PLATONE, La Repubblica, libro VI
II PARTE (490d – 502c )
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Platone
REPUBBLICA
LIBRO VI
II PARTE:
REPUBBLICA, VI 490d - 502c
§ II. 1 (RESP., VI 490d - 492b)
CAUSE E CONSEGUENZE DELLA CORRUZIONE DELLA NATURA FILOSOFICA
(CORRUPTIO OPTIMI PESSIMA)
INTRODUZIONE-COMMENTO
In questa sezione si ricercano le cause della corruzione della natura filosofica.
Il dato di partenza, su cui esiste un pieno accordo (homologìa), è il seguente: una natura (physis)
autenticamente filosofica, dotata di tutte le caratteristiche intellettuali ed etiche elencate da Socrate,
«raramente nasce fra gli uomini e in piccolo numero» (491a-b).
Quand’anche questo felice evento si verifichi, le qualità potenzialmente presenti in tale natura non solo
corrono un serio pericolo di corrompersi, ma possono diventare addirittura i principali fattori che
determinano l’allontanamento dalla filosofia; un’identica funzione negativa viene esercitata anche da tutti i
cosiddetti beni (ricchezze, prestigio politico della famiglia di appartenenza, bellezza, prestanza fisica).
Adimanto giudica assurdo (àtopon) questo assunto, che lede i presupposti fondamentali della
concezione aristocratica, per la quale il possesso di doti innate, unito ai requisiti di status, economici e
fisici, costituisce da sempre il segno distintivo, e pertanto la prerogativa essenziale e positiva, del kalòs te
kagathòs: è questo infatti il modello cui si assimila, in quanto figura eminente, anche il filosofo.
Socrate giustifica la sua asserzione enunciando un principio di ordine generale, che trova la sua
applicazione nell’intero ambito della natura, nei vegetali come negli animali: ogni organismo vivente
richiede una serie di condizioni che ne favoriscano lo sviluppo (alimentazione, clima, luogo adatto); quanto
più è forte, e perciò destinato a una crescita vigorosa, tanto più quegli elementi gli sono necessari. Nel
caso questi risultino carenti, il processo non viene solo ostacolato: l’organismo dotato delle potenzialità
migliori va incontro a una completa degenerazione, e assume la configurazione peggiore. Nelle stesse
circostanze, per contro, ciò che è per natura mediocre tale rimane, e non subisce un’alterazione altrettanto
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II PARTE (490d – 502c )
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distruttiva: «ogni seme o pollone» che non trovi nella terra il nutrimento a lui adeguato ne subirà un danno,
tanto maggiore quanto più è alta la qualità della pianta e il livello delle sue esigenze.
L’abbinamento natura eccellente / corruzione morale è il peggiore possibile, veicolo dei danni più
profondi e più duraturi: da una grande intelligenza deviata si sprigiona una potenza distruttiva.
Se una «natura filosofica», pianta delicatissima in virtù del suo pregio, corre il più alto rischio di
corruttibilità, la malvagità dei filosofi è dunque rivelatrice di un guasto profondo che deve essersi prodotto
nel punto nevralgico del sistema, al livello del nesso tra natura e cultura.
Nell’Atene di Socrate come in quella di Platone domina la logica di sopraffazione che Platone attribuisce
soprattutto ai promotori della politica ateniese degli ultimi quarant’anni. Evocandone gli effetti diseducativi
sulle psicologie individuali, Socrate addita con precisione la complementarità di due aspetti presenti in
entrambe le situazioni: la perversione della prassi politica e l’inutilità (forzata) della filosofia che non accetti
di diventare malvagia.
Corruttori certo sono in primo luogo i politici, che dispongono tanto dell’attrattiva della cooptazione, tanto
della minaccia della persecuzione, per indurre ad accettare la logica del potere.
In secondo luogo coloro che vengono definiti «sofisti» accomunati (come lo stesso Socrate) nel sospetto
dell’opinione pubblica, professionisti dell’insegnamento, in realtà mediatori tra i politici e la folla: costoro
recepiscono e interpretano gli umori del volgo, trasformando in opinioni sostenibili e poi in precetti
educativi i suoi desideri.
È proprio l’opinione pubblica della città democratica ad essere, secondo Platone, il maggiore agente
della diseducazione conformistica; i “sofisti” veri e propri agiscono solo da “funzionari” specializzati al suo
servizio.
Il loro ruolo è quello di semplici interpreti e esecutori delle direttive emanate dalla comunità, di strumenti
di cui essa si serve per attuare la sua opera di omologazione dei cittadini. Sono dunque destituite di
fondamento, secondo Platone, le critiche che ripetutamente sono indirizzate contro i sofisti, e di cui è
interprete autorevole, tra l’altro, Aristofane, che li individua come iniziatori di una «nuova educazione»
contrapposta alla sana e pregiata vecchia educazione (archaia paideia) di matrice aristocratica.
D’altra parte, questi falsi maestri non possono vantarsi di possedere un particolare sapere, degno di
essere comunicato a caro prezzo. La loro presunta sapienza (sophia) non differisce in nulla dall’insieme
delle opinioni condivise, e ottiene successo proprio perché corrisponde perfettamente alle convinzioni più
diffuse.
La tenuta complessiva del sistema è tale da non lasciare via di scampo: solo un «soccorso» (492a) o
addirittura un «favore» divino (493a) potrebbero sottrarre un carattere semplicemente umano alla
degenerazione.
IL TESTO § II. 1. (RESP., VI 490d - 492b)
SOCR. «Di questa natura dunque, dissi, occorre osservare come si corrompa, come
[490e] nei più si guasti, mentre una piccola parte sfugge a questa sorte, ed essi sono
quelli chiamati non malvagi ma inutili; dopo di che, vedremo quelle nature che la imitano e [491a] ne usurpano il modo di vita; e perché, data la natura di queste anime, giunte
a un’occupazione di cui sono indegne e che è loro superiore, stonando in ogni modo,
hanno procurato alla filosofia, dovunque e presso ognuno, quella fama di cui tu parli.
ADIM. «A quali forme di corruzione, disse, ti riferisci?».
SOCR. «Io cercherò, dissi, per quanto ne sarò capace, di mostrartele. Questo almeno,
credo, ognuno ce lo concederà: che una tale natura, dotata di tutte le qualità che
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abbiamo appena prescritte per chi deve diventare un compiuto filosofo, raramente nasce
fra gli uomini e in piccolo numero. Non credi?».
ADIM. «Senza dubbio».[491b]
SOCR. «Considera ora quante e quanto grandi siano per questi pochi le minacce di
rovina».
ADIM. «Quali?».
SOCR. «Quel che è più sorprendente a sentirsi, è che ognuna delle qualità che abbiamo
lodate in questa natura può perdere l’anima che la possiede e distoglierla dalla filosofia:
dico il coraggio, la moderazione, e tutto quanto abbiamo elencato».
ADIM. «Assurdo (àtopon) a udirsi», disse.
SOCR. «E ancora, dissi io, oltre a ciò, la rovinano e la distolgono [491c] tutti quelli che
sono chiamati beni, la bellezza e la ricchezza e la forza del corpo e la forza politica
della famiglia e tutto quanto v’è di simile; capisci certo il tipo di cose cui mi
riferisco31».
ADIM. «Capisco, disse; e volentieri sentirei una più precisa spiegazione di ciò che dici».
SOCR. «Considera dunque, io dissi, l’insieme del problema correttamente: al tempo
stesso ti si chiarirà e non ti parrà più assurdo ciò che prima dicevo su quelle cose».
ADIM. «Come devo fare?», chiese.
SOCR. «Sappiamo, [491d] dissi io, che ogni seme o pollone, sia vegetale sia animale,
che non possa avere l’alimento e il clima e il luogo di cui abbisogna, quanto più è forte
tanto più ha bisogno delle molte cose che gli sono necessarie: il male è infatti più
opposto a ciò che è bene, che a ciò che non è bene».
ADIM. «Come no?».
SOCR. «E dunque logico, penso, che la natura migliore, in condizioni di allevamento
non appropriate, risulti peggiore di una mediocre».
ADIM. «Logico».
SOCR. «E allo stesso modo, dissi, non affermeremo, Adimanto, [491e] che anche le
anime per natura più dotate, se tocca loro una cattiva educazione (kaké paidagoghia),
divengono straordinariamente cattive? o pensi che le grandi ingiustizie, la malvagità
intemperante, vengano da una natura mediocre e non piuttosto da una vigorosa, rovinata
dall’allevamento, mentre una natura debole non potrà mai essere responsabile né di
grandi beni né di grandi mali?».
ADIM. «No, egli disse, è così».
SOCR. «Se dunque quella che abbiamo definito come natura [492a] del filosofo, penso,
riceve l’insegnamento adatto, perviene di necessità, sviluppandosi, ad ogni forma di
virtù; se invece trae alimento da un ambiente non adatto in cui è stata seminata e
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piantata, procede in modo del tutto opposto, a meno che un dio si trovi a soccorrerla.
Oppure ritieni anche tu, come i più, che vi siano alcuni giovani corrotti dai sofisti, e che
certi sofisti corruttori siano individui privati? è questo sospetto degno di menzione, o
non sono piuttosto proprio quelli che fanno simili discorsi i massimi sofisti33, [492b] in
grado di fornire la più compiuta educazione, e di conformare al proprio volere giovani e
vecchi, uomini e donne?».
ADIM. «Ma quando?» egli chiese.
