1 Lucio Gentilini STATI UNITI D’AMERICA: ESPANSIONE ED IMPERIALISMO DI UNA DEMOCRAZIA IN ARMI PARTE SECONDA: LA CONQUISTA IMPERIALE DEL MONDO Una nuova era espansionistica Il secolo (o poco meno) che era trascorso dalla guerra d’indipendenza degli Stati Uniti al raggiungimento dei loro confini definitivi ed attuali era stato caratterizzato non solo dalla loro incontenibile espansione territoriale, ma anche dall’ottimo funzionamento delle loro istituzioni politiche, quelle che i Padri Fondatori avevano forgiato per il paese fin dalla sua nascita: gli Stati Uniti erano arrivati fino al Pacifico, avevano assorbito decine di milioni di emigranti, combattuto guerre e costruito una moderna società dove prima c’era solo la natura selvaggia riuscendo a risolvere le dispute politiche nell’ambito del loro sistema repubblicano bipartitico ed al sapiente equilibrio dei suoi poteri. Certamente con la guerra di secessione la parola era passata invece alle armi, ma il sistema era emerso vincitore anche da questa durissima prova, e per gli USA si era aperto un periodo che sarebbe stato poi chiamato ‘Golden Age’ con tutti i suoi innumerevoli, profondi ed ulteriori ammodernamenti e trasformazioni. Ma gli Stati Uniti non erano una potenza soddisfatta ed impegnata soltanto a sfruttare le sue pur vastissime risorse interne: al contrario, la sua connaturata spinta verso ovest continuò decisa ed inarrestabile anche dopo che era arrivata al Pacifico, solo che ora essa proseguì sugli oceani alla costruzione di un impero - operazione tutt’ora in corso (siamo nell’autunno 2013). Alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali, la meta infatti erano ora gli oceani, il Pacifico e l’Atlantico, e nello stesso 1867 (l’anno dell’acquisizione dell’Alaska) l’ardente Segretario di Stato (già di Lincoln) Seward fece occupare le isole Midway dalla marina militare; oltre a ciò, egli vedeva poi nelle Hawaii ottime basi di partenza e punti d’appoggio verso l’Asia e caldeggiava il progetto di scavare un canale a Panamà che rivoluzionasse e facilitasse i collegamenti fra i due oceani. Questa volontà espansionistica negli oceani (soprattutto nel Pacifico) fece presto emergere imprescindibile la necessità di dotare il paese di una marina militare capace di esercitare tale auspicato ruolo di preminenza e così, proprio negli anni centrali della ‘Great Depression’ (1873-95), gli USA procedettero alla costruzione di una poderosa marina da guerra, fra l’altro utile anche per assorbire la disoccupazione. Ancora una volta gli Stati Uniti dimostrarono tutta la loro potenza e le loro capacità: occupati com’erano stati ad avanzare nel continente via terra, la loro marina militare era stata inevitabilmente trascurata e si trovava al 16° posto (anche dopo quella del 2 Cile!) nel mondo, ma dopo una decina d’anni era già schizzata in testa insieme a quelle inglese e tedesca e corrispondeva finalmente alla forza economica stessa del paese. I Gli Stati Uniti avevano potuto dedicarsi al raggiungimento ed al consolidamento della loro completezza territoriale anche perché la Royal Navy inglese aveva continuato ad esercitare indisturbata (ed a proprie spese) il controllo dell’oceano Atlantico e, più in generale, perché l’estesissimo impero britannico era stato garanzia di pace e di equilibrio sul mare, ma era evidente che questa posizione di supremazia non poteva continuare troppo a lungo e cominciava anzi a manifestare i primi segni del suo declino. Negli ultimi decenni del XIX secolo – potentemente rafforzate dai progressi della seconda rivoluzione industriale – anche altre nazioni europee stavano infatti tornando a lanciarsi nella conquista dei continenti - ed oltretutto questa volta, oltre agli Stati Uniti, fu della partita anche un nuovo ed imprevisto partecipante, il Giappone. II In Asia infatti era improvvisamente sorta una nuova potenza, il Giappone, che proprio gli Stati Uniti avevano bruscamente destato dal suo lungo letargo dopo oltre due secoli di chiusura ermetica: era stato infatti il commodoro Perry che nel 1853 al comando di cinque modernissime navi da guerra aveva imposto l’apertura dei porti nipponici al commercio internazionale e così fin dall’anno seguente anche le potenze coloniali europee erano potute entrate nel suo territorio e gli avevano potuto imporre i famigerati ‘trattati ineguali’ iniziando così a rapinarlo e ad approfittare delle sue risorse (ma anche a metterlo in contatto con tutta la tecnologia dell’Occidente). Tuttavia, unico fra tutti i paesi extraeuropei aggrediti dal colonialismo, il Giappone aveva reagito con inaspettate prontezza e risoluzione mostrando di possedere capacità più uniche che rare tanto che nel giro di una generazione non solo era riuscito a liberarsi dalla pesante tutela coloniale, ma aveva raggiunto anch’esso una stupefacente potenza industriale (!!!). III Nel 1885 la Conferenza di Berlino definì le sfere di influenza che le Potenze Europee si erano ritagliate in Africa così che questa venne quasi completamente spartita: né gli USA né il Giappone presero parte a questa concordata e pianificata aggressione, invece quando il decennio successivo si aprì la grande corsa all’Asia (cioè soprattutto alla Cina), anche le due nuove nazioni furono attive protagoniste di quest’ulteriore assalto. 3 Appena fu in grado di farlo il Giappone mise infatti subito in campo tutta la potenza appena acquisita e nel 1894-95 in una breve guerra sconfisse nettamente la Cina delle cui ricchezze e territori (soprattutto isole) da paese divenuto anch’egli coloniale aveva ora bisogno. Fu in questo scenario che gli Stati Uniti fecero il loro ingresso sulla scena mondiale. La guerra ispano-americana Il primo passo degli USA per affermarsi come potenza mondiale fu l’eliminazione degli ultimi possedimenti d’oltremare della Spagna e la loro annessione. In soli centosei giorni (dal 30 aprile al 13 agosto 1898) la guerra tra gli scalpitanti e dinamici Stati Uniti ed il decrepito impero spagnolo chiuse così definitivamente una lunga pagina di storia e ne aprì un’altra. L’obiettivo degli USA era semplicissimo: impossessarsi delle ultime isole e degli ultimi arcipelaghi da secoli possedimenti della Spagna, un tempo potenza imperiale ormai però al tramonto e di fatto sopravvissuta a se stessa. A fine Ottocento la Spagna aveva infatti perso quasi tutto l’immenso impero che aveva mantenuto nei due oceani per tutta l’età moderna e le erano rimaste solo Cuba, Portorico, alcune Piccole Antille in America, le Filippine e le Ladrones (le Marianne) in Asia, più alcuni territori in Africa e nel Pacifico. A fronte di questo rimasuglio di impero ormai esaurito stava l’agguerrita impetuosa giovane repubblica americana, desiderosa di nuovi sbocchi e mercati ed orgogliosa della potenza raggiunta: l’eliminazione di quel che restava della presenza spagnola nell’Atlantico e nel Pacifico era solo il primo passo dell’espansionismo degli Stati Uniti sugli oceani (e quindi dei loro ulteriori sviluppo e progresso economici e politici) ed essi cominciarono la loro nuova avventura planetaria con lo sgomberare il campo innanzitutto da questo ostacolo. La guerra ispano-americana venne combattuta su vari fronti il primo e più importante dei quali fu Cuba. I Cuba era un possedimento coloniale spagnolo che era sempre andato piuttosto controcorrente: pur essendo stato uno dei primissimi insediamenti dell’impero su cui ‘non tramontava mai il Sole’, fino alla fine del XVIII era stato però piuttosto povero ed aveva funto soprattutto da scalo e da base per le navi da e per Europa ed America. Tuttavia quando negli anni Novanta del Settecento la grande rivolta servile aveva travolto la francese Haiti e ne aveva interrotto la fornitura di zucchero (di cui era la maggior produttrice nei Caraibi), la vicina Cuba aveva prontamente preso il suo posto - anche perché da Haiti nel decennio 1798-1808 vi erano giunte circa 30mila famiglie bianche - così che la sua classe dirigente aveva conosciuto un’improvvisa prosperità 4 economica ed un grande numero di schiavi negri (essenziali per il lavoro nelle piantagioni) era stato importato dall’Africa. Fu così che proprio quando l’America Latina continentale si stava liberando dal giogo spagnolo, Cuba stava vivendo invece il periodo più florido della sua storia e questo fatto – unito alla minaccia rappresentata dalla massiccia presenza di schiavi negri (ben presto circa ¼ della popolazione complessiva) - certamente non aveva spinto verso una guerra per l’indipendenza. Tuttavia nei decenni successivi, soprattutto quando si era andata profilando la guerra degli USA col Messico, alcuni piantatori cubani ed alcuni politici degli Stati Uniti (il principale partner commerciale) avevano accarezzato il progetto di un passaggio di Cuba dall’oppressiva ed arretrata Spagna ai liberali e fiorenti USA: c’erano stati addirittura tentativi di rivolta in questo senso, ma la sconfitta del Sud nella guerra di secessione - e la conseguente abolizione della schiavitù – avevano reso ovviamente del tutto impraticabile una soluzione di questo genere. La Spagna viveva allora veramente fuori del tempo e la sua testarda opposizione alla concessione di almeno una maggiore autonomia a Cuba (che era stata positivamente scossa dall’occupazione inglese nel 1762-63) aveva portato alla pesante rivolta che era durata ben dieci anni (1868-78) e che, caratterizzata da atrocità da entrambe le parti e dalla morte (spesso per malattia) di non meno di 150mila soldati spagnoli (!), prima di venir definitivamente soffocata aveva causato gravi devastazioni e la rovina di molti piantatori: sconfitti ma non domi i patrioti avevano dovuto però assistere non solo al trionfo degli odiati ‘peninsulares’ (cioè degli spagnoli, 1/6 della popolazione complessiva), ma anche all’ulteriore dipendenza della loro isola dal capitale statunitense che prontamente aveva occupato gli spazi lasciati vuoti dai cubani falliti. Dopo che il 7 ottobre 1886 la Spagna aveva abolito la schiavitù, a Cuba nel 1895 la rivolta (e furono proprio i negri i primi a ribellarsi) tornò a divampare sotto la guida del famoso poeta José Martì, luminoso ed indimenticato eroe nazionale: il partito da lui fondato aveva un programma nazionalista, social-liberale, indipendentista, anticoloniale ed addirittura mirava al recupero identitario ed autonomo dell’intera America Latina, ma purtroppo Martì morì presto in azione. La rivolta continuò, ma lo spietato esercito spagnolo era troppo forte per poter essere battuto: il governatore Valeriano Weyler operava spietate repressioni nel sangue e nei campi di concentramento in cui inviava non solo gli insorti catturati, ma anche la popolazione che simpatizzava con essi, senza alcun riguardo per vecchi, donne e bambini che vi morivano a migliaia. Per parte loro gli insorti erano addirittura peggiori degli spagnoli e dei loro brutali volontari: essi praticavano il saccheggio e la distruzione delle piantagioni e di ogni altra struttura produttiva condannando la popolazione alla carestia ed alla morte per fame, tanto che si viveva meglio (cioè meno peggio) nelle zone che essi non avevano ‘liberato’!!! Gli Stati Uniti non potevano restare indifferenti a tanto disordine ed al terribile disastro di Cuba (così vicina alle loro coste) sia perché centinaia di famiglie statunitensi erano ormai completamente rovinate, sia per via dei loro cospicui 5 interessi nell’isola e sia perché avevano ormai riconosciuto i Caraibi area di interesse strategico (anche in vista della progettata apertura del canale di Panamà). Innanzitutto allora il governo americano inviò a quello spagnolo una dura nota di protesta che causò addirittura il rimpatrio di Weyler, poi nel febbraio 1898 spedì all’Avana una corazzata, il ‘Maine’, ufficialmente allo scopo di proteggere i cittadini americani ivi residenti, ma in realtà come sfida agli spagnoli e come manifestazione di sostegno agli insorti cubani. Il 15 febbraio 1898 una ancora misteriosa esplosione proprio sul ‘Maine’ (che causò 260 morti ed il suo affondamento) fu imputata alla Spagna e fornì la (solita) occasione che gli Stati Uniti colsero per intervenire direttamente: era tuttavia altamente improbabile che la Spagna fosse responsabile dell’esplosione (probabilmente davvero un incidente) visto che non aveva (ovviamente) alcun interesse né alcuna intenzione di sostenere una guerra contro gli USA ed era disposta ad assecondare qualsiasi richiesta americana, mentre lo stesso presidente McKinley era in realtà contrario all’intervento diretto, ma non così l’opinione pubblica che da anni sulla stampa del gruppo Hearst, allora influentissima, leggeva delle crudeltà spagnole a Cuba (molto spesso del tutto inventate o comunque gonfiate). Erano comunque gli interessi di fondo degli USA ad essere in gioco e la partecipazione armata degli Stati Uniti agli eventi di Cuba non poteva più essere evitata: l’11 aprile McKinley inviò così al Congresso un lungo messaggio in cui elencava i motivi che spingevano gli Stati Uniti all’intervento: 1) motivazioni umanitarie verso le sofferenze della popolazione cubana stritolata da una guerra che non si risolveva né in un modo nè nell’altro; 2) dovere di proteggere i cittadini statunitensi a Cuba; 3) danni al commercio ed agli interessi degli USA stessi; 4) minaccia alla pace nel continente. McKinley continuava però a rifiutare di riconoscere gli insorti come i legittimi depositari del potere in Cuba e furono invece il Senato ed il Congresso stessi che gli forzarono la mano presentandogli a loro volta una loro risoluzione secondo la quale: 1) il popolo di Cuba aveva diritto alla libertà ed all’indipendenza; 2) le forze armate spagnole dovevano andarsene da Cuba. Il 20 aprile McKinley firmò questa risoluzione congiunta e la fuse con la propria: essa venne subito inviata al governo spagnolo al quale fu dato tempo fino alle ore 12.00 del 23 aprile per adempiere a quanto richiesto, cioè capitolare ed andarsene (!). Naturalmente la Spagna rigettò con sdegno l’ultimatum ed il 23 aprile 1898 dichiarò guerra agli Stati Uniti che a loro volta ricambiarono due giorni dopo anche in seguito a grandiose manifestazioni patriottiche al grido di ‘Ricordiamoci del Maine!’