin, o)noma/zetai kaq' h(donh\n e(ka/stou>. “Dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame [tutti i contrari: questo è il senso], si trasforma come [fuoco], il quale, quando è mescolato a spezie, prende il nome dal profumo di ciascuna”. Fr. 53 ®Po/lemoj pa/ntwn me\n path/r e)sti, pa/ntwn de\ basileu/j, kaiì tou\j me\n qeou\j eÃdeice tou\j de\ a)nqrw¯pouj, tou\j me\n dou/louj e)poi¿hse tou\j de\ e)leuqe/rouj. “Polemos (= guerra) è padre di tutti (gli esseri), re di tutti; pertanto, rende gli uni dei, gli altri uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi”. Le parole del secondo aforisma, che sembrano identificare un principio filosofico con la realtà concreta della vita e dei costumi degli uomini, rimandano invece a qualcosa di più complesso e profondo, cioè ad un principio fontale, con buona pace del West che troppo decisamente lo nega25, che è il λόγος, anche se si può ammettere senz’altro che il filosofo greco usi il termine in vario modo, anche con il significato comune di “discorso”. È però difficile negare che in alcuni aforismi egli faccia riferimento a qualcosa la cui natura verbale indica piuttosto una “ratio” ontologica che sta dietro a tutti gli esseri (Fr. B1, B2, B113, B115). D’altra parte, se è probabile che le letture di Eraclito fatte dai posteri, principalmente dagli stoici, possano aver aggiunto qualcosa che nel suo pensiero ancora non c’era, v’è tuttavia in esso già qualche elemento fondamentale che può confermare quel principio originario chiamato λόγος. Eraclito parla infatti del “fuoco” (pu=r) come del principio dal quale scorrono tutti gli altri elementi cosmici: l’acqua, la terra e l’aria. Anche in questo caso, non tutti gli aforismi sembrano indicare un semplice elemento della natura. Il fuoco appare anch’esso la metafora di un principio divino, di “una volontà divina che saetta attraverso il mondo” (così ipotizzerebbe il West, p. 197) per governarlo: Fr. 64 gi¿nesqai le/gwn ouÀtwj: <ta\ de\ pa/nta oi¹aki¿zei Kerauno/j>, toute/sti kateuqu/nei, kerauno\n to\ pu=r le/gwn to\ ai¹w¯nion. le/gei de\ kaiì fro/nimon tou=to eiånai to\ pu=r kaiì th=j dioikh/sewj tw½n 65 oÀlwn aiãtion “Dicendo che così avviene, che il fulmine governa tutte le cose, vale a dire le dirige il fulmine, così chiamando il fuoco eterno. Dice che questo fuoco è anche dotato di senno e che è causa della costituzione di tutte le cose”. 25 M.L. West, La filosofia greca arcaica, 172-179. La particolare natura di tale principio si rileva proprio da quella proprietà divina che gli viene tributata (vedi sopra il Fr. 67)26. Del resto, la figura del fulmine rimanda allo strumento tipico di Zeus, meglio della sua volontà. Vi è però ancora un altro elemento che avvalora la concezione originale di Eraclito, la quale è niente affatto mitica, bensì filosofica: il concetto di τò σοφόν: Fr. 41 eiånai ga\r <eÁn to\ sofo/n, e)pi¿stasqai gnw¯mhn, o(te/h e)kube/rnhse pa/nta dia\ pa/ntwn. “Una cosa sola è ciò che è saggio, intendere la ragione che governa tutto per ogni dove”. Fr. 32 <eÁn to\ sofo\n mou=non le/gesqai ou)k e)qe/lei kaiì e)qe/lei Zhno\j oÃnoma. “Una cosa sola è il saggio, che vuole e non vuole essere chiamato soltanto Zeus”. Fr. 102 <tw½i me\n qew½i kala\ pa/nta kaiì a)gaqa\ kaiì di¿kaia, aÃnqrwpoi de\ aÁ me\n aÃdika u(peilh/fasin aÁ de\ di¿kaia>. “Per il dio tutte le cose sono belle, buone e giuste, gli uomini invece hanno preso le une per ingiuste, le altre per giuste”. Questa serie di aforismi, relativi al concetto di sapienza, come potremmo tradurre anche il neutro τò σοφόν, evoca in qualche modo l’universo semantico e concettuale del discorso di Dio a Giobbe. Il Dio di costui, come