GUERRE USA - parte seconda

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Lucio Gentilini
STATI UNITI D’AMERICA: ESPANSIONE ED
IMPERIALISMO DI UNA DEMOCRAZIA IN ARMI
PARTE SECONDA: LA CONQUISTA IMPERIALE DEL MONDO
Una nuova era espansionistica
Il secolo (o poco meno) che era trascorso dalla guerra d’indipendenza degli Stati
Uniti al raggiungimento dei loro confini definitivi ed attuali era stato caratterizzato
non solo dalla loro incontenibile espansione territoriale, ma anche dall’ottimo
funzionamento delle loro istituzioni politiche, quelle che i Padri Fondatori avevano
forgiato per il paese fin dalla sua nascita: gli Stati Uniti erano arrivati fino al Pacifico,
avevano assorbito decine di milioni di emigranti, combattuto guerre e costruito una
moderna società dove prima c’era solo la natura selvaggia riuscendo a risolvere le
dispute politiche nell’ambito del loro sistema repubblicano bipartitico ed al sapiente
equilibrio dei suoi poteri.
Certamente con la guerra di secessione la parola era passata invece alle armi, ma il
sistema era emerso vincitore anche da questa durissima prova, e per gli USA si era
aperto un periodo che sarebbe stato poi chiamato ‘Golden Age’ con tutti i suoi
innumerevoli, profondi ed ulteriori ammodernamenti e trasformazioni.
Ma gli Stati Uniti non erano una potenza soddisfatta ed impegnata soltanto a sfruttare
le sue pur vastissime risorse interne: al contrario, la sua connaturata spinta verso
ovest continuò decisa ed inarrestabile anche dopo che era arrivata al Pacifico, solo
che ora essa proseguì sugli oceani alla costruzione di un impero - operazione tutt’ora
in corso (siamo nell’autunno 2013).
Alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali, la meta infatti erano ora gli oceani, il
Pacifico e l’Atlantico, e nello stesso 1867 (l’anno dell’acquisizione dell’Alaska)
l’ardente Segretario di Stato (già di Lincoln) Seward fece occupare le isole Midway
dalla marina militare; oltre a ciò, egli vedeva poi nelle Hawaii ottime basi di partenza
e punti d’appoggio verso l’Asia e caldeggiava il progetto di scavare un canale a
Panamà che rivoluzionasse e facilitasse i collegamenti fra i due oceani.
Questa volontà espansionistica negli oceani (soprattutto nel Pacifico) fece presto
emergere imprescindibile la necessità di dotare il paese di una marina militare capace
di esercitare tale auspicato ruolo di preminenza e così, proprio negli anni centrali
della ‘Great Depression’ (1873-95), gli USA procedettero alla costruzione di una
poderosa marina da guerra, fra l’altro utile anche per assorbire la disoccupazione.
Ancora una volta gli Stati Uniti dimostrarono tutta la loro potenza e le loro capacità:
occupati com’erano stati ad avanzare nel continente via terra, la loro marina militare
era stata inevitabilmente trascurata e si trovava al 16° posto (anche dopo quella del
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Cile!) nel mondo, ma dopo una decina d’anni era già schizzata in testa insieme a
quelle inglese e tedesca e corrispondeva finalmente alla forza economica stessa del
paese.
I
Gli Stati Uniti avevano potuto dedicarsi al raggiungimento ed al consolidamento della
loro completezza territoriale anche perché la Royal Navy inglese aveva continuato ad
esercitare indisturbata (ed a proprie spese) il controllo dell’oceano Atlantico e, più in
generale, perché l’estesissimo impero britannico era stato garanzia di pace e di
equilibrio sul mare, ma era evidente che questa posizione di supremazia non poteva
continuare troppo a lungo e cominciava anzi a manifestare i primi segni del suo
declino.
Negli ultimi decenni del XIX secolo – potentemente rafforzate dai progressi della
seconda rivoluzione industriale – anche altre nazioni europee stavano infatti tornando
a lanciarsi nella conquista dei continenti - ed oltretutto questa volta, oltre agli Stati
Uniti, fu della partita anche un nuovo ed imprevisto partecipante, il Giappone.
II
In Asia infatti era improvvisamente sorta una nuova potenza, il Giappone, che
proprio gli Stati Uniti avevano bruscamente destato dal suo lungo letargo dopo oltre
due secoli di chiusura ermetica: era stato infatti il commodoro Perry che nel 1853 al
comando di cinque modernissime navi da guerra aveva imposto l’apertura dei porti
nipponici al commercio internazionale e così fin dall’anno seguente anche le potenze
coloniali europee erano potute entrate nel suo territorio e gli avevano potuto imporre i
famigerati ‘trattati ineguali’ iniziando così a rapinarlo e ad approfittare delle sue
risorse (ma anche a metterlo in contatto con tutta la tecnologia dell’Occidente).
Tuttavia, unico fra tutti i paesi extraeuropei aggrediti dal colonialismo, il Giappone
aveva reagito con inaspettate prontezza e risoluzione mostrando di possedere capacità
più uniche che rare tanto che nel giro di una generazione non solo era riuscito a
liberarsi dalla pesante tutela coloniale, ma aveva raggiunto anch’esso una
stupefacente potenza industriale (!!!).
III
Nel 1885 la Conferenza di Berlino definì le sfere di influenza che le Potenze Europee
si erano ritagliate in Africa così che questa venne quasi completamente spartita: né gli
USA né il Giappone presero parte a questa concordata e pianificata aggressione,
invece quando il decennio successivo si aprì la grande corsa all’Asia (cioè soprattutto
alla Cina), anche le due nuove nazioni furono attive protagoniste di quest’ulteriore
assalto.
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Appena fu in grado di farlo il Giappone mise infatti subito in campo tutta la potenza
appena acquisita e nel 1894-95 in una breve guerra sconfisse nettamente la Cina delle
cui ricchezze e territori (soprattutto isole) da paese divenuto anch’egli coloniale
aveva ora bisogno.
Fu in questo scenario che gli Stati Uniti fecero il loro ingresso sulla scena mondiale.
La guerra ispano-americana
Il primo passo degli USA per affermarsi come potenza mondiale fu l’eliminazione
degli ultimi possedimenti d’oltremare della Spagna e la loro annessione.
In soli centosei giorni (dal 30 aprile al 13 agosto 1898) la guerra tra gli scalpitanti e
dinamici Stati Uniti ed il decrepito impero spagnolo chiuse così definitivamente una
lunga pagina di storia e ne aprì un’altra.
L’obiettivo degli USA era semplicissimo: impossessarsi delle ultime isole e degli
ultimi arcipelaghi da secoli possedimenti della Spagna, un tempo potenza imperiale
ormai però al tramonto e di fatto sopravvissuta a se stessa.
A fine Ottocento la Spagna aveva infatti perso quasi tutto l’immenso impero che
aveva mantenuto nei due oceani per tutta l’età moderna e le erano rimaste solo Cuba,
Portorico, alcune Piccole Antille in America, le Filippine e le Ladrones (le Marianne)
in Asia, più alcuni territori in Africa e nel Pacifico.
A fronte di questo rimasuglio di impero ormai esaurito stava l’agguerrita impetuosa
giovane repubblica americana, desiderosa di nuovi sbocchi e mercati ed orgogliosa
della potenza raggiunta: l’eliminazione di quel che restava della presenza spagnola
nell’Atlantico e nel Pacifico era solo il primo passo dell’espansionismo degli Stati
Uniti sugli oceani (e quindi dei loro ulteriori sviluppo e progresso economici e
politici) ed essi cominciarono la loro nuova avventura planetaria con lo sgomberare il
campo innanzitutto da questo ostacolo.
La guerra ispano-americana venne combattuta su vari fronti il primo e più importante
dei quali fu Cuba.
I
Cuba era un possedimento coloniale spagnolo che era sempre andato piuttosto
controcorrente: pur essendo stato uno dei primissimi insediamenti dell’impero su cui
‘non tramontava mai il Sole’, fino alla fine del XVIII era stato però piuttosto povero
ed aveva funto soprattutto da scalo e da base per le navi da e per Europa ed America.
Tuttavia quando negli anni Novanta del Settecento la grande rivolta servile aveva
travolto la francese Haiti e ne aveva interrotto la fornitura di zucchero (di cui era la
maggior produttrice nei Caraibi), la vicina Cuba aveva prontamente preso il suo posto
- anche perché da Haiti nel decennio 1798-1808 vi erano giunte circa 30mila famiglie
bianche - così che la sua classe dirigente aveva conosciuto un’improvvisa prosperità
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economica ed un grande numero di schiavi negri (essenziali per il lavoro nelle
piantagioni) era stato importato dall’Africa.
Fu così che proprio quando l’America Latina continentale si stava liberando dal
giogo spagnolo, Cuba stava vivendo invece il periodo più florido della sua storia e
questo fatto – unito alla minaccia rappresentata dalla massiccia presenza di schiavi
negri (ben presto circa ¼ della popolazione complessiva) - certamente non aveva
spinto verso una guerra per l’indipendenza.
Tuttavia nei decenni successivi, soprattutto quando si era andata profilando la guerra
degli USA col Messico, alcuni piantatori cubani ed alcuni politici degli Stati Uniti (il
principale partner commerciale) avevano accarezzato il progetto di un passaggio di
Cuba dall’oppressiva ed arretrata Spagna ai liberali e fiorenti USA: c’erano stati
addirittura tentativi di rivolta in questo senso, ma la sconfitta del Sud nella guerra di
secessione - e la conseguente abolizione della schiavitù – avevano reso ovviamente
del tutto impraticabile una soluzione di questo genere.
La Spagna viveva allora veramente fuori del tempo e la sua testarda opposizione alla
concessione di almeno una maggiore autonomia a Cuba (che era stata positivamente
scossa dall’occupazione inglese nel 1762-63) aveva portato alla pesante rivolta che
era durata ben dieci anni (1868-78) e che, caratterizzata da atrocità da entrambe le
parti e dalla morte (spesso per malattia) di non meno di 150mila soldati spagnoli (!),
prima di venir definitivamente soffocata aveva causato gravi devastazioni e la rovina
di molti piantatori: sconfitti ma non domi i patrioti avevano dovuto però assistere non
solo al trionfo degli odiati ‘peninsulares’ (cioè degli spagnoli, 1/6 della popolazione
complessiva), ma anche all’ulteriore dipendenza della loro isola dal capitale
statunitense che prontamente aveva occupato gli spazi lasciati vuoti dai cubani falliti.
Dopo che il 7 ottobre 1886 la Spagna aveva abolito la schiavitù, a Cuba nel 1895 la
rivolta (e furono proprio i negri i primi a ribellarsi) tornò a divampare sotto la guida
del famoso poeta José Martì, luminoso ed indimenticato eroe nazionale: il partito da
lui fondato aveva un programma nazionalista, social-liberale, indipendentista,
anticoloniale ed addirittura mirava al recupero identitario ed autonomo dell’intera
America Latina, ma purtroppo Martì morì presto in azione.
La rivolta continuò, ma lo spietato esercito spagnolo era troppo forte per poter essere
battuto: il governatore Valeriano Weyler operava spietate repressioni nel sangue e nei
campi di concentramento in cui inviava non solo gli insorti catturati, ma anche la
popolazione che simpatizzava con essi, senza alcun riguardo per vecchi, donne e
bambini che vi morivano a migliaia.
Per parte loro gli insorti erano addirittura peggiori degli spagnoli e dei loro brutali
volontari: essi praticavano il saccheggio e la distruzione delle piantagioni e di ogni
altra struttura produttiva condannando la popolazione alla carestia ed alla morte per
fame, tanto che si viveva meglio (cioè meno peggio) nelle zone che essi non avevano
‘liberato’!!!
Gli Stati Uniti non potevano restare indifferenti a tanto disordine ed al terribile
disastro di Cuba (così vicina alle loro coste) sia perché centinaia di famiglie
statunitensi erano ormai completamente rovinate, sia per via dei loro cospicui
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interessi nell’isola e sia perché avevano ormai riconosciuto i Caraibi area di interesse
strategico (anche in vista della progettata apertura del canale di Panamà).
Innanzitutto allora il governo americano inviò a quello spagnolo una dura nota di
protesta che causò addirittura il rimpatrio di Weyler, poi nel febbraio 1898 spedì
all’Avana una corazzata, il ‘Maine’, ufficialmente allo scopo di proteggere i cittadini
americani ivi residenti, ma in realtà come sfida agli spagnoli e come manifestazione
di sostegno agli insorti cubani.
Il 15 febbraio 1898 una ancora misteriosa esplosione proprio sul ‘Maine’ (che causò
260 morti ed il suo affondamento) fu imputata alla Spagna e fornì la (solita)
occasione che gli Stati Uniti colsero per intervenire direttamente: era tuttavia
altamente improbabile che la Spagna fosse responsabile dell’esplosione
(probabilmente davvero un incidente) visto che non aveva (ovviamente) alcun
interesse né alcuna intenzione di sostenere una guerra contro gli USA ed era disposta
ad assecondare qualsiasi richiesta americana, mentre lo stesso presidente McKinley
era in realtà contrario all’intervento diretto, ma non così l’opinione pubblica che da
anni sulla stampa del gruppo Hearst, allora influentissima, leggeva delle crudeltà
spagnole a Cuba (molto spesso del tutto inventate o comunque gonfiate).
Erano comunque gli interessi di fondo degli USA ad essere in gioco e la
partecipazione armata degli Stati Uniti agli eventi di Cuba non poteva più essere
evitata: l’11 aprile McKinley inviò così al Congresso un lungo messaggio in cui
elencava i motivi che spingevano gli Stati Uniti all’intervento:
1) motivazioni umanitarie verso le sofferenze della popolazione cubana stritolata
da una guerra che non si risolveva né in un modo nè nell’altro;
2) dovere di proteggere i cittadini statunitensi a Cuba;
3) danni al commercio ed agli interessi degli USA stessi;
4) minaccia alla pace nel continente.