. II Gli Stati Uniti avevano esitato ad entrare in guerra perché le loro forze armate erano profondamente impreparate ed insufficienti alle necessità belliche (!): per quanto incredibile possa sembrare, allora negli USA era prevalente infatti la convinzione che 6 un esercito professionale in tempo di pace fosse una minaccia alla libertà ed alla democrazia e dunque praticamente non ce l’avevano (!). Dopo l’indipendenza l’esercito continentale aveva contato soltanto 80 soldati regolari (!!!) e dopo un secolo si pensava ancora che solo l’arruolamento di volontari poteva garantire il carattere popolare e sentito di una guerra, l’irrinunciabile ed unico motivo che la rendeva accettabile. Tuttavia quando nel 1898 la concreta possibilità di un intervento armato cominciò a profilarsi seriamente all’orizzonte, al Dipartimento della Guerra ed a quello della Marina i finanziamenti arrivarono subito copiosi ed il numero di soldati più che quadruplicò nel giro di settimane: la marina era in condizioni ben migliori dell’esercito, ma anche qui non si badò a spese e la sua forza combattiva raddoppiò in brevissimo tempo. Gli Stati Uniti disponevano insomma di una potenza economica, tecnologica ed industriale capace di mettere in piedi con incredibile velocità una forza militare corrispondente ai bisogni del momento: durante la guerra (tre mesi e mezzo) il personale della marina (impegnata in due oceani) raddoppiò poi un’altra volta e quello dell’esercito decuplicò addirittura i suoi effettivi d’anteguerra arrivando a contare 274.717 uomini (di cui 58.688 regolari e 216.029 volontari). Lo scontro fu assolutamente impari: la Spagna coi suoi 18 milioni di abitanti aveva ¼ della popolazione degli USA e le sue condizioni economiche e finanziarie non erano nemmeno paragonabili a quelle del giovane gigante americano: mentre la Royal Navy inglese manteneva una benevola neutralità, le forze armate statunitensi riuscirono a sbaragliare facilmente gli avversari in tre mesi e mezzo di ‘splendid little war’. La superiorità sul mare degli Stati Uniti fu totale fin da subito ed in questo settore non ci fu praticamente storia: con perdite da parte americana praticamente inesistenti i blocchi navali si succedettero alle distruzioni sistematiche delle patetiche flotte spagnole (come il 3 luglio 1898 nella battaglia navale di Santiago de Cuba quando la squadra navale spagnola venne completamente annientata). Anche se non avevano messo a punto nessun preparativo di difesa (!) e non avevano artiglieria terrestre (!), per terra gli spagnoli seppero però far molto meglio e dopo gli sbarchi non contrastati (!) iniziati con quello del 22 giugno la fanteria statunitense (i cavalli non furono mai impiegati) dovette combattere duramente e subì perdite anche gravissime che oltretutto misero in crisi le sue già inadeguate strutture sanitarie: va comunque ricordato che molti dei numerosi decessi di soldati americani furono dovuti alle malattie epidemiche che impazzarono senza pietà fra le fila delle loro truppe prive di adeguati anticorpi (vennero però istituiti anche battaglioni di ‘immuni’ alla malaria, alla febbre gialla, al tifo, alla dissenteria ed alle altre spaventose minacce alla salute). Per parte loro, gli insorti cubani comandati dal ‘generale’ Calixto Garcia non furono quasi mai presenti sul campo di battaglia e quando lo furono furono del tutto inconcludenti, ma contribuirono tuttavia ad ostacolare gli spagnoli con azioni di guerriglia e di controllo del territorio. 7 Va infine segnalato che questa fu anche una guerra in cui la propaganda continuò a martellare efficacemente l’opinione pubblica - come nel caso del politico di professione Theodore Roosevelt che, arruolato col grado di tenente-colonnello e vicecomandante dei ‘Rough Riders’ (un contingente di volontari di cavalleria), venne presto pomposamente proclamato eroe nazionale. III La guerra inevitabilmente fu combattuta anche in ciò che era rimasto dell’impero spagnolo nel Pacifico i cui eventi si accavallarono e si svolsero contemporaneamente a quelli di Cuba. Come già era avvenuto a Cuba, anche nelle Filippine fin dall’aprile 1896 era divampata l’ennesima ribellione contro la Spagna ed anche qui l’intervento degli Stati Uniti fu decisivo: dopo essersi accordato con Emilio Aguinaldo (il comandante degli insorti filippini) il 25 aprile 1898 il commodoro Dewey, alla testa dello ‘Squadrone Asiatico’ (la flotta statunitense dell’Estremo Oriente), salpò da Hong Kong con sei navi da guerra alla volta di Manila. Anche in questo caso l’attacco statunitense agli spagnoli nelle Filippine era dettato dall’esigenza di difendere il proprio commercio e la propria sicurezza nel Pacifico - e conseguentemente di avere basi e possedimenti anche in tale area. Mentre gli insorti filippini salutavano entusiasti gli americani liberatori, questi il 1 maggio 1898 sfoggiarono tutta la loro netta superiorità navale ed in poco più di un’ora ebbero il sopravvento sui forti e sulle navi spagnole (quasi tutte distrutte) nella baia di Manila, contando tra di loro nessun morto ed un solo ferito (Dewey stesso!). Il contemporaneo Titherton mise allora in luce che ‘Così venne eseguita una delle operazioni navali più brillanti e completamente riuscite della storia. Il lavoro di un mattino dello squadrone di Dewey aveva cancellato la potenza navale spagnola in Oriente e gli aveva dato il controllo del grande arcipelago delle Filippine’ (pag. 143); secondo lui la campagna di Manila ‘segnò davvero una nuova era nella storia degli Stati Uniti, che piantarono la loro bandiera su un grande impero dell’emisfero orientale, e li rese non più una potenza soltanto americana, ma mondiale’ (pag. 350). Gli americani furono decisivi nella sconfitta degli spagnoli nelle Filippine, però li combatterono solo per mare a Manila (comunque la chiave dell’arcipelago) perchè non avevano allora le forze sufficienti per sbarcare sulla terraferma: furono così gli insorti filippini a dilagare vittoriosi in tutto l’arcipelago ed il 12 giugno 1898 a proclamare l’indipendenza della prima Repubblica delle Filippine. IV In realtà gli americani non erano stati con le mani in mano ed il 25 maggio l’avanguardia di una flotta con complessivi 20mila uomini era partita da San Francisco alla volta delle Filippine ma, raggiunta Honolulu per rifornirsi di carbone, aveva ricevuto l’ordine di impadronirsi invece dell’isola di Guam (nelle Ladrones 8 spagnole): il 20 giugno 1898 l’incrociatore statunitense ‘USS Charleston’ si presentò così davanti all’isola, dopo una breve trattativa la piccola e stupita guarnigione (60 spagnoli e qualche nativo) si arrese ed il giorno seguente un contingente di marines sbarcò tranquillamente e prese possesso di Guam. Eseguita la conquista di Guam, il 30 giugno la flotta statunitense raggiunse poi Manila ed il giorno seguente iniziò lo sbarco sulla terraferma, ma, ancora una volta, solo per conquistare Manila stessa che cadde il 13 agosto mentre tutto il resto del paese rimaneva nelle mani degli insorti filippini. Con lo sbarco americano iniziarono però anche gli inevitabili problemi dei rapporti con i patrioti di Aguinaldo. V Intanto il 26 luglio truppe americane erano sbarcate anche a Portorico (oggi Puerto Rico) senza incontrare resistenza: Portorico chiude il mar dei Caraibi a nord-est e per questa evidente ragione geostrategica fin dallo scoppio delle ostilità era stata un importante obiettivo bellico. Anche in questo caso la sua occupazione fu una passeggiata militare con gli spagnoli che si ritiravano, i locali che salutavano festosi i nuovi arrivati e gli occupanti che parlavano di pace e di libertà. VI Il 12 agosto 1898 venne firmato l’armistizio e gli accordi allora raggiunti vennero quindi ratificati dal Trattato di Parigi il 10 dicembre dello stesso anno, ma ai negoziati di pace furono esclusi i rappresentanti degli insorti di tutti i paesi che si erano ribellati e si incontrarono solo statunitensi e spagnoli. In Spagna – che era come tramortita dalla sconfitta - la guerra passò alla storia come ‘El Desastre del ‘98’ e generò una profonda crisi d’identità in un paese che non riusciva ad inserirsi nella modernità e che in sede diplomatica non fu in grado di difendere nessuna delle sue posizioni. Gli Stati Uniti invece avevano stupito il mondo con la loro manifestazione di forza e di potenza ed ottennero così tutto quello che vollero e cioè: 1) l’indipendenza di Cuba; 2) la rinuncia spagnola a Portorico (che venne annessa agli USA come ‘territorio’ non destinato però a diventarne uno stato); 3) la rinuncia spagnola all’isola di Guam (divenuta da allora l’isola ‘dove comincia il giorno americano’); 4) la rinuncia spagnola alle Piccole Antille (l’arcipelago ad arco che chiude a est il mar delle Antille); 5) la rinuncia spagnola alle isole Ladrones (le Marianne); 9 6) la rinuncia spagnola a Manila nelle Filippine in attesa di una (più che prevedibile) sistemazione politica dell’intero arcipelago. La Spagna non potè che accettare tutte queste condizioni e dovette accontentarsi di poter frequentare liberamente i porti delle Filippine per dieci anni e di ricevere 20 milioni di dollari di indennizzo: riuscì infine a vendere alla Germania le restanti isole Ladrones e le isole Caroline, i suoi ultimi possedimenti nell’oceano Pacifico, per evitare di dover eventualmente cedere anche queste agli americani come bottino di guerra o di essere costretta ad assistere impotente alla loro inevitabile conquista. Il ruolo dominante della Spagna nell’emisfero occidentale era già terminato da molto tempo ma ora, dopo quattro secoli, anche le ultime vestigia del suo grande impero pluricontinentale erano state spazzate via, per sempre e con estrema facilità: secondo il contemporaneo Titherington non si trattò altro che della ‘logica ed inevitabile conclusione di un lungo capitolo di storia’ (pag. 1). Cuba e Filippine primo passo dell’impero americano Per lunghi anni cubani e filippini avevano combattuto contro la Spagna senza riuscire a scacciarla dai loro paesi ed a conseguire così libertà ed indipendenza: essi avevano nondimeno testimoniato la loro convinta determinazione a voler diventare padroni della loro stessa terra e del loro stesso destino. Solo l’intervento degli Stati Uniti aveva finalmente compiuto (e quanto in fretta!) il miracolo di distruggere l’odioso ed odiato impero spagnolo, ma al di là delle (solite) parole e frasi roboanti sulla democrazia, la felicità, i diritti dei popoli, ecc. ecc., fu presto chiaro che gli statunitensi che si spacciavano per liberatori erano sbarcati invece per restare e per curare e sviluppare loro propri interessi. Gli USA erano certamente ben più sviluppati e moderni della Spagna e potevano portare quindi un indubbio progresso ed inserire Cuba e le Filippine in un mercato molto più vasto e vitale, ma fu subito chiaro anche che i due popoli ‘liberati’ erano semplicemente passati da un padrone ad un altro. A Cuba le proprietà ed i capitali degli spagnoli furono garantiti e protetti mentre gli Stati Uniti organizzarono un governo militare che si occupò della ricostruzione e di una prima sistemazione dell’isola. Effettivamente questo governo lavorò bene nell’eliminare fame e malattie (soprattutto la febbre gialla), nell’istituire il primo sistema scolastico, nel rimettere in piedi il paese e nell’assicurargli un certo sviluppo: nel 1901 il nuovo parlamento cubano emanò la Costituzione, l’anno seguente venne eletto il primo presidente e le truppe statunitensi lasciarono Cuba. Gli Stati Uniti insomma non inserirono direttamente nei loro possedimenti Cuba che, anche se apparentemente ora era uno stato indipendente e sovrano, in realtà era diventato invece un protettorato. 