Una ghiotta selezione delle lettere più spassose e liberatorie di

Una ghiotta selezione
delle lettere più spassose
e liberatorie di Giuseppe Verdi.
Un modo piacevole
per affacciarsi sul mondo
del Maestro e per scoprire le
aperture prodighe e scanzonate
del carattere di un artista
consapevole del proprio genio.
I NTRODUZI ONE
Tra le varie scritte che separano l'effige di un'arpa del 1558 di scuola ferrarese conservata alla Galleria
Estense di Modena e il ritratto di Giuseppe Verdi, dettagliato in barba e in folti capelli dall'onda lignea, ve
n'è una dai caratteri imponenti: Mille. Indica le lire di una banconota in circolazione tra la fine degli anni
Sessanta e l'inizio degli Ottanta, molto tempo prima che l'avvento dell'euro circonfondesse di una certa
innocua nostalgia il pensiero di quei tagli dalle cifre così generose di zeri.
Tutto, nell'icona nazionale di Verdi, sembra giocare a favore del raggiungimento di una perfetta sintonia
con il vasto pubblico: ogni singolo componente di quella che in realtà è una sfaccettata e complessa figura
di grande artista è improntato a un'immediatezza senza eguali: il nome, il cognome, la perfetta
rappresentatività del volto — nell'immaginario nazionale — del tipo umano dell'uomo di cultura
ottocentesco, la popolarità di cinque o sei arie del suo repertorio, riconoscibili dalle orecchie di qualunque
italiano, anche il più digiuno di musica. E poi quel MILLE, parola rotonda e piena, con numero di lettere
coincidente a OPERA o allo stesso VERDI, cui si può quindi idealmente sovrapporre in un immaginario
abbecedario nazionale. Probabilmente in reazione agli eccessi di retorica della prima parte del Novecento,
il Risorgimento e gli uomini ad esso legati sono avvolti, nella percezione comune, da un'atmosfera grave e
talvolta altezzosa che le recenti celebrazioni per il centocinquantenario dell'Unità sono riuscite ad alle
1.k:erire solo in parte. Dalle pareti di alcune sale comunali o nei musei di storia patria scoccano gli
sguardi surcigliosi di uomini che, come scriveva Montale, «hanno fedine altere e deboli in grandi ritratti
d'oro». L'icona di Verdi, almeno per i non melomani, non si sottrae a questa severa deformazione, ma
riesce a ridurre l'inflessibile distanza che ci separa da altri eroi del suo tempo superando mode e stagioni
per concedersi, in tutta la sua perfetta e simbiotica iconicità, all'abbraccio e al riconoscimento del
pubblico di ogni generazione.
Per molti anni, poco dopo il risveglio prima dell'aurora, Verdi concedeva uno spazio importante della sua
giornata, a volte ore intere, a evadere la posta. Il risultato è un epistolario dalla mole impressionante
(decine di migliaia di missive) all'interno del quale — isolando gruppi di lettere affini per tipologie,
argomenti, destinatari, periodo o toni — possono essere tracciati numerosi percorsi che contribuiscano a
guidarci attraverso diversi aspetti della personalità del Maestro. La selezione che si presenta qui apre a
due diverse sentieri.
Il primo delinea in pochi tratti essenziali la parabola ascendente di un uomo di genio che vide riconosciuto
in vita, e con che entusiasmo, il suo valore artistico. Si tratta di un tipico modello di quella che oggi
chiameremmo una success story, dalle difficoltà dei primi anni («io passo la mia più bella gioventù nel
niente», scrisse a Pietro Massini nel 1836), attraverso i crescenti consensi che lo condurranno fino ai
trionfi in patria e all'estero (si veda in questo senso la lettera in cui racconta a Clara Maffei le celebrazioni
in suo onore al Festival di Colonia del 1877) e quindi al riconoscimento della sua grandezza da parte di
un'intera Nazione che nella sua musica si volle identificare.
Eppure, per quanto in quest'uomo determinato e allegro, con un'infinita risorsa di energie, il successo
sembri stabilito dalla forza del destino, Verdi conobbe anche la tragedia e i più neri lutti; la storia, in
apparenza già scritta, dei suoi trionfi sarebbe potuta essere l'ignota biografia di un musicista di provincia
stroncato dalle sventure. Nel giro di poco più di tre anni, infatti, tra la primavera del 1837 e l'estate del
1840, il compositore, alle prese con gli inizi della sua carriera, vede morire i suoi unici due figli, seguiti
poco dopo dalla moglie appena ventiseienne. E qui entriamo nella più pura agiografia verdiana. La scena è
di quelle improbabili e solenni che costellano il nostro Risorgimento (su tutte l'episodio della conversione
di Manzoni) e, ovviamente, il nostro melodramma. È sera in casa Verdi. Il Maestro è solo e si muove per
le stanze ancora stordito dal dolore per la perdita della moglie e dei figli. Inoltre, è annichilito
nell'orgoglio dalla fredda accoglienza appena ricevuta alla Scala di Milano dal dramma giocoso Un giorno
di regno. Sposta i soprammobili senza vederli. Muove gli oggetti per riempire i vuoti e crea altri vuoti. Ed
ecco, trova un volumetto abbandonato sul tavolo chissà da quanto. Deve toglierlo di mezzo. È il libretto di
un'opera di ambientazione biblica, un lavoro che gli è stato proposto tempo prima e che ha già deciso di
rifiutare. Non scriverà più, non comporrà più, queste sono le sue risoluzioni. Il futuro è solo fatica; ma le
mani sono quasi più stanche del cuore e il libro gli sfugge, cade a terra, s'apre. Forse è solo per l'istinto
dettato dall'abitudine, o magari per l'ostinata astuzia della Storia, fatto sta che l'occhio di Verdi indugia sul
libretto e ne legge il primo verso. È un coro: «Va', pensiero, sull'ali dorate». Ne consegue una notte
insonne, la forsennata lettura e rilettura dell'inno, la decisione di metterlo in musica e da lì, con' un solo
balzo, questa mossa drammaturgia celebrativa ci conduce già alla Scala di Milano per assistere al trionfo,
alle 64 repliche in una sola stagione del Nabucco. Il pericolo di un ripiegamento su se stesso è scongiurato
per sempre.
Il percorso suggerito dal secondo gruppo di lettere aiuta far emergere il profilo di un grande artista capace
di assaporare le meravigliose superficialità del mondo con sanguigna emilianità, seguace dei valori
positivi di Verità e Bellezza su cui si incardinavano i dettami di Manzoni, di cui infatti Verdi era fervente
ammiratore. Dai piccoli e grandi spunti quotidiani qui raccolti si intuisce quanto il Maestro fosse uomo
dotato di straordinario amore per la vita, volitivo, forte di una vigorosa presa sulle cose, caparbio. Poiché,
come scrisse al collega Franco Faccio, «l'artista che esita non cammina». In procinto di raggiungere
Vincenzo Luccardi a Roma, il 6 gennaio 1859 raccomanda all'amico scultore di fargli trovare un buon
pranzo e un pianoforte come si comanda, ma soprattutto gli scrive: «ricordati che vogliamo ridere». E
questa predisposizione lo aiutava anche a stemperare la noia e i piccoli fastidi, talvolta con il riso, talvolta
con l'ironia. Come quando, per esprimere il disagio di qualche giorno di pioggia, si abbandona a un
iperbolico riadattamento dell'Addio ai monti, disinnescando, con la sproporzione tra il grado di gravità
dell'evento e le modalità di espressione scelte per descriverlo, l'effettivo malessere provocato dal
maltempo.
Artefice e impresario del proprio successo, anche dai momenti di maggiore densità di impegni Verdi
riesce a cogliere l'occasione per allargare i propri orizzonti o anche, semplicemente, per godersi la vita.
Nel 1847, ad esempio, trovandosi a Strasburgo e dovendo raggiungere Londra per la prima dei
Masnadieri, all'efficace prospettiva di un viaggio rapido ma massacrante come quello in carrozza diretto
fino all'Inghilterra, preferisce l'alternativa ampia e girovaga di un percorso zigzagante, prima in treno, poi
in battello lungo il Reno, poi di nuovo su strada ferrata, che gli dia la possibilità di esplorare paesi europei
in cui non era ancora mai stato. E giunto nella capitale inglese può infine scrivere soddisfatto alla cara
Clara Maffei: «Di salute sto benissimo. Il viaggio m'ha affaticato ben poco perché l'ho fatto con tutto mio
comodo».