McKinley continuava però a rifiutare di riconoscere gli insorti come i legittimi
depositari del potere in Cuba e furono invece il Senato ed il Congresso stessi che gli
forzarono la mano presentandogli a loro volta una loro risoluzione secondo la quale:
1) il popolo di Cuba aveva diritto alla libertà ed all’indipendenza;
2) le forze armate spagnole dovevano andarsene da Cuba.
Il 20 aprile McKinley firmò questa risoluzione congiunta e la fuse con la propria:
essa venne subito inviata al governo spagnolo al quale fu dato tempo fino alle ore
12.00 del 23 aprile per adempiere a quanto richiesto, cioè capitolare ed andarsene (!).
Naturalmente la Spagna rigettò con sdegno l’ultimatum ed il 23 aprile 1898 dichiarò
guerra agli Stati Uniti che a loro volta ricambiarono due giorni dopo anche in seguito
a grandiose manifestazioni patriottiche al grido di ‘Ricordiamoci del Maine!’.
II
Gli Stati Uniti avevano esitato ad entrare in guerra perché le loro forze armate erano
profondamente impreparate ed insufficienti alle necessità belliche (!): per quanto
incredibile possa sembrare, allora negli USA era prevalente infatti la convinzione che
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un esercito professionale in tempo di pace fosse una minaccia alla libertà ed alla
democrazia e dunque praticamente non ce l’avevano (!).
Dopo l’indipendenza l’esercito continentale aveva contato soltanto 80 soldati regolari
(!!!) e dopo un secolo si pensava ancora che solo l’arruolamento di volontari poteva
garantire il carattere popolare e sentito di una guerra, l’irrinunciabile ed unico motivo
che la rendeva accettabile.
Tuttavia quando nel 1898 la concreta possibilità di un intervento armato cominciò a
profilarsi seriamente all’orizzonte, al Dipartimento della Guerra ed a quello della
Marina i finanziamenti arrivarono subito copiosi ed il numero di soldati più che
quadruplicò nel giro di settimane: la marina era in condizioni ben migliori
dell’esercito, ma anche qui non si badò a spese e la sua forza combattiva raddoppiò in
brevissimo tempo.
Gli Stati Uniti disponevano insomma di una potenza economica, tecnologica ed
industriale capace di mettere in piedi con incredibile velocità una forza militare
corrispondente ai bisogni del momento: durante la guerra (tre mesi e mezzo) il
personale della marina (impegnata in due oceani) raddoppiò poi un’altra volta e
quello dell’esercito decuplicò addirittura i suoi effettivi d’anteguerra arrivando a
contare 274.717 uomini (di cui 58.688 regolari e 216.029 volontari).
Lo scontro fu assolutamente impari: la Spagna coi suoi 18 milioni di abitanti aveva ¼
della popolazione degli USA e le sue condizioni economiche e finanziarie non erano
nemmeno paragonabili a quelle del giovane gigante americano: mentre la Royal Navy
inglese manteneva una benevola neutralità, le forze armate statunitensi riuscirono a
sbaragliare facilmente gli avversari in tre mesi e mezzo di ‘splendid little war’.
La superiorità sul mare degli Stati Uniti fu totale fin da subito ed in questo settore
non ci fu praticamente storia: con perdite da parte americana praticamente inesistenti
i blocchi navali si succedettero alle distruzioni sistematiche delle patetiche flotte
spagnole (come il 3 luglio 1898 nella battaglia navale di Santiago de Cuba quando la
squadra navale spagnola venne completamente annientata).
Anche se non avevano messo a punto nessun preparativo di difesa (!) e non avevano
artiglieria terrestre (!), per terra gli spagnoli seppero però far molto meglio e dopo gli
sbarchi non contrastati (!) iniziati con quello del 22 giugno la fanteria statunitense (i
cavalli non furono mai impiegati) dovette combattere duramente e subì perdite anche
gravissime che oltretutto misero in crisi le sue già inadeguate strutture sanitarie: va
comunque ricordato che molti dei numerosi decessi di soldati americani furono
dovuti alle malattie epidemiche che impazzarono senza pietà fra le fila delle loro
truppe prive di adeguati anticorpi (vennero però istituiti anche battaglioni di ‘immuni’
alla malaria, alla febbre gialla, al tifo, alla dissenteria ed alle altre spaventose minacce
alla salute).
Per parte loro, gli insorti cubani comandati dal ‘generale’ Calixto Garcia non furono
quasi mai presenti sul campo di battaglia e quando lo furono furono del tutto
inconcludenti, ma contribuirono tuttavia ad ostacolare gli spagnoli con azioni di
guerriglia e di controllo del territorio.
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Va infine segnalato che questa fu anche una guerra in cui la propaganda continuò a
martellare efficacemente l’opinione pubblica - come nel caso del politico di
professione Theodore Roosevelt che, arruolato col grado di tenente-colonnello e
vicecomandante dei ‘Rough Riders’ (un contingente di volontari di cavalleria), venne
presto pomposamente proclamato eroe nazionale.
III
La guerra inevitabilmente fu combattuta anche in ciò che era rimasto dell’impero
spagnolo nel Pacifico i cui eventi si accavallarono e si svolsero contemporaneamente
a quelli di Cuba.
Come già era avvenuto a Cuba, anche nelle Filippine fin dall’aprile 1896 era
divampata l’ennesima ribellione contro la Spagna ed anche qui l’intervento degli Stati
Uniti fu decisivo: dopo essersi accordato con Emilio Aguinaldo (il comandante degli
insorti filippini) il 25 aprile 1898 il commodoro Dewey, alla testa dello ‘Squadrone
Asiatico’ (la flotta statunitense dell’Estremo Oriente), salpò da Hong Kong con sei
navi da guerra alla volta di Manila.
Anche in questo caso l’attacco statunitense agli spagnoli nelle Filippine era dettato
dall’esigenza di difendere il proprio commercio e la propria sicurezza nel Pacifico - e
conseguentemente di avere basi e possedimenti anche in tale area.
Mentre gli insorti filippini salutavano entusiasti gli americani liberatori, questi il 1
maggio 1898 sfoggiarono tutta la loro netta superiorità navale ed in poco più di
un’ora ebbero il sopravvento sui forti e sulle navi spagnole (quasi tutte distrutte) nella
baia di Manila, contando tra di loro nessun morto ed un solo ferito (Dewey stesso!).
Il contemporaneo Titherton mise allora in luce che ‘Così venne eseguita una delle
operazioni navali più brillanti e completamente riuscite della storia. Il lavoro di un
mattino dello squadrone di Dewey aveva cancellato la potenza navale spagnola in
Oriente e gli aveva dato il controllo del grande arcipelago delle Filippine’ (pag. 143);
secondo lui la campagna di Manila ‘segnò davvero una nuova era nella storia degli
Stati Uniti, che piantarono la loro bandiera su un grande impero dell’emisfero
orientale, e li rese non più una potenza soltanto americana, ma mondiale’ (pag. 350).
Gli americani furono decisivi nella sconfitta degli spagnoli nelle Filippine, però li
combatterono solo per mare a Manila (comunque la chiave dell’arcipelago) perchè
non avevano allora le forze sufficienti per sbarcare sulla terraferma: furono così gli
insorti filippini a dilagare vittoriosi in tutto l’arcipelago ed il 12 giugno 1898 a
proclamare l’indipendenza della prima Repubblica delle Filippine.
IV
In realtà gli americani non erano stati con le mani in mano ed il 25 maggio
l’avanguardia di una flotta con complessivi 20mila uomini era partita da San
Francisco alla volta delle Filippine ma, raggiunta Honolulu per rifornirsi di carbone,
aveva ricevuto l’ordine di impadronirsi invece dell’isola di Guam (nelle Ladrones
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spagnole): il 20 giugno 1898 l’incrociatore statunitense ‘USS Charleston’ si presentò
così davanti all’isola, dopo una breve trattativa la piccola e stupita guarnigione (60
spagnoli e qualche nativo) si arrese ed il giorno seguente un contingente di marines
sbarcò tranquillamente e prese possesso di Guam.
Eseguita la conquista di Guam, il 30 giugno la flotta statunitense raggiunse poi
Manila ed il giorno seguente iniziò lo sbarco sulla terraferma, ma, ancora una volta,
solo per conquistare Manila stessa che cadde il 13 agosto mentre tutto il resto del
paese rimaneva nelle mani degli insorti filippini.
Con lo sbarco americano iniziarono però anche gli inevitabili problemi dei rapporti
con i patrioti di Aguinaldo.
V
Intanto il 26 luglio truppe americane erano sbarcate anche a Portorico (oggi Puerto
Rico) senza incontrare resistenza: Portorico chiude il mar dei Caraibi a nord-est e per
questa evidente ragione geostrategica fin dallo scoppio delle ostilità era stata un
importante obiettivo bellico.
Anche in questo caso la sua occupazione fu una passeggiata militare con gli spagnoli
che si ritiravano, i locali che salutavano festosi i nuovi arrivati e gli occupanti che
parlavano di pace e di libertà.
VI
Il 12 agosto 1898 venne firmato l’armistizio e gli accordi allora raggiunti vennero
quindi ratificati dal Trattato di Parigi il 10 dicembre dello stesso anno, ma ai
negoziati di pace furono esclusi i rappresentanti degli insorti di tutti i paesi che si
erano ribellati e si incontrarono solo statunitensi e spagnoli.
In Spagna – che era come tramortita dalla sconfitta - la guerra passò alla storia come
‘El Desastre del ‘98’ e generò una profonda crisi d’identità in un paese che non
riusciva ad inserirsi nella modernità e che in sede diplomatica non fu in grado di
difendere nessuna delle sue posizioni.
Gli Stati Uniti invece avevano stupito il mondo con la loro manifestazione di forza e
di potenza ed ottennero così tutto quello che vollero e cioè:
1) l’indipendenza di Cuba;
2) la rinuncia spagnola a Portorico (che venne annessa agli USA come ‘territorio’
non destinato però a diventarne uno stato);
3) la rinuncia spagnola all’isola di Guam (divenuta da allora l’isola ‘dove
comincia il giorno americano’);
4) la rinuncia spagnola alle Piccole Antille (l’arcipelago ad arco che chiude a est
il mar delle Antille);
5) la rinuncia spagnola alle isole Ladrones (le Marianne);
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6) la rinuncia spagnola a Manila nelle Filippine in attesa di una (più che
prevedibile) sistemazione politica dell’intero arcipelago.
La Spagna non potè che accettare tutte queste condizioni e dovette accontentarsi di
poter frequentare liberamente i porti delle Filippine per dieci anni e di ricevere 20
milioni di dollari di indennizzo: riuscì infine a vendere alla Germania le restanti isole
Ladrones e le isole Caroline, i suoi ultimi possedimenti nell’oceano Pacifico, per
evitare di dover eventualmente cedere anche queste agli americani come bottino di
guerra o di essere costretta ad assistere impotente alla loro inevitabile conquista.
Il ruolo dominante della Spagna nell’emisfero occidentale era già terminato da molto
tempo ma ora, dopo quattro secoli, anche le ultime vestigia del suo grande impero
pluricontinentale erano state spazzate via, per sempre e con estrema facilità: secondo
il contemporaneo Titherington non si trattò altro che della ‘logica ed inevitabile
conclusione di un lungo capitolo di storia’ (pag. 1).
Cuba e Filippine primo passo dell’impero americano
Per lunghi anni cubani e filippini avevano combattuto contro la Spagna senza riuscire
a scacciarla dai loro paesi ed a conseguire così libertà ed indipendenza: essi avevano
nondimeno testimoniato la loro convinta determinazione a voler diventare padroni
della loro stessa terra e del loro stesso destino.
Solo l’intervento degli Stati Uniti aveva finalmente compiuto (e quanto in fretta!) il
miracolo di distruggere l’odioso ed odiato impero spagnolo, ma al di là delle (solite)
parole e frasi roboanti sulla democrazia, la felicità, i diritti dei popoli, ecc. ecc., fu
presto chiaro che gli statunitensi che si spacciavano per liberatori erano sbarcati
invece per restare e per curare e sviluppare loro propri interessi.
Gli USA erano certamente ben più sviluppati e moderni della Spagna e potevano
portare quindi un indubbio progresso ed inserire Cuba e le Filippine in un mercato
molto più vasto e vitale, ma fu subito chiaro anche che i due popoli ‘liberati’ erano
semplicemente passati da un padrone ad un altro.
A Cuba le proprietà ed i capitali degli spagnoli furono garantiti e protetti mentre gli
Stati Uniti organizzarono un governo militare che si occupò della ricostruzione e di
una prima sistemazione dell’isola.
Effettivamente questo governo lavorò bene nell’eliminare fame e malattie (soprattutto
la febbre gialla), nell’istituire il primo sistema scolastico, nel rimettere in piedi il
paese e nell’assicurargli un certo sviluppo: nel 1901 il nuovo parlamento cubano
emanò la Costituzione, l’anno seguente venne eletto il primo presidente e le truppe
statunitensi lasciarono Cuba.
Gli Stati Uniti insomma non inserirono direttamente nei loro possedimenti Cuba che,
anche se apparentemente ora era uno stato indipendente e sovrano, in realtà era
diventato invece un protettorato.