OPERAZIONI SUL TESTO § II. 1. (RESP., VI 490d - 492b)
PER LA COMPRENSIONE
PROVA A RISPONDERE AI SEGUENTI QUESITI:
a) D. Perché Adimanto trova “àtopon” (“assurda”) la tesi socratica per cui “ognuna delle qualità che abbiamo lodate
in questa natura [la natura filosofica] può perdere l’anima che la possiede e distoglierla dalla filosofia: dico il
coraggio, la moderazione, e tutto quanto abbiamo elencato”?
R. __________________________________________________________________________________________
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b) D. Quale principio enuncia Socrate per giustificare la sua asserzione, e in quale ambito, nella sua spiegazione,
tale principio trova applicazione?
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d) Illustra il rapporto che nella visione platonica dell’uomo sussiste tra natura (physis) e educazione (paideia)
soprattutto in rapporto al tema dell’uguaglianza / disuguaglianza tra gli uomini
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§ II. 2 (RESP., VI 492b - 493a)
I “LUOGHI” IN CUI LA CITTÀ PRATICA LA DEGENERAZIONE DELLA NATURA FILOSOFICA
LE PUNIZIONI PER CHI RESISTE ALLA FORZA DELL’OMOLOGAZIONE
INTRODUZIONE-COMMENTO
Il passo che segue è una splendida descrizione della pressione esercitata dalla città, nei suoi luoghi di
aggregazione politici, militari, giudiziari e culturali, per l’omologazione collettiva, perseguita con la
persuasione e, se necessario, anche con la coercizione.
Il timore di questa pressione costringe chiunque abbia rapporti con la comunità cittadina, di carattere
intellettuale, artistico o politico, a una autocensura preventiva, intesa a ottenerne il consenso (493d).
E’ qui ricondotta in primo piano la cattiva educazione, di cui tutta la comunità cittadina è responsabile.
La polis, aveva affermato il poeta Simonide, «educa gli uomini», e il Pericle di Tucidide dichiara che
Atene è scuola (paideusis), di tutta la Grecia. Platone riprende e fa propria questa convinzione, ma ne
revisiona completamente il senso. La paideia vantata dal grande politico ateniese, e che consente al
cittadino di indirizzarsi verso le «più svariate forme di vita, nella piena padronanza di sé e con ogni
decoro», è in realtà una grave forma di diseducazione, che corrompe tutti, anche gli individui migliori.
Alla luce di questa responsabilità collettiva, viene meno l’accusa tradizionalmente rivolta ai sofisti, quella
di essere cattivi maestri dei giovani, e pertanto agenti corruttori: costoro, dimostra Platone, si delineano
come semplici interpreti dei valori, o meglio dei disvalori, fatti propri dalla comunità.
D’altronde non sarebbe ragionevole pensare che un individuo singolo possa condizionare, col suo
insegnamento privato, i modi di pensare e i comportamenti di «giovani e vecchi, uomini e donne» (492b):
nessuno può sfuggire all’opera di conformazione che la città svolge; qualsiasi tentativo di contrapporvi un
differente tipo di educazione, un’educazione privata (492c4) è inevitabilmente votato al fallimento.
I soli, autentici sofisti sono i cittadini stessi quando si riuniscono o nelle sedi politiche (assemblee,
tribunali), o negli accampamenti militari, o ancora nei teatri.
Un elemento accomuna tutte queste manifestazioni, al di là del loro apparente diverso tenore, e cioè il
dominio incontrastato dell’elemento emotivo, che si esprime sempre tramite il fragore [thorybos]). L’urlo di
disapprovazione traduce il biasimo comminato dalla folla, l’applauso è il segnale del consenso, della lode.
Le «pietre» di cui parla il testo possono essere quelle della collina della Pnice, dove si riuniva l’assemblea popolare, o anche quelle del teatro di Dioniso, luogo della «teatrocrazia» ateniese, un’espressione
che Platone conia (nelle Leggi) per connotare il tratto comune alle manifestazioni teatrali e musicali e alle
riunioni politiche, appunto l’egemonia delle passioni e dei desideri: la loro natura del tutto irrazionale si
manifesta proprio attraverso le grida, con cui si premiano, o si puniscono, i poeti ma anche i politici.
Sono gli stessi artisti a uniformarsi ai gusti del pubblico. Nel Gorgia Platone osserva che tutte le
espressioni poetiche - compresa la tragedia, la più solenne e mirabile - sono forme di adulazione (502b).
Viene così destituita di fondamento la concezione tradizionale che vede nel poeta un educatore: costui si
assimila in tutto al politico-cuoco, perseguendo, come suo unico scopo, il divertimento dei cittadini; ciò che
può essere utile e dotato di efficacia formativa viene perciò accuratamente evitato perché sgradito ai più.
Proprio a questa consapevolezza si correla, del resto, nella kallipolis l’esercizio di una rigida censura su
tutte le rappresentazioni poetiche. I poeti che non si adattano ai canoni previsti dal modello educativo
individuato come il più adatto alla formazione dei difensori sono espulsi dalla città (Resp. III, 398a).
Nelle città cattive viene messo in opera un potente apparato persuasivo, paragonato da Socrate a una
corrente impetuosa e inarrestabile che tutto travolge.
A contrastare le scarse possibilità di ribellione ecco intervenire la costrizione e la punizione. Si tratta
dell’atimia, la privazione dei diritti politici, oppure della confisca dei beni o dell’esilio e addirittura della
condanna a morte (pena inflitta a Socrate, che ha cercato di andare contro corrente, assumendo la
funzione di coscienza critica della città).
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La capacità di resistere alla pressione della cattiva educazione è presente dunque solo in pochissimi
individui, e non è da attribuire all’esito fortunato di un processo formativo differente da quello pubblico. Per
spiegare queste eccezioni, che sono comunque e sempre punite dalla comunità, occorre postulare un
favore divino, una sorte divina (493a))destinata a premiare sol tanto alcuni individui. Tra questi pochi è
possibile annoverare Socrate: come spiega lui stesso nell’Apologia, egli ha svolto il difficile compito di
interrogare i suoi concittadini, di scuotere le loro presunte certezze e di contestare i loro falsi valori proprio
perché sollecitato dall’intervento divino (33c).
IL TESTO § II. 2. (RESP., VI 492b – 493a)
SOCR. «Quando, dissi, siedono in massa alle assemblee o ai tribunali o ai teatri o negli
accampamenti o in qualche altra riunione comune di folla, e con gran fragore ora
disapprovano, ora elogiano i discorsi e le azioni, esagerando sia nelle urla di biasimo sia
negli applausi, mentre le pietre stesse e il luogo [492c] in cui stanno fanno loro eco
raddoppiando il fragore del biasimo e della lode. In tale situazione che cuore - secondo
il detto - pensi possa avere il giovane? Quale privata educazione potrebbe resistere in
lui senza venir travolta da un tal flutto di biasimi e di lodi, e non si lascerà trasportare
dove la porta la corrente? non dirà forse che sono belle e brutte le stesse cose che pensa
la folla, [492d] e non si darà allo stesso modo di vita, alle stesse loro occupazioni,
diventando uno dei loro?».
ADIM. «È davvero necessario, Socrate» egli disse.
SOCR. «Eppure, io dissi, non abbiamo ancora parlato della necessità più grande».
ADIM. «Quale?», disse.
SOCR. «Quella che aggiungono con i fatti, quando non riescono a convincere con le
parole, questi educatori e sofisti: o forse non sai che chi non si lascia convincere lo
puniscono con la privazione dei diritti, con le confische, con le condanne a morte?».
ADIM. «Certo, lo so bene».
SOCR. «E credi che vi sia qualche altro sofista, o qualche privata argomentazione che
possano prevalere opponendosi a tutti costoro?».
ADIM. «Penso nessuno», [492e] disse.
SOCR. «No, infatti, dissi io, e perfino il tentarlo è grande follia. Non c’è, non c’è mai
stato né mai ci sarà un carattere che si differenzi e si rivolga alla virtù, perché è stato
educato in modo contrario all’educazione di costoro, s’intende un carattere umano,
amico mio: un carattere divino, secondo il detto, lasciamolo fuori dal discorso; giacché
bisogna ben sapere che se qualcosa il salva e diventa come si deve in un siffatto
ordinamento costituzionale [493a] non ti sbaglierai dicendo che è stato un favore divino
ad averlo salvato».
ADIM. «È esattamente il mio parere», disse.
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OPERAZIONI SUL TESTO § II. 2. (RESP., VI 490d - 492b)
1) PER LA COMPRENSIONE
PROVA A RISPONDERE AI SEGUENTI QUESITI:
Rileggi il seguente brano e prova a interpretarlo e a commentarlo rispondendo alle domande:
[…] ritieni anche tu, come i più, che vi siano alcuni giovani corrotti dai sofisti, e che certi sofisti corruttori siano
individui privati? è questo sospetto degno di menzione, o non sono piuttosto proprio quelli che fanno simili discorsi i
massimi sofisti [492b] in grado di fornire la più compiuta educazione, e di conformare al proprio volere giovani e
vecchi, uomini e donne?
D. Perché Socrate nega che i sofisti corruttori siano “individui privati”?
R. __________________________________________________________________________________________
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D. In che senso sono i “massimi sofisti” coloro che sospettano che i sofisti siano “individui privati”
R. __________________________________________________________________________________________
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D: “Quando”, cioè in quali occasioni e circostanze, quindi in quali luoghi, chiede Adimanto, si pratica la universale
corruzione nella città? Prova tu, parafrasando le parole di replica di Socrate, a rispondere a questa domanda.
