3 Le strategie aziendali Romano Cappellari 3.1 Il concetto di strategia 3.1.1 Cos’è la strategia La sponsorizzazione della Ferrari da parte di Telecom, la riprogettazione del corso di laurea in Economia aziendale da parte della Facoltà di Economia di Padova, l’acquisizione di Pixar da parte di Disney, la decisione di dove far produrre le scarpe da parte di Geox, il lancio di un nuovo ripieno per i tortellini Rana, la determinazione del prezzo dell’iPhone per Apple, sono tutti esempi di scelte strategiche. Ma cos’è la strategia, quali sono i suoi elementi e quali sono i principi che guidano le strategie aziendali? Come ricorda ogni manuale di management, il termine strategia è stato per molto tempo utilizzato in campo militare, e solo dall’inizio degli anni ’60, in particolare con lo studio di Chandler (1962) su come la strategia dell’impresa influenza la struttura organizzativa, viene correntemente utilizzato nelle discipline manageriali. In quasi mezzo secolo di dibattito sulla strategia aziendale non si è comunque giunti a una definizione consolidata e condivisa di strategia. La classica definizione chandleriana vede la strategia come la determinazione dei fini organizzativi di lungo periodo, degli obiettivi, delle linee di condotta e dei criteri di allocazione delle risorse. A questa visione ampia della strategia se ne contrappone un’altra, ugualmente diffusa, che considera invece la strategia come l’individuazione dei mezzi o meglio del “sistema di impiego attuale e pianificato delle risorse e di interazione con l’ambiente” di cui l’impresa pensa di servirsi per cercare di raggiungere i propri obiettivi (Hofer, Schendel, 1978). Questa seconda visione presuppone in un certo senso l’esistenza di due momenti logicamente distinti: un momento di determinazione degli obiettivi, e un momento di individuazione del modo per raggiungerli. C’è poi chi distingue tra strategia e tattica. Finlay (2000), prendendo a prestito una definizione data dall’esercito inglese, spiega che mentre la strategia è quella not in the face of the enemy, la tattica è quella in the face of the enemy. I comandi militari si comportano e pensano in modo strategico quando decidono la composizione e l’armamento dell’esercito, ma quando ci si trova in mezzo alla battaglia con un gruppo di © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 68 Capitolo 3 uomini ci si deve comportare tatticamente. Con un’altra analogia, l’autore paragona così il rapporto tra strategia e tattica a quello tra clima e tempo atmosferico. Anche se si tratta di definizioni e distinzioni che possono essere d’aiuto nella gestione del processo di formulazione della strategia, in questo capitolo si farà riferimento al termine strategia nella sua accezione più ampia, per non ingenerare l’equivoco di far ritenere che debba necessariamente esserci una sequenzialità tra individuazione degli obiettivi e scelta di come raggiungerli o tra livello strategico e livello tattico. Al di là del fatto che nei processi decisionali non è mai possibile separare completamente i mezzi dai fini (Simon, 1947), è importante considerare la strategia un processo continuo di scoperta e di sperimentazione. Alcuni contributi sul tema hanno così posto l’accento sull’importanza di improvvisare, e di definire a volte gli stessi obiettivi del business dopo aver cominciato a operare (Moss Kanter, 2001; Eisenhardt, Sull, 2001). Questo è ancora più importante in iPod vs CD: quale strategia nell’industria della musica? Quando alla fine del ventesimo secolo il processo di digitalizzazione della musica si incrociò con la diffusione di internet fu chiaro a tutti che l’industria discografica non sarebbe più stata la stessa. Ma quale sarebbe stata la strategia vincente nel nuovo scenario? In un primo tempo per le aziende del settore la risposta da dare sembrò quella delle cause legali per impedire la diffusione illegale di file musicali su internet e per difendere un modello di business basato sulla vendita di cd. Qualcuno si avventurò nella vendita di brani musicali on line, ma non era chiaro se il consumatore fosse pronto a pagare per scaricare musica dalla rete, né quanto sarebbe stato disposto a pagare e gli esperimenti diedero risultati insoddisfacenti. All’inizio del nuovo millennio i manager del settore erano così, per usare le parole del Presidente e CEO di EMI Music, “terrorizzati e ignari di cosa avrebbe riservato loro il futuro”. Lo scenario cambiò completamente con l’avvento nel 2003 dell’iPod, o meglio del sistema proposto da Apple e costituito dal famoso lettore, dal programma iTunes e dal negozio virtuale iTunes Music Store, con il quale le vendite on line di musica cominciarono finalmente a decollare. I brani venduti dal sito arrivarono così a superare il miliardo all’inizio del 2006 dopo soli tre anni dal lancio del servizio. In questo scenario dell’industria musicale, però, i profitti del nuovo attore principale non sembrano più tanto legati alla distribuzione della musica, quanto alle vendite dell’hardware necessario per ascoltarla: con una crescita tumultuosa, infatti, le vendite di iPod arrivano nel trimestre natalizio 2006 a superare i 21 milioni di pezzi. Si capisce quindi come mai abbia preso forza il dibattito sulla possibilità per gli acquirenti di musica su iTunes di ascoltare i pezzi anche su riproduttori di case diverse da Apple. Per l’industria discografica un mondo senza dischi non rappresenta solo una minaccia, ma contiene anche un insieme di opportunità. Il download di musica ha infatti rivitalizzato il mercato dei singoli, praticamente scomparso dalla fine degli anni ’70, generando vendite aggiuntive rispetto a quelle degli acquirenti di interi album. La possibilità offerta dai negozi on line di ascoltare trenta secondi di un brano inoltre aumenta la probabilità che un cliente compri il pezzo. Sono nate infine nuove nicchie come i download di musica attraverso i cellulari e la vendita di suonerie, una realtà che muove nel solo mercato europeo un volume d’affari vicino ai due miliardi di dollari. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 69 quei contesti, come per esempio il settore della musica descritto più avanti, in cui da un lato è difficile prevedere l’evoluzione ambientale, e dall’altro la rapidità è una fonte di vantaggi importanti sui concorrenti o addirittura la prima azienda che si afferma sul mercato può essere in grado di definire le regole del gioco e di sfruttare i cosiddetti “vantaggi della prima mossa” o di “bloccare” il cliente nella relazione (Shapiro, Varian, 1999). Naturalmente affermare l’importanza di sperimentare e di essere flessibili non vuol dire sminuire il ruolo dell’analisi strategica e della definizione di una strategia ex ante, ma solo ricordare che questi non esauriscono il problema della strategia (Porter, 2001). Questa relativa impossibilità di distinguere fini e mezzi, strategia e tattica, rende quindi opportuno adottare una concezione allargata di strategia, come “il modello di ricerca del successo imprenditoriale che l’impresa di fatto ha adottato o che intende adottare” (Coda, 1988), o come “la teoria di un’impresa su come poter competere con successo” (Barney, 2002) o ancora, con una definizione più analitica “quel sistema di scelte e di azioni che determina dinamicamente il posizionamento di equilibrio strutturale e simultaneo dell’azienda a fronte dei suoi diversi interlocutori e mercati” (Invernizzi, 2004, p. 22). Il successo consiste nella capacità di primeggiare nel confronto competitivo, dal momento che l’essenza della strategia consiste nell’essere diversi e migliori rispetto ai concorrenti (Porter, 1996; Volpato, 2000) e che in assenza di interdipendenza con concorrenti dotati di obiettivi confliggenti e di scarsità di risorse la strategia perde di significato (Grant, 2005). 3.1.2 I processi di formulazione della strategia La definizione di strategia come modello di ricerca del successo che l’impresa ha adottato o intende adottare mette in evidenza come la strategia sia in parte un prodotto storico, il risultato dell’azione dell’impresa, e non solo un insieme di decisioni prese a tavolino. Occorre quindi tenere presente la distinzione tra la strategia realizzata, osservabile solo a posteriori, e la strategia intenzionale, cioè scelta consapevolmente e in modo tendenzialmente razionale dall’impresa (Mintzberg, Waters, 1985). Le differenze tra le due dimensioni della strategia possono dipendere da due ordini di problemi. In primo luogo l’impresa può non essere in grado di realizzare la strategia deliberata; è stato anzi sottolineato come il vantaggio competitivo nasca non tanto dal sapere cosa fare, quanto dal riuscire a farlo (Pfeffer, Sutton, 1999). Una volta che un’azienda ha scelto una direzione di marcia, inoltre, possono verificarsi degli eventi che inducono il management ad abbandonare in parte la direzione presa e, allo stesso modo, possono emergere dei fattori che inducono l’impresa a prendere nuove direzioni. Nessuno sarebbe stato in grado di prevedere con esattezza dieci anni fa quale sarebbe stata l’evoluzione dell’industria musicale e le strategie formulate all’inizio del ventunesimo secolo non avrebbero potuto rimanere immutate di fronte all’avvento dell’iPod. È evidente che il successo di un’impresa non dipende dalla sua capacità di perseguire pervicacemente le strategie che sono state decise, ma dalla sua abilità nel creare valore imparando dagli errori e cogliendo con flessibilità le opportunità che si presentano. È quindi più importante avere una buona strategia realizzata ex post, piuttosto che un’ottima strategia decisa ex ante. Questo non significa sminuire il processo di for© 2007, The McGraw-Hill Companies srl 70 Capitolo 3 mulazione della strategia, anzi. Esplicitando le scelte strategiche si individuano anche i presupposti sulla base dei quali si è scelto di procedere, e questo consente di identificare con maggiore prontezza quando questi presupposti si rivelano errati. Anche la strategia intenzionale non necessariamente si presenta come monolitica. La strategia che un’azienda intende realizzare può essere infatti più o meno esplicita, e i contenuti esplicitati possono essere variamente articolati; ci può essere così una strategia dichiarata nell’assemblea annuale e riportata nelle relazioni di bilancio, una strategia esplicitata agli analisti, i middle manager aziendali e al consiglio di amministrazione, una strategia deliberata e condivisa dal top management e una strategia che rimane nei pensieri dell’amministratore delegato o dell’imprenditore (Hax, Majluf, 1996, pp. 15-16). Il grado di esplicitazione e l’analiticità della strategia si muovono all’interno di un trade-off. Da un lato infatti la strategia deve essere “un insieme di obiettivi specifici capace di orientare le decisioni” (Volpato, 2000), e quindi formalizzata e comunicata a chi all’interno dell’organizzazione deve prendere le decisioni. Dall’altro però, un’eccessiva codificazione e analiticità della strategia rischia di bloccare la creatività e l’innovazione e di impedire all’azienda di muoversi rapidamente in un ambiente complesso. Oltre all’ampliarsi degli spazi d’azione “al di fuori” della strategia esplicitata, anche le caratteristiche e il ruolo della strategia sono differenti quando si opera in un ambiente turbolento. È stata ipotizzata l’esistenza di una relazione inversa tra grado di complessità dell’ambiente e grado di analiticità della strategia per cui quando il business diventa complicato, la strategia dovrebbe essere semplice (Eisenhardt, Sull, 2001). Per approfittare delle opportunità che emergono improvvisamente nel caos è così opportuno avere come strategia un numero limitato di regole semplici conosciute e condivise dai membri dell’organizzazione che devono guidare ogni decisione, un canovaccio sul quale ci sia spazio per l’improvvisazione. A cosa serve la strategia? La strategia svolge un insieme di funzioni tanto verso l’interno delle organizzazioni quanto verso l’ambiente di riferimento: • induce a orientare le risorse aziendali e gli sforzi da compiere sulle azioni rilevanti per il conseguimento degli obiettivi condivisi; • favorisce una comunicazione sistematica fra i componenti dell’organizzazione; • contribuisce al coordinamento nell’impresa; • eleva il grado di coerenza interna delle diverse azioni dell’impresa; • definisce meglio l’impresa e la sua immagine; • rende più facile l’identificazione della direzione di marcia dell’impresa da parte di tutti gli stakeholders; • facilita l’ottenimento del consenso da parte degli stakeholders su di uno specifico progetto di sviluppo dell’impresa; • riduce la complessità. (Fonte: adattato da Rispoli, 2002, pp. 35-36). © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 71 3.1.3 La formula imprenditoriale La strategia può dunque essere vista come un modello di ricerca del successo. Tale modello definito da Normann (1977) “sistema per la dominanza”, può essere analizzato come un sistema internamente coerente formato da almeno tre dimensioni: il territorio in cui l’azienda sceglie di operare, il complesso di prodotti e servizi che offre o più in generale gli obiettivi che persegue e l’insieme delle risorse e competenze che vengono organizzate per raggiungere il successo. Un modello che descrive con efficacia il carattere sistemico della