I COLLOQUI VISIVI E LA
CORRISPONDENZA TELEFONICA DEI
DETENUTI E DEGLI INTERNATI
Giuseppe Melchiorre Napoli
INDICE
CAPITOLO PRIMO
LA DISCIPLINA NORMATIVA COMUNE
1. Le norme e i principi
2. I soggetti legittimati
3. Accertamento della parentela e della convivenza
4. Le autorità competenti
5. La tutela giurisdizionale
pag.
2
5
12
16
25
CAPITOLO SECONDO
I COLLOQUI VISIVI
1. Soggetti legittimati e autorità competenti
2. La frequenza dei colloqui visivi
3. Modalità di svolgimento del colloquio
4. La disciplina derogatoria dell’art. 41 bis
5. Cenni sulle altre tipologie di colloquio
28
29
35
38
40
CAPITOLO TERZO
LA CORRISPONDENZA TELEFONICA
1. Il provvedimento di autorizzazione
2. Frequenza e durata dei colloqui telefonici
3. Modalità di svolgimento
4. La disciplina derogatoria dell’art.41 bis
5. La corrispondenza telefonica con il difensore
6. I permessi premio in forma di telefonata
43
45
48
53
54
56
CAPITOLO QUARTO
I COLLOQUI VISIVI E LA CORRISPONDENZA TELEFONICA
DEI COLLABORATORI CON LA GIUSTIZIA
1. Le fonti normative e i principi
2. I colloqui visivi e le telefonate
58
59
CAPITOLO PRIMO
LA DISCIPLINA NORMATIVA COMUNE
Sommario. 1 Le norme e i principi: 1.1 Colloqui visivi e principi costituzionali; 1.2
Corrispondenza telefonica e principi costituzionali; 1.3 Questioni interpretative comuni. 2 I
soggetti legittimati: 2.1 Le fonti normative; 2.2 I congiunti e i familiari; 2.3 I conviventi;
2.4 Le altre persone ed i ragionevoli motivi. 3 Accertamento della parentela e della
convivenza: 3.1 Le dichiarazioni sostitutive; 3.2 La circolare D.A.P. n. 33306 del 24 aprile
2001; 3.3 Gli stranieri. 4 Le autorità competenti: 4.1 Attribuzione dei poteri di
autorizzazione; 4.2 Sino alla pronuncia della sentenza di primo grado; 4.3 Dopo la
pronuncia della sentenza di primo grado; 4.4 Dopo la sentenza definitiva; 4.5 La forma e
l’efficacia del provvedimento. 5 La tutela giurisdizionale: 5.1 La tutela dei diritti dei
ristretti; 5.2 La sentenza delle Sezioni Unite n. 25079 del 2003: il reclamo al magistrato di
sorveglianza.
1. LE NORME E I PRINCIPI
1.1 COLLOQUI VISIVI E PRINCIPI COSTITUZIONALI
I colloqui visivi e la corrispondenza telefonica dei detenuti e degli internati, con i
familiari, i conviventi e le altre persone, sono disciplinati dall’art. 18 O.P.1e dagli
articoli 37 e 39 reg. es.2. Con riferimento ai colloqui visivi con il coniuge, i parenti e
gli affini, si rileva, in modo corretto, che le norme tutelano il diritto della persona
reclusa di mantenere proficue relazioni familiari. Diritto che, stante la rilevanza
costituzionale3, non può essere negato e, semmai, può essere limitato, ricorrendo
“altri interessi costituzionalmente garantiti”4. Nondimeno, la negazione di tale diritto
si porrebbe in contrasto con il senso d’umanità che deve presidiare l’esecuzione delle
1
Legge n. 354, 26 luglio 1975, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà.
2
D.P.R. n. 230, 30 giugno 2000, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle
misure privative e limitative della libertà.
3
Articoli 29, 30, 31 Costituzione. I principi costituzionali sono ribaditi da numerose norme
sull’ordinamento penitenziario, si pensi agli articoli 28 e 45 O.P. ed a tutte le disposizioni di legge che
legano la concessione di determinati benefici penitenziari alla sussistenza di particolari situazioni
familiari.
4
Nel sistema normativo, sono rinvenibili tre diverse tipologie di limitazioni, relative: ai soggetti
(familiari) da ammettere ai colloqui visivi, alla frequenza e alle modalità di svolgimento dell’incontro.
Il primo tipo di limitazione, ad esempio, può essere disposto con il provvedimento del D.A.P. che
applica il regime di sorveglianza particolare, le cui restrizioni possono riguardare anche i colloqui
visivi con i familiari, dovendosi salvaguardare, sempre e soltanto, i colloqui con il coniuge, il
convivente, i figli, i genitori e i fratelli (art. 14 quater, comma III, O.P.). In ordine alla frequenza dei
colloqui, invece, un regime restrittivo è introdotto nei confronti dei detenuti per uno dei reati previsti
dal primo periodo dell’art. 4 bis O.P., per i quali operi il divieto di concessione dei benefici
penitenziari (art. 37, comma VIII, reg. es.), e per i reclusi sottoposti al regime carcerario regolato
dall’art. 41 bis O.P. Norma, questa, che introduce anche una deroga all’ordinaria disciplina sulle
modalità di svolgimento del colloquio visivo.
2
pene detentive (art. 27, comma III, Cost.)5. Per tale motivo, la legge non attribuisce,
alle autorità competenti, un potere discrezionale di autorizzazione, stabilendo che “i
detenuti e gli internati sono (anziché, “possono essere”) ammessi ad avere colloqui
con i congiunti” (art. 18, comma I, O.P.).
La disciplina dei colloqui visivi, però, trova fondamento costituzionale anche nel
principio rieducativo, sancito dall’art. 27, comma III. La rieducazione (quale fine
tendenziale della pena), difatti, si attua attraverso lo svolgimento di un trattamento
che si avvale, principalmente, dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività
culturali, ricreative e sportive e che mira ad agevolare i contatti con il mondo esterno
e i rapporti con la famiglia (art. 15 O.P.). La concreta realizzazione di questi
“elementi del trattamento” può richiedere che il condannato o l’internato entri in
contatto con persone diverse dagli operatori penitenziari o dai congiunti e dai
conviventi, da autorizzare ai sensi dell’art. 18 O.P. e dell’art. 37, comma I, reg. es. In
tali casi, dunque, il legislatore riconosce un diritto ai colloqui, intaccabile soltanto
per salvaguardare altri valori costituzionalmente garantiti6.
Ad ogni modo, la materia dei colloqui visivi dovrebbe essere in linea anche con i
principi costituzionali, posti a tutela della libertà e della segretezza di ogni forma di
comunicazione (art. 15 Cost.). Sotto tale profilo, pero, l’attribuzione del potere di
autorizzazione ad un’autorità amministrativa (limitatamente alla fase processuale
successiva alla pronuncia della sentenza di primo grado7), da esercitare secondo i
criteri indicati da una fonte normativa subordinata8, si pone in contrasto con la regola
secondo la quale soltanto l’autorità giudiziaria può, con atto motivato e con le
garanzie stabilite dalla legge, limitare l’esercizio del diritto all’inviolabilità di ogni
forma di comunicazione.
1.2 CORRISPONDENZA TELEFONICA E PRINCIPI COSTITUZIONALI
Se i principi costituzionali, posti a tutela della famiglia e dei minori, trovano
attuazione anche attraverso le norme sull’ordinamento penitenziario che garantiscono
il diritto inviolabile del ristretto di fruire di periodici colloqui visivi con i familiari,
invece, nelle intenzioni del legislatore, il diritto dei detenuti di intrattenere
corrispondenza telefonica con i congiunti non sembra riconosciuto a garanzia delle
5
Il diritto del ristretto di fruire di colloqui visivi, con i familiari, deve essere garantito anche
nell’ipotesi di applicazione della sanzione disciplinare dell’esclusione dalle attività in comune (articoli
33, n. 2, e 39, comma I, O.P.).
6
Il diritto del ristretto di fruire di colloqui visivi, con persone diverse dai congiunti e dai conviventi,
può essere negato, qualora: a) nelle ipotesi ordinarie, non sia giustificato da “ragionevoli motivi” (art.
37, comma I, reg. es.); b) nel regime derogatorio, ex art. 41 bis O.P., non ricorrano “casi eccezionali”
(art. 41 bis, comma II quater, lett. b, O.P.); c) nel regime di sorveglianza particolare, ex art. 14 bis
O.P., in tal modo sia disposto dal D.A.P. (art. 14 quater, comma III, O.P.).
7
Articolo 18, comma VIII, ultima parte, O.P.
8
Articolo 37, D.P.R. n. 230 del 2000.
3
relazioni familiari, bensì, in un’esclusiva prospettiva di rieducazione (art. 27, comma
III, Cost.) e, per gli indagati e gli imputati, a tutela di particolari esigenze personali.
Di conseguenza, tale diritto potrebbe essere negato qualora, in concreto, il suo
esercizio non avesse alcuna valenza trattamentale o fosse in contrasto con altri valori
costituzionalmente tutelati (si pensi, alle esigenze di cautela, legate ai procedimenti
penali in corso, a quelle di prevenzione e di repressione dei reati o di tutela
dell’ordine e della sicurezza degli istituti penitenziari). A confortare tale conclusione,
vi sarebbe la stessa formulazione letterale dell’art. 18, comma V, O.P. che riconosce,
all’autorità competente, un potere decisionale di natura discrezionale, stabilendo che
“può essere” (anziché “è”) autorizzata nei rapporti con i familiari corrispondenza
telefonica”9. Tuttavia, introdotto tale potere discrezionale, sarebbe stato opportuno
che il legislatore ne avesse indicato anche i criteri di esercizio (in ossequio all’art. 15
Cost.) e non si fosse limitato ad un generico rinvio alla disciplina regolamentare10.
Ad una diversa conclusione si potrebbe giungere, qualora si accogliesse la tesi
secondo la quale il diritto delle persone recluse di intrattenere corrispondenza
telefonica, con i congiunti, sarebbe pur sempre espressione dei principi fondamentali
dell’ordinamento, che tutelano, da una parte, le relazioni familiari e i minori e,
dall’altra, la libertà di comunicazione. Attraverso un’interpretazione
costituzionalmente orientata delle norme che regolano la materia, dunque, si
dovrebbe affermare che la corrispondenza telefonica con i familiari non potrebbe mai
essere negata (escludendosi ogni potere discrezionale) e, semmai, potrebbe essere
limitata, ricorrendo altri valori tutelati dalla Costituzione11. Mentre, ad una
9
Nell’ambito di tale discrezionalità, dall’art. 18, comma V, O.P., emerge, comunque, un favor
familiae, che trova ulteriore conferma nella disciplina dettata dall’art. 39, comma II, reg. es. (in tal
senso, circolare D.A.P. n. 3478, 8 luglio 1998, in tema di “Riordino e chiarimento del regime dei
colloqui e della corrispondenza telefonica). In particolare, le due norme distinguono la corrispondenza
telefonica diretta ai familiari (art. 18 O.P.) e ai conviventi (art. 39 reg. es.) da quella diretta ai terzi,
diversi dai congiunti e dai conviventi, richiedendosi soltanto per questi ultimi la sussistenza di
ragionevoli e verificati motivi ai fini dell’autorizzazione (art. 39 reg. es.). Inoltre, sempre in base
all’art. 39 reg. es., possono essere consentite telefonate dirette ai familiari o ai conviventi, oltre i limiti
fissati dal regolamento, nel caso di rientro dal permesso o dalla licenza. Infine, secondo l’art. 39,
comma X, reg. es., può essere autorizzata la corrispondenza telefonica tra congiunti o conviventi,
entrambi ristretti in istituti diversi, in deroga alla norma che vieta le telefonate provenienti dall’esterno
dell’istituto penitenziario.
10
La corrispondenza telefonica dei detenuti e degli internati è regolata dall’art. 18, commi V e VIII,
O.P., che rinvia all’art. 39 reg. es. per la disciplina di dettaglio sulle modalità di svolgimento e sulle
opportune cautele da adottare. Alla corrispondenza telefonica non è, invece, applicabile il comma I
dell’art. 18 O.P. che (pur utilizzando il generico termine “corrispondenza”) disciplina soltanto la
corrispondenza epistolare. La tesi contraria, difatti, farebbe sorgere un insanabile contrasto tra il
comma I (“sono ammessi”) e il comma V (“può essere autorizzata”).
11
Qualora si accogliesse la tesi dell’inviolabilità del diritto del recluso di fruire della corrispondenza
telefonica con i familiari, si dovrebbe anche affermare che, nonostante la formulazione letterale
dell’art. 14 quater O.P., il provvedimento del D.A.P., che dispone l’applicazione del regime di
sorveglianza particolare, non potrebbe comportare restrizioni in ordine alle telefonate tra il ristretto ed
il coniuge, il convivente, i figli, i genitori ed i fratelli. Ed analogo divieto opererebbe per l’autorità
4
prospettiva esclusivamente rieducativa, andrebbe ricondotta la sola corrispondenza
telefonica con “i terzi”, per la quale l’esercizio del potere decisionale di natura
discrezionale sarebbe guidato dal criterio dei “ragionevoli e verificati motivi”12.
1.3 QUESTIONI INTERPRETATIVE COMUNI
La materia dei colloqui visivi e quella della corrispondenza telefonica pongono
alcuni particolari problemi interpretativi comuni, in ordine: alla delimitazione delle
categorie di soggetti ammesse ai colloqui; all’individuazione dell’autorità
competente ad emettere il provvedimento di autorizzazione; alla forma, all’efficacia
temporale e all’impugnabilità di tale provvedimento.
2. I SOGGETTI LEGITTIMATI
2.1 LE FONTI NORMATIVE
Le persone che possono essere ammesse ai colloqui visivi, nonché autorizzate ad
intrattenere corrispondenza telefonica, con i detenuti e gli internati, sono
espressamente indicate dalla legge e dal regolamento.
Per i colloqui visivi, trovano applicazione l’art. 18, comma I e III, O.P. e l’art. 37,
comma I, reg. es. In base al primo articolo, “i detenuti e gli internati sono ammessi
ad avere colloqui con i congiunti e con altre persone, anche al fine di compiere atti
giuridici” (comma I), riservandosi “particolare favore ai colloqui con i familiari”
(comma III). In applicazione del principio enunciato dalla norma di legge, il
regolamento stabilisce che “i colloqui con persone diverse dai congiunti e dai
conviventi sono autorizzati quando ricorrono ragionevoli motivi” (art. 37, comma III,
reg. es.).
Per la corrispondenza telefonica, la legge individua due categorie di persone che
possono essere autorizzate: “i familiari e, in casi particolari, i terzi” (art. 18, comma
V, O.P.). La norma rispecchia la disciplina del comma I dell’art. 18 O.P. (come
integrato dal comma III), con alcune varianti lessicali, che non sembrano assumere
particolare rilievo interpretativo. Difatti, mentre i colloqui visivi sono ammessi con “i
congiunti”, la corrispondenza telefonica può essere autorizzata “nei rapporti
familiari”. Inoltre, mentre il comma I fa riferimento alle “altre persone”, il comma V
utilizza la locuzione “terzi”. Nondimeno, ad integrare la disciplina dettata dall’art.18,
comma V, O.P., è intervenuto l’art. 39, comma II, reg. es., in base al quale “i
condannati e gli internati possono essere autorizzati alla corrispondenza telefonica
giudiziaria, che potrebbe soltanto differire, “per un breve periodo”, l’esercizio del diritto alla
corrispondenza telefonica con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori ed i fratelli.
12
Fuori delle questioni attinenti alla violazione dell’art. 15 Cost., sarebbero legittime le scelte
legislative: a) di vietare, ai detenuti sottoposti al regime regolato dall’art. 41 bis O.P., la
corrispondenza telefonica con persone diverse dai congiunti e dai conviventi (art. 41 bis, comma II
quater, lett. b, O.P.), b) di consentire al D.A.P. di disporre restrizioni in materia di telefonate, ai sensi
degli articoli 14 bis e 14 quater O.P.
5
con i congiunti e i conviventi, ovvero, allorché ricorrono ragionevoli e verificati
motivi, con persone diverse dai congiunti e dai conviventi”.
La legge e il regolamento, dunque, individuano le seguenti categorie di soggetti
che possono essere ammesse ai colloqui visivi e telefonici: i congiunti; i familiari; i
conviventi; le altre persone (i terzi) diverse dai congiunti e dai conviventi, quando
ricorrono ragionevoli (e, in caso di corrispondenza telefonica, anche verificati)
motivi. Tuttavia, l’esatta delimitazione di tali categorie è rimessa all’interprete.
2.2 I CONGIUNTI E I FAMILIARI
Sia in materia di colloqui visivi, sia in tema di corrispondenza telefonica, la legge
e il regolamento, nell’individuare le persone che possono essere autorizzate a fruirne,
fanno riferimento, in modo distinto, ai “congiunti” e ai “familiari. Ci si chiede,
dunque, se le due espressioni siano utilizzate con significati diversi o “in maniera
equivalente”. A riguardo, la dottrina prevalente e l’Amministrazione
penitenziaria13ritengono che i due termini abbiano identico significato. In particolare,
pur evidenziandosi che le due espressioni potrebbero avere significati diversi (in
quanto il termine “congiunti” farebbe riferimento alle persone legate da un rapporto
di parentela o di affinità, mentre il termine “familiari” indicherebbe i congiunti
conviventi), si conclude che “la legge e il regolamento utilizzano promiscuamente le
due espressioni, con accezioni sostanzialmente equivalenti”. Invero, tale scelta
interpretativa appare obbligata ed è confermata dagli articoli 37 e 39 reg. es. (ma
anche dagli articoli 62 e 63 reg. es.) che, riservando un identico trattamento giuridico
di favore ai congiunti e ai conviventi, non menzionano i familiari (se non nel comma
XI dell’art. 37 e nel comma I, seconda parte, dell’art. 39 reg. es.).
Stabilita, dunque, l’equivalenza tra i termini “congiunti” e “familiari” si è posto il
problema della corretta delimitazione di tale categoria di persone. A tal fine, in un
primo momento, si è fatto ricorso alla disciplina del codice penale, ritenendosi che la
nozione di “congiunti e familiari” fosse riconducibile a quella di “prossimi
congiunti”, regolata dall’art. 307 c.p.14. Questa soluzione è stata presto abbandonata,
perché in contrasto con una corretta interpretazione del sistema normativo. In
particolare, si è rilevato che: a) l’applicazione dell’art. 307 c.p. violerebbe la norma
che, espressamente, ne circoscrive l’ambito d’operatività alla sola legge penale”,
senza possibilità alcuna d’applicazione analogica; b) se il legislatore del 1975 avesse
voluto delimitare la categoria dei “familiari e dei congiunti”, attraverso un rinvio
all’art. 307 c.p., lo avrebbe fatto esplicitamente; c) in assenza di tale rinvio espresso e
13
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
In tal senso, circolare D.A.P. n. 2656/5109 del 15 gennaio 1980, che riteneva applicabile l’art. 307
c.p., in base al quale: “Agli effetti della legge penale s’intendono per prossimi congiunti gli
ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii ed i nipoti;
nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti non si comprendono gli affini, nel caso in cui
il coniuge sia morto e non vi sia prole”.
14
6
data l’impossibilità di una applicazione analogica, l’art. 307 c.p. non può costituire
valido riferimento normativo, al fine di delimitare l’ambito d’operatività dell’art. 18
O.P.15.
E allora, per definire la categoria dei familiari (congiunti) è necessario
individuare, nell’ordinamento giuridico, quelle disposizioni che siano applicabili
anche agli istituti di diritto penitenziario. E tali norme sono facilmente reperibili nel
codice civile che, nel titolo V del libro I (articoli da 74 a 78), disciplina
compiutamente la materia della parentela e quella dell’affinità. In tal modo, è
possibile individuare una nozione giuridica di “familiari” (o di “congiunti”), che
sembra rispecchiare il senso che a tali termini è assegnato dalla sociologia e dal
sentire comune. Di conseguenza, “agli effetti della normativa penitenziaria,
andrebbero considerati congiunti o familiari, oltre al coniuge, le persone fra loro
legate da vincoli di parentela o di affinità”, entro il limite del sesto grado,
precisandosi che l’affinità non cessa per la morte d’uno dei coniugi (anche se non vi
sono figli), ma soltanto nel caso in cui il matrimonio sia dichiarato nullo16.
L’applicazione delle norme del codice civile, però, comporterebbe “un eccessivo
ampliamento dei soggetti legittimati” ai colloqui visivi e alla corrispondenza
telefonica. Per tale motivo, l’Amministrazione penitenziaria17individua un criterio
più restrittivo, stabilendo che i termini “familiari” e “congiunti”, usati dalla
normativa penitenziaria, si riferiscono ai parenti e agli affini entro il quarto grado.
Solo ai colloqui visivi con queste persone, la legge accorda particolare favore e solo
queste persone “sono immediatamente legittimate al colloquio”, possono ottenerne il
prolungamento della durata o la deroga al limite di partecipazione in non più di tre (art.
37, commi I e X, reg. es.). Mentre i parenti o gli affini oltre il quarto grado potranno
accedere ai colloqui (come le persone estranee alla famiglia) soltanto qualora ricorrano
ragionevoli motivi (art. 37, comma I, reg. es.) e a loro non si applicheranno le norme
15
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit. Analoga è la conclusione, cui giunge l’Amministrazione, con
riferimento alla nozione di “famiglia anagrafica”. L’art. 4 del D.P.R. n. 223, 30 maggio 1989, difatti,
stabilisce che, agli effetti anagrafici, per famiglia si intende “quell’insieme di persone legate da vincoli
di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora
abituale nello stesso comune”. Si tratta di una nozione troppo restrittiva, basata sul requisito della
convivenza, che escluderebbe dai colloqui e dalle telefonate i familiari non conviventi (come ad
esempio i genitori e i fratelli).
16
L’Amministrazione penitenziaria è giunta a tale conclusione, affermando che “in senso
sociologico, la famiglia è un gruppo sociale o un’unità fondamentale dell’organizzazione sociale,
caratterizzato dalla residenza comune, dalla cooperazione economica e dalla riproduzione”; mentre,
nel linguaggio comune, il termine famiglia assume un senso più vasto ed è inteso “come l’insieme di
tutti coloro che sono legati da un vincolo di parentela o di matrimonio, ma anche i figli naturali, gli
adottivi e gli affiliati”. Ed allora, combinando i due significati, può ritenersi che la locuzione
“familiari” (o congiunti, data l’equivalenza) indichi l’esistenza di un rapporto di parentela, ovvero “il
rapporto che esiste tra tutti quei soggetti legati da un affectio familiare equiparabile alle categorie
civilistiche dei parenti (in linea retta e collaterale) e degli affini” (circolare D.A.P. n..3478/98, cit.).
17
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
7
regolamentari che fanno espresso riferimento ai congiunti. Analogamente, soltanto per la
corrispondenza telefonica con queste persone, l’art. 39, comma II, reg. es. non richiede
particolari e verificati motivi ai fini dell’autorizzazione (che rimane, in ogni caso, rimessa
ad una valutazione discrezionale dell’autorità decidente) e soltanto se dirette a queste
persone, possono essere consentite telefonate ulteriori, nel caso di rientro dal permesso o
dalla licenza (art. 39, comma II, reg. es.). Infine, soltanto se avviene tra congiunti,
entrambi ristretti in diversi istituti penitenziari, può essere autorizzata corrispondenza
telefonica, in deroga alla norma che vieta le telefonate provenienti dall’esterno
dell’istituto (art. 39, comma X, reg. es.). Al contrario, i parenti o gli affini oltre il quarto
grado, potranno essere autorizzati alla corrispondenza telefonica soltanto qualora
ricorrano ragionevoli e verificati motivi (art. 39, comma I, reg. es.) ed a loro non si
applicheranno le norme regolamentari che fanno espresso riferimento ai congiunti.