R. __________________________________________________________________________________________
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2) INDIVIDUAZIONE NEL TESTO DEI RAPPORTI CHE LO COLLEGANO AL CONTESTO STORICO-CULTURALE:
Rileggi i due brani che seguono, e spiega perché possono essi essere considerati documenti della vita politica e
culturale dell’Atene democratica del V secolo
«Quando, dissi, siedono in massa alle assemblee o ai tribunali o ai teatri o negli accampamenti o in qualche altra
riunione comune di folla, e con gran fragore ora disapprovano, ora elogiano i discorsi e le azioni, esagerando sia
nelle urla di biasimo sia negli applausi, mentre le pietre stesse e il luogo [492c] in cui stanno fanno loro eco
raddoppiando il fragore del biasimo e della lode».
«Quella che aggiungono con i fatti, quando non riescono a convincere con le parole, questi educatori e sofisti: o
forse non sai che chi non si lascia convincere lo puniscono con la privazione dei diritti, con le confische, con le
condanne a morte?».
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§ II. 3 (RESP., VI 493a – 494a)
IL TREMMA, IL GRANDE E VIGOROSO ANIMALE (LA CITTÀ DEMOCRATICA)
E I SUOI ALLEVATORI (POLITICI E SOFISTI): UN RAPPORTO PERVERSO
INTRODUZIONE-COMMENTO
Nel brano che segue, la città, cioè il popolo di Atene è paragonato a un grande e vigoroso animale che i
suoi allevatori (politici e sofisti) allevano (educano) assecondando tutte le opinioni tutti gli impulsi e tutti i
suoi più sregolati desideri. Con questa immagine Platone intende evidenziare il nesso centrale che nella
Atene democratica vige tra paideia e polis. Di questo nesso Platone critica gli effetti perversi
Anche nell’Apologia, Socrate descrive il popolo ateniese come un «imponente cavallo di razza, che è
però per la sua mole un po’ pigro e bisognoso di essere stuzzicato da qualche tafano» (30e); ma nel
contesto dell’Apologia c’è l’immagine di un animale suscettibile di modificare il proprio comportamento
tramite un intervento esterno: è Socrate stesso a paragonarsi al tafano noioso, pronto a pungere il demos
per svegliarlo dal suo torpore intellettuale, per rimproverarlo e per persuaderlo ad adottare un altro
modello di vita, più adeguato alla nobiltà della sua origine. Lo scopo di questo intervento è dunque del
tutto opposto a quello usato dai sofisti e dai cattivi politici.
Ancora a cavalli da educare sono equiparati i cittadini nel Gorgia (516d-e).
La critica di Socrate si rivolge qui ai politici, e anzi ad alcuni dei personaggi più illustri della storia politica
del V secolo, Cimone, Milziade, Temistocle. Essi avrebbero dovuto prendersi cura degli Ateniesi loro
affidati come fanno i buoni aurighi nei confronti dei propri cavalli, per migliorarli e renderli docili, e riuscire
così ad aggiogarli al cocchio; invece, trascurando quest’opera di corretto indirizzamento e limitandosi a
occupare le posizioni di potere, sono stati «disarcionati», e cioè privati delle loro cariche, e anche sotto
posti a processo. Proprio a seguito delle accuse loro rivolte da quel demos che non sono stati in grado di
educare, o sono andati in esilio, come Cimone e Temistocle, o hanno corso addirittura il rischio, come
Milziade, di essere condannati a morte.
L’immagine dello thremma (animale da allevamento) delineata da Socrate nella Repubblica riproduce
dunque i tratti già presenti in questi passi, ma mettendo in particolare rilievo le condizioni psicologiche e le
reazioni emotive del demos. Impulsi e desideri, sono, nella massa, le componenti dominanti, e danno
luogo a manifestazioni improntate ora alla ferocia ora alla mitezza. Questa dinamica irrazionale si esprime
tramite suoni, cioè quelle urla che producono il fragore di cui si riempiono tutti i luoghi pubblici.
I sofisti, ben conoscendo le reazioni psicologiche della folla, appaiono in grado di padroneggiarne e di
indirizzarne le inclinazioni. Quest’opera di condizionamento è resa possibile proprio dalla solidarietà che
esiste tra questi presunti maestri e i loro interlocutori: l’elemento comune è l’ignoranza relativa ai valori,
bello e brutto, buono e cattivo, giusto e ingiusto.
Torna qui a delinearsi, in tutta chiarezza, la distanza che separa i sofisti dai filosofi. I primi si
mantengono al livello dell’opinione, e anzi il buon esito del loro insegnamento dipende strettamente
dall’adesione ai «pareri del grande animale» (493c), alle sue opinioni (doxai); i secondi tendono, «con
amore instancabile» a cogliere «la natura di ogni realtà essenziale» (490b).
Ecco dunque riproporsi, nella Repubblica, la condanna nei confronti della retorica, che i sofisti
dichiarano di insegnare, già posta al centro del dibattito condotto nel Gorgia.
Nella seconda parte di questo dialogo, Socrate riconduce la retorica all’ambito dell’adulazione, il cui
scopo è unicamente quello di suscitare il piacere. Proprio in queste pagine viene delineata la figura del
retore-cuoco, che asseconda tutti i desideri della massa, di quel demos, dunque, che appare sensibile
solo alle attrattive del piacere.
La città cattiva riesce pertanto nell’impresa di conformare tutti i suoi membri al modello negativo della
cattiva educazione. Chi ha natura veramente filosofica difficilmente si sottrae a questo processo di
omologazione che, come si è visto, lo coinvolge fin dalla nascita: preservarsi dalla contaminazione della
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folla «non filosofa», al suo cattivo quanto capillare influsso, è una sorte destinata a pochi privilegiati, a veri
e propri individui eccezionali.
Chiunque entri in contatto con l’«animale» non riesce a evitare di asservirsi a esso: la moltitudine
(polloi), agisce con l’autorità del padrone a cui si è costretti a obbedire.
Un’identica sorte accomuna gli artisti, come i poeti, i pittori, i musicisti, e i politici, obbligati a ottenere
l’approvazione dei cittadini per poter continuare a svolgere un ruolo rilevante nel rispettivo campo. Si tratta
proprio di una necessità che Platone chiama «diomedea» e alludendo con questo a un episodio della
saga troiana: Diomede, tornando verso l’accampamento greco dopo aver sottratto ai Troiani il Palladio,
viene assalito da Ulisse che tenta di ucciderlo; riesce tuttavia a neutralizzarlo legandogli le armi e
spingendolo davanti a sé a colpi di spada. Ulisse imprigionato è dunque sottoposto alla stessa necessità
di tutti coloro che agiscono all’interno della città. È una schiavitù che comporta per il cittadino la piena
omologazione ai desideri e alle aspettative della folla, tributandole una forma di costante approvazione.
Ecco dunque in atto una corrispondenza tra il singolo e il gruppo: la folla domina, e l’individuo accetta di
inserirsi pienamente nella collettività, ben consapevole di trarne vantaggi, e al tempo stesso timoroso di
subire l’emarginazione.
IL TESTO § II. 3 (RESP., VI 493a – 494a)
SOCR. «E dunque, dissi io, dovrai condividere anche quest’altra cosa».
ADIM. «Quale?».
SOCR. «Tutti i privati insegnanti a pagamento, che questi chiamano sofisti e che
ritengono loro rivali nell’educazione, null’altro insegnano se non precisamente le
opinioni della folla stessa, che vengono espresse quando si riunisce in massa, ed è
questo che essi chiamano sapere. Essi si comportano esattamente come chi, addetto
all’allevamento di un grande e vigoroso animale (thrémma), ne apprendesse gli impulsi
e i desideri, [493b] il modo in cui bisogna avvicinarlo e toccarlo, i momenti e le cause
di ferocia e di mitezza, i suoni (phonàs) che è solito emettere nelle varie circostanze, e
ancora quali suoni da altri pronunciati lo calmino e lo irritino; e una volta appreso tutto
questo per l’esperienza di una lunga consuetudine, lo chiamasse sapere, e, facendone
una tecnica sistematica, lo trasformasse in materia d’insegnamento, nulla sapendo in
verità di quanto in tali opinioni e desideri vi sia di bello o di brutto, di buono o di
cattivo, di giusto o di ingiusto, [493c] ma attribuendo queste denominazioni sulla base
dei pareri del grande animale, sì da chiamar beni le cose di cui quello si rallegra, mali
quelle di cui si infastidisce: e non ha alcun’altra giustificazione per questi giudizi, bensì
chiama giusto e bello quel ch’è necessario, giacché quanto in realtà differisca la natura
del necessario da quella del bene, né l’ha osservato né è in grado di mostrano ad altri.
Un tal uomo, per Zeus, non ti sembra essere un educatore ben strano (àtopos)?».
ADIM. «A me sì», disse.
SOCR. «Ti sembra [493d] dunque che vi sia qualche differenza fra costui e chi ritiene
che il sapere consiste nell’aver compreso gli impulsi e i piaceri di una folla eterogenea
riunita a giudicare di pittura o di musica o di politica? Ché infatti, se qualcuno entra in
contatto con essa, per sottoporre un poema o un’altra opera d’arte o un programma
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politico, asservendosi alla moltitudine oltre lo stretto indispensabile, c’è una necessità
detta “diomedea” a costringerlo a fare tutto ciò che questa approverà: che poi quanto
essa approva sia veramente buono e bello, hai mai sentito qualcuno di loro darne una
giustificazione men che ridicola?».
