PLATONE, La Repubblica, libro VI. II PARTE (490e – 502c )
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Platone
REPUBBLICA
LIBRO VI
II PARTE:
REPUBBLICA, VI, 490e - 502c
SOCR. «Di questa natura dunque, dissi io, occorre osservare come si corrompa, come
nei più si guasti, mentre una piccola parte sfugge a questa sorte, ed essi sono quelli
chiamati non malvagi ma inutili; [491a] dopo di che, vedremo quelle nature che la
imitano e ne usurpano il modo di vita; e perché, data la natura di queste anime, giunte a
un’occupazione di cui sono indegne e che è loro superiore, stonando in ogni modo,
hanno procurato alla filosofia, dovunque e presso ognuno, quella fama di cui tu parli.
ADIM. «A quali forme di corruzione, disse, ti riferisci?».
SOCR. «Io cercherò, dissi, per quanto ne sarò capace, di mostrartele. Questo almeno,
credo, ognuno ce lo concederà: che una tale natura, dotata di tutte le qualità che
abbiamo appena prescritte per chi deve diventare un compiuto filosofo, [491b]
raramente nasce fra gli uomini e in piccolo numero. Non credi?».
ADIM. «Senza dubbio».
SOCR. «Considera ora quante e quanto grandi siano per questi pochi le minacce di
rovina».
ADIM. «Quali?».
SOCR. «Quel che è più sorprendente a sentirsi, è che ognuna delle qualità che abbiamo
lodate in questa natura può perdere l’anima che la possiede e distoglierla dalla filosofia:
dico il coraggio, la moderazione, e tutto quanto abbiamo elencato».
ADIM. «Assurdo a udirsi», disse.
SOCR. «E ancora, dissi io, oltre a ciò, [491c] la rovinano e la distolgono tutti quelli che
sono chiamati beni, la bellezza e la ricchezza e la forza del corpo e la forza politica della
famiglia e tutto quanto v’è di simile; capisci certo il tipo di cose cui mi riferisco».
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ADIM. «Capisco, disse; e volentieri sentirei una più precisa spiegazione di ciò che dici».
SOCR. «Considera dunque, io dissi, l’insieme del problema correttamente: al tempo
stesso ti si chiarirà e non ti parrà più assurdo ciò che prima dicevo su quelle cose».
ADIM. «Come devo fare?», chiese.
SOCR. «Sappiamo, [491d] dissi io, che ogni seme o pollone, sia vegetale sia animale,
che non possa avere l’alimento e il clima e il luogo di cui abbisogna, quanto più è forte
tanto più ha bisogno delle molte cose che gli sono necessarie: il male è infatti più
opposto a ciò che è bene, che a ciò che non è bene».
ADIM. «Come no?».
SOCR. «E dunque logico, penso, che la natura migliore, in condizioni di allevamento
non appropriate, risulti peggiore di una mediocre».
ADIM. «Logico».
SOCR. «E allo stesso modo, dissi, non affermeremo, Adimanto, [491e] che anche le
anime per natura più dotate, se tocca loro una cattiva educazione, divengono
straordinariamente cattive? o pensi che le grandi ingiustizie, la malvagità intemperante,
vengano da una natura mediocre e non piuttosto da una vigorosa, rovinata
dall’allevamento, mentre una natura debole non potrà mai essere responsabile né di
grandi beni né di grandi mali?».
ADIM. «No, egli disse, è così».
SOCR. «Se dunque quella che [492a] abbiamo definito come natura del filosofo, penso,
riceve l’insegnamento adatto, perviene di necessità, sviluppandosi, ad ogni forma di
virtù; se invece trae alimento da un ambiente non adatto in cui è stata seminata e
piantata, procede in modo del tutto opposto, a meno che un dio si trovi a soccorrerla.
Oppure ritieni anche tu, come i più, che vi siano alcuni giovani corrotti dai sofisti, e che
certi sofisti corruttori siano individui privati? è questo sospetto degno di menzione, o
non sono piuttosto proprio quelli che fanno simili discorsi i massimi sofisti, [492b] in
grado di fornire la più compiuta educazione, e di conformare al proprio volere giovani e
vecchi, uomini e donne?».
ADIM. «Ma quando?» egli chiese.