il dio di Eraclito, ha uno stretto rapporto con la sapienza (si veda Gb 28, dove si hanno gl’inizi del teologumeno della sapienza personificata, vista ancora come una potenza misteriosa e impersonale, ma trascendente). Il senso del difficile fr. 32 è ben espresso dal West con queste parole: “Invece di una divinità che esige saggezza, abbiamo qui una Saggezza che esige divinità” (p. 193). In altri termini, non è alla mitologia che vuol far riferimento Eraclito, bensì alla filosofia. È divina quella ragione che presiede e che governa tutte le cose. Governare tutte le cose, significa comporre gli opposti in un’armonia che rende tutto bello, buono e giusto: una verità profonda che sfugge al senso comune dell’uomo. Questa con ogni probabilità è l’argomentazione che Dio usa presentando le sue ragioni a Giobbe nei cc. 38-42. I riferimenti al cosmo e alle varie creature e il governo etico del mondo andrebbero letti forse sullo sfondo di questa multiforme realtà di natura dialettica, che Dio sa imbrigliare come il Leviatan o Behemot (Gb 40,15-41,26). Gli uomini, alla pari di Giobbe, vedono solo parzialmente la realtà delle cose e non hanno il senso del tutto (cf. Qo 3,11: “Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la 26 M.L. West, La filosofia greca arcaica, 196s. durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine”). Riflessioni finali Con la nostra breve disamina di testi di filosofi presocratici, abbiamo azzardato un’ipotesi di lavoro che, se adeguatamente verificata, potrebbe essere molto feconda per comprendere la “logica” della risposta di Dio a Giobbe. Il confronto dei testi biblici con quelli di Anassimandro e di Eraclito, conduce a delle riflessioni che, più che concludere, possono suggerire un’ulteriore verifica dell’ipotesi. 1) Preliminarmente, è da dire che il principio divino dei due filosofi greci e il Dio di Giobbe sono di sicuro differenti, dato il diverso ambito storico-culturale di provenienza. Posto questo criterio di distinzione, esso è però applicabile anche in senso opposto. La comprensione del Dio di Giobbe non deve partire da una nostra pre-comprensione moderna, di cui si è più o meno consapevoli, che usa categorie concettuali quali monoteismo o creazionismo, difficilmente applicabili al mondo biblico. Nel pensiero veterotestamentario non vi è un concetto quale la “creazione ex nihilo” né il principio monoteistico, pur presente e originale della fede ebraica, va caricato della comprensione post-biblica e moderna27. In altri termini, oggi la ricerca scientifica sta attenta quanto più è possibile a situare realisticamente e oggettivamente i testi biblici nella loro epoca di appartenenza, piuttosto che leggerli attraverso il filtro delle speculazioni di epoche posteriori. 2) La distinzione tra il pensiero greco e quello del mondo di Giobbe non impedisce di vedere tra di essi più vicinanza di quanta potrebbe esservene tra il nostro modo di vedere odierno e quello antico. Il pensiero greco e quello biblico condividono spesso lo stesso universo concettuale sia per un motivo storico-culturale al quale si è già accennato più sopra (cf. nota 15), sia per un motivo antropologico-religioso: il mondo arcaico greco e quello premoderno biblico, specialmente quello sapienziale, hanno una comprensione olistica della realtà; non vi sono compartimenti stagni tra l’ambito fisico e quello etico. 