ADIM. «Penso [493e] addirittura, egli disse, che non ne sentirò mai».
SOCR. «Ponendo dunque mente a tutto questo, ricordi quel punto importante: c’è modo
di far sì che la folla ammetta o ritenga che vi è il bello in sé, ma non le molte cose belle,
[494a] e così ognuna delle essenze ma non la molteplicità delle singole cose?».
ADIM. «Proprio no», disse.
SOCR. «È dunque impossibile (adùnaton), dissi io, che la folla (pletos) sia filosofa».
ADIM. «Impossibile».
SOCR. «Perciò è necessario che chi fa filosofia sia disprezzato da essa».
ADIM. «Necessario».
SOCR. «E anche da quei privati individui, che avendo commercio con la massa,
desiderano piacerle».
ADIM. «Chiaro».
PLATONE, La Repubblica, libro VI
II PARTE (490d – 502c )
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OPERAZIONI SUL TESTO § II. 3. (RESP., VI 493a - 494a)
1) Esercizio di lessico
Trova nel testo i termini definiti dalle seguenti espressioni
_________________ = privati insegnanti a pagamento
_________________ = ciò che appare, ma non è vero
2) Decodifica.
“Traduci” i seguenti termini dell’immagine del thremma
grande e vigoroso animale _____________________________________________________________
allevatore
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impulsi e desideri (dell’animale) __________________________________________________________
suoni (dell’animale)
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3) Analisi del testo
“Tutti i privati insegnanti a pagamento, che questi chiamano sofisti e che ritengono loro rivali
nell’educazione”
Perché Socrate dice che “questi” (= i politici, le personalità eminenti, i pedagoghi tradizionali della città)
che “chiamano sofisti” “tutti i privati insegnanti a pagamento” li “ritengono” loro rivali nell’educazione.
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Prova a spiegare perché Socrate definisce “strano” (atopos) l’insegnante che “quanto in realtà differisca
la natura del necessario da quella del bene, né l’ha osservato né è in grado di mostrarlo ad altri”.
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Perché per Socrate «è […] impossibile […] che la folla sia filosofa»,
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4) Ricondurre le tesi individuate nel testo al pensiero complessivo dell'autore
Nel testo letto c’è un breve ma chiaro riferimento alla più nota delle “dottrine” platoniche: la teoria delle
idee. Individua tale riferimento e prova a esporre in cosa consiste tale teoria.
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§ II. 4 (RESP., VI 494a - 495b)
IDENTIFICAZIONE DI UNA NATURA FILOSOFICA
CORROTTA DALLA CITTÀ (ALCIBIADE)
INTRODUZIONE-COMMENTO
Nella ricostruzione del percorso seguito dalle nature filosofiche nate in ambiente inadatto è riconoscibile
senza dubbio, anche se Platone non menziona alcun caso specifico, il modello di Alcibiade. Era egli
fornito sia delle doti intellettuali, sia di tutti quei beni da Socrate indicati quali fattori destinati
massimamente a corrompersi. Alcibiade è il protagonista emblematico di questo percorso degenerativo,
contro cui nulla ha potuto la vicinanza con Socrate..
La lettura della pagina iniziale di un dialogo platonico, l’Alcibiade I è, in questo senso, altamente
significativa. A colloquio col suo giovane amico e discepolo, Socrate ne traccia il ritratto riassumendo
quanto Alcibiade è solito dire di se stesso: egli si definisce “bellissimo e grandissimo” [kàllistos kai
mégistos] (104a), una formula che, come quella di kalòs te kagathòs, compendia prestanza fisica e
preminenza politico-sociale.
Ad assicurare quest’ultima è la sua appartenenza a una delle famiglie più nobili non solo in ambito
ateniese, ma in tutta la Grecia. Dispone di amici e di parenti numerosi e potenti sia da parte di padre sia
da quella di madre, tutti pronti a fornirgli il loro appoggio; il suo tutore è il grande Pericle, il quale «è in
grado di fare tutto quello che vuole non solo in questa città, ma anche nell’intera Grecia e presso molti e
grandi popoli barbari» (104b).
Ad Alcibiade, poi, non fa certo difetto la ricchezza, anche se non è di questo che si inorgoglisce
maggiormente.
Socrate sottolinea la componente che tutte le fonti riconoscono come centrale nel carattere di Alcibiade,
l’ambizione. E proprio quest’alta considerazione di sé a essere sollecitata nell’ambiente della città, e a
diventare la causa principale della sua rovina.
Il processo che porta a questa caduta è del resto ben descritto da Platone in questo libro della
Repubblica:
- l’individuo dotato della migliore natura, che si riflette nella bellezza del corpo e nelle qualità dell’anima,
primeggia fin dall’infanzia e, diventato adulto, «si inchineranno dunque davanti a lui, pregandolo e
riverendolo, tentando di ingraziarsi e di adulare fin d’ora la sua futura potenza» (494b-c);
- sollecitato nella sua ambizione, quest’uomo non potrà sottrarsi a così potenti e ripetute pressioni,
(proprio come è accaduto ad Alcibiade, avviato giovanissimo ad un ruolo politico di primo piano).
Le vicende che lo vedono protagonista, narrate da Tucidide, mostrano le tappe progressive di un’ascesa
e di una caduta che attestano le grandi qualità possedute e, insieme, la loro corruzione: questa porta
Alcibiade alla pleonexìa, all’illegalità e poi al tradimento della sua città.
Per Tucidide, come per Platone, la responsabilità di questa parabola discendente ricade sulla città, da
lui descritta come la città tiranna [polis tyrannos] che persegue una politica di potenza, e che va incontro
inevitabilmente alla guerra, indicata a sua volta come «maestro violento», (III 82.2).
Come è noto, una delle accuse mosse a Socrate e che lo portarono al processo e alla morte fu non
tanto di essere stato amico di Alcibiade al fine di “convertirlo”, ma di essere stato suo ispiratore e
complice.
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IL TESTO § II. 4 (RESP., VI 494a - 495b)
SOCR. «In questa situazione, vedi tu una salvezza per la natura filosofica, sì che possa
perseverare nella propria via e portarla a compimento? Giudica secondo le premesse che
abbiamo poste. Si è convenuto che la facilità ad apprendere, [494b] la buona memoria,
il coraggio, la magnanimità sono proprie di questa natura».
ADIM. «Sì».
SOCR. «E un tal uomo non sarà forse, fin da bambino, il primo fra tutti, soprattutto se il
suo corpo risulta naturalmente adeguato alla sua anima?».
ADIM. «E come potrebbe non esserlo?», disse.
SOCR. «Vorranno dunque, credo bene, i suoi familiari e i suoi concittadini, servirsi di
lui per i propri affari, una volta che si sia fatto adulto».
ADIM. «Come no?».
SOCR. «Si inchineranno [494c] dunque davanti a lui, pregandolo e riverendolo,
tentando di ingraziarsi e di adulare fin d’ora la sua futura potenza».
ADIM. «Proprio questo, disse, suole accadere».
SOCR. «Che dunque pensi farà in tali circostanze un tal uomo, dissi io, soprattutto se ti
trovi a vivere in una grande città e in essa sia ricco e nobile, e in più bello e grande
d’aspetto? non sarà forse colmo di smisurate speranze, immaginandosi in futuro capace
di governare gli affari e dei Greci e dei barbari, e su tali basi si esalterà pieno di false
pretese e irragionevoli [494d] progetti?».
ADIM. «Certo», disse.
SOCR. «E se a chi si trova in tale stato d’animo qualcuno, avvicinandoglisi quietamente,
dicesse la verità: che la ragione l’ha abbandonato e tuttavia egli ne ha bisogno, ma non
la si riconquista se non ponendosi come uno schiavo al servizio di questa stessa
conquista, - pensi che sarebbe per lui cosa facile, in mezzo a tanti mali, prestare
orecchio a questo discorso?».
ADIM. «Tutt’altro», egli disse.
SOCR. «Se tuttavia, dissi, grazie alla sua buona natura e alla sua affinità a tali discorsi,
ne venga colpito e sia richiamato e attratto verso la filosofia, che pensiamo faranno
quelli che ritengono così perduta l’utilità della sua alleanza? Non tenteranno ogni
sforzo, ogni discorso, sia nei suoi riguardi, perché non si lasci convincere, sia nei
riguardi del suo consigliere, perché non vi riesca, con private macchinazioni e con
pubblici processi intentati contro di lui?».
ADIM. «È del tutto necessario», [495a] disse.
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SOCR. «C’è dunque modo che egli si dia alla filosofia?».
ADIM. «No, affatto».
SOCR. «Vedi dunque, io dissi, che non sbagliavamo dicendo che le qualità stesse che
compongono la natura del filosofo, quando siano sottoposte a un cattivo allevamento,
sono responsabili in qualche modo del suo distogliersi da questo modo di vita, insieme
con i cosiddetti beni, la ricchezza cioè e le altre simili doti».
ADIM. «Non sbagliavamo infatti, disse, anzi, lo si diceva correttamente».
SOCR. «Questa, dissi, nobile amico, è la rovina, così grande [495b] e così grave è la
corruzione della natura migliore in rapporto alla più elevata forma di vita, una natura
che del resto raramente compare, come noi abbiamo detto. Fra questi uomini sorgono
coloro che procurano alle città e ai privati cittadini i mali più grandi, o anche i beni più
grandi, quando la sorte li volga in questa direzione; una natura meschina, invece, nulla
di grande realizza mai né per i privati né per la città».