10 Non solo infatti il presidente statunitense McKinley aveva procurato di avere persone a lui fidate nel governo dell’isola: nella costituzione stessa egli aveva fatto inserire l’(incredibile) Emendamento Platt che dava agli USA il diritto di intervenire (!) negli affari interni del paese ‘per il mantenimento di un governo adeguato per la protezione della vita, della proprietà e delle libertà individuali’ (sic); gli USA mantenevano prerogative decisive nella conduzione della politica estera cubana; ottennero di poter costruire sull’isola proprie basi navali e militari (Isola della Gioventù, restituita però nel 1925, e la famosa Guantanamo tutt’ora in loro possesso); ed infine i capitali impiegati nella ricostruzione di Cuba furono tutti statunitensi. Come si vede facilmente, i cubani erano liberi solo di obbedire e di farsi guidare dagli Stati Uniti che non dovevano mantenere una (costosa e criticabile) forza d’occupazione sull’isola nè spendere di tasca propria per controllare il territorio e godere delle sue ricchezze e risorse (che comunque erano disposti a condividere con politici compiacenti e con proprietari alleati). In queste condizioni ben presto la vita politica di Cuba non potè che degenerare in una serie di lotte fra fazioni e fra caudillos rivali mentre gli Stati Uniti manovravano dietro (ma non troppo) le quinte oppure, quando ciò non bastava e quando ritenevano che i loro interessi fossero minacciati, in base all’Emendamento Platt mandavano direttamente truppe sull’isola (come avvenne nel 1906-09, nel 1912 e nel 1917). Primo presidente della repubblica venne eletto così Tomas Estrada Palma, uomo di fiducia degli Stati Uniti (che fecero di tutto per garantirne l’elezione): egli favorì gli investitori americani che in breve si assicurarono il controllo economico dell’isola mentre - non certo sorprendentemente - in tutto il paese dilagava diffusa la corruzione dei pubblici ufficiali. Nel 1906 alla fine del suo primo mandato Estrada Palma ricorse a tutti i mezzi, non esclusi quelli criminali, per ottenerne un secondo che gli costò però l’opposizione popolare armata: di fronte all’insurrezione Estrada Palma chiamò in aiuto gli USA e si ebbe così la seconda occupazione dell’isola da parte degli statunitensi che sciolsero le forze degli insorti (ma anche le milizie di Estrada Palma): ai sensi dell’Emendamento Platt gli USA sospesero poi l’attività del parlamento e, tanto per non correre rischi, nominarono governatore lo statunitense Charles E. Magoon e lo sostennero con la forza delle loro armi finchè la rivolta non fu del tutto sedata. Magoon tuttavia sviluppò le infrastrutture dell’isola e continuò a portarvi un certo sviluppo (e la corruzione denunciata da tanti scrittori cubani), ma quel che era successo era comunque l’evidente messa in atto della logica del protettorato. Nelle Filippine le cose andarono ancora (e molto) peggio. Gli insorti filippini che, guidati da Emilio Aguinaldo, avevano combattuto contro gli spagnoli ed avevano considerato gli americani (che erano intervenuti solo a Manila!) amici ed alleati, a Parigi si erano aspettati il riconoscimento dell’indipendenza del loro paese ma - come i cubani - non avevano nemmeno potuto partecipare ai negoziati: in base al Trattato di Parigi le Filippine divennero invece dominio 11 americano ‘per acquisto’ dato che gli Stati Uniti indennizzarono la Spagna con 20 milioni di dollari. Si disse che sarebbe stato il commodoro Dewey stesso a convincere il governo degli USA a non sgombrare le Filippine ed a negare l’autogoverno ai suoi abitanti: riprendendo le tradizionali argomentazioni dei colonialisti, Dewey avrebbe affermato che Aguinaldo rappresentava una parte soltanto dell’opinione pubblica filippina, che non sarebbe stato in grado di gestire il paese e, soprattutto, che non avrebbe avuto la forza di resistere agli appetiti coloniali della Francia o della Germania. L’incorporazione delle Filippine venne così sentita e considerata come l’assunzione di una responsabilità storica, quasi l’adempimento di una missione, ma in realtà le ragioni che portarono alla conquista americana delle Filippine furono che: 1) l’opinione pubblica era inebriata ed entusiasta delle facili vittorie americane; 2) gli USA avevano occupato Manila, il principale porto delle Filippine, per le esigenze della guerra contro la Spagna ma a guerra finita si accorsero che non volevano né potevano rinunciarvi; 3) dopo l’annessione delle Hawaii (nel 1898) le Filippine completavano infatti il percorso per arrivare in Asia (cioè in Cina), la nuova grande meta commerciale e strategica di tutti i paesi colonialisti; 4) entrati pienamente nella lotta planetaria per la costruzione di nuovi imperi, gli Stati Uniti volevano e dovevano evitare che altre potenze, soprattutto la Germania, si appropriassero delle Filippine. L’accordo ispano-americano non venne riconosciuto dal governo filippino (guidato da Emilio Aguinaldo) che non aveva certo combattuto per cambiar padrone e che il 2 giugno 1899 dichiarò così guerra agli USA, vera e propria continuazione della sua guerra di indipendenza. I ribelli si diedero ad una guerriglia così efficace che durò oltre tre anni e costrinse Washington ad aumentare il suo esercito d’occupazione fino a 65mila uomini: la guerriglia costò la morte di cinquemila soldati americani e di circa seicentomila filippini, comprese le vittime della fame e delle malattie portate dalla guerra, e si concluse con la totale disfatta degli indipendentisti. I metodi di repressione già usati contro gli indiani d’America furono adoperati anche contro i filippini, mentre inutilmente accuse e denunce piovevano da diversi settori dell’opinione pubblica americana: se ne fece interprete il democratico William J. Bryan che però perse le elezioni del 1900 contro McKinley (che si presentò insieme a Theodore Roosevelt, divenuto governatore di New York, come suo vice). Riconfermato alla Casa Bianca, McKinley riuscì comunque a risolvere la questione filippina: i rivoltosi ottennero di partecipare al governo del loro paese ma in cambio deposero le armi e giurarono fedeltà agli Stati Uniti. Lo stesso Aguinaldo fu catturato nel marzo del 1901 e si ritirò dalla vita politica dopo aver pubblicamente riconosciuto la subordinazione delle Filippine agli USA: anche la maggior parte dei leader filippini ammise la vittoria degli americani ed il 4 luglio 1901 (giorno non certo scelto a caso) McKinley potè così chiudere la vicenda con la designazione di William Taft governatore delle Filippine. 12 Inutilmente Mark Twain espresse tutta la sua condanna, la sua vergogna e la sua amarezza riconoscendo che ‘Ci siamo presi gioco di loro, usandoli fino a quando non ci sono serviti più’ (‘Alla persona che siede nelle tenebre’, 1901). Il 1 luglio 1902 le isole, ormai ‘pacificate’, divennero ‘territorio incorporato’ degli Stati Uniti il cui governo dichiarò il conflitto ufficialmente concluso (anche se le ostilità continuarono fino al 1913). In seguito, nel 1935 all’arcipelago sarebbe stata poi concessa una parziale autonomia (‘The Commonwealth Status’); nel 1943 l’ormai settantaquattrenne Aguinaldo, ripescato dagli occupanti giapponesi, avrebbe proclamato ancora una volta l’indipendenza delle Filippine dagli USA e collaborato fattivamente col governo nipponico fino al termine della guerra. Solo nel 1946 le Filippine avrebbero finalmente ottenuto la sospirata indipendenza. L’annessione delle Hawaii In concomitanza con la guerra ispano-americana, nel 1898 anche le isole Hawaii vennero annesse agli Stati Uniti e dall’aprile 1900 nel Congresso sedettero così anche rappresentanti hawaiiani: le modalità della loro annessione agli USA furono però piuttosto singolari. Il 18 gennaio 1778 James Cook era stato ufficialmente il primo europeo a raggiungere quelle isole così sperdute in mezzo al Pacifico che aveva chiamato Sandwich, ma è probabile che già in precedenza marinai spagnoli vi fossero naufragati durante le traversate fra Messico e Filippine: comunque gli inglesi fin dal 1794 avevano tentato senza successo di imporre il proprio protettorato su quelle isole. Nel 1810 (con l’aiuto di armi e consiglieri bianchi) per la prima volta l’arcipelago era stato poi unificato dal re Kamehameha I mentre su quelle fertili isole erano giunti intanto vari gruppi di europei (russi e francesi compresi) e di americani. Dopo che nel 1843 un ulteriore tentativo degli inglesi di sottomettere l’arcipelago era fallito, nel 1875 erano stati gli Stati Uniti a firmare infine il Trattato di Reciprocità col Regno delle Hawaii (per la prima volta riconosciuto ufficialmente come tale): in base a tale accordo gli Stati Uniti permettevano l’importazione libera di zucchero dalle Hawaii ed ottenevano in cambio Pearl Harbor ed il suo retroterra per sè. Il trattato aveva promosso immediatamente l’ulteriore diffusione delle piantagioni: rapidamente infatti molti immigrati bianchi, soprattutto americani, avevano preso ad acquistare grandi estensioni di terreno ed a farle coltivare a canna da zucchero. Come dovunque, anche nelle piantagioni delle Hawaii c’era stata subito grande necessità di lavoratori e si erano così susseguite massicce ondate di immigrazione soprattutto dall’Estremo Oriente - cinesi, giapponesi ed anche filippini e coreani – che avevano reso necessaria la coltivazione anche del riso (peraltro anch’esso esportabile liberamente negli USA). 13 Quando Cook era arrivato nelle Hawaii aveva stimato che la popolazione indigena dell’arcipelago ammontasse a circa 400mila persone, gigantesche e di complessione molto grassa e robusta, ma – come dappertutto dove erano arrivati gli europei – le malattie (ed i maltrattamenti) ne avevano fatto una vera e propria strage tanto che un secolo dopo ne erano sopravvissute solo poco più di 1/10: i cinesi tuttavia, giunti senza donne sulle isole, avevano preso ad unirsi a quelle indigene, per parte loro ben contente di sposare uomini così laboriosi e che amavano tanto profondamente sia loro stesse che i loro bambini, mentre tali unioni erano davvero favorite dalla natura visto che i/le sino-hawaiiani/e erano bellissimi/e (più alti/e dei loro padri e più magri/e delle loro madri) e grandemente dotati/e intellettualmente. In ogni caso, il Trattato di Reciprocità aveva comportato la profonda trasformazione delle Hawaii anche dal punto di vista politico visto che l’economia e la direzione dell’arcipelago era ricaduta sempre più nelle mani dei piantatori bianchi e degli USA stessi tanto che ci sono storici che parlano tout court di protettorato americano dell’arcipelago a partire dal 1876. Non stupisce quindi che ben presto nelle isole si erano susseguite rivolte e rivoluzioni e che nel 1887 la cosiddetta ‘Costituzione-Baionetta’ (che toglieva molte prerogative alla corona e ne riduceva pesantemente i diritti politici) era stata imposta dalla minoranza straniera al re ed alla maggioranza della popolazione indigena (o naturalizzata) che, fra l’altro, mal sopportava la presenza militare americana a Pearl Harbor ed arrivava a chiedere addirittura un’alleanza col Giappone in funzione anticoloniale. Nel 1888 e nel 1889 due tentativi per abolire la Costituzione-Baionetta erano stati schiacciati finchè nel 1892 la regina Liliʻuokalani appena ascesa al trono emanò una nuova costituzione per riaffermare la sua propria autorità. Immediatamente il 14 gennaio 1893 un gruppo di residenti europei ed americani istituì la Commissione per la Sicurezza allo scopo di rovesciare la regina e, rotti gli indugi, annettere direttamente l’arcipelago agli Stati Uniti: la Commissione denunciò così una ‘imminente minaccia alle vite ed alle proprietà americane’ e (con incredibile e sospetto tempismo) già due giorni dopo una compagnia di marines e due compagnie di marinai sbarcarono sul suolo hawaiiano (!). Già il giorno seguente (!) venne istituito un governo provvisorio in attesa dell’annessione delle Hawaii agli USA: alla regina non restò che abdicare, ma non senza aver prima lanciato una vibrata protesta contro gli Stati Uniti ed il loro spregiudicato e prepotente uso della forza contro il suo governo legittimo. Quel che era successo era infatti chiarissimo: gli americani dominavano l’economia delle isole e non volevano che i locali avessero la minima voce in capitolo. Questa volta però l’usato copione non venne recitato senza intoppi: il presidente Cleveland volle infatti vedere chiaro nell’accaduto ed incaricò il deputato Blount di condurre un’inchiesta in proposito. Il 17 luglio 1893 il rapporto Blount condannò quant’era successo concludendo che ‘I diplomatici e militari degli Stati Uniti hanno abusato della loro autorità e sono responsabili del cambio di governo.’ (!): i responsabili furono richiamati e Cleveland 14 non esitò ad affermare che ‘era stata commessa una sostanziale ingiustizia che in considerazione del nostro carattere nazionale ed anche delle persone danneggiate … dobbiamo sforzarci di riparare …’; e non solo: ‘mi sembra che l’unico corso onorevole per il nostro governo è disfare l’errore che è stato commesso da coloro che ci rappresentavano e ristabilire per quanto possibile la situazione che c’era al momento del nostro intervento forzoso.’ Cleveland portò il problema delle Hawaii all’attenzione del Congresso, ma intanto Sanford Dole, presidente del governo provvisorio hawaiiano, rifiutò di obbedire a Cleveland ed il senato statunitense incaricò Morgan, il presidente delle sue Relazioni con l’Estero, di tornare sulla questione: il 26 febbraio 1894 il rapporto Morgan contraddisse completamente quello di Blount ed a Cleveland non restò così che piegarsi ed abbandonare la regina hawaiiana al suo triste destino. I giochi erano fatti: in attesa dell’annessione vera e propria, il 4 luglio 1894 (giorno non certo scelto a caso) i ‘rivoluzionari’ fondarono così la Repubblica delle Hawaii con Sanford Dole ancora suo presidente. Nel 1896 McKinley, convinto sostenitore dell’espansione degli USA, venne eletto presidente degli USA e, nonostante il Giappone allarmato avesse inviato navi da guerra in funzione dissuasiva, il 7 luglio 1898 annesse la Repubblica delle Hawaii ed il 22 febbraio 1900 la dichiarò Territorio degli USA (sempre con Dole presidente). L’annessione dell’arcipelago era stata favorita anche dal (solito) timore che qualche altra potenza coloniale (Inghilterra, Germania, Francia, Giappone, ecc.) potesse impadronirsene: in quegli anni di sfrenate conquiste coloniali la gara per stabilire chi era arrivato primo e chi aveva diritto (sic) a mettere le mani su nuovi territori non era infatti condotta fra indigeni ed occupanti, ma fra i vari occupanti stessi che giudicavano giusto e normale prendersi tutto quel che volevano mediante il semplice ed aperto uso della forza. Va comunque detto che gli USA vollero annettere le Hawaii ed inserirle nell’Unione su un piede di parità con gli altri stati, ma la popolazione hawaiiana e sino-hawaiiana, veniva considerata (come dappertutto i non-bianchi) semplice forza-lavoro sottomessa e strumentale alle necessità dei nuovi padroni venuti dal mare. Le piantagioni di canna da zucchero si espansero, l’attività economica si diversificò pur rimanendo comunque concentrata (ovviamente insieme al potere politico) nelle mani delle ‘Cinque grandi’ corporazioni statunitensi. Il 21 agosto 1959 il Congresso degli Stati Uniti accettò le Hawaii come 50º stato dell’Unione con giurisdizione su tutte le isole dell’arcipelago ad eccezione dell’Atollo di Midway, sotto diretto controllo federale. Le Hawaii sono oggi il 43º stato dell’Unione per superficie, il 40º per popolazione, ma il 13º per densità di popolazione. Le Hawaii sono uno dei due stati a non far parte dei cosiddetti Stati Uniti contigui e l’unico con una collettività di asioamericani. Al contrario di quel che avvenne in California, i giapponesi residenti alle Hawaii al momento dello scoppio della guerra non furono mai internati in massa e considerati (a ragione) cittadini pienamente americani. 15 Dottrina Monroe’, ‘porta aperta’ e ‘grosso bastone’ La guerra ispano-americana, la prima guerra che gli Stati Uniti combatterono al di fuori del loro territorio nazionale, mostrò fin dall’inizio tutti i caratteri del peculiare imperialismo americano che si sarebbe sviluppato potentemente per tutto il secolo seguente. Per estendere la loro influenza ed il loro potere, e per aumentare, difendere e curare i propri interessi, gli Stati Uniti procedettero (ed avrebbero sempre proceduto) secondo le seguenti linee di intervento: 1) ridurre, spazzare via o sostituirsi nei possedimenti coloniali degli altri imperi (europei); 2) per questo scopo sostenere almeno una parte dell’elemento locale, soprattutto se in rivolta; 3) presentarsi sempre come la nuova repubblica idealista portatrice di giustizia e libertà; 4) dopo la vittoria, per difendere i propri interessi imperiali, appoggiarsi il più possibile agli elementi locali disposti (non certo disinteressatamente) a collaborare; 5) risparmiare così risorse e limitare al massimo l’azione repressiva diretta; 6) i vecchi imperi coloniali col loro dominio diretto si erano rivelati antieconomici e suscitatori di troppe opposizioni - esterne ma anche interne - e dunque era sicuramente preferibile una forma aggiornata di protettorato; 7) naturalmente ciò non escludeva l’intervento diretto quando gli elementi locali collaborazionisti si dimostravano insufficienti (per esempio contro le ribellioni). Questo nuova forma di colonialismo, il famoso imperialismo americano, risultò chiarissimo nella politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina. Come si erano sentiti in diritto di fare nei confronti del Giappone, anche nei confronti della Cina gli USA avevano voluto impegnarsi a portare progresso e civiltà, ma qui erano arrivati fra gli ultimi ed avevano trovato una situazione molto più complicata: dopo le due sconfitte subite nelle ‘guerre dell’oppio’ (1839-42 e 1856-60) la Cina, oltre a cedere Hong Kong all’Inghilterra, aveva dovuto subire ed accettare tutte le condizioni economiche e commerciali che i ‘barbari venuti dal mare’ le avevano imposto e cedere porti o parti di porti alle varie potenze europee che erano arrivate al seguito degli inglesi. Ognuna di queste aveva preteso ed ottenuto propri particolari privilegi così che la Cina era stata ‘affettata come un melone’ dagli europei e nel 1894-95 l’ulteriore sconfitta subita ad opera del Giappone, il nuovo arrivato al tavolo dello sfruttamento del Celeste Impero, ne aveva ulteriormente confermato lo stato di crisi e di debolezza. Fu in queste condizioni che il segretario di stato statunitense John Hay nel settembrenovembre 1899 nelle ‘Note alla Politica della Porta Aperta’ inviate a Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Giappone e Russia, si oppose alla spartizione della Cina ed affermò che gli Stati Uniti volevano che ‘l’entità territoriale ed amministrativa 16 della Cina’ venisse preservata e che tutte le sue parti fossero ugualmente aperte al commercio con tutte le nazioni. Questa nuova politica della porta aperta segnò con precisione il distacco della moderna politica imperialistica rispetto a quella (vecchia) degli imperi coloniali, quindi fra Stati Uniti e Potenze Europee (e Giappone). Gli Stati Uniti puntavano sulla loro nettissima superiorità economica e commerciale per ottenere tutti i contratti e tutte le forniture che volevano, ma intendevano che questo avvenisse in un regime di libera concorrenza e senza apparenti costrizioni violente e forzose, mentre i paesi europei (Inghilterra in testa) avevano al contrario costruito degli imperi ad uso e consumo della sola potenza coloniale dominatrice. Gli Stati Uniti erano quindi apertamente anticolonialisti perché ritenevano che la pesante bardatura militare e l’oppressione coloniale fossero inaccettabili non solo sul piano morale ed ideale, ma anche su quello economico perché erano un antistorico intralcio al dispiegamento delle potenzialità dei mercati (e, soprattutto, di loro stessi). La politica della porta aperta, cioè dello stabilimento di rapporti economici e di canali commerciali aperti a tutti e senza privilegi particolari con parti del mondo che ne erano restate fino a quel momento estranee, non era una novità nella logica e nella pratica del colonialismo, ma ora veniva proposto dagli USA contro le pretese degli altri paesi coloniali di ritagliarsi ognuno la sua parte di bottino rovinando e distruggendo in questo modo la preda comune stessa: la proposta della porta aperta in Cina era il modo in cui gli Stati Uniti pensavano di tutelare al meglio i loro interessi ed anche un miglior adeguamento alla realtà visto che sarebbe stato molto meglio per tutti (e più giusto) se la Cina fosse rimasta integra ed intera. La Cina era infatti troppo grande per poter essere sottomessa ad una sola potenza straniera ed era così sicuramente conveniente e preferibile se essa avesse potuto mantenere la sua unità ed il suo stato ma avesse acconsentito alle richieste economiche e commerciali dei suoi nuovi (ed autoimposti) partners (padroni). Il ricorso alla violenza ed alla guerra doveva essere l’estrema risorsa cui comunque ben presto gli USA ricorsero quando anch’essi parteciparono insieme a tutte le altre potenze coloniali a domare in un paio di mesi la rivolta dei Boxers (1900), il patetico e disperato tentativo nazionalistico della Cina di risollevarsi dallo stato di prostrazione in cui era ormai caduta: è degno di nota che la partecipazione americana - la prima sul continente asiatico - avvenne per decisione presidenziale e senza l’autorizzazione del Congresso (come pure la costituzione avrebbe previsto!) mentre due anni prima non c’erano state truppe sufficienti per la guerra ispano-americana. Questo intervento fu un caso estremo del terzo principio ispiratore della politica estera statunitense, quello del ‘grosso bastone’: esso prese il nome da un’affermazione famosa del presidente Theodore Roosevelt nel 1904 - ‘Parla con gentilezza e portati dietro un grosso bastone’ - che significava che gli interessi degli Stati Uniti non potevano e dovevano essere messi in discussione e che il ricorso alla forza doveva essere sempre sottinteso e pronto ad essere messo in atto (come del resto avvenne spesso nei Caraibi ed in America Centrale e Meridionale). 17 I trattati imposti alla Cina dopo il 1900 di fatto smentirono però la politica della porta aperta perchè la competizione tra le varie potenze coloniali per strappare concessioni speciali continuò come prima, nondimeno essa segnò il momento in cui gli Stati Uniti definirono con chiarezza e lungimiranza i criteri della loro politica estera. Così come la ‘dottrina Monroe’ aveva delineato la strategia degli Stati Uniti nel continente americano nell’Ottocento, così quella della ‘porta aperta’ e del ‘grosso bastone’ avrebbero diretto la loro politica nel mondo intero nel Novecento: una nuova forma di imperialismo stava prendendo piede, un tentativo di associare (in qualsiasi modo) governi e settori sociali dei paesi nei quali si avevano interessi da difendere e concentrarsi solo su questi ultimi con la minor spesa possibile. La sottomissione diretta, il dominio puro e semplice e la conquista completa apparivano ormai strumenti del vecchio colonialismo che non funzionavano più e, oltre ai suoi costi, offrivano poi il fianco a troppe critiche umanitarie e di principio: fu questo così il periodo delle cosiddette ‘repubbliche delle banane’, cioè di quei paesi centro-americani dominati dalle industrie alimentari statunitensi, perchè risultava molto più semplice, economico e produttivo puntare su alleanze, accordi, mutui vantaggi, ecc. coi governi (deboli e/o corrotti) dei paesi con cui si volevano costruire rapporti economici, a costo di sgombrare il campo dalle vecchie potenze coloniali con la forza (come contro la Spagna), mentre, se e quando non era possibile diversamente, il ricorso ai, diciamo così, vecchi sistemi (il grosso bastone) era ovviamente praticato senza indugi ed incertezze (come nelle Filippine). Naturalmente una dottrina non escludeva l’altra: lo si era già visto chiaramente nel 1893-94 quando Cleveland aveva fatto intervenire la flotta nella rivoluzione in Brasile per spazzare via le fazioni filo-inglesi e favorire quelle filo-statunitensi; l’anno seguente quando aveva cacciato gli inglesi dal Nicaragua orientale e proclamato la preminenza degli interessi degli USA nel mondo; nel 1902 quando Roosevelt fece esplicito riferimento alla dottrina Monroe per far desistere Italia, Inghilterra e Germania dal blocco delle acque del Venezuela insolvente, ecc.. Gli Stati Uniti erano diventati ormai un impero ed il loro presidente, comandante in capo delle forze armate, gestore diretto della politica estera e responsabile della sicurezza della nazione, esercitava ormai funzioni imperiali: ciò fu vero con McKinley e, soprattutto (dopo che il 14 settembre 1901 McKinley era stato assassinato da un fanatico di nome Leon Czolgosz), col quarantatreenne vulcanico vice-presidente Theodore Roosevelt che gli successe automaticamente nella carica e che tre anni dopo venne poi trionfalmente riconfermato. Negli anni di Lyndon Johnson (1963-69) e di Nixon (1969-74) si sarebbe ampiamente parlato di ‘presidenza imperiale’, cioè di quella concentrazione nelle mani del presidente di potere soprattutto in politica estera, ma essa era iniziata fin dalla svolta del secolo. Tutto spingeva gli USA ad aumentare la loro presenza sullo scacchiere internazionale e quando nel 1903 l’Inghilterra, impegnata contro la Germania di Guglielmo II, dovette ritirare la sua flotta dai Caraibi quella statunitense era ormai pronta e desiderosa di prenderne il posto. 