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Non solo infatti il presidente statunitense McKinley aveva procurato di avere persone
a lui fidate nel governo dell’isola: nella costituzione stessa egli aveva fatto inserire
l’(incredibile) Emendamento Platt che dava agli USA il diritto di intervenire (!) negli
affari interni del paese ‘per il mantenimento di un governo adeguato per la protezione
della vita, della proprietà e delle libertà individuali’ (sic); gli USA mantenevano
prerogative decisive nella conduzione della politica estera cubana; ottennero di poter
costruire sull’isola proprie basi navali e militari (Isola della Gioventù, restituita però
nel 1925, e la famosa Guantanamo tutt’ora in loro possesso); ed infine i capitali
impiegati nella ricostruzione di Cuba furono tutti statunitensi.
Come si vede facilmente, i cubani erano liberi solo di obbedire e di farsi guidare dagli
Stati Uniti che non dovevano mantenere una (costosa e criticabile) forza
d’occupazione sull’isola nè spendere di tasca propria per controllare il territorio e
godere delle sue ricchezze e risorse (che comunque erano disposti a condividere con
politici compiacenti e con proprietari alleati).
In queste condizioni ben presto la vita politica di Cuba non potè che degenerare in
una serie di lotte fra fazioni e fra caudillos rivali mentre gli Stati Uniti manovravano
dietro (ma non troppo) le quinte oppure, quando ciò non bastava e quando ritenevano
che i loro interessi fossero minacciati, in base all’Emendamento Platt mandavano
direttamente truppe sull’isola (come avvenne nel 1906-09, nel 1912 e nel 1917).
Primo presidente della repubblica venne eletto così Tomas Estrada Palma, uomo di
fiducia degli Stati Uniti (che fecero di tutto per garantirne l’elezione): egli favorì gli
investitori americani che in breve si assicurarono il controllo economico dell’isola
mentre - non certo sorprendentemente - in tutto il paese dilagava diffusa la corruzione
dei pubblici ufficiali.
Nel 1906 alla fine del suo primo mandato Estrada Palma ricorse a tutti i mezzi, non
esclusi quelli criminali, per ottenerne un secondo che gli costò però l’opposizione
popolare armata: di fronte all’insurrezione Estrada Palma chiamò in aiuto gli USA e
si ebbe così la seconda occupazione dell’isola da parte degli statunitensi che sciolsero
le forze degli insorti (ma anche le milizie di Estrada Palma): ai sensi
dell’Emendamento Platt gli USA sospesero poi l’attività del parlamento e, tanto per
non correre rischi, nominarono governatore lo statunitense Charles E. Magoon e lo
sostennero con la forza delle loro armi finchè la rivolta non fu del tutto sedata.
Magoon tuttavia sviluppò le infrastrutture dell’isola e continuò a portarvi un certo
sviluppo (e la corruzione denunciata da tanti scrittori cubani), ma quel che era
successo era comunque l’evidente messa in atto della logica del protettorato.
Nelle Filippine le cose andarono ancora (e molto) peggio.
Gli insorti filippini che, guidati da Emilio Aguinaldo, avevano combattuto contro gli
spagnoli ed avevano considerato gli americani (che erano intervenuti solo a Manila!)
amici ed alleati, a Parigi si erano aspettati il riconoscimento dell’indipendenza del
loro paese ma - come i cubani - non avevano nemmeno potuto partecipare ai
negoziati: in base al Trattato di Parigi le Filippine divennero invece dominio
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americano ‘per acquisto’ dato che gli Stati Uniti indennizzarono la Spagna con 20
milioni di dollari.
Si disse che sarebbe stato il commodoro Dewey stesso a convincere il governo degli
USA a non sgombrare le Filippine ed a negare l’autogoverno ai suoi abitanti:
riprendendo le tradizionali argomentazioni dei colonialisti, Dewey avrebbe affermato
che Aguinaldo rappresentava una parte soltanto dell’opinione pubblica filippina, che
non sarebbe stato in grado di gestire il paese e, soprattutto, che non avrebbe avuto la
forza di resistere agli appetiti coloniali della Francia o della Germania.
L’incorporazione delle Filippine venne così sentita e considerata come l’assunzione
di una responsabilità storica, quasi l’adempimento di una missione, ma in realtà le
ragioni che portarono alla conquista americana delle Filippine furono che:
1) l’opinione pubblica era inebriata ed entusiasta delle facili vittorie americane;
2) gli USA avevano occupato Manila, il principale porto delle Filippine, per le
esigenze della guerra contro la Spagna ma a guerra finita si accorsero che non
volevano né potevano rinunciarvi;
3) dopo l’annessione delle Hawaii (nel 1898) le Filippine completavano infatti il
percorso per arrivare in Asia (cioè in Cina), la nuova grande meta commerciale e
strategica di tutti i paesi colonialisti;
4) entrati pienamente nella lotta planetaria per la costruzione di nuovi imperi, gli Stati
Uniti volevano e dovevano evitare che altre potenze, soprattutto la Germania, si
appropriassero delle Filippine.
L’accordo ispano-americano non venne riconosciuto dal governo filippino (guidato
da Emilio Aguinaldo) che non aveva certo combattuto per cambiar padrone e che il 2
giugno 1899 dichiarò così guerra agli USA, vera e propria continuazione della sua
guerra di indipendenza.
I ribelli si diedero ad una guerriglia così efficace che durò oltre tre anni e costrinse
Washington ad aumentare il suo esercito d’occupazione fino a 65mila uomini: la
guerriglia costò la morte di cinquemila soldati americani e di circa seicentomila
filippini, comprese le vittime della fame e delle malattie portate dalla guerra, e si
concluse con la totale disfatta degli indipendentisti.
I metodi di repressione già usati contro gli indiani d’America furono adoperati anche
contro i filippini, mentre inutilmente accuse e denunce piovevano da diversi settori
dell’opinione pubblica americana: se ne fece interprete il democratico William J.
Bryan che però perse le elezioni del 1900 contro McKinley (che si presentò insieme a
Theodore Roosevelt, divenuto governatore di New York, come suo vice).
Riconfermato alla Casa Bianca, McKinley riuscì comunque a risolvere la questione
filippina: i rivoltosi ottennero di partecipare al governo del loro paese ma in cambio
deposero le armi e giurarono fedeltà agli Stati Uniti.
Lo stesso Aguinaldo fu catturato nel marzo del 1901 e si ritirò dalla vita politica dopo
aver pubblicamente riconosciuto la subordinazione delle Filippine agli USA: anche la
maggior parte dei leader filippini ammise la vittoria degli americani ed il 4 luglio
1901 (giorno non certo scelto a caso) McKinley potè così chiudere la vicenda con la
designazione di William Taft governatore delle Filippine.
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Inutilmente Mark Twain espresse tutta la sua condanna, la sua vergogna e la sua
amarezza riconoscendo che ‘Ci siamo presi gioco di loro, usandoli fino a quando non
ci sono serviti più’ (‘Alla persona che siede nelle tenebre’, 1901).
Il 1 luglio 1902 le isole, ormai ‘pacificate’, divennero ‘territorio incorporato’ degli
Stati Uniti il cui governo dichiarò il conflitto ufficialmente concluso (anche se le
ostilità continuarono fino al 1913).
In seguito, nel 1935 all’arcipelago sarebbe stata poi concessa una parziale autonomia
(‘The Commonwealth Status’); nel 1943 l’ormai settantaquattrenne Aguinaldo,
ripescato dagli occupanti giapponesi, avrebbe proclamato ancora una volta
l’indipendenza delle Filippine dagli USA e collaborato fattivamente col governo
nipponico fino al termine della guerra.
Solo nel 1946 le Filippine avrebbero finalmente ottenuto la sospirata indipendenza.
L’annessione delle Hawaii
In concomitanza con la guerra ispano-americana, nel 1898 anche le isole Hawaii
vennero annesse agli Stati Uniti e dall’aprile 1900 nel Congresso sedettero così anche
rappresentanti hawaiiani: le modalità della loro annessione agli USA furono però
piuttosto singolari.
Il 18 gennaio 1778 James Cook era stato ufficialmente il primo europeo a
raggiungere quelle isole così sperdute in mezzo al Pacifico che aveva chiamato
Sandwich, ma è probabile che già in precedenza marinai spagnoli vi fossero
naufragati durante le traversate fra Messico e Filippine: comunque gli inglesi fin dal
1794 avevano tentato senza successo di imporre il proprio protettorato su quelle isole.
Nel 1810 (con l’aiuto di armi e consiglieri bianchi) per la prima volta l’arcipelago era
stato poi unificato dal re Kamehameha I mentre su quelle fertili isole erano giunti
intanto vari gruppi di europei (russi e francesi compresi) e di americani.
Dopo che nel 1843 un ulteriore tentativo degli inglesi di sottomettere l’arcipelago era
fallito, nel 1875 erano stati gli Stati Uniti a firmare infine il Trattato di Reciprocità
col Regno delle Hawaii (per la prima volta riconosciuto ufficialmente come tale): in
base a tale accordo gli Stati Uniti permettevano l’importazione libera di zucchero
dalle Hawaii ed ottenevano in cambio Pearl Harbor ed il suo retroterra per sè.
Il trattato aveva promosso immediatamente l’ulteriore diffusione delle piantagioni:
rapidamente infatti molti immigrati bianchi, soprattutto americani, avevano preso ad
acquistare grandi estensioni di terreno ed a farle coltivare a canna da zucchero.
Come dovunque, anche nelle piantagioni delle Hawaii c’era stata subito grande
necessità di lavoratori e si erano così susseguite massicce ondate di immigrazione
soprattutto dall’Estremo Oriente - cinesi, giapponesi ed anche filippini e coreani –
che avevano reso necessaria la coltivazione anche del riso (peraltro anch’esso
esportabile liberamente negli USA).
13
Quando Cook era arrivato nelle Hawaii aveva stimato che la popolazione indigena
dell’arcipelago ammontasse a circa 400mila persone, gigantesche e di complessione
molto grassa e robusta, ma – come dappertutto dove erano arrivati gli europei – le
malattie (ed i maltrattamenti) ne avevano fatto una vera e propria strage tanto che un
secolo dopo ne erano sopravvissute solo poco più di 1/10: i cinesi tuttavia, giunti
senza donne sulle isole, avevano preso ad unirsi a quelle indigene, per parte loro ben
contente di sposare uomini così laboriosi e che amavano tanto profondamente sia loro
stesse che i loro bambini, mentre tali unioni erano davvero favorite dalla natura visto
che i/le sino-hawaiiani/e erano bellissimi/e (più alti/e dei loro padri e più magri/e
delle loro madri) e grandemente dotati/e intellettualmente.
In ogni caso, il Trattato di Reciprocità aveva comportato la profonda trasformazione
delle Hawaii anche dal punto di vista politico visto che l’economia e la direzione
dell’arcipelago era ricaduta sempre più nelle mani dei piantatori bianchi e degli USA
stessi tanto che ci sono storici che parlano tout court di protettorato americano
dell’arcipelago a partire dal 1876.
Non stupisce quindi che ben presto nelle isole si erano susseguite rivolte e rivoluzioni
e che nel 1887 la cosiddetta ‘Costituzione-Baionetta’ (che toglieva molte prerogative
alla corona e ne riduceva pesantemente i diritti politici) era stata imposta dalla
minoranza straniera al re ed alla maggioranza della popolazione indigena (o
naturalizzata) che, fra l’altro, mal sopportava la presenza militare americana a Pearl
Harbor ed arrivava a chiedere addirittura un’alleanza col Giappone in funzione
anticoloniale.
Nel 1888 e nel 1889 due tentativi per abolire la Costituzione-Baionetta erano stati
schiacciati finchè nel 1892 la regina Liliʻuokalani appena ascesa al trono emanò una
nuova costituzione per riaffermare la sua propria autorità.
Immediatamente il 14 gennaio 1893 un gruppo di residenti europei ed americani
istituì la Commissione per la Sicurezza allo scopo di rovesciare la regina e, rotti gli
indugi, annettere direttamente l’arcipelago agli Stati Uniti: la Commissione denunciò
così una ‘imminente minaccia alle vite ed alle proprietà americane’ e (con incredibile
e sospetto tempismo) già due giorni dopo una compagnia di marines e due compagnie
di marinai sbarcarono sul suolo hawaiiano (!).
Già il giorno seguente (!) venne istituito un governo provvisorio in attesa
dell’annessione delle Hawaii agli USA: alla regina non restò che abdicare, ma non
senza aver prima lanciato una vibrata protesta contro gli Stati Uniti ed il loro
spregiudicato e prepotente uso della forza contro il suo governo legittimo.
Quel che era successo era infatti chiarissimo: gli americani dominavano l’economia
delle isole e non volevano che i locali avessero la minima voce in capitolo.
Questa volta però l’usato copione non venne recitato senza intoppi: il presidente
Cleveland volle infatti vedere chiaro nell’accaduto ed incaricò il deputato Blount di
condurre un’inchiesta in proposito.
Il 17 luglio 1893 il rapporto Blount condannò quant’era successo concludendo che ‘I
diplomatici e militari degli Stati Uniti hanno abusato della loro autorità e sono
responsabili del cambio di governo.’ (!): i responsabili furono richiamati e Cleveland
14
non esitò ad affermare che ‘era stata commessa una sostanziale ingiustizia che in
considerazione del nostro carattere nazionale ed anche delle persone danneggiate …
dobbiamo sforzarci di riparare …’; e non solo: ‘mi sembra che l’unico corso
onorevole per il nostro governo è disfare l’errore che è stato commesso da coloro che
ci rappresentavano e ristabilire per quanto possibile la situazione che c’era al
momento del nostro intervento forzoso.’