A suo agio in tante piccole situazioni quotidiane, dall'insieme di queste lettere emerge quanto Verdi abbia
vissuto con comodità anche nei panni che la storia della musica (e non solo) aveva ritagliato per lui. Una
comodità certo alimentata dalla fiducia nei propri mezzi tipica di chi è consapevole del proprio valore. Il
14 luglio 1846 scrisse a Emilia Morosini: «Chi sa che una mattina non mi svegli milionario! Che bella
parola! Che ha un senso pieno, bello!»
E chissà che aperta risata avrebbe riservato il Maestro a chi gli avesse detto che, un giorno, per diventare
milionario sarebbero bastati mille fogli di carta con stampato sopra il suo volto.
REPERTORI O DEI DESTI NATARI
OPPRANDINO ARRIVABENE (1805-1887), giornalista, collaborò per anni al quotidiano politico torinese
di Cavour, «Opinione», per poi fondare la «Staffetta». Amico di vecchia data di Giuseppe Verdi, fu
estimatore della sua arte fin dagli esordi.
ANTONIO BAREZZI (1787-1867), agiato possidente terriero e commerciante di spezie e di liquori,
suocero di Verdi, che nel 1836 ne sposò la figlia maggiore, Margherita. Animò la vita culturale e
soprattutto musicale di Busseto. Aiutò economicamente il giovane compositore ad andare a Milano e a
perfezionarsi nello studio della musica. Continuò a interessarsi delle sorti del genero anche dopo la
scomparsa della figlia nel 1840.
VINCENZO FLAUTO (?-1856), tipografo e impresario dei reali teatri di Napoli dal 1836 al 1852,
commissionò a Giuseppe Verdi l'Alzira (prologo e due atti su libretto di Salvadore Cammarano) che
debuttò al San Carlo il 12 agosto 1845.
VINCENZO LUCCARDI (1808-1876), scultore e melomane, conobbe Verdi a Roma nel 1844 durante la
messa in scena dei Due Foscari al Teatro Argentina. Nel 1845 realizzò un costume per l'Attila,
rifacendosi all'omonimo affresco di Raffaello in Vaticano. Fu caro e fedele amico del Maestro che amava
apostrofarlo «matto».
CLARA MAFFEI (1814-1886), nata Carrara Spinelli, accogliente padrona di un celebre salotto milanese e
moglie (almeno fino al 1846) del letterato Andrea Maffei, fu intima e fedele amica di Verdi. Fu lei a
favorire l'incontro del compositore con Alessandro Manzoni nel 1868.
PIETRO MASSINI (1796-1836), musicista, direttore dell'Accademia Filarmonica di Milano, incaricò
Verdi della composizione della sua prima opera, il Rocester, poi rielaborato nell'Oberto, conte di San
Bonifacio.
DOMENICO MORELLI (1826-1901), pittore tra i più rilevanti del suo tempo, fu amico carissimo del
Maestro che lo conobbe a Napoli nel 1858 in occasione dell'allestimento teatrale de Il ballo in maschera.
Nel 1857 Morelli aveva tratto un quadro di successo dal poema I Foscari di George Byron, opera da cui
Verdi aveva ricavato un'omonima opera nel 1844.
EMILIA MOROSINI (1804-1875), nata Zeltner, nobildonna di origine svizzera, madre del patriota Emilio,
eroe delle Cinque giornate, morto in difesa della Repubblica Romana. Verdi frequentò il suo salotto fin
dai primi successi artistici.
FRANCESCO MARIA PIAVE (1810-1876), uno dei maggiori librettisti del suo tempo, con all'attivo oltre
sessanta collaborazioni operistiche. Direttore nel 1842 del Teatro La Fenice di Venezia, dal 1859 al 1867
sarà poeta ufficiale della Scala di Milano. Per Verdi scrisse Ernani e I due Foscari (1844), Attila (1846),
Macbeth (1847), Il Corsaro (1848), Stiffelio (1850), Rigoletto (1851), La traviata (1853), Simon
Boccanegra (1857) e ' infine La forza del destino (1862).
TITO RICORDI (1811-1888), editore musicale, figlio del fondatore dell'omonima casa editrice, fu
animatore del periodo di maggiore sviluppo dell'impresa di famiglia. Strin.se amicizia con Verdi di cui
pubblicò gli spartiti di quasi tutte le opere.
UN GENI O COM PRESO
Nel 1836, a 23 anni, Verdi aspira al posto di maestro di cappella del duomo di Monza. L'incarico lo
avvicinerebbe a Milano, all'epoca capitale del Regno Lombardo-Veneto, e gli assicurerebbe una buona
rendita. All'insaputa del compositore, però, il posto era già stato assegnato due giorni prima. Emergono
qui le difficoltà del giovane artista con scarse risorse economiche che desidera vivere in un ambiente più
stimolante e variegato e cerca spazi per la sua carriera di musicista.
A PIETRO MASSINI, MILANO
Busseto, sabato 15 ottobre 1836
Amico Carissimo,
dall'ultima tua ho inteso quanto mi scrivi relativamente all'Opera, e quantumque tu mi tenga ancora in
speranza, io preveggo benissimo che per quest'anno non ne faremo niente. Ora ti voglio parlare d'altro:
sappi addumque che io sono stanco di stare in Busseto, perché tu sai che in un piccolo paese non vi sono
risorse per chi fa professione di musica, non vi sono speranze di avanzamento, lontano dalla città, quindi
tu vedi che io passo la mia più bella gioventù nel niente. Io per questo attenderei di nuovo alla Capella di
Monza, (benché per genio non sia inclinato alla musica di Chiesa). Tu devi favorirmi col farmi sapere se
quel posto è ancora libero, e se havvi nessun intoppo onde attenerlo. Parmi che colà starei meglio che in
Busseto perché paese vasto, e poi perché vicino alla Capitale. Ti raccomando con calore di informarti di
tutto, e di rendermene avvertito il più presto che puoi. Perdonami del disturbo.
Il tuo Amico di Cuore ti abbraccia.
G. Verdi
Il suocero Antonio Barezzi fu generoso mecenate di Verdi nei suoi difficili primi anni milanesi. Qui
troviamo il Maestro alle prese con l'umiliante incombenza di chiedere un prestito per anticipare l'affitto
di casa, il cui contratto scadeva, com'era usuale all'epoca, il 29 settembre, ricorrenza di San Michele.
Verdi stava lavorando alla sua prima opera, l’ Oberto, conte di San Bonifacio (su libretto di Antonio
Piazza, riadattato da Temistocle Solera) che debutterà alla Scala il 17 novembre 1839 ottenendo un buon
riscontro di critica e di pubblico. Questo successo fu accompagnato da uno dei periodi più tragici della
vita del compositore che nel giro di due anni vide morire i due figli, Virginia Maria e Icilio, e la moglie
Margherita. Dopo un periodo di lutto e di crisi e qualche delusione artistica, Verdi risorgerà dalle
proprie ceneri con la prima del Nabucco, messo in scena alla Scala il 9 marzo 1842.
AD ANTONIO BAREZZI, BUSSETO
Milano, mercoledì 4 settembre 1839
Carissimo Suocero,
incoraggiato dalle esibizioni che egli tante volte gentilmente mi fece, mi fo ardito d'esporgli quanto mi
abbisogna. Lei sa che a momenti siamo a San Michele ed io non ho ancora ritrovato la casa perché ci
vuole l'affitto anticipato. Io non l'ho, e ricorro a Lei. Altre cose mi abbisognano perché dovendo scrivere
per l'Opera non posso procurarmi altri mezzi. Dell'Opera Le parlerò con secretezza alla sua venuta. Per
ora Le posso dire che le notizie sono buone, e tali che non avrei nemmeno ardito sperare. Del resto l'intera
somma che mi necessita a conti fatti sarebbe di Lire 350. Spiacemi il doverlo tediare ora che so in quante
spese sia per altri. Se potessi fare a meno (lo giuro) Io farei. Lei sa a che siano rivolte le mie viste, e le mie
speranze. Non certamente la speranza di accumulare ricchezze, ma quella di essere qualche cosa fra gli
uomini, e di non esser inutile arnese come tant'altri. Se da Lei non ottenessi quanto chiedo mi troverei
come chi nell'acqua nuotando vede la sospirata riva, ed è lì per abbrancarla, ma... le forze li mancano, e
muore.