ADIM. «Verissimo», egli disse.
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§ II. 5 (RESP., VI 495c - 496a)
USURPATORI (i retori)
E INTRUSI (socratici senza qualità)
Nella cornice di degradazione offerta dalla città, un ruolo significativo può essere svolto anche dalle
nature mediocri: saranno queste a occupare il posto lasciato vuoto dai veri filosofi, inquinando il residuo
prestigio della disciplina. Il posto lasciato vuoto dalle nature filosofiche traviate viene occupato da
usurpatori, che, essendo in se stessi indegni, gettano la vergogna sulla disciplina.
Tra gli usurpatori figurano al primo posto quanti abbassano il livello di prestigio di cui la filosofia gode
agli occhi dei più: costoro sembrano essere i retori, pericolosi quando si atteggiano a filosofi.
Costoro sono definiti «omiciattoli» (anthropiskoi), che pensano possibile il salto di qualità dal loro livello
(quello dei lavoratori manuali) a quello della filosofia, sacralizzato dalla metafora del tempio.
«Degno» e «indegno», sacro e profano, sono i termini di riferimento per identificare i tecnici travestiti da
filosofi, su cui si appunta lo sdegno di Socrate. Si tratta di nature mediocri che però possono produrre
grandi danni nell’immagine che la filosofia dà di sé. Il salto dalle tecniche alla filosofia non è
necessariamente una perversione; ciò di cui qui si accusano gli usurpatori è di trattare la filosofia come se
fosse un oggetto da arti manuali, restando meccanici nel corpo e nell’anima.
L’indegnità connota soprattutto il modo con cui essi si accostano alla filosofia: non con la reverenza e il
rispetto che le è dovuto, ma pretendendo di abbassarla al proprio livello, mentre si appropriano
indebitamente del suo nome e dei suoi titoli (proprio quello che avviene nel matrimonio di un parvenu).
L’effetto di profanazione è rafforzato dalla metafora del criminale in fuga chesi rifugia nel tempio).
Nell’immagine del «piccolo fabbro calvo» (495e), che crede di poter far fruttare il suo gruzzolo in un matrimonio importante, il sarcasmo punta ferocemente sull’immagine di un’incolmabile distanza sociale per esprimere un giudizio di indegnità intellettuale e morale, contro persone che dicono di occuparsi di filosofia.
Dal matrimonio tra l’omiciattolo e la figlia del padrone (la filosofia) non può che nascere una prole
bastarda e meschina»; opinioni, pensieri e discorsi che sono solo trucchi per ingannare (sophismata).
Gli usurpatori sono falsi filosofi ben lontani dal carattere generoso e mite che individua chi ha occhi solo
per la serietà delle questioni, si odiano e invidiano tra loro, disputandosi il primato con la denigrazione
personale. Essi appaiono in fondo soprattutto degli incapaci, inadeguati alla fatica intellettuale, inetti
perfino a intendere quanto sia grave restare nell’ignoranza senza preoccuparsene.
Il retore contro cui sembrano rivolti gli strali di Platone sembra essere soprattutto Isocrate, che
proponeva un modello educativo basato sull’integrazione di teoria e pratica, finalizzato all’assunzione di
ruoli eminenti in politica e presentato come autentica educazione filosofica.
Platone nell’Eutidemo fa di Isocrate un ritratto malevolo trasparente: il personaggio dell’Anonimo critica
i filosofi e la filosofia negli stessi termini utilizzati da Isocrate, tacciandoli di ridicolo e di inutilità per il loro
affannarsi a discutere, mettendosi in gioco pubblicamente; Socrate ne smascherava le motivazioni,
identificandolo come uno di quelli «che stanno a mezza via tra il filosofo e il politico» e «pensano di essere
più sapienti di tutti» perché «hanno a che fare moderatamente con la filosofia e moderatamente con la
politica», senza in realtà impegnarsi in prima persona né nell’una né nell’altra (305c-d).
A gettare discredito sulla filosofia, ci sono anche gli «intrusi» (quelli che «hanno fatto indecentemente
irruzione» nella filosofia). Essi si smascherano da soli, chiamandosi reciprocamente in causa in una
gazzarra indegna della filosofia.
Chi sono costoro? Per il tempo platonico i riscontri possono diventare molto precisi: sappiamo di una
disputa tra scuole, in cui il nome della filosofia venne giocato come titolo altisonante nel mercato
dell’educazione; una disputa che, tra gli altri, coinvolse un socratico come Antistene, e dovette
rappresentare una provocazione per Platone.
Antistene aveva pubblicato intorno al 392 uno scritto (Verità) che rappresentava il manifesto
programmatico dell’insegnamento da lui praticato, centrato sull’analisi dei nomi.
PLATONE, La Repubblica, libro VI
II PARTE (490d – 502c )
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Platone nutre un forte risentimento contro Antistene e ne fa oggetto critiche teoriche indirette; Antistene
ricambiava in modo volgare la disistima di Platone nei suoi confronti.
IL TESTO § II. 5 (RESP., VI 495c - 496a)
SOCR. «Questi uomini, [495c] dunque, così decaduti da ciò che loro più conveniva, e
lasciata la filosofia solitaria e zitella, vivono essi stessi una vita non degna di loro e
falsa; la filosofia intanto, quasi orfana della sua famiglia, viene disonorata da altri che
indegnamente subentrano presso di lei, attirandole quel biasimo che, come anche tu
dicevi, le rivolgono quelli che la biasimano, dicendo che fra quanti le si sono uniti
alcuni non hanno alcun merito, altri, i più, meriterebbero invece i mali peggiori».
ADIM. «Questo infatti, disse, è proprio quel che si dice».
SOCR. «Ed è plausibile che lo si dica, io dissi. Certi altri omiciattoli, infatti, vedendo
che il luogo è rimasto vuoto, e ricco tuttavia di begli appellativi e di prestigio, [495d]
come gli evasi si rifugiano nei templi, così anch’essi smaniano di abbandonare le loro
tecniche per la filosofia, loro che pur si trovano a essere assai abili nel proprio piccolo
mestiere. Rispetto alle altre tecniche infatti la filosofia, pur così mal ridotta, mantiene
tuttavia un prestigio altissimo, cui aspirano molti che da un lato sono di natura
imperfetta, dall’altro, a causa dell’esercizio delle tecniche e dei mestieri, sono deformati
nel corpo e al tempo stesso si ritrovano [495e] anche con l’anima mutilata e avvilita dai
lavori manuali. Non è forse inevitabile?».
ADIM. «Certamente», disse.
SOCR. «Ti par dunque a vederli, dissi io, che vi sia qualche differenza fra costoro e un
piccolo fabbro calvo, che ha fatto un po’ di soldi, e, liberatosi appena dal vincolo
servile, e dalla sporcizia nel bagno pubblico, indossa un mantello nuovo di zecca, si
acconcia come uno sposo novello, e si prepara a sposare la figlia del padrone,
profittando della sua povertà e della sua solitudine?».
ADIM. «Non c’è molta differenza», [496a] disse.
SOCR. «E che prole possono mai generare tali genitori? non sarà bastarda e meschina?».
ADIM. «Del tutto necessario».
SOCR. «E allora? da questi uomini indegni di educazione, che si sono avvicinati alla
filosofia e le si sono uniti senza esserne degni, quale prole di pensieri e di opinioni
diremo possa venire generata? non saranno forse sofismi, come in verità conviene siano
chiamati, e nulla di nobile, nulla che abbia rapporto con il pensiero vero?48».
ADIM. «Assolutamente», disse.
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§ II. 6 (RESP., VI 496b - e)
QUEL CHE RIMANE. IL FILOSOFO NELLA CITTA’ CATTIVA
INTRODUZIONE-COMMENTO
Se la città è diseducante, un uomo dotato di natura filosofica ha poche possibilità di salvezza; per lui
diventeranno titoli di merito la mancata integrazione nella città, l’astensione dalla politica, perfino il temuto
status di inutilità.
Come e dove potranno essere trovati i pochi individui che, conservando intatte le buone disposizioni
ricevute dalla natura «si uniscono degnamente alla filosofia» [496b], che entrano, cioè, in familiarità con un
certo modo di ragionare e di valutare?
Forse la pianta filosofica bisognerà andarla a cercare in terreni difficili e marginali.
Esiliati. L’elenco è aperto dall’esempio di un «carattere nobile e ben coltivato», messo in condizione di
poter perseverare nelle proprie disposizioni naturali dalla peggiore delle disgrazie per un cittadino, l’esilio,
che appare qui una precondizione per avere onorevole familiarità con la filosofia.
Mikropolitani. Lo stesso può dirsi a proposito del secondo esempio, costituito da uomini di «anima
grande» nati in «piccola città». Nascere in una piccola città significa subire la volontà della più forte; ma
questa disgrazia si rovescia in fortuna e dà alle grandi anime mikropolitane il vantaggio di potersi sottrarre
e alla megalomania politica (modello Alcibiade).