Cleveland portò il problema delle Hawaii all’attenzione del Congresso, ma intanto
Sanford Dole, presidente del governo provvisorio hawaiiano, rifiutò di obbedire a
Cleveland ed il senato statunitense incaricò Morgan, il presidente delle sue Relazioni
con l’Estero, di tornare sulla questione: il 26 febbraio 1894 il rapporto Morgan
contraddisse completamente quello di Blount ed a Cleveland non restò così che
piegarsi ed abbandonare la regina hawaiiana al suo triste destino.
I giochi erano fatti: in attesa dell’annessione vera e propria, il 4 luglio 1894 (giorno
non certo scelto a caso) i ‘rivoluzionari’ fondarono così la Repubblica delle Hawaii
con Sanford Dole ancora suo presidente.
Nel 1896 McKinley, convinto sostenitore dell’espansione degli USA, venne eletto
presidente degli USA e, nonostante il Giappone allarmato avesse inviato navi da
guerra in funzione dissuasiva, il 7 luglio 1898 annesse la Repubblica delle Hawaii ed
il 22 febbraio 1900 la dichiarò Territorio degli USA (sempre con Dole presidente).
L’annessione dell’arcipelago era stata favorita anche dal (solito) timore che qualche
altra potenza coloniale (Inghilterra, Germania, Francia, Giappone, ecc.) potesse
impadronirsene: in quegli anni di sfrenate conquiste coloniali la gara per stabilire chi
era arrivato primo e chi aveva diritto (sic) a mettere le mani su nuovi territori non era
infatti condotta fra indigeni ed occupanti, ma fra i vari occupanti stessi che
giudicavano giusto e normale prendersi tutto quel che volevano mediante il semplice
ed aperto uso della forza.
Va comunque detto che gli USA vollero annettere le Hawaii ed inserirle nell’Unione
su un piede di parità con gli altri stati, ma la popolazione hawaiiana e sino-hawaiiana,
veniva considerata (come dappertutto i non-bianchi) semplice forza-lavoro
sottomessa e strumentale alle necessità dei nuovi padroni venuti dal mare.
Le piantagioni di canna da zucchero si espansero, l’attività economica si diversificò
pur rimanendo comunque concentrata (ovviamente insieme al potere politico) nelle
mani delle ‘Cinque grandi’ corporazioni statunitensi.
Il 21 agosto 1959 il Congresso degli Stati Uniti accettò le Hawaii come 50º stato
dell’Unione con giurisdizione su tutte le isole dell’arcipelago ad eccezione
dell’Atollo di Midway, sotto diretto controllo federale.
Le Hawaii sono oggi il 43º stato dell’Unione per superficie, il 40º per popolazione,
ma il 13º per densità di popolazione.
Le Hawaii sono uno dei due stati a non far parte dei cosiddetti Stati Uniti contigui e
l’unico con una collettività di asioamericani.
Al contrario di quel che avvenne in California, i giapponesi residenti alle Hawaii al
momento dello scoppio della guerra non furono mai internati in massa e considerati
(a ragione) cittadini pienamente americani.
15
Dottrina Monroe’, ‘porta aperta’ e ‘grosso bastone’
La guerra ispano-americana, la prima guerra che gli Stati Uniti combatterono al di
fuori del loro territorio nazionale, mostrò fin dall’inizio tutti i caratteri del peculiare
imperialismo americano che si sarebbe sviluppato potentemente per tutto il secolo
seguente.
Per estendere la loro influenza ed il loro potere, e per aumentare, difendere e curare i
propri interessi, gli Stati Uniti procedettero (ed avrebbero sempre proceduto) secondo
le seguenti linee di intervento:
1) ridurre, spazzare via o sostituirsi nei possedimenti coloniali degli altri imperi
(europei);
2) per questo scopo sostenere almeno una parte dell’elemento locale, soprattutto se in
rivolta;
3) presentarsi sempre come la nuova repubblica idealista portatrice di giustizia e
libertà;
4) dopo la vittoria, per difendere i propri interessi imperiali, appoggiarsi il più
possibile agli elementi locali disposti (non certo disinteressatamente) a collaborare;
5) risparmiare così risorse e limitare al massimo l’azione repressiva diretta;
6) i vecchi imperi coloniali col loro dominio diretto si erano rivelati antieconomici e
suscitatori di troppe opposizioni - esterne ma anche interne - e dunque era
sicuramente preferibile una forma aggiornata di protettorato;
7) naturalmente ciò non escludeva l’intervento diretto quando gli elementi locali
collaborazionisti si dimostravano insufficienti (per esempio contro le ribellioni).
Questo nuova forma di colonialismo, il famoso imperialismo americano, risultò
chiarissimo nella politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina.
Come si erano sentiti in diritto di fare nei confronti del Giappone, anche nei confronti
della Cina gli USA avevano voluto impegnarsi a portare progresso e civiltà, ma qui
erano arrivati fra gli ultimi ed avevano trovato una situazione molto più complicata:
dopo le due sconfitte subite nelle ‘guerre dell’oppio’ (1839-42 e 1856-60) la Cina,
oltre a cedere Hong Kong all’Inghilterra, aveva dovuto subire ed accettare tutte le
condizioni economiche e commerciali che i ‘barbari venuti dal mare’ le avevano
imposto e cedere porti o parti di porti alle varie potenze europee che erano arrivate al
seguito degli inglesi.
Ognuna di queste aveva preteso ed ottenuto propri particolari privilegi così che la
Cina era stata ‘affettata come un melone’ dagli europei e nel 1894-95 l’ulteriore
sconfitta subita ad opera del Giappone, il nuovo arrivato al tavolo dello sfruttamento
del Celeste Impero, ne aveva ulteriormente confermato lo stato di crisi e di debolezza.
Fu in queste condizioni che il segretario di stato statunitense John Hay nel settembrenovembre 1899 nelle ‘Note alla Politica della Porta Aperta’ inviate a Francia,
Germania, Inghilterra, Italia, Giappone e Russia, si oppose alla spartizione della Cina
ed affermò che gli Stati Uniti volevano che ‘l’entità territoriale ed amministrativa
16
della Cina’ venisse preservata e che tutte le sue parti fossero ugualmente aperte al
commercio con tutte le nazioni.
Questa nuova politica della porta aperta segnò con precisione il distacco della
moderna politica imperialistica rispetto a quella (vecchia) degli imperi coloniali,
quindi fra Stati Uniti e Potenze Europee (e Giappone).
Gli Stati Uniti puntavano sulla loro nettissima superiorità economica e commerciale
per ottenere tutti i contratti e tutte le forniture che volevano, ma intendevano che
questo avvenisse in un regime di libera concorrenza e senza apparenti costrizioni
violente e forzose, mentre i paesi europei (Inghilterra in testa) avevano al contrario
costruito degli imperi ad uso e consumo della sola potenza coloniale dominatrice.
Gli Stati Uniti erano quindi apertamente anticolonialisti perché ritenevano che la
pesante bardatura militare e l’oppressione coloniale fossero inaccettabili non solo sul
piano morale ed ideale, ma anche su quello economico perché erano un antistorico
intralcio al dispiegamento delle potenzialità dei mercati (e, soprattutto, di loro stessi).
La politica della porta aperta, cioè dello stabilimento di rapporti economici e di canali
commerciali aperti a tutti e senza privilegi particolari con parti del mondo che ne
erano restate fino a quel momento estranee, non era una novità nella logica e nella
pratica del colonialismo, ma ora veniva proposto dagli USA contro le pretese degli
altri paesi coloniali di ritagliarsi ognuno la sua parte di bottino rovinando e
distruggendo in questo modo la preda comune stessa: la proposta della porta aperta in
Cina era il modo in cui gli Stati Uniti pensavano di tutelare al meglio i loro interessi
ed anche un miglior adeguamento alla realtà visto che sarebbe stato molto meglio per
tutti (e più giusto) se la Cina fosse rimasta integra ed intera.
La Cina era infatti troppo grande per poter essere sottomessa ad una sola potenza
straniera ed era così sicuramente conveniente e preferibile se essa avesse potuto
mantenere la sua unità ed il suo stato ma avesse acconsentito alle richieste
economiche e commerciali dei suoi nuovi (ed autoimposti) partners (padroni).
Il ricorso alla violenza ed alla guerra doveva essere l’estrema risorsa cui comunque
ben presto gli USA ricorsero quando anch’essi parteciparono insieme a tutte le altre
potenze coloniali a domare in un paio di mesi la rivolta dei Boxers (1900), il patetico
e disperato tentativo nazionalistico della Cina di risollevarsi dallo stato di
prostrazione in cui era ormai caduta: è degno di nota che la partecipazione americana
- la prima sul continente asiatico - avvenne per decisione presidenziale e senza
l’autorizzazione del Congresso (come pure la costituzione avrebbe previsto!) mentre
due anni prima non c’erano state truppe sufficienti per la guerra ispano-americana.
Questo intervento fu un caso estremo del terzo principio ispiratore della politica
estera statunitense, quello del ‘grosso bastone’: esso prese il nome da
un’affermazione famosa del presidente Theodore Roosevelt nel 1904 - ‘Parla con
gentilezza e portati dietro un grosso bastone’ - che significava che gli interessi degli
Stati Uniti non potevano e dovevano essere messi in discussione e che il ricorso alla
forza doveva essere sempre sottinteso e pronto ad essere messo in atto (come del
resto avvenne spesso nei Caraibi ed in America Centrale e Meridionale).
17
I trattati imposti alla Cina dopo il 1900 di fatto smentirono però la politica della porta
aperta perchè la competizione tra le varie potenze coloniali per strappare concessioni
speciali continuò come prima, nondimeno essa segnò il momento in cui gli Stati Uniti
definirono con chiarezza e lungimiranza i criteri della loro politica estera.
Così come la ‘dottrina Monroe’ aveva delineato la strategia degli Stati Uniti nel
continente americano nell’Ottocento, così quella della ‘porta aperta’ e del ‘grosso
bastone’ avrebbero diretto la loro politica nel mondo intero nel Novecento: una nuova
forma di imperialismo stava prendendo piede, un tentativo di associare (in qualsiasi
modo) governi e settori sociali dei paesi nei quali si avevano interessi da difendere e
concentrarsi solo su questi ultimi con la minor spesa possibile.
La sottomissione diretta, il dominio puro e semplice e la conquista completa
apparivano ormai strumenti del vecchio colonialismo che non funzionavano più e,
oltre ai suoi costi, offrivano poi il fianco a troppe critiche umanitarie e di principio: fu
questo così il periodo delle cosiddette ‘repubbliche delle banane’, cioè di quei paesi
centro-americani dominati dalle industrie alimentari statunitensi, perchè risultava
molto più semplice, economico e produttivo puntare su alleanze, accordi, mutui
vantaggi, ecc. coi governi (deboli e/o corrotti) dei paesi con cui si volevano costruire
rapporti economici, a costo di sgombrare il campo dalle vecchie potenze coloniali con
la forza (come contro la Spagna), mentre, se e quando non era possibile
diversamente, il ricorso ai, diciamo così, vecchi sistemi (il grosso bastone) era
ovviamente praticato senza indugi ed incertezze (come nelle Filippine).
Naturalmente una dottrina non escludeva l’altra: lo si era già visto chiaramente nel
1893-94 quando Cleveland aveva fatto intervenire la flotta nella rivoluzione in
Brasile per spazzare via le fazioni filo-inglesi e favorire quelle filo-statunitensi;
l’anno seguente quando aveva cacciato gli inglesi dal Nicaragua orientale e
proclamato la preminenza degli interessi degli USA nel mondo; nel 1902 quando
Roosevelt fece esplicito riferimento alla dottrina Monroe per far desistere Italia,
Inghilterra e Germania dal blocco delle acque del Venezuela insolvente, ecc..
Gli Stati Uniti erano diventati ormai un impero ed il loro presidente, comandante in
capo delle forze armate, gestore diretto della politica estera e responsabile della
sicurezza della nazione, esercitava ormai funzioni imperiali: ciò fu vero con
McKinley e, soprattutto (dopo che il 14 settembre 1901 McKinley era stato
assassinato da un fanatico di nome Leon Czolgosz), col quarantatreenne vulcanico
vice-presidente Theodore Roosevelt che gli successe automaticamente nella carica e
che tre anni dopo venne poi trionfalmente riconfermato.
Negli anni di Lyndon Johnson (1963-69) e di Nixon (1969-74) si sarebbe
ampiamente parlato di ‘presidenza imperiale’, cioè di quella concentrazione nelle
mani del presidente di potere soprattutto in politica estera, ma essa era iniziata fin
dalla svolta del secolo.
Tutto spingeva gli USA ad aumentare la loro presenza sullo scacchiere internazionale
e quando nel 1903 l’Inghilterra, impegnata contro la Germania di Guglielmo II,
dovette ritirare la sua flotta dai Caraibi quella statunitense era ormai pronta e
desiderosa di prenderne il posto.
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Insomma: gli Stati Uniti erano più che preparati ad estendere e difendere i propri
interessi al di fuori dei propri confini, ma preferivano farlo il più possibile e finchè
possibile per interposta persona.
In questo senso il caso di Panamà fu esemplare.
Il caso Panamà
Fin da quando gli spagnoli c’erano arrivati si erano accorti che nel punto in cui
l’America Centrale si assottiglia di più la distanza fra i due oceani è veramente
minima e la possibilità dunque di attraversarla per passare da un emisfero all’altro e
da un oceano all’altro era stata subito colta in tutta la sua importanza addirittura da
Carlo V (!) mentre già Simón Bolívar alla fine degli anni Venti dell’Ottocento aveva
commissionato uno studio sulla fattibilità di un tale percorso.