18 Insomma: gli Stati Uniti erano più che preparati ad estendere e difendere i propri interessi al di fuori dei propri confini, ma preferivano farlo il più possibile e finchè possibile per interposta persona. In questo senso il caso di Panamà fu esemplare. Il caso Panamà Fin da quando gli spagnoli c’erano arrivati si erano accorti che nel punto in cui l’America Centrale si assottiglia di più la distanza fra i due oceani è veramente minima e la possibilità dunque di attraversarla per passare da un emisfero all’altro e da un oceano all’altro era stata subito colta in tutta la sua importanza addirittura da Carlo V (!) mentre già Simón Bolívar alla fine degli anni Venti dell’Ottocento aveva commissionato uno studio sulla fattibilità di un tale percorso. Nel 1836 il presidente Jackson aveva ordinato un ulteriore sopralluogo ed aveva ottenuto dal governo della Colombia (di cui allora la regione faceva parte) la concessione per realizzare una linea ferroviaria che andasse da un capo all’altro dell’istmo. Motivi economici avevano impedito la realizzazione dell’ambizioso disegno e due anni dopo uno analogo francese aveva fatto la stessa fine. I Tuttavia con l’annessione della California nel 1848 e, soprattutto, con la contemporanea corsa all’oro, il traffico di persone e di merci tra le due sponde nordamericane era aumentato a dismisura e con esso l’opportunità di questa ferrovia: a quel tempo per andare via terra da una costa all’altra degli USA si impiegava quasi un anno con notevoli disagi e grossi pericoli tanto che per i passeggeri ricchi e per il trasporto della posta e delle poche merci era più conveniente e meno rischioso partire dai porti dell’Atlantico (su navi a vela), doppiare il (pur temuto) Capo Horn e risalire fino a San Francisco (!). Ben presto gli USA decisero quindi di costruire una linea ferroviaria che, andando da costa a costa dell’attuale Panamà, accorciasse enormemente il tragitto e nello stesso 1848 la Colombia assegnò ad una società statunitense la relativa concessione. Lunga solo 48 miglia (77 chilometri) ed inaugurata il 14 gennaio 1855, la Panama Railway (con capolinea a Colón e Panamá) fu così la prima ferrovia transcontinentale americana ad unire l’oceano Pacifico con l’oceano Atlantico - 14 anni prima di quella che avrebbe attraversato invece gli Stati Uniti stessi. II Senza sottovalutare l’importanza della Panama Railway, era evidente però che mettere in comunicazione diretta i due oceani per via d’acqua sarebbe stato di gran 19 lunga più conveniente ed utile visto che, oltretutto, quella striscia di terra è piena di laghi ed è solcata da corsi d’acqua. A quel tempo negli Stati Uniti si reputava tuttavia più opportuno costruire un canale interoceanico in Nicaragua (da cui erano stati infatti scacciati gli inglesi), più lungo ma in condizioni ambientali meno avverse, ma intanto nel 1878 il famoso Ferdinand de Lesseps, padre del canale di Suez, ottenne la concessione dalla Colombia per lo scavo di un canale nell’attuale Panamà e nel 1881 incominciò le operazioni per conto di una Compagnia Universale sostenuta da capitali privati francesi. Dopo anni di lavoro durissimo (clima micidiale, ignoranza della zona, errori di progettazione e gravi irregolarità finanziarie) ed almeno 20mila morti (!) il progetto dovette però venir abbandonato e nel 1889 la Compagnia fu messa in liquidazione: un’altra compagnia francese rilevò la concessione ed i suoi macchinari arrugginiti semplicemente per rivenderla al miglior offerente e fu allora che gli Stati Uniti, abbandonato il progetto in Nicaragua, decisero di farsi avanti e di rilevare l’impresa per 40 milioni di dollari. Era infatti sempre più chiaro – soprattutto dopo che la guerra contro la Spagna era stata condotta contemporaneamente sull’Atlantico e sul Pacifico - che una potenza che si estendeva sui due oceani aveva assoluto bisogno che questi fossero in stretta comunicazione fra loro. Questa volta però la Colombia, la nazione che possedeva i territori in cui si sarebbe dovuto scavare il canale, rifiutò di concedere la gestione dell’istmo al consorzio statunitense: Roosevelt inviò prontamente la nave da guerra ‘Nashville’ che conquistò facilmente il territorio desiderato mentre il 3 novembre 1903 una rivolta apertamente pilotata e sostenuta dagli USA proclamò la nascita della Repubblica di Panamá indipendente (dalla Colombia) che gli Stati Uniti riconobbero immediatamente e per la cui difesa subito inviarono truppe. Nel dicembre del 1903 i rappresentanti della neonata repubblica firmarono il trattato Hay-Bunau Varilla con gli Stati Uniti che ottennero così ‘come se vi fossero sovrani’ la striscia di terra larga 16 km. da costa a costa che tagliava l’istmo ed in cui sarebbe dovuto essere scavato il canale: in cambio gli Stati Uniti si impegnavano a ‘mantenere l’indipendenza della Repubblica di Panamá’, a pagare 10 milioni di dollari in oro ed una rendita annua di 250mila dollari (aumentata a 43omila nel 1933 ed a 1.930mila nel 1955). Nacque così la statunitense Zona del Canale di Panamá mentre intorno ad essa lo stato di Panamà era nient’altro che un protettorato degli USA: come si vede, gli Stati Uniti avevano ottenuto tutto quel che avevano voluto (il canale) delegando ad elementi locali, del tutto compiacenti e/o comprati (quando non costretti), ogni altra attività. Insomma, un caso da manuale dell’imperialismo americano. 20 III Sotto la direzione del Genio militare gli USA iniziarono subito lo scavo del canale secondo un progetto a chiuse assai più semplice e fattibile di quello immaginato da de Lesseps - che voleva spianare le montagne o attraversarle con tunnel acquatici! – per il quale furono comunque spesi 480milioni di dollari ed impegnati 70mila lavoratori (10mila dei quali morirono). Grande successo ebbe la lotta alle micidiali malattie tropicali della zona, insalubre e flagellata da malaria e febbre gialla fino a quando il colonnello William Gorgas, responsabile delle strutture igienico-sanitarie durante il periodo dei lavori, fece bonificare tutto il territorio e costruire un nuovo sistema di acquedotti e di reti fognarie. Dopo undici anni di lavori la grande opera rivoluzionaria fu ultimata ed il 15 agosto 1914 il primo mercantile transitò da un oceano all’altro. Per gli Stati Uniti anche questo fu un passo molto importante per divenire una grande potenza mondiale. IV In un primo momento l’apertura del canale privò la vecchia linea ferroviaria (fondamentale comunque per la realizzazione del canale stesso) della sua funzione principale e la relegò ad un modesto traffico locale, ma al giorno d’oggi l’enorme sviluppo dei commerci mondiali ha portato il canale di Panamá alla saturazione, e così la linea, ammodernata nel 2000, ha riacquistato tanta importanza che nel 2009 si è cominciato a prevederne il raddoppio. Per parte sua, la vecchia ferrovia, privatizzata nel 1998, è oggi a disposizione dei turisti che in 90 minuti possono effettuare la gita da un oceano all’altro. E non basta ancora: il presidente della Colombia Juan Manuel Santos ha rivelato al Financial Times che nel 2011 la Cina avrebbe deciso di istituire nel paese un proprio terminal industriale e commerciale: nei pressi di Cartagena dovrebbe infatti sorgere, finanziato e realizzato dai cinesi, un nuovo distretto industriale col compito di assemblare le merci ‘made in China’ destinate ai mercati americani. Una linea ferroviaria lunga 220 chilometri - un ‘canale secco’ alternativo e parallelo a quello acqueo di Panama – dovrebbe così smistare i prodotti cinesi e le materie prime colombiane in arrivo ed in partenza nei porti colombiani affacciati sui due oceani dove attraccherebbero e salperebbero le navi da e per la Cina. Come sempre, quando si muove la Cina ha pensato a tutto ed ha le risorse necessarie: per la ‘conquista’ della Colombia, è così disposta ad offrire 7,6 miliardi di dollari (messi a disposizione dall’apposita China Development Bank) e ad affidare alla China Railway Group (le ferrovie di stato cinesi) la realizzazione della linea. E’ facile comprendere che la strategia di Pechino volta alla penetrazione negli altri continenti farebbe in questo modo un ulteriore passo estremamente importante, ma anche pericoloso perché l’arrivo e la presenza dei cinesi in America per gli USA 21 sarebbe un colpo durissimo, probabilmente inaccettabile e tale da farli ricorrere ai mezzi estremi (ancora una volta in nome della dottrina Monroe?). Anche questo problema va dunque messo in conto nel complesso rapporto fra le due potenze economiche del pianeta alla cui trattazione è dedicato l’ultimo capitolo della parte terza di questo saggio. V Tornando al canale, il trattato Hay-Bunau Varilla sarebbe poi stato spesso oggetto di contenzioso diplomatico e di tensione tra i due paesi, soprattutto in seguito alla costruzione di basi militari ed alla presenza di un largo numero di militari e civili statunitensi durante la seconda guerra mondiale, quando l’importanza e la difesa del canale crebbero notevolmente. Anche se la presenza americana comportò per la città di Panamà un livello mai raggiunto di prosperità, i suoi cittadini si risentivano per avere un accesso limitato (o molto spesso per non averlo affatto) a molte aree della zona del canale (alcune delle quali addirittura basi militari nelle quali dunque poteva entrare solo personale statunitense). Le tensioni tra panamensi e americani aumentarono ulteriormente nel corso degli anni Sessanta ed il conflitto per l’identità e l’orgoglio nazionale feriti si concentrò sull’esposizione della bandiera panamense sugli edifici pubblici che si trovavano nella zona del canale controllata dagli statunitensi: dopo una serie di scontri a Panamá nel 1960 il presidente Eisenhower si sarebbe pronunciato perché le due bandiere sventolassero insieme, mentre altri sostengono che tale decisione sarebbe stata presa invece da Kennedy, ma tale proposta non era comunque attuata al momento dell’assassinio di Kennedy stesso (22 novembre 1963). La tensione - che riguardava ormai la sovranità nella zona del canale - raggiunse il punto critico il 9 gennaio 1964 (in seguito proclamato ricorrenza nazionale come di Giorno dei Martiri) quando militari statunitensi strapparono una bandiera panamense scatenando le proteste studentesche: l’esercito americano intervenne dopo che la polizia era stata sopraffatta e 21 o 22 panamensi (e 4 soldati statunitensi) rimasero uccisi in tre giorni di combattimento. Questo episodio rivelò che si doveva cambiare strada e fu uno dei motivi che spinsero gli Stati Uniti a rivedere la propria posizione sulla questione panamense ed a dare avvio ad un processo di rinegoziazione delle proprie prerogative sul canale: tale percorso venne concluso e formalizzato il 7 settembre 1977 in due nuovi trattati che, firmati dall’allora presidente statunitense Jimmy Carter e da quello panamense Omar Torrijos, stabilirono che alla fine del 1999 il canale, la sua gestione e le zone ad esso limitrofe, sarebbero passati sotto sovranità panamense. Per quella data anche l’ultimo marine se ne sarebbe dovuto andare, ma gli USA si riservarono ugualmente il diritto di intervenire militarmente nell’interesse della (loro) sicurezza nazionale e le loro navi da guerra quello di transitare lungo il canale in caso di necessità. 22 Gli Stati Uniti hanno mantenuto fede ai patti ed il 31 dicembre 1999 hanno restituito ufficialmente tutto il territorio del canale allo stato di Panamá: per il canale è stato disposto un regime di neutralità per renderlo aperto alle navi di tutti i paesi, mentre la gestione dei due porti (Panamà e Colòn) è stata assegnata ai cinesi della società Hutchinson-Whampoa Limited di Hong Kong (!). Nell’ottobre 2006 un referendum popolare ha infine approvato l’ampliamento del canale mediante la costruzione di un terzo gruppo di chiuse che dovrebbe concludersi nel 2014: in questo modo non solo aumenterebbe il numero delle navi che potrebbero navigarlo, ma anche la loro stazza con un’utile decongestione dei porti statunitensi sul Pacifico. Desta soddisfazione che il progetto che si è aggiudicato l’ampliamento è stato quello presentato dal Consorzio Grupo Unido por el Canal di cui l’italiana Impregilo è azionista al 48%. Lo strano intervento del 1917 … Mentre a Panamà il primo mercantile attraversava il nuovissimo canale, in Europa la situazione era precipitata vertiginosamente e ormai si era scatenata quella che molto impropriamente sarebbe stata chiamata la prima guerra mondiale o, con espressione più appropriata, grande guerra. In questa sede non avrebbe senso ripercorrere per intero gli eventi del conflitto (che comunque sono largamente noti e diffusi) e basterà dunque mettere in luce il ruolo che vi ebbero gli Stati Uniti. Lo scoppio di ostilità così estese colse anche gli USA (come tutti!) di sorpresa e comunque il presidente Woodrow Wilson (eletto nel 1912 dopo che era dai tempi di Cleveland che i democratici non arrivavano alla Casa Bianca) già il 4 agosto 1914 aveva proclamato la neutralità del paese. Purtroppo ciò era più facile a dirsi che a farsi perché si ripresentò la situazione del tempo delle guerre napoleoniche, quando il conflitto si era esteso anche nell’Atlantico ed aveva così coinvolto inevitabilmente anche gli Stati Uniti (che però adesso, cent’anni dopo, erano ormai una grande potenza - ne fossero pienamente consapevoli oppure no). In ogni caso il secolo di pace in Europa assicurato dal Congresso di Vienna aveva generato negli americani un consolidato senso di sicurezza per quel che riguardava quel continente; essi così avevano potuto indirizzare baldanzosi le loro mire ed i loro interessi in Asia ed in America Latina ed infine avevano fatto da sempre propria la direttiva che risaliva ai tempi di Washington e Jefferson, ‘nessuna alleanza che impigli’. Come al tempo della guerra di Cuba anche