Confidando nella bontà sua lo ringrazio anticipatamente e sperando di abbracciarlo presto lo saluto
intanto.
G. Verdi
Un momento di vacanza e di villeggiatura, di ferie anche dalla musica, proprio nel bel mezzo degli anni
che il Maestro poi definirà «di galera», ossia un periodo caratterizzato da un lavoro forsennato che lo
portò a comporre una decina di opere nel giro di due lustri, consolidando così successo e fama. Le
passeggiate a dorso d'asino, in cui Verdi vorrebbe coinvolgere anche le due giovanissime figlie
dell'amica Emilia Morosini, confermano la bonomia e la capacità di godere dei piaceri anche più
semplici del grande compositore.
A EMILIA MOROSINI, MILANO
Recoaro, martedì 14 luglio 1846
Amabile Signora,
sono beato d'aver ricevuto sue notizie e nello stesso tempo mortificato d'esser stato da Lei prevenuto. La
colpa è un po' di Venezia, un po' di Maffei, il quale so che le scrisse subito tornati. Venezia è deliziosa
adesso alla sera ma per due o tre volte non più. Qui si muore di noja: moltissima gente, tal-ché chi
arrivino ora sono costretti ritornarsene per non trovare alloggio, son tutti sbandati: nissuna società alla
sera; e dopo cena a letto. Trovo anelli() bella questa valle, ma cosa è mai in confronto a Como, Varese
etc.. 2 Facciamo delle grandi asinate con alla mano il codice itinerario dedicatomi da Carolina. Non
capisco cosa mi potran fare le acque: credo che siano una specie d'unguento mal-vino che non fa né ben
né male: certo non mi fa nissunissimo peso e speriamo l'utile nel futuro.
Sono contentissimo del meglio stare di Carolina, e dolente pel mal essere della Peppina. Non proverà ora
venire a Recoaro? Allora saremmo stati allegri: avressimo formata una piccola società, ed a dispetto di
Recoaro si saressimo divertiti. Qui c'è di buono che non si sente, né si fa musica. È stata proprio una
ispirazione quella di non far venire un cembalo. Parmi ora di non esser più io: non mi par vero di saper la
musica, di saper comporre tante belle e brutte cose, e non capisco come potrò ritornare a miei lavori. Chi
sa che una mattina non mi svegli milionario! Che bella parola! Che ha un senso pieno, bello! E come son
vuote in confronto fama, gloria, ingegno etc.
Partirò da Recoaro probabilmente Giovedì: La troverò ancora a Milano? Io spero di sì. Intanto penso di
dire le cose più affettuose alle sue figlie al mio buon Taccagni. Le bacio una mano, e poi l'altra, e poi
l'altra ancora. Mi creda
suo Affezionato
G. Verdi
Questa lettera è splendida. Verdi arriva a Milano il 5 aprile, vale a dire un paio di settimane dopo la
conclusione delle Cinque giornate (18-22 marzo) che liberarono la città dal dominio austriaco.
L'episodio, così cruciale nella storia dell'indipendenza e dell'unificazione italiana, commuove il Maestro,
ossia colui che diverrà l'icona artistica più condivisa di tutto il Risorgimento. La lettera è da mettere in
relazione, come provvisorio epilogo, con quella a Luccardi del 14 luglio 1849 in cui, a proposito della
repressione della Repubblica Romana da parte delle truppefiancesi, scriverà: «La forza ancora regge il
mondo! La giustizia?... A che serve contro le bajonette!!>.
Al cittadino FRANCESCO MARIA PIAVE, VENEZIA
Milano, venerdì 21 aprile 1848
Caro Amico,
figurati s'io voleva restare a Parigi sentendo una rivoluzione a Milano. Sono di là partito immediatamente
sentita la notizia, ma io non ho potuto vedere che queste stupende barricate. — Onore a questi prodi!
Onore a tutta l'Italia, che in questo momento è veramente grande! L'ora è suonata, siine pur persuaso,
della sua liberazione. È il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le
possa resistere.
Potranno fare, potranno brigare finché vorranno quelli che vogliono essere a viva forza neccessarj, ma non
riusciranno a defraudare i diritti del popolo. Sì sì ancora pochi anni forse pochi mesi e l'Italia sarà libera,
Una, repubblicana. Cosa dovrebbe essere?
Tu mi parli di musica!! Cosa ti salta in capo?... Tu credi che io voglia ora occuparmi di note, di suoni?...
Non c'è né ci deve essere che una musica grata alle orecchie delli Italiani del 1848: la musica del
cannone!... Io non scriverei una nota per tutto l'oro del mondo: ne avrei un rimorso immenso consumare
della carta da musica, che è sì buona da far cartatuccie. Bravo mio Piave, bravi tutti veneziani, bandite
ogni idea municipale, doniamoci tutti una mano fraterna e l'Italia diventerà ancora la prima nazione del
mondo!
Tu sei guardia nazionale? Mi piace che tu non sia che soldato semplice. Che bel soldato! Povero Piave!
Come dormi? Come mangi?... Io pure, se avessi potuto arruolarmi, non vorrei essere che soldato, ma ora
non posso essere che tribuno ed un miserabile tribuno perché non sono eloquente che a sbalzi. Bisogna
che torni in Francia per impegni e per affari. Immaginati che oltre la seccatura di dover scriver due opere,
io ho là diversi denari da esigere, e tanti altri in biglietti di Banca da realizzare.
Io ho abbandonato là tutto ma non posso trascurare una somma per me forte, e bisognerà la mia presenza
per salvarne almeno nella attuale crisi una parte. Del resto succeda quel c,he si vuole io non m'inquieto
per questo. Se tu mi vedessi ora non mi riconosceresti più. Non ho più quel muso che ti faceva spavento!
Io sono ebbro di gioja! Immaginati non vi son più Tedeschi!! Tu sai che razza di simpatia io aveva per
loro! Addio. Addio saluta tutti. Mille cose a Venturi a Fontana. Scrivimi subito perché s'io partirò, non
sarà sì presto. Ben inteso che io ritornerò!... Addio, addio. Scrivimi sempre.
Per la rappresentazione al San Carlo di Napoli del suo amato Macbeth, allestito il 22 gennaio 1849,
Verdi si schernisce con l'impresario del teatro dichiarandosi un «orso» e negando l'importanza di una
sua presenza nei giorni della messa in scena. Inoltre rivendica l'autonomia delle sue opere e la sua
integrità di artista che non ha mai cercato il successo se non con la qualità e la quantità del suo lavoro.
Il Maestro ci fornisce anche un breve e pittoresco schizzo della fatua società che orbitava all'epoca
intorno al mondo della lirica, di cui aveva già avuto esperienza nell'estate del 1845 in occasione del
debutto partenopeo dell'Alzira, opera su libretto di Salvatore Cammarano che gli era stata
commissionata dallo stesso Flauto.
A VINCENZO FLAUTO, NAPOLI
Parigi, giovedì 23 novembre 1848
Mi spiace aver l'aria con voi di far il difficile, il prezioso, mentre io sono estremamente franco, deciso,
qualche volta irascibile, selvaggio anche se volete, ma giammai né difficile né prezioso, e se sembro tale
non è colpa mia, ma delle circostanze. Voi mi fate un quadro lusinghiero nella maniera con cui sarei ora
accolto a Napoli; ma, perdonatemi, ci sarebbe mai dubbio che voi soffrendo di nervi andaste soggetto a
visioni [e] vi alteraste al punto di vedere color di rosa quello che non è che nero? Certo mentirei se vi
dicessi che io sono stato contento altra volta di Napoli; ma, credetemi, l'esito non è quello che m'ha
disgustato, ma una infinità di pettegolezzi che nulla aveva a che fare con un'Opera. Perché farmi un carico
o perché andavo a un gran caffè, o perché era al balcone della Tadolini, o perché aveva le scarpe color
chiaro piuttosto che nere e mille altre piccolezze non degne certamente di un grave pubblico né di una
gran città? Voi credete che la mia presenza possa influire sull'esito! Non credetelo. Vi ripeto quello che
v'ho detto in principio che sono un po' selvaggio, e se a Napoli hanno rimarcato tanti difetti la prima volta
sarebbe così della seconda. È vero che sono da un anno e mezzo a Parigi (in questa città ove si dice tutto
s'ingentilisce) ma io, conviene lo confessi, sono più orso di prima. Sono sei anni che scrivo
continuamente, che giro da paese in paese e non ho mai detto una parola a giornalista o ho mai pregato un
amico, mai fatto la corte al ricco per aver un esito. Mai, mai: io sdegnerò sempre questi mezzi. Faccio del
mio meglio le Opere: ho lasciato andare le cose pel loro canale senza mai influenzare nella benché
minima parte l'opinione del pubblico.