SOCR. «Quando, dissi, siedono in massa alle assemblee o ai tribunali o ai teatri o negli
accampamenti o in qualche altra riunione comune di folla, e con gran fragore ora
disapprovano, ora elogiano i discorsi e le azioni, esagerando sia nelle urla di biasimo sia
negli applausi, mentre le pietre stesse e il luogo [492c] in cui stanno fanno loro eco
raddoppiando il fragore del biasimo e della lode. In tale situazione che cuore - secondo
il detto - pensi possa avere il giovane? Quale privata educazione potrebbe resistere in
lui senza venir travolta da un tal flutto di biasimi e di lodi, e non si lascerà trasportare
dove la porta la corrente? non dirà forse che sono belle e brutte le stesse cose che pensa
la folla, e non si darà allo stesso modo di vita, alle stesse loro occupazioni, [492d]
diventando uno dei loro?».
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ADIM. «È davvero necessario, Socrate» egli disse.
SOCR. «Eppure, io dissi, non abbiamo ancora parlato della necessità più grande».
ADIM. «Quale?», disse.
SOCR. «Quella che aggiungono con i fatti, quando non riescono a convincere con le
parole, questi educatori e sofisti: o forse non sai che chi non si lascia convincere lo
puniscono con la privazione dei diritti, con le confische, con le condanne a morte?».
ADIM. «Certo, lo so bene».
SOCR. «E credi che vi sia qualche altro sofista, o qualche privata argomentazione che
possano prevalere opponendosi a tutti costoro?».
ADIM. «Penso nessuno», [492e] disse.
SOCR. «No, infatti, dissi io, e perfino il tentarlo è grande follia. Non c’è, non c’è mai
stato né mai ci sarà un carattere che si differenzi e si rivolga alla virtù, perché è stato
educato in modo contrario all’educazione di costoro, s’intende un carattere umano,
amico mio: un carattere divino, secondo il detto, lasciamolo fuori dal discorso; giacché
bisogna ben sapere che se qualcosa si salva e diventa come si deve in un siffatto
ordinamento costituzionale [493a] non ti sbaglierai dicendo che è stato un favore divino
ad averlo salvato».
ADIM. «È esattamente il mio parere», disse.
SOCR. «E dunque, dissi io, dovrai condividere anche quest’altra cosa».
ADIM. «Quale?».
SOCR. «Tutti i privati insegnanti a pagamento, che questi chiamano sofisti e che
ritengono loro rivali nell’educazione, null’altro insegnano se non precisamente le
opinioni della folla stessa, che vengono espresse quando si riunisce in massa, ed è
questo che essi chiamano sapere. Essi si comportano esattamente come chi, addetto
all’allevamento di un grande e vigoroso animale, ne apprendesse gli impulsi e i desideri,
[493b] il modo in cui bisogna avvicinarlo e toccarlo, i momenti e le cause di ferocia e
di mitezza, i suoni che è solito emettere nelle varie circostanze, e ancora quali suoni da
altri pronunciati lo calmino e lo irritino; e una volta appreso tutto questo per
l’esperienza di una lunga consuetudine, lo chiamasse sapere, e, facendone una tecnica
sistematica, lo trasformasse in materia d’insegnamento, nulla sapendo in verità di
quanto in tali opinioni e desideri vi sia di bello o di brutto, di buono o di cattivo, di
giusto o di ingiusto, ma attribuendo queste denominazioni [493c] sulla base dei pareri
del grande animale, sì da chiamar beni le cose di cui quello si rallegra, mali quelle di cui
si infastidisce: e non ha alcun’altra giustificazione per questi giudizi, bensì chiama
giusto e bello quel ch’è necessario, giacché quanto in realtà differisca la natura del
necessario da quella del buono, né l’ha osservato né è in grado di mostrano ad altri. Un
tal uomo, per Zeus, non ti sembra essere un educatore ben strano?».
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ADIM. «A me sì», disse.
SOCR. «Ti sembra dunque che vi sia qualche differenza [493d] fra costui e chi ritiene
che il sapere consiste nell’aver compreso gli impulsi e i piaceri di una folla eterogenea
riunita a giudicare di pittura o di musica o di politica? Ché infatti, se qualcuno entra in
contatto con essa, per sottoporre un poema o un’altra opera d’arte o un programma
politico, asservendosi alla moltitudine oltre lo stretto indispensabile, c’è una necessità
detta “diomedea” a costringerlo a fare tutto ciò che questa approverà: che poi quanto
essa approva sia veramente buono e bello, hai mai sentito qualcuno di loro darne una
giustificazione [493e] men che ridicola?».