Nel 1836 il presidente Jackson aveva ordinato un ulteriore sopralluogo ed aveva
ottenuto dal governo della Colombia (di cui allora la regione faceva parte) la
concessione per realizzare una linea ferroviaria che andasse da un capo all’altro
dell’istmo.
Motivi economici avevano impedito la realizzazione dell’ambizioso disegno e due
anni dopo uno analogo francese aveva fatto la stessa fine.
I
Tuttavia con l’annessione della California nel 1848 e, soprattutto, con la
contemporanea corsa all’oro, il traffico di persone e di merci tra le due sponde
nordamericane era aumentato a dismisura e con esso l’opportunità di questa ferrovia:
a quel tempo per andare via terra da una costa all’altra degli USA si impiegava quasi
un anno con notevoli disagi e grossi pericoli tanto che per i passeggeri ricchi e per il
trasporto della posta e delle poche merci era più conveniente e meno rischioso partire
dai porti dell’Atlantico (su navi a vela), doppiare il (pur temuto) Capo Horn e risalire
fino a San Francisco (!).
Ben presto gli USA decisero quindi di costruire una linea ferroviaria che, andando da
costa a costa dell’attuale Panamà, accorciasse enormemente il tragitto e nello stesso
1848 la Colombia assegnò ad una società statunitense la relativa concessione.
Lunga solo 48 miglia (77 chilometri) ed inaugurata il 14 gennaio 1855, la Panama
Railway (con capolinea a Colón e Panamá) fu così la prima ferrovia transcontinentale
americana ad unire l’oceano Pacifico con l’oceano Atlantico - 14 anni prima di quella
che avrebbe attraversato invece gli Stati Uniti stessi.
II
Senza sottovalutare l’importanza della Panama Railway, era evidente però che
mettere in comunicazione diretta i due oceani per via d’acqua sarebbe stato di gran
19
lunga più conveniente ed utile visto che, oltretutto, quella striscia di terra è piena di
laghi ed è solcata da corsi d’acqua.
A quel tempo negli Stati Uniti si reputava tuttavia più opportuno costruire un canale
interoceanico in Nicaragua (da cui erano stati infatti scacciati gli inglesi), più lungo
ma in condizioni ambientali meno avverse, ma intanto nel 1878 il famoso Ferdinand
de Lesseps, padre del canale di Suez, ottenne la concessione dalla Colombia per lo
scavo di un canale nell’attuale Panamà e nel 1881 incominciò le operazioni per conto
di una Compagnia Universale sostenuta da capitali privati francesi.
Dopo anni di lavoro durissimo (clima micidiale, ignoranza della zona, errori di
progettazione e gravi irregolarità finanziarie) ed almeno 20mila morti (!) il progetto
dovette però venir abbandonato e nel 1889 la Compagnia fu messa in liquidazione:
un’altra compagnia francese rilevò la concessione ed i suoi macchinari arrugginiti
semplicemente per rivenderla al miglior offerente e fu allora che gli Stati Uniti,
abbandonato il progetto in Nicaragua, decisero di farsi avanti e di rilevare l’impresa
per 40 milioni di dollari.
Era infatti sempre più chiaro – soprattutto dopo che la guerra contro la Spagna era
stata condotta contemporaneamente sull’Atlantico e sul Pacifico - che una potenza
che si estendeva sui due oceani aveva assoluto bisogno che questi fossero in stretta
comunicazione fra loro.
Questa volta però la Colombia, la nazione che possedeva i territori in cui si sarebbe
dovuto scavare il canale, rifiutò di concedere la gestione dell’istmo al consorzio
statunitense: Roosevelt inviò prontamente la nave da guerra ‘Nashville’ che
conquistò facilmente il territorio desiderato mentre il 3 novembre 1903 una rivolta
apertamente pilotata e sostenuta dagli USA proclamò la nascita della Repubblica di
Panamá indipendente (dalla Colombia) che gli Stati Uniti riconobbero
immediatamente e per la cui difesa subito inviarono truppe.
Nel dicembre del 1903 i rappresentanti della neonata repubblica firmarono il trattato
Hay-Bunau Varilla con gli Stati Uniti che ottennero così ‘come se vi fossero sovrani’
la striscia di terra larga 16 km. da costa a costa che tagliava l’istmo ed in cui sarebbe
dovuto essere scavato il canale: in cambio gli Stati Uniti si impegnavano a
‘mantenere l’indipendenza della Repubblica di Panamá’, a pagare 10 milioni di
dollari in oro ed una rendita annua di 250mila dollari (aumentata a 43omila nel 1933
ed a 1.930mila nel 1955).
Nacque così la statunitense Zona del Canale di Panamá mentre intorno ad essa lo
stato di Panamà era nient’altro che un protettorato degli USA: come si vede, gli Stati
Uniti avevano ottenuto tutto quel che avevano voluto (il canale) delegando ad
elementi locali, del tutto compiacenti e/o comprati (quando non costretti), ogni altra
attività.
Insomma, un caso da manuale dell’imperialismo americano.
20
III
Sotto la direzione del Genio militare gli USA iniziarono subito lo scavo del canale
secondo un progetto a chiuse assai più semplice e fattibile di quello immaginato da de
Lesseps - che voleva spianare le montagne o attraversarle con tunnel acquatici! – per
il quale furono comunque spesi 480milioni di dollari ed impegnati 70mila lavoratori
(10mila dei quali morirono).
Grande successo ebbe la lotta alle micidiali malattie tropicali della zona, insalubre e
flagellata da malaria e febbre gialla fino a quando il colonnello William Gorgas,
responsabile delle strutture igienico-sanitarie durante il periodo dei lavori, fece
bonificare tutto il territorio e costruire un nuovo sistema di acquedotti e di reti
fognarie.
Dopo undici anni di lavori la grande opera rivoluzionaria fu ultimata ed il 15 agosto
1914 il primo mercantile transitò da un oceano all’altro.
Per gli Stati Uniti anche questo fu un passo molto importante per divenire una grande
potenza mondiale.
IV
In un primo momento l’apertura del canale privò la vecchia linea ferroviaria
(fondamentale comunque per la realizzazione del canale stesso) della sua funzione
principale e la relegò ad un modesto traffico locale, ma al giorno d’oggi l’enorme
sviluppo dei commerci mondiali ha portato il canale di Panamá alla saturazione, e
così la linea, ammodernata nel 2000, ha riacquistato tanta importanza che nel 2009 si
è cominciato a prevederne il raddoppio.
Per parte sua, la vecchia ferrovia, privatizzata nel 1998, è oggi a disposizione dei
turisti che in 90 minuti possono effettuare la gita da un oceano all’altro.
E non basta ancora: il presidente della Colombia Juan Manuel Santos ha rivelato al
Financial Times che nel 2011 la Cina avrebbe deciso di istituire nel paese un proprio
terminal industriale e commerciale: nei pressi di Cartagena dovrebbe infatti sorgere,
finanziato e realizzato dai cinesi, un nuovo distretto industriale col compito di
assemblare le merci ‘made in China’ destinate ai mercati americani.
Una linea ferroviaria lunga 220 chilometri - un ‘canale secco’ alternativo e parallelo a
quello acqueo di Panama – dovrebbe così smistare i prodotti cinesi e le materie prime
colombiane in arrivo ed in partenza nei porti colombiani affacciati sui due oceani
dove attraccherebbero e salperebbero le navi da e per la Cina.
Come sempre, quando si muove la Cina ha pensato a tutto ed ha le risorse necessarie:
per la ‘conquista’ della Colombia, è così disposta ad offrire 7,6 miliardi di dollari
(messi a disposizione dall’apposita China Development Bank) e ad affidare alla
China Railway Group (le ferrovie di stato cinesi) la realizzazione della linea.
E’ facile comprendere che la strategia di Pechino volta alla penetrazione negli altri
continenti farebbe in questo modo un ulteriore passo estremamente importante, ma
anche pericoloso perché l’arrivo e la presenza dei cinesi in America per gli USA
21
sarebbe un colpo durissimo, probabilmente inaccettabile e tale da farli ricorrere ai
mezzi estremi (ancora una volta in nome della dottrina Monroe?).
Anche questo problema va dunque messo in conto nel complesso rapporto fra le due
potenze economiche del pianeta alla cui trattazione è dedicato l’ultimo capitolo della
parte terza di questo saggio.
V
Tornando al canale, il trattato Hay-Bunau Varilla sarebbe poi stato spesso oggetto di
contenzioso diplomatico e di tensione tra i due paesi, soprattutto in seguito alla
costruzione di basi militari ed alla presenza di un largo numero di militari e civili
statunitensi durante la seconda guerra mondiale, quando l’importanza e la difesa del
canale crebbero notevolmente.
Anche se la presenza americana comportò per la città di Panamà un livello mai
raggiunto di prosperità, i suoi cittadini si risentivano per avere un accesso limitato (o
molto spesso per non averlo affatto) a molte aree della zona del canale (alcune delle
quali addirittura basi militari nelle quali dunque poteva entrare solo personale
statunitense).
Le tensioni tra panamensi e americani aumentarono ulteriormente nel corso degli anni
Sessanta ed il conflitto per l’identità e l’orgoglio nazionale feriti si concentrò
sull’esposizione della bandiera panamense sugli edifici pubblici che si trovavano
nella zona del canale controllata dagli statunitensi: dopo una serie di scontri a Panamá
nel 1960 il presidente Eisenhower si sarebbe pronunciato perché le due bandiere
sventolassero insieme, mentre altri sostengono che tale decisione sarebbe stata presa
invece da Kennedy, ma tale proposta non era comunque attuata al momento
dell’assassinio di Kennedy stesso (22 novembre 1963).
La tensione - che riguardava ormai la sovranità nella zona del canale - raggiunse il
punto critico il 9 gennaio 1964 (in seguito proclamato ricorrenza nazionale come di
Giorno dei Martiri) quando militari statunitensi strapparono una bandiera panamense
scatenando le proteste studentesche: l’esercito americano intervenne dopo che la
polizia era stata sopraffatta e 21 o 22 panamensi (e 4 soldati statunitensi) rimasero
uccisi in tre giorni di combattimento.
Questo episodio rivelò che si doveva cambiare strada e fu uno dei motivi che spinsero
gli Stati Uniti a rivedere la propria posizione sulla questione panamense ed a dare
avvio ad un processo di rinegoziazione delle proprie prerogative sul canale: tale
percorso venne concluso e formalizzato il 7 settembre 1977 in due nuovi trattati che,
firmati dall’allora presidente statunitense Jimmy Carter e da quello panamense Omar
Torrijos, stabilirono che alla fine del 1999 il canale, la sua gestione e le zone ad esso
limitrofe, sarebbero passati sotto sovranità panamense.
Per quella data anche l’ultimo marine se ne sarebbe dovuto andare, ma gli USA si
riservarono ugualmente il diritto di intervenire militarmente nell’interesse della (loro)
sicurezza nazionale e le loro navi da guerra quello di transitare lungo il canale in caso
di necessità.
22
Gli Stati Uniti hanno mantenuto fede ai patti ed il 31 dicembre 1999 hanno restituito
ufficialmente tutto il territorio del canale allo stato di Panamá: per il canale è stato
disposto un regime di neutralità per renderlo aperto alle navi di tutti i paesi, mentre la
gestione dei due porti (Panamà e Colòn) è stata assegnata ai cinesi della società
Hutchinson-Whampoa Limited di Hong Kong (!).
Nell’ottobre 2006 un referendum popolare ha infine approvato l’ampliamento del
canale mediante la costruzione di un terzo gruppo di chiuse che dovrebbe concludersi
nel 2014: in questo modo non solo aumenterebbe il numero delle navi che potrebbero
navigarlo, ma anche la loro stazza con un’utile decongestione dei porti statunitensi
sul Pacifico.
Desta soddisfazione che il progetto che si è aggiudicato l’ampliamento è stato quello
presentato dal Consorzio Grupo Unido por el Canal di cui l’italiana Impregilo è
azionista al 48%.
Lo strano intervento del 1917 …
Mentre a Panamà il primo mercantile attraversava il nuovissimo canale, in Europa la
situazione era precipitata vertiginosamente e ormai si era scatenata quella che molto
impropriamente sarebbe stata chiamata la prima guerra mondiale o, con espressione
più appropriata, grande guerra.
In questa sede non avrebbe senso ripercorrere per intero gli eventi del conflitto (che
comunque sono largamente noti e diffusi) e basterà dunque mettere in luce il ruolo
che vi ebbero gli Stati Uniti.
Lo scoppio di ostilità così estese colse anche gli USA (come tutti!) di sorpresa e
comunque il presidente Woodrow Wilson (eletto nel 1912 dopo che era dai tempi di
Cleveland che i democratici non arrivavano alla Casa Bianca) già il 4 agosto 1914
aveva proclamato la neutralità del paese.
Purtroppo ciò era più facile a dirsi che a farsi perché si ripresentò la situazione del
tempo delle guerre napoleoniche, quando il conflitto si era esteso anche
nell’Atlantico ed aveva così coinvolto inevitabilmente anche gli Stati Uniti (che però
adesso, cent’anni dopo, erano ormai una grande potenza - ne fossero pienamente
consapevoli oppure no).
In ogni caso il secolo di pace in Europa assicurato dal Congresso di Vienna aveva
generato negli americani un consolidato senso di sicurezza per quel che riguardava
quel continente; essi così avevano potuto indirizzare baldanzosi le loro mire ed i loro
interessi in Asia ed in America Latina ed infine avevano fatto da sempre propria la
direttiva che risaliva ai tempi di Washington e Jefferson, ‘nessuna alleanza che
impigli’.