[...] Scrivo a Cammarano' per diverse cose sul Macbeth; assistete anche voi alle prove e non vi rincresca
farne fare una di più: è un'Opera un po' più
' Salvatore Cammarano ( I 801-1852), librettista partenopeo, dal 1843 «Poeta drammatico e concertatore» al Teatro San Carlo di Napoli. Per Verdi, oltre alla
già citata Alzira, comporrà anche La battaglia di Legnano (1849), Luisa Miller (1849) e 11 trovatore (1852) che lascerà incompiuto a causa della morte
improvvisa. In questo frangente, Verdi si affida a lui per la supervisione dell'allestimento del Machbet.
difficile delle altre mie ed importante per la mise en scene. Vi confesso che ci tengo a quest'Opera a
preferenza delle altre mie, e mi rincrescerebbe vederla andare a precipizio. Avvertite che appartiene ad un
genere che generalmente o vanno benissimo, o vanno a rompicollo. Quindi è necessario una estrema cura
nell'esecuzione.
Addio, addio!
Vostro Affezionato
G Verdi
Verdi reagisce agli artificiosi cambiamenti del libretto originale del Rigoletto effettuati dal Teatro
Argentina di Roma dove il 27 settembre 1851 l'opera era stata messa in scena con il titolo apocrifo di
Viscardello e un posticcio lieto fine. Lo Stiffelio, invece, lavoro assai controverso per gli scottanti temi
affrontati (adulterio e divorzio), poi modificato dallo stesso Verdi proprio a seguito del polverone
sollevato, già a Firenze era stato rappresentato con il titolo Guglielmo Wellingrode; la figura del
protagonista era stata censurata trasformando il pastore protestante della versione originale in un Primo
ministro tedesco.
A VINCENZO LUCCARDI, ROMA
Sant'Agata, lunedì 1 dicembre 1851
Carissimo Matto!
[...] Speriamo che altra volta le cose sieno disposte un po' meglio... Ma io non voglio accusar nissuno!!!
La colpa è tutta mia... capisci?... So che si è rovinato in Roma non solo Stiffelio ma anche Rigoletto.
Questi impresarj non hanno ancora capito che quando le opere non si possono da2re nella loro integrità,
come sono state ideate dall'autore è meglio non darle: non sanno che la trasposizione d'un pezzo, d'una
scena è quasi sempre la causa del non successo d'un'opera. Immaginati quando si tratta di cambiar
argomenti!! P. molto se io non ho fatto pubblica dichiarazione che Stiffelio e Rigoletto come sono state
date a Roma non erano musiche mie. Che diresti tu se ad una tua bella statua si mettesse una benda nera
sul naso?!!
Mille cose a tutti gli amici. In particolare ad Angiolini' e tu ama sempre il tuo
G Verdi
‘ Emilio Angelini (1804-1879), musicista del Teatro Apollo di Roma di cui fu primo violino.
Verdi scrive a Barezzi in merito ad alcune questioni amministrative legate ai suoi terreni a Busseto. Il
suocero doveva aver espresso disappunto per il mancato affidamento dell'amministrazione dei fondi
durante le numerose e prolungate assenze del Maestro, riferendo probabilmente anche qualche
pettegolezzo di paese in merito alla sua discussa convivenza con il soprano Giuseppina Strepponi. I due
infatti abitavano assieme a Busseto senza essere sposati fin clan settembre 1849 e sarebbero convolati a
nozze solo dieci anni dopo. Verdi qui rivendica con forza e fermezza la propria libertà individuale e
sentimentale, difendendo anche la dignità e il diritto all'autodeterminazione della sua compagna.
AD ANTONIO BAREZZI, BUSSETO
Parigi, mercoledì 21 gennaio 1852
Caro Suocero,
dopo molto aspettare non credevo ricevere da Lei una lettera così fredda ed ove avvi, se non sbaglio,
qualche frase ben pungente. Se questa lettera non fosse sottosegnata Antonio Barezzi che vuol dire mio
benefattore, io avrei risposto molto vivamente o non avrei risposto affatto; ma portando tal nome che mi
farò sempre un dovere di rispettare, io cercherò per quanto mi sarà possibile di persuaderlo che io non
merito rimprovero di sorta. Per far questo mi è necessario rimontare a cose passate, parlare d'altri, del
nostro paese [...]. [E] poiché siamo in via di fare rivelazioni non ho difficoltà alcuna alzare la cortina che
vela i misteri racchiusi fra quattro mura, e dirle della mia vita di casa. Io non ho nulla da nascondere. In
casa mia vive una Signora libera, indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che
la mette al coperto di ogni bisogno. Né io, né Lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni; ma
d'altronde chi sa quali rapporti esistano fra noi? Quali gli affari? Quali i legami? Quali i diritti che io ho
su Lei, ed Ella su di me? Chi sa s'Ella è o non è mia moglie? Ed in questo caso chi sa quali sono i motivi
particolari, quali le idee da tacerne la pubblicazione? Chi sa se ciò sia bene o male? Perché non potrebbe
anche essere un bene?... E fosse anche un male chi ha diritto scagliarci l'anatema? Bensì io dirò che a Lei,
in mia casa, si deve pari anzi maggior rispetto che non si deve a me, e che a nissuno è permesso mancarvi
sotto qualsiasi titolo, che infine Ella ne ha tutto il diritto, e pel suo contegno, e pel suo spirito, e pei
riguardi sociali a cui non manca mai versò gli altri. Con questa lunga chiacchierata non ho inteso dire
altro che io reclamo la mia libertà d'azione, perché tutti gli uomini ne hanno diritto, e perché la mia natura
è ribelle a fare a modo altrui; e che Egli che in fondo è sì buono, sì giusto, ed ha tanto cuore non si lasci
influenzare, e non assorba le idee d'un paese che, a mio riguardo, — bisogna ben dirlo! tempo fa non m'ha
degnato capace d'avermi a suo organista, ed ora mormora a torto ed a travergere dei fatti e delle cose mie.
Ciò non può durare, ma se dovesse, io sono l'uomo da prendere il mio partito. Il mondo è sì grande: e la
perdita di 20, o 30 mila franchi non sarà mai quella che m'impedirà di trovarmi una patria altrove. In
questa lettera nulla può esservi d'offensivo, ma se caso mai qualche cosa le dispiacesse sia per non scritta,
perché io le giuro sull'onore, non ho intenzione di recarle dispiacere di sorta. Io l'ho sempre considerato e
lo considero per mio benefattore, e me ne fo un onore e me ne vanto.
Addio Addio! Colla solita amicizia
GV
«La critica fa il suo mestiere; giudica e deve giudicare secondo norme e forme stabilite; l'artista deve
scrutar nel futuro, veder nel caos nuovi mondi, e se nella nuova strada vede in fondo in fondo il lumicino,
non lo spaventi il bujo che l'attornia; cammini, e se qualche volta inciampa e cade, s'alzi e tiri dritto
sempre. È bello qualche volta anche una caduta in un capo-scuola... Ma che diavolo vado io
schiccherando!»
Giuseppe Verdi all'editore e librettista Vincenzo Torelli, 23 dicembre 1867.
Locandina di una messa in scena di Violetta, la versione censurata de La traviata. In questa tendenziosa
riscrittura la protagonista non è più una cortigiana ancora capace di provare profondi e sublimi
sentimenti, ma diviene una fanciulla pura e illibata che si sacrifica per il bene del suo amore. Oltre alla
complessità del personaggio, il dramma perde anche l'ambizione di infrangere gli stereotipi sociali.