strategia d’impresa è quello della formula imprenditoriale, proposto da Coda (1988), che ha ripreso e sviluppato l’impostazione di Normann. Secondo questo Autore, la strategia di un’impresa può essere descritta attraverso l’analisi delle relazioni dinamiche tra cinque variabili: il sistema competitivo, il sistema prodotto, il sistema degli interlocutori sociali, l’insieme delle prospettive offerte e dei contributi richiesti agli stessi e la struttura dell’impresa. L’impresa opera cioè all’interno di uno o più sistemi competitivi, popolati da clienti, fornitori e concorrenti, all’interno dei quali deve definire un proprio ruolo attraverso l’offerta di un “sistema prodotto” che deve avere un vantaggio su quelli offerti dai concorrenti. Si noti che il concetto di sistema prodotto va ben al di là delle caratteristiche fisiche del prodotto, e si compone di un insieme di elementi materiali e immateriali che caratterizzano l’offerta dell’azienda; è inoltre un concetto applicabile anche alle aziende di servizi dal momento che, come illustra l’esempio del confronto tra Ferrari e McDonald’s, sia imprese industriali che imprese di servizi offrono in realtà un mix di prodotti e servizi all’interno del quale è a volte difficile identificare l’elemento prevalente. La formula imprenditoriale non è però fatta solo di strategia competitiva, ma anche di una strategia sociale che deve essere coerente con questa. L’azienda si muove infatti in un sistema di interlocutori sociali composto dai lavoratori che operano al suo interno, ma anche di finanziatori, di organizzazioni di rappresentanza, di amministrazioni pubbliche, di movimenti d’opinione e partiti politici. Nei confronti di tali interlocutori l’azienda deve presentarsi con una proposta progettuale che esponga per le Sistema prodotto: Ferrari e McDonald’s Il sistema prodotto per un’azienda come Ferrari è costituito in primo luogo dalle caratteristiche tecniche ed estetiche delle auto; chi paga alcune centinaia di migliaia di euro per una Ferrari però lo fa anche per l’immagine che si acquisisce guidando una Ferrari e per il piacere che gli deriva dal possedere un’auto che gareggia e vince in Formula 1 e dal sentirsi un po’ Schumacher. Può darsi che le Lexus arrivino un giorno a essere comparabili a una Ferrari dal punto di vista tecnico, ma faranno fatica a offrire al cliente qualcosa di paragonabile al “mito Ferrari”. Alo stesso modo quando un bambino “porta” la sua famiglia da McDonald’s non vuole comprare solo un panino, ma una “quick-service restaurant experience” fatta di un ambiente familiare e colorato, personale sorridente e regali negli Happy Meal. Il fatto che la competizione si giochi a livello di sistema prodotto e non di prodotto/panino si riflette nel fatto che anche chi trova più saporiti i prodotti di Burger King potrà preferire andare a mangiare da McDonald’s. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 72 Capitolo 3 Microsoft e Google alla guerra per i talenti In un settore come quello nel quale operano Microsoft e Google per eccellere è necessario essere in grado di attrarre e trattenere i maggiori talenti nella progettazione di software, strappandoli agli altri leader del settore. Entrambe le aziende enfatizzano ricchi pacchetti di benefit che vanno dall’assistenza sanitaria alla lavanderia aziendale, retribuzioni elevate e la possibilità di beneficiare della ricchezza prodotta attraverso una retribuzione legata ai risultati o partecipazioni azionarie. Sfruttando un periodo favorevole anche per il suo titolo azionario, Google è stata così nominata nel 2007 l’azienda migliore nella quale lavorare nella annuale classifica pubblicata dalla rivista americana Fortune. Entrambe le aziende sanno però che i talenti sono attratti soprattutto delle sfide professionali e così Microsoft promette ai lavoratori la possibilità di influenzare con il proprio lavoro la realtà di domani, mentre la rivale spiega che lavorare da Google significa soprattutto occuparsi dei problemi più difficili nella computer science e sviluppare prodotti innovativi che migliorano decine di milioni di vite giorno dopo giorno. Microsoft è inoltre famosa per il suo campus, “che assomiglia più a un parco che alla sede di una grande azienda”, mentre Google enfatizza il fatto che in azienda non si troveranno “tecnici annoiati”, ma colleghi divertenti e divertiti e spiega che “lavoro e gioco in azienda non si escludono a vicenda”. diverse categorie di portatori d’interesse i contributi e le risorse che richiede e le prospettive di ricompensa che offre. L’aspetto più evidente, e nello stesso tempo più critico, delle strategie sociali è quello della relazione con le risorse umane che collaborano nell’azienda, una relazione che difficilmente può essere ridotta a uno scambio tra la sola retribuzione e una prestazione esplicita. Le aziende di successo sono infatti il più delle volte quelle che riescono a costruire con le risorse umane un rapporto di fiducia non basato sul mero aspetto monetario (Pfeffer, O’Reilly, 2000). Il Corporate Citizenship Report Ford Ford esplicita la strategia sociale in un documento, il Corporate Citizenship Report, nel quale da un lato si ribadisce l’impegno dell’azienda nel creare valore per gli azionisti, ma nello stesso tempo si presentano i risultati conseguiti in due altre aree di intervento in cui l’azienda ha deciso di impegnarsi: • la protezione dei diritti umani e della dignità della persona sia all’interno dei propri stabilimenti, sia verificando i comportamenti delle aziende che entrano in contatto con Ford, e • la riduzione dell’inquinamento per contribuire a contenere i cambiamenti climatici generati dall’attività produttiva e dalla circolazione di veicoli. Su questo punto l’azienda ha compiuto un significativo cambiamento alla fine degli anni ’90. Dopo aver affrontato con uno scetticismo (che ricorda quello delle aziende produttrici di sigarette sui danni del fumo) le denunce sugli effetti dell’industria automobilistica sul clima, ha preso atto del fatto che questa posizione non era in grado di mantenere la legittimazione e il consenso degli interlocutori sociali e ha spostato la questione ambientale al centro delle proprie priorità strategiche. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 73 Sempre più spesso poi l’offerta progettuale dell’azienda coinvolge anche gli stakeholder esterni, su tematiche come il rispetto dell’ambiente, i diritti umani e così via. Tra le grandi aziende si va diffondendo la pratica di presentare degli appositi rendiconti per evidenziare i risultati raggiunti in questi campi. Un esempio è rappresentato dai cosiddetti bilanci ambientali ma, come viene approfondito in un altro capitolo di questo manuale, la rendicontazione relativa alla responsabilità sociale dell’impresa non si limita ai temi ambientali. Tra strategia competitiva e strategia sociale, l’anello di congiunzione è rappresentato dalla struttura dell’azienda, e cioè dall’insieme di risorse e di competenze che l’azienda deve possedere per perseguire tali strategie. Va ricordato che, come ricorda l’esempio del caso Forall, la formula imprenditoriale di successo non è solo una somma di elementi separati, ma un insieme coerente in continua evoluzione. Forall-Pal Zileri: una formula imprenditoriale coerente Nel corso degli anni ’70 il sistema competitivo dell’abbigliamento maschile è composto da grandi sartorie, che si rivolgono alla fascia più alta del mercato e che mantengono un modello produttivo sostanzialmente artigianale, e da aziende di tipo industriale. Tra queste il segmento più consistente è rappresentato da aziende produttrici di abbigliamento con un’immagine classica. In questo contesto i soci che fondano nel 1970 Forall decidono di proporsi come una “industria sartoriale”, producendo con l’efficienza della divisione del lavoro industriale capi che mantengano però lavorazioni che li rendano simili alla produzione artigianale di qualità. Nello stesso tempo i capi devono differenziarsi da quelli della concorrenza per un contenuto di creatività e di immagine che porterà l’impresa a lanciare qualche anno dopo il marchio Pal Zileri. Proporsi sul mercato con prodotti di qualità sartoriale vuol dire però avere lavoratori esperti, soprattutto nelle lavorazioni più difficili come l’attaccatura delle maniche. Dato che i tempi di addestramento delle risorse umane sono particolarmente lunghi, è critico per il successo dell’azienda contenere il turnover dei dipendenti in modo che i suoi lavoratori possano maturare la professionalità necessaria per creare capi di alta qualità. Vista la carenza di professionalità adeguate sul mercato, e considerato che una delle cause del turnover del personale femminile è la necessità di accudire i figli, Forall decide di offrire ai propri dipendenti una serie di benefit che li portino a rimanere a lavorare in azienda e a mettere nel lavoro l’entusiasmo che deriva dall’orgoglio di appartenere a un’azienda speciale. Vengono così costruiti degli appartamenti da mettere a disposizione dei dipendenti, vengono aperti un asilo nido aziendale e una scuola materna che, a differenza di quelle comunali, rimane aperta anche nel mese di luglio e la mensa, più volte rinnovata nel corso degli anni, mantiene un livello qualitativo sconosciuto alla maggior parte delle mense aziendali, quasi a simboleggiare l’attenzione che l’azienda dedica ai dipendenti. Nella gestione del personale, poi, vengono premiate la fedeltà e la costanza di impegno. Un altro elemento decisivo nello spiegare il successo dell’azienda è rappresentato dal mix di competenze possedute dai dieci soci fondatori, che avevano già lavorato nel settore tessile e abbigliamento maturando esperienze diversificate che consentivano all’azienda di disporre fin dall’inizio delle conoscenze necessarie per presidiare le principali aree decisionali (Fonte: Camuffo, Cappellari, 1997). © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 74 Capitolo 3 3.1.4 Chi è responsabile della strategia? Anche se nella stagione della cosiddetta “bolla di internet” alla fine del ventesimo secolo qualcuno ha creduto di veder nascere una “New Economy” in cui i principi economici tradizionali e lo stesso strategic management sarebbero diventati obsoleti, l’aumento della complessità che ha caratterizzato gli ultimi lustri non ha cambiato il concetto di strategia e i suoi contenuti fondamentali (Shapiro, Varian, 1999; Porter, 2001), ma anzi ne ha reso critica la funzione di approccio per ridurre la complessità (Rispoli, 2002). La rapidità di circolazione delle informazioni e la possibilità di rendere accessibile ovunque la conoscenza organizzativa, rese possibili dalle tecnologie informatiche, sommate alla necessità di agire rapidamente per rispondere al cliente, hanno però cambiato i processi di formulazione della strategia. In particolare le decisioni strategiche sono sempre meno concentrate negli uffici del top management e sempre più diffuse nell’organizzazione, e non solo secondo il tradizionale ruolo della gerarchia di successiva articolazione e specificazione delle decisioni strategiche provenienti dal vertice. Tenendo presente questa premessa è comunque possibile individuare tre livelli di decisioni strategiche. Come si vedrà meglio in un altro capitolo, nelle grandi aziende questi livelli corrispondono a diversi livelli della gerarchia aziendale e a diversi ruoli manageriali nel processo di formulazione e articolazione della strategia. Si parla così di strategia corporate, strategia di business e strategia funzionale. Per strategia corporate o strategia aziendale si intende la strategia che riguarda l’azienda nel suo complesso e che compete di solito al top management aziendale. Le principali decisioni che riguardano questo livello sono le strategie di portafoglio, le strategie economicofinanziarie e le strategie organizzative. Le prime riguardano la scelta dei settori in cui l’azienda decide di operare e l’allocazione delle risorse tra questi e verranno trattate più approfonditamente nel Paragrafo 4.2. Le strategie economico-finanziarie riguardano invece gli orientamenti generali relativi all’andamento desiderato dei principali equilibri economici e finanziari dell’azienda. Un tipico esempio di scelta strategica di carattere economico finanziario è il ruolo del profitto nel breve e medio termine; aziende come Amazon.com hanno assunto come esplicito riferimento per le scelte strategiche nei primi anni di vita un orientamento alla crescita del numero dei clienti e del fatturato, chiarendo che il problema della redditività si poneva solo con riferimento al lungo termine. Questo tipo di strategia è tipico di situazioni in cui l’azienda ritiene che il primo a occupare il mercato riesca in seguito a sfruttare questa posizione (Shapiro, Varian, 1999). Aziende che operano in settori più consolidati come Marzotto assegnano invece un ruolo di guida nelle decisioni alla redditività del capitale investito e al ritorno per gli azionisti anche nel breve termine. Un altro elemento delle strategie finanziarie a livello corporate è rappresentato dalle decisioni sulla struttura finanziaria dell’azienda, su quanto indebitarsi e su dove reperire i fondi necessari per l’operare dell’azienda. Scegliere i settori in cui operare e l’assetto economico e finanziario raramente possono da soli