Come al tempo della guerra di Cuba anche in questo caso la stampa americana si
scatenò nel raccontare le atrocità compiute dalle truppe tedesche nel Belgio invaso (il
cui triste destino fece profonda impressione anche se gran parte delle notizie riportate
erano false ed inventate) e come al tempo delle guerre napoleoniche la marina
23
britannica impose poi ancora una volta il blocco commerciale nelle acque europee
(ma compensò il danno evidente per gli Stati Uniti divenendone, insieme ai suoi
alleati, un grosso importatore di merci e di risorse, ben presto anche finanziarie).
I forti rapporti economici con una parte sola resero la neutralità statunitense piuttosto
una facciata perchè furono proprio questa scelta di Wilson e questa precisa presa di
posizione - inevitabili dati i legami, gli interessi e le affinità (Russia esclusa) che
legavano gli USA a Francia ed Inghilterra - che salvarono i paesi della Triplice Intesa
dalla sconfitta.
Come si è già detto, per parte sua l’Inghilterra voleva soffocare ed affamare gli
Imperi Centrali (soprattutto la Germania) mediante il blocco navale che i tedeschi
dovevano così assolutamente spezzare se volevano sopravvivere: essi erano gli unici
allora a possedere i sommergibili e questi fecero un lavoro superbo contro il naviglio
(militare e non) inglese, ma il 7 maggio 1915 affondarono anche la nave passeggeri
‘Lusitania’ (carica di munizioni) causando la morte di 1.198 persone, 128 delle quali
statunitensi.
Come ai tempi della guerra ispano-americana, gli USA non erano preparati per una
guerra (e di queste dimensioni poi), ma Wilson protestò e minacciò ugualmente con
tale veemenza che Bryan, il suo convintissimo neutralista segretario di stato, diede le
dimissioni: posta così di fronte alla possibilità di un intervento degli Stati Uniti nel
conflitto, la Germania dovette accettare di sospendere la guerra sottomarina a partire
dalla primavera del 1916 (anche perché i suoi sommergibili non era ancora in numero
sufficiente per spezzare veramente il blocco).
Ma Wilson fece anche qualcosa di ancora molto più importante e decisivo: come alla
fine dell’Ottocento e poi nell’imminenza dell’intervento contro la Spagna, ottenne dal
Congresso l’approvazione alla costruzione di una flotta enorme e tale da diventare la
prima del mondo.
Molteplici ragioni spingevano Wilson su questa strada: innanzitutto, nell’immediato,
spegnere sul nascere ogni eventuale tentativo tedesco di ulteriore sforzo sul mare (e
quindi non essere costretto ad intervenire in un prossimo futuro), ma, oltre a ciò (e
sicuramente molto più importante e di lungo periodo) far cessare il dominio dei mari
da parte dell’Inghilterra, ritenuto ormai non più tollerabile.
Grazie a questa loro schiacciante superiorità sul mare gli inglesi potevano infatti
vietare a qualsiasi paese (che pur proclamasse la sua neutralità) non solo di
commerciare con gli Imperi Centrali, ma anche con quei paesi (come Olanda e
Danimarca) che si sospettava avrebbero poi potuto farlo via terra: come al tempo
delle guerre napoleoniche, gli inglesi si sentivano addirittura in diritto di fermare,
perquisire ed eventualmente confiscare i carichi delle navi mercantili di quegli stessi
Stati Uniti dai quali tanto dipendevano per rifornimenti e finanziamenti (!!!).
Le proteste di Wilson questa volta erano inutili mentre l’opinione pubblica
statunitense rimaneva neutralista ed egli stesso, che nel 1916 era stato rieletto
(seppure di misura) con lo slogan ‘Lui ci ha tenuto fuori dalla guerra’, nel gennaio
1917 riconfermò che per gli USA ‘non ci sarà guerra’.
Questa era la paradossale situazione quando gli eventi cominciarono a precipitare.
24
Mentre il fronte orientale stava ormai collassando, la marina tedesca aveva finito di
costruire una flotta di sommergibili adeguata allo scopo e l’Alto Comando tedesco,
date le condizioni sempre più disperate della Germania, decise di riprendere in grande
stile la guerra sottomarina: esso aveva infatti calcolato che gli Stati Uniti (ammesso
che l’avessero voluto) non avrebbero fatto in tempo ad intervenire in guerra perché la
Russia era prossima al crollo e molto presto sarebbe stata costretta a chiedere la pace
e lo stesso avrebbe dovuto fare anche la stessa Inghilterra che la guerra sottomarina
avrebbe in poco tempo ridotto alla fame.
Il 31 gennaio 1917 una nota tedesca avvertì così gli USA della ripresa indiscriminata
della guerra sottomarina e tre giorni dopo Wilson ruppe i rapporti diplomatici con la
Germania: dopo che la rivoluzione del febbraio-marzo 1917 in Russia aveva reso la
Triplice Intesa politicamente più accettabile per gli Stati Uniti, nell’Atlantico navi
americane cominciarono presto ad essere affondate dai sommergibili tedeschi e,
ottenuto il voto quasi unanime del Congresso (2 aprile), il 6 aprile 1917 Wilson
dichiarò così guerra alla Germania.
Gli Stati Uniti entravano in guerra per difendere i loro propri interessi (e la loro
esposizione verso i paesi della Triplice Intesa) che gli Imperi Centrali padroni in
Europa avrebbero seriamente minacciato, ma Wilson motivò l’intervento con le sue
profonde convinzioni ideologiche e morali: gli Stati Uniti avrebbero combattuto in
nome della libertà, della liberazione dei popoli (anche di quello tedesco!) e della
democrazia - come sarebbe poi risultato nei famosissimi ‘Quattordici punti’ che
Wilson enunciò esplicitamente l’8 gennaio 1918 auspicando
1) Pubblici trattati di pace, stabiliti pubblicamente e dopo i quali non vi siano più
intese internazionali particolari di alcun genere, ma solo una diplomazia che
proceda sempre francamente e in piena pubblicità.
2) Assoluta libertà di navigazione per mare, fuori delle acque territoriali, così in
pace come in guerra, eccetto i casi nei quali i mari saranno chiusi in tutto o in
parte da un’azione internazionale, diretta ad imporre il rispetto delle
convenzioni internazionali.
3) Soppressione, per quanto è possibile, di tutte le barriere economiche ed
eguaglianza di trattamento in materia commerciale per tutte le nazioni che
consentano alla pace, e si associno per mantenerla.
4) Scambio di efficaci garanzie che gli armamenti dei singoli stati saranno ridotti
al minimo compatibile con la sicurezza interna.
5) Regolamento liberamente dibattuto con spirito largo e assolutamente
imparziale di tutte le rivendicazioni coloniali, fondato sulla stretta osservanza
del principio che nel risolvere il problema della sovranità gli interessi delle
popolazioni in causa abbiano lo stesso peso delle ragionevoli richieste dei
governi, i cui titoli debbono essere stabiliti.
6) Evacuazione di tutti i territori russi e regolamento di tutte le questioni che
riguardano la Russia senza ostacoli e senza imbarazzo per la determinazione
indipendente del suo sviluppo politico e sociale e assicurarle amicizia,
25
qualsiasi forma di governo essa abbia scelto. Il trattamento accordato alla
Russia dalle nazioni sorelle nel corso dei prossimi mesi sarà anche la pietra di
paragone della buona volontà, della comprensione dei bisogni della Russia,
astrazion fatta dai propri interessi, la prova della loro simpatia intelligente e
generosa.
7) Il Belgio – e tutto il mondo sarà di una sola opinione su questo punto – dovrà
essere evacuato e restaurato, senza alcun tentativo per limitarne l’indipendenza
di cui gode al pari delle altre nazioni libere.
8) Il territorio della Francia dovrà essere completamente liberato e le parti invase
restaurate. Il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871, a proposito
dell’Alsazia–Lorena, torto che ha compromesso la pace del mondo per quasi
50 anni, deve essere riparato affinché la pace possa essere assicurata di nuovo
nell'interesse di tutti.
9) Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere fatta secondo le linee di
demarcazione chiaramente riconoscibili tra le nazionalità.
10)
Ai popoli dell’Austria–Ungheria, alla quale noi desideriamo di assicurare
un posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro
sviluppo autonomo.
11)
La Romania, la Serbia ed il Montenegro dovranno essere evacuati, i
territori occupati dovranno essere restaurati; alla Serbia sarà accordato un
libero e sicuro accesso al mare, e le relazioni specifiche di alcuni stati balcanici
dovranno essere stabilite da un amichevole scambio di vedute, tenendo conto
delle somiglianze e delle differenze di nazionalità che la storia ha creato, e
dovranno essere fissate garanzie internazionali dell'indipendenza politica ed
economica e dell'integrità territoriale di alcuni stati balcanici.
12)
Alle regioni turche dell’attuale impero ottomano dovrà essere assicurata
una sovranità non contestata, ma alle altre nazionalità, che ora sono sotto il
giogo turco, si dovranno garantire un’assoluta sicurezza d’esistenza e la piena
possibilità di uno sviluppo autonomo e senza ostacoli. I Dardanelli dovranno
rimanere aperti al libero passaggio delle navi mercantili di tutte le nazioni sotto
la protezione di garanzie internazionali.
13)
Dovrà essere creato uno stato indipendente polacco, che si estenderà sui
territori abitati da popolazioni indiscutibilmente polacche; gli dovrà essere
assicurato un libero e indipendente accesso al mare, e la sua indipendenza
politica ed economica, la sua integrità dovranno essere garantite da
convenzioni internazionali.
14)
Dovrà essere creata un'associazione delle nazioni, in virtù di convenzioni
formali, allo scopo di promuovere a tutti gli stati, grandi e piccoli
indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale.
L’opinione pubblica fino a pochissimo prima neutralista e pacifista (come lo stesso
Wilson!) ora accolse invece con giubilo la dichiarazione di guerra ed il paese si trovò
unito dietro il suo presidente (!).
26
Le sterminate risorse degli USA vennero immediatamente impiegate per tutte le
necessità che una guerra di quelle dimensioni al di là dell’Atlantico comportava ed
era ovvio che oltre alla pur rilevante importanza delle truppe statunitensi sui fronti
europei l’entrata in guerra degli USA significava soprattutto che l’Intesa aveva ora a
disposizione risorse materiali ed umane praticamente inesauribili: gli Stati Uniti
avevano allora un esercito di meno di 200mila uomini, ma addestrarono subito mezzo
milione di soldati che nell’ottobre 1918 sarebbero saliti a 1.750mila sui campi di
battaglia in Europa (cioè in Francia) su 3 milioni complessivi, ma l’operazione
richiese tempo.
Inghilterra, Francia e Italia intanto resistettero e mentre le flotte inglese ed americana
ripulivano l’Atlantico dai sommergibili tedeschi, ogni settimana nuove truppe fresche
statunitensi sbarcavano in Francia; per parte sua, anche se la Russia bolscevica perse
effettivamente la guerra, la pace che le venne imposta a Brest-Litovsk (3 marzo
1918) fu così dura che per assicurarla un esercito tedesco vi dovette essere
ugualmente mantenuto e l’ultima disperata offensiva degli Imperi Centrali della
primavera 1918 potè così essere respinta dagli alleati la cui controffensiva fu poi
lanciata con successo fino al crollo delle difese del nemico ed alla conseguente
stipula dell’armistizio del 3 novembre 1918 con Austria-Ungheria e dell’11
novembre con la Germania.
… e la strana pace del 1919
La Germania si arrese a Wilson sperando nel suo equilibrio e nella sua volontà di
pace basata sui Quattordici punti e, dato il peso ed il ruolo decisivi degli USA nel
conflitto, il presidente aveva potuto imporre a tutti, amici e nemici, la sua volontà:
anche se gli Stati Uniti in questa guerra ebbero ‘solo’ 171mila fra morti e dispersi e
234mila feriti, cifre tutto sommato ‘limitate’ se paragonate a quelle degli altri paesi
belligeranti, il loro ruolo era stato fondamentale e senza il loro intervento la vittoria
sarebbe arrisa invece agli Imperi Centrali.
L’intervento degli USA aveva significato infatti la possibilità di impiego
praticamente illimitato di uomini e mezzi e quindi per l’Intesa di disporre di una forza
schiacciante rispetto alle risorse del nemico (per esempio, alla fine del conflitto
l’Inghilterra aveva contratto debiti con gli USA per 4.277 milioni di dollari, la
Francia per 3.404 e l’Italia per 1.648, debiti di cui solo in minima parte (l’Italia si
vide abbuonato l’80% di essi!) sarebbe poi stato preteso il pagamento!).
Per quel che riguardava la sua visione della politica mondiale, Wilson era ora
chiamato a passare dalle parole ai fatti, ma la conclusione della guerra ipso facto
aveva ridimensionato l’importanza degli Stati Uniti e subito si affacciarono numerosi
i problemi, tutti in fondo riconducibili al fatto che gli USA erano entrati in guerra
(come ‘associati’ e non ‘alleati’) per motivi che non erano quelli per cui i paesi
dell’Intesa combattevano già da tre anni.
27
Caso unico, per partecipare direttamente ai negoziati che si aprirono il 18 gennaio
1919 a Parigi Wilson restò in Europa per oltre sei mesi (salvo un’interruzione di un
mese che comportò però la sospensione dei lavori) e, colla sua insistenza
sull’autodeterminazione dei popoli, fu il principale artefice della nascita (o rinascita)
di tanti paesi dalle rovine degli imperi sconfitti e, per lo stesso principio, del
sostanziale mantenimento dell’integrità territoriale della Germania stessa, ma dovette
anche accettare le spartizioni coloniali operate da Inghilterra, Francia e Giappone
(che violavano apertamente il quinto punto), il rifiuto dell’Inghilterra, che ragionava
ancora in termini di imperi coloniali ‘chiusi’, della libertà dei mari (in violazione del
secondo punto), la partecipazione, seppure limitata, al fallimentare tentativo armato
di soffocare il bolscevismo in Russia (in violazione del sesto punto), l’imposizione di
clausole punitive e vendicative alla Germania ed altre incomprensioni ‘minori’ (una
dei quali, a proposito del nono punto, causò l’aperta insoddisfazione dell’Italia).