La banconota chiamata «Verdi II tipo». Una prima tipologia di cartamoneta con l'effige di Verdi,
graficamente più semplice, era stata emessa dal 1962 al 1969, mentre questa fu stampata, in quasi due
miliardi di esemplari, dal 1969 al 1981. Sul verso compariva un'immagine del Teatro alla Scala di
Milano. Fu poi sostituita dalla «Marco Polo», a sua volta rimpiazzata dalla «Maria Montessori» prima
dell'avvento dell'euro.
Negli 8.092 comuni italiani esistono 3.046 tra strade, piazze, viali, vicoli e larghi intitolati a Giuseppe
Verdi che è dunque di gran lunga il musicista più gettonato nella toponomastica nazionale e, tra gli
artisti, secondo solo a Dante.
Com'era prassi consolidata nei teatri dell'epoca, soprattutto per motivi di censura, anche le opere di
Verdi subirono improbabili riscritture e tagli che ne deturpavano la coerenza narrativa e la forza
drammatica per evitare temi scabrosi o riferimenti alla politica contemporanea. Ne è testimonianza
anche un'altra lettera a Luccardi del dicembre 1851 riportata poco sopra. In questo caso era toccato alla
Traviata, diventata Violetta e messa in scena il 30 dicembre 1854 al teatro Apollo di Roma senza
l'autoriZzazione del Maestro.
A VINCENZO LUCCARDI, ROMA
Parigi, settembre [?] 1854
Carissimo,
non verrò a Roma per più motivi. Il primo perché l'Impresario è uno spilorcio: il secondo perché la
Censura ha guastato il senso del dramma. Han fatto la Traviata pura ed innocente. Tante grazie! Così han
guastato tutte le posizioni tutti i caratteri. Una puttana deve essere sempre puttana. Se nella notte
splendesse il sole non vi sarebbe più notte. In somma non capiscono nulla. [...]
Tuo affezionato
G Verdi
Con un'amica di vecchia data, fervente patriota e animatrice di un salotto letterario in via Bigli il
Maestro commenta, ormai da uomo arrivato, le novità musicali del momento, tra cui spicca l'interessante
e lucida valutazione dell'arte di Wagner. Da qui prende spunto per ammonire contro i pericoli
dell'imitazione. Nel 1891 in una lettera a Giulio Ricordi commenterà criticamente anche lo stile
compositivo di Mascagni (e in particolare del suo L'amico Fritz che aveva appena debuttato a Roma),
con toni che ricordano le cautele qui espresse nei confronti del grande musicista bavarese: «In quanto
alla musica sono andato avanti un po, ma mi sono stancato presto di tante dissonanze, di quei rapporti
falsi di modulazione, di tutte quelle cadenze sospese, di quelli inganni, e piú... di tanti cambiamenti di
tempo a quasi ogni battuta. Cose tutte piccantissime, ma che offendono il senso del ritmo, e dell'udito».
A CLARA MAFFEI, CLUSONE
Torino, venerdì 31 luglio 1863
Carissima Clarina,
ho ricevuto la vostra carissima al momento di partire per l'Italia, mi fermai due giorni a Torino, andai a
casa ed ora sono di ritorno a Torino ove non mi fermerò che poche ore — [...]
Vedevo spesso in Parigi l'anno scorso Boito e Faccio e sono certamente due giovani di molto ingegno, ma
io non posso dir nulla del loro talento musicale perché di Boito non ho mai inteso nulla e di Faccio poche
cose ch'Egli venne un giorno a farmi sentire. Del resto poiché Faccio darà un'opera', il pubblico dirà la sua
sentenza. Questi due giovani sono accusati di essere caldissimi ammiratori di Vagner. Nulla di male,
purché l'ammirazione non degeneri in imitazione. Vagner è fatto ed è inutile rifarlo. Vagner non è una
bestia feroce come vogliono i puristi, né un Profeta come lo vogliono i suoi apostoli. È un uomo di molto
ingegno che si piace delle vie scabrose, perché non sa trovare le facili e le più diritte. Non bisogna che i
giovani s'illudano, vi sono molti e molti che fanno credere di aver delle ali, perché realmente non hanno
gambe da reggersi in piedi. Che Faccio si metta una mano sul cuore e, senza badar ad altro, scriva come
questo gli detta; abbia ardire per tentare vie nuove e coraggio per affrontare le opposizioni.
Salutate gli amici: mille cose a Donna Saulina. Vogliatemi bene e credetemi ora e sempre.
Vostro affezionato
G Verdi
' Si tratta de I profughi fiamminghi che, su libretto del poeta scapigliato Emilio Praga, sarà messa in scena I'11 novembre 1863 alla Scala di Milano.
Franco Faccio (1840-1891), musicista e compositore veronese, dopo alcune opere che destarono un certo interesse nell'ambiente della scapigliatura,
divenne direttore della Scala. Proprio al teatro milanese diresse, tra l'altro, la prima italiana dell'Aida nel-1872.
Verdi era stato eletto deputato a furor di popolo nel primo Parlamento del Regno d'Italia nel Collegio di
Borgo San Donnino. In questa lettera divertente e decomplessata racconta la sua improbabile carriera
politica, quasi onere da pagare per essere divenuto simbolo vivente della lotta d'indipendenza italiana. Il
10 gennaio 1861 Cavour gli aveva scritto, pregandolo di far cadere le sue resistenze e accettare la
candidatura per il bene del Paese: «So che le chiedo cosa per lei grave e molesta. Se ciò malgrado
insisto, si è perché reputo la sua presenza alla Camera utilissima. Essa contribuirà al decoro del
Parlamento dentro e fuori d'Italia; essa darà credito al gran partito nazionale, che vuole costituire la
nazione sulle solide basi della libertà e dell'ordine; ne imporrà ai nostri immaginosi colleghi della parte
meridionale d'Italia, suscettibili di subire 'influenza del genio artistico più assai di noi abitatori della
fredda valle del Po».
A FRANCESCO MARIA PIAVE, MILANO
Sant'Agata, sabato 4 febbraio 1865
Quale stranezza è mai la tua di domariclarmi notizie e documenti sulla mia vita pubblica e
parlamentare?... La mia vita parlamentare non esiste. Son deputato, è vero, ma quasi quasi io stesso non
so perché lo sia e come lo sia. So che al momento delle elezioni, io venni proposto, e rifiutai; quando
saputolo, non so come, il Conte di Cavour mi scrisse esortandomi ad accettare. Imbarazzato a rispondere a
questa lettera (che credo tu abbia letta) risolsi d'andare a Torino.
Mi presentai al Conte in un giorno del mese di Dicembre a cinque ore del mattino, con 12 o 14 gradi di
freddo (e tu ne stupirai gran poltrone che sei) e dopo un colloquio abbastanza lungo, finii coll'accettare
alla condizione che dopo qualche mese avrei data la mia dimissione. Fui eletto, e frequentai nei primi
tempi la Camera, fino alla giornata solenne in cui si proclamò Roma Capitale d'Italia. Dato il voto mi
avvicinai al Conte, e gli dissi: «Ora mi par tempo d'andarmene pe' fatti miei.» «No,» rispose «andiamo
prima a Roma.»
«Ci andremo?»
«Sì.»
«Quando?»
«Oh quando, quando!... Presto.»
Furono queste, per me, le ultime sue parole! Poche settimane dopo moriva!!... Io partii in seguito per la
Russia, venni a Londra, indi a Parigi. Ritornai in Russia, andai a Madrid, feci un viaggio nell'Andalusia,
ed in ultimo mi fermai a Parigi parecchi mesi per affari di professione.
Per due lunghi anni fui assente dalla Camera, e dopo non vi ho assistito che ben di rado. Più volte fui per
dare la mia dimissione, ma qualche intoppo è nato sempre ad impedirlo, e sono ancora deputato, contro
ogni mio desiderio, contro ogni mio gusto, senza avervi né inclinazione, né attitudine, né talento. Ecco
tutto. Volendo, o dovendo fare la mia biografia come membro del Parlamento, non vi sarebbe che a
stampare nel bel mezzo di un foglio bianco, a grandi caratteri: I 450 non sono realmente che 449 perché
Verdi, come deputato non esiste.
Il grande scultore napoletano Vincenzo Gemito inviò a Verdi due busti rappresentanti il musicista e sua
moglie Giuseppina Strepponi. Qui il Maestro ne scrive all'amico pittore Morelli, conosciuto a Napoli nel
1858, autore a sua volta di un noto ritratto verdiano e collaboratore alla scenografia dellOtello.