in questo caso la stampa americana si scatenò nel raccontare le atrocità compiute dalle truppe tedesche nel Belgio invaso (il cui triste destino fece profonda impressione anche se gran parte delle notizie riportate erano false ed inventate) e come al tempo delle guerre napoleoniche la marina 23 britannica impose poi ancora una volta il blocco commerciale nelle acque europee (ma compensò il danno evidente per gli Stati Uniti divenendone, insieme ai suoi alleati, un grosso importatore di merci e di risorse, ben presto anche finanziarie). I forti rapporti economici con una parte sola resero la neutralità statunitense piuttosto una facciata perchè furono proprio questa scelta di Wilson e questa precisa presa di posizione - inevitabili dati i legami, gli interessi e le affinità (Russia esclusa) che legavano gli USA a Francia ed Inghilterra - che salvarono i paesi della Triplice Intesa dalla sconfitta. Come si è già detto, per parte sua l’Inghilterra voleva soffocare ed affamare gli Imperi Centrali (soprattutto la Germania) mediante il blocco navale che i tedeschi dovevano così assolutamente spezzare se volevano sopravvivere: essi erano gli unici allora a possedere i sommergibili e questi fecero un lavoro superbo contro il naviglio (militare e non) inglese, ma il 7 maggio 1915 affondarono anche la nave passeggeri ‘Lusitania’ (carica di munizioni) causando la morte di 1.198 persone, 128 delle quali statunitensi. Come ai tempi della guerra ispano-americana, gli USA non erano preparati per una guerra (e di queste dimensioni poi), ma Wilson protestò e minacciò ugualmente con tale veemenza che Bryan, il suo convintissimo neutralista segretario di stato, diede le dimissioni: posta così di fronte alla possibilità di un intervento degli Stati Uniti nel conflitto, la Germania dovette accettare di sospendere la guerra sottomarina a partire dalla primavera del 1916 (anche perché i suoi sommergibili non era ancora in numero sufficiente per spezzare veramente il blocco). Ma Wilson fece anche qualcosa di ancora molto più importante e decisivo: come alla fine dell’Ottocento e poi nell’imminenza dell’intervento contro la Spagna, ottenne dal Congresso l’approvazione alla costruzione di una flotta enorme e tale da diventare la prima del mondo. Molteplici ragioni spingevano Wilson su questa strada: innanzitutto, nell’immediato, spegnere sul nascere ogni eventuale tentativo tedesco di ulteriore sforzo sul mare (e quindi non essere costretto ad intervenire in un prossimo futuro), ma, oltre a ciò (e sicuramente molto più importante e di lungo periodo) far cessare il dominio dei mari da parte dell’Inghilterra, ritenuto ormai non più tollerabile. Grazie a questa loro schiacciante superiorità sul mare gli inglesi potevano infatti vietare a qualsiasi paese (che pur proclamasse la sua neutralità) non solo di commerciare con gli Imperi Centrali, ma anche con quei paesi (come Olanda e Danimarca) che si sospettava avrebbero poi potuto farlo via terra: come al tempo delle guerre napoleoniche, gli inglesi si sentivano addirittura in diritto di fermare, perquisire ed eventualmente confiscare i carichi delle navi mercantili di quegli stessi Stati Uniti dai quali tanto dipendevano per rifornimenti e finanziamenti (!!!). Le proteste di Wilson questa volta erano inutili mentre l’opinione pubblica statunitense rimaneva neutralista ed egli stesso, che nel 1916 era stato rieletto (seppure di misura) con lo slogan ‘Lui ci ha tenuto fuori dalla guerra’, nel gennaio 1917 riconfermò che per gli USA ‘non ci sarà guerra’. Questa era la paradossale situazione quando gli eventi cominciarono a precipitare. 24 Mentre il fronte orientale stava ormai collassando, la marina tedesca aveva finito di costruire una flotta di sommergibili adeguata allo scopo e l’Alto Comando tedesco, date le condizioni sempre più disperate della Germania, decise di riprendere in grande stile la guerra sottomarina: esso aveva infatti calcolato che gli Stati Uniti (ammesso che l’avessero voluto) non avrebbero fatto in tempo ad intervenire in guerra perché la Russia era prossima al crollo e molto presto sarebbe stata costretta a chiedere la pace e lo stesso avrebbe dovuto fare anche la stessa Inghilterra che la guerra sottomarina avrebbe in poco tempo ridotto alla fame. Il 31 gennaio 1917 una nota tedesca avvertì così gli USA della ripresa indiscriminata della guerra sottomarina e tre giorni dopo Wilson ruppe i rapporti diplomatici con la Germania: dopo che la rivoluzione del febbraio-marzo 1917 in Russia aveva reso la Triplice Intesa politicamente più accettabile per gli Stati Uniti, nell’Atlantico navi americane cominciarono presto ad essere affondate dai sommergibili tedeschi e, ottenuto il voto quasi unanime del Congresso (2 aprile), il 6 aprile 1917 Wilson dichiarò così guerra alla Germania. Gli Stati Uniti entravano in guerra per difendere i loro propri interessi (e la loro esposizione verso i paesi della Triplice Intesa) che gli Imperi Centrali padroni in Europa avrebbero seriamente minacciato, ma Wilson motivò l’intervento con le sue profonde convinzioni ideologiche e morali: gli Stati Uniti avrebbero combattuto in nome della libertà, della liberazione dei popoli (anche di quello tedesco!) e della democrazia - come sarebbe poi risultato nei famosissimi ‘Quattordici punti’ che Wilson enunciò esplicitamente l’8 gennaio 1918 auspicando 1) Pubblici trattati di pace, stabiliti pubblicamente e dopo i quali non vi siano più intese internazionali particolari di alcun genere, ma solo una diplomazia che proceda sempre francamente e in piena pubblicità. 2) Assoluta libertà di navigazione per mare, fuori delle acque territoriali, così in pace come in guerra, eccetto i casi nei quali i mari saranno chiusi in tutto o in parte da un’azione internazionale, diretta ad imporre il rispetto delle convenzioni internazionali. 3) Soppressione, per quanto è possibile, di tutte le barriere economiche ed eguaglianza di trattamento in materia commerciale per tutte le nazioni che consentano alla pace, e si associno per mantenerla. 4) Scambio di efficaci garanzie che gli armamenti dei singoli stati saranno ridotti al minimo compatibile con la sicurezza interna. 5) Regolamento liberamente dibattuto con spirito largo e assolutamente imparziale di tutte le rivendicazioni coloniali, fondato sulla stretta osservanza del principio che nel risolvere il problema della sovranità gli interessi delle popolazioni in causa abbiano lo stesso peso delle ragionevoli richieste dei governi, i cui titoli debbono essere stabiliti. 6) Evacuazione di tutti i territori russi e regolamento di tutte le questioni che riguardano la Russia senza ostacoli e senza imbarazzo per la determinazione indipendente del suo sviluppo politico e sociale e assicurarle amicizia, 25 qualsiasi forma di governo essa abbia scelto. Il trattamento accordato alla Russia dalle nazioni sorelle nel corso dei prossimi mesi sarà anche la pietra di paragone della buona volontà, della comprensione dei bisogni della Russia, astrazion fatta dai propri interessi, la prova della loro simpatia intelligente e generosa. 7) Il Belgio – e tutto il mondo sarà di una sola opinione su questo punto – dovrà essere evacuato e restaurato, senza alcun tentativo per limitarne l’indipendenza di cui gode al pari delle altre nazioni libere. 8) Il territorio della Francia dovrà essere completamente liberato e le parti invase restaurate. Il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871, a proposito dell’Alsazia–Lorena, torto che ha compromesso la pace del mondo per quasi 50 anni, deve essere riparato affinché la pace possa essere assicurata di nuovo nell'interesse di tutti. 9) Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere fatta secondo le linee di demarcazione chiaramente riconoscibili tra le nazionalità. 10) Ai popoli dell’Austria–Ungheria, alla quale noi desideriamo di assicurare un posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro sviluppo autonomo. 11) La Romania, la Serbia ed il Montenegro dovranno essere evacuati, i territori occupati dovranno essere restaurati; alla Serbia sarà accordato un libero e sicuro accesso al mare, e le relazioni specifiche di alcuni stati balcanici dovranno essere stabilite da un amichevole scambio di vedute, tenendo conto delle somiglianze e delle differenze di nazionalità che la storia ha creato, e dovranno essere fissate garanzie internazionali dell'indipendenza politica ed economica e dell'integrità territoriale di alcuni stati balcanici. 12) Alle regioni turche dell’attuale impero ottomano dovrà essere assicurata una sovranità non contestata, ma alle altre nazionalità, che ora sono sotto il giogo turco, si dovranno garantire un’assoluta sicurezza d’esistenza e la piena possibilità di uno sviluppo autonomo e senza ostacoli. I Dardanelli dovranno rimanere aperti al libero passaggio delle navi mercantili di tutte le nazioni sotto la protezione di garanzie internazionali. 13) Dovrà essere creato uno stato indipendente polacco, che si estenderà sui territori abitati da popolazioni indiscutibilmente polacche; gli dovrà essere assicurato un libero e indipendente accesso al mare, e la sua indipendenza politica ed economica, la sua integrità dovranno essere garantite da convenzioni internazionali. 14) Dovrà essere creata un'associazione delle nazioni, in virtù di convenzioni formali, allo scopo di promuovere a tutti gli stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale. L’opinione pubblica fino a pochissimo prima neutralista e pacifista (come lo stesso Wilson!) ora accolse invece con giubilo la dichiarazione di guerra ed il paese si trovò unito dietro il suo presidente (!). 26 Le sterminate risorse degli USA vennero immediatamente impiegate per tutte le necessità che una guerra di quelle dimensioni al di là dell’Atlantico comportava ed era ovvio che oltre alla pur rilevante importanza delle truppe statunitensi sui fronti europei l’entrata in guerra degli USA significava soprattutto che l’Intesa aveva ora a disposizione risorse materiali ed umane praticamente inesauribili: gli Stati Uniti avevano allora un esercito di meno di 200mila uomini, ma addestrarono subito mezzo milione di soldati che nell’ottobre 1918 sarebbero saliti a 1.750mila sui campi di battaglia in Europa (cioè in Francia) su 3 milioni complessivi, ma l’operazione richiese tempo. Inghilterra, Francia e Italia intanto resistettero e mentre le flotte inglese ed americana ripulivano l’Atlantico dai sommergibili tedeschi, ogni settimana nuove truppe fresche statunitensi sbarcavano in Francia; per parte sua, anche se la Russia bolscevica perse effettivamente la guerra, la pace che le venne imposta a Brest-Litovsk (3 marzo 1918) fu così dura che per assicurarla un esercito tedesco vi dovette essere ugualmente mantenuto e l’ultima disperata offensiva degli Imperi Centrali della primavera 1918 potè così essere respinta dagli alleati la cui controffensiva fu poi lanciata con successo fino al crollo delle difese del nemico ed alla conseguente stipula dell’armistizio del 3 novembre 1918 con Austria-Ungheria e dell’11 novembre con la Germania. … e la strana pace del 1919 La Germania si arrese a Wilson sperando nel suo equilibrio e nella sua volontà di pace basata sui Quattordici punti e, dato il peso ed il ruolo decisivi degli USA nel conflitto, il presidente aveva potuto imporre a tutti, amici e nemici, la sua volontà: anche se gli Stati Uniti in questa guerra ebbero ‘solo’ 171mila fra morti e dispersi e 234mila feriti, cifre tutto sommato ‘limitate’ se paragonate a quelle degli altri paesi belligeranti, il loro ruolo era stato fondamentale e senza il loro intervento la vittoria sarebbe arrisa invece agli Imperi Centrali. L’intervento degli USA aveva significato infatti la possibilità di impiego praticamente illimitato di uomini e mezzi e quindi per l’Intesa di disporre di una forza schiacciante rispetto alle risorse del nemico (per esempio, alla fine del conflitto l’Inghilterra aveva contratto debiti con gli USA per 4.277 milioni di dollari, la Francia per 3.404 e l’Italia per 1.648, debiti di cui solo in minima parte (l’Italia si vide abbuonato l’80% di essi!) sarebbe poi stato preteso il pagamento!). Per quel che riguardava la sua visione della politica mondiale, Wilson era ora chiamato a passare dalle parole ai fatti, ma la conclusione della guerra ipso facto aveva ridimensionato l’importanza degli Stati Uniti e subito si affacciarono numerosi i problemi, tutti in fondo riconducibili al fatto che gli USA erano entrati in guerra (come ‘associati’ e non ‘alleati’) per motivi che non erano quelli per cui i paesi dell’Intesa combattevano già da tre anni. 27 Caso unico, per partecipare direttamente ai negoziati che si aprirono il 18 gennaio 1919 a Parigi Wilson restò in Europa per oltre sei mesi (salvo un’interruzione di un mese che comportò però la sospensione dei lavori) e, colla sua insistenza sull’autodeterminazione dei popoli, fu il principale artefice della nascita (o rinascita) di tanti paesi dalle rovine degli imperi sconfitti e, per lo stesso principio, del sostanziale mantenimento