Il fallimento della visione (senz’altro idealistica) di Wilson si riassume tutto nel fatto
che quella di Parigi fu una vera e propria ‘pace dei vincitori’ ai cui negoziati i
rappresentanti dei paesi sconfitti non furono nemmeno ammessi (!).
Intanto l’incredibile e misteriosa febbre ‘spagnola’, frutto avvelenato della guerra che
uccise molte più persone della guerra stessa (!!!) e che si diffuse in tutto il mondo,
aveva infierito anche negli Stati Uniti causando la morte di almeno 661mila persone,
549mila solo dal settembre 1918 al giugno 1919 (!!!).
Quando nel giugno 1919 Wilson tornò negli USA per la ratifica del trattato si accorse
così di aver perso il contatto colla situazione e cogli umori in patria, verificò quante
insoddisfazione ed incomprensione l’intervento in guerra aveva prodotto, quanto
condannati erano stati i compromessi al tavolo di pace e, come se tutto ciò non
bastasse, venne colpito da un ictus che lo incapacitò seriamente all’azione: la
conclusione di tutto ciò fu che nel marzo 1920 il senato respinse il trattato di pace, la
crisi economica post-bellica colpì inevitabilmente il paese, la diffusa paura del
contagio comunista portò a migliaia di arresti ed a persecuzioni, il Ku Klux Klan
rinacque con le sue orrende pratiche del linciaggio e dell’ardere vive le persone.
Infine, anche se il 28 aprile 1919 Wilson era riuscito a far nascere la Società delle
Nazioni (quattordicesimo punto) che secondo i suoi auspici avrebbe dovuto comporre
pacificamente le tensioni e risolvere i problemi fra stati al tavolo delle trattative, il
senato statunitense non accettò che gli USA vi partecipassero né lo fecero Germania e
URSS, così che la Società divenne un semplice (ed inefficace) strumento nelle mani
di Francia ed Inghilterra.
Dato il fallimento della politica di un presidente democratico, per di più incapacitato,
fu così del tutto scontato che nel 1920 i repubblicani tornarono trionfalmente alla
presidenza con Harding (e non certo per speciali meriti di quest’ultimo) i cui slogan,
‘America first’ e ‘Back to normalcy’, erano la chiara sconfessione di quel che aveva
sperato Wilson, il presidente che Keynes ebbe a definire un ‘Don Chisciotte cieco e
sordo’.
Gli americani non capivano perché avevano partecipato ad una guerra tanto terribile e
lontana e di cui si erano comunque pentiti: con Harding fu inevitabile il netto ritorno
28
ad una politica isolazionistica, ma la guerra aveva avuto comunque anche qualche
effetto positivo e duraturo, come la migrazione interna di tanti negri dal Sud al Nord
(non senza però tensioni razziali) e l’emancipazione delle donne che, dopo aver
partecipato attivamente anch’esse allo sforzo bellico, in base al Diciannovesimo
emendamento (26 agosto 1920) si videro riconoscere il diritto di voto.
Una lunga battuta d’arresto
Già prima della fine della guerra gli Stati Uniti erano ormai diventati il centro
dell’economia mondiale o, se si preferisce (ma è la stessa cosa), lo stato-guida
dell’economia capitalistica, tuttavia dal punto di vista militare e geostrategico
sembrarono non essersene accorti visto che, abbandonati in fretta i progetti
wilsoniani, essi si erano trincerati dietro le loro alte o altissime barriere doganali (i
cui proventi permettevano un abbassamento delle tasse) e si erano ritirati da una
politica internazionale attiva ed interventista: potenza soddisfatta ed in pace con se
stessa, gli USA conobbero così un lungo decennio di prosperità e di spensieratezza, di
sviluppo economico e di fiducia nel futuro. (In ogni caso le alte tariffe degli Stati
Uniti, misura squisitamente isolazionista, bloccavano le esportazioni giapponesi, uno
dei motivi che avrebbero spinto quel paese ad adottare misure sempre più autoritarie
all’interno ed imperialistiche all’esterno).
Archiviati i drammatici ricordi della guerra, gli Stati Uniti adottarono insomma quella
politica cosiddetta ‘isolazionismo’ mostrando di essere soddisfatti di se stessi e di non
aver più bisogno di nulla: Scott Fitzgerald fu il miglior cantore di questa America
leggera e sorridente che il presidente Harding e (alla morte di questo il 2 agosto 1923)
il presidente Coolidge poterono guidare facilmente e con mano delicata mentre si
arricchiva ed aumentava il tenore di vita dei suoi cittadini.
Un aspetto caratteristico di questa politica isolazionistica fu il forte rallentamento
dell’immigrazione negli USA che venne contrastata con varie misure di legge, anche
in considerazione della disoccupazione postbellica e del ridotto bisogno di
manodopera straniera.
Forse il miglior esempio di questa politica fu però la Conferenza Navale di
Washington (12 novembre 1921 – 6 febbraio 1922) che, completamento della
Conferenza di pace di Parigi, regolò gli equilibri navali sul Pacifico tra le potenze
mondiali: a Washington venne infatti stabilito che
1) le costruzioni di nuove navi da guerra venivano sospese per dieci anni (e cessava
così la corsa agli armamenti);
2) in base al Trattato delle Quattro Potenze (o Patto Militare per il Pacifico) Stati
Uniti, Inghilterra, Francia e Giappone si impegnavano a mantenere lo status quo nel
Pacifico grazie al reciproco rispetto dei loro possedimenti e domini insulari in quei
mari, al divieto di costruirvi nuove basi, o di potenziarvi quelle esistenti, ed alla
consultazione in caso di controversie;
29
3) il Trattato per il Disarmo Navale fissava poi secondo questi coefficienti le
proporzioni tra le cinque marine più grandi del mondo: Stati Uniti = 5, Gran Bretagna
= 5, Giappone = 3, Francia e Italia = 1,75 ognuna;
4) in base al Trattato delle ‘Nove Potenze’ tutte queste nazioni si impegnavano infine
a non chiedere ulteriori concessioni alla Cina, a mantenerne l’integrità territoriale ed
a praticare in quel paese la politica della ‘porta aperta’.
La Conferenza Navale di Washington risolveva il problema della rivalità anglonippo-americana nel Pacifico ove ognuno dei contraenti aveva possedimenti
vulnerabili da difendere e nessuno voleva un’altra guerra.
Sotto la capace direzione del segretario di stato americano Hughes tutti questi
obiettivi vennero raggiunti, ma ciò che colpisce è che a quel tempo la potenza
economica degli Stati Uniti era considerevolmente maggiore di quella dei suoi
potenziali rivali: il suo prodotto interno lordo era infatti circa il triplo di quello
dell’Inghilterra ed il sestuplo di quello del Giappone.
Se gli Stati Uniti avevano dunque la possibilità di aumentare le loro costruzioni
navali molto più delle altre potenze marittime rivali, non ne avevano però la volontà
politica: la Conferenza Navale di Washington soddisfaceva insomma i sentimenti
isolazionistici dominanti nel governo statunitense a costo di garantire al Giappone ed
all’Inghilterra un equilibrio nel Pacifico più favorevole di quello che gli Stati Uniti
avrebbero potuto permettere loro.
Tuttavia a ben guardare non di equilibrio si trattava, bensì di squilibrio, data la
riluttanza americana ad esercitare il ruolo che la loro potenza stessa richiedeva, ma
gli Stati Uniti riuscivano ugualmente a difendere i propri interessi ed a proseguire nel
loro tumultuoso sviluppo così che non potevano che esprimere la loro soddisfazione
per lo stato di cose esistente.
Ovviamente una politica completamente isolazionistica non era possibile (e lo si vide
soprattutto a proposito nelle misure prese negli anni Venti in aiuto della Germania) né
la prosperità degli anni Venti potè essere garantita a tutti (l’agricoltura ne fu
largamente esclusa), ma analisi di questi aspetti esulano dai fini di questo saggio (che
verte sulle guerre degli USA), come anche non fanno parte della presente trattazione
gli errori gravissimi di politica economica che vennero compiuti in questo (troppo)
spensierato decennio, la conseguente famosissima crisi detta ‘del ‘29’ e l’ugualmente
notissimo ‘New Deal’ del grande presidente F.D. Roosevelt.
Il dispiegamento della potenza americana
Il ‘New Deal’ del presidente F.D. Roosevelt - fra le altre tantissime cose - fu la
dimostrazione dell’impressionante potenza economica (e non) di cui il gigante
americano poteva ormai disporre ma, per quanti successi il nuovo corso economico
potesse annoverare, il paese uscì decisamente dalla crisi solo con la partecipazione
alla (cosiddetta) seconda guerra mondiale.
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Anche a proposito di questa guerra una trattazione che pretendesse una qualche
completezza qui non avrebbe senso né sarebbe nemmeno possibile: troppi e fin
troppo noti e numerosi sono infatti i suoi eventi, i suoi aspetti e le sue dinamiche, così
in questa sede si metteranno (e molto brevemente) in luce solo quelli principali che
riguardarono gli USA.
I
E’ innanzitutto difficile, se non impossibile, stabilire quando la guerra stessa
cominciò perché l’invasione giapponese della Manciuria (18 settembre 1931) e delle
cinque province cinesi di Huabeiguo (1935), la guerra italiana d’Etiopia (3 ottobre
1935 – 9 maggio 1936), l’invasione giapponese della Cina (7 luglio 1937),
l’annessione tedesca dell’Austria (12 marzo 1938), l’invasione tedesca della Boemia
(15 marzo 1939), l’invasione italiana dell’Albania (7 aprile 1939) e la partecipazione
italo-tedesca alla guerra di Spagna (luglio1936 – aprile 1939), furono tutti momenti
del dispiegamento - incontrastato - della politica di aggressione e dominio portata
avanti da Giappone, Germania e Italia (uniti prima nel patto nippo-tedesco Antikomintern del 25 novembre 1936 - cui l’Italia aderì l’anno seguente - e poi nel Patto
Tripartito del 27 settembre 1940) per fermare la quale la guerra venne appunto
combattuta.
Convenzionalmente però si stabilisce che la guerra vera e propria ebbe inizio il 1
settembre 1939 con l’invasione tedesca (e poi anche sovietica) della Polonia.
La politica estera degli USA era tradizionalmente appannaggio del Dipartimento di
Stato il cui Segretario era allora Cordell Hull che, anche in omaggio ai diffusi umori
del tempo, ne seguì una rigorosamente pacifista: sotto la sua regia infatti gli Stati
Uniti si ritirarono da Haiti che avevano occupato fin dal 1914, a Cuba rinunciarono
all’Emendamento Platt, a Panamà allentarono la presa sul canale, trascurarono di
rafforzare l’esercito ed in generale rinunciarono ad intervenire in tutto l’emisfero
occidentale (così che F.D. Roosevelt godette di forti simpatie e popolarità in tutta
l’America Latina) … ma per rimanere rigorosamente fuori da complicazioni
internazionali Hull ed il Dipartimento di Stato limitarono fortemente anche
l’immigrazione di ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste.
L’opinione pubblica americana continuava ad essere pacifista (ed a ritenere che
l’intervento degli USA nella prima guerra mondiale fosse stato orchestrato dai
banchieri e dai produttori di armamenti) mentre per parte sua il Congresso nel 1935,
nel 1936 e nel 1937 approvò le Leggi di Neutralità che vietavano agli Stati Uniti di
vendere armi e fare prestiti a paesi in guerra (senza nemmeno far distinzione fra
aggressori ed aggrediti!).
Tuttavia, nonostante ciò ed anche se come tutti gli americani F.D. Roosevelt era
allora comunque pacifista, egli nel 1936 presentò però al Congresso il budget della
Marina più impegnativo e costoso di tutti i tempi di pace.
E’ vero che dopo la Conferenza di Monaco (settembre-ottobre 1938), quando Francia
ed Inghilterra accolsero supinamente tutte le richieste di Hitler sulla Cecoslovacchia
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(vantandosi di aver salvato in questo modo la pace), e dopo che subito il terrore
antisemita venne scatenato in tutta la Germania negli USA i primi occhi
cominciarono ad aprirsi, ma molto pochi e molto lentamente, visto che la mentalità
isolazionista riassunta nel motto ‘America First’ continuò a lungo ad essere quella
dominante nella società e nell’opinione pubblica del paese.
II
Dopo che la guerra scoppiò, diciamo così, ufficialmente, dopo la spartizione della
Polonia fra Germania ed URSS e dopo la conquista sovietica delle Repubbliche
Baltiche, nella primavera del 1940 la Germania con spettacolari e velocissime
campagne militari occupò l’Europa nord-occidentale (Danimarca, Norvegia, Olanda,
Belgio, Lussemburgo e Francia) per poi scatenare la lunga e disperata battaglia aerea
contro l’Inghilterra (luglio 1940 – maggio 1941) rimasta sola contro l’intera Europa
ormai sotto Hitler o sua alleata: non si poteva più ignorare quel che stava accadendo e
Roosevelt rispose allora con il Selective Service Act (la prima coscrizione in tempi di
pace della storia americana); con l’istituzione dell’Office of Production Management
per la conversione dell’industria statunitense in industria di guerra e per
l’organizzazione di enormi commesse (per esempio vennero ordinati 50mila aerei
all’anno!); col Lend-Lease Act (11 marzo 1941) che autorizzava il presidente a
fornire aiuto militare e materiale senza limitazioni agli stati antinazisti ‘nell’interesse
della difesa nazionale’ (in quel momento soprattutto a favore dell’Inghilterra stremata
e quotidianamente aggredita sulla Manica) rimandando il pagamento a guerra
terminata.