A DOMENICO MORELLI, NAPOLI
Genova, mercoledì 14 maggio 1873
Caro Morelli,
ho fatto una corsa a Parma, poi a Torino, ed ora sono qui fino a domani sera, per ritornarmene subito dopo
a casa. Non vedo l'ora di vedere e Scultore e Scultura sperando che tutto arrivi in buona salute compreso
Gemito sempre selvaggio e senza denari. A me piace nelle arti tutto quello che è bello. Io non ho
esclusività; io non credo alla scuola, e mi piace il gajo, il serio, il terribile, il grande, il piccolo et. et. Tutto
tutto, purché il piccolo sia piccolo, il grande sia grande, il gajo sia gajo et. et. — Insomma che tutto sia
come deve essere: Vero e Bello. — Non ti dar dumque nissun pensiero. Dipingi d'ispirazione, e quel che
vien viene. Ora che il soggetto è trovato, studiato, e quel che è più, sentito, la mano scorrerà rapidamente
sulla tela, e vi lascerà sopra un Capo-d'-opera.
Io sono un po' (forse troppo poco) Artista. Gli artisti sono profeti. Ti predico e ti ripeto ancora «Sarà un
Capo d'opera».
La Peppina qui presente ti saluta tanto tanto, ed io ti stringo affettuosamente le mani — addio Affezionato
G Verdi
Invitato a dirigere la sua Messa da requiem al prestigioso Festival di Colonia, diretto dal pianista e
compositore tedesco Ferdinand Hiller, Verdi venne accolto trionfalmente, ricevendo omaggi e regali, tra
cui una corona d'oro a forma di lauro, e un curioso «bastoncino d'avorio e argento per dirigere colla
lettera V in diamantini piccoli». La sua è ormai una celebrità internazionale e tale rimarrà sino alla fine
della sua vita e oltre.
A CLARA MAFFEI, MILANO
Colonia, martedì 22 maggio 1877
Vi dissi a Milano di scrivervi, e vi scrivo: ma devo dirvi tutto? Vi parrò forse poco modesto, ma infine
non posso a meno di dirvi che sono stato ben ricevuto, e che l'accoglienza è stata superiore a quanto
m'aspettava.
Immaginate il trambusto musicale in questi giorni dei Festivals: suoni canti dappertutto, orchestre, Bande,
Quartetti, Serenate, mattinate, e poi inviti, e vigilie, e pranzi e cene. Soprattutto cene perché qui ogni
spettacolo deve essere finito, caschi il mondo, alle dieci di sera per andare dopo alle Restaurations ove
non si trova mai una bottiglia d'acqua, ma Birra, Bordeaux, Reno, Champagne e molte cose da mangiare.
Jeri dopo il Concerto che fu l'ultimo la Società dei Festivals c'invitò al Casino a cena. Eravamo forse più
di cinquecento... vino e brindisi e sul finire distribuirono a ciascuno una canzone stampata, e su una loro
Cantilena tutti, Uomini e Donne si misero a cantare. Era cosa curiosa! Più tardi distribuirono un'altra
Canzone, stupite, in Italiano coi più cari spropositi del mondo, e tutti si misero di nuovo a cantare. Erano
Canzoni fatte per me. Finalmente Hilleri fece un Spruch in Francese in onore all'Italia e Germania
augurando che come ora sono unite artisticamente, restino sempre unite come Nazioni, etc... etc... Vi fu
un Hurrah spaventoso, ed in quel momento sincero... E sia così ora e sempre ché io lo desidero di gran
cuore come ben sapete. In quanto ai Concerti riuscirono magnificamente e la Messa fu ben accetta.
Esecuzione eccellente per parte delle masse corali, ed orchestrali. [.. .]
Una buona stretta di mano e addio di cuore.
Affezionato
G Verdi
' Ferdinand Hiller (1811-1885), musicista tedesco, allievo di Hummel. Nel 1850 fondò il Conservatorio di
Colonia di cui diresse per anni il Festival. Per le sue doti di esecutore, fu dedicatario del Concerto per
piano di Robert Schumann. Con Verdi intrattenne un lungo e cordiale carteggio.
È COSÌ BELLA COSA I L RI DERE
Fu un rapporto di vera amicizia, e quindi non privo di screzi e asperità, quello che Verdi intrattenne per
decenni con Francesco Maria Piave, autore di ben dieci libretti tra quelli delle sue opere più famose. Si
può gustare un po' della profonda complicità che caratterizzava il fertile sodalizio artistico tra i due nella
seguente lettera, infarcita di insulti scherzosi, che ci apre uno spiraglio sulla vita faticosa e mobile ma
non priva di godimenti del Maestro.
A FRANCESCO MARIA PIAVE, VENEZIA
Milano, domenica 9 marzo 1845
Domenica,
o Martedì, o Mercoledì, o Giovedì partirò per Venezia', io ti scriverò sempre un giorno prima onde tu
sappia positivamente il giorno in cui sarò a Padova. Anzi perché ti arrivi presto la lettera
' Verdi partirà per Padova prima e Venezia poi per seguire la messa in scena de I due Foscari al Teatro
San Benedetto di proprietà di Antonio Gallo (1815-1883).
farò ferma in posta e tu caro il mio gatto avrai la compiacenza verso le dodici di fare una corsa alla posta,
così ti calerà un po' quel ventraccio. Io mi fermerò a Padova e se tu non vi sarai sarai un Ludro' un porco
un gatto un coccodrillo un sorcio: fa' preparare una buona cena (perché talvolta a Padova non si trova) un
buon fuoco un buon letto, ed alla mattina alle 8 partiremo per Venezia onde far la prova alle dodici. Di
più per Giovedì mattina mi troverai due stanze (se fossero quelle del ponte delle Ostriche benissimo) e
farai da Gallo mettere il cembalo buono assai. Ha capito signor Ludro? Sperava da te un'altra lettera sulla
seconda recita del Lorenzinon ma Lei è un ludro. Intanto mi rallegro con te e col teatro di quest'esito. Ti
ringrazio del libro Fa' che vi sia il programma della nostra opera bene disteso"'.
Guarda che non abbia da bestemmiare perché divento col crescer degli anni sempre più furente. Una volta
o l'altra già t'ammazzo.
Addio
G Verdi
' Voce settentrionale dal significato di otre che si usa per intendere tanto «beone» quanto «gran
mangiatore» o «mascalzone». "L'opera Loremino de' Medici con musica di Giovanni Pacini e libretto
dello stesso Piave, andata in scena al Teatro La Fenice di Venezia nei giorni precedenti.
"' Il libretto dell'opera cui fa riferimento, ossia Attila, era stato affidato a Temistocle Solera. Il suo
operato però non soddisfece del tutto Verdi che si rivolse a Piave per una revisione. Questi operò diverse
modifiche sulla stesura originaria suscitando lo scontento di Solera.
Nella sua prima versione il Macbeth debutterà al Teatro della Pergola di Firenze il 14 marzo 1847, con
libretto di Piave, rivisto da Andrea Maffei (sarà allestito in una nuova versione a Parigi nel 1865).
L'opera, a cui Verdi teneva moltissimo, come si evince dal testo di questa e di altre lettere, mise i due
autori di fronte all'arduo compito di sintetizzare il complesso dramma shakespeariano, cui il libretto
riuscirà a essere fedele coniugando con maestria le agognate «brevità e sublimità» richieste dal Maestro.
A FRANCESCO MARIA PIAVE, VENEZIA
Milano, venerdì 4 settembre 1846
Eccoti lo schizzo del Macbet. Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane!... Se noi non
potremo fare una gran cosa cerchiamo di fare una cosa almeno fuori del comune. Lo schizzo è netto:
senza convenzione, senza [parola illeggibile] e breve. Ti raccomando i versi che essi pure sieno brevi:
quanto più saremo brevi tanto più troveremo effetto. Il solo atto primo è 'un po' lunghetto ma starà a noi
tenere i pezzi brevi: ne' versi ricordati bene che non vi deve essere parola inutile: tutto deve dire qualche
cosa: e bisogna adoperare un linguaggio sublime ad eccezione dei cori delle streghe: quelli devono esser
triviali, ma stravaganti ed originali — Quando avrai fatta tutta l'introduzione ti prego di mandarmela la
quale è composta di piccole quattro scene e può stare in pochi versi.