E’ molto probabile che qui Platone voglia concretamente dire ai giovani ateniesi ancora in possesso di
quella integrità morale che la maggioranza degli adulti ha perduto: le anime grandi ben disposte ad
ascoltare la voce della filosofia, finché le cose non cambieranno, faranno bene a comportarsi come esiliati
in patria, o come sono costretti a fare i disprezzati abitanti delle piccole città. L’indicazione potrebbe però
contenere anche un riferimento ai giovani talenti che, da aree periferiche del mondo greco, affluivano ad
Atene, capitale della cultura filosofica; l’apprezzamento per i “provinciali” suonerebbe così come elogio per
personaggi presenti nell’Accademia quando Platone scrive la Repubblica incoraggiando altri a seguirne
l’esempio.
Talenti in fuga dalle tecniche. Il gruppo che segue si caratterizza, invece, per l’individuazione positiva
di una risorsa intellettuale in parte indipendente dalla politica: “quei pochi uomini ben nati che
abbandonano le loro tecniche, giustamente disprezzandole”.
I «ben nati», in un ambito tecnico, sono intelligenze superiori al loro impiego, connotate in modo buono
sul piano delle disposizioni etiche naturali: si tratta di veri talenti che la filosofia deve incoraggiare a
compiere un salto di qualità decisivo.
Platone si è soffermato a lungo sul potere deviante, addirittura deformante per il corpo e per l’anima,
delle tecniche, vincolate a finalità troppo basse, limitate, o servili.
Ma ciò che interessa ora del loro status è il tasso di razionalità epistemica che contengono, in base al
quale chi le pratica è indotto a un esercizio formativo, che potrebbe essere di tutto rispetto al di là degli
scopi per cui la tecnica vale agli occhi di chi se ne serve.
Tra queste tecniche primeggia la retorica: riformata nella sua struttura epistemica dalla dialettica,
responsabilizzata dal punto di vista etico-politico, essa potrebbe superare i limiti della tecnica persuasive
ed entrare in dialogo con la filosofia.
La pedagogia della Repubblica offre poi solidi agganci per indirizzare alle discipline matematiche
(geometria e discipline misuratrici in generale) l’interesse intellettuale del filosofo, per il ruolo ausiliario e
propedeutico a esse attribuito nella formazione delle capacità intellettuali del futuro filosofo, solo che
venga di esse privilegiata la dimensione puramente logica del calcolo, campo di esercizio indipendente dai
referenti concreti cui si applica e l’aspetto logico-astrattivo dello studio delle grandezze e delle loro
proprietà, che costituisce una palestra di esercizio ineguagliabile per l’intelligenza, prima che essa trovi più
PLATONE, La Repubblica, libro VI
II PARTE (490d – 502c )
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degni e reali oggetti di applicazione, nella dimensione pura delle idee e del “bene”. Gli ambiti tecnici delle
discipline calcolatrici possono a buon diritto essere considerati vivai di intelligenze in formazione, campi
neutri (e non corrotti) di esercizio, purché l’intervento di un vero filosofo giunga in tempo a correggere l’iter
formativo, impedendo che esso vada a cristallizzarsi nelle procedure di calcolo, imprigionando
l’intelligenza nella finzione degli enti matematici.
Malattia e ambiguità degli influssi demonici tra i socratici L’ultima indicazione ci porta all’interno del
gruppo dei socratici, dove il «nostro compagno Teage», colpito da un morbo provvidenziale, può dirsi
fortunato perché impedito a far politica e «trattenuto» nel campo della filosofia dalla cura del suo corpo
malato, sebbene ogni altro elemento contribuisse a spingerlo fuori.
Ma quanto vale in sé il modello di Teage per Platone?
Per capirlo meglio possiamo forse ricorrere all’immagine del personaggio in un dialogo non autentico,
ma forse confezionato in ambito accademico, il Teage appunto.
Il dialogo è centrato sul ruolo del «segno demonico» nell’attività educativa di Socrate; al giovane Teage,
che gli viene presentato nella speranza che egli lo accetti come allievo, Socrate racconta di come il segno
demonico funzioni da filtro per quelli che potranno o non potranno trarre vantaggio dal frequentarlo, con
effetti più o meno duraturi; e il vantaggio sembra consistere in una trasmissione quasi magica della virtù
socratica, senza che alcun contenuto di conoscenza venga positivamente trasmesso (130c-e).
La rappresentazione è interessante da più punti di vista: notiamo subito che la figura di Socrate è
accreditata per la selezione dei talenti, ma, quanto agli effetti della sua virtù, l’influenza benefica su coloro
che avevano il privilegio di frequentarlo appare tutt’altro che decisiva per il loro futuro; la natura degli
allievi appare comunque l’unico fattore realmente discriminante per il loro progresso intellettuale
(conformemente all’immagine della sterilità socratica), mentre la compagnia di Socrate sembra offrire solo
un’atmosfera di sostegno psicologico ed etico a chi è impegnato nella cura di sé.
L’accenno al segno demonico in questo passaggio della Repubblica è sovraccarico di intenzioni.
Socrate sembra schermirsi dalla possibilità che qualcuno possa contare su di lui: «per quanto riguarda
poi il mio segno demonico, non vale la pena trattarne: a pochi o a nessuno è capitato prima di me» (496c).
Niente che si possa trasmettere, niente che possa dar luogo a una tradizione.
Lo schermirsi di Socrate sul potere del suo «demonico», getta un’ombra di discredito sia sulle capacità
educative del filosofo sia sulle qualità naturali presenti nel gruppo. Il Socrate dell’Apologia aveva negato di
esser mai stato un vero maestro (33a-b), sciogliendo le sue responsabilità dalle scelte, buone o cattive,
compiute dai suoi uditori. L’elogio di Teage nella Repubblica, limitato alla sua assiduità socratica coatta e
all’ancor più coatta astensione dalla politica, non è troppo rassicurante. Se, a parte la malattia, tutto il
resto lo avrebbe allontanato dalla filosofia, è difficile giurare sull’eccellenza delle sue disposizioni. Quanto
agli altri socratici, la loro esposizione in prima persona a sostegno del maestro e contro l’opinione dei più
depone certo a favore della loro tenuta etica e civile, ma l’astensione dalla «follia dei più» potrebbe essere
l’unica cosa che hanno assorbito dall’esempio socratico: davvero poco per essere filosofi.
Qui il vero obiettivo polemico di Platone è il credito di cui poteva godere chi era stato allievo o
frequentatore di Socrate senza possedere le qualità che Platone riteneva indispensabili alla pratica seria
della filosofia. I primi della lista, tra gli usurpatori del «nome» della filosofia, sarebbero allora proprio i
socratici, eredi del fallimento pedagogico del maestro, invece che delle sue inimitabili qualità.
Plausibile è pensare che Platone, nel momento in cui era impegnato a fondare la sua scuola,
assumendo Socrate a nume tutelare della buona pratica filosofica, sentisse il bisogno di sgombrare il
campo da quanti potevano presentarsi come eredi del metodo con cui il maestro veniva più facilmente
identificato: l’uso solo distruttivo dell’elenchos, così simile, a prima vista, allo sterile contraddittorio degli
eristi. Platone sembra suggerire di fare attenzione alla mancanza di talento dei socratici, sbandati appena
privi della presenza illuminante del maestro.
Il filosofo dietro il «muretto». Veniamo infine al passo in cui il filosofo, rimasto fedele alla sua natura,
ma solo e braccato da ogni parte da presenze ostili, si rintana a difendersi dalla tempesta dietro il riparo di
fortuna di un muretto (496d-e).
Il muretto è la roccaforte dell’anima, il baluardo che il giusto frappone tra sé e la costruzione esterna,
restando puro da iniquità, nell’armonia interiore: un filosofo che non può governare, ma neanche è tenuto
PLATONE, La Repubblica, libro VI
II PARTE (490d – 502c )
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a farlo, poiché nulla deve alla città, da cui non ha ricevuto né educazione, né riconoscimento; un filosofo
che, se fa le cose proprie, rende giustizia principalmente a se stesso.
Il muretto è l’ultima spiaggia della filosofia, ma anche il luogo dove si raccolgono le forze per il futuro.
Dietro il muretto, la virtù filosofica potrebbe limitarsi a difendere uno spazio di cura e di tranquillità per se
stessa, coltivando il giardino della teoria che è quanto di meglio sa fare (già questo non sarebbe «davvero
poco», ma neppure «il massimo», commenta Socrate: 497a).
Potrebbe però, anche, attendere con calma il verificarsi di particolari circostanze nella costituzione
cittadina reale, tali da consentire di dimostrare la sua divina eccellenza nei fatti (497c).
L’alternativa al muretto. L’alternativa non ha evidentemente un senso per il Socrate storico, cui si adatta
piuttosto l’immagine del giusto che si è reso «inutile a sé e agli altri», soccombendo «prima ancora d’aver
giovato in qualcosa alla città e agli amici» (496d).
E’ assai significativa se la leggiamo come un invito a praticare una strategia ad ampio spettro, in cui
possiamo riconoscere il progetto dell’Accademia.
In esso Platone faceva convergere due piani di finalità, distinti ma strettamente interagenti:
- l’alto profilo teorico di un programma educativo da coltivare in sdegnoso isolamento rispetto alla polis;
- la prospettiva di un rientro «regale» nella grande politica.
Utile in ogni caso, lo spazio protetto dell’Accademia poteva essere la serra di acclimatamento per piante
filosofiche prive di ambiente naturale idoneo. Se, dunque, la sua natura vera lo rende straniero alla polis in
cui è nato, il filosofo potrà restare se stesso soltanto rinunciando ad avere una patria, estraniandosi cioè
volontariamente da quella terra cui non può appartenere. L’Accademia poteva ben rappresentare, allora,
una seconda patria, un terreno di coltura artificiale, fatto per consentire la maturazione non degenere dei
talenti naturali. Negli anni in cui scrive la Repubblica, la fondazione di un luogo amico, dove uomini simili
potessero confrontare i loro pensieri, doveva apparire a Platone una soluzione politica, una città sostitutiva
più che un ritiro intellettuale.