La categoria dei “familiari e congiunti” è ristretta ulteriormente, “con esclusivo
riferimento” ai detenuti inseriti nelle sezioni ad Alta Sicurezza18o sottoposti al
regime regolato dall’art. 41 bis O.P. Considerata la maggiore pericolosità di questi
reclusi, l’Amministrazione penitenziaria prevede che siano immediatamente
legittimati ai colloqui i parenti e gli affini sino al terzo grado. Ne discende che, per i
detenuti inseriti nelle sezioni A.S., le persone estranee alla famiglia, i parenti o gli
affini oltre il terzo grado saranno ammessi ai colloqui visivi e telefonici con
autorizzazione, subordinata alla sussistenza di ragionevoli (e, per la corrispondenza
telefonica, anche di “verificati”) motivi. Mentre, nel caso previsto dall’art. 41 bis,
comma II quater lett. b, i colloqui visivi possono essere autorizzati qualora ricorrano
“casi eccezionali, determinati, volta per volta”, rimanendo esclusa la possibilità di
intrattenere corrispondenza telefonica con persone diverse dai familiari e dai
conviventi19.
Le indicazioni dell’Amministrazione penitenziaria vincolano soltanto l’esercizio
del potere di autorizzazione attribuito ai direttori degli istituti (per il periodo
successivo alla pronuncia della sentenza di primo grado, qualora si tratti di colloqui
visivi, o successivo alla sentenza definitiva, ove oggetto del permesso sia la
corrispondenza telefonica) e non anche di quello attribuito all’autorità giudiziaria,
che potrebbe accogliere un’interpretazione più restrittiva delle norme, secondo la
18
Le sezioni A.S. sono state istituite con la circolare D.A.P. n. 3359/5809, 21 aprile 1993.
La scelta interpretativa compiuta dall’Amministrazione penitenziaria appare conforme ai principi
costituzionali, in base ai quali, una volta tutelati i rapporti con i congiunti più prossimi (per i quali i
limiti del quarto e del terzo grado appaiono congrui), con i congiunti conviventi (senza limite di
grado) e con le altre persone conviventi (senza necessità di vincolo di parentela), i rapporti con gli altri
congiunti (oltre il quarto o terzo grado e non conviventi) al pari dei rapporti con altre persone (né
congiunti, né conviventi) troveranno tutela se non contrastanti con altri interessi meritevoli di
protezione. Nondimeno, in quest’ultimo caso, sarebbe stato opportuno prevedere che, eventuali
limitazioni, fossero disposte dall’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge (art. 15
Cost.).
19
8
quale il diritto inviolabile del recluso al colloquio visivo andrebbe riconosciuto
soltanto quando a fruirne fossero il coniuge ed i parenti più prossimi (figli, genitori e
fratelli). Conclusione, questa, che troverebbe conferma nelle stesse disposizioni che
regolano la materia dei contatti visivi. Invero, sarebbe privo di razionalità un sistema
che consentisse all’autorità amministrativa di disporre, nei casi particolari stabiliti
dalla legge ed in deroga alla disciplina ordinaria, restrizioni al diritto di fruire dei
colloqui con i familiari (diversi dal coniuge, dai figli, dai genitori e dai fratelli), a
tutela dell’ordine e della sicurezza degli istituti (articoli 14 bis e 14 quater O.P.), e
non permettesse agli organi della giurisdizione di ordinare analoghe limitazioni, a
protezione delle esigenze di cautela, legate ai procedimenti penali in corso. Di
conseguenza, soltanto il coniuge, i figli, i genitori e i fratelli sarebbero
immediatamente legittimati al colloquio, mentre gli altri parenti e gli affini
potrebbero essere autorizzati qualora, in concreto, non vi fossero particolari esigenze
cautelari. Non solo, ma seguendo tale opzione interpretativa, si dovrebbe anche
riconoscere, all’autorità giudiziaria, il potere di vietare, “per un breve periodo” ed “in
vista di specifiche e concrete esigenze cautelari”, i colloqui visivi con il coniuge ed i
parenti, qualora, nel corso delle indagini preliminari, fosse ordinato l’isolamento
dell’indagato detenuto (art. 33, n. 3, O.P.). In tale ipotesi, peraltro, l’esercizio del
diritto dell’isolato di fruire di colloqui con il coniuge ed i parenti più prossimi non
sarebbe negato, ma soltanto differito (per un breve periodo) e questa limitazione
sarebbe disposta con provvedimento motivato e con le garanzie stabilite dalle norme
di legge che disciplinano la materia delle misure cautelari personali. Nessun
problema interpretativo, invece, si porrebbe per la corrispondenza telefonica, atteso
che l’ampio potere decisionale, di natura discrezionale, consentirebbe di valorizzare
qualsiasi tipo di esigenza, al fine di giustificare il rigetto della richiesta del detenuto.
E soltanto ove si accogliesse la tesi della sussistenza di un diritto inviolabile del
ristretto di intrattenere corrispondenza telefonica con i familiari, varrebbero le
considerazioni appena svolte in tema di colloqui visivi.
In ogni caso, è evidente come il sistema normativo si muova nel senso di una
piena tutela delle relazioni familiari, imponendosi all’Amministrazione penitenziaria
un obbligo di attivarsi, qualora i congiunti non mantengano rapporti con il ristretto
(indagato, imputato, condannato o internato). In tale ipotesi, difatti, la direzione degli
istituti deve segnalare il caso all’U.E.P.E. (Ufficio locale per l’esecuzione penale
esterna), sollecitando gli opportuni interventi (art. 37, comma XI, reg. es., che attua il
principio sancito dall’art. 28 O.P.).
2.3 I CONVIVENTI
Non prevista dall’art. 18 O.P., la categoria dei conviventi è contemplata dagli
articoli 37 e 39 reg. es. Si tratta di norme che mirano a tutelare quei particolari
9
rapporti affettivi, che fuoriescono dallo schema della parentela e dell’affinità,
attraverso l’equiparazione della categoria dei “conviventi” a quella dei “congiunti”.
In particolare, i conviventi (come i congiunti) sono immediatamente legittimati ai
colloqui visivi ed a loro si applicano le norme che consentono il prolungamento della
durata del colloquio e la deroga al limite massimo di (tre) persone che vi possono
partecipare (art. 37, commi I e X, reg. es.). Inoltre, il regolamento non richiede la
sussistenza di particolari e verificati motivi, ai fini dell’autorizzazione alla
corrispondenza telefonica (che rimane, in ogni caso, rimessa ad una valutazione
discrezionale dell’autorità decidente) e ai conviventi si applicano le norme contenute
nell’art. 39, comma II (che consente telefonate ulteriori, nel caso di rientro dal permesso o
dalla licenza) e comma X (che ammette la corrispondenza tra conviventi, entrambi
ristretti in diversi istituti, in deroga alla norma che vieta le telefonate provenienti
dall’esterno del carcere). Nondimeno, l’equiparazione tra conviventi e familiari è prevista
anche nella particolare disciplina dei colloqui visivi e telefonici, dettata dall’art. 41 bis,
comma II quater, lett. b, O.P.
La nozione giuridica di convivente, individuata dall’Amministrazione
penitenziaria, farebbe riferimento a quelle “persone che coabitavano col detenuto
prima della carcerazione, senza attribuire nessuna rilevanza all’identità del sesso o
alla tipologia dei rapporti concretamente intrattenuti con il detenuto (more uxorio, di
amicizia, di collaborazione domestica, di lavoro alla pari, ecc.)”20. Riferibile alla sola
convivenza more uxorio è, invece, la norma che limita il potere
dell’Amministrazione penitenziaria di introdurre restrizioni al diritto del detenuto di
fruire dei colloqui visivi, attraverso il provvedimento che applica il regime di
sorveglianza particolare (art. 14 quater, comma III, O.P.). In tal modo, si equipara la
tutela dei rapporti familiari legittimi a quelli di fatto, restringendo, però, l’area
d’operatività della nozione di convivenza. E, a tale più limitata accezione, potrebbe
fare riferimento anche l’autorità giudiziaria competente, potendosi ritenere che il
diritto inviolabile del detenuto ai colloqui visivi vada riferito (non solo al coniuge, ai
figli, ai genitori, ai fratelli), ma anche e soltanto alla persona che convive more
uxorio. Mentre, gli altri rapporti di convivenza potrebbero essere sacrificati,
ricorrendo concrete e particolari esigenze cautelari.
Peraltro, ai fini dell’accertamento dello stato di precedente convivenza con il
ristretto, saranno necessarie le informazioni provenienti dall’autorità di pubblica
sicurezza e dagli U.E.P.E. e ciò anche per verificare la veridicità dell’eventuale
dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, presentata dall’interessato.
2.4 LE ALTRE PERSONE ED I RAGIONEVOLI MOTIVI
Oltre a quella dei “congiunti e familiari”, la legge individua, attraverso le clausole
generali “altre persone” e “terzi”, un’ulteriore categoria di soggetti, che può essere
20
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
10
ammessa ai colloqui visivi o autorizzata alla corrispondenza telefonica con i ristretti.
Si tratta, però, di persone che la legge e il regolamento pongono su un piano diverso
da quello dei “familiari” o dei “conviventi”, accordandosi particolare favore soltanto
a questi ultimi. La diversità di regime giuridico è confermata dall’art. 37, comma I,
reg. es., secondo cui “i colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi
sono autorizzati quando ricorrono ragionevoli motivi” (o, ”salvo casi eccezionali”,
nell’ipotesi di cui all’art. 41 bis, comma II quater lett. b, O.P.). Non solo, ma anche
le norme sul prolungamento della durata del colloquio e sulla deroga al numero
massimo di persone che possono parteciparvi, si applicano ai soli ai congiunti e ai
conviventi, con esclusione delle altre persone (art. 37, comma X, reg. es.). Sullo
stesso piano, si pone la disciplina della corrispondenza telefonica, che limita il
contatto telefonico con persone diverse dai congiunti e dai conviventi alla ricorrenza
di ragionevoli e verificati motivi, escludendosi l’applicabilità di una serie di norme di
favore che consentono telefonate ulteriori, nel caso di rientro del detenuto dal
permesso o dalla licenza, e tra persone detenute (art. 39, commi II e X, reg. es.).
Ed allora, intanto le persone diverse dai congiunti e dai conviventi potranno essere
ammesse ai colloqui visivi e telefonici con i reclusi, in quanto ricorrano “ragionevoli
(e verificati) motivi”21. E, al fine di guidare l’esercizio del potere discrezionale di
autorizzazione, attribuito ai direttori, l’Amministrazione penitenziaria ha individuato
alcuni criteri22. Così, si dovrà contemperare “il legittimo interesse del detenuto e
dell’internato a mantenere rapporti con il mondo esterno, anche ai fini della loro
risocializzazione, con l’esigenza di evitare che attraverso tali colloqui possano anche
indirettamente essere favoriti collegamenti illeciti“. E’ opportuno, dunque, che prima
della decisione siano assunte le necessarie informazioni23.
In ordine al contenuto sostanziale dei “ragionevoli motivi”, si è stabilito che esso
potrà essere il più vario possibile, purché legato alle relazioni affettive, di studio e di
lavoro24”. In concreto, si dovranno valutare “le situazioni personali dei singoli
21
Parte della dottrina (A. Pennisi, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, Torino, 2002), ritiene
che tale limite sostanziale ai colloqui con le altre persone non sia in linea con l’art. 18 O.P., che si
limita a riconoscere particolare favore ai colloqui con i familiari. “Ne deriva un sistema nel quale il
diritto alla comunicazione, allorché assume le forme del colloquio, finisce per essere garantito solo se
inserito in una dimensione diversa rispetto a quella della libera manifestazione del pensiero,
rappresentata dall’interesse all’integrità dei rapporti del detenuto con i propri familiari”.
22
I criteri individuati dall’Amministrazione penitenziaria potrebbero essere utilizzati anche
dall’autorità giudiziaria competente, contemperando le esigenze personali del ristretto con quelle di
cautela, legate al procedimento penale in corso.
23
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit., che distingue tra la categoria dei parenti e degli affini oltre il
quarto grado (terzo, per le ipotesi particolari) e quella delle “altre persone”. Per i primi “sarà utilizzato
un criterio di maggiore favore” e le relative informazioni potranno essere fornite indifferentemente
dalle forze dell’ordine o dall’U.E.P.E. Per i secondi, saranno necessarie le informazioni provenienti
dalle autorità di pubblica sicurezza.
24
Nei colloqui visivi, tra i ragionevoli motivi rientra anche il fine di compiere atti giuridici (art. 18,
comma I, O.P.). Così, ad esempio, la persona (diversa dal familiare o dal convivente) che sia legale
11
ristretti, tanto più se considerate nei programmi di trattamento o comunque
conosciute dagli operatori”, riservando particolare tutela: a) alle “relazioni affettive
che danno vita a rapporti costruttivi e strutturati” (si pensi ai rapporti tra fidanzati),
l’esistenza dei quali sarà accertata avvalendosi degli U.E.P.E.; b) ai colloqui di studio
e di lavoro; c) ai colloqui con gli operatori socio - sanitari delle strutture e dei servizi
assistenziali territoriali, al fine di mantenere la continuità di programmi terapeutici o
di trattamento educativo - sociale istituzionalmente svolti; d) ai colloqui con i
rappresentanti delle comunità terapeutiche, se non altrimenti legittimati ai sensi degli
articoli 17 e 78 O.P.25.
3. ACCERTAMENTO DELLA PARENTELA E DELLA CONVIVENZA
3.1. LE DICHIARAZIONI SOSTITUTIVE
Individuati i soggetti che sono immediatamente legittimati a fruire dei colloqui
visivi e che possono essere autorizzati ad intrattenere corrispondenza telefonica con i
reclusi (senza dover indicare particolari motivi), vale a dire i familiari (parenti o
affini entro il quarto o il terzo grado) e i conviventi, occorre stabilire attraverso quali
modalità l’autorità decidente deve effettuare l’accertamento di tali stati o di tali
qualità personali. La materia è, ora, regolata dal Testo unico sulla documentazione
amministrativa26, i cui articoli 46 e 47 definiscono l’istituto dell’autocertificazione27.
In particolare, l’art. 46 individua gli stati (compreso quello di famiglia) e le qualità
personali che possono essere comprovate con dichiarazione sostitutiva della normale
rappresentante, tutore o curatore del detenuto o dell’internato potrà essere ammessa al colloquio, per il
(o in vista del) compimento di un atto giuridico.
25
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
26
D.P.R. n. 445 del 28 dicembre 2002.
27
L’istituto dell’autocertificazione è stato introdotto dalla legge n. 15, 4 gennaio 1968, che
prevedeva la possibilità di comprovare alcuni fatti giuridicamente rilevanti (ad esempio, data e luogo
di nascita, residenza, cittadinanza, stato civile o di famiglia) mediante dichiarazioni sostitutive di
certificazioni, sottoscritte davanti a determinate autorità. Allo stesso modo, si consentiva di attestare,
con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, i fatti, gli stati o le qualità personali che fossero a
conoscenza dell’interessato. Numerose, poi, sono state le circolari ministeriali che hanno cercato di
definire l’ambito applicativo ed i poteri derivanti dalla legge. In particolare, vanno segnalate: la
circolare, emessa nell’ottobre del 1968, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la quale si
invitavano le amministrazioni ad adottare i provvedimenti richiesti unicamente sulla base delle
dichiarazioni sostitutive, salvo che si ritenesse di provvedere d’ufficio ad accertarne preventivamente
la veridicità; la circolare n. 11 del 23 luglio 1996, con la quale il Ministero dell’Interno disponeva che,
nel rilascio delle certificazioni anagrafiche di stato di famiglia, dovessero essere omesse le indicazioni
relative al grado di parentela (disposizione, questa, poi modificata dalla circolare, emessa nel gennaio
del 1997, con la quale, invece, si riconosceva la possibilità, per l’interessato, di richiedere il rilascio di
un apposito “certificato storico di famiglia”, in cui fossero espressamente indicati i vincoli
intercorrenti tra i componenti della famiglia); la circolare D.A.P. n. 544994 del 23 febbraio 1998, che
invitava i direttori degli istituti penitenziari a richiedere, in assenza di documentazione utile,
l’autocertificazione, ai sensi della legge n. 15 del 1968, ed a fare controlli successivi e a campione
sull’effettiva esistenza del vincolo di parentela.
12
certificazione. L’art. 47, invece, disciplina le dichiarazioni sostitutive dell’atto di
notorietà, con le quali si possono attestare gli stati o le qualità personali e determinati
fatti conosciuti dal dichiarante (tra i quali, rientra “la convivenza, che è situazione di
mero fatto, suscettibile però di essere provata, per potere fruire dei colloqui”).
La mancata accettazione, da parte delle autorità pubbliche, delle dichiarazioni
sostitutive, rese a norma del T.U., costituisce violazione dei doveri d’ufficio (art. 74).
In ogni caso, la veridicità delle dichiarazioni ricevute dovrà essere verificata
attraverso idonei controlli successivi (anche a campione) e, qualora sorga un dubbio
in tal senso, sarà necessario un controllo preventivo, di conseguenza si emetterà il
provvedimento richiesto (nel nostro caso, il permesso di colloquio o l’autorizzazione
alla corrispondenza telefonica) soltanto dopo aver effettuato il controllo (art. 71,
comma III). Nondimeno, nel caso di dichiarazioni mendaci, il dichiarante sarà punito
penalmente e decadrà dai benefici conseguiti, a seguito della dichiarazione falsa
(articoli 75 e 76)
3.2 LA CIRCOLARE D.A.P. n. 33306 DEL 24 APRILE 2001
Dopo l’approvazione del Testo Unico in materia di documentazione
amministrativa, il D.A.P. ha emesso una circolare, volta a risolvere le numerose
questioni interpretative che la nuova normativa poneva in relazione “ad importanti
momenti della vita dei detenuti e degli internati”. In particolare, confermata la piena
applicazione del T.U. anche ai detenuti, agli internati28e alle persone esterne, che
intendono intrattenere un colloquio con i ristretti, le precisazioni hanno toccato la
materia dei controlli. A riguardo, l’Amministrazione penitenziaria ha individuato
alcune regole generali ed una serie di regole particolari29. Le regole generali
stabiliscono che: 1) “è sempre richiesta l’effettuazione di controlli successivi, i quali,
di regola, saranno a campione”; 2) in taluni casi, però, i controlli successivi potranno
essere generalizzati, “quando le dichiarazioni provengano da persone che si debba
28
Anche i condannati, ai quali sia stata applicata la pena accessoria dell’interdizione legale (art. 32
c.p.), possono ricorrere, personalmente, alle dichiarazioni sostitutive di certificazione o d’atto di
notorietà. Difatti, nonostante l’art. 5 T.U., cit., richieda la sottoscrizione, da parte del curatore, delle
dichiarazioni sostitutive rese da un soggetto che sia sottoposto a curatela (art. 5 T.U.), deve rilevarsi
che: a) l’art. 32 c.p. equipara l’interdizione legale a quella giudiziale soltanto in ordine
all’amministrazione e alla disponibilità di beni e non anche per l’esercizio dei diritti di natura non
patrimoniale; b) l’art. 4 O.P. (i detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti
dalla legge sull’ordinamento penitenziario, anche se si trovano in stato di interdizione legale) si
riferisce non soltanto ai diritti riconosciuti dalla legge del 1975, ma anche a quelli previsti da altre
norme di legge, “comunque disciplinanti” la condizione di soggetto privato della libertà personale. Il
condannato, dunque, anche se legalmente interdetto, può esercitare personalmente il diritto
d’autocertificazione, poiché, comunque, attinente “ad importanti momenti della vita” in istituto.
29
Le regole stabilite dall’Amministrazione penitenziaria si applicano ai provvedimenti di
competenza del direttore dell’istituto, vale a dire ai permessi di colloquio visivo, da autorizzare dopo
la pronuncia della sentenza di primo grado, e a quelli di corrispondenza telefonica, da autorizzare
dopo la pronuncia della sentenza definitiva.
13
presumere siano fortemente inattendibili, oppure siano rese in relazione a situazioni
in cui sia particolarmente intensa la pressione diretta ad ottenere un determinato
provvedimento attraverso il rilascio di false dichiarazioni”, come nel caso in cui “la
dichiarazione sia finalizzata ad ottenere contatti con soggetti che risultino tuttora
collegati ad associazioni criminali”; 3) “è doveroso un controllo preventivo tutte le
volte in cui sorgano fondati dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni”, in tal caso
“occorre che si dia corso al provvedimento richiesto soltanto dopo l’effettuazione del
controllo”.
Sulla base di tali regole generali, è stata enucleata una serie di regole particolari,
che tiene conto della diversa tipologia di detenuti e di internati. Così, ferma restando
“la facoltà dell’autorità giudiziaria di dettare particolari cautele in relazione a
soggetti pericolosi o a situazioni processuali che lo richiedano”, è previsto che: a) nei
confronti dei detenuti e degli internati sottosti al regime previsto dall’art. 41 bis,
comma II, O.P., si proceda ad un controllo preventivo di tutte le dichiarazioni
sostitutive, “dovendosi ritenere fondata la sospettabilità (in concreto)” della loro non
veridicità, quindi, soltanto all’esito dei controlli, si darà corso al provvedimento di
autorizzazione ai colloqui visivi e telefonici; b) nei confronti dei detenuti e degli
internati inseriti nelle sezioni ad Alta Sicurezza, invece, tornerà ad operare la regola
del controllo successivo, che sarà effettuato “a campione”, nella misura non inferiore
ad un terzo (33%) delle dichiarazioni sostitutive presentate; c) per i detenuti e gli
internati inseriti nelle sezioni ad Elevato indice di vigilanza cautelativa (E.I.V.C.) e
per quelli sottoposti a regime di sorveglianza particolare (ex art. 14 bis O.P.), i
controlli saranno effettuati in via successiva, “a campione”, nella misura del 25%; d)
per i detenuti ordinari, “il controllo successivo a campione verrà fatto nel 10% dei
casi”.
Fuori dei casi di cui all’art. 41 bis, comma II, O.P., dunque, la disciplina vigente
non sembra poter fondare una diversificazione, in merito ai controlli sulle
autocertificazioni, tra i detenuti “comuni” e quelli inseriti in sezioni A.S. o E.I.V. o
sottoposti al regime di sorveglianza particolare. Per tutti varrà la modalità dei
controlli “a campione”, da eseguire successivamente all’ammissione al colloquio o
alla corrispondenza telefonica. Unica differenza sarà la percentuale dei controlli da
effettuare30. Tuttavia, resta ferma la previsione che consente controlli preventivi, in
tutti i singoli casi in cui sorgano fondati dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni (art.
71 T.U.).
30
In ordine alla categoria dei collaboratori di giustizia, va rilevata la necessità di applicare
specifiche procedure, a causa delle esigenze di protezione personale e dei familiari. La normativa,
però, non prevede particolari disposizioni, quindi si applicheranno le stesse norme valide per le altre
tipologie di ristretti. E’ doveroso, in ogni caso, annotare i dati e gli atti relativi a questi soggetti e ai
loro familiari su appositi registri e se sussistono difficoltà nell’identificazione dei familiari,
l’Amministrazione penitenziaria deve rivolgersi al Servizio centrale di protezione.
14
Particolari cautele, però, sono richieste nel controllo delle dichiarazioni sostitutive
di atto di notorietà, relative allo stato di convivenza. A tal proposito, si precisa che
“la situazione di convivenza è situazione di mero fatto però suscettibile di essere
provata, per poter fruire del colloquio col detenuto o l’internato”, di conseguenza si
deve “procedere ai controlli nel numero più esteso possibile e, naturalmente, anche
con richiesta di documentazione alla competente amministrazione certificante”.