ADIM. «Penso addirittura, egli disse, che non ne sentirò mai».
SOCR. «Ponendo dunque mente a tutto questo, ricordi31 quel punto importante: c’è
modo di far sì che la folla ammetta o ritenga che vi è il bello in sé, [494a] ma non le
molte cose belle, e così ognuna delle essenze ma non la molteplicità delle singole
cose?».
ADIM. «Proprio no», disse.
SOCR. «È dunque impossibile, dissi io, che la folla sia filosofa».
ADIM. «Impossibile».
SOCR. «Perciò è necessario che chi fa filosofia sia disprezzato da essa».
ADIM. «Necessario».
SOCR. «E anche da quei privati individui, che avendo commercio con la massa,
desiderano piacerle».
ADIM. «Chiaro».
SOCR. «In questa situazione, vedi tu una salvezza per la natura filosofica, sì che possa
perseverare nella propria via e portarla a compimento? Giudica secondo le premesse che
abbiamo poste. [494b] Si è convenuto che la facilità ad apprendere, la buona memoria,
il coraggio, la magnanimità sono proprie di questa natura».
ADIM. «Sì».
SOCR. «E un tal uomo non sarà forse, fin da bambino, il primo fra tutti, soprattutto se il
suo corpo risulta naturalmente adeguato alla sua anima?».
ADIM. «E come potrebbe non esserlo?», disse.
SOCR. «Vorranno dunque, credo bene, i suoi familiari e i suoi concittadini, servirsi di
lui per i propri affari, una volta che si sia fatto adulto».
ADIM. «Come no?».
SOCR. «Si inchineranno [494c] dunque davanti a lui, pregandolo e riverendolo,
tentando di ingraziarsi e di adulare fin d’ora la sua futura potenza».
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ADIM. «Proprio questo, disse, suole accadere».
SOCR. «Che dunque pensi farà in tali circostanze un tal uomo, dissi io, soprattutto se ti
trovi a vivere in una grande città e in essa sia ricco e nobile, e in più bello e grande
d’aspetto? non sarà forse colmo di smisurate speranze, immaginandosi in futuro capace
di governare gli affari e dei Greci [494d] e dei barbari, e su tali basi si esalterà pieno di
false pretese e irragionevoli progetti?».
ADIM. «Certo», disse.
SOCR. «E se a chi si trova in tale stato d’animo qualcuno, avvicinandoglisi quietamente,
dicesse la verità: che la ragione l’ha abbandonato e tuttavia egli ne ha bisogno, ma non
la si riconquista se non ponendosi come uno schiavo al servizio di questa stessa
conquista, - pensi che sarebbe per lui cosa facile, in mezzo a tanti mali, prestare
orecchio a questo discorso?».
ADIM. «Tutt’altro», egli disse.
SOCR. «Se tuttavia, dissi, grazie alla sua buona natura e alla sua affinità a tali discorsi,
ne venga colpito [494e]e sia richiamato e attratto verso la filosofia, che pensiamo
faranno quelli che ritengono così perduta l’utilità della sua alleanza? Non tenteranno
ogni sforzo, ogni discorso, sia nei suoi riguardi, perché non si lasci convincere, sia nei
riguardi del suo consigliere, perché non vi riesca, con private macchinazioni e [495a]
con pubblici processi intentati contro di lui?».
ADIM. «È del tutto necessario», disse.
SOCR. «C’è dunque modo che egli si dia alla filosofia?».
ADIM. «No, affatto».
SOCR. «Vedi dunque, io dissi, che non sbagliavamo dicendo che le qualità stesse che
compongono la natura del filosofo, quando siano sottoposte a un cattivo allevamento,
sono responsabili in qualche modo del suo distogliersi da questo modo di vita, insieme
con i cosiddetti beni, la ricchezza cioè e le altre simili doti».
ADIM. «Non sbagliavamo infatti, disse, anzi, lo si diceva correttamente».