3) L’autore del libro di Giobbe mostra, oltre alla bravura letteraria, anche una notevole capacità speculativa. Anche se la colorazione semitica del poema è indubitabile e anche se il Dio di Giobbe porta il nome di JHWH, credo che dobbiamo mettere tra parentesi il Dio dell’esodo e dei profeti e dobbiamo piuttosto entrare nel punto di vista dell’autore, il quale 27 C. Westermann, Genesis 1-11, (BKAT I/1), Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 31983, 138; O. Loretz, L’unicità di Dio. Un modello argomentativo orientale per l’”Ascolta, Israele!”, Paideia, Brescia 2007 (orig. tedesco Darmstadt 1997). ha sottoposto ad un “bagno” filosofico la sua concezione di Dio, proprio per venire a capo di un problema estremamente difficile, quello del rapporto tra Dio e la sofferenza del giusto che si attiene alla legge. Si potrebbe dire anche: come conciliare il problema del male etico col modello del giusto, la cui obbedienza alla Torà gli procurerebbe la vita e gli eviterebbe la morte (Dt 30,15-16)? Potremmo pensare, anche se forse non vi è rapporto, che l’argomento svolto dal nostro autore sviluppi polemicamente un modello di risposta diverso da quello della teologia deuteronomistica. Certo, l’autore è ebreo e alla fine il giusto Giobbe viene ugualmente premiato per la sua fedeltà al Dio d’Israele, ma, mentre il Deuteronomista dà una risposta etica al problema del male, cioè la disobbedienza ai comandamenti di Dio, l’autore di Giobbe sembra invece dare una risposta filosofica. Dio è il principio primo, dal quale e nel quale tutto ha origine e spiegazione (cf. la presentazione figurata antropomorfica di questa verità in Gn 1). Il mondo è caos che ha bisogno di ordine e di salvezza, perché ne venga fuori un κόσμος. Come l’artista trasforma il duro marmo informe in statua, così Dio usa il materiale del mondo, nella sua consistenza dinamica e dialettica, per comporre un’armonia mediante la sua sapienza (cf. Gb 28). Così, per lui “tutte le cose sono belle, buone e giuste” (cf. il fr. 102 di Eraclito). L’uomo, invece, vede tutto questo processo di volta in volta in modo unilaterale e parziale (vedi ancora lo stesso aforisma eracliteo): egli non ha il tempo di Dio né la sua sostanza. 4) Curiosamente, ma mica poi tanto, questa risposta che l’autore di Giobbe fa dare a Dio diventa un invito a contemplare il mistero profondo di Dio, in tal modo espresso da Giobbe: פָָּֽֽר ֵָּ פְאַ ת ִו רא ת לת ַעְ ֵפ הר ָּ ֵף ֵּ ף ֵר ר ִּ ןו ֵף פ רפן ףַ א תֵ פְ א ר ן ִּה תֵ פ ָֽר ַא ר תרא ה ןֵ ַָֽ ִֵ פ ל ת ַע ער ְךֵ פה ֵר י תרעַ לר ֵף פ ֵ פ לת ַע ע ר ִָּֽ ָּֽו פא ֵר פו ִּ ְִֵָּֽׁ ַ ִּף ְָּֽררע לער ַר אֵ פ ׁשע ַָֽ ה ָּ עפ ְׁ ער ת ֵּ ל ַן ל ה ְׁ ףַ א ִֵ פֵּ ל ַא ִר ן א פ ֵר פ רָּ ר ִּע ר ֵּות ְִּׁ ףַ ְָּֽעַ פר עתְָּ ה עפ ף עַ ר ל רֵ כַ ף ִֵ פ ַאתְ רא רי ָּ ל ִּרע פי ָּו י “Comprendo che puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che da ignorante può oscurare il tuo piano? Davvero, ho esposto cose che non capisco, cose mirabili che non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io ti interrogherò e tu m’istruirai. Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora il mio occhio ti vede, perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere” (Gb 42,2-6). Marco Nobile Roma, 17 settembre 2010 Abstract L’articolo cerca di dare un contributo alla comprensione della risposta di Dio a Giobbe (Gb 38-41), a fronte di una tendenza esegetica che talvolta nega addirittura che vi sia una risposta o che perlomeno ritiene che non si dia una risposta soddisfacente. L’autore ritiene invece che Dio dia una risposta a Giobbe, ma che essa vada compresa non alla luce di categorie concettuali moderne, bensì alla luce di un mondo culturale coevo a quello di Giobbe: il pensiero presocratico greco (Anassimandro ed Eraclito). Il tipo di risposta che Dio dà a Giobbe risulta un’alternativa di natura filosofica alla risposta etica che invece la teologia deuteronomistica dà al problema del male.