Per le nature filosofiche i tempi erano durissimi.
Lanciando l’idea di un rifugio per il futuro della filosofia, Platone si proponeva come punto di riferimento
per la dispersa intellettualità “buona” nel mondo greco.
I referenti dell’appello sembrano ben identificabili nel presente platonico: «quei pochi filosofi, che ora
sono definiti non malvagi ma inutili», che la «fortuita necessità» potrebbe indurre, «che lo vogliano o no»
(499b), a occuparsi di politica.
IL TESTO § II. 6 (RESP., VI 496b - e)
SOCR. «Ben piccolo dunque, [496b] Adimanto, dissi, resta il numero di coloro che si
uniscono degnamente alla filosofia: forse qualche carattere nobile e ben coltivato, che
l’esilio trattiene lontano e che, per mancanza di corruttori, può seguire la sua natura e
restarle fedele, o qualche anima grande che è nata in una piccola città e sdegnando
perciò gli affari pubblici, se ne disinteressa; o ancora quei pochi uomini ben nati che
abbandonano le loro tecniche, giustamente disprezzandole, e si danno alla filosofia. C’è
poi anche quel freno che forse altri può trattenere al pari del nostro compagno Teage:
tutto infatti è stato messo in opera per distogliere Teage dalla filosofia, [496c] ma la
cura del suo corpo malato, allontanandolo dagli affari politici, ve lo trattiene. Per quanto
riguarda poi il mio segno demonico, non vale la pena di parlarne: a pochi o nessuno è
capitato prima di me. Chi comunque è entrato in questa piccola schiera e ha gustato
quanto dolce e beato sia questo possesso, osservata poi bene la follia dei più, e che non
v’è nessuno che dia per così dire un sano apporto agli affari della città, né vi sono alleati
con i quali accorrere in difesa della giustizia [496d] e col cui appoggio salvarsi, bensì -
PLATONE, La Repubblica, libro VI
II PARTE (490d – 502c )
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come un uomo imbattutosi in un branco di fiere che non vuole condividerne l’ingiustizia
né può da solo resistere a tutte le belve - c’è il rischio di perire, risultando inutile a sé e
agli altri, prima ancora d’aver giovato in qualcosa alla città e agli amici: avendo
riflettuto su tutto questo, egli resta inattivo e attende alle proprie cose, come se in una
bufera si riparasse dietro un muretto dalla polvere e dalla pioggia portate dal vento, e
vedendo gli altri traboccare di illegalità, si ritiene contento di poter vivere almeno la
propria vita [496e] quaggiù puro d’ingiustizia e di azioni empie, e alla sua fine potrà
lasciarla, accompagnato da una bella speranza, con l’animo sereno e disteso».
ADIM. «Non è davvero poco, [497a] egli disse, quello che avrebbe ottenuto prima di
andarsene».
SOCR. «Ma neppure, dissi, il massimo, perché non gli è toccata una città adatta a lui: in
una adatta egli stesso avrebbe eccelso e avrebbe salvato, insieme con il proprio, anche il
bene comune. Quanto dunque ai motivi delle accuse rivolte contro la filosofia, e alla
loro ingiustizia, mi sembra se ne sia discusso a sufficienza, a meno che tu non voglia
aggiungere qualcos’altro».
ADIM. Nulla mi resta da dire, rispose, su questo argomento; ma quale delle attuali
costituzioni tu pensi si adatti alla filosofia?».
SOCR. «Neppure una, [497b] dissi, ed è proprio questo che critico, che nessuno degli
attuali ordinamenti politici sia degno di una natura filosofica: appunto perciò essa ne
viene distorta e alterata; come un seme straniero seminato in una terra che non gli è
propria, suol perdere, vinto dall’azione di quella, le sue proprietà e si adatta
all’ambiente locale, così anche questo genere di uomini oggi non conserva le sue
facoltà, ma finisce per assumere un carattere estraneo. [497c] Ma se raggiungerà la
costituzione migliore, così come anch’esso è il migliore, allora si farà chiaro che esso
era realmente divino, tutto il resto invece - e natura e modi di vita - umano. E chiaro
che a questo punto mi domanderai quale sia questa costituzione».
ADIM. «T’inganni, disse: non questo stavo per chiederti, bensì se essa fosse proprio
quella che abbiamo analizzato fondando la nostra città, o diversa».
SOCR. «Per ogni rispetto è quella, dissi io, ma c’è un punto di cui del resto anche allora
si è parlato, e cioè che vi dovrà sempre essere nella città una qualche autorità che
conservi il senso della costituzione, quello stesso che anche tu, legislatore, hai seguito
quando istituivi le leggi [497d]».
ADIM. «Infatti se n’è parlato», disse.
SOCR. «Ma non è stato sufficientemente chiarito, dissi, per timore delle vostre
obiezioni, con le quali avete mostrato che la trattazione di questo argomento sarebbe
stata lunga ed ardua; d’altronde quel che ci resta non è la cosa più facile da esaminare».
ADIM. «Ma che cosa?».
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II PARTE (490d – 502c )
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SOCR. «In qual modo la città debba trattare la filosofia per non cadere in rovina. Tutte
le cose grandi sono infatti rischiose, e in realtà, come si dice, il bello è difficile/».
ADIM. «Comunque, disse, [497e] la dimostrazione dev’essere portata a termine
mettendo in chiaro questo problema».
SOCR. «Se qualcosa me lo impedirà, io dissi, non sarà la mancanza di volontà, semmai
quella di capacità: ma tu sarai testimone almeno del mio zelo. Osserva fin d’ora con
quale decisione e con quale sprezzo del pericolo mi accingo a dire, che la città deve
trattare questo modo di vita nel modo opposto a quello attualmente seguito».
ADIM. «E come?».
SOCR. «Attualmente, dissi, [498a] anche quelli che vi si accostano sono adolescenti,
appena usciti dalla fanciullezza e in attesa di affrontare l’economia e gli affari, e se ne
allontanano dopo averne avvicinata la parte più difficile; e proprio questi sono
considerati filosofi espertissimi (la parte più difficile, intendo, è quella relativa alla
dialettica); in seguito, se accettano l’invito di ascoltare qualcun altro che tratti di questi
argomenti, credono di aver fatto già molto, convinti che la filosofia vada praticata come
un interesse collaterale. Giunti poi alla vecchiezza, a eccezione di pochi, si spengono
ancor più del Sole eracliteo, [498b] tanto che non si riaccendono più».
ADIM. «Come fare invece?», disse.
SOCR. «Tutto il contrario. Gli adolescenti e i ragazzi devono ricevere un’educazione e
un insegnamento filosofico adeguati all’età, e soprattutto prendersi buona cura del loro
corpo, nel momento in cui si sviluppa e si fa uomo, per farne uno strumento atto alla
filosofia; quando poi l’età sia giunta al momento in cui l’anima si avvia alla sua
maturità, devono rendere più intensi gli esercizi dell’anima stessa; una volta infine
declinate le forze, [498c] e abbandonate quindi le attività politiche e militari, allora li si
lasci pascolare in libertà senza aver nient’altro cui attendere, se non compiti marginali,
così che vivranno felicemente e che, giunti alla fine, otterranno lassù una sorte degna
della vita che hanno vissuto».
ADIM. «Davvero mi sembra, disse, che tu abbia parlato con impegno, Socrate: penso
però che la maggior parte dei tuoi ascoltatori ti si opporrà con impegno ancora
maggiore, e in nessuno modo si lascerà convincere, Trasimaco in testa»
SOCR. «Non cercare di mettermi contro Trasimaco, io dissi, ora che siamo appena
diventati amici, [498d] senza peraltro che fossimo prima nemici. Non risparmieremo in
effetti alcuno sforzo fin ché saremo riusciti a convincere lui e gli altri, o almeno avremo
fatto qualcosa di utile in vista di quell’altra vita, quando, nati di nuovo, ancora
s’imbattano in simili discussioni».
ADIM. «Davvero di un rinvio a breve tempo stai parlando», disse.
SOCR. «A niente, dissi, almeno in rapporto alla totalità del tempo. Che d’altra parte i
più non siano persuasi dai nostri discorsi non fa alcuna meraviglia: mai hanno visto
realizzato ciò che ora si è detto, ma assai più hanno assistito alla artificiosa elaborazione
di consonanze reciproche [498e] fra espressioni di questo genere, non come ora
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spontaneamente combinatesi. Un uomo però che mostri similitudine e consonanze con
la virtù, sia nelle azioni sia nei discorsi, fino al limite della possibile perfezione, e che
detenga il potere in una città a sua volta così virtuosa, essi non l’hanno mai visto, né una
né molte volte. [499a] Non credi?».
ADIM. «Mai certamente».
SOCR. «E neppure essi, mio felice amico, hanno a sufficienza ascoltato belle e nobili
discussioni, in cui si cerca la verità con ogni sforzo e in ogni modo, con il solo scopo
della conoscenza, mentre si dà un addio alle sottigliezze eristiche che a null’altro
tendono se non all’opinione e alla disputa, sia nei tribunali sia nel le riunioni private».
ADIM. «Neppure queste», disse.