SOCR. «Questa, dissi, nobile amico, è la rovina, così [495b] grande e così grave è la
corruzione della natura migliore in rapporto alla più elevata forma di vita, una natura
che del resto raramente compare, come noi abbiamo detto. Fra questi uomini sorgono
coloro che procurano alle città e ai privati cittadini i mali più grandi, o anche i beni più
grandi, quando la sorte li volga in questa direzione; una natura meschina, invece, nulla
di grande realizza mai né per i privati né per la città».
ADIM. «Verissimo», egli disse.
SOCR. «Questi uomini, dunque, così decaduti [495c] da ciò che loro più conveniva, e
lasciata la filosofia solitaria e zitella, vivono essi stessi una vita non degna di loro e
falsa; la filosofia intanto, quasi orfana della sua famiglia, viene disonorata da altri che
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indegnamente subentrano presso di lei, attirandole quel biasimo che, come anche tu
dicevi, le rivolgono quelli che la biasimano, dicendo che fra quanti le si sono uniti
alcuni non hanno alcun merito, altri, i più, meriterebbero invece i mali peggiori».
ADIM. «Questo infatti, disse, è proprio quel che si dice».
SOCR. «Ed è plausibile che lo si dica, io dissi. Certi altri omiciattoli, infatti, vedendo
che il luogo è rimasto vuoto, [495d] e ricco tuttavia di begli appellativi e di prestigio,
come gli evasi si rifugiano nei templi, così anch’essi smaniano di abbandonare le loro
tecniche per la filosofia, loro che pur si trovano a essere assai abili nel proprio piccolo
mestiere. Rispetto alle altre tecniche infatti la filosofia, pur così mal ridotta, mantiene
tuttavia un prestigio altissimo, cui aspirano molti che da un lato sono di natura
imperfetta, dall’altro, a causa dell’esercizio delle tecniche e dei mestieri sono deformati
nel corpo[495e] e al tempo stesso si ritrova no anche con l’anima mutilata e avvilita dai
lavori manuali. Non è forse inevitabile?».
ADIM. «Certamente», disse.
SOCR. «Ti par dunque a vederli, dissi io, che vi sia qualche differenza fra costoro e un
piccolo fabbro calvo, che ha fatto un po’ di soldi, e, liberatosi appena dal vincolo
servile, e dalla sporcizia nel bagno pubblico, indossa un mantello nuovo di zecca, si
acconcia come uno sposo novello, e si prepara a sposare la figlia del padrone,
profittando [496a] della sua povertà e della sua solitudine?».
ADIM. «Non c’è molta differenza», disse.
SOCR. «E che prole possono mai generare tali genitori? non sarà bastarda e meschina?».
ADIM. «Del tutto necessario».
SOCR. «E allora? da questi uomini indegni di educazione, che si sono avvicinati alla
filosofia e le si sono uniti senza esserne degni, quale prole di pensieri e di opinioni
diremo possa venire generata? non saranno forse sofismi, come in verità conviene siano
chiamati, e nulla di nobile, nulla che abbia rapporto con il pensiero vero?» .
ADIM. «Assolutamente», disse.
SOCR. «Ben piccolo dunque, Adimanto, dissi io, resta [496b] il numero di coloro che si
uniscono degnamente alla filosofia: forse qual che carattere nobile e ben coltivato, che
l’esilio trattiene lontano e che, per mancanza di corruttori, può seguire la sua natura e
restarle fedele, o qualche anima grande che è nata in una piccola città, e sdegnando
perciò gli affari pubblici, se ne disinteressa; o ancora quei pochi uomini ben nati che
abbandonano le loro tecniche, giustamente disprezzandole, e si danno alla filosofia. C’è
poi anche quel freno che forse altri può trattenere al pari del nostro compagno Teage:
[496c] tutto infatti è stato messo in opera per distogliere Teage dalla filosofia, ma la
cura del suo corpo malato, allontanandolo dagli affari politici, ve lo trattiene. Per quanto
riguarda poi il mio segno demonico, non vale la pena di parlarne: a pochi o nessuno è
capitato prima di me. Chi comunque è entrato in questa piccola schiera e ha gustato
quanto dolce e beato sia questo possesso, osservata poi bene la follia dei più, e che non
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v’è nessuno che dia per così dire un sano apporto agli affari della città, né vi sono alleati
[496d] con i quali accorrere in difesa della giustizia e col cui appoggio salvarsi, bensì come un uomo imbattutosi in un branco di fiere che non vuole condividerne l’ingiustizia
né può da solo resistere a tutte le belve - c’è il rischio di perire, risultando inutile a sé e
agli altri, prima ancora d’aver giovato in qualcosa alla città e agli amici: avendo
riflettuto su tutto questo, egli resta inattivo e attende alle proprie cose, come se in una
bufera si riparasse dietro un muretto39 dalla polvere e dalla pioggia portate dal vento, e
vedendo gli altri traboccare di illegalità,si ritiene contento di poter vivere almeno la
propria vita quaggiù puro d’ingiustizia [496e] e di azioni empie, e alla sua fine potrà
lasciarla, accompagnato da una bella speranza, con l’animo sereno e disteso[497a]».