Le regole, sin qui esaminate, riguardano le dichiarazioni sostitutive di
certificazione o d’atto di notorietà provenienti da persone sottoposte a regime di
restrizione della libertà personale. E’ possibile, tuttavia, che tali dichiarazioni siano
presentate da persone “esterne”, interessate al colloquio con il detenuto e l’internato.
In tal caso, la direzione dell’istituto procederà ai controlli previsti in relazione alla
categoria d’appartenenza del detenuto o dell’internato “con il quale la persona
esterna voglia colloquiare, verificando naturalmente che essa stessa sia soggetto
abilitato alle dichiarazioni sostitutive”, ai sensi degli articoli 3 e 5 del T.U.
3.3 GLI STRANIERI
L’art. 3 del T.U. individua l’ambito soggettivo di applicazione delle norme sulle
dichiarazioni sostitutive, equiparando i cittadini italiani a quelli dell’Unione europea
(comma I). I cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea, ma regolarmente
soggiornanti in Italia, invece, possono ricorrere alle dichiarazioni sostitutive
limitatamente agli stati, alle qualità personali e ai fatti certificabili o attestabili da
parte di soggetti pubblici italiani, fatte salve le speciali disposizioni contenute in
leggi o in regolamenti concernenti la disciplina dell’immigrazione e la condizione di
straniero (comma II). Ne discende che tale categoria di stranieri extracomunitari ha
una capacità di autocertificazione limitata a quelle informazioni già in possesso delle
autorità italiane (si pensi alla residenza, allo stato civile di coniugato, se il
matrimonio è avvenuto in Italia o è stato riconosciuto), mentre non possono costituire
oggetto di autocertificazione le notizie non rispondenti a tali requisiti (si pensi ai
rapporti familiari non comprovabili in Italia). Nondimeno, fuori dell’ipotesi
precedente, i cittadini extracomunitari, autorizzati a soggiornare nel territorio dello
Stato, possono utilizzare le dichiarazioni sostitutive, nei casi in cui la produzione
delle stesse avvenga in applicazione di convenzioni internazionali tra l’Italia e il
Paese di provenienza del dichiarante (comma III). Qualora non fosse possibile
ricorrere alle forme d’autocertificazione illustrate, gli stati, le qualità personali e i
fatti potranno essere documentati mediante certificati o attestazioni rilasciati dalla
competente autorità dello Stato estero, corredati di traduzione in lingua italiana,
autenticata dall’autorità consolare italiana che ne attesta la conformità all’originale
(comma IV).
Più complessa è la questione relativa al detenuto extracomunitario irregolare, che,
secondo il T.U., non può ricorrere allo strumento delle dichiarazioni sostitutive.
15
Tuttavia, nonostante il dato normativo, è prevalso un orientamento interpretativo che,
a tutela dei diritti fondamentali dei reclusi stranieri, ha ridotto l’ambito applicativo
della preclusione. In particolare, si è osservato non soltanto che la limitazione
sarebbe in contrasto con il principio direttivo che vieta discriminazioni trattamentali
(art. 2, comma II, O.P.), ma anche che l’irregolarità dello straniero sarebbe sanata
dall’obbligatorietà della permanenza in Italia, per il periodo in cui è sottoposto alla
custodia cautelare in carcere o all’esecuzione della pena detentiva31. Inoltre, si è
affermato che, nelle situazioni d’urgenza, che non consentano di attendere l’esito
degli accertamenti compiuti dalle autorità diplomatiche del paese d’origine, anche lo
straniero irregolare potrà essere ammesso a rendere dichiarazioni sostitutive, “nei
casi in cui detta formalità risultasse indispensabile per garantire al detenuto la
concreta partecipazione a tutte le opportunità trattamentali su un piano di sostanziale
parità con le altre persone ristrette”.
4. LE AUTORITA’ COMPETENTI
4.1 ATTRIBUZIONE DEI POTERI DI AUTORIZZAZIONE
Le autorità competenti ad autorizzare i colloqui visivi e la corrispondenza
telefonica sono individuate dalla legge. E’ previsto, difatti, che per gli indagati e “per
gli imputati i permessi di colloquio fino alla pronuncia della sentenza di primo grado
e le autorizzazioni alla corrispondenza telefonica sono di competenza dell’autorità
giudiziaria, ai sensi di quanto stabilito nel secondo comma dell’art. 11” (art. 18,
comma VIII, prima parte, O.P.). Soltanto ai colloqui visivi, invece, è applicabile la
disposizione secondo la quale, “dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, i
permessi di colloquio sono di competenza del direttore dell’istituto” (art. 18, comma
VIII, seconda parte, O.P.). I poteri di autorizzazione, dunque, sono ripartiti nel
seguente modo:
1. per l’ammissione ai colloqui visivi, fino alla pronuncia della sentenza di primo
grado, decide l’autorità giudiziaria che procede, individuata ai sensi dell’art. 11,
comma II, O.P.; dopo tale momento, decide il direttore dell’istituto (art. 18, comma
VIII, O.P.);
2. per l’autorizzazione ad intrattenere corrispondenza telefonica, sino alla
pronuncia della sentenza di primo grado, decide l’autorità giudiziaria che procede;
dopo tale momento e sino alla pronuncia della sentenza definitiva di condanna,
decide il magistrato di sorveglianza (art. 11, comma II O.P.). Nessuna norma di
legge, invece, attribuisce il potere di autorizzare le telefonate, dopo il passaggio in
giudicato della sentenza, atteso che l’art. 18, comma VIII, prima parte, O.P.
individua le autorità competenti in relazione alla sola posizione dell’imputato (“per
31
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit. Di recente: Corte costituzionale, sentenza n. 78, 5 marzo 2007;
Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 14500, 28 marzo – 27 aprile 2006.
16
gli imputati (…) l’autorizzazione alla corrispondenza telefonica”) e non anche dei
condannati e degli internati. La lacuna è colmata dal regolamento d’esecuzione, che
attribuisce al direttore dell’istituto la competenza ad autorizzare la corrispondenza
telefonica, dopo la sentenza di condanna o di applicazione della misura di sicurezza
detentiva, confermando, per il resto, la disciplina dettata dall’art. 18 O.P. (art. 39,
commi II e IV reg. es.).
L’assenza di una completa disciplina legislativa, che individui le autorità competenti
ad autorizzare la corrispondenza telefonica dei detenuti e degli internati, non sembra
rispettosa dei principi enunciati dall’art. 15 Cost, in materia di inviolabilità e segretezza
della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione. Peraltro, la stessa scelta di
attribuire la competenza ad un’autorità amministrativa (il direttore dell’istituto) appare in
contrasto non soltanto con l’art. 15 Cost. (che riserva all’autorità giudiziaria il potere di
limitare il diritto inviolabile alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni), ma anche
con la tendenza (che traspare in numerose norme sull’ordinamento penitenziario) di
presidiare con le garanzie della giurisdizione l’intera fase dell’esecuzione della pena e
delle misure di sicurezza. E, tuttavia, si tratta di una scelta maggiormente in linea con tale
tendenza, rispetto a quanto disposto, in materia di colloqui visivi, dall’art. 18, comma
VIII, O.P., che riserva all’autorità amministrativa la competenza ad autorizzare i colloqui
sin dopo la pronuncia della sentenza di primo grado (anche se, in tal caso, il potere
decisionale di natura discrezionale è limitato all’ammissione delle “altre persone”, diverse
dai congiunti e dai familiari).
Di conseguenza, si può dubitare della legittimità della prassi secondo la quale il
magistrato di sorveglianza delega, al direttore dell’istituto, il potere di autorizzare la
corrispondenza telefonica degli imputati, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado
e fino alla conclusione del giudizio.
4.2 SINO ALLA PRONUNCIA DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Per gli indagati e gli imputati, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, i
permessi di colloquio e l’autorizzazione alla corrispondenza telefonica sono di
competenza dell’autorità giudiziaria, individuata ai sensi dell’art. 11, comma II, O.P.
Norma, quest’ultima, che regola il riparto di competenza in ordine ai provvedimenti
che autorizzano il trasferimento del ristretto in ospedali civili o in luoghi esterni di
cura, ove siano necessarie cure o accertamenti diagnostici che non possono essere
apprestati dai servizi sanitari dell’istituto. L’articolo 11 O.P., però, è stato introdotto
sotto la vigenza del vecchio codice di procedura penale. Con l’approvazione del
nuovo codice di rito32, che ha “rimodulato” le fasi del procedimento, modificando
anche l’organizzazione degli uffici giudiziari, si è posto il problema
dell’individuazione delle autorità competenti ad emettere i provvedimenti di cui
32
D.P.R. n. 447, 22 settembre 1988.
17
all’art. 11, comma II, O.P.33. La questione è stata risolta dallo stesso legislatore,
attraverso l’approvazione dell’art. 240 norme att. c.p.p., che attribuisce il potere di
emanare il provvedimento di ricovero in luogo esterno di cura, al giudice per le
indagini preliminari, prima dell’esercizio dell’azione penale, e al giudice che
procede, dopo tale momento e sino alla pronuncia della sentenza di primo grado.
E allora, ai fini dell’individuazione dell’autorità competente, l’art.18, comma
VIII, rinvia all’art. 11, comma II, O.P. Ma quest’ultima norma, a seguito dell’entrata
in vigore del nuovo codice di procedura penale, non sarebbe più applicabile,
risultando complesso anche il ricorso al criterio ermeneutico secondo il quale,
“quando nelle leggi o nei decreti sono richiamati istituti o disposizioni del codice
abrogato, il richiamo si intende riferito agli istituti o alle disposizioni del codice che
disciplina la corrispondente materia” (art. 208 norme att. c.p.p.). L’art. 11, comma II,
però, è stato sostituito dall’art. 240, comma I, norme att. c.p.p., che, in modo
espresso, limita il proprio ambito d’operatività ai provvedimenti previsti dall’art. 11
O.P., senza alcun riferimento all’art. 18 O.P. Da qui, la necessità di stabilire se la
norma processuale sia applicabile anche alla disciplina dei colloqui visivi e della
corrispondenza telefonica. In particolare, il problema si pone per la fase delle
indagini preliminari, poiché, ai sensi dell’art. 11, comma II, O.P., il potere di
autorizzazione spetterebbe al P.M., invece, in base all’art. 240, comma I, norme att.
c.p.p., dovrebbero essere attribuito al G.I.P.
La dottrina maggioritaria ritiene che il riparto di competenze, disposto dall’art.
240, comma I, norme att. c.p.p., sia applicabile anche ai provvedimenti di
autorizzazione ai colloqui visivi e telefonici34. Ed analoga è la posizione
dell’Amministrazione penitenziaria, che, in linea con la giurisprudenza
costituzionale, ribadisce come “la tutela delle posizioni soggettive dei detenuti,
riflesso dei diritti aventi fondamento nella Costituzione, e connesse all’esecuzione di
provvedimenti limitativi della libertà personale, debba essere assicurata attraverso
modalità di natura giurisdizionale”. Ne deriva che “le richieste di colloqui presentate
da detenuti, ristretti per un procedimento penale ancora nella fase delle indagini
preliminari, sono trasmesse, dalla direzione dell’istituto, al Giudice per le indagini
preliminari che ha emesso l’ordinanza per la quale il detenuto è ristretto” 35.
Diversa, invece, è la conclusione cui giunge parte della giurisprudenza che,
limitatamente al periodo precedente all’esercizio dell’azione penale, ritiene
competente il pubblico ministero, in quanto “dominus ed unico titolare delle indagini
33
L’articolo 11, comma II, O.P. fa riferimento al giudice istruttore e alle fasi dell’istruttoria
sommaria e formale, vale a dire ad organi giurisdizionali ed a fasi del procedimento penale non più
previste dal nuovo codice di rito.
34
Parte della dottrina, ritiene anche che, rientrando i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica
tra le modalità esecutive della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere, ogni decisione in
merito debba essere adottata dal G.I.P., ai sensi dell’art. 279 c.p.p.
35
Circolare D.A.P. n. 3520/5970, 3 aprile 2000.
18
preliminari”. In particolare, la competenza del giudice per le indagini preliminari è
esclusa sulla base dell’interpretazione del codice di rito, che, in materia di colloqui
visivi, limita “le funzioni del G.I.P. al provvedimento di dilazione (per non più di
cinque giorni) del colloquio tra detenuto e difensore” (art. 104, comma III, c.p.p.),
mentre nessun potere gli riconosce in ordine agli altri tipi di colloquio”36. Più in
generale, va menzionato l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui “nella fase
del procedimento concernente le investigazioni, il giudice per le indagini preliminari
non ha potere di intervento o di iniziativa se non nei casi esplicitamente previsti dal
codice di rito”37. Peraltro, stante l’inapplicabilità dell’art. 240, comma I, norme att.
c.p.p., per le fasi successive alle indagini preliminari, le autorità competenti ad
autorizzare i colloqui visivi e le telefonate andrebbero individuate interpretando l’art.
11, comma II, O.P., secondo il criterio stabilito dall’art. 208 norme att. c.p.p.
E’ possibile, dunque, concludere che: a) nel corso delle indagini preliminari e sino
all’esercizio dell’azione penale, è competente il G.I.P. (o il P.M., se non si ritiene
applicabile l’art. 240 norme att. c.p.p.); b) dopo l’esercizio dell’azione penale, è
competente il G.U.P. (nel caso di richiesta di rinvio a giudizio per un reato per il quale sia
prevista la fase dell’udienza preliminare, ex art. 416 c.p.p.) o il G.I.P. (nel caso di
richiesta di giudizio immediato, ai sensi degli articoli 453 e 454 c.p.p. o di richiesta di
applicazione della pena, ai sensi dell’art. 447 c.p.p.) o il giudice del dibattimento (nel
caso di citazione diretta a giudizio, ai sensi dell’art. 550 c.p.p., o di instaurazione del
giudizio direttissimo, ex art. 449 c.p.p.); c) dopo la pronuncia del decreto che dispone il
giudizio (a seguito di udienza preliminare o della richiesta di giudizio immediato), è
competente il giudice del dibattimento. Nel passaggio da una fase all’altra, deve
ritenersi corretta la tesi che attribuisce la competenza all’autorità giudiziaria che abbia la
materiale disponibilità del fascicolo processuale.
Ai sensi dell’art. 34, comma II ter lett. b), c.p.p., peraltro, le disposizioni
sull’incompatibilità del giudice di cognizione (per atti compiuti nello stesso
procedimento) non si applicano al giudice che nel medesimo procedimento abbia
adottato i provvedimenti relativi ai permessi di colloquio, alla corrispondenza
telefonica e al visto di controllo sulla corrispondenza, previsti dagli articoli 18 e 18
ter O.P. (analoga disposizione è in vigore per le autorizzazioni sanitarie, di cui
all’art. 11 O.P., e per i permessi di necessità, regolati dall’art. 30 O.P.).
36
Non va trascurato che, nella prassi giudiziaria, il rilascio dei permessi ai colloqui visivi, prima
dell’esercizio dell’azione penale, è effettuato dal P.M. che procede. E, in tal senso, si muove anche la
delibera di approvazione del parere dell’ufficio studi espressa dal C.S.M. nella seduta del 16.4.98 (in
Bollettino del C.S.M., n .3 - 4- 5 del 1998, 120).
37
Cassazione, sez. I, sentenza n. 35288/01, in tema di permessi di necessità.
19
4.3 DOPO LA PRONUNCIA DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, vale a dire dopo la lettura o il
deposito della motivazione della sentenza38, momento in cui “il giudice pone termine
al suo rapporto con il processo”, non vige una disciplina comune. Difatti:
A. I permessi di colloquio visivo sono autorizzati dal direttore dell’istituto
penitenziario in cui il richiedente è detenuto o internato (ai sensi dell’art.18, comma
VIII, ultima parte, O.P.39, cui si aggiunge l’art. 37, comma I, reg. es.: “I colloqui dei
condannati, degli internati, e quelli degli imputati, dopo la pronuncia della sentenza
di primo grado, sono autorizzati dal direttore dell’istituto”).
B. La competenza ad autorizzare la corrispondenza telefonica è attribuita al
magistrato di sorveglianza, ai sensi dell’art. 18, comma VIII, che rinvia all’art. 11,
comma II, O.P. Tale conclusione non muterebbe neanche qualora si ritenesse
applicabile l’art. 240 norme att. c.p.p., atteso che, anche questa norma, per il periodo
successivo alla pronuncia della sentenza di primo grado, attribuisce allo stesso
organo il potere di emettere i provvedimenti di cui all’art. 11 O.P.
La competenza del magistrato è territorialmente limitata all’istituto sottoposto alla
sua giurisdizione e nel quale il richiedente è detenuto o internato, dunque, in
concreto, potrebbe sorgere un conflitto di competenza tra magistrati di sorveglianza.
A riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che “è ammissibile, in quanto
inquadrabile nell’ambito dei casi analoghi cui si riferisce l’art. 28, comma II, c.p.p.,
il conflitto (negativo) tra magistrati investiti di giurisdizione attinente a
provvedimenti di natura amministrativa loro demandati dalla legge” (Cassazione,
sez. I, sentenza n. 874/95, in tema, per l’appunto, di corrispondenza telefonica).
Al fine di evitare l’insorgere di un conflitto negativo, si possono applicare due
criteri di attribuzione della competenza. Così: a) nel caso in cui il detenuto, dopo la
presentazione della richiesta di autorizzazione alla corrispondenza telefonica, sia
trasferito in altro istituto, la competenza a decidere appartiene al magistrato di
sorveglianza nella cui giurisdizione viene a trovarsi, di fatto, il richiedente; b) nella
diversa ipotesi in cui il ristretto, dopo la presentazione della richiesta di
autorizzazione, sia trasferito in altro istituto penitenziario per ragioni contingenti (“in
transito”), non viene meno la competenza del magistrato di sorveglianza che ha
giurisdizione sull’istituto cui è stato assegnato, dall’Amministrazione penitenziaria, il
soggetto e nonostante la momentanea assenza40. Regola, questa, che pretende un
ulteriore chiarimento, perché, se si ritiene che la decisione sulla domanda di
38
Articoli 544 e 545 c.p.p.
Introdotta con la legge n. 663 del 1986, l’attribuzione della competenza al rilascio dei permessi di
colloquio all’autorità amministrativa è stata criticata da chi vi ha visto un mutamento di rotta rispetto
alla tendenza di presidiare con le garanzie della giurisdizione la fase dell’esecuzione della pena. E’
evidente, inoltre, il contrasto con l’art. 15 Cost., che attribuisce all’autorità giudiziaria il potere di
limitare la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione.
40
Cassazione, sentenza n. 1904 del 1986, in materia di permessi di necessità.
39
20
autorizzazione alla corrispondenza telefonica richieda una serie di valutazioni
relative non soltanto “all’andamento del trattamento rieducativo”, ma anche
all’ordine e alla sicurezza dell’istituto penitenziario, non può escludersi, a priori, la
competenza del magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto in cui il
richiedente è detenuto, anche se “momentaneamente, per ragioni contingenti (in
transito)”. Di conseguenza: il magistrato, che ha giurisdizione sull’istituto cui il
detenuto è assegnato stabilmente, mantiene la competenza ad autorizzare la
corrispondenza telefonica e il suo provvedimento sarà efficace dal momento in cui il
detenuto farà rientro in istituto; mentre, il magistrato, che ha giurisdizione
sull’istituto in cui il detenuto è in transito, è competente ad autorizzare le telefonate
in uscita da tale istituto e il provvedimento perderà efficacia non appena il ristretto
sarà trasferito. L’applicazione di tali criteri evita anche l’insorgere di un contrasto tra
provvedimenti, nel caso di decisioni diverse su un’analoga richiesta.
La materia dei conflitti di competenza potrà essere regolata, attraverso la
procedura di cui all’art. 28 c.p.p. (nel rispetto della tendenza che mira a presidiare
con le garanzie della giurisdizione l’intera fase dell’esecuzione penale), solo quando
il conflitto coinvolga più magistrati di sorveglianza. Ne deriva, anche sotto tale
profilo, l’inopportunità di delegare l’autorizzazione alla corrispondenza telefonica ai
direttori d’istituto, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e prima del suo
passaggio in giudicato.
4.4 DOPO LA SENTENZA DEFINITIVA
Dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna o di applicazione di una
misura di sicurezza detentiva, la competenza ad autorizzare la corrispondenza
telefonica è attribuita al direttore dell’istituto in cui il richiedente è detenuto o
internato (art. 39, comma II, reg. es.) Il momento in cui i poteri sono trasferiti
all’organo dell’Amministrazione va individuato ai sensi dell’art. 648 c.p.p. Il
direttore, dunque, sarà competente quando, contro la sentenza di condanna o di
applicazione di una misura di sicurezza detentiva, non sia ammessa impugnazione
diversa dalla revisione (perché sono decorsi i termini per proporre impugnazioni o
quelli per impugnare l’ordinanza che ne ha dichiarato l’inammissibilità o, nel caso di
ricorso per cassazione, perché il ricorso è stato rigettato).
In materia di permessi ai colloqui visivi, persiste la competenza del direttore
dell’istituto penitenziario in cui il richiedente e detenuto o internato (art. 18, comma
VIII, O.P.). Peraltro, anche tra autorità amministrative è possibile che sorga un
conflitto negativo di competenza, che andrà risolto dal magistrato di sorveglianza, in
sede di procedimento su reclamo, o dall’autorità amministrativa gerarchicamente
superiore (il cui intervento potrà essere sollecitato da uno dei direttori in conflitto).
Nondimeno, nel caso in cui il detenuto sia trasferito da un istituto ad un altro, un
possibile contrasto tra diverse decisioni sui colloqui visivi o sulla corrispondenza
21
telefonica andrà risolto secondo il criterio individuato dall’Amministrazione
penitenziaria, in base al quale “il trasferimento non deve comportare in alcun modo
una modifica del regime dei colloqui e delle telefonate, che deve restare quello in
atto nell’istituto di provenienza”41.
4.5 ESECUZIONE DI DIVERSI TITOLI DETENTIVI
Qualora nei confronti dello stesso soggetto siano in esecuzione diversi titoli
detentivi emessi in relazione a procedimenti che si trovano in fasi o gradi diversi, si
pone il problema di individuare l’autorità competente ad autorizzare i colloqui visivi
e la corrispondenza telefonica (si pensi ad un soggetto detenuto in esecuzione: a) di
una condanna definitiva; b) di un’ordinanza che dispone la custodia cautelare in
carcere, che sia ancora efficace o sia emessa dopo la pronuncia della sentenza di
primo grado; c) di un’ordinanza di custodia cautelare emessa in un procedimento
ancora nella fase delle indagini preliminari o dopo l’esercizio dell’azione penale, ma
prima della pronuncia della sentenza di primo grado).
A tal proposito, se si ritiene che le esigenze di cautela, legate al procedimento
penale ancora in corso, prevalgano su ogni altra valutazione, si deve affermare la
necessità e la sufficienza della sola decisione dell’autorità giudiziaria, che procede
nella fase anteriore alla pronuncia della sentenza di primo grado, non richiedendosi
alcuna autorizzazione da parte del magistrato di sorveglianza o del direttore
dell’istituto. Ad una conclusione diversa, invece, giunge parte della giurisprudenza
(ormai minoritaria), che ritiene necessaria la pronuncia di ciascuna autorità
competente, in quanto sono differenti i criteri di giudizio da porre a fondamento delle
diverse decisioni. Peraltro, in tal caso, secondo alcuni, sarebbe opportuno che la
decisione del magistrato di sorveglianza o del direttore dell’istituto precedesse quella
dell’autorità giudiziaria, rimettendo a quest’ultima la decisione definitiva. Secondo
altri, “anzitutto deve provvedere il giudice di cognizione e successivamente, in caso
di provvedimento favorevole, deve provvedere il magistrato di sorveglianza”42.