Una volta fatta questa introduzione io ti lascerò tutto il tempo che vorrai perché il carattere generale e le
tinte le conosco come se il libretto fosse fatto — Oh ti raccomando non trascurarmi questo Macbet, te ne
prego inginocchiato, se non altro, curalo per me e per la mia salute che ora è ottima ma che diventa subito
cattiva se mi fai inquietare... Brevità e sublimità...
Addio
G Verdi
P.S. Spero che avrai ricevuto li 100 fiorini. Dammi una riga di risposta...
Insofferente per le lungaggini di Piave nel comporre il libretto del Macbeth, Verdi si troverà a chiedere
la consulenza di Andrea Maffei che ne modificherà molte parti. In questa lettera emerge il malcontento
del Maestro in tutta la sua divertente intemperanza.
A FRANCESCO MARIA PIAVE, VENEZIA
Milano, lunedì 9 novembre 1846
Mio bel Mona te la prendi comoda con questo Macbet!!... Sappia addumque mio Signor Mona dei Mona
che io non posso più aspettare che a momenti ho finito il primo atto e che non voglio perder tempo per
Lui Signor Mona dei Mona Monissimo Mandami subito il secondo atto e studia subito per il terzo! Hai
capito? — In quanto alla prima donna non voglio crucciarmene né tagliarmelo via perciò. Sia anche il
diavolo non m'importa — Se non ne trovo una a modo mio faccio tagliar i coglioni a te Sior Mona e tu
farai da Lady Macbet! Che bella figura! E che effetto faresti? Con una vocina e colla tua grande attitudine
al canto! Per Dio che fortuna per te?!!... Va là: tagliali tagliali... fammi un piacere!... Ti dirò cosa devi fare
dei denari che t'ha dato Nani: ma devo avvertirti che io li prestai 800 franchi: Napoleoni d'argento, ed Egli
restituendomeli in oro c'è un agio che io non voglio. Quando Egli mi restituì i 20 Napoleoni d'oro allora si
guadagnava in Milano cinque soldi per Napoleone ed ora se ne guadagna dieci: quando egli t'avrà dati gli
altri cinque Napoleoni le renderai 15 lire di Milano, cioè due Napoleoni d'argento e 80 centesimi' Addio
Addio!
G Verdi
Ti domando ancora il favore che ti ho chiesto prima. Cosa si può far di meno per un amico?... Non mi
pare! Aspetto una tua decisa risposta perché desidero la tua fortuna!
Ho volontà di ridere e lasciami ridere! Alle tue spalle! Addio Addio — Cosa fa Ventura? E le Cametti?...
Mille cose!?
' Ricostruire con precisione questo computo è per noi complicato dal cambio tra oro e argento che negli anni Quaranta dell'Ottocento subì notevoli
oscillazioni. Ad ogni modo non lo era per Verdi, capace contabile delle proprie finanze.
È un Verdi allegro ed euforico, che finge appena un po' di disappunto, a rimbrottare con esuberanza
espressiva e tono irriverente l'amico Piave per l'eccesso di generosità di un inaspettato dono di ostriche,
inviategli da Venezia. L'entusiasmo del Maestro che rilancia, chiedendogliene altre cento per un
appuntamento galante, ci parla di un saper vivere (e vivere bene), attestato da tanta parte
dell'epistolario.
A FRANCESCO MARIA PIAVE, VENEZIA
Milano, sabato 26 dicembre 1846
Car Piave,
Mona Mona Mona! Son cose da fare cogli amici?... La vera amicizia non ha bisogno di complimenti ed io
era persuaso della tua anche senza mi mandassi le ostriche! Hai fatto male male male!... Nonostante ti
ringrazio. — Le abbiamo mangiate con Maffei ed erano buone quantumque non perfettamente fresche.
Ora sono corso in impegno di fare un regalo d'ostriche quindi me ne devi mandare altre cento, mandarmi
il costo che metterai in nota oppure ti manderò in Banconoten. Ti raccomando siano fresche e buone e
belle perché sono per una signora. Procura d'impostarle Mercoledì al più tardi.
Scusami ed Addio
G Verdi
Verdi giunge a Londra per la prima assoluta de I masnadieri (con libretto di Andrea Maffei tratto dalla
tragedia di Schiller) che ebbe luogo i122 luglio all'Her Majesty's Theatre sotto la direzione del Maestro
stesso. Lascerà la città il 25, dopo un mese e mezzo di entusiastico soggiorno nella capitale inglese. Il
compositore, pur stretto nel vortice della sua vita frenetica, sembra instancabile nei suoi viaggi e
mantiene uno sguardo acuto, interessato e mai banalmente esterofilo sui Paesi in cui soggiorna. Come si
evince anche dalla prossima lettera, un cosmopolitismo quasi innato che è un appetito dei sensi, una
curiosità della vista, una prensilità dell'intelligenza (verrebbe da dire anche un'armonia dell'epigastrio)
caratterizza quest'uomo il cui genio, non a caso, conquisterà tutto il mondo.
A CLARA MAFFEI, MILANO
Londra, mercoledì 9 giugno 1847
Carissima,
sono a Londra appena da due giorni. Ho fatto un giro viziosissimo, ma mi sono divertito. Quando sono
arrivato a Strasburgo la malleposte' era già partita e piuttosto che fermarmi 24 ore ho preso la strada del
Reno: così non mi sono stancato. Ho visto quei siti deliziossimi, mi sono fermato
'La malle poste era una carrozza comparsa in Francia a inizio Ottocento. Trainata da cavalli, aveva un uso prevalentemente, postale ma fingeva
occasionalmente anche per il trasporto passeggeri.
Massend, a Cotogne, a Brusseles, e due giorni a Parigi e finalmente eccomi a Londra. A Parigi sono stato
all'Opéra. Non ho mai sentito più cattivi cantanti, e più mediocri coristi. L'orchestra istessa (con permesso
di tutti i nostri Lion") è poco più che mediocre. Ciò che ho visto di Parigi mi piace assai e soprattutto mi
piace la vita libera che si può condurre in quel paese. Nel ritorno mi vi fermerò ed allora le dirò
francamente cosa me ne parrà — Di Londra non posso dirle niente perché jeri era Domenica e non ho
visto un'anima. Mi secca però molto questo fumo e questo odore di carbone: mi pare sempre d'essere in un
battello a vapore. A momenti andrò in teatro per sapere de' fatti miei. Emanuele [Muzio] (che aveva
mandato avanti) m'ha trovato un alloggio così omeopatico che non mi posso muovere: nonostante è assai
pulito come sono tutte le case di Londra. La Lind'" desta un fanatismo da non dirsi: a quest'ora si vendono
già le logge e i posti per domani sera. Non vedo l'ora di sentirla. Di salute sto benissimo. Il viaggio m'ha
affaticato ben poco perché l'ho fatto con tutto mio comodo. È vero che sono arrivato tardi,
' In realtà Magonza.
‘ Il riferimento è a Léon Escudier (1821-1881), critico e editore musicale che pubblicherà alcune edizioni francesi degli spartiti di Verdi. Il Maestro, che
intrattenne con lui una lunga corrispondenza, qui forse scherzosamente anglicizza il suo nome di battesimo.
"'Il soprano svedese Jenny Lind (1820-1887) era già a Londra da maggio per interpretare La sonnambula di Bellini e La figlia del reggimento di Donizetti.
Successivamente fu la prima Amalia de I masnadieri.
e l'impresario si potrebbe lagnare: ma se mai dirà una sola parola che non mi vadi a verso io gliene
risponderò dieci, poi ritorno subito a Parigi: succeda ciò che vuole...
Come sta Lei? Come sta Ninetta? Io spero che staranno bene, e di trovarle al mio ritorno bene ed
ingrassate. Dica mille cose a tutti... Le stringo mille volte la mano. Mi voglia bene e creda sempre
all'amicizia sincera del suo
Affezionato
G Verdi
P.S. Vi sono qui molti milanesi fra i quali Arioli che si muore dal ridere.