ADIM. «Non è davvero poco, egli disse, quello che avrebbe ottenuto prima di
andarsene».
SOCR. «Ma neppure, dissi, il massimo, perché non gli è toccata una città adatta a lui: in
una adatta egli stesso avrebbe eccelso e avrebbe salvato, insieme con il proprio, anche il
bene comune. Quanto dunque ai motivi delle accuse rivolte contro la filosofia, e alla
loro ingiustizia, mi sembra se ne sia discusso a sufficienza, a meno che tu non voglia
aggiungere qualcos’altro».
ADIM. Nulla mi resta da dire, rispose, su questo argomento; ma quale delle attuali
costituzioni tu pensi si adatti alla filosofia?».
SOCR. «Neppure [497b] una, dissi, ed è proprio questo che critico, che nessuno degli
attuali ordinamenti politici sia degno di una natura filosofica: appunto perciò essa ne
viene distorta e alterata; come un seme straniero seminato in una terra che non gli è
propria, suol perdere, vinto dall’azione di quella, le sue proprietà e si adatta
all’ambiente locale, così anche questo genere di uomini oggi non conserva le sue
facoltà, ma finisce per assumere un carattere estraneo. Ma se raggiungerà la costituzione
migliore, [497c] così come anch’esso è il migliore, allora si farà chiaro che esso era
realmente divino, tutto il resto invece - e natura e modi di vita - umano. E chiaro che a
questo punto mi domanderai quale sia questa costituzione».
ADIM. «T’inganni, disse: non questo stavo per chiederti, bensì se essa fosse proprio
quella che abbiamo analizzato fondando la nostra città, o diversa».
SOCR. «Per ogni rispetto è quella, dissi io, ma c’è un punto di cui del resto anche allora
si è parlato, e cioè che vi dovrà sempre essere nella città una qualche autorità che
conservi il senso della costituzione [497d], quello stesso che anche tu, legislatore, hai
seguito quando istituivi le leggi».
ADIM. «Infatti se n’è parlato», disse.
SOCR. «Ma non è stato sufficientemente chiarito, dissi, per timore delle vostre
obiezioni, con le quali avete mostrato che la trattazione di questo argomento sarebbe
stata lunga ed ardua; d’altronde quel che ci resta non è la cosa più facile da esaminare».
ADIM. «Ma che cosa?».
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SOCR. «In qual modo la città debba trattare la filosofia per non cadere in rovina. Tutte
le cose grandi sono infatti rischiose, e in realtà, come si dice, il bello [497e] è difficile».
ADIM. «Comunque, disse, la dimostrazione dev’essere portata a termine mettendo in
chiaro questo problema».
SOCR. «Se qualcosa me lo impedirà, io dissi, non sarà la mancanza di volontà, semmai
quella di capacità: ma tu sarai testimone almeno del mio zelo. Osserva fin d’ora con
quale decisione e con quale sprezzo del pericolo mi accingo a dire, che la città deve
trattare questo modo di vita nel modo opposto a quello attualmente seguito».
ADIM. «E come?».
SOCR. «Attualmente, dissi, anche quelli che vi si accostano sono adolescenti, appena
[498a] usciti dalla fanciullezza e in attesa di affrontare l’economia e gli affari, e se ne
allontanano dopo aver ne avvicinata la parte più difficile; e proprio questi sono
considerati filosofi espertissimi (la parte più difficile, intendo, è quella relativa alla
dialettica); in seguito, se accettano l’invito di ascoltare qualcun altro che tratti di questi
argomenti, credono di aver fatto già molto, convinti che la filosofia vada praticata come
un interesse collaterale. Giunti poi alla vecchiezza, a eccezione di pochi, si spengono
ancor più[498b] del Sole eracliteo, tanto che non si riaccendono più».