In materia di corrispondenza telefonica, la tesi minoritaria della competenza
concorrente va ulteriormente precisata, dovendosi ritenere, comunque, necessari i
provvedimenti dell’autorità giudiziaria procedente e del magistrato di sorveglianza o
dell’autorità giudiziaria procedente e del direttore dell’istituto (in quest’ultimo caso,
quando nessuno dei procedimenti pendenti si trovi in un grado di giudizio successivo
al primo). E’ da escludere, in ogni caso, la necessità di tre pronunce, poiché il
magistrato di sorveglianza e il direttore dell’istituto utilizzano identici criteri di
valutazione e la pronuncia del magistrato è da privilegiare rispetto a quella
dell’autorità amministrativa. Ne discende che, per gli stessi motivi, se i procedimenti
sono pendenti in un grado di giudizio superiore al primo, è necessario e sufficiente il
41
42
In tal senso, Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
Cassazione, sez. I, sentenza n. 15727 del 1989.
22
solo provvedimento del magistrato di sorveglianza. Nella prassi, invece, è frequente
l’ipotesi inversa, in cui il magistrato delega, al direttore, tutti i poteri decisionali in
materia di corrispondenza telefonica.
Diverso, infine, è il caso in cui il soggetto sia detenuto in esecuzione di diversi
titoli detentivi, emessi in procedimenti distinti, ma pendenti tutti nella fase anteriore
alla pronuncia della sentenza di primo grado. In tal evenienza, le autorità giudiziarie
che procedono sono chiamate ad emettere autonomi provvedimenti di autorizzazione,
in considerazione del fatto che diverse possono essere le esigenze di cautela legate ai
distinti procedimenti penali ancora in corso.
4.6 LA FORMA E L’EFFICACIA DEL PROVVEDIMENTO
I colloqui visivi e telefonici dei detenuti e degli internati devono essere sempre
autorizzati, con provvedimento emesso dalle competenti autorità (art. 18, comma
VIII, e art. 11, comma II, O.P.). Niente, invece, è stabilito in ordine alla forma di tali
provvedimenti. E soltanto con riferimento alla corrispondenza telefonica, il
regolamento si limita a stabilire che “la decisione sulla richiesta, sia in caso di
accoglimento che di rigetto, deve essere motivata” (art. 39, comma V, reg. es.). La
questione, dunque, va affrontata seguendo il riparto della competenza, tra le diverse
autorità giudiziarie e amministrative.
A1. Sino alla pronuncia della sentenza di primo grado, si possono prospettare due
soluzioni. Secondo la prima (che ritiene applicabile l’art. 240, comma I, norme att.
c.p.p. ai fini dell’individuazione sia dell’autorità competente ad autorizzare i colloqui
visivi e la corrispondenza telefonica, sia della forma dei provvedimenti finali) la
decisione deve essere assunta dal giudice che procede (dopo l’esercizio dell’azione
penale) o dal G.I.P. (nel corso delle indagini preliminari) con ordinanza, da motivare
“a pena di nullità” (art. 111, comma VI, Cost. e art. 125, comma III; c.p.p.; norme
che rendono superflua, limitatamente a questa fase, la previsione dell’obbligo di
motivazione contenuta nell’art. 39, comma V, reg. es.).
Legata alla tesi che nega l’operatività dell’art. 240, comma I, norme att. c.p.p. (o
che la limita alla sola individuazione delle autorità decidenti), è l’altra tesi secondo la
quale il P.M. (o il G.I.P.), nel corso delle indagini preliminari, e l’autorità giudiziaria
procedente, dopo l’esercizio dell’azione penale, decidono con decreto, vale a dire
con un provvedimento che “ha di regola carattere amministrativo” e che deve essere
motivato solo nei casi previsti dalla legge (art. 125, comma III, c.p.p.). Tale obbligo
di motivazione è sancito, dal regolamento, soltanto per la corrispondenza telefonica
(art. 39, comma V) e non anche per i colloqui visivi. Per la verità, si potrebbe
valorizzare anche la regola in base alla quale, qualora la forma non sia stabilita dalla
legge, il provvedimento può essere adottato senza l’osservanza di particolari
formalità (art. 125, comma VI, c.p.p.), purché, nel caso di corrispondenza telefonica,
debitamente motivato (art. 39, comma V, reg. es.).
23
Il decreto (o l’ordinanza) di autorizzazione perderà efficacia al momento della
scarcerazione (per annullamento dell’ordinanza che dispone la custodia cautelare o
per revoca o sostituzione o estinzione della misura coercitiva) o della pronuncia della
sentenza di primo grado. Nessuna incidenza sull’efficacia del provvedimento di
autorizzazione, invece, avranno il passaggio da una fase all’altra del procedimento
(dall’indagine preliminare, all’udienza preliminare e al giudizio di primo grado) e
l’eventuale trasferimento del ristretto da un istituto penitenziario all’altro.
B1. In materia di colloqui visivi, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado,
il provvedimento di autorizzazione del direttore dell’istituto costituisce esercizio di
una potestà amministrativa (vincolata, nel caso di congiunti e conviventi,
discrezionale, negli altri casi), che incide su una posizione soggettiva, giuridicamente
rilevante. Per tale motivo e in applicazione dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, il
provvedimento deve essere motivato e, se non revocato (o annullato in sede di
autotutela), sarà efficace sino a quando il detenuto sarà ristretto nello stesso istituto
(limite temporale e spaziale alla potestà amministrativa). In caso di trasferimento in
altro istituto (ex art. 42 O.P.), dunque, sarà necessario emettere nuovi provvedimenti
d’autorizzazione ai colloqui. Diversa, invece, è la scelta operata
dall’Amministrazione penitenziaria, secondo la quale “il trasferimento di detenuti da
uno ad altro istituto non deve comportare in alcun modo una modifica del regime dei
colloqui”43.
In tema di corrispondenza telefonica, invece, dopo la pronuncia della sentenza di
primo grado e sino al suo passaggio in giudicato, il magistrato di sorveglianza
autorizza o nega la corrispondenza telefonica con provvedimento, da motivare, ai
sensi dell’art. 39, comma V reg. es., che assume la forma del decreto oppure
dell’ordinanza, qualora si ritenga che il rinvio all’art. 240, comma I, norme att. c.p.p.
operi anche per l’individuazione della tipologia dell’atto. Il provvedimento del
magistrato di sorveglianza perderà efficacia: 1) al momento della scarcerazione; 2)
nel caso di trasferimento del detenuto o dell’internato in un istituto posto sotto la
giurisdizione d’altro magistrato di sorveglianza (tuttavia, in caso di rientro in istituto,
tornerà ad essere efficace la prima autorizzazione, purché sia ancora in esecuzione lo
stesso titolo detentivo e l’assenza del detenuto non si sia protratta per un tempo tale
da rendere opportuna una nuova valutazione della situazione di fatto). Dopo il
passaggio in giudicato della sentenza di condanna o di applicazione di una misura di
sicurezza detentiva, l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza non perderà
efficacia e non sarà necessario un nuovo provvedimento del direttore, a meno che il
ristretto non sia trasferito in un istituto posto sotto la giurisdizione di altro
magistrato.
C1. In materia di corrispondenza telefonica, dopo la pronuncia della sentenza
definitiva di condanna, il provvedimento d’autorizzazione del direttore dell’istituto
43
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
24
costituisce esercizio di una potestà amministrativa di natura discrezionale, che incide
su una posizione soggettiva, avente rilevanza giuridica. Per tale motivo, anche se non
vi fosse l’art. 39, comma V, reg. es., il provvedimento andrebbe motivato, in
applicazione dell’art. 2 della legge n. 241/90.
In tema di permessi di colloquio visivo, rimane ferma la competenza del direttore
dell’istituto, così come individuata dall’art.18, comma VIII, seconda parte, O.P. e
dall’art. 37, comma I, reg. es. Il provvedimento del direttore sarà efficace sino alla
scarcerazione (per fine pena o per ammissione a misura alternativa alla detenzione in
carcere) e sino a quando il detenuto rimarrà ristretto nello stesso istituto (limite
temporale e spaziale alla potestà amministrativa). Pertanto, in caso di trasferimento,
sarà necessario emettere nuovi provvedimenti di autorizzazione ai colloqui. Di
diverso avviso, invece, è l’Amministrazione penitenziaria, secondo la quale “il
trasferimento di detenuti da uno ad altro istituto non deve comportare in alcun modo
una modifica del regime dei colloqui e delle telefonate, che deve restare quello in
atto nell’istituto di provenienza”, a meno che non si rilevi, “con intervento motivato,
l’erroneità delle concessioni precedenti”44.
5. LA TUTELA GIURISDIZIONALE
5.1 LA TUTELA DEI DIRITTI DEI RISTRETTI
Individuate le forme dei provvedimenti di autorizzazione ai colloqui, è necessario
verificare se avverso di essi sia esperibile una qualche forma di ricorso, per la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei detenuti. A riguardo, in passato, la
giurisprudenza di legittimità escludeva la possibilità di impugnare i provvedimenti
che negavano i permessi di colloquio e la corrispondenza telefonica. A fondamento
di tale scelta si ponevano tre argomenti: a) la natura amministrativa dei
provvedimenti, destinati a regolare le sole modalità esecutive della pena; b) la
mancanza di una espressa previsione legislativa che (in ossequio al principio di
tassatività dei mezzi di impugnazione) indicasse il mezzo di gravame utilizzabile; c)
la non incidenza di tali provvedimenti sulla libertà personale, con conseguente non
ricorribilità in cassazione (ex art. 111, comma VII, Cost.)45.
Con riferimento esclusivo ai provvedimenti del direttore dell’istituto, invece, non
si negava la possibilità di utilizzare lo strumento del reclamo46, previsto dall’art. 35
44
Ibidem.
“Non sono impugnabili i provvedimenti di diniego dell’autorizzazione del detenuto alla
corrispondenza telefonica, adottati dall’autorità giudiziaria o da quella penitenziaria, secondo l’ordine
delle rispettive competenze, sia per il principio di tassatività delle impugnazioni, sia perché detti
provvedimenti non sono comunque annoverabili tra quelli concernenti la libertà personale, ricorribili
ex art. 111 Cost.” (Cassazione, sez. I, sentenza n. 4892 del 1993).
46
Sul ricorso ai mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento amministrativo: Cassazione, sez.
IV, sentenza n. 2222, 10 maggio 2000.
45
25
O.P. e regolato dall’art. 75 reg. es. Ma il procedimento per reclamo è privo dei
caratteri propri della procedura giurisdizionale, risolvendosi in una mera doglianza
rivolta al magistrato, che decide senza alcuna formalità, con provvedimento
inoppugnabile. Peraltro, i poteri decisori dell’organo della giurisdizione sono
particolarmente limitati: in caso di accoglimento del reclamo, il magistrato di
sorveglianza rivolge “le opportune segnalazioni ai superiori gerarchici degli
operanti”, ma non può loro sostituirsi, per eliminare il provvedimento che ha dato
luogo alla lesione dei diritti; in caso di rigetto, informa il detenuto dei motivi che
hanno determinato la decisione.
L’assenza di un sistema di tutela delle posizioni soggettive, giuridicamente
rilevanti, dei detenuti, ha indotto la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità
dell’art. 35 e dell’art. 69, comma VI, O.P. “nella parte in cui non prevedono una
tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi
dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale”. In
particolare, con la sentenza n. 29 del 1999, la Corte ha riconosciuto la sussistenza di
diritti inviolabili dell’uomo che non possono essere annullati dalla condizione di
persona sottoposta a restrizione della libertà personale. Diritti che, se lesi da un atto
dell’Amministrazione penitenziaria, devono essere fatti valere attraverso una
procedura giurisdizionale, che assicuri le garanzie minime previste dalla
Costituzione, vale a dire la possibilità di contraddittorio, la stabilità della decisione e
l’impugnabilità con ricorso in cassazione. Da qui, la dichiarazione di illegittimità
degli articoli 35 e 69, comma VI, O.P., senza però che ne seguisse l’indicazione della
procedura che andrebbe applicata ai casi in questione, rimettendosi al legislatore la
relativa scelta. Soltanto con la successiva sentenza, n. 526 del 2000, la Corte
costituzionale è tornata sull’argomento, precisando che “mentre spetta al legislatore
effettuare le scelte necessarie per disciplinare la materia, spetta ai giudici, frattanto,
individuare nell’ordinamento in vigore lo strumento per concretizzare il principio
affermato”.
5.2 LA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE N. 25079 DEL 2003:
IL RECLAMO AL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
La sentenza n. 29/99 della Corte costituzionale non è però servita a risolvere il
contrasto giurisprudenziale, sorto in ordine alla natura del rimedio da utilizzare
contro gli atti dell’Amministrazione penitenziaria, lesivi dei diritti del detenuto. Così,
proprio con riferimento alla materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica,
sono intervenute le Sezioni Unite della cassazione, le quali, con la sentenza n. 25079
del 2003, hanno stabilito che “i provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria, in
materia di colloqui visivi e telefonici dei detenuti e degli internati, in quanto incidenti
su diritti soggettivi, sono sindacabili in sede di giurisdizione mediante reclamo al
magistrato di sorveglianza che decide, con ordinanza ricorribile per cassazione,
26
secondo la procedura indicata nell’art. 14 ter O.P.”47. E la scelta di tale procedura
sarebbe giustificata dalla necessità di garantire, al ricorrente, uno strumento di tutela
agile e veloce delle proprie istanze, a fronte della più lunga e complessa procedura
del rito camerale ordinario. Difatti, gli articoli 14 ter e 71 e seguenti O.P. prevedono:
il termine di dieci giorni per proporre reclamo; il termine di cinque giorni per
l’avviso dell’udienza al difensore, al P.M. e all’interessato; la partecipazione
all’udienza, non necessaria, del difensore e del P.M.; la facoltà per l’interessato e
l’Amministrazione di presentare memorie (senza diritto di partecipazione); la
possibilità di proporre ricorso per cassazione, entro dieci giorni dalla comunicazione
del provvedimento.
47
I giudici di legittimità ritengono che sia operante un sistema di tutela delle posizioni soggettive,
connesso alla predisposizione, all’attuazione e alle modalità d’esecuzione del programma di
trattamento. Un sistema che trova fondamento nella norma contenuta nell’art. 69, comma V, O.P., in
base alla quale “il magistrato di sorveglianza impartisce, nel corso del trattamento, disposizioni dirette
ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati”. Secondo le Sezioni Unite,
tale disposizione resterebbe inoperante se non fosse attribuito, all’interessato, il potere di azionare la
giurisdizione proprio al fine di denunciare la violazione delle posizioni soggettive, legate alla
predisposizione, all’attuazione e all’esecuzione del programma di trattamento. Tuttavia, in conformità
a tale impostazione, la tutela giurisdizionale sarebbe limitata ai soli condannati e internati e alle sole
posizioni soggettive connesse al trattamento. Per un approfondimento della tematica: G. M. Napoli,
La tutela dei diritti dei detenuti e degli internati lesi da atti illegittimi dell’Amministrazione
Penitenziaria, http://www.diritto.it/indice.php?cat=11, aprile 2007.
27
CAPITOLO SECONDO
I COLLOQUI VISIVI
Sommario: 1 Soggetti legittimati e autorità competenti: 1.1 I soggetti legittimati; 1.2 Le
autorità competenti. 2 La frequenza dei colloqui visivi: 2.1 La disciplina del nuovo
regolamento di esecuzione; 2.2 Il regime differenziato 2.2.1: (segue) Dubbi sulla legittimità;
2.3 I colloqui ulteriori; 2.4 La durata del colloquio. 3 Modalità di svolgimento del colloquio:
3.1 La disciplina normativa; 3.2 Particolari modalità di svolgimento; 3.3 Ricovero in luogo
esterno di cura e colloqui. 4 La disciplina derogatoria dell’art. 41 bis: 4.1 Frequenza dei
colloqui e autorità competenti; 4.2 La circolare n. 3592/6042 del 2003. 5 Cenni sulle altre
tipologie di colloquio: 5.1 Il colloquio con il difensore; 5.2 Ingresso senza autorizzazione; 5.3
Gli interventi istituzionali.
1. SOGGETTI LEGITTIMATI E AUTORITA’ COMPETENTI
1.1 I SOGGETTI LEGITTIMATI
Come detto, le persone che possono essere ammesse ai colloqui con i detenuti e
gli internati sono espressamente indicate dall’art. 18, comma I e III, O.P. e dall’art.
37, comma I, reg. es. In base al primo articolo, “i detenuti e gli internati sono
ammessi ad avere colloqui con i congiunti e con altre persone, anche al fine di
compiere atti giuridici” (comma I), riservandosi “particolare favore ai colloqui con i
familiari” (comma III). In applicazione del principio enunciato dalla norma di legge,
il regolamento stabilisce che “i colloqui con persone diverse dai congiunti e dai
conviventi sono autorizzati quando ricorrono ragionevoli motivi” (art. 37, comma I).
Le due norme, dunque, individuano le seguenti categorie di soggetti che possono
essere ammesse ai colloqui con i detenuti e gli internati: i congiunti (o familiari), i
conviventi, le altre persone (diverse dai congiunti e dai conviventi) quando ricorrono
ragionevoli motivi.
1.2 LE AUTORITA’ COMPETENTI
Si è visto anche che le autorità competenti ad autorizzare i colloqui, su richiesta
dei detenuti e degli internati (ma anche dei soggetti che intendono incontrare i
reclusi), sono individuate dall’art. 18, comma VIII, O.P. Così:
A. Per gli imputati, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, la
competenza è assegnata all’autorità giudiziaria, individuata ai sensi dell’art. 11,
comma II, O.P. Tale norma, però, è stata sostituita dall’art. 240, comma I, norme. att.
c.p.p., che attribuisce il potere di autorizzare il ricovero in luogo esterno di cura, al
giudice per le indagini preliminari, prima dell’esercizio dell’azione penale, e al
giudice che procede, dopo tale momento e sino alla pronuncia della sentenza di
primo grado. Parte della giurisprudenza, tuttavia, non ritiene applicabile l’art. 240
alla materia dei colloqui visivi e, limitatamente al periodo precedente all’esercizio
dell’azione penale, ritiene competente il pubblico ministero, in quanto “dominus ed
28
unico titolare delle indagini preliminari”. Dopo l’esercizio dell’azione penale, invece,
l’autorità competente è individuata interpretando l’art. 11, comma II, O.P., secondo il
criterio stabilito dall’art. 208 norme att. c.p.p.
B. Dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, i permessi di colloquio
sono di competenza del direttore dell’istituto (art. 18, comma VIII, ultima parte,
O.P., art. 37, comma I, reg. es.).
2. LA FREQUENZA DEI COLLOQUI VISIVI
2.1 LA DISCIPLINA DEL NUOVO REGOLAMENTO DI ESECUZIONE
Il numero dei colloqui visivi è stabilito dal regolamento di esecuzione. Nulla,
invece, è previsto dalla legge; lacuna, questa, che ha fatto dubitare della legittimità di
alcune norme restrittive contenute nella fonte normativa subordinata. In particolare,
il nuovo regolamento ha modificato la precedente disciplina48, elevando a sei al mese
il numero dei colloqui. Si tratta, dunque, di sei colloqui ordinari, la cui concessione
non dipende dall’esercizio di un potere discrezionale, da parte delle autorità
competenti a decidere sull’istanza di ammissione (art. 37, comma VIII, reg. es.).
Il superamento della frequenza settimanale e l’introduzione della cadenza
mensile49, può “favorire la possibilità di accedere ai colloqui anche consecutivi, fino
a potervi comprendere la cumulabilità nella stessa giornata, compatibilmente alle
esigenze organizzative, e soprattutto quando quella modalità coincida con il piano
trattamentale individualizzato del detenuto”50. Peraltro, tale cumulabilità “non va
confusa con la possibilità di prolungare la durata del colloquio, in considerazione di
eccezionali circostanze” (art. 37, comma X, reg. es.).
2.2 IL REGIME DIFFERENZIATO
Il limite di sei colloqui mensili non si applica ai detenuti e agli internati per uno
dei reati previsti dal primo periodo dell’art. 4 bis O.P., per i quali operi il divieto di
concessione dei benefici penitenziari, ed indipendentemente dal loro inserimento
nelle sezioni ad Alta Sicurezza. Con riferimento a questa tipologia di ristretti, difatti,
il regolamento dispone che “il numero dei colloqui non può essere superiore a
quattro al mese” (art. 37, comma VIII, reg. es.).
48
L’art. 35 del regolamento esecutivo del 1976 stabiliva che i detenuti o gli internati potessero fruire
di un colloquio settimanale. Frequenza che il D.P.R. n. 421, 10 luglio 1985, portò a quattro colloqui al
mese. Con lo stesso decreto, inoltre, fu introdotto l’istituto dei colloqui premiali, attribuendosi al
direttore dell’istituto il potere di concedere agli imputati (che avessero tenuto regolare condotta) e ai
detenuti e gli internati (che avessero collaborato attivamente all’osservazione scientifica della
personalità ed al trattamento rieducativo) la fruizione di due ulteriori colloqui mensili e di due
telefonate.
49
D.P.R. n. 421/85 cit.
50
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
29
Presupposto per l’applicazione di tale diverso limite è che il detenuto o l’internato
sia ristretto in carcere, a seguito di condanna definitiva o di ordinanza che dispone la
custodia cautelare, per uno dei reati previsti dalla prima parte dell’art. 4 bis O.P. La
norma, invece, non si applica qualora il soggetto sia ristretto per altro e indagato, a
piede libero, per uno dei reati indicati dall’art. 4 bis, primo periodo. E’ necessario,
inoltre, che i reclusi siano sottoposti al divieto di concessione di benefici. Di
conseguenza, il limite dei quattro colloqui mensili non opererà (e si applicherà il
regime ordinario) nei casi, previsti dall’art. 4 bis, di collaborazione ai sensi dell’art.
58 ter O.P., di collaborazione irrilevante o di collaborazione impossibile51.
Anche in ordine al limite stabilito dall’art. 37 comma VIII, si pone la questione
relativa all’ammissibilità della scissione del cumulo (materiale o giuridico) di pene,
qualora solo alcune condanne siano state riportate per uno dei reati previsti dall’art. 4
bis, comma I, prima parte, O.P. In ordine al cumulo materiale operato dal P.M. (art.
80 c.p.), è pacifico che si debba considerare scontata per prima la pena che ha effetti
pregiudizievoli per il condannato, con conseguente venire meno di tali effetti (nel
nostro caso, ammissione a sei colloqui)52. In ordine al cumulo giuridico (derivante da
condanna per reato continuato), vi sono posizioni contrastanti tra chi sostiene che il
reato continuato debba considerarsi sempre unico reato, senza possibilità di scissione
del cumulo (sicché gli eventuali effetti pregiudizievoli si produrranno sino al termine
della pena cumulata53), e chi ritiene applicabile la regola della scissione, in
conformità al principio del favor rei. Quest’ultima posizione è dominante in dottrina
ed è stata accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione, Sezioni
Unite, 30 giugno 1999).
2.2.1 (segue) DUBBI SULLA LEGITTIMITA’
La limitazione al numero di colloqui mensili, operante nei confronti delle persone
recluse per uno dei reati previsti dalla prima parte dell’art. 4 bis O.P., ha fatto sorgere
un aspro dibattito giurisprudenziale e dottrinario sulla legittimità dell’art. 37, comma
VIII, reg. es.
Tesi dell’illegittimità. La tesi dell’illegittimità della norma regolamentare (con
conseguente disapplicazione, ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248)
si fonda su numerosi argomenti. Anzitutto, si ritiene che, con tale disposizione, “il
nuovo regolamento (in contrasto con le sue stesse finalità, espresse nella relazione di
accompagnamento) introduca una disparità di trattamento che non trova alcuna
giustificazione nella legge, comportando un notevole peggioramento della disciplina
51
Circolare D.A.P., n. 3533/5983, 3 novembre 2000.
Dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, spetta al direttore dell’istituto verificare
l’avvenuta espiazione della pena, inflitta per il reato ostativo, e disporre l’applicazione del regime
ordinario dei colloqui visivi.
53
Circolare D.A.P., n. 3533/5983 del 2000, cit.
52
30
precedente per i detenuti condannati per i reati di cui all’art. 4 bis”. In secondo luogo,
si evidenzia che gli articoli 1, comma II, 3 e 4 O.P., riconoscono e tutelano una serie
di posizioni soggettive legate al trattamento penitenziario, senza consentire alcuna
differenziazione tra detenuti. E, in tale ambito, è da ricondurre anche la materia dei
colloqui e della corrispondenza telefonica con i familiari. Difatti, “l’agevolazione dei
rapporti con la famiglia è uno degli elementi del trattamento (art. 15 O.P.), e come
tale, costitutivo di un diritto in capo ai detenuti, diritto al trattamento e ai suoi
elementi, che deve essere uguale per tutti”. Principio, questo, che, in quanto fissato
dalla legge, non può essere derogato da una norma subordinata di natura
regolamentare. Inoltre, si rileva che, quando l’ordinamento penitenziario ha voluto
differenziare l’applicazione dei diritti del detenuto, l’ha fatto in modo espresso, con
norma di legge, in relazioni a particolari e comprovate esigenze legate all’ordine e
alla sicurezza degli istituti o all’ordine e alla sicurezza pubblica e per periodi
determinati, rimettendo all’Amministrazione il compito di valutare la sussistenza
delle specifiche esigenze nel caso concreto (si pensi agli articoli 14 bis e 41 bis O.P.).
In conclusione, “la materia dei rapporti con la famiglia è una di quelle sfere
riguardanti i diritti fondamentali delle persone detenute, in cui non possono farsi
restrizioni, se non quando la legge autorizzi gli interventi stessi, determinandone le
condizioni”.
Tesi della legittimità. Al contrario, la tesi della legittimità della norma
regolamentare è stata sostenuta dalla Corte di Cassazione, secondo la quale “le
disposizioni limitative dei colloqui che riguardano i detenuti sottoposti al regime
carcerario di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, previste dall’art. 37,
comma VIII, e 39, comma II, del D.P.R. n. 230 del 2000, sono pienamente legittime
e si integrano con il regime differenziato stabilito, per esigenze di sicurezza pubblica,
nei confronti di quei reclusi che, in relazione al titolo di reato, si presumono
particolarmente pericolosi”54.
Prima che prendesse posizione la giurisprudenza di legittimità, la questione era
stata affrontata dall’Amministrazione penitenziaria, che aveva sostenuto la legittimità
degli articoli 37 e 39 reg. es. sulla base dell’esistenza “nel sistema penitenziario di un
principio generale di diversificazione in concreto del regime detentivo (diversa da
quella ammessa eccezionalmente dalla legge agli articoli 14 bis e 41 bis)” fondato
sull’art. 4 bis O.P. Le norme regolamentari, dunque, avrebbero soltanto la funzione
di “specificare, a livello regolamentare, la volontà legislativa di restringere, per
determinati soggetti, la possibilità di tenere contatti con le organizzazioni criminali di
appartenenza”. Peraltro, tale diversificazione verrebbe meno con “la scelta del
ristretto di collaborare con la giustizia o comunque di recidere i collegamenti con la
criminalità organizzata”. In assenza di tale “percorso trattamentale, una
54
Cassazione, sez. I, sentenza n. 13079 del 2002; nello stesso senso, Cassazione, Sezioni Unite,
sentenza del 10.6.2003.
31
differenziazione del regime detentivo non rimane priva di logica e di giustificazione
giuridica”.
2.3 I COLLOQUI ULTERIORI
In casi particolari, il limite di sei (o quattro55) colloqui mensili può essere
superato. L’art. 37, comma IX, reg. es., prevede, infatti, la possibilità (non il dovere
dell’autorità che decide) di concedere colloqui visivi (senza fissarne il numero) anche
fuori dei limiti precedenti, quando:
1. Il detenuto sia gravemente infermo; in tal caso, si dovrà monitorare,
costantemente, lo stato di salute del detenuto o dell’internato e valutare se sia
opportuna la concessione di colloqui ulteriori. Peraltro, l’infermità, cui fa riferimento
la norma, è quella che, determinando uno stato di salute compatibile con la
detenzione in carcere o l’internamento, richiede cure mediche che possono essere
apprestate dai servizi sanitari degli istituti o, al più, dagli ospedali civili, dove il
ristretto può essere trasferito (art. 11, comma II, O.P.). Si dubita, invece, se la norma
si riferisca alla sola infermità fisica o anche a quella psichica. L’interpretazione
restrittiva potrebbe fondarsi sulla presenza di un’altra norma regolamentare, che, in
modo espresso, prevede la possibilità di concedere colloqui visivi, oltre i limiti
indicati dall’art. 37, comma VII, ai detenuti o agli internati infermi o seminfermi di
mente (art. 20, comma I, reg. es.). Tuttavia, considerate le diverse finalità delle due
disposizioni, si dovrebbe privilegiare un’interpretazione estensiva. Difatti, mentre il
colloquio ulteriore, regolato dall’art. 37, è connesso all’infermità del detenuto (o
dell’internato), movendosi in un’ottica umanitaria (“le pene non possono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità”); invece, il colloquio ulteriore, ex art. 20,
comma I, reg. es., ha una finalità strettamente trattamentale, rientrando tra quegli
interventi volti a favorire “la partecipazione a tutte le attività trattamentali e, in
particolare, a quelle che consentono di mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni
con la famiglia o con l’ambiente esterno”. Ne discende, dunque, la possibilità di
concedere, ai sensi dell’art. 37, comma IX, colloqui ulteriori, a reclusi in stato di
infermità psichica, anche quando non sia necessario mantenere o migliorare le
relazioni familiari.
2. Il colloquio si svolga con prole di età inferiore ai 10 anni; la norma mira a
tutelare il diritto dei bambini a mantenere un proficuo rapporto con il genitore
detenuto o internato. A riguardo, l’Amministrazione penitenziaria ha sottolineato
come sia necessario “salvaguardare il rapporto bambino - genitore, non soltanto nella
prospettiva dei diritti di quest’ultimo, ma anche e soprattutto nella prospettiva dei
55
I casi ulteriori di concessione dei colloqui, previsti dall’art. 37, comma IX, reg. es., si applicano ad
entrambe le ipotesi regolate dal comma VIII dello stesso articolo e, quindi, sia ai ristretti per reati
comuni, sia per delitti previsti dalla prima parte del comma I dell’art. 4 bis O.P. (circolare D.A.P. n.
3533/5983, del 2000, cit.).
32
diritti del bambino, anche se questa prospettiva non viene chiaramente esplicitata”
dalle norme sui colloqui visivi56.
3. Ricorrano particolari circostanze; tale locuzione si riferisce a tutte quelle
situazioni che, sulla scorta del senso comune, siano particolari e, quindi, non
generali, non escludendosi, però, che “la circostanza in oggetto possa essere
ricorrente o continuata nell’ambito di un periodo definito (non dovendosi
necessariamente esaurire in un unico momento). In ogni caso, il provvedimento di
ammissione al beneficio deve essere adeguatamente motivato57.
4. Come detto, altra ipotesi di colloqui visivi ulteriori è quella regolata dall’art. 20
reg. es., che detta disposizioni in materia di esecuzione delle misure restrittive della
libertà personale a carico di detenuti o internati infermi o seminfermi di mente. In
particolare, il comma I, richiede che nei confronti di tale categoria di ristretti siano
attuati interventi che favoriscano la loro partecipazione a tutte le attività trattamentali
e, in particolare, a quelle che consentano, in quanto possibile, di mantenere,
migliorare o ristabilire le loro relazioni con la famiglia e l’ambiente sociale. A tal
fine è possibile autorizzare lo svolgimento di colloqui visivi fuori dei limiti stabiliti
dall’art. 37, comma VIII, reg. es.
L’ambito di applicazione della norma è delimitato dal generico riferimento ai
detenuti e agli internati “infermi o seminfermi di mente”. La disposizione, dunque,
sembrerebbe applicabile: a) nel caso in cui lo stato attuale d’infermità (o di
seminfermità) di mente sussistesse anche al momento della commissione del fatto
previsto dalla legge come reato (art. 202 c.p.), incidendo sull’imputabilità (articoli
85, 88 e 89 c.p.) e comportando l’applicazione della misura di sicurezza detentiva del
ricovero in un O.P.G. o in una Casa di cura (articoli 119 e 222 c.p.); b) nel caso in
cui l’infermità (o la seminfermità) di mente sia sopravvenuta, nel corso
dell’esecuzione della pena (art. 148 c.p.) o della misura coercitiva della custodia
cautelare in carcere (art. 206 c.p.) o della misura di sicurezza detentiva della colonia
agricola o della casa di lavoro (art. 212, comma II c.p.), ed indipendentemente dal
fatto che tale stato patologico abbia comportato il ricovero in un O.P.G. o in una
Casa di cura (articoli 148, 206 e 212, comma II c.p., 111 comma IV, e 112 reg. es.),
ovvero l’assegnazione ad un istituto o sezione speciale per infermi o minorati
psichici (art. 111, comma V, reg. es.).
Peraltro, lo stato di infermità o seminfermità mentale condiziona anche le
valutazioni da compiere ai fini dell’adozione del provvedimento di ammissione ai
colloqui visivi ordinari (e alla corrispondenza telefonica). L’art. 20, comma III, reg.
es., difatti, dispone che “nella concessione dei permessi di colloquio e nelle
autorizzazioni alla corrispondenza telefonica si devono tenere in conto le esigenze di
56
57
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
Circolare D.A.P., n. 3533/5983 del 2000, cit.
33
cui al comma I”, vale a dire le esigenze di mantenere, migliorare o ristabilire, in
quanto possibile, le relazioni con la famiglia e l’ambiente esterno58.
5. L’ultima ipotesi di concessione di colloqui visivi ulteriori è regolata dall’art.
61, comma II, reg. es. Si tratta di colloqui che possono essere concessi solo in
presenza delle specifiche circostanze individuate dallo stesso articolo. In particolare,
la norma dispone che la direzione degli istituti e gli U.E.P.E. dedichino particolare
attenzione: a) ad affrontare la crisi conseguente all’allontanamento del soggetto dal
nucleo familiare; b) a rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i
figli, specie in età minore; c) a preparare la famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il
soggetto stesso al rientro in società. A tal fine, il direttore dell’istituto, secondo le
specifiche indicazioni del gruppo di osservazione (rectius: equipe), “può concedere
colloqui oltre quelli previsti dall’art. 37” e autorizzare particolari modalità di visita
(art. 61, comma II, reg. es.). La norma, peraltro, si applica a tutti i detenuti (sia
comuni, sia ristretti per i reati previsti dall’art. 4 bis, comma I, prima parte, O.P. e per
i quali operi il limite di quattro colloqui mensili)59.
Stante la natura derogatoria dell’art. 61 reg. es. ed il conseguente divieto di
applicazione analogica, l’Amministrazione penitenziaria ha cercato di definirne, con
precisione, l’ambito applicativo, in modo da indirizzare l’esercizio del potere
discrezionale di autorizzazione, attribuito ai direttori d’istituto. Così, in ordine ai
presupposti di fatto, che possono giustificare la concessione di colloqui ulteriori, si è
stabilito che: a) la necessità di “affrontare la crisi conseguente all’allontanamento dal
nucleo familiare”, richieda accurati accertamenti sulla realtà familiare e soprattutto
sul sopravvenire di una situazione di crisi, causata dall’allontanamento del soggetto;
b) la possibilità di “mantenere un valido rapporto con i figli, specie in età minore”,
vada intesa nel senso che i colloqui aggiuntivi e le particolari modalità di visita
debbano rendere possibile non un rapporto qualsiasi, ma un rapporto che sia valido,
da apprezzare secondo il senso comune, tenendo conto delle molteplici circostanze;
c) la preparazione della famiglia o dell’ambiente di vita (si pensi al prossimo datore
di lavoro) e del soggetto, al rientro nel contesto sociale, avvenga nel tempo prossimo
alla scarcerazione, per fine pena o per ammissione a misure alternative60.
Sotto un diverso aspetto e nonostante il divieto di applicazione analogica,
l’Amministrazione penitenziaria ha proposto un’interpretazione dell’art. 61 reg. es.
58
Non può ritenersi ancora in vigore il comma II dell’art. 20, che consente di proporre la
sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza dei detenuti e degli internati infermi e
seminfermi di mente, per esigenze connesse al trattamento terapeutico accertate dal sanitario. La
norma, difatti, contrasta con quanto disposto dall’art. 18 ter O.P. (inserito con la legge n. 95 del 2004),
che individua tassativamente le ipotesi in cui è possibile disporre, da parte dell’autorità giudiziaria,
forme di controllo della corrispondenza epistolare e tra queste non rientrano le esigenze connesse al
trattamento terapeutico dei detenuti e degli internati infermi o seminfermi di mente.
59
Circolare D.A.P. n. 3533/5983 del 2000, cit.
60
Ibidem.
34
che sembra travalicare il limite del dato testuale. La formulazione letterale della
disposizione in esame, difatti, non ne consentirebbe l’applicazione agli indagati e agli
imputati, prima della pronuncia della sentenza di primo grado, in quanto: a) la norma
attribuisce espressamente il potere di concedere colloqui ulteriori al solo direttore (e
non anche all’autorità giudiziaria che procede); b) il direttore decide secondo le
specifiche indicazioni del gruppo di osservazione (rectius: equipe), il cui intervento è
previsto soltanto con riferimento ai condannati e agli internati. Al contrario, invece, il
D.A.P. ha stabilito che anche i colloqui ulteriori previsti dall’art. 61, comma II, reg.
es. potrebbero essere concessi agli indagati e agli imputati, dall’autorità giudiziaria
che procede, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado61.
In ordine alla scansione temporale dei colloqui visivi (ordinari e ulteriori), l’art. 37,
comma XIII del reg. es., stabilisce che, “nei confronti dei detenuti che svolgono attività
lavorativa articolata su tutti i giorni feriali, è favorito lo svolgimento dei colloqui nei
giorni festivi, ove possibile”. L’inciso finale (“ove possibile”), dunque, subordina
l’applicazione della norma ad una valutazione discrezionale della direzione, che terrà
conto delle particolari esigenze organizzative dell’istituto.
2.4 LA DURATA DEL COLLOQUIO
L’art. 37, comma X, reg. es. ha anche modificato la disciplina della durata del
colloquio, stabilendo che essa non può essere superiore ad un’ora. Tuttavia, se il
colloquio deve tenersi con i congiunti o con i conviventi, tale durata può essere
prolungata in due casi: a) “in considerazione di eccezionali circostanze”, vale a dire
in presenza “di specifici eventi di rilevante significato e gravità che tocchino il
detenuto o i suoi congiunti o i conviventi”, oppure “in presenza di situazioni critiche
e difficili, non riconducibili ad un singolo evento”62; b) “nei casi in cui questo si
svolga con familiari e conviventi, residenti in un comune diverso da quello in cui ha
sede l’istituto”. In tale ultima ipotesi, il colloquio può protrarsi sino al limite delle
due ore, sempre che il detenuto non abbia usufruito del colloquio nella settimana
precedente e il prolungamento della durata sia compatibile con le esigenze
organizzative dell'istituto
3. MODALITA’ DI SVOLGIMENTO DEL COLLOQUIO
3.1. LA DISCIPLINA NORMATIVA
Le modalità di svolgimento del colloquio sono compiutamente regolate dall’art.
37 reg. es. La legge del 1975, invece, si limita a stabilire che “i colloqui si svolgono
in appositi locali, sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”
(art. 18, comma II, O.P.). E, in conformità a questa norma, la giurisprudenza di
61
62
Ibidem.
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
35
legittimità ritiene che l’intercettazione, ai fini delle indagini, dei colloqui dei detenuti
e degli internati con i familiari e le altre persone sia consentita, a pena di
inutilizzabilità, solo se debitamente autorizzata nelle forme di legge, ex art. 267
c.p.p.63.
La legge, dunque, sancisce il principio della riservatezza del colloquio che ispira
la disciplina di dettaglio, contenuta nel regolamento di esecuzione64. In particolare,
l’art.37, comma V, richiede che i colloqui si svolgano in locali senza mezzi divisori o
all’aperto. La regola dell’assenza dei mezzi divisori può essere derogata solo ove
ricorrano particolari ragioni sanitarie o di sicurezza, potendosi, in tali casi, disporre
che il colloquio si svolga in locali interni, muniti di mezzi divisori. Inoltre, la
direzione può consentire che il colloquio si svolga in un locale distinto, qualora
sussistano speciali motivi (tra i quali rientrano “alcune condizioni che riguardano sia
il visitatore, sia il detenuto: si pensi, ad esempio, all’età, a particolari stati emotivi, ad
eventi familiari positivi o negativi”). Nondimeno, nel caso in cui il recluso sia
malato, i colloqui possono tenersi nell’infermeria (art. 37, comma VII, reg. es.).
In ogni caso, il colloquio si svolge sotto il controllo a vista del personale di
custodia. Controllo che deve non soltanto garantire la riservatezza della
conversazione, ma anche assicurare che ognuno tenga un corretto contegno. A
riguardo, è stabilito che “nel corso del colloquio deve essere mantenuto un
comportamento corretto e tale da non recare disturbo ad altri. In caso contrario, il
personale preposto al controllo sospende dal colloquio le persone che tengono un
comportamento scorretto e molesto, riferendo al direttore, il quale decide
sull’esclusione” (art. 37, comma IV). E sempre a tutela del regolare svolgimento dei
colloqui, è previsto che, a ciascun colloquio con il detenuto o con l’internato,
possano partecipare non più di tre persone, prevedendosi una possibilità di deroga
quando si tratti di congiunti o conviventi (art. 37, comma X).
Mentre, a tutela dell’ordine e della sicurezza dell’istituto penitenziario, è posta la
norma secondo la quale “le persone ammesse al colloquio sono identificate e
sottoposte a controllo, con le modalità previste dal regolamento interno, al fine di
garantire che non siano introdotti nell’istituto strumenti pericolosi o altri oggetti non
ammessi” (art. 37, comma III). Peraltro, per i colloqui con gli imputati sino alla
pronuncia della sentenza di primo grado, coloro che intendono svolgere il colloquio
con il detenuto o l’internato devono presentare, al personale di custodia, il permesso
rilasciato dall’autorità giudiziaria (art. 37, comma II). Del colloquio, con qualsiasi
tipologia di detenuti o internati, si fa annotazione in un apposito registro, nel quale
sono indicati gli estremi del permesso (art. 37, comma XI).
63
Cassazione, sez. I, sentenza n. 1905 del 1992.
I giorni in cui è possibile fruire dei colloqui visivi e le modalità particolari di svolgimento sono
stabiliti dal regolamento dell’istituto (art. 36, comma II, lett. f, reg. es.).
64
36
3.2 PARTICOLARI MODALITA’ DI SVOLGIMENTO
Il regolamento consente alle direzioni degli istituti penitenziari di attrezzare aree
esterne (“spazi all’aperto”), per lo svolgimento dei colloqui (art. 37, comma II). In
tal modo, è possibile attenuare i traumi che potrebbero derivare dal contatto con la
struttura penitenziaria (si pensi agli effetti sulla psiche dei bambini e degli anziani).
Ed è proprio valorizzando tale norma, che l’Amministrazione penitenziaria ha
incentivato la realizzazione di apposite "aree verdi" (o di ludoteche, per bambini),
sottolineandosi che, in assenza di motivi ostativi legati all’ordine, alla sicurezza e
alla disciplina degli istituti, “non vi è alcuna ragione ordinamentale che impedisca lo
sviluppo delle aree verdi come modalità generalizzata di svolgimento dei colloqui e
che veda la partecipazione di tutto il nucleo familiare o di altre persone che abbiano
un vincolo significativo”. Qualora, tuttavia, vi siano limiti strutturali e organizzativi,
si devono privilegiare i colloqui dei detenuti con i figli minori (salvaguardando in
primo luogo il rapporto bambino - genitore), ma anche quelli con i genitori anziani65.
Altra norma regolamentare, che presta particolare attenzione alla tutela delle
relazioni familiari, attraverso la previsione di peculiari modalità di contatto tra il
detenuto e i congiunti ammessi ai colloqui, è l’art.61, comma II. Difatti, è previsto
che, per far fronte alle esigenze trattamentali indicate dalla stessa norma, il direttore
dell’istituto, secondo le indicazioni del gruppo di osservazione, possa autorizzare
(oltre a colloqui aggiuntivi) la visita da parte delle persone ammesse ai colloqui, con
il permesso di trascorrere parte della giornata insieme a loro, in appositi locali o
all’aperto, e di consumare un pasto in compagnia. Anche in tale ipotesi, però,
troveranno applicazione le norme che regolano le modalità esecutive del colloquio,
per questo l’incontro si svolgerà sotto il controllo a vista e non auditivo del personale
di custodia (art. 18, comma II, O.P.).
A riguardo, la Corte di cassazione66ha ritenuto manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale degli articoli 18, comma II, e 30 ter O.P. (con riferimento agli
articoli 3, 13, 27, 29, 31 e 32 Costituzione) nella parte in cui non “prevedono la
concessione di permessi premio da trascorrere in carcere” (nel caso esaminato dalla
Corte, il ristretto, in alternativa al permesso premio, aveva chiesto di incontrare, in
condizione di detenzione, la moglie).
3.3 RICOVERO IN LUOGO ESTERNO DI CURA E COLLOQUI VISIVI
Anche nel caso in cui sia stato disposto il ricovero del detenuto o dell’internato in
un ospedale civile o in un luogo esterno di cura, per sottoporlo a cure mediche o
accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari
dell’istituto penitenziario67, è necessario garantire il diritto ai colloqui visivi. A tal
65
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
Cassazione, sez. I, sentenza n. 1542, 15 maggio 1992.
67
Articolo 11 O.P.
66
37
proposito, l’Amministrazione penitenziaria ha stabilito che “i colloqui hanno luogo
nell’osservanza della vigente normativa”68, precisandosi che essi non si possono
svolgere “nelle ore in cui è previsto l’accesso ordinario dei visitatori”. Nondimeno,
“prima del colloquio, il personale deve procedere all’identificazione delle persone
autorizzate” e deve sottoporle “ai controlli previsti dalla normativa vigente, anche a
mezzo di rilevatori di metalli (se le medesime non sono portatrici di pace maker), al
fine di garantire che non vengano introdotti nella stanza strumenti pericolosi od altri
oggetti non ammessi”. In ogni caso, le persone autorizzate non possono “portare,
all’interno della camera di degenza, borse o altri involucri o contenitori”69. Qualora
l’autorizzazione sia valevole per due o più colloqui, “il capo servizio deve trascrivere
sul provvedimento di autorizzazione, controfirmandolo, le date e le ore di ciascun
colloquio, e deve ritirarlo alla scadenza, annotando subito i dati sul libretto di
servizio. Le autorizzazioni, dunque, vengono ritirate dagli agenti e sono consegnate,
alla direzione dell’istituto, al termine del turno”70.
Anche nel caso di ricovero in ospedali civili o altri luoghi esterni di cura di detenuti o
internati sottoposti al regime penitenziario regolato dall’art. 41 bis, comma II, O.P., i
colloqui visivi dovranno essere garantiti e nel caso in cui manchi il locale con vetro
divisore, saranno individuate le opportune modalità, per assicurare la sicurezza ed evitare
il passaggio di oggetti71.