Il 27 luglio 1847 Verdi torna a Parigi per quello che sarà il suo primo lungo soggiorno nella città che
rappresentava il cuore della vita culturale europea e il primo palcoscenico del panorama musicale del
tempo. Nella capitale francese si era trasferita da un anno, dopo essersi ritirata dalle scene, il soprano
Giuseppina Strepponi, compagna e futura moglie del Maestro (che l'aveva scelta, fra l'altro, come
Abigaille per la prima del Nabucco dopo alcune precedenti collaborazioni). Anche per questo Verdi,
smentendo coi fatti quanto annunciato in questa e altre lettere dello stesso periodo, non fece «presto
presto» ritorno a Milano, ma si trattenne fino al marzo successivo a Parigi, dove aveva firmato un
contratto con l'Opéra.
A EMILIA MOROSINI, MILANO
Parigi, venerdì 30 luglio 1847
Cara,
Ella sarà senza dubbio in collera meco e chi sa con qual dispetto riceverà questa mia. Questa volta ha
ragione, né valgono a scusarmi le mie occupazioni, il clima di Londra, il mio mal essere, i cattivi umori
etc... etc... Ho torto ho torto, e s'Ella mi stende la mano io sono felice Ad onta che il clima di Londra fosse per me orrendo pure la città mi è piaciuta estremamente, non è una
città è un mondo: nulla è paragonabile alla sua grandezza, alle ricchezze, alla bellezza delle strade, alla
proprietà delle sue case, e si resta sbalorditi ed avviliti quando, fra le tante cose magnifiche, si esaminano
la Banca ed i Docks. Chi può resistere a quella nazione! I dintorni ed i paesi vicini a Londra sono
stupendi! Non mi piacciono molti degli usi Inglesi o per dir meglio non si convengo[no] a noi Italiani.
Quanto sono ridicole certe imitazioni inglesi in Italia!...
I Masnadieri, senza aver fatto furore hanno piaciuto, ed io sarei tornato a Londra l'anno venturo per
scrivere un'altra opera se l'Editore Lucca avesse accettato diecimila franchi per sciogliermi dal contratto
che ho seco. Così non potrò tornare che da qui a due anni. Me ne dispiace, ma io non posso mancare al
contratto con Lucca.
Sono qui da due giorni, e se continuo ad annojarmi così sarò presto presto a Milano. Le feste di Luglio' mi
sembrano una meschinissima cosal... S'Ella mi favorisce d'una sua lettera diriga a Paris poste restante Dica mille cose a tutta la sua famiglia agli amici e mi creda per sempre
Suo affezionatissimo amico
G. Verdi
'Verdi fa riferimento alle cosiddette Trois glorieuses, che dal 27 al 29 luglio celebrano la Rivoluzione di Luglio che nel 1830 vide salire al trono Luigi Filippo.
Francesco Maria Piave desiderava diventare direttore della messa in scena e poeta ufficiale alla Scala di
Milano. Si rivolse a Verdi per chiedergli consiglio, allegando alla lettera, proprio per buon auspicio, un
«amuleto» di cui purtroppo non conosciamo la natura. Porterà fortuna, almeno qualche anno dopo:
Piave otterrà infatti nel 1859 l'ambita posizione.
A FRANCESCO MARIA PIAVE, VENEZIA
Parigi, venerdì 10 febbraio 1854
Car Piave,
[.. .] M'hai fatto ridere davvero col tuo amuleto!!! Del resto questa lettera è stata un po' amuleto anche per
me perché nel riceverla, causa sempre dell'amuleto ho riso per mezz'ora. È così bella cosa il ridere quando
soprattutto s'annoja come io faccio! Son dieci o quindici o venti giorni che sento sulla testa come un
berretto di Doge, ma di ferro e così pesante che non posso né lavorare, né andare a spasso, né far niente. E
un bell'affare questo berretto!
Cosa sarà!... Il clima, la noja di non essere a SANT’ AGATA Per Dio e devo scrivere!! Come fare? Basta
basta, un bel mattino ne faccio una bella!!... grossa... Sì, ben grossa perché quando io faccio le coglionerie
sono sempre grandi. Prova ne sia questa scrittura di Parigi!!`
'Fa riferimento alla composizione de Les vépres siciliennes. I.:opera debuttò a Parigi nel giugno del 1855. La prima italiana avvenne nel dicembre dello stesso
anno al Teatro Regio di Parma con il titolo censurato di Giovanna de Guzman.
[.. .] Non ti parlo degli Italiani': non sono stato che due sere. Cantano così bene, così perfettamente, così
meravigliosamente... oh! da fare allungare i coglioni fino alle scarpe...
Addio ludro mio!... [...]
La Peppina ti saluta. Addio.
G Verdi
'Per Italiani Verdi intende il Thatre Italien di Parigi, in cui fra l'altro verranno messe in scena diverse sue opere.
Un momento lirico toccante, per quanto ironico. Lo struggimento de//Addio ai monti è qui
iperbolicamente evocato per esprimere il fastidio di qualche giorno di pioggia (la sproporzione con
l'afflizione della Lucia dei Promessi sposi è evidente) che impedisce al Maestro di raggiungere l'editore
nella sua villa di Como.
A TITO RICORDI, MILANO
Busseto-Sant'Agata,
sabato 22 ottobre 1864
Car Ricordi,
piove, piove, e piove!! Addio campagna, addio passeggiate, addio bel sole che non vedremo più che
pallido ed ammalato. Addio bel cielo azzurro, addio spazio infinito, addio desiderj e speranze di venire a
Como! Quattro pareti sostituiranno l'infinito, il fuoco invece del sole, i libri e la musica rimpiazzeranno
l'aria ed il cielo... la noja invece del piacere! Sia dumque; faremo della musica per... per far quello che
fanno tant'altri: annojarsi a morte colla maggior parte della così detta musica classica, colla differenza
però che io quando m'annojo dico m'annojo mentre altri fingono estasi per bellezze che non vi sono, o che
per lo meno eguali si trovano nella musica nostra. Tant'è; l'epoca attuale parla, si dimena, si affaccenda
molto, produce poco, e tende a fabbricarsi una musica nuova con della cipria e delle ossa da morto. Se
dentro però vi sarà un po' di Sole, evviva allora la musica nuova.
Dumque, per far quello che fanno gli altri fammi il piacere di mandarmi quell'opera che ora tu stampi
(non ricordo più il titolo') musica per Piano-Forte d'autori antichi e moderni. Ma intendiamoci bene. Io ho
fatto proponimento di non pagare mai un soldo per un pezzo di musica, né di avere a fare mai con
Corrispondenti Teatrali: se tu alla tua volta avessi fatto proponimento di non donare mai un pezzo di
musica avresti fatto benissimo, ed allora non mandarmi l'opera in proposito, e saremo amici più di prima.
Parto per Torino, ove mi fermerò per otto o dieci giorni. Scrivimi e spedisci colà. Addio Addio
Affezionato
G Verdi
'Si tratta del periodico Arte antica e moderna pubblicato da Ricordi.
Il giornalista Opprandino Arrivabene aveva conosciuto il Maestro negli anni Quaranta e con lui
intrattenne una decennale amicizia animata da lunghe lettere sui più disparati argomenti: la politica,
l'arte, la cucina, i loro amati cani ecc. L'ormai anziano Arrivabene aveva confessato a Verdi i suoi timori
per le proprie sempre più precarie condizioni di salute. Il compositore, nonostante il peso dell'età che
ormai gravava anche su di lui, risponde con un'esplosione di divertito e divertente vitalismo.
A OPPRANDINO ARRIVABENE, ROMA
Sant'Agata, giovedì 4 novembre 1886
Car Arrivabene,
cosa diavolo ti salta in mente... e cosa diavolo dici?!! — Scaccia tutte le melanconie e pensa a rimetterti.
Io capisco l'età; ma in fine tu sei sano, sei secco, senza umori, ...e poi adesso è di moda vivere fino ai 90,
ai 115 ai 130 anni, come leggevo jeri sera d'una donna a quest'età che lasciava due bambini suoi figli; uno
di 85 anni l'altro di 94!! Bando dunque alle melanconie; e rimettiti presto che io spero di abbracciarti nella
primavera ventura, quando, finiti i miei lavori, io verrò a Roma. Io sono un po' affaticato, ma non sto
male. Ho finito completamente Otello! Ora... à k griice de Dieu! Coraggio! Ti saluto a nome di Peppina e
ti stringo coll'antico affetto tutte due le mani.
Affezionato
G Verdi