ADIM. «Come fare invece?», disse.
SOCR. «Tutto il contrario. Gli adolescenti e i ragazzi devono ricevere un’educazione e
un insegnamento filosofico adeguati all’età, e soprattutto prendersi buona cura del loro
corpo, nel momento in cui si sviluppa e si fa uomo, per farne uno strumento atto alla
filosofia; quando poi l’età sia giunta al momento in cui l’anima si avvia alla sua
maturità, devono rendere più intensi gli esercizi dell’anima stessa; una volta infine
declinate le forze, e abbandonate quindi le attività politiche e militari, allora li si lasci
pascolare in libertà [498c] senza aver nient’altro cui attendere, se non compiti
marginali, così che vivranno felicemente e che, giunti alla fine, otterranno lassù una
sorte degna della vita che hanno vissuto».
ADIM. «Davvero mi sembra, disse, che tu abbia parlato con impegno, Socrate: penso
però che la maggior parte dei tuoi ascoltatori ti si opporrà con impegno ancora
maggiore, e in nessuno modo si lascerà convincere, Trasimaco in testa»?
SOCR. «Non cercare di mettermi contro Trasimaco, io dissi, ora che siamo appena
diventati amici, senza peraltro che fossimo prima [498d] nemici. Non risparmieremo in
effetti alcuno sforzo finché saremo riusciti a convincere lui e gli altri, o almeno avremo
fatto qualcosa di utile in vista di quell’altra vita, quando, nati di nuovo, ancora
s’imbattano in simili discussioni».
ADIM. «Davvero di un rinvio a breve tempo stai parlando», disse.
SOCR. «A niente, dissi, almeno in rapporto alla totalità del tempo. Che d’altra parte i
più non siano persuasi dai nostri discorsi non fa alcuna meraviglia: mai hanno visto
realizzato ciò che ora si è detto, ma assai più hanno assistito alla artificiosa elaborazione
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di consonanze reciproche [498e] fra espressioni di questo genere, non come ora
spontaneamente combinatesi. Un uomo però che mostri similitudine e consonanze con
la virtù, sia nelle azioni sia nei discorsi, fino al limite della possibile perfezione, e che
detenga il potere in una città a sua volta così virtuosa, [499a] essi non l’hanno mai visto,
né una né molte volte. Non credi?».
ADIM. «Mai certamente».
SOCR. «E neppure essi, mio felice amico, hanno a sufficienza ascoltato belle e nobili
discussioni, in cui si cerca la verità con ogni sforzo e in ogni modo, con il solo scopo
della conoscenza, mentre si dà un addio alle sottigliezze eristiche che a null’altro
tendono se non all’opinione e alla disputa, sia nei tribunali sia nel le riunioni private».
ADIM. «Neppure queste», [499b] disse.
SOCR. «In vista di tutto questo, io dissi, e pur prevedendo fin d’allora queste temibili
difficoltà, tuttavia, costretti dalla verità stessa, abbiamo affermato che né la città, né la
costituzione, e neppure un uomo raggiungeranno mai la loro perfezione, prima che quei
pochi filosofi, che ora sono definiti non malvagi ma inutili, siano investiti, per una
fortuita necessità, della cura della città, che lo vogliano o no, e prima che la città stessa
si sottometta loro; oppure prima che per una qualche ispirazione divina sorga nei figli di
quelli che oggi detengono il potere o il regno, o in loro stessi, un vero amore [499c] per
la vera filosofia. Dire che è impossibile che si realizzi una di queste due possibilità o
entrambe, io affermo esser privo di ogni razionale giustificazione. Se così fosse,
saremmo giustamente derisi, per ché non faremmo che parlare di pii desideri. Non è
così?».
ADIM. «Proprio così».