4. LA DISCIPLINA DEROGATORIA DELL’ART. 41 bis
4.1 FREQUENZA DEI COLLOQUI E AUTORITA’ COMPETENTI
Per i soggetti sottoposti al regime carcerario disciplinato dall’art. 41 bis O.P.,
vigono norme particolari, in materia di colloqui visivi. In particolare, la legge
richiede che: a) il ministro della giustizia, con il provvedimento che sospende le
regole del trattamento, stabilisca che il ristretto possa fruire di colloqui visivi, in
numero non inferiore ad uno e non superiore a due al mese, da svolgersi ad intervalli
di tempo regolari; b) i colloqui si svolgano in locali attrezzati, in modo tale da
impedire il passaggio di oggetti; c) siano vietati i colloqui con persone diverse dai
familiari (sino al terzo grado) e dai conviventi, a meno che non ricorrano casi
eccezionali, valutati, volta per volta, dal direttore dell’istituto, o, per gli imputati,
fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria
68
Lo stato di grave infermità del ristretto, che potrebbe giustificare il ricovero in un ospedale civile
o in un luogo esterno di cura, configura una delle ipotesi che consentono di concedere colloqui visivi,
oltre i limiti ordinari (art. 39, comma IX, reg. es.).
69
Circolare D.A.P. n. 3319/5769, 8 luglio 1991; nello stesso senso: Circolare D.A.P. n. 3449/5899,
10 gennaio 1997.
70
Ibidem.
71
Circolare D.A.P., n. 3592/6042, 9 ottobre 2003.
38
competente, individuata ai sensi dell’art. 11, comma II, O.P.72; d) possa disporsi il
controllo auditivo e la registrazione delle conversazioni, ma soltanto previa motivata
autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente, individuata sempre ai sensi
dell’art. 11, comma II (art. 41 bis, comma II quater, lettera b O.P.).
Le deroghe che l’art. 41 bis apporta alla disciplina ordinaria sono evidenti e, per
tale motivo, non potevano che essere introdotte con norme di legge. Anzitutto, è
stabilita una drastica riduzione del numero di colloqui mensili (uno o due, anziché
quattro) ed è previsto l’utilizzo di locali attrezzati con mezzi divisori, per impedire il
passaggio di oggetti (eventualità che l’art. 37 reg. es. limita ai soli casi eccezionali in
cui ricorrano ragioni sanitarie o di sicurezza). Poi, è previsto che le persone diverse
dai familiari e dai conviventi possano essere ammesse al colloquio in casi
eccezionali, da valutare di volta in volta. Si tratta di un criterio di giudizio che, legato
all’eccezionalità, è del tutto diverso e più rigido rispetto a quello dei “ragionevoli
motivi”, ex art. 37, comma I, reg. es. Infine, si è introdotta la possibilità di ascolto e
di registrazione del colloquio, in deroga al principio generale che salvaguarda la
segretezza della conversazione (art. 18, comma II, O.P.).
Peraltro, in materia di impugnabilità dei provvedimenti di ammissione ai colloqui,
occorre distinguere due ipotesi. Avverso il decreto ministeriale, che limita il numero
dei colloqui, con i familiari e con i conviventi, ad un solo al mese (anziché a due),
può essere proposto reclamo al tribunale di sorveglianza, che si pronuncerà sulla
sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento e sulla congruità del
contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di tutela indicate dal comma II (art. 41
bis, commi II quinquies e II sexies). Mentre, nel rispetto dei limiti fissati dal decreto
ministeriale, contro i singoli provvedimenti del direttore dell’istituto, che negano
l’ammissione ai colloqui, può proporsi reclamo al magistrato di sorveglianza,
attivando la procedura prevista dall’art. 14 ter O.P.73.
4.2 LA CIRCOLARE n. 3592/6042 DEL 9 OTTOBRE 2003
A seguito della riforma dell’art. 41 bis O.P., introdotta con la legge n. 279 del
2002, l’Amministrazione penitenziaria ha emanato una circolare, al fine fissare
alcune linee interpretativi relative alla nuova disciplina74. In particolare, si è ribadito
che i colloqui visivi “si continueranno ad effettuare in appositi locali muniti di vetri o
altre separazioni a tutta altezza, che non consentono il passaggio di oggetti di
qualsiasi natura, tipo o dimensione”, garantendosi, in ogni caso, il chiaro ascolto, tra
i soggetti ammessi al colloquio e il detenuto, attraverso idonei meccanismi (pannelli
isofonici, citofoni, ecc.). In ordine alla frequenza, invece, si è stabilito che i detenuti,
72
Sulle questioni interpretative poste dall’art. 11, comma II, O.P., a seguito dell’entrata in vigore del
nuovo codice di procedura penale, si veda: capitolo primo, 4.2.
73
Cassazione, sentenza n. 25079/03, cit.
74
Circolare D.A.P. n. 3592/6042 del 2003, cit.
39
i quali usufruiscano di due colloqui mensili, potranno essere autorizzati a svolgerli
continuativamente, in un’unica soluzione, a condizione che a fruirne siano le stesse
persone fisiche (senza possibilità di rotazione). A tutela della relazione tra genitore
ristretto e figlio di età minore agli anni dodici, inoltre, si è previsto che il colloquio
possa avvenire senza vetro divisore, ma in sale munite di impianto di
videoregistrazione (con esclusione del sonoro). Nel caso di colloquio con più persone
(come previsto dall’art. 37, comma X, reg. es.), il colloquio senza vetro divisore sarà
consentito solo con il figlio minore di anni dodici e non potrà eccedere un sesto della
durata complessiva del colloquio.
5. CENNI SULLE ALTRE TIPOLOGIE DI COLLOQUIO
5.1 IL COLLOQUIO CON IL DIFENSORE
Dall’art. 24, comma II, Cost. (“la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado
del procedimento”) si fa discendere il principio, in base al quale: “il diritto di
conferire con il proprio difensore non può essere compromesso o condizionato dallo
stato di detenzione, se non nei limiti eventualmente disposti dalla legge a tutela di
altri interessi costituzionalmente garantiti”75. L’inviolabilità del diritto di difesa,
dunque, trova conferma anche nella disciplina legislativa relativa ai colloqui tra
soggetti fermati, arrestati o sottoposti alla misura coercitiva della custodia cautelare
in carcere e il loro difensore. Lacunosa è, invece, la disciplina dei colloqui tra
condannati e difensori. E’ necessario, dunque, distinguere le due ipotesi.
A. Per gli indagati o gli imputati, la materia del colloquio con il difensore è
regolata dall’art. 104 c.p.p., che riconosce, all’imputato, in stato di custodia
cautelare, alla persona arrestata o fermata, il diritto di conferire con il difensore, fin
dall’inizio dell’esecuzione della misura o subito dopo l’arresto o il fermo. Soltanto
qualora sussistano specifiche ed eccezionali ragioni di cautela e soltanto nel corso
delle indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, il giudice, con decreto
motivato, può dilazionare l’esercizio del diritto di conferire con il difensore, per un
tempo non superiore a cinque giorni (nel caso di arresto o fermo e fino a quando il
soggetto non sia posto a disposizione del giudice, la dilazione può essere disposta dal
P.M.). Copia del decreto che dispone la dilazione deve essere consegnata a chi
esercita la custodia ed è, da questi, esibita all’arrestato o al fermato o alla persona
sottoposta a custodia cautelare o al difensore che richieda il colloquio (art. 36,
comma III, norme att. c.p.p.).
Per conferire con la persona fermata, arrestata o sottoposta a custodia cautelare, il
difensore ha diritto di accedere ai luoghi in cui la persona stessa si trova custodita,
dimostrando la qualità di difensore (che non risulti all’autorità preposta alla custodia) nei
modi previsti dall’art. 27 norme att. c.p.p. (art. 36 norme att. c.p.p.).
75
Corte costituzionale, sentenza n. 212, 3 luglio 1997.
40
B. Per i condannati o gli internati, invece, né il codice di procedura penale, né le
norme sull’ordinamento penitenziario prevedono il diritto del ristretto di conferire
con il proprio difensore, fin dall’inizio dell’esecuzione della pena o della misura di
sicurezza detentiva. Tale lacuna (particolarmente grave, stante le garanzie
giurisdizionali che assistono la fase dell’esecuzione) è stata colmata applicando
l’ordinaria disciplina dei colloqui (art. 18 O.P. e art. 37 reg. es.). In particolare, in
conformità a tali norme, il direttore dell’istituto autorizzava il permesso al colloquio,
con il difensore, quando ricorrevano i “particolari motivi” (richiesti per ammettere, ai
colloqui visivi, le persone diverse dai familiari e dai conviventi). Era, però, evidente
come l’esercizio di una discrezionalità amministrativa, in materia di diritto di difesa,
si ponesse in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
Sulla questione è, dunque, intervenuta la Corte costituzionale che ha dichiarato
l’illegittimità dell’art. 18 O.P. nella parte in cui non riconosce, al detenuto
condannato, il diritto di conferire con il proprio difensore, sin dall’inizio
dell’esecuzione della pena (e indipendentemente dalla pendenza di un procedimento
d’esecuzione o di sorveglianza), senza che alcuna valutazione discrezionale possa
essere rimessa all’Amministrazione penitenziaria76. Diritto che non può subire alcuna
restrizione, neanche attraverso il provvedimento con il quale si applica al detenuto il
regime di sorveglianza particolare (art. 14 quater, comma III, O.P.).
Per quanto attiene alle modalità di svolgimento del colloquio, è previsto che appositi
locali siano destinati ai colloqui dei detenuti con i loro difensori (art. 37, comma VI, reg.
es.) e che le particolari modalità di svolgimento del colloquio, con i familiari e con i
conviventi, stabilite dall’art. 41 bis O.P., non si applichino ai colloqui con il difensore
(art. 41 bis, comma II quater, lett. b, O.P.).
5.2 INGRESSO SENZA AUTORIZZAZIONE
Considerato una forma di controllo generale, volto a verificare il rispetto dei diritti
dei ristretti, l’istituto regolato dall’art. 67, commi I e II, prima parte, O.P. consente, a
determinate autorità, tassativamente indicate, di accedere negli istituti penitenziari,
senza necessità di autorizzazione. Di conseguenza, tali autorità possono venire a
contatto con i detenuti e stabilire con loro un dialogo. Si tratta di una rapida
conversazione non autorizzata, che il regolamento d’esecuzione cerca di limitare nei
contenuti, stabilendo che le visite (da svolgersi nel rispetto della personalità dei
detenuti e degli internati) siano rivolte particolarmente alla verifica delle condizioni
di vita dei ristretti, compresi quelli in isolamento giudiziario, e vietando, ai visitatori,
di fare osservazioni sulla vita dell’istituto, alla presenza di detenuti o di internati, o di
trattare, con gli indagati e gli imputati, argomenti relativi ai processi in corso (art.
117, comma I, reg. es.). La norma regolamentare, dunque, non vieta il contatto
76
Ibidem.
41
verbale tra le autorità indicate dall’art. 67, comma I, O.P. e i ristretti, ma stabilisce
due limiti: durante il dialogo non si possono fare osservazioni sulla vita dell’istituto e
non si possono trattare argomenti relativi ai processi in corso. Finalità diverse
assume, invece, la visita degli istituti, senza autorizzazione, consentita al personale
indicato nell’art. 18 bis O.P. (art. 67, comma II, seconda parte, reg. es.).
Al contrario, devono essere autorizzati, dall’Amministrazione penitenziaria, gli
accessi in istituto e gli eventuali contatti verbali, con i reclusi, delle persone diverse
da quelle previste dall’art. 67 O.P. (ad esempio, i giornalisti) o appartenenti a
categorie analoghe (art. 117, comma II, reg. es.). Allo stesso modo, i ministri di culto
cattolico, diversi dai cappellani, e quelli delle altre confessioni religiose devono esser
autorizzati dal direttore, su richiesta dei singoli ristretti, ad accedere all’istituto, per
svolgere l’attività del proprio ministero. Ai colloqui, tra i ministri di culto e i
detenuti, peraltro, sarà assicurata la necessaria riservatezza (art. 116 reg. es.). Sono
autorizzati, invece, dall’autorità giudiziaria (e non dall’Amministrazione
penitenziaria) gli ingressi in istituto degli ufficiali e degli agenti di polizia
giudiziaria, che debbano intrattenere un colloquio con il ristretto, “per ragioni del
loro ufficio” (art. 67, comma III, O.P.).
5.3 GLI INTERVENTI ISTITUZIONALI
Non sono colloqui visivi (ex art. 18 O.P.), bensì “interventi istituzionali”, i
contatti tra le persone recluse e gli operatori penitenziari. (art. 23, comma X, reg.
es.). Al di fuori, però, della stretta riferibilità del colloquio all’esercizio della
funzione istituzionale, tornerà ad applicarsi la disciplina ordinaria, prevista dagli
articoli 18 O.P. e 37 reg. es.
Inoltre, non sono colloqui (ex art. 18 O.P.) quelli “compiuti dai rappresentanti
della comunità esterna, con i quali gli istituti penitenziari interagiscono, per il
raggiungimento delle finalità previste dalla legge e nei limiti di tali finalità”. A
riguardo, il regolamento d’esecuzione stabilisce che i contatti e gli interventi, non
soltanto degli operatori penitenziaria, degli assistenti volontari di cui all’art. 78 O.P.
e dei rappresentanti della comunità esterna, autorizzati ai sensi dell’art. 17 O.P., ma
anche “degli operatori sociali e sanitari delle strutture e dei servizi assistenziali
territoriali intesi alla prosecuzione dei programmi terapeutici o di trattamento
educativo - sociale, istituzionalmente svolti con gli imputati, i condannati e gli
internati, non si considerano colloqui e ad essi non si applicano pertanto le
disposizioni contenute nell’art. 18 della legge e nell’art. 37 del regolamento” (art. 23,
comma X, O.P.).
42
CAPITOLO TERZO
LA CORRISPONDENZA TELEFONICA
Sommario: 1 Il provvedimento di autorizzazione: 1.1 I soggetti legittimati e le autorità competenti;
1.2 L’efficacia del provvedimento di autorizzazione. 2 Frequenza e durata dei colloqui telefonici:
2.1 Il limite massimo di colloqui telefonici; 2.2 I colloqui telefonici ulteriori; 2.3 Durata massima
della conversazione. 3 Modalità di svolgimento: 3.1 Le telefonate verso l’esterno; 3.2 Ascolto e
registrazione delle telefonate; 3.3 Le telefonate provenienti dall’esterno. 4 La disciplina
derogatoria dell’art. 41 bis: 4.1 La disciplina normativa; 4.2 La circolare n. 3592/6042 del 2003. 5
La corrispondenza telefonica con il difensore: 5.1 Le norme del codice di procedura penale; 5.2 I
colloqui telefonici dei condannati. 6 I permessi premio in forma di telefonata: 6.1 Il dibattito
giurisprudenziale; 6.2 La sentenza della Cassazione n. 42001 del 22.11.2005.
1. IL PROVVEDIMENTO DI AUTORIZZAZIONE
1.1 I SOGGETTI LEGITTIMATI E LE AUTORITA’ COMPETENTI
L’art. 18, comma V, O.P. individua due categorie di persone che possono essere
autorizzate ad avere corrispondenza telefonica con i detenuti e gli internati: i
“familiari” ed i “terzi”. Ad integrare la disposizione legislativa, è intervenuto l’art.
39, comma II, reg. es., in base al quale “i condannati e gli internati possono essere
autorizzati alla corrispondenza telefonica con i congiunti e i conviventi, ovvero,
allorché ricorrono ragionevoli e verificati motivi, con persone diverse dai congiunti e
dai conviventi”. Le due norme, dunque, individuano le seguenti categorie di soggetti
che possono essere ammesse alla corrispondenza telefonica con i ristretti: i congiunti
(o familiari); i conviventi; i terzi (cioè le altre persone diverse dai congiunti e dai
conviventi), quando ricorrano ragionevoli e verificati motivi.
In ordine alle autorità competenti ad autorizzare la corrispondenza telefonica,
invece, il sistema normativo introduce un particolare riparto di competenze (art. 18,
comma VIII, O.P., art. 39, comma II e IV, reg. es.):
A. Per gli imputati, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, il potere
di autorizzare la corrispondenza telefonica è attribuito all’autorità giudiziaria,
individuata ai sensi dell’art. 11, comma II, O.P. Tale norma, però, è stata sostituita
dall’art .240, comma I, norme att. c.p.p., che assegna la competenza, ad emanare il
provvedimento di ricovero in luogo esterno di cura, al giudice per le indagini
preliminari, prima dell’esercizio dell’azione penale, e al giudice che procede, dopo
tale momento e sino alla pronuncia della sentenza di primo grado. Parte della
giurisprudenza, tuttavia, non ritiene applicabile l’art. 240 alla materia della
corrispondenza telefonica e, limitatamente al periodo precedente all’esercizio
dell’azione penale, ritiene competente il pubblico ministero, in quanto “dominus ed
unico titolare delle indagini preliminari”. Dopo l’esercizio dell’azione penale, invece,
l’autorità competente è individuata interpretando l’art. 11, comma II, O.P., secondo il
criterio stabilito dall’art. 208 norme att. c.p.p.
43
B. Dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, la competenza è attribuita
al magistrato di sorveglianza, che ha giurisdizione sull’istituto in cui il richiedente è
detenuto o internato (art. 39, comma IV, reg. es.).
C. Dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna o di applicazione
di una misura di sicurezza detentiva, è competente il direttore dell’istituto in cui il
richiedente è ristretto (art. 39, comma II, reg. es.).
1.2 L’EFFICACIA DEL PROVVEDIMENTO DI AUTORIZZAZIONE
Il regolamento di esecuzione introduce due ipotesi specifiche di perdita d’efficacia
dei provvedimenti di autorizzazione alla corrispondenza telefonica, che si
aggiungono a quelle (comuni anche ai colloqui visivi) legate alla scansione del
procedimento penale (capitolo primo: 4.6).
La prima ipotesi è prevista dall’art. 39, comma V, secondo periodo, reg. es. in
base al quale “l’autorizzazione concessa è efficace fino a che ne intervenga la
revoca”. La revoca è un provvedimento di secondo grado (che, di regola, assume la
stessa forma del primo), con il quale l’autorità, che ha accolto la richiesta di
corrispondenza telefonica, dispone il venir meno dell’efficacia del provvedimento di
autorizzazione, “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di
mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico
originario”.
Secondo autorevole dottrina, sono revocabili soltanto gli atti discrezionali e non
anche quelli vincolati. Dunque, poiché la norma in esame non distingue le telefonate
con i congiunti e i conviventi da quelle con le altre persone, sarebbe confermata la
tesi dell’esistenza di un generale potere decisionale di natura discrezionale, che le
autorità competenti eserciteranno contemperando le particolari esigenze personali del
ristretto, con il pubblico interesse all’ordine e alla sicurezza degli istituti penitenziari
o alla prevenzione dei reati77. Peraltro, si sostiene che il provvedimento di revoca
debba essere motivato. In materia di corrispondenza telefonica, tale conclusione è
imposta dalla norma regolamentare che introduce un obbligo di motivazione (per le
decisioni di accoglimento o di rigetto della richiesta), da estendere (pena
l’irrazionalità) anche ai provvedimenti che revocano una richiesta già accolta (art. 39,
comma V, reg. es.).
La seconda ipotesi di perdita di efficacia del provvedimento di autorizzazione è
prevista dall’art. 39, comma V, terzo periodo, reg. es., secondo il quale
l’autorizzazione “resta efficace solo fino a che sussistono i motivi indicati” nella
richiesta del detenuto o dell’internato. L’ambito di applicazione di tale disposizione è
delimitato dal generico rinvio a tutti i casi in cui è possibile autorizzare la
77
Diversa sarebbe la conclusione, qualora si accogliesse la tesi dell’esistenza di un diritto del
recluso di intrattenere corrispondenza telefonica con i familiari e i conviventi, che non può essere
negato, ma soltanto limitato (capitolo primo: 1.2).
44
corrispondenza telefonica (commi II e III). Tuttavia, una corretta interpretazione (che
tenga conto anche del primo periodo del comma V dell’art. 39), deve far preferire la
tesi che considera la norma applicabile ai soli casi, regolati dai commi II e III, in cui
si faccia espresso riferimento alla sussistenza di particolari motivi, vale a dire al caso
di corrispondenza telefonica con altre persone diverse dai congiunti e dai conviventi
(per la quale sono richiesti “ragionevoli e verificati motivi”) e al caso di
corrispondenza telefonica da autorizzare qualora ricorrano “motivi di urgenza o di
particolare rilevanza”. Mentre, nel caso di corrispondenza con i congiunti e i
conviventi, non sarà necessario alcun particolare motivo da indicare nella richiesta di
autorizzazione e da porre a fondamento della decisione di accoglimento.
Quella introdotta dalla terza parte del comma V, dunque, non è altro che una
specificazione dell’ipotesi di revoca prevista dal secondo periodo, in quanto, in
questo caso, “il mutamento della situazione di fatto” è dato dal venir meno dei motivi
che hanno giustificato l’autorizzazione alla corrispondenza telefonica (cioè dal venir
meno delle “ragioni di opportunità che legittimavano l’atto al momento
dell’emanazione”). Pertanto, nonostante la formulazione della norma faccia pensare
ad un automatico effetto estintivo, la perdita di efficacia dell’autorizzazione deve
essere disposta con un provvedimento motivato.
Fuori delle ipotesi di revoca, l’altra fattispecie, che produce la perdita di efficacia
del provvedimento di autorizzazione, è l’annullamento in sede di autotutela. Anche
se non espressamente prevista dal regolamento, tale ipotesi di perdita di efficacia
deve ritenersi operante, perché sarebbe irrazionale consentire la revoca di un
provvedimento legittimo (nel caso di diversa valutazione degli interessi in gioco) e
non anche l’annullamento d’ufficio di un’autorizzazione adottata in assenza dei
requisiti di legittimità richiesti (invalidità originaria).
2. FREQUENZA E DURATA DEI COLLOQUI TELEFONICI
2.1 IL LIMITE MASSIMO DI COLLOQUI TELEFONICI
Il numero dei colloqui telefonici, che possono essere concessi ai detenuti e agli
internati, non è determinato dalla legge, bensì dalla fonte normativa subordinata. Si
tratta di una scelta criticata da molti e che ha fatto dubitare della legittimità di talune
norme regolamentari che pongono limitazioni all’esercizio di un diritto tutelato dagli
articoli 15 e 27, comma III, Cost. In particolare, è previsto che i reclusi possano
essere autorizzati ad avere corrispondenza telefonica “una volta alla settimana”.
Limite che è ridotto a non più di due telefonate al mese, nei confronti dei detenuti e
degli internati “per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma
45
dell’articolo 4 bis della legge, per i quali si applichi il divieto di benefici” (art. 39,
comma II, reg. es.), anche se non inseriti nelle sezioni ad Alta Sicurezza78.
2.2 I COLLOQUI TELEFONICI ULTERIORI
Il limite massimo di un colloquio telefonico alla settimana o di due al mese (nel
caso di detenuti o internati per uno dei reati di cui alla prima parte dell’art. 4 bis
O.P.) può essere superato in talune ipotesi tassativamente indicate dall’art. 39 reg. es.
1. Anzitutto, nel caso di rientro in istituto dal permesso (di necessità o premio) o
dalla licenza (concessa ai semiliberi o agli internati), al fine di avvisare i familiari o
le persone conviventi (art. 39, comma II, reg. es.). Tale ipotesi, potrebbe applicarsi
anche ai ristretti per uno dei reati di cui alla prima parte dell’art. 4 bis O.P., per i
quali si applichi il divieto di benefici, ma limitatamente ai casi di rientro dal
permesso di necessità (art. 30 O.P.) o dalla licenza concessa agli internati, nei casi
previsti dall’art. 53, commi I e II, O.P. Impossibile, invece, il verificarsi degli altri
casi, stante il divieto di concessione dei permessi premio e della misura alternativa
della semilibertà. Si noti, inoltre, che questa ipotesi di corrispondenza telefonica può
essere autorizzata soltanto se diretta ai familiari o alle persone conviventi e non
anche se diretta a terzi.