consentire all’azienda di generare ricchezza. Il cuore del problema strategico è come si è detto quello di riuscire a battere i concorrenti nei mercati in cui l’impresa ha scelto di operare. Il conseguimento di un vantaggio competitivo è l’oggetto della strategia di business o di area di affari o strategia competitiva che verrà affrontata più in dettaglio nel terzo paragrafo. Nelle aziende che operano in più settori, vengono spesso indivi© 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 75 Livelli di strategia al Gruppo Fininvest In un’azienda diversificata come il gruppo Fininvest la decisione di operare in un insieme di settori diversi che vanno dall’editoria (Mondadori) alla televisione (Mediaset), al cinema (Medusa) dalla finanza (Mediolanum) al calcio professionistico (Milan), le linee guida generali da seguire, gli obiettivi economici finanziari e gli assetti organizzativi e istituzionali spetteranno al top management del gruppo. A questo livello viene deciso per esempio di quotare una o più parti del gruppo e se dare vita a nuove attività o rifocalizzare il campo di azione. Come affrontare i concorrenti nel settore calcistico o nelle televisioni è invece una responsabilità dei manager che sono stati incaricati di gestire queste attività, mentre i responsabili di marketing dei diversi settori avranno la responsabilità di decidere come promuovere efficacemente l’immagine dell’azienda o fissare i prezzi nelle aree strategiche di competenza. duati dei manager ai quali viene affidata la responsabilità di gestire un settore e ai quali viene quindi delegata la strategia competitiva. Una strategia competitiva richiederà poi che ciascuna funzione come la produzione, il marketing, la gestione delle risorse umane, la ricerca e sviluppo e così via, all’interno dei diversi settori diano il loro contributo per il perseguimento della strategia aziendale. Questo livello di strategia è detto funzionale o operativo ed è prevalentemente di competenza dei responsabili di funzione. Come chiarito si tratta di una distinzione che non può essere presa in senso rigido, dal momento che alcune scelte a livello di business possono trainare profondi cambiamenti nelle strategie di portafoglio e che alcune scelte di natura funzionale hanno conseguenze sulla competitività dell’azienda anche nel lungo periodo. Si pensi a questo proposito al caso delle scelte distributive o alle strategie di comunicazione e agli impatti che queste possono avere su una delle principali risorse competitive dell’azienda, il marchio. Una visione strettamente gerarchica della strategia sottovaluta cioè l’impatto dell’ambiente sulla formulazione e implementazione della strategia e si focalizza sugli aspetti formalizzati del processo di formulazione della strategia (Barney, 2002). 3.2 Cultura, valori e orientamento strategico di fondo 3.2.1 La cultura organizzativa Il modello di ricerca del successo di un’impresa non si sviluppa in un ambiente asettico, ma interagisce, venendo influenzato, e influenzando esso stesso, la cultura dell’organizzazione. Il termine “cultura” aziendale è oggi molto in voga e sono sempre più numerosi i testi di management che evidenziano l’importanza della cultura come variabile di cui si deve tenere conto nella gestione dell’impresa. Per cultura si intende qui l’insieme dei principi di fondo, dei valori e dei modi di pensare che un gruppo di persone ha sviluppato mentre imparava ad affrontare problemi di adattamento all’ambiente esterno e di integrazione interna. Se questi hanno contribuito a risolvere i problemi, vengono insegnati ai nuovi membri dell’organizzazione come il giusto modo di percepire e pensare in relazione a tali problemi (Schein, 1985). © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 76 Capitolo 3 La cultura aziendale è quindi qualcosa di astratto (“valori e modi di pensare”), ma le sue conseguenze sono estremamente concrete, dal momento che questi modi di pensare condizionano i comportamenti adottati dai membri di un gruppo. Anche se c’è molta manualistica che tende a banalizzare il problema suggerendo le ricette per “costruire” una cultura di successo, non è però semplice fare della “ingegneria culturale”, progettare una nuova cultura o cambiare la cultura dell’azienda, proprio perché questa nasce nel corso del tempo affrontando i problemi che si presentano e sperimentando i comportamenti. Un esempio delle difficoltà che si incontrano quando si cerca di cambiare una cultura aziendale può essere trovato nel settore del trasporto aereo: le aziende leader europee del segmento low cost sono Ryanair e EasyJet, due compagnie nate come aziende attente ai costi, mentre nessuna delle compagnie aeree preesistenti è riuscita a cambiare il proprio modo di lavorare per rispondere con efficacia alla sfida dei bassi costi, nonostante i ripetuti tentativi di lanciare dei nuovi servizi con queste caratteristiche. Se i valori e le idee che compongono la cultura non sono visibili, la cultura di un’azienda può essere analizzata osservando le sue manifestazioni simboliche, oggetti fisici, racconti, riti aziendali, modi di dire tipici di un’organizzazione che rivelano i suoi valori di fondo. Il fatto che dalle aziende della Silicon Valley si sia diffusa la tendenza a utilizzare sul lavoro un abbigliamento più informale rivela non solo un cambiamento nella moda, ma anche una minore attenzione ai formalismi nel rispetto delle procedure e un ruolo meno marcato per la gerarchia. Il contrario rivelano invece quelle aziende che hanno mense separate per i dirigenti o che assegnano il posto auto nel parcheggio aziendale in funzione del livello gerarchico. Si è detto che la cultura si forma nel tempo affrontando i problemi. Questo potrebbe far pensare a un carattere esogeno della cultura rispetto alle scelte del management. Anche se esiste un vivace dibattito su quali siano i limiti e le possibilità della “ingegneria culturale” non significa che il management non possa avere un ruolo nella gestione della cultura. Manager e imprenditori hanno un ruolo fondamentale nell’indirizzare e mantenere la cultura dell’azienda; si pensi a come la modalità di gestire i rapporti di lavoro in Diesel sia legata agli atteggiamenti del suo fondatore Renzo Rosso, o come il fatto che Jeff Bezos utilizzasse come scrivania una porta appoggiata su due assi fosse importante per comunicare l’attenzione ai costi che doveva guidare le scelte dell’azienda. Anche quando si presenta la necessità di un cambiamento culturale, il ruolo del leader è fondamentale, come pure importante è che ci sia coerenza tra i segnali di cambiamento che vengono trasmessi nell’organizzazione (e quindi in un certo senso una capacità “tecnica” di gestire la cultura), ma i tempi del cambiamento non possono che essere lunghi. Sotto questo punto di vista è importante per chi lavora in un’azienda comprenderne la cultura perché, almeno nel medio termine, questa vincola in un certo senso le scelte strategiche. 