dell’integrità territoriale della Germania stessa, ma dovette anche accettare le spartizioni coloniali operate da Inghilterra, Francia e Giappone (che violavano apertamente il quinto punto), il rifiuto dell’Inghilterra, che ragionava ancora in termini di imperi coloniali ‘chiusi’, della libertà dei mari (in violazione del secondo punto), la partecipazione, seppure limitata, al fallimentare tentativo armato di soffocare il bolscevismo in Russia (in violazione del sesto punto), l’imposizione di clausole punitive e vendicative alla Germania ed altre incomprensioni ‘minori’ (una dei quali, a proposito del nono punto, causò l’aperta insoddisfazione dell’Italia). Il fallimento della visione (senz’altro idealistica) di Wilson si riassume tutto nel fatto che quella di Parigi fu una vera e propria ‘pace dei vincitori’ ai cui negoziati i rappresentanti dei paesi sconfitti non furono nemmeno ammessi (!). Intanto l’incredibile e misteriosa febbre ‘spagnola’, frutto avvelenato della guerra che uccise molte più persone della guerra stessa (!!!) e che si diffuse in tutto il mondo, aveva infierito anche negli Stati Uniti causando la morte di almeno 661mila persone, 549mila solo dal settembre 1918 al giugno 1919 (!!!). Quando nel giugno 1919 Wilson tornò negli USA per la ratifica del trattato si accorse così di aver perso il contatto colla situazione e cogli umori in patria, verificò quante insoddisfazione ed incomprensione l’intervento in guerra aveva prodotto, quanto condannati erano stati i compromessi al tavolo di pace e, come se tutto ciò non bastasse, venne colpito da un ictus che lo incapacitò seriamente all’azione: la conclusione di tutto ciò fu che nel marzo 1920 il senato respinse il trattato di pace, la crisi economica post-bellica colpì inevitabilmente il paese, la diffusa paura del contagio comunista portò a migliaia di arresti ed a persecuzioni, il Ku Klux Klan rinacque con le sue orrende pratiche del linciaggio e dell’ardere vive le persone. Infine, anche se il 28 aprile 1919 Wilson era riuscito a far nascere la Società delle Nazioni (quattordicesimo punto) che secondo i suoi auspici avrebbe dovuto comporre pacificamente le tensioni e risolvere i problemi fra stati al tavolo delle trattative, il senato statunitense non accettò che gli USA vi partecipassero né lo fecero Germania e URSS, così che la Società divenne un semplice (ed inefficace) strumento nelle mani di Francia ed Inghilterra. Dato il fallimento della politica di un presidente democratico, per di più incapacitato, fu così del tutto scontato che nel 1920 i repubblicani tornarono trionfalmente alla presidenza con Harding (e non certo per speciali meriti di quest’ultimo) i cui slogan, ‘America first’ e ‘Back to normalcy’, erano la chiara sconfessione di quel che aveva sperato Wilson, il presidente che Keynes ebbe a definire un ‘Don Chisciotte cieco e sordo’. Gli americani non capivano perché avevano partecipato ad una guerra tanto terribile e lontana e di cui si erano comunque pentiti: con Harding fu inevitabile il netto ritorno 28 ad una politica isolazionistica, ma la guerra aveva avuto comunque anche qualche effetto positivo e duraturo, come la migrazione interna di tanti negri dal Sud al Nord (non senza però tensioni razziali) e l’emancipazione delle donne che, dopo aver partecipato attivamente anch’esse allo sforzo bellico, in base al Diciannovesimo emendamento (26 agosto 1920) si videro riconoscere il diritto di voto. Una lunga battuta d’arresto Già prima della fine della guerra gli Stati Uniti erano ormai diventati il centro dell’economia mondiale o, se si preferisce (ma è la stessa cosa), lo stato-guida dell’economia capitalistica, tuttavia dal punto di vista militare e geostrategico sembrarono non essersene accorti visto che, abbandonati in fretta i progetti wilsoniani, essi si erano trincerati dietro le loro alte o altissime barriere doganali (i cui proventi permettevano un abbassamento delle tasse) e si erano ritirati da una politica internazionale attiva ed interventista: potenza soddisfatta ed in pace con se stessa, gli USA conobbero così un lungo decennio di prosperità e di spensieratezza, di sviluppo economico e di fiducia nel futuro. (In ogni caso le alte tariffe degli Stati Uniti, misura squisitamente isolazionista, bloccavano le esportazioni giapponesi, uno dei motivi che avrebbero spinto quel paese ad adottare misure sempre più autoritarie all’interno ed imperialistiche all’esterno). Archiviati i drammatici ricordi della guerra, gli Stati Uniti adottarono insomma quella politica cosiddetta ‘isolazionismo’ mostrando di essere soddisfatti di se stessi e di non aver più bisogno di nulla: Scott Fitzgerald fu il miglior cantore di questa America leggera e sorridente che il presidente Harding e (alla morte di questo il 2 agosto 1923) il presidente Coolidge poterono guidare facilmente e con mano delicata mentre si arricchiva ed aumentava il tenore di vita dei suoi cittadini. Un aspetto caratteristico di questa politica isolazionistica fu il forte rallentamento dell’immigrazione negli USA che venne contrastata con varie misure di legge, anche in considerazione della disoccupazione postbellica e del ridotto bisogno di manodopera straniera. Forse il miglior esempio di questa politica fu però la Conferenza Navale di Washington (12 novembre 1921 – 6 febbraio 1922) che, completamento della Conferenza di pace di Parigi, regolò gli equilibri navali sul Pacifico tra le potenze mondiali: a Washington venne infatti stabilito che 1) le costruzioni di nuove navi da guerra venivano sospese per dieci anni (e cessava così la corsa agli armamenti); 2) in base al Trattato delle Quattro Potenze (o Patto Militare per il Pacifico) Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Giappone si impegnavano a mantenere lo status quo nel Pacifico grazie al reciproco rispetto dei loro possedimenti e domini insulari in quei mari, al divieto di costruirvi nuove basi, o di potenziarvi quelle esistenti, ed alla consultazione in caso di controversie; 29 3) il Trattato per il Disarmo Navale fissava poi secondo questi coefficienti le proporzioni tra le cinque marine più grandi del mondo: Stati Uniti = 5, Gran Bretagna = 5, Giappone = 3, Francia e Italia = 1,75 ognuna; 4) in base al Trattato delle ‘Nove Potenze’ tutte queste nazioni si impegnavano infine a non chiedere ulteriori concessioni alla Cina, a mantenerne l’integrità territoriale ed a praticare in quel paese la politica della ‘porta aperta’. La Conferenza Navale di Washington risolveva il problema della rivalità anglonippo-americana nel Pacifico ove ognuno dei contraenti aveva possedimenti vulnerabili da difendere e nessuno voleva un’altra guerra. Sotto la capace direzione del segretario di stato americano Hughes tutti questi obiettivi vennero raggiunti, ma ciò che colpisce è che a quel tempo la potenza economica degli Stati Uniti era considerevolmente maggiore di quella dei suoi potenziali rivali: il suo prodotto interno lordo era infatti circa il triplo di quello dell’Inghilterra ed il sestuplo di quello del Giappone. Se gli Stati Uniti avevano dunque la possibilità di aumentare le loro costruzioni navali molto più delle altre potenze marittime rivali, non ne avevano però la volontà politica: la Conferenza Navale di Washington soddisfaceva insomma i sentimenti isolazionistici dominanti nel governo statunitense a costo di garantire al Giappone ed all’Inghilterra un equilibrio nel Pacifico più favorevole di quello che gli Stati Uniti avrebbero potuto permettere loro. Tuttavia a ben guardare non di equilibrio si trattava, bensì di squilibrio, data la riluttanza americana ad esercitare il ruolo che la loro potenza stessa richiedeva, ma gli Stati Uniti riuscivano ugualmente a difendere i propri interessi ed a proseguire nel loro tumultuoso sviluppo così che non potevano che esprimere la loro soddisfazione per lo stato di cose esistente. Ovviamente una politica completamente isolazionistica non era possibile (e lo si vide soprattutto a proposito nelle misure prese negli anni Venti in aiuto della Germania) né la prosperità degli anni Venti potè essere garantita a tutti (l’agricoltura ne fu largamente esclusa), ma analisi di questi aspetti esulano dai fini di questo saggio (che verte sulle guerre degli USA), come anche non fanno parte della presente trattazione gli errori gravissimi di politica economica che vennero compiuti in questo (troppo) spensierato decennio, la conseguente famosissima crisi detta ‘del ‘29’ e l’ugualmente notissimo ‘New Deal’ del grande presidente F.D. Roosevelt. Il dispiegamento della potenza americana Il ‘New Deal’ del presidente F.D. Roosevelt - fra le altre tantissime cose - fu la dimostrazione dell’impressionante potenza economica (e non) di cui il gigante americano poteva ormai disporre ma, per quanti successi il nuovo corso economico potesse annoverare, il paese uscì decisamente dalla crisi solo con la partecipazione alla (cosiddetta) seconda guerra mondiale. 30 Anche a proposito di questa guerra una trattazione che pretendesse una qualche completezza qui non avrebbe senso né sarebbe nemmeno possibile: troppi e fin troppo noti e numerosi sono infatti i suoi eventi, i suoi aspetti e le sue dinamiche, così in questa sede si metteranno (e molto brevemente) in luce solo quelli principali che riguardarono gli USA. I E’ innanzitutto difficile, se non impossibile, stabilire quando la guerra stessa cominciò perché l’invasione giapponese della Manciuria (18 settembre 1931) e delle cinque province cinesi di Huabeiguo (1935), la guerra italiana d’Etiopia (3 ottobre 1935 – 9 maggio 1936), l’invasione giapponese della Cina (7 luglio 1937), l’annessione tedesca dell’Austria (12 marzo 1938), l’invasione tedesca della Boemia (15 marzo 1939), l’invasione italiana dell’Albania (7 aprile 1939) e la partecipazione italo-tedesca alla guerra di Spagna (luglio1936 – aprile 1939), furono tutti momenti del dispiegamento - incontrastato - della politica di aggressione e dominio portata avanti da Giappone, Germania e Italia (uniti prima nel patto nippo-tedesco Antikomintern del 25 novembre 1936 - cui l’Italia aderì l’anno seguente - e poi nel Patto Tripartito del 27 settembre 1940) per fermare la quale la guerra venne appunto combattuta. Convenzionalmente però si stabilisce che la guerra vera e propria ebbe inizio il 1 settembre 1939 con l’invasione tedesca (e poi anche sovietica) della Polonia. La politica estera degli USA era tradizionalmente appannaggio del Dipartimento di Stato il cui Segretario era allora Cordell Hull che, anche in omaggio ai diffusi umori del tempo, ne seguì una rigorosamente pacifista: sotto la sua regia infatti gli Stati Uniti si ritirarono da Haiti che avevano occupato fin dal 1914, a Cuba rinunciarono all’Emendamento Platt, a Panamà allentarono la presa sul canale, trascurarono di rafforzare l’esercito ed in generale rinunciarono ad intervenire in tutto l’emisfero occidentale (così che F.D. Roosevelt godette di forti simpatie e popolarità in tutta l’America Latina) … ma per rimanere rigorosamente fuori da complicazioni internazionali Hull ed il Dipartimento di Stato limitarono fortemente anche l’immigrazione di ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste. L’opinione pubblica americana continuava ad essere pacifista (ed a ritenere che l’intervento degli USA nella prima guerra mondiale fosse stato orchestrato dai banchieri e dai produttori di armamenti) mentre per parte sua il Congresso nel 1935, nel 1936 e nel 1937 approvò le Leggi di Neutralità che vietavano agli Stati Uniti di vendere armi e fare prestiti a paesi in guerra (senza nemmeno far distinzione fra aggressori ed aggrediti!). Tuttavia, nonostante ciò ed anche se come tutti gli americani F.D. Roosevelt era allora comunque pacifista, egli nel 1936 presentò però al Congresso il budget della Marina più impegnativo e costoso di tutti i tempi di pace. E’ vero che dopo la Conferenza di Monaco (settembre-ottobre 1938), quando Francia ed Inghilterra accolsero supinamente tutte le richieste di Hitler sulla Cecoslovacchia 31 (vantandosi di aver salvato in questo modo la pace), e dopo che subito il terrore antisemita venne scatenato in tutta la Germania negli USA i primi occhi cominciarono ad aprirsi, ma molto pochi e molto lentamente, visto che la mentalità isolazionista riassunta nel motto ‘America First’ continuò a lungo ad essere quella dominante nella società e nell’opinione pubblica del paese. II Dopo che la guerra scoppiò, diciamo così, ufficialmente, dopo la spartizione della Polonia fra Germania ed URSS e dopo la conquista sovietica delle Repubbliche Baltiche, nella primavera del 1940 la Germania con spettacolari e velocissime campagne militari occupò l’Europa nord-occidentale (Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Francia) per poi scatenare la lunga e disperata battaglia aerea contro l’Inghilterra (luglio 1940 – maggio 1941) rimasta sola contro l’intera Europa ormai sotto Hitler o sua alleata: non si poteva più ignorare quel che stava accadendo e Roosevelt rispose allora con il Selective Service Act (la prima coscrizione in