In questo modo gli Stati Uniti risolsero anche il problema della disoccupazione e la
loro economia finalmente si mise a girare a pieno regime: essi divennero l’’arsenale
della democrazia’ e, date le loro inesauribili risorse e la loro immensa capacità
industriale e produttiva (forse non ancora ben compresa e valutata nemmeno da loro
stessi!), una vera e propria superpotenza.
Tutto ciò dimostrò anche che gli USA sotto la presidenza di F.D. Roosevelt erano
profondamente cambiati perché a) la figura ed il ruolo del presidente si erano
notevolmente ed ulteriormente rafforzati; b) lo stato era diventato un attore
fondamentale dell’economia dato che per anni aveva organizzato, indirizzato, diretto
e partecipato direttamente al suo andamento; c) gli statunitensi si sentivano più
partecipi della vita del loro paese e delle vicende della sua società; e d) il forte
sviluppo della cultura promosso dal ‘New Deal’ aveva allargato ed approfondito gli
orizzonti mentali dei suoi cittadini: in una parola gli Stati Uniti erano ora più pronti
ad un’avventura collettiva come quella di una guerra mondiale.
III
Il 22 giugno 1941, abbandonato il tentativo di invadere l’Inghilterra (operazione
‘Leone Marino’), Hitler diede inizio all’invasione dell’URSS (operazione
32
‘Barbarossa’), fino a quel momento nazione alleata: la guerra in Europa entrava nella
sua vera dimensione perché in fondo fino a quel momento la Germania si era solo e
semplicemente coperta le spalle ad ovest.
La risposta inglese all’aggressione fu quella di allearsi subito con l’URSS e quella
americana di cominciare ad inviare subito merci ed aiuti anche in quel paese.
Mentre le truppe nazifasciste avanzavano profondamente in territorio sovietico e gli
USA non erano ancora in guerra, il 14 agosto 1941 Churchill e Roosevelt a bordo
della nave da battaglia ‘Prince of Wales’ ancorata nella Baia di Terranova firmarono
intanto la cosiddetta ‘Carta atlantica’ che prevedeva già i principi del futuro ordine
mondiale dopo la conclusione della guerra (!!!) come il divieto di espansioni
territoriali, l’autodeterminazione dei popoli, la democrazia, la pace, la rinuncia
all’uso della forza, un sistema di sicurezza generale, il disarmo, la libertà di
commercio e di navigazione ed il diritto dei popoli di vivere ‘ liberi dal timore e dal
bisogno’. Essa riprendeva evidentemente i ‘Quattordici punti’ di Wilson e gettò il
seme della nascita dell’ONU (di cui nel gennaio 1942 ventisei nazioni sottoscrissero
la prima Dichiarazione) ma dimostrava al di là di ogni dubbio che gli Stati Uniti,
anche se non ancora in guerra, avevano decisamente confermato la scelta del campo
antinazifascista (scelta che del resto avevano fatto fin dall’inizio delle ostilità).
IV
L’invasione nazifascista dell’URSS copriva le spalle del Giappone molto meglio del
Trattato di Neutralità che i due paesi avevano firmato il 13 aprile 1941 e permetteva a
quest’ultimo di potersi dedicare allo sviluppo del suo ambiziosissimo progetto di
dominio dell’intera Asia sud-orientale .
Il Giappone aveva infatti correttamente compreso che gli imperi coloniali europei in
Asia erano arrivati ormai alla fine della loro storia: dopo la prima guerra mondiale
gli stati europei non avevano infatti più la forza e le risorse per tenere sottomessi i
popoli asiatici che avevano ormai assimilato quello che meritava di essere appreso
dai loro dominatori bianchi e stavano cominciando ad alzare la testa.
Lo scontro in Europa delle potenze coloniali con la Germania nazista le aveva infine
impossibilitate ad una vera resistenza in Asia e la strada appariva aperta per la
realizzazione del grande progetto del Giappone: col motto ‘l’Asia agli asiatici’ e forte
del prestigio raggiunto grazie al suo prodigioso sviluppo industriale e militare ed alla
netta sconfitta della Russia nel 1905, il Giappone volle dunque mettersi alla testa di
questo movimento di liberazione continentale e guidare la riscossa della, diciamo
così, razza gialla contro la bianca.
La missione storica che il Giappone si era assunto il compito di adempiere mirava
però a far di lui stesso il nuovo dominatore di (almeno) tutto il sud-est asiatico, cioè
di sostituirsi ad Inghilterra, Francia e Olanda nell’organizzazione e nello sfruttamento
delle enormi risorse dell’intera immensa area: oltretutto il Giappone, grande potenza
industriale, mancava completamente di materie prime ed era costretto quindi a
cercarle al di fuori dei propri confini.
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La sconfitta della Cina nel 1895, quella della Russia nel 1905, l’annessione della
Corea nel 1910, l’invasione della Manciuria nel 1931e poi della Cina stessa nel 1937,
erano stati evidenti momenti di questa duplice politica, anti-imperialista quando si
trattava degli imperi degli altri ed imperialista quando si trattava della propria
espansione.
Il disegno del Giappone conteneva però due gravi errori che gli sarebbero stati infine
fatali: nemmeno l’Impero del Sol Levante aveva la forza e le risorse per imporre il
suo dominio sull’immenso sud-est asiatico ed inoltre aveva fortemente sottovalutato
il ruolo e la potenza degli Stati Uniti, ora il vero nuovo nemico assolutamente da
battere.
Anche se consideravano la Germania nazista il nemico principale e di gran lunga più
pericoloso e non troppo entusiasti di intervenire contro il Giappone, nell’ottobre 1940
gli USA avevano però ugualmente proclamato l’embargo sulle proprie forniture di
acciaio e di petrolio nei suoi confronti (esso importava greggio per il 90% dagli Stati
Uniti!) e nel maggio 1941 avevano esteso la Lend-Lease Act anche alla Cina.
Non solo infatti gli Stati Uniti avevano ora possedimenti in Asia e nel Pacifico
(Filippine, Guam ed Hawaii), ma si erano schierati fin da subito a fianco delle
democrazie europee contro la Germania (ed evidentemente anche contro i suoi
alleati).
Dopo che il 21 luglio 1941 le truppe giapponesi avevano occupato l’Indonesia
meridionale ed il 24 avevano iniziato la penetrazione del Vietnam meridionale, gli
USA già il 26 dichiararono l’embargo (rigidamente rispettato) anche su tutti i prodotti
petroliferi, sui metalli, sulla gomma e sulle altre merci strategiche, il congelamento di
tutti i beni giapponesi nel territorio americano ed infine il divieto di transito alle navi
giapponesi attraverso il canale di Panamá: la Francia, per metà occupata dai tedeschi
e per l’altra metà (la repubblica di Vichy) collaborazionista, non si mosse contro i
giapponesi, ma l’Inghilterra collaborò pienamente con gli Stati Uniti ed il governo
olandese in esilio a Londra si dichiarò immediatamente d’accordo con loro.
Il Giappone a corto di risorse doveva quindi reagire in fretta finchè l’URSS era
impegnata in una lotta mortale contro la Germania e gli USA erano ancora fuori del
conflitto: mentre i colloqui nippo-americani erano dialoghi fra sordi, da parte
giapponese fu così presa la decisione di distruggere la grande base aero-navale di
Pearl Harbor nelle Hawaii.
L’Alto Comando giapponese pensò infatti che privi di questa grande base gli Stati
Uniti, confinati al di là del Pacifico, sarebbero stati tagliati fuori dagli avvenimenti in
Asia e, impossibilitati ad agire, sarebbero stati poi messi di fronte al fatto compiuto
delle conquiste giapponesi.
Domenica 7 dicembre 1941 360 aerei decollati dai ponti delle portaerei tenute lontane
dal raggio d’azione dei radar americani piombarono improvvisamente su Pearl
Harbor e per due ore martellarono aerei e navi alla fonda distruggendo 230 aerei,
colando a picco tre navi da guerra, affondandone o danneggiandone altre minori (per
un totale di 88), compiendo altre distruzioni ed uccidendo 2304 americani al costo di
soli 29 aerei abbattuti e di 3 piccoli sottomarini affondati.
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In un colpo tutte le esitazioni erano state annullate e tutti gli ostacoli abbattuti: fu
guerra fra Stati Uniti e Giappone e tre giorni dopo anche Germania ed Italia la
dichiararono agli USA (!!!).
Certamente gli Stati Uniti furono scioccati dall’impressionante attacco che però fu
meno grave di quel che sembrò: non solo infatti molte navi colpite poterono essere
rimesse in sesto, ma – soprattutto – l’attacco si verificò quando le portaerei americane
erano lontane da Pearl Harbor e dunque non furono minimamente toccate dalle
distruzioni – e la chiave della guerra sul mare era ormai l’aviazione.
I giapponesi non persero comunque tempo e con impressionante velocità
conquistarono e poi occuparono con brutale ferocia tutto il resto del sud-est asiatico
minacciando l’Australia ed arrivando ai confini dell’India: anche se non fosse stata
attaccata a Pearl Harbor la flotta americana nelle Hawaii in verità avrebbe potuto far
ben poco per impedire tutto questo, ma in ogni caso il Giappone aveva fatalmente
sottovalutato le capacità degli Stati Uniti una volta che lui stesso li aveva costretti e
trascinati nel conflitto.
Sotto il comando dell’ammiraglio Nimitz la flotta del Pacifico prontamente
apprestata fermò e sconfisse i giapponesi prima nella battaglia del Mar dei Coralli (78 maggio 1942) poi delle Midway (3-4 giugno), battaglie in realtà combattute dagli
aerei senza che le navi nemmeno si vedessero fra loro (!) e da quel momento, di isola
in isola, di battaglia in battaglia, di avanzata in avanzata ‘a balzi di montone’, di
sbarco in sbarco, la stretta americana si sarebbe chiusa sempre più stritolante intorno
alla ‘Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale’ (il breve e violentissimo
impero del Giappone) che resistette con tutte le sue forze fino allo sgancio delle
bombe atomiche su Hiroshima (6 agosto 1945) e su Nagasaki (9 agosto) ed
all’intervento sovietico (9 agosto) finchè dovette rassegnarsi alla resa incondizionata
e definitiva (2 settembre).
V
Da parte anglo-americana si era comunque sempre considerato che la sconfitta della
Germania doveva avere la precedenza su quella del Giappone:
l’8 novembre 1942 gli anglo-americani sbarcarono in Marocco e Algeria (operazione
‘Torch’) e, dopo una serie di avanzate e ritirate, l’11-13 maggio 1943 costrinsero alla
resa definitiva le forze italo-tedesche sconfitte e rifugiate a Tunisi: l’Africa era ora
completamente in mani alleate;
intanto nell’Atlantico il punto di svolta si verificò nel marzo 1943, quando portaerei,
veloci vascelli di scorta, radar potenziati e nuove armi ancora, erano stati impiegati
contro i sommergibili tedeschi cogliendoli di sorpresa e trasformandoli da cacciatori
in prede: data la distruzione quasi per intero della flotta sottomarina tedesca, gli
enormi danni che negli anni precedenti essa aveva causato al naviglio angloamericano si ridussero drasticamente, praticamente quasi a zero;
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il 10 luglio 1943 dall’Africa gli anglo-americani sbarcarono poi in Sicilia (operazione
‘Husky’) e cominciarono la lunga risalita dell’Italia che si concluse con l’insurrezione
finale del 25 aprile 1945;
mentre sul fronte russo era in pieno svolgimento la controffensiva sovietica, il 6
giugno 1944 (D-Day) lo sbarco anglo-americano in Normandia (operazione
‘Oberlord’) aprì l’ultimo dei fronti che chiusero i paesi nazifascisti in una morsa che
nonostante la disperata resistenza tedesca si strinse inesorabile fino al crollo
definitivo dei loro regimi ed alla capitolazione della resa incondizionata della
Germania l’8 maggio 1945.
Ancora una volta gli Stati Uniti erano nettamente vincitori, ma questa era stata una
guerra di inaudita vastità dopo la quale il mondo non poteva più essere quello di
prima: nemmeno gli Stati Uniti erano più il paese di prima, o forse erano diventati
quello che veramente erano (o dovevano essere).
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Bibliografia
La biblioteca di Repubblica: ‘La Storia’ – 2004.
Various: ‘History Of The United States’ – State Printing office, Sacramento
California.
Edwin Williamson: ‘The Penguin History of Latin America’ – Penguin Books,
London 2009.
Hugh Brogan: ‘The Penguin History of the USA’ – Penguin Books, London 1999.
James A. Michener: ‘Hawaii’ – Fawcett Crest, New York 1973.
Richard H. Titherington: ‘A History of the Spanish-American War of 1898’ – D.
Appleton and Company, New York 1900.
Luigi Salvatorelli: ‘Storia del Novecento’ – Oscar Mondadori, Verona 1971.
Herbert A. Werner: ‘Iron Coffins’ – Bantam Books, Inc., New York 1978.
Alfred W. Crosby: ‘America’s Forgotten Pandemic’ – Cambridge University Press
1989.
Paul Kennedy: ‘Ascesa e declino delle grandi potenze’ – Garzanti, Milano 1989.
John Toland: ‘The Rising Sun’ – The Modern Library, New York 2003.
Numerosi saggi, articoli e dati trovati soprattutto in Internet.
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