SOCR. «In vista di tutto questo, io dissi, e pur prevedendo [499b] fin d’allora queste
temibili difficoltà, tuttavia, costretti dalla verità stessa, abbiamo affermato che né la
città, né la costituzione, e neppure un uomo raggiungeranno mai la loro perfezione,
prima che quei pochi filosofi, che ora sono definiti non malvagi ma inutili, siano
investiti, per una fortuita necessità, della cura della città, che lo vogliano o no, e prima
che la città stessa si sottometta loro; oppure prima che per una qualche ispirazione
divina sorga nei figli di quelli che oggi detengono il potere o il regno, o in loro stessi, un
vero amore per la vera filosofia. [499c] Dire che è impossibile che si realizzi una di
queste due possibilità o entrambe, io affermo esser privo di ogni razionale
giustificazione. Se così fosse, saremmo giustamente derisi, perché non faremmo che
parlare di pii desideri. Non è così?».
ADIM. «Proprio così».
SOCR. «Se però è accaduto nell’infinito tempo passato, o anche oggi accade in qualche
regione barbarica a noi ignota per la sua lontananza, [499d] oppure se accadrà nel futuro
che una qualche necessità induca chi eccelle nella filosofia a prendersi cura di una città,
allora siamo pronti a sostenere nella discussione che quando questa Musa domini in una
città, la costituzione da noi descritta è esistita o esiste o almeno esisterà. Non è infatti
impossibile che essa si realizzi, e noi non andiamo dicendo cose impossibili: difficili sì,
di questo anche noi conveniamo».
ADIM. «Sono anch’io, disse, dello stesso parere».
SOCR. «Ma affermerai, dissi io, che i più invece non sono di questo parere?».
ADIM. «Forse», disse.
SOCR. «Mio felice amico, dissi, non accusare fino a questo punto [499e] la moltitudine.
Cambierà di certo parere, se tu, senza ostilità ma con pacati ragionamenti, la libererai
dei pregiudizi contro l’amore per il sapere, le mostrerai chi siano quelli che chiami
filosofi, e definirai come poco fa la loro natura [500a] e il loro modo di vita, perché non
creda che tu ti riferisca a quelli che essa considera tali se saranno visti in questa luce,
dovrai allora ammettere che la folla cambierà opinione e ti darà altre risposte. O credi
che ci si possa adirare contro chi non è adirato o provare malevolenza verso chi non ne
prova, quando non si è malevoli, anzi miti? Io, anticipandoti, affermo di ritenere che
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una natura così maldisposta può forse riscontrarsi in qualcuno, ma non nella
moltitudine».
ADIM. «Anch’io, disse, non ho difficoltà a convenirne».
SOCR. «Converrai dunque anche su questo, [500b] che della cattiva disposizione della
folla verso la filosofia sono responsabili quegli intrusi che vi hanno fatto
indecentemente irruzione, che si insultano e si detestano reciprocamente, e che, facendo
sempre vertere i loro discorsi intorno alle persone, si comportano come meno si addice
alla filosofia».
ADIM. «Certo», disse.
SOCR. «Non c’è neppure tempo, Adimanto, per chi ha veramente il pensiero rivolto a
ciò che è, di guardare giù alle faccende degli uomini, [500c] e di far loro guerra
riempiendosi di malevolenza e di avversione; ma vedendo e contemplando realtà
ordinate e sempre invariate nella loro identità, che non commettono né subiscono
reciprocamente ingiustizia, bensì sono tutte disposte secondo un ordine razionale,
queste si imitano e a esse si cerca il più possibile di assomigliare; o pensi sia possibile
che non si cerchi di imitare ciò cui si è legati da ammirazione?».
ADIM. «Impossibile», disse.
SOCR. «Il filosofo dunque, che ha rapporto con ciò che è divino e ordinato, [500d]
diventa egli stesso divino e ordinato per quanto a un uomo è concesso, benché
dappertutto gli vengano rivolte accuse».
ADIM. «Assolutamente».
SOCR. «Se dunque, dissi, una qualche necessità lo inducesse a tentare di trasporre nei
costumi pubblici e privati degli uomini quell’ordine che egli vede lassù, anziché
plasmare65 soltanto se stesso, pensi forse che egli diverrebbe un cattivo artefice di
moderazione e di giustizia e di ogni pubblica virtù?».
ADIM. «Tutt’altro», egli disse.
SOCR. «Ma allora, se la moltitudine si accorgerà che diciamo il vero su di lui, sarà
maldisposta verso i filosofi [500e] e diffiderà di noi quando affermiamo che in nessun
modo una città potrebbe esser felice, se non è stata disegnata da questi pittori che si
valgono di un modello divino?».
ADIM. «Non sarà maldisposta, disse, almeno se potrà accorgersene. Ma che tipo di
disegno intendi?». [501a]
SOCR. «Prendendo, io dissi, città e costumi degli uomini quasi fossero una tavola,
prima di tutto la ripuliranno, il che non è certo facile. Sappi comunque che già in questo
differirebbero dagli altri, che cioè non accetterebbero di occuparsi né di un singolo né di
una città, e di scriverne le leggi, se non lo ricevessero già ripulito o non lo rendessero
essi stessi tale».
ADIM. «E sarebbe corretto», disse.
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SOCR. «E dopo questo, non pensi che abbozzerebbero lo schema della costituzione?».
ADIM. «Che altro?».
SOCR. «In seguito, penso, [501b] perfezionandola, rivolgeranno frequentemente lo
sguardo in entrambe le direzioni, da un lato verso ciò che per natura è giusto, bello,
moderato e così via, dall’altro su ciò che possono realizzarne tra gli uomini, mescolando
e impastando le varie forme di vita per ottenerne un colorito umano, trovandone i segni
in quel che lo stesso Omero chiamava, quando esso appare tra gli uomini, aspetto e
sembianza divina? »
ADIM. «Correttamente», disse.
SOCR. «E questo, penso, cancelleranno, quest’altro aggiungeranno, [501c] finché
avranno reso, per quanto è concesso, i costumi umani il più possibile graditi agli dèi».
ADIM. «Bellissimo certamente sarebbe, disse, un tale dipinto».
SOCR. «E riusciamo allora, dissi io, in qualche modo a convincere coloro che tu dicevi
pronti ad assalirci con tutte le forze, che è un tale pittore di costituzioni quello che allora
elogiavamo contro il loro parere, e al quale volevamo affidare la città suscitando la loro
ira? Ascoltandolo ora, non sono forse diventati un po’ più miti?».
ADIM. «Anzi parecchio, egli disse, se hanno senno».
SOCR. «Quali obiezioni, in effetti, potranno rivolgerci? [501d] forse che i filosofi non
sono amanti dell’essere e della verità?».
ADIM. «Sarebbe assurdo», disse.
SOCR. «O che la loro natura, quale l’abbiamo descritta, non è affine al meglio?».
ADIM. «Neppure questo».
SOCR. «Che altro? che una tal natura, se trova un adatto modo di vita, non potrà essere
quant’altra mai perfettamente buona e filosofica? diranno forse che lo sarebbero di più
coloro che noi abbiamo esclusi?».
ADIM. «Certo no».[501e]
SOCR. «Si irriteranno dunque ancora quando noi diciamo che prima che la razza dei
filosofi non assumerà il potere nella città, non vi sarà né per la città né per i cittadini
sollievo ai propri mali, e neppure sarà compiutamente realizzata la costituzione che
abbiamo raccontata nel nostro discorso?»
ADIM. «Forse si irriteranno di meno», disse.
SOCR. «Vuoi dunque, dissi io, che non parliamo di “meno” ma diciamo che essi si sono
fatti del tutto miti e persuasi, [502a] in modo che siano d’accordo se non altro per
pudore?».
ADIM. «Senz’altro», disse.
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SOCR. «Siano dunque costoro, ripresi, convinti di tutto ciò; ma qualcuno vorrà forse
sostenere contro di noi quest’altro punto, che non possano nascere figli di re o di potenti
dotati di una natura filosofica?».
ADIM. «Nessuno lo potrebbe», disse.
SOCR. «Può forse qualcuno affermare che, pur essendo di tal natura, è del tutto
necessario che essi si corrompano? che difficilmente possano salvarsi, [502b] anche noi
lo ammettiamo: ma che in tutto il corso del tempo fra tutti mai neppure uno si possa
salvare, chi potrà sostenerlo?».
ADIM. «E come si potrebbe?».
SOCR. «E allora, io dissi, basta che ne compaia uno, alla testa di una città obbediente,
perché giunga a compimento tutto ciò che oggi sembra incredibile».
ADIM. «Basterebbe in effetti», disse.
SOCR. «E se c’è al potere un uomo, io dissi, che stabilisca le leggi e le forme di vita che
abbiamo descritte, non è certo impossibile che i cittadini accettino di seguirlo».
ADIM. «Tutt’altro».
SOCR. «E del resto, quel che noi approviamo è così strano da rendere impossibile che
altri lo condividano?»
ADIM. «Non credo proprio», egli disse.
SOCR. «Che la nostra costituzione sia la migliore, [502c] a condizione che sia possibile,
credo che lo si sia prima adeguatamente chiarito».
ADIM. «Infatti».
SOCR. «Ora, a quanto sembra, possiamo concludere circa la legislazione che le norme
che abbiamo enunciate, se realizzabili, sono le migliori, e che sono di difficile
realizzazione, non però impossibili».
ADIM. «Questo si può infatti concludere», disse.