2. Analoga alla precedente è l’ipotesi di trasferimento del detenuto o
dell’internato (art. 39, comma III, reg. es.), con la differenza che, in tal caso, la
telefonata può essere diretta non soltanto ai familiari o ai conviventi, ma anche ad
altre persone, sussistendo “ragionevoli motivi d’urgenza e di particolare rilevanza”,
dati dalla necessità di comunicare, immediatamente, una situazione rilevante: il
trasferimento. Così, ad esempio, si potrà autorizzare una telefonata diretta ad un
parente oltre il quarto grado (o il terzo), in condizione di avvisare i familiari del
detenuto, non prontamente rintracciabili. Tale soluzione interpretativa trova
conferma anche nell’art. 29 O.P., in base al quale “i detenuti e gli internati sono posti
in grado di avvisare immediatamente i congiunti e le altre persone da essi
eventualmente indicate del loro ingresso in un istituto penitenziario o dell’avvenuto
trasferimento” (in tal senso, anche l’art. 62, reg. es., che regola l’ipotesi di
comunicazione dell’ingresso in istituto o del trasferimento attraverso il mezzo
postale ordinario o telegrafico).
Seppure non espressamente prevista, ma valorizzando il dato letterale dell’art. 29
O.P., si deve ritenere che la corrispondenza telefonica possa essere autorizzata, ai
sensi dell’art. 39, comma III, reg. es., anche nel caso di primo ingresso in istituto e
non soltanto in quello di trasferimento. Il combinato disposto degli articoli 29 O.P.,
39 e 62 reg. es., difatti, consente di concludere che (valutando anche le esigenze di
cautela legate al procedimento penale in corso o attinenti all’ordine e alla sicurezza
78
Sulla disciplina normativa e la legittimità del limite stabilito dall’art. 39, comma II, terzo periodo,
reg. es., si veda: capitolo secondo, 2.2, 2.2.1.
46
dell’istituto penitenziario) le autorità competenti potranno accogliere o rigettare la
richiesta di corrispondenza telefonica, per comunicare sia il primo ingresso sia il
trasferimento. E, in caso di rigetto, il ristretto avrà comunque il diritto di avvalersi
del mezzo postale ordinario o telegrafico, con le cautele indicate dall’art. 62 reg. es.
3. L’altra ipotesi di colloqui telefonici ulteriori, regolata dall’art. 39, comma III,
reg. es., ha sollevato non pochi dubbi interpretativi. La formulazione della norma,
secondo la quale può essere autorizzata corrispondenza telefonica, oltre i limiti
stabiliti nel comma II, “in considerazione di motivi di urgenza o di particolare
rilevanza, se la stessa si svolga con prole di età inferiore a dieci anni”, lascia aperte
due diverse soluzioni. Secondo la prima (più rispettosa del dato letterale), sarebbe
possibile autorizzare colloqui telefonici tra detenuti e figli minori dei dieci anni,
soltanto qualora ricorrano “motivi di urgenza o di particolare rilevanza”. In base alla
seconda (che fa leva, invece, su di un’interpretazione sistematica), la norma
distinguerebbe due diverse ipotesi di colloqui telefonici: quelli che possono essere
autorizzati qualora ricorrano “motivi di urgenza o di particolare rilevanza” e quelli
che possono essere concessi quando si svolgano “con prole di età inferiore ai dieci
anni”. A favore di quest’ultima tesi, si è espressa l’Amministrazione penitenziaria,
che ha evidenziato come “il riferimento alla prole di età inferiore ai 10 anni sia
parallelo a quello previsto dall’art. 37, comma IX (in materia di colloqui visivi
ulteriori)”79.
In conclusione, può affermarsi che i colloqui telefonici possono essere autorizzati,
oltre i limiti ordinari: a) nel caso di rientro dal permesso o dalla licenza, al fine di
avvisare i familiari o le persone conviventi; b) nelle ipotesi d’ingresso in istituto
penitenziario, sia che il soggetto provenga dalla libertà, sia nel caso di trasferimento;
c) qualora ricorrano motivi di urgenza o di particolare rilevanza; c) se a fruire della
telefonata debba essere la prole di età inferiore ai dieci anni.
2.3 DURATA MASSIMA DELLA CONVERSAZIONE
La durata massima di ciascuna conversazione telefonica è di dieci minuti. Così,
dispone l’art. 39, comma VI, reg. es., che ha innalzato di quattro minuti la durata del
colloquio telefonico, stabilita dal vecchio regolamento di esecuzione. Tuttavia, a
differenza dei colloqui visivi, nessuna norma definisce i casi in cui sarebbe possibile
autorizzare un prolungamento della conversazione telefonica. Di conseguenza, fuori
delle ipotesi di colloqui telefonici ulteriori, se il ristretto non intrattiene
corrispondenza telefonica entro la settimana o entro il mese, questa non potrà essere
recuperata nella settimana o nel mese successivo, mediante un prolungamento della
durata. Nondimeno, se l’ordinaria cadenza di una telefonata alla settimana non
consente alcun cumulo, al contrario, la cadenza mensile (prevista per i ristretti per
79
Circolare D.A.P., n. 3533/5983 del 2000, cit.
47
uno dei delitti indicati dall’articolo 4 bis, comma I, primo periodo, O.P.) potrebbe far
ritenere ammissibile la cumulabilità, delle due telefonate, in una di venti minuti.
3. MODALITA’ DI SVOLGIMENTO
3.1 LE TELEFONATE VERSO L’ESTERNO
In ordine alle modalità di svolgimento della corrispondenza telefonica, il
regolamento d’esecuzione detta un’articolata disciplina, che pone non pochi
problemi interpretativi. Anzitutto, si richiede che il colloquio telefonico sia
autorizzato soltanto su iniziativa del ristretto80, che deve rivolgere, alle autorità
competenti, istanza scritta, “indicando il numero telefonico richiesto e le persone con
cui deve corrispondere”. Nei casi di corrispondenza con “persone diverse dai
congiunti e dai conviventi” e in quello di corrispondenza “per motivi d’urgenza o di
particolare rilevanza”, la richiesta dovrà anche indicare i motivi che ne rendono
opportuno l’accoglimento (art. 39, comma V, reg. es.). Ottenuta l’autorizzazione, il
detenuto potrà utilizzare i telefoni installati nell’istituto penitenziario81. Sarà,
tuttavia, il personale di custodia a stabilire il contatto telefonico, richiedendosi
particolari cautele, al fine di evitare che la telefonata sia diretta ad un numero e ad un
soggetto diversi da quelli indicati nel provvedimento di autorizzazione (art. 39,
comma VI, reg. es.).
A tal proposito, l’Amministrazione ha dovuto affrontare diversi problemi,
derivanti dallo sviluppo tecnologico. Da ultimo, ha fatto fronte al rischio che, nel
corso di una telefonata autorizzata e attraverso il servizio di trasferimento di
chiamata, il ristretto “si garantisse la comunicazione con un altro numero telefonico,
di rete fissa o mobile, non autorizzato”, stabilendo che “ogni qual volta l’operatore di
polizia penitenziaria, dopo aver composto il numero e attivato la connessione,
nell’attendere la risposta, avverta che l’utenza fissa sta per essere trasferita ad altro
diverso recapito, sia esso fisso o mobile, dovrà immediatamente intervenire,
interrompendo il collegamento telefonico” 82.
Meno recente, invece, è la questione relativa alla possibilità di autorizzare la
corrispondenza telefonica diretta ad utenti di telefoni cellulari. A riguardo, si è
stabilito che, “nella considerazione che l’utenza cellulare possa essere utilizzata, con
probabilità maggiore rispetto a quella ordinaria, da chiunque, e, quindi da persone
80
Malgrado la norma faccia espresso riferimento ad una richiesta del detenuto e dell’internato, deve
ritenersi ammissibile un’istanza scritta, presentata da un familiare o da un convivente, per conto del
ristretto.
81
A carico dell’Amministrazione penitenziaria, è posto l’obbligo di installare uno o più telefoni, a
seconda delle occorrenze, in ogni istituto penitenziario(art. 39, comma I, reg. es.). Nondimeno, i giorni
in cui è possibile effettuare le telefonate e le particolari modalità di svolgimento della conversazione
sono fissati dal regolamento dell’istituto (art. 36, comma II, lett. f, reg. es.).
82
Circolare D.A.P., n. 3591/6041, 1 ottobre 2003.
48
non legittimate, si ritiene che le autorizzazioni in questione non debbano essere
concesse” 83. Conclusione, questa, che non può trovare applicazione nei confronti dei
detenuti, che siano collaboratori con la giustizia, per i quali è possibile autorizzare
colloqui telefonici con familiari o conviventi, sottoposti a protezione, “mediante la
connessione ad utenza cellulare, purché il servizio centrale di protezione attesti la
disponibilità dell’utenza da parte del familiare o del convivente” (Decreto M.G., n.
144, 10 aprile 2006, art. 6).
Legata alla abrogata norma regolamentare84, che imponeva l’ascolto di ogni
corrispondenza telefonica dei reclusi, era la questione attinente alla possibilità di
negare, ai detenuti stranieri, il colloquio telefonico, dovendosi, questo, svolgere in
una lingua non conosciuta dal personale di custodia. Ad una prima scelta di rigore,
che imponeva al direttore di rigettare la richiesta e di informare la direzione generale
dell’Amministrazione penitenziaria (al fine di individuare un interprete)85, ne era
seguita una più rispettosa dei diritti dei detenuti stranieri, richiedendosi, ai direttori
degli istituti, di fare “tutto il possibile per favorire i rapporti dei detenuti e degli
internati con il mondo esterno”. Pertanto, qualora nell’istituto non vi fosse stato “un
operatore in grado di comprendere correttamente una lingua straniera”, i direttori
avrebbero dovuto avvalersi “dell’ausilio di un interprete di sicuro affidamento,
ricercandolo tra gli iscritti nello speciale albo del tribunale nel cui circondario trovasi
l’istituto”86. A seguito dell’abrogazione della norma che imponeva un generale
obbligo di ascolto delle telefonate87, la questione ha perso parte della sua importanza,
riproponendosi soltanto nei casi in cui sia stato autorizzato, da parte dell’autorità
giudiziaria, l’ascolto (e la registrazione) della conversazione telefonica, da svolgersi
in una lingua straniera non conosciuta dal personale di custodia .(art. 39, comma VII,
reg. es.). In tali ipotesi, ci si avvarrà dell’ausilio di un interprete, “che effettuerà la
traduzione simultanea della conversazione telefonica in lingua straniera, in modo che
l’operatore penitenziario, incaricato dell’ascolto, sia in grado di comprendere il
significato e (se autorizzato) di intervenire, bloccando la conversazione stessa,
qualora sorgano sospetti o indizi di un riferimento ad attività o progetti illeciti, o tali
da incidere sull’ordine e la sicurezza degli istituti”88.
Particolare, inoltre, è la posizione del detenuto o dell’internato che sia stato
ricoverato in un ospedale civile o in un luogo esterno di cura, per essere sottoposto a
cure mediche o accertamenti diagnostici, che non potevano essere apprestati dai
servizi sanitari dell’istituto penitenziario (art. 11, comma II, O.P.). Difatti, dopo una
83
Circolare D.A.P., n. 486767, 30 luglio1993.
Art. 37, comma VIII, vecchio reg. es.
85
Circolare D.A.P., n. 3136/5586, 24 ottobre 1985.
86
Circolare D.A.P., n. 3254/5704, 26 ottobre 1988.
87
Decreto legge, n. 187, 14 giugno 1993.
88
Circolare D.A.P. n. 3478/98, cit.
84
49
prima decisione, con la quale si negava la possibilità di fruire della corrispondenza
telefonica, durante la degenza89, l’Amministrazione ha stabilito che, “anche nella non
ordinaria sede dei luoghi esterni di cura”, dovranno “essere rispettate, con la
massima attenzione”, le regole “riguardanti, tra l’altro, i colloqui diretti e telefonici e
la corrispondenza dei detenuti e degli internati”90.
Infine, va rilevato che le spese per la corrispondenza telefonica sono a carico del
detenuto o dell’internato, anche mediante scheda telefonica prepagata, e che la
relativa contabilizzazione “avviene per ciascuna telefonata e contestualmente ad
essa” (art. 39, commi VII e IX, reg. es.). Non è rinvenibile, invece, una norma che,
come in materia di corrispondenza epistolare91, garantisca al ristretto, privo di fondi,
la possibilità di effettuare telefonate ordinarie (o in casi particolari), con spesa a
carico dell’Amministrazione penitenziaria.
3.2 ASCOLTO E REGISTRAZIONE DELLE TELEFONATE
Dopo un aspro dibattito dottrinario, con il decreto legge n. 187 del 14 giugno
1993, è stato abrogato il comma VIII dell’art. 37 del vecchio reg. es., che prevedeva
l’obbligo di ascolto e di registrazione delle conversazioni telefoniche dei ristretti. La
scelta legislativa è stata confermata dal nuovo regolamento di esecuzione, che
stabilisce un generale principio di segretezza della corrispondenza telefonica e
individua due ipotesi in cui è possibile procedere all’ascolto e alla registrazione.
1. Con la prima ipotesi, si rimette all’autorità giudiziaria, competente a disporre il
visto di controllo sulla corrispondenza epistolare, ai sensi dell’art. 18 O.P., il potere
di ordinare che le conversazioni telefoniche siano ascoltate e registrate, mediante
apposite apparecchiature (art. 39, comma VII, reg. es.). Poiché costituiscono
un’eccezione al principio della riservatezza, l’ascolto e la registrazione devono essere
autorizzati con un provvedimento motivato. Nessuna norma, invece, regola l’attività
d’interruzione della comunicazione, che dovrebbe essere compiuta dall’operatore
penitenziario, incaricato all’ascolto, “qualora sorgano sospetti o indizi di un
riferimento ad attività o progetti illeciti, o tali da incidere sull’ordine e la sicurezza
degli istituti”. Nonostante la lacuna normativa, deve ritenersi che, in assenza di
un’espressa disposizione dell’autorità giudiziaria, che autorizzi l’intervento, ogni
interruzione della conversazione telefonica dovrà considerarsi illecita.
In ordine al criterio normativo di individuazione delle autorità competenti a
disporre il controllo delle telefonate, non sfugge che il regolamento rinvia all’art. 18,
comma VII, O.P. (in base al quale, la corrispondenza epistolare può essere sottoposta
a visto di controllo, con provvedimento motivato, dal magistrato di sorveglianza).
Tale norma, tuttavia, è stata abrogata dalla legge n. 95, 8 aprile 2004, che ha
89
Circolare D.A.P., n. 3319/5769, 15 dicembre 1991.
Circolare D.A.P., n. 3449/5899, 10 gennaio 1997.
91
Articoli 38, comma II, O.P. e 62, comma II, reg. es.
90
50
introdotto un’organica disciplina delle limitazioni e dei controlli della corrispondenza
epistolare, attribuendo la relativa competenza al magistrato di sorveglianza, dopo la
pronuncia della sentenza di primo grado, e al giudice che procede, ai sensi dell’art.
279 c.p.p., prima di tale momento (art. 18 ter, comma III, O.P.). Ne discende che
questo nuovo riparto di competenza deve ritenersi applicabile anche all’ipotesi di
ascolto e di registrazione della corrispondenza telefonica, regolata dall’art. 39,
comma VII, reg. es.
Non sono applicabili, invece, le altre garanzie, poste dall’art. 18 ter O.P., a tutela
della segretezza della corrispondenza epistolare. Ed è proprio sotto questo profilo che
la disciplina delle limitazioni e dei controlli dei colloqui telefonici si pone in
contrasto con l’art. 15 Cost. (secondo cui, la corrispondenza può essere limitata
soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla
legge) e con l’art. 8 della Convezione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (in base al quale, non può aversi interferenza
di un’autorità pubblica nell’esercizio del diritto alla corrispondenza, se non nei casi
previsti dalla legge e per specifici motivi legati alla sicurezza e all’ordine pubblico o
alla prevenzione dei reati). In particolare, la norma regolamentare contrasta con il
principio della riserva assoluta di legge, vigente in materia di limitazioni e di
controllo di ogni forma di comunicazione, in quanto: a) è una fonte subordinata ad
individuare le autorità competenti ad emettere i relativi provvedimenti; b) non sono
indicati i motivi specifici che legittimano il diniego alla richiesta di autorizzazione al
colloquio telefonico o che possono fondare il provvedimento che dispone l’ascolto e
la registrazione delle conversazioni; c) non sono indicati né la forma, né il termine
massimo di efficacia del provvedimento che dispone le limitazioni o il controllo, né
il meccanismo per la proroga; d) non è previsto alcun sistema di tutela
giurisdizionale del detenuto, nei confronti dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria,
che abbiano disposto le limitazioni o il controllo. Appare opportuna, dunque, una
riforma della materia che ricalchi la disciplina introdotta in tema di corrispondenza
epistolare.
2. La seconda ipotesi di controllo della corrispondenza telefonica è prevista
dall’art. 39, comma VII, seconda parte, reg. es., in base al quale “è sempre disposta
la registrazione delle conversazioni telefoniche autorizzate su richiesta dei detenuti o
internati per i reati indicati nell’art. 4 bis della legge”. Si tratta di una forma
generalizzata di controllo, giustificata da esigenze di tutela della sicurezza pubblica o
dell’ordine e della sicurezza dell’istituto e stabilita “nei confronti di quei reclusi che,
in relazione al titolo di reato, si presumono particolarmente pericolosi”. Tuttavia, la
norma introduce un regime differenziato che appare in contrasto non soltanto con
l’art. 15 Cost. e con l’art. 8 C.E.D.U., ma anche con gli art. 3 e 27, comma III, Cost.,
come specificati dagli articoli 1, comma II, 3 e 4 O.P., che riconoscono e tutelano
una serie di posizioni soggettive legate al trattamento penitenziario (tra cui il diritto
51
alla corrispondenza telefonica e alla sua segretezza), senza consentire alcuna
differenziazione tra reclusi.
Si ritiene che il sistema dei controlli disciplinato dal comma VII, sia speculare alla
limitazione prevista dal comma II dell’art. 39 reg. es. Ma tale opinione non può
essere condivisa, stante la diversa formulazione letterale delle due norme. Il comma
II, difatti, introduce una disciplina differenziata, in ordine al numero dei colloqui
telefonici, applicabile ai ristretti per uno dei gravi reati previsti dalla prima parte
dell’art. 4 bis O.P. Il comma VII, invece, prevede un generalizzato controllo del
contenuto delle conversazioni (mediante registrazione), senza distinguere tra i reati
previsti dalla prima e dalla terza parte dell’art. 4 bis O.P. Ed a rendere ancora più
rigorosa questa norma, è la mancanza dell’inciso (“per i quali si applichi il divieto di
benefici ivi previsti”) che consente di limitarne l’operatività ai detenuti che non
abbiano collaborato con la giustizia nelle forme previste dallo stesso articolo 4 bis.
Ed allora, malgrado il dato letterale, le due norme potrebbero considerarsi (in parte)
speculari, ove si accogliesse un’interpretazione restrittiva del comma VII, che lo
ritenesse applicabile ai detenuti e agli internati, per uno dei reati previsti dall’art. 4
bis O.P. (prima e terza parte), per i quali non si applichi il divieto di benefici. In tal
caso, difatti, il principio generale, che tutela la segretezza della comunicazione (salvo
provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria), tornerebbe ad operare: a) qualora i
ristretti, per uno dei reati previsti nella prima parte dell’art. 4 bis O.P., collaborassero
con la giustizia, ai sensi dell’art. 58 ter O.P., o fornissero una collaborazione
irrilevante o impossibile (purché vi fossero elementi tali da escludere l’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata); b) qualora, con riferimento ai detenuti e
agli internati per uno dei reati indicati dalla terza parte dell’art. 4 bis O.P., vi fossero
elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
Nondimeno, in entrambi i casi, si dovrebbe ritenere applicabile il principio della
scissione del cumulo (materiale e giuridico) delle pene.
Diversa, infine, è la questione relativa all’eventuale utilizzabilità, nel corso di un
procedimento penale, del contenuto delle registrazioni. A tal proposito, deve rilevarsi
che l’attività di controllo non potrà assumere alcuna rilevanza probatoria, essendo
effettuata fuori delle garanzie e senza il rispetto delle forme imposte dal Capo VI del
Libro III del codice di rito.
3.3 LE TELEFONATE PROVENIENTI DALL’ESTERNO
Il regolamento vieta la corrispondenza telefonica, con i detenuti e con gli internati,
qualora la chiamata provenga dall’esterno. In tale evenienza, al ristretto “può essere
data solo comunicazione del nominativo dichiarato dalla persona che ha chiamato,
sempre che non ostino particolari motivi di cautela”, legati al mantenimento
dell’ordine e della sicurezza interna (art. 39, comma X, reg. es.). Posta la regola, la
norma individua subito una deroga, ispirata dal favor familiae, stabilendo che “nel
52
caso in cui la chiamata provenga da un congiunto o un convivente anch’esso
detenuto, si dà corso alla conversazione, purché entrambi siano stati regolarmente
autorizzati”. Anche in tale ipotesi, peraltro, troveranno applicazione le norme sul
controllo della conversazione.
4. LA DISCIPLINA DEROGATORIA DELL’ART.41 bis
4.1 LA DISCIPLINA NORMATIVA
Per i detenuti e gli internati sottoposti al regime carcerario regolato dall’art. 41 bis
O.P., è in vigore una particolare disciplina dei colloqui telefonici. La legge, difatti,
stabilisce che “può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore
dell’istituto ovvero, per gli imputati sino alla pronuncia della sentenza di primo
grado, dall’autorità giudiziaria competente ai sensi di quanto stabilito nel secondo
comma dell’articolo 11, un colloquio telefonico mensile della durata massima di
dieci minuti”. A tal fine, però, è necessario che siano trascorsi almeno sei mesi dal
giorno della prima applicazione del regime speciale e che la corrispondenza
telefonica sia effettuata soltanto con i familiari o con i conviventi. In ogni caso, la
conversazione è sottoposta a registrazione (art. 41 bis, comma II, lett. b, secondo
periodo, O.P.).
Secondo il sistema delineato dall’art. 41 bis O.P., dunque, il potere di autorizzare i
colloqui telefonici è attribuito alla discrezionale valutazione del direttore o
dell’autorità giudiziaria che procede (nel rispetto del limite semestrale e di quello
relativo al destinatario della telefonata). Sarebbe, invece, illegittima la previsione di
limitazioni ulteriori (rispetto a quelle previste dalla legge), attraverso il decreto
ministeriale di applicazione del regime. Illegittimità, questa, che potrebbe essere
rilevata in sede di reclamo proposto al tribunale di sorveglianza (art. 41 bis, comma
quinquies, O.P.). Nondimeno, in ordine alle autorità competenti, deve rilevarsi che la
norma di legge si discosta dalle regole contenute nell’art. 39 reg. es., e ciò non tanto
per il periodo precedente alla pronuncia della sentenza di primo grado (per il quale si
pongono gli stessi dubbi interpretati affrontati precedentemente: capitolo primo, 4.2)
o per quello successivo alla condanna definitiva, bensì per il periodo che va dalla
pronuncia dalla sentenza di primo grado al suo passaggio in giudicato. In questa fase,
difatti, per i detenuti non sottoposti al regime speciale, la competenza ad autorizzare
la corrispondenza telefonica è attribuita al magistrato di sorveglianza (art. 39, comma
IV, reg. es.); mentre, per quelli sottoposti a tale regime, è attribuita al direttore
dell’istituto, in contrasto con i principi che dovrebbero governare la fase
dell’esecuzione penale (si veda: capitolo primo, 4.1). In ogni caso, avverso il
provvedimento del direttore, che nega l’autorizzazione alla corrispondenza
telefonica, è proponibile reclamo al magistrato di sorveglianza92.