SOCR. «Se però è accaduto nell’infinito tempo passato, o anche oggi accade in qualche
regione barbarica a [499d] noi ignota per la sua lontananza, oppure se accadrà nel futuro
che una qualche necessità induca chi eccelle nella filosofia a prendersi cura di una città,
allora siamo pronti a sostenere nella discussione che quando questa Musa domini in una
città, la costituzione da noi descritta è esistita o esiste o almeno esisterà. Non è infatti
impossibile che essa si realizzi, e noi non andiamo dicendo cose impossibili: difficili sì,
di questo anche noi conveniamo».
ADIM. «Sono anch’io, disse, dello stesso parere».
SOCR. «Ma affermerai, dissi io, che i più invece non sono di questo parere?».
ADIM. «Forse», disse.
SOCR. «Mio felice amico, dissi, non accusare [499e] fino a questo punto la
moltitudine. Cambierà di certo parere, se tu, senza ostilità ma con pacati ragionamenti,
la libererai dei pregiudizi contro l’amore per il sapere, le mostrerai chi siano quelli che
chiami filosofi, e definirai come poco fa la [500a] loro natura e il loro modo di vita,
perché non creda che tu ti riferisca a quelli che essa considera tali se saranno visti in
questa luce, dovrai allora ammettere che la folla cambierà opinione e ti darà altre
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risposte. O credi che ci si possa adirare contro chi non è adirato o provare malevolenza
verso chi non ne prova, quando non si è malevoli, anzi miti? Io, anticipandoti, affermo
di ritenere che una natura così maldisposta può forse riscontrarsi in qualcuno, ma non
nella moltitudine».
ADIM. «Anch’io, disse, non ho difficoltà a convenirne».
SOCR. «Converrai dunque [500b] anche su questo, che della cattiva disposizione della
folla verso la filosofia sono responsabili quegli intrusi che vi hanno fatto
indecentemente irruzione, che si in sultano e si detestano reciprocamente, e che, facendo
sempre vertere i loro discorsi intorno alle persone, si comportano come meno si addice
alla filosofia».
ADIM. «Certo», disse.
SOCR. «Non c’è neppure tempo, Adimanto, per chi ha veramente il pensiero rivolto a
ciò che è, di guardare giù [500c] alle faccende degli uomini, e di far loro guerra
riempiendosi di malevolenza e di avversione; ma vedendo e contemplando realtà
ordinate e sempre invariate nella loro identità, che non commettono né subiscono
reciprocamente ingiustizia, bensì sono tutte disposte secondo un ordine razionale,
queste si imitano e a esse si cerca il più possibile di assomigliare; o pensi sia possibile
che non si cerchi di imitare ciò cui si è legati da ammirazione?».
ADIM. «Impossibile», disse.
SOCR. «Il filosofo dunque, che ha rapporto con ciò che è [500d] divino e ordinato,
diventa egli stesso divino e ordinato per quanto a un uomo è concesso, benché
dappertutto gli vengano rivolte accuse».
ADIM. «Assolutamente».
SOCR. «Se dunque, dissi, una qualche necessità lo inducesse a tentare di trasporre nei
costumi pubblici e privati degli uomini quell’ordine che egli vede lassù, anziché
plasmare soltanto se stesso, pensi forse che egli diverrebbe un cattivo artefice di
moderazione e di giustizia e di ogni pubblica virtù?».
ADIM. «Tutt’altro», egli disse.
SOCR. «Ma allora, se la moltitudine si accorgerà che diciamo il vero su di lui, sarà
maldisposta verso i filosofi [500e] e diffiderà di noi quando affermiamo che in nessun
modo una città potrebbe esser felice, se non è stata disegnata da questi pittori che si
valgono di un modello divino?».
ADIM. «Non sarà maldisposta, disse, [501a] almeno se potrà accorgersene. Ma che tipo
di disegno intendi?».
SOCR. «Prendendo, io dissi, città e costumi degli uomini quasi fossero una tavola,
prima di tutto la ripuliranno, il che non è certo facile. Sappi comunque che già in questo
differirebbero dagli altri, che cioè non accetterebbero di occuparsi né di un singolo né di
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una città, e di scriverne le leggi, se non lo ricevessero già ripulito o non lo rendessero
essi stessi tale».
ADIM. «E sarebbe corretto», disse.
SOCR. «E dopo questo, non pensi che abbozzerebbero lo schema della costituzione?».
ADIM. «Che altro?».