3.2.2 L’orientamento strategico di fondo Strettamente legato alla cultura è l’orientamento strategico di fondo (osf), che rappresenta uno degli elementi centrali della strategia. L’osf è definito come la “identità profonda” dell’impresa, “la parte nascosta e invisibile del suo disegno strategico” (Coda, 1988). Anche se spesso non viene esplicitato, l’osf rappresenta il filo condut© 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 77 tore delle scelte strategiche e la visione di fondo del modo di fare impresa. In letteratura esistono diverse discordanze nella terminologia su questo punto; l’osf viene comunque per lo più indicato in azienda con il termine mission o vision. Alcune aziende, così come alcuni autori (si veda per esempio Grant, 2005), attribuiscono significati diversi ai due termini; in questo capitolo invece verranno impiegati in modo intercambiabile come sinonimi. L’osf è un progetto ambizioso e di lungo periodo che comprende delle linee guida sul modo di fare business dell’impresa, ma nello stesso tempo anche un riferimento al suo ruolo sociale e ai valori etici che guidano la sua azione (Collins, Montgomery, 1997). In altri termini la mission può essere definita come il punto di vista del top management su cosa l’organizzazione vuole fare e diventare nel lungo termine (Barney, 2002). I punti essenziali in cui si articola l’osf (Coda, 1988, pp. 26-28) sono quindi: • la scelta del campo di attività cui l’impresa si ritiene vocata (dove competere); • i fini e gli obiettivi di fondo che ne guidano l’azione in termini di ruolo nei confronti delle diverse categorie di interlocutori (perché); • la filosofia gestionale, il modo di funzionare, le basi su cui si intende fondare il confronto con i competitors (come competere). La principale differenza rispetto alle scelte strategiche in senso stretto, è rappresentata dal fatto che si tratta di progetto di lungo termine dell’azienda, sfidante e non necessariamente definito nei dettagli (Prahalad, Hamel, 1989), mentre la strategia è spesso più articolata e fornisce indicazioni più immediate sui comportamenti da mettere in atto. Il ruolo della vision, e in particolare delle modalità sintetiche attraverso le quali questa viene comunicata all’interno dell’organizzazione, hanno vissuto negli ultimi anni un periodo di grande popolarità negli studi manageriali. Se, come si è accennato, in un contesto di grande incertezza come quello attuale non è possibile predeterminare rigidamente i comportamenti che le risorse umane dell’azienda dovranno seguire, queste devono essere lasciate libere di decidere di volta in volta in funzione dello stato delle variabili contingenti che l’azienda fronteggia. Perché questo avvenga mantenendo una coerenza tra le azioni di chi opera in azienda è necessario che ognuno abbia interiorizzato chiaramente i principi di fondo e la direzione di marcia dell’azienda. Non solo: dal momento che quel che si richiede è che i membri dell’organizzazione si attivino in modo intelligente per raggiungere i fini dell’azienda, c’è sì bisogno di diffondere nell’organizzazione le conoscenze strategiche, ma occorre anche mobilitare le energie e l’entusiasmo perché la strategia non serve a niente senza la passione delle persone che devono implementarla (Stopford, 2001); definire con attenzione gli obiettivi quantitativi assegnati è allora solo un punto di partenza, ma il vero problema chiave è quello di ottenere un coinvolgimento emotivo per rendere efficace la strategia. È stato osservato infatti che dietro alla maggior parte delle aziende di successo c’è uno scopo che va al di là del desiderio di generare ricchezza per gli azionisti e che quindi la famosa massima di Milton Friedman (“l’unica e sola responsabilità sociale dell’impresa (è) aumentare i suoi profitti”) contiene un paradosso visto che raramente il solo fine del profitto fornisce motivazioni sufficienti per portare l’azienda al successo (Grant, 2005). C’è così chi si è spinto a definire il ruolo manageriale come quello di un “creatore di sogni” (Stopford, 2001), visto che la vision ha acquisito ormai in © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 78 Capitolo 3 molte aziende il significato di qualcosa che viene ripetuto in modo rituale, magari affisso alle pareti, ma che nessuno prende veramente sul serio, mentre i sogni sono la forza che mobilita le energie. La sfida che si pone ai leader d’azienda è allora quella di convincere i propri collaboratori a lavorare insieme in modo imprenditoriale per realizzare un sogno comune, e le aziende di successo sono accomunate dalla tensione verso “la stella polare di un’aspirazione (…) nobile” (Hamel, 2000). La famosa frase con cui Bill Gates (ma c’è chi la attribuisce a Steve Jobs della Apple) indicava la direzione di marcia alla sua azienda, “un computer in ogni casa”, rappresenta uno dei più citati esempi di vision efficace perché contiene in sé due elementi fondamentali: una visione di trasformazione del mondo che implica un senso di missione (lavorare per il progresso tecnologico, per trasformare il mondo), ma nello stesso tempo fornisce una cornice chiara su quale direzione devono seguire le persone che lavorano in azienda: se il computer deve entrare in ogni casa, questo significa che chiunque deve essere in grado di utilizzarlo e che quindi le complicate macchine gestite da tecnici in camice bianco devono trasformarsi in qualcosa di facile e intuitivo come il telefono o la lavatrice. A volte la mission aziendale viene espressa in modo più analitico. La mission dichiarata da Luxottica, per esempio, è quella di “proteggere gli occhi e migliorare i visi di uomini e donne (…) attraverso la produzione e la vendita di occhiali da vista e da sole caratterizzati da elevata qualità dal punto di vista tecnico e stilistico”. In questo caso viene esplicitato anche il modo in cui l’azienda intende realizzare la visione. La comunicazione dell’osf dell’azienda non è rivolta solo all’interno, ma spesso anche agli stakeholders esterni. L’esplicitazione della strategia aziendale, strategia competitiva, ma anche strategia sociale, acquista quindi il significato di una sorta di “patto” che regola le reciproche attese tra azienda e interlocutori esterni, clienti innanzitutto, ma anche fornitori, potenziali lavoratori, finanziatori e comunità di riferimento. Si consideri a questo proposito il caso