tempi di pace della storia americana); con l’istituzione dell’Office of Production Management per la conversione dell’industria statunitense in industria di guerra e per l’organizzazione di enormi commesse (per esempio vennero ordinati 50mila aerei all’anno!); col Lend-Lease Act (11 marzo 1941) che autorizzava il presidente a fornire aiuto militare e materiale senza limitazioni agli stati antinazisti ‘nell’interesse della difesa nazionale’ (in quel momento soprattutto a favore dell’Inghilterra stremata e quotidianamente aggredita sulla Manica) rimandando il pagamento a guerra terminata. In questo modo gli Stati Uniti risolsero anche il problema della disoccupazione e la loro economia finalmente si mise a girare a pieno regime: essi divennero l’’arsenale della democrazia’ e, date le loro inesauribili risorse e la loro immensa capacità industriale e produttiva (forse non ancora ben compresa e valutata nemmeno da loro stessi!), una vera e propria superpotenza. Tutto ciò dimostrò anche che gli USA sotto la presidenza di F.D. Roosevelt erano profondamente cambiati perché a) la figura ed il ruolo del presidente si erano notevolmente ed ulteriormente rafforzati; b) lo stato era diventato un attore fondamentale dell’economia dato che per anni aveva organizzato, indirizzato, diretto e partecipato direttamente al suo andamento; c) gli statunitensi si sentivano più partecipi della vita del loro paese e delle vicende della sua società; e d) il forte sviluppo della cultura promosso dal ‘New Deal’ aveva allargato ed approfondito gli orizzonti mentali dei suoi cittadini: in una parola gli Stati Uniti erano ora più pronti ad un’avventura collettiva come quella di una guerra mondiale. III Il 22 giugno 1941, abbandonato il tentativo di invadere l’Inghilterra (operazione ‘Leone Marino’), Hitler diede inizio all’invasione dell’URSS (operazione 32 ‘Barbarossa’), fino a quel momento nazione alleata: la guerra in Europa entrava nella sua vera dimensione perché in fondo fino a quel momento la Germania si era solo e semplicemente coperta le spalle ad ovest. La risposta inglese all’aggressione fu quella di allearsi subito con l’URSS e quella americana di cominciare ad inviare subito merci ed aiuti anche in quel paese. Mentre le truppe nazifasciste avanzavano profondamente in territorio sovietico e gli USA non erano ancora in guerra, il 14 agosto 1941 Churchill e Roosevelt a bordo della nave da battaglia ‘Prince of Wales’ ancorata nella Baia di Terranova firmarono intanto la cosiddetta ‘Carta atlantica’ che prevedeva già i principi del futuro ordine mondiale dopo la conclusione della guerra (!!!) come il divieto di espansioni territoriali, l’autodeterminazione dei popoli, la democrazia, la pace, la rinuncia all’uso della forza, un sistema di sicurezza generale, il disarmo, la libertà di commercio e di navigazione ed il diritto dei popoli di vivere ‘ liberi dal timore e dal bisogno’. Essa riprendeva evidentemente i ‘Quattordici punti’ di Wilson e gettò il seme della nascita dell’ONU (di cui nel gennaio 1942 ventisei nazioni sottoscrissero la prima Dichiarazione) ma dimostrava al di là di ogni dubbio che gli Stati Uniti, anche se non ancora in guerra, avevano decisamente confermato la scelta del campo antinazifascista (scelta che del resto avevano fatto fin dall’inizio delle ostilità). IV L’invasione nazifascista dell’URSS copriva le spalle del Giappone molto meglio del Trattato di Neutralità che i due paesi avevano firmato il 13 aprile 1941 e permetteva a quest’ultimo di potersi dedicare allo sviluppo del suo ambiziosissimo progetto di dominio dell’intera Asia sud-orientale . Il Giappone aveva infatti correttamente compreso che gli imperi coloniali europei in Asia erano arrivati ormai alla fine della loro storia: dopo la prima guerra mondiale gli stati europei non avevano infatti più la forza e le risorse per tenere sottomessi i popoli asiatici che avevano ormai assimilato quello che meritava di essere appreso dai loro dominatori bianchi e stavano cominciando ad alzare la testa. Lo scontro in Europa delle potenze coloniali con la Germania nazista le aveva infine impossibilitate ad una vera resistenza in Asia e la strada appariva aperta per la realizzazione del grande progetto del Giappone: col motto ‘l’Asia agli asiatici’ e forte del prestigio raggiunto grazie al suo prodigioso sviluppo industriale e militare ed alla netta sconfitta della Russia nel 1905, il Giappone volle dunque mettersi alla testa di questo movimento di liberazione continentale e guidare la riscossa della, diciamo così, razza gialla contro la bianca. La missione storica che il Giappone si era assunto il compito di adempiere mirava però a far di lui stesso il nuovo dominatore di (almeno) tutto il sud-est asiatico, cioè di sostituirsi ad Inghilterra, Francia e Olanda nell’organizzazione e nello sfruttamento delle enormi risorse dell’intera immensa area: oltretutto il Giappone, grande potenza industriale, mancava completamente di materie prime ed era costretto quindi a cercarle al di fuori dei propri confini. 33 La sconfitta della Cina nel 1895, quella della Russia nel 1905, l’annessione della Corea nel 1910, l’invasione della Manciuria nel 1931e poi della Cina stessa nel 1937, erano stati evidenti momenti di questa duplice politica, anti-imperialista quando si trattava degli imperi degli altri ed imperialista quando si trattava della propria espansione. Il disegno del Giappone conteneva però due gravi errori che gli sarebbero stati infine fatali: nemmeno l’Impero del Sol Levante aveva la forza e le risorse per imporre il suo dominio sull’immenso sud-est asiatico ed inoltre aveva fortemente sottovalutato il ruolo e la potenza degli Stati Uniti, ora il vero nuovo nemico assolutamente da battere. Anche se consideravano la Germania nazista il nemico principale e di gran lunga più pericoloso e non troppo entusiasti di intervenire contro il Giappone, nell’ottobre 1940 gli USA avevano però ugualmente proclamato l’embargo sulle proprie forniture di acciaio e di petrolio nei suoi confronti (esso importava greggio per il 90% dagli Stati Uniti!) e nel maggio 1941 avevano esteso la Lend-Lease Act anche alla Cina. Non solo infatti gli Stati Uniti avevano ora possedimenti in Asia e nel Pacifico (Filippine, Guam ed Hawaii), ma si erano schierati fin da subito a fianco delle democrazie europee contro la Germania (ed evidentemente anche contro i suoi alleati). Dopo che il 21 luglio 1941 le truppe giapponesi avevano occupato l’Indonesia meridionale ed il 24 avevano iniziato la penetrazione del Vietnam meridionale, gli USA già il 26 dichiararono l’embargo (rigidamente rispettato) anche su tutti i prodotti petroliferi, sui metalli, sulla gomma e sulle altre merci strategiche, il congelamento di tutti i beni giapponesi nel territorio americano ed infine il divieto di transito alle navi giapponesi attraverso il canale di Panamá: la Francia, per metà occupata dai tedeschi e per l’altra metà (la repubblica di Vichy) collaborazionista, non si mosse contro i giapponesi, ma l’Inghilterra collaborò pienamente con gli Stati Uniti ed il governo olandese in esilio a Londra si dichiarò immediatamente d’accordo con loro. Il Giappone a corto di risorse doveva quindi reagire in fretta finchè l’URSS era impegnata in una lotta mortale contro la Germania e gli USA erano ancora fuori del conflitto: mentre i colloqui nippo-americani erano dialoghi fra sordi, da parte giapponese fu così presa la decisione di distruggere la grande base aero-navale di Pearl Harbor nelle Hawaii. L’Alto Comando giapponese pensò infatti che privi di questa grande base gli Stati Uniti, confinati al di là del Pacifico, sarebbero stati tagliati fuori dagli avvenimenti in Asia e, impossibilitati ad agire, sarebbero stati poi messi di fronte al fatto compiuto delle conquiste giapponesi. Domenica 7 dicembre 1941 360 aerei decollati dai ponti delle portaerei tenute lontane dal raggio d’azione dei radar americani piombarono improvvisamente su Pearl Harbor e per due ore martellarono aerei e navi alla fonda distruggendo 230 aerei, colando a picco tre navi da guerra, affondandone o danneggiandone altre minori (per un totale di 88), compiendo altre distruzioni ed uccidendo 2304 americani al costo di soli 29 aerei abbattuti e di 3 piccoli sottomarini affondati. 34 In un colpo tutte le esitazioni erano state annullate e tutti gli ostacoli abbattuti: fu guerra fra Stati Uniti e Giappone e tre giorni dopo anche Germania ed Italia la dichiararono agli USA (!!!). Certamente gli Stati Uniti furono scioccati dall’impressionante attacco che però fu meno grave di quel che sembrò: non solo infatti molte navi colpite poterono essere rimesse in sesto, ma – soprattutto – l’attacco si verificò quando le portaerei americane erano lontane da Pearl Harbor e dunque non furono minimamente toccate dalle distruzioni – e la chiave della guerra sul mare era ormai l’aviazione. I giapponesi non persero comunque tempo e con impressionante velocità conquistarono e poi occuparono con brutale ferocia tutto il resto del sud-est asiatico minacciando l’Australia ed arrivando ai confini dell’India: anche se non fosse stata attaccata a Pearl Harbor la flotta americana nelle Hawaii in verità avrebbe potuto far ben poco per impedire tutto questo, ma in ogni caso il Giappone aveva fatalmente sottovalutato le capacità degli Stati Uniti una volta che lui stesso li aveva costretti e trascinati nel conflitto. Sotto il comando dell’ammiraglio Nimitz la flotta del Pacifico prontamente apprestata fermò e sconfisse i giapponesi prima nella battaglia del Mar dei Coralli (78 maggio 1942) poi delle Midway (3-4 giugno), battaglie in realtà combattute dagli aerei senza che le navi nemmeno si vedessero fra loro (!) e da quel momento, di isola in isola, di battaglia in battaglia, di avanzata in avanzata ‘a balzi di montone’, di sbarco in sbarco, la stretta americana si sarebbe chiusa sempre più stritolante intorno alla ‘Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale’ (il breve e violentissimo impero del Giappone) che resistette con tutte le sue forze fino allo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima (6 agosto 1945) e su Nagasaki (9 agosto) ed all’intervento sovietico (9 agosto) finchè dovette rassegnarsi alla resa incondizionata e definitiva (2 settembre). V Da parte anglo-americana si era comunque sempre considerato che la sconfitta della Germania doveva avere la precedenza su quella del Giappone: l’8 novembre 1942 gli anglo-americani sbarcarono in Marocco e Algeria (operazione ‘Torch’) e, dopo una serie di avanzate e ritirate, l’11-13 maggio 1943 costrinsero alla resa definitiva le forze italo-tedesche sconfitte e rifugiate a Tunisi: l’Africa era ora completamente in mani alleate; intanto nell’Atlantico il punto di svolta si verificò nel marzo 1943, quando portaerei, veloci vascelli di scorta, radar potenziati e nuove armi ancora, erano stati impiegati contro i sommergibili tedeschi cogliendoli di sorpresa e trasformandoli da cacciatori in prede: data la distruzione quasi per intero della flotta sottomarina tedesca, gli enormi danni che negli anni precedenti essa aveva causato al naviglio angloamericano si ridussero drasticamente, praticamente quasi a zero; 35 il 10 luglio 1943 dall’Africa gli anglo-americani sbarcarono poi in Sicilia (operazione ‘Husky’) e cominciarono la lunga risalita dell’Italia che si concluse con l’insurrezione finale del 25 aprile 1945; mentre sul fronte russo era in pieno svolgimento la controffensiva sovietica, il 6 giugno 1944 (D-Day) lo sbarco anglo-americano in Normandia (operazione ‘Oberlord’) aprì l’ultimo dei fronti che chiusero i paesi nazifascisti in una morsa che nonostante la disperata resistenza tedesca si strinse inesorabile fino al crollo definitivo dei loro regimi ed alla capitolazione della resa incondizionata della Germania l’8 maggio 1945. Ancora una volta gli Stati Uniti erano nettamente vincitori, ma questa era stata una guerra di inaudita vastità dopo la quale il mondo non poteva più essere quello di prima: nemmeno gli Stati Uniti erano più il paese di prima, o forse erano diventati quello che veramente erano (o dovevano essere). 36 Bibliografia La biblioteca di Repubblica: ‘La Storia’ – 2004. Various: ‘History Of The United States’ – State Printing office, Sacramento California. Edwin Williamson: ‘The Penguin History of Latin America’ – Penguin Books, London 2009. Hugh Brogan: ‘The Penguin History of the USA’ – Penguin Books, London 1999. James A. Michener: ‘Hawaii’ – Fawcett Crest, New York 1973. Richard H. Titherington: ‘A History of the Spanish-American War of 1898’ – D. Appleton and Company, New York 1900. Luigi Salvatorelli: ‘Storia del Novecento’ – Oscar Mondadori, Verona 1971. Herbert A. Werner: ‘Iron Coffins’ – Bantam Books, Inc., New York 1978. Alfred W. Crosby: ‘America’s Forgotten Pandemic’ – Cambridge University Press 1989. Paul Kennedy: ‘Ascesa e declino delle grandi potenze’ – Garzanti, Milano 1989. John Toland: ‘The Rising Sun’ – The Modern Library, New York 2003. Numerosi saggi, articoli e dati trovati soprattutto in Internet.