SOCR. «In seguito, penso, [501b] perfezionandola, rivolgeranno frequentemente lo
sguardo in entrambe le direzioni, da un lato verso ciò che per natura è giusto, bello,
moderato e così via, dall’altro su ciò che possono realizzarne tra gli uomini, mescolando
e impastando le varie forme di vita per ottenerne un colorito umano, trovandone i segni
in quel che lo stesso Omero chiamava, quando esso appare tra gli uomini, aspetto e
sembianza divina
ADIM. «Correttamente», disse.
SOCR. «E questo, penso, cancelleranno, quest’altro aggiungeranno, finché avranno reso,
per quanto è concesso, i [501c] costumi umani il più possibile graditi agli dèi».
ADIM. «Bellissimo certamente sarebbe, disse, un tale dipinto».
SOCR. «E riusciamo allora, dissi io, in qualche modo a convincere coloro che tu dicevi
pronti ad assalirci con tutte le forze, che è un tale pittore di costituzioni quello che allora
elogiavamo contro il loro parere, e al quale volevamo affidare la città suscitando la loro
ira? Ascoltandolo ora, non sono forse diventati un po’ più miti?».
ADIM. «Anzi parecchio, egli disse, se hanno senno».
SOCR. «Quali obiezioni, [501d] in effetti, potranno rivolgerci? forse che i filosofi non
sono amanti dell’essere e della verità?».
ADIM. «Sarebbe assurdo», disse.
SOCR. «O che la loro natura, quale l’abbiamo descritta, non è affine al meglio?».
ADIM. «Neppure questo».
SOCR. «Che altro? che una tal natura, se trova un adatto modo di vita, non potrà essere
quant’altra mai perfettamente buona e filosofica? diranno forse che lo sarebbero di più
coloro che noi abbiamo esclusi?».
ADIM. «Certo [501e] no».
SOCR. «Si irriteranno dunque ancora quando noi diciamo che prima che la razza dei
filosofi non assumerà il potere nella città, non vi sarà né per la città né per i cittadini
sollievo ai propri mali, e neppure sarà compiutamente realizzata la costituzione che
abbiamo raccontata nel nostro discorso?»
ADIM. «Forse si irriteranno di meno», disse.
PLATONE, La Repubblica, libro VI. II PARTE (490e – 502c )
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SOCR. «Vuoi dunque, dissi io, che non parliamo di “meno” ma diciamo che essi si sono
fatti del tutto miti e persuasi, [502a] in modo che siano d’accordo se non altro per
pudore?».
ADIM. «Senz’altro», disse.
SOCR. «Siano dunque costoro, ripresi, convinti di tutto ciò; ma qualcuno vorrà forse
sostenere contro di noi quest’altro punto, che non possano nascere figli di re o di potenti
dotati di una natura filosofica?».
ADIM. «Nessuno lo potrebbe», disse.
SOCR. «Può forse qualcuno affermare che, pur essendo di tal natura, è del tutto
necessario che essi si corrompano? che difficilmente possano salvarsi, anche noi lo
ammettiamo: ma che in tutto il corso del tempo [502b] fra tutti mai neppure uno si
possa salvare, chi potrà sostenerlo?».
ADIM. «E come si potrebbe?».
SOCR. «E allora, io dissi, basta che ne compaia uno, alla testa di una città obbediente,
perché giunga a compimento tutto ciò che oggi sembra incredibile».
ADIM. «Basterebbe in effetti», disse.
SOCR. «E se c’è al potere un uomo, io dissi, che stabilisca le leggi e le forme di vita che
abbiamo descritte, non è certo impossibile che i cittadini accettino di seguirlo».
ADIM. «Tutt’altro».
SOCR. «E del resto, quel che noi approviamo è così strano da rendere impossibile che
altri lo condividano?»
ADIM. «Non credo proprio», [502c] egli disse.
SOCR. «Che la nostra costituzione sia la migliore, a condizione che sia possibile, credo
che lo si sia prima adeguatamente chiarito»
ADIM. «Infatti».
SOCR. «Ora, a quanto sembra, possiamo concludere circa la legislazione che le norme
che abbiamo enunciate, se realizzabili, sono le migliori, e che sono di difficile
realizzazione, non però impossibili».
ADIM. «Questo si può infatti concludere», disse.