Starbucks. Il successo dell’azienda può in parte essere spiegato proprio con i principi guida che sono stati esplicitati e condivisi da una vasta schiera di clienti che andando da Starbucks si identificano in una comunità attenta alla natura, allo sviluppo sostenibile, ai diritti dei lavoratori che operano nei suoi punti vendita, ma anche a quelli che lavorano presso i fornitori nelle piantagioni di caffè e alle loro famiglie. È appena il caso di chiarire che non è l’affermazione di un principio nell’osf, o la pubblicizzazione della mission, a garantire questa “alleanza” con i clienti e gli interlocutori sociali, ma la coerenza che l’azienda dimostra nel tradurre in pratica questi principi. Questo è il motivo per cui le aziende che scelgono questa strada sono spesso solite documentare gli investimenti effettuati e i risultati raggiunti con bilanci sociali o ambientali, come nel caso Ford citato sopra. Una mera enunciazione di obiettivi e valori che non siano effettivamente radicati nella cultura organizzativa è infatti del tutto inutile se non addirittura controproducente. Non va dimenticato che i valori chiave dichiarati da Enron, la grande azienda americana coinvolta all’inizio del ventunesimo secolo in uno dei più grandi scandali finanziari della storia, erano “rispetto, integrità, eccellenza e trasparenza nella comunicazione”. In questo caso però lo stesso comportamento dei manager dell’azienda si dimostrava in contrasto con questi principi che rimanevano quindi poco più che un tentativo di promuovere l’immagine all’esterno. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 79 La mission di Starbucks Starbucks rappresenta uno dei più eclatanti casi imprenditoriali di successo in un settore tradizionale come la ristorazione collettiva. L’azienda, che alla fine degli anni ’80 si presentava come una piccola catena di caffetterie di Seattle di una cinquantina di locali, in poco tempo si è affermata come una multinazionale da oltre 12.000 punti vendita in quasi quaranta paesi (ma il conteggio non è semplice visto che il ritmo delle aperture ha superato nel 2006 il ritmo di 6 al giorno) e un nuovo simbolo dello stile di vita americano, come testimoniano anche i numerosi film che la scelgono come location. Starbucks ha sempre cercato di presentarsi al mercato come un’azienda per alcuni versi alternativa rispetto alle grandi aziende di ristorazione, e l’essenza di questa differenza emerge chiaramente dalla sua mission: “Affermare Starbucks come il primo fornitore del miglior caffè del mondo, rimanendo fedele senza compromessi nel processo di crescita ai principi aziendali. I seguenti sei principi guida ci aiuteranno a valutare l’appropriatezza delle nostre decisioni: 1. Assicura un eccellente ambiente di lavoro e tratta tutti con rispetto e dignità. 2. Accetta la diversità come una componente essenziale del nostro modo di fare business. 3. Applica i più elevati standard di eccellenza al processo di acquisizione, tostatura e spedizione del nostro caffè. 4. Ottieni sempre clienti entusiasticamente soddisfatti. 5. Fornisci un contributo positivo alle nostre comunità e all’ambiente. 6. Riconosci che la redditività è essenziale per il nostro successo futuro”. 3.3 Vantaggio competitivo, ambiente, risorse e competenze 3.3.1 Ambiente e vantaggio competitivo Descrivendo il concetto di strategia e di formula imprenditoriale si è visto come la natura del rapporto che l’azienda stabilisce con il suo ambiente ne rappresenti uno degli elementi costitutivi. L’ambiente in una prima accezione può essere identificato come l’insieme di tutti i fattori esterni all’azienda ma che sono in grado di influenzarla. Questa definizione presuppone l’identificazione di una linea di demarcazione tra ciò che è interno e ciò che è esterno all’impresa, cosa che nella realtà appare tutt’altro che scontata. Se si adotta un criterio giuridico le cose possono sembrare semplici, ma si tralascerebbe la parte più interessante del problema dal punto di vista delle scelte gestionali. Si pensi per esempio ai punti vendita Burger King aperti da imprenditori indipendenti che acquisiscono il diritto a utilizzare il marchio e il know how aziendale in cambio di una percentuale del fatturato da versare come royalty all’azienda titolare del marchio, al ruolo delle concessionarie nell’industria automobilistica o a quello delle associazioni di volontariato nel contribuire al raggiungimento degli obiettivi delle aziende sanita© 2007, The McGraw-Hill Companies srl 80 Capitolo 3 rie in campi come l’assistenza agli anziani. In questo caso i confini dell’azienda risultano più fluidi, e certamente la formulazione della strategia aziendale coinvolgerà questi attori “esterni” considerandoli alla stregua di unità interne all’azienda. All’estremo opposto si presenterà il problema di stabilire “dove finisce” l’ambiente che deve essere monitorato nella gestione strategica dell’azienda. L’analisi dell’ambiente con l’obiettivo di formulare una strategia si focalizza di solito su quello che è definito l’ambiente operativo o microambiente, e cioè quel sottoambiente che interagisce in modo più stretto con l’organizzazione e che è quindi in una certa misura anche maggiormente influenzabile dall’impresa, ma non è detto che le minacce e le opportunità rilevanti per la strategia dell’impresa nascano nell’ambiente a lei più vicino (Hamel, 2000). Il primo passo da compiere nell’analisi strategica consiste quindi nel monitorare l’ambiente generico, o il macroambiente dell’azienda (Pellicelli, 2005) per individuare minacce e opportunità. Questa analisi prende solitamente il nome di analisi pest con riferimento alle iniziali delle categorie di variabili da indagare: politica, economia, società/cultura e tecnologia. L’aspetto cruciale dell’ambiente per un’impresa è comunque rappresentato dal settore in cui opera, che ha un’influenza decisiva sulle alternative strategiche disponibili. Secondo l’impostazione sviluppata da Porter (1980), l’obiettivo della strategia competitiva di un’impresa operante in un settore è di trovare una posizione dove ci si possa difendere dalla concorrenza. L’analisi non si deve soffermare però solo sul settore, o sulla concorrenza intesa come “gruppo di imprese che produce beni intercambiabili”, ma anche sulle forze esterne che sono comunque in grado di influenzare la redditività delle imprese che operano nel settore e quindi su quella che Porter definisce la “concorrenza allargata”. Le cinque forze in grado di determinare la redditività del settore e di indirizzare il processo di formulazione strategica delle imprese che vi operano sono: il potere dei clienti, il potere dei fornitori, le minacce di nuove entrate nel settore, la minaccia di prodotti sostitutivi e naturalmente la concorrenza all’interno del settore. Il potere dei clienti può tradursi in richieste di diminuzione di prezzi o incrementi di qualità richiesta a parità di prezzo che possono minacciare i margini di profitto delle aziende del settore. Questo potere può derivare dal fatto che i clienti sono di grandi dimensioni o che rappresentano una quota consistente del fatturato del venditore; si pensi alla posizione delle aziende produttrici di biancheria per la casa nei confronti di catene di distribuzione come Coin o Carrefour. In questa situazione il cliente ha un ulteriore elemento di potere: i buyer che lavorano nella grande distribuzione possiedono di solito informazioni dettagliate sulla struttura dei costi dei loro fornitori e sulle alternative disponibili e questo aumenta il loro potere contrattuale. Si tratta tra l’altro di una caratteristica che si è ulteriormente accentuata con la diffusione di internet che ricrea in alcuni settori dei mercati efficienti in cui le possibilità di ottenere margini elevati per chi vende sono molto ridotte. Come si vedrà meglio più avanti, la situazione migliora se l’azienda venditrice è in grado di “saltare” il distributore e vendere direttamente al cliente finale. Il potere dei clienti poi è legato anche al numero di alternative presenti sul mercato. Le aziende che operano in regime di monopolio non saranno preoccupate di offrire al cliente una qualità particolarmente elevata o dei prezzi particolarmente bassi perché sanno che il potere dei clienti è praticamente nullo per mancanza di fornitori alternativi. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 81 Il potere dei fornitori: Microsoft Il pacchetto Microsoft Office è uno dei prodotti informatici più diffusi. Forse ne esistono oggi sul mercato di altrettanto validi, ma anche se Microsoft alzasse il prezzo degli aggiornamenti del suo software pochi sarebbero disposti ad abbandonare fornitore. Tanto le aziende quanto i privati che utilizzano Word, Excel e gli altri applicativi, hanno infatti sostenuto un costo in termini di tempo e di corsi di formazione per imparare a utilizzarli e tenderanno a continuare a rifornirsi da Microsoft finché il prezzo dei suoi prodotti rimane inferiore alla somma dei costi dei prodotti alternativi e ai costi (impliciti ed espliciti) di apprendimento che sarebbe necessario sostenere. Anche in presenza di alternative gratuite compatibili, poi, la maggior parte dei consumatori preferisce continuare a utilizzare prodotti Microsoft per evitare il rischio che esistano piccole incompatibilità destinate magari a emergere solo in un secondo tempo. Speculare si presenta la situazione dal punto di vista del potere dei fornitori. Ci sono dei fornitori che sono essenziali per la qualità di un prodotto, o che possono essere sostituiti solo a fronte di costi molto elevati. È quanto accade per esempio con i processori in cui il potere della Intel si è tradotto in una compressione dei margini per i produttori di computer. Grazie agli sforzi compiuti nel corso degli anni da Intel, anche attraverso la campagna di comunicazione “Intel inside”, spesso quando il consumatore finale prende una decisione d’acquisto il produttore del processore è addirittura più importante di chi ha costruito il pc. Il fornitore sarà in generale in grado di estrarre profitti dalla relazione a scapito del cliente quando si verifica l’esistenza di elevati switching cost (Shapiro, Varian, 1999), come nel caso di investimenti specifici fatti dal cliente in rapporto a una relazione. In questo caso il cliente è in un certo senso “bloccato” nel rapporto di fornitura e sarà costretto a pagare un prezzo maggiore per evitare di sostenere nuovamente i costi specifici. Per questo motivo i produttori delle console per videogiochi come Microsoft, Sony e Nintendo sono sempre preoccupati di accelerare i tempi di uscita delle nuove generazioni di console e l’annuncio del ritardo dell’uscita della PlayStation 3 ha causato un calo nel valore del titolo Sony: quando un giocatore acquista una console, infatti, continua ad acquistare i giochi (che sono il prodotto veramente redditizio in questo business) compatibili con questa fino a che le alternative presenti sul mercato non sono talmente superiori da giustificare la ripetizione dell’investimento iniziale di acquisto di una console. Quando ha cominciato a diffondersi la telefonia cellulare, era evidente a tutti che si trattava di un settore che sarebbe stato caratterizzato da un elevato tasso di crescita e da buone opportunità di profitto. Allo stesso modo era chiaro che le prime imprese in grado di acquisire numerosi clienti avrebbero goduto a lungo di un vantaggio, visto che, fino all’introduzione della portabilità del numero, i costi impliciti ed espliciti associati al cambiamento di numero di telefono da parte del consumatore erano elevati. Ciò nonostante tim e Omnitel (come allora si chiamava l’azienda in seguito acquisita da Vodafone) sono rimaste per un periodo abbastanza lungo le uniche imprese presenti nel settore e, come ha successivamente accertato l’Autorità Antitrust, hanno potuto mantenere elevati i prezzi raggiungendo eccellenti risultati reddituali. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 82 Capitolo 3 Il motivo di questa situazione va ricercata nell’assenza di minacce di entrata dovuta alle elevate barriere che impedivano ai concorrenti l’entrata nel settore. In questo caso si trattava di barriere di tipo normativo, visto che l’entrata nel settore dipendeva dalla possibilità di ottenere dallo Stato la terza licenza. Gli ostacoli all’entrata in un settore non sono però solo di tipo legale: dove sono presenti elevate economie di scala come nel settore dell’automobile le imprese esterne al settore sanno che se non sono in grado di entrare con volumi produttivi molto elevati dovranno sopportare svantaggi di costo visto che potranno ripartire i costi di progettazione di un modello di automobile su un numero minore di vetture vendute. Lo stesso avviene nel settore dei videogiochi dove i costi di sviluppo per i giochi di nuova generazione possono arrivare a una cinquantina di milioni, un investimento più che accettabile solo per colossi come Electronic Arts che vende giochi come “The Sims” in decine di milioni di copie. Collegata a questa variabile è la necessità di disporre di ingenti risorse finanziarie. I vantaggi di costo per chi opera in un settore poi può dipendere anche da variabili diverse dal volume di produzione e possono essere legati al possesso di tecnologie di produzione esclusive, all’accesso privilegiato alle materie