92
Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 25079, 26 febbraio – 10 giugno 2003.
53
4.2 LA CIRCOLARE N. 3592/6042 DEL 9 OTTOBRE 2003
L’Amministrazione penitenziaria ha dettato alcune regole, attinenti alle modalità
di svolgimento del colloquio telefonico, in considerazione della particolare
pericolosità dei soggetti richiedenti e della necessità di individuare, con certezza, i
destinatari della telefonata (congiunti o conviventi). Così, si è previsto che la
richiesta del detenuto o dell’internato dovrà indicare, con precisione, le generalità, il
luogo di residenza o di domicilio e il numero d’utenza telefonica (se esistente) dei
familiari o dei conviventi, con i quali stabilire il contatto telefonico. In caso di
accoglimento dell’istanza, la direzione dell’istituto (dove è ristretto il richiedente)
stabilirà il giorno e l’ora precisa in cui dovrà essere effettuata la telefonata e ne darà
comunicazione alla direzione dell’istituto penitenziario più vicino al luogo di
residenza o di domicilio dei familiari o dei conviventi. Quest’ultima direzione
avviserà (“mediante telegramma, telefonata registrata o seguita da annotazione di
servizio, o altro mezzo idoneo, con esclusione di richiesta di intervento alle forze
dell’ordine”) i familiari o i conviventi del giorno e dell’ora fissati per ricevere la
telefonata. L’avviso conterrà anche l’invito a recarsi nell’istituto penitenziario, per
effettuare il colloquio. Prima della telefonata, le persone autorizzate dovranno esibire
un valido documento di riconoscimento e la documentazione che attesti lo stato di
parentela o di affinità o di convivenza. Dopo le procedure di identificazione, i
soggetti autorizzati riceveranno la telefonata in un apposito locale. Le stesse modalità
saranno applicate alla corrispondenza telefonica tra il ristretto e il proprio
difensore93.
5. TELEFONATE AL DIFENSORE
5.1 LE NORME DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE
La corrispondenza telefonica dei ristretti con i loro difensori è regolata dagli
articoli 103, comma V, c.p.p. e 35, comma V, norme att. c.p.p. La prima norma pone
un generico divieto di intercettazione delle conversazioni o delle comunicazioni dei
difensori (ma anche degli investigatori privati, dei consulenti e dei loro ausiliari) con
le persone da loro assistite. In applicazione di tale regola e con specifico riferimento
alla corrispondenza telefonica tra imputato detenuto94e difensore (“come risultante
dalle indicazioni del relativo procedimento”), l’art. 35 cit. stabilisce che, quando tali
colloqui sono autorizzati dalle autorità competenti, “non si applica la disposizione
dell’art. 37, comma VIII, del D.P.R. 29 aprile1976 n. 431”. Norma, quest’ultima, che
poneva un generico obbligo di ascolto e di registrazione, in relazione ad ogni
colloquio telefonico dei reclusi, e che è stata abrogata nel 1993. La nuova disciplina
93
Circolare D.A.P., n. 3592/6042, 9 ottobre 2003.
Ai sensi dell’art. 61 c.p.p., “i diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona
sottoposta alle indagini”; nondimeno, “alla stessa persona si estende ogni altra disposizione relativa
all’imputato, salvo che sia diversamente stabilito”.
94
54
introdotta con il decreto legge n. 187/93 è stata poi confermata dall’art. 39, comma
VII, del nuovo regolamento di esecuzione, che ha previsto due sole ipotesi in cui è
consentito di sottoporre a controllo le telefonate dei ristretti ed a queste ipotesi deve
ritenersi che si riferisca il divieto posto dall’art. 35 cit.
5.2 I COLLOQUI TELEFONICI DEI CONDANNATI
Poiché l’art. 35, comma V, norme att. c.p.p. tutela unicamente la segretezza dei
colloqui telefonici tra il difensore e l’indagato o l’imputato detenuto, ci si è chiesti se
la norma fosse applicabile anche ai colloqui tra difensore e condannato detenuto. La
questione è stata risolta non tanto interpretando l’art. 35 cit. (che, in modo esplicito,
limita il suo ambito di operatività agli imputati detenuti), bensì attraverso la regola
generale sancita dall’art. 103, comma V, c.p.p., che (nel vietare ogni forma di
intercettazione delle conversazioni e delle comunicazioni dei difensori, degli
investigatori privati, dei consulenti e dei loro ausiliari, con le persone da loro
assistite) è sicuramente applicabile ai colloqui telefonici dei condannati detenuti con
il difensore (cui sia stato notificato l’ordine d’esecuzione o nominato nell’eventuale
procedimento di sorveglianza)95.
A tutela del diritto di difesa, dunque, le disposizioni del codice di procedura
penale salvaguardano la segretezza della conversazione tra il difensore e l’imputato o
il condannato (sia in stato di libertà, sia detenuto). Una tutela, però, che non può dirsi
assoluta (come, invece, richiede l’art. 24, comma II, Cost.), atteso che le autorità
competenti mantengono il loro potere discrezionale di accogliere o rigettare la
richiesta di colloquio. A riguardo, il dato normativo è chiaro. L’art. 35 cit., difatti,
stabilisce che il divieto di ascolto e di registrazione opera soltanto “quando sono
autorizzati colloqui telefonici”, lasciandosi intendere che le richieste possono essere
anche respinte. Nondimeno, escluso il comma VII, troveranno applicazione tutte le
altre norme contenute nell’art. 39 reg. es. che: individuano le autorità competenti a
decidere sull’istanza di autorizzazione alla corrispondenza telefonica; richiedono, a
fondamento dell’istanza, l’esistenza di motivi “ragionevoli e verificati” o “urgenti e
di particolare rilevanza”96; stabiliscono il contenuto della richiesta, i requisiti di
forma dei provvedimenti di accoglimento o di rigetto e l’efficacia delle
95
In tal senso: Circolare D.A.P., 13 aprile 1990, secondo la quale “il divieto di intercettazione
stabilito dal comma V dell’art. 103 c.p.p. può assumere di certo valenza generale non circoscritta ad
alcuna specifica fase processuale. Esso apparirà, dunque, valido ed operante anche nei confronti di
ogni conversazione telefonica del condannato definitivo e dell’internato con il difensore regolarmente
nominato in relazione ad un procedimento determinato”.
96
Secondo l’Amministrazione penitenziaria, rimangono, comunque, in vigore le norme
regolamentari che consentono i colloqui telefonici dei detenuti e degli internati con il difensore,
“quando vi siano motivi d’urgenza o di particolare rilevanza”. Anzi, proprio “il venir meno della
possibilità di ascoltare e di registrare le comunicazioni con il difensore, dovranno indurre ad una
accresciuta attenzione nella valutazione delle ragioni dedotte dal detenuto per giustificare la richiesta
di colloquio telefonico con il difensore” (circolare D.A.P., 13 aprile 1990, cit.).
55
autorizzazioni; regolano le modalità di svolgimento del colloquio telefonico e quelle
di pagamento; vietano le telefonate provenienti dall’esterno dell’istituto, consentendo
la comunicazione del nominativo dichiarato dalla persona che ha chiamato, a meno
che non ostino particolari motivi di cautela.
6. I PERMESSI PREMIO IN FORMA DI TELEFONATA
6.1 IL DIBATTITO GIURISPRUDENZIALE
In dottrina ed in giurisprudenza, si è molto discusso sulla possibilità di concedere
permessi (ex art. 30 ter O.P.), al fine di consentire, al condannato e all’internato, di
intrattenere corrispondenza telefonica, attraverso l’utilizzo di apparecchiature
pubbliche, installate all’esterno dell’istituto o al suo interno, ma fuori della zona
detentiva. In particolare, la questione si era posta con riferimento a quei detenuti (per
lo più stranieri) che non svolgevano colloqui visivi, con i familiari o con i conviventi,
e che non potevano essere ammessi alla corrispondenza telefonica ordinaria, perché,
ad esempio, non era possibile certificare il legame di parentela o di convivenza con il
destinatario della telefonata. Così, attraverso l’istituto del permesso premio “in forma
di telefonata”, si sarebbero potuti superare i rigidi presupposti stabiliti dall’art. 39
reg. es., per ottenere l’autorizzazione alla corrispondenza telefonica.
Contro tale soluzione, però, si erano addotte due diverse argomentazioni.
Anzitutto, si era ritenuto che il ricorso ai permessi premio, articolati in forma di
telefona, si risolvesse in una violazione della disciplina introdotta con l’art. 39 reg.
es., che individua i presupposti e le modalità di svolgimento della corrispondenza
telefonica dei ristretti. In secondo luogo, si era rilevata la sostanziale incompatibilità
tra la natura dei permessi premio, che mirano a far recuperare, al ristretto, spazi di
libertà all’esterno dell’istituto penitenziario, e l’autorizzazione ad effettuare una
telefonata dagli apparecchi pubblici installati all’interno dell’istituto, anche se fuori
dalla zona detentiva.
A favore dei permessi premio “in forma di telefonata”, invece, si era schierata
parte della giurisprudenza di merito, che aveva evidenziato come il ricorso all’art. 30
ter O.P., non violasse l’art. 39 reg. es., ponendosi, al contrario, in linea con la finalità
rieducativa della pena. Pertanto, non soltanto sarebbe legittimità la scelta di
autorizzare la corrispondenza telefonica, da effettuarsi mediante gli apparecchi posti
all’interno dell’istituto penitenziario, ma sarebbe anche corretto l’utilizzo dell’istituto
previsto dall’art. 30 ter O.P., in quanto “il permesso è qualcosa che interrompe la
regola penitenziaria” e tale interruzione sarebbe riscontrabile anche nel caso in
questione. Nondimeno, la stessa giurisprudenza favorevole a tale forma di permessi
premio aveva fissato taluni precisi requisiti di ammissione al beneficio, che si
aggiungevano a quelli previsti dall’art. 30 ter O.P. Così, oltre alla necessità che
dovesse trattarsi di condannato o internato che avesse scontato il quantum di pena
richiesto dalla legge, che avesse tenuto regolare condotta e che non fosse socialmente
56
pericoloso, si richiedeva che il ristretto (sia italiano, sia straniero) non si avvalesse di
altri strumenti di contatto con i familiari o con i conviventi e che non fosse
autorizzato ad effettuare telefonate ordinarie.
6.2 LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE n. 42001 DEL 22.11.2005
La soluzione accolta da parte della giurisprudenza di merito ha trovato
l’autorevole avallo della Corte di cassazione, che, con la sentenza n. 42001 del
22.11.2005, ha ritenuto perfettamente conforme alla ratio dell’art. 30 ter O.P. la
possibilità di concedere permessi premio “in forma di telefonata a proprie spese,
dirette ai familiari residenti all’estero, mediante l’utilizzo delle apparecchiature
installate dentro l’istituto”, in quanto, spesso, si tratta “dell’unica possibile forma di
risocializzazione nel più ampio contesto del percorso rieducativo”.
A tale conclusione, la Corte è giunta dopo una breve disamina della natura e della
funzione dei permessi premio, così come elaborate dalla costante giurisprudenza
costituzionale e di legittimità. In merito alla natura, i giudici hanno inquadrato
l’istituto dei permessi “in una più ampia visione della rieducazione, dentro e fuori le
mura carcerarie, comune anche alle misure alternative alla detenzione” e ciò perché
“il recupero dei primi spazi di libertà” può avvenire soltanto in un’esclusiva
prospettiva rieducativa. In ordine alla funzione, la Corte di cassazione (richiamando
una costante giurisprudenza) ha individuato una duplice finalità dei permessi premio.
La prima, a carattere premiale, diretta ad incentivare “la collaborazione del detenuto
con l’istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto, in assenza di
particolare pericolosità sociale, quale conseguenza di regolare condotta”. La seconda,
a carattere trattamentale (rieducativo) “in quanto consente un iniziale reinserimento
del condannato nella società”. A riguardo, la Corte ha ricordato come l’esperienza
dei permessi premio sia parte integrante del trattamento rieducativo, “divenendo,
altresì, attraverso l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul
condannato del temporaneo ritorno in libertà, strumento diretto ad agevolarne la
progressione rieducativa”.
Individuata la natura e le funzioni dei permessi premio, dunque, i giudici di
legittimità hanno affermato che i principi elaborati dalla giurisprudenza “assumono
una particolare valenza nei confronti dei detenuti stranieri per i quali, in assenza di
punti di riferimento in territorio italiano, l’articolazione del permesso premio in
forma di telefonata, a proprie spese, ai familiari residenti all’estero, mediante
l’utilizzo di apparecchiature installate dentro l’istituto, rappresenta l’unica possibile
forma di risocializzazione”, senza che ciò comporti una violazione dell’art. 39 reg.
es.
57
CAPITOLO QUARTO
I COLLOQUI VISIVI E LA CORRISPONDENZA
TELEFONICA DEI COLLABORATORI CON LA
GIUSTIZIA
Sommario: 1. Le fonti normative e i principi; 2. I colloqui visivi e le telefonate.
1. LE FONTI NORMATIVE E I PRINCIPI
La disciplina dei colloqui visivi e della corrispondenza telefonica dei detenuti e
degli internati, che hanno collaborato, collaborano o intendono collaborare con la
giustizia (ai sensi dell’art. 9 della legge n. 82 del 15 marzo 1991, modificata dalla
legge n. 45 del 2001), è contenuta nel Regolamento, emanato dal Ministero della
Giustizia con decreto n. 144 del 10 aprile 2006. Tale fonte normativa enuncia il
principio secondo il quale “ai detenuti e agli internati, indicati all’articolo 197, si
applicano integralmente le disposizioni previste dagli articoli 18 e 18 ter O.P. e dagli
articoli 37, 38, 39 reg. es.” (art. 6, comma I, reg. cit.). E’ ribadito, dunque, in materia
di colloqui visivi e di corrispondenza epistolare e telefonica, il principio generale in
base al quale i collaboratori con la giustizia “godono dei diritti e sono sottoposti ai
doveri previsti” dalla legge penitenziaria e dal regolamento d’esecuzione”,
ponendosi, a carico della direzione dell’istituto, l’obbligo di adottare tutte le misure
di sostegno e di trattamento, compatibili con le esigenze di sicurezza, “idonee ad
97
In base all’art. 1, sono sottoposti alle disposizioni del regolamento n.144 del 10 aprile 2006: a) i
detenuti e gli internati che risultano tenere o aver tenuto condotte di collaborazione previste dal codice
penale o da disposizioni speciali relativamente ai delitti previsti dall'articolo 9, comma 2, decretolegge 15 gennaio 1991, n. 8, e che siano ammessi alle speciali misure di protezione o per i quali sia
stata avanzata la proposta di ammissione a misure speciali di protezione, ovvero per i quali sia stata
avanzata richiesta di piano provvisorio di protezione, ovvero che siano sottoposti a piano provvisorio
di protezione, ovvero che siano sottoposti a misure di eccezionale urgenza ai sensi dell'articolo 13,
comma 1, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8; b) i detenuti e gli internati che risultano tenere o aver tenuto
condotte di collaborazione previste dal codice penale o da disposizioni speciali relativamente ai delitti
previsti dall'articolo 9, comma 2, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, per i quali, sebbene non sia stata avanzata
richiesta di speciali misure di protezione, il Procuratore della Repubblica che sta raccogliendo o che
ha raccolto il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione previsto dall'articolo 16-quater del
medesimo decreto-legge, richiede, in vista della formulazione della proposta di ammissione a speciali
misure di protezione, l'adozione di particolari cautele nella gestione penitenziaria; c) i soggetti che
sono stati sottoposti nel passato alle speciali misure di protezione e ne sono fuoriusciti con misure di
reinserimento sociale ai sensi dell'articolo 13, comma 5, decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, salvo
che, anche sulla base di informazioni provenienti dall'autorità giudiziaria, il nuovo stato di detenzione
o di internamento non sia conseguente a fatti incompatibili con le condotte di collaborazione con la
giustizia; d) i detenuti e gli internati che sono stati sottoposti nel passato alle speciali misure di
protezione poi revocate, ovvero al piano provvisorio di protezione non seguito dalla richiesta delle
speciali misure di protezione, ovvero a misure di eccezionale urgenza non seguite dalla definizione di
un piano provvisorio o delle speciali misure di protezione; e) i detenuti e gli internati che, sebbene non
tengono o non hanno tenuto condotte di collaborazione, sono sottoposti alle speciali misure di
protezione in ragione delle situazioni previste dall'articolo 9, comma 5, decreto-legge 15 gennaio
1991, n. 8.
58
evitare che le condizioni di vita” dei collaboratori con la giustizia “risultino deteriori
rispetto a quelle degli altri detenuti” (art. 2, commi I e IV, reg. cit.).
Posto il principio della non differenziazione del trattamento dei collaboratori con
la giustizia, rispetto agli altri reclusi, l’art. 6, comma I, seconda parte, reg. cit.
introduce un’eccezione, facendo “salve le limitazioni previste dall’art. 13, comma
XIV, decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8”. Secondo questa disposizione, “è fatto
divieto, durante la redazione dei verbali e comunque almeno fino alla redazione del
verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, di sottoporre la persona che
rende dichiarazioni ai colloqui investigativi di cui all’art. 18 bis, commi I e V, O.P.
E’ fatto altresì divieto, alla persona medesima e per lo stesso periodo, di avere
corrispondenza epistolare telegrafica o telefonica, nonché di incontrare altre persone
che collaborano con la giustizia, salvo autorizzazione dell’autorità giudiziaria per
finalità connesse ad esigenze di protezione ovvero quando ricorrono gravi esigenze
relative alla vita familiare”. Tale norma, è espressione della regola secondo la quale
“le modalità d’esercizio dei diritti e di adempimento dei doveri possono essere
modificate soltanto al fine di garantire la genuinità delle dichiarazioni e la tutela
dell’incolumità personale del detenuto o dell’internato” (art. 2, comma II, reg. cit.).
2. I COLLOQUI VISIVI E LE TELEFONATE
Le norme sui colloqui visivi e la corrispondenza telefonica ed epistolare dei
collaboratori con la giustizia, dunque, prevedono due distinte discipline.
A. Si applicano le ordinarie regole previste dalla legge penitenziaria e dal
regolamento d’esecuzione, nei confronti: a) dei detenuti o internati che siano
collaboratori con la giustizia e le cui dichiarazioni siano state già raccolte nei verbali
o, comunque, nel verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione stessa (e per i
quali sia stata già avanzata proposta di ammissione o siano già ammessi a misure
speciali di protezione o al piano provvisorio di protezione o sottoposti a misure di
eccezionale urgenza; ovvero in passato sottoposti a speciali misure di protezione poi
cessate per reinserimento sociale o revocate; ovvero per i quali sia richiesta
l’adozione di particolari cautele nella gestione penitenziaria); b) nei confronti di quei
detenuti o internati, che pur non avendo tenuto condotte di collaborazione sono
sottoposti alle speciali misure di protezione, per le ragioni indicate dall’art. 9, comma
V, d.l. n. 8/91 (si pensi ai familiari o ai conviventi dei collaboratori).
Nondimeno, con riferimento a tale categoria di ristretti, vigono due norme di
favore. In base alla prima, la condizione di collaboratore con la giustizia, come
regolata dall’art. 1, integra le particolari circostanze che, ai sensi del comma XI
dell’art. 37 reg. es., giustificano la concessione di colloqui ulteriori, rispetto a quelli
ordinari (art. 6, comma II, reg. cit.). La seconda, invece, è limitata ai detenuti e agli
internati di cui all’art. 1, comma I, lettere a) e c) (per i quali sia stata già avanzata
proposta di ammissione o siano già ammessi a misure speciali di protezione o al
59
piano provvisorio di protezione o sottoposti a misure di eccezionale urgenza; ovvero
in passato sottoposti a speciali misure di protezione poi cessate per reinserimento
sociale) ed attribuisce alle autorità competenti il potere (di natura discrezionale) di
autorizzare colloqui telefonici, con familiari o conviventi sottoposti a protezione,
“mediante la connessione ad utenza cellulare, purché il servizio centrale di
protezione attesti la disponibilità dell’utenza da parte del familiare o del convivente”.
La connessione telefonica è effettuata dalla direzione dell’istituto, avvalendosi “di
personale specificatamente addetto” ed è a spese del detenuto (art. 6, comma III, reg.
cit.).
B. Nei confronti dei detenuti e degli internati che abbiano manifestato la volontà
di collaborare con la giustizia, si applicano, invece, le disposizioni contenute
nell’art. 13, comma XIV, d.l. n. 8/91 (richiamato dall’art. 6, comma I, reg. cit.) e
nell’art. 3, comma I, reg. cit. In particolare, secondo quest’ultima norma, il D.A.P.
“dispone immediatamente le misure necessarie ad evitare l’incontro con altre persone
che collaborano con la giustizia, i colloqui investigativi di cui all’art.18 bis O.P. e le
comunicazioni epistolari, telefoniche e telegrafiche”. Queste misure saranno
mantenute fino alla completa conclusione della redazione dei verbali e comunque
fino alla redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione.
E’ da rilevare che, se da un lato, vige un divieto assoluto di colloqui investigativi
e di comunicazioni epistolari, telefoniche e telegrafiche (con chiunque intrattenute);
dall’altro, i colloqui visivi sono vietati soltanto se avvengono con persone che
collaborano con la giustizia (la completa rescissione di ogni contatto con i familiari,
per il non breve periodo di 180 giorni, difatti, sarebbe stata contraria al senso di
umanità che deve presidiare l’esecuzione delle misure restrittive della libertà
personale). Peraltro, anche il divieto di intrattenere corrispondenza epistolare,
telegrafica o telefonica e di incontrare altre persone che collaborano con la giustizia,
può essere superato a seguito di “autorizzazione dell’autorità giudiziaria per finalità
connesse ad esigenze di protezione ovvero quando ricorrono gravi esigenze relative
alla vita familiare” (art. 13, comma XIV, d.l. n. 8/91).
Le misure indicate dall’art. 3, comma I, reg. cit. e quelle di protezione, sono
disposte: 1) in via ordinaria, su iniziativa della Direzione generale dei detenuti e del
trattamento del D.A.P. (che ne dà notizia al Procuratore della repubblica e al
Procuratore nazionale antimafia), se la manifestazione della volontà di collaborare è
comunicata dall’autorità giudiziaria; 2) in via d’urgenza, su iniziativa della direzione
dell’istituto, che abbia ricevuto direttamente la comunicazione dell’autorità
giudiziaria; 3) sempre in via d’urgenza, dalla direzione dell’istituto, alla quale il
detenuto e l’internato abbia manifestato la volontà di collaborare. Nei casi 2) e 3), la
direzione dell’istituto darà immediata comunicazione dei provvedimenti adottati al
Procuratore della repubblica, al Procuratore nazionale antimafia e alla Direzione
generale dei detenuti e del trattamento per le successive disposizioni. In ogni caso, in
60
assenza di diversa comunicazione proveniente dal Procuratore della repubblica, al
quale il detenuto sta rendendo o ha reso le dichiarazioni indicate all’art. 16 quater d.l.
n. 8/91, le misure previste dall’art. 1 reg. cit. “sono revocate decorsi centottanta
giorni da quello in cui il soggetto ha manifestato la volontà di collaborare, secondo
quanto comunicato dal procuratore della repubblica”.
L’inosservanza dei divieti imposti dall’art. 13, comma XIV, d.l. n. 8/51 e ribaditi
dall’art. 3, comma I, reg. cit., comporta “l’inutilizzabilità in dibattimento (salvi i casi
di irripetibilità dell’atto) delle dichiarazioni rese al pubblico ministero e alla polizia
giudiziaria, successivamente alla data in cui si è verificata la violazione (art. 13,
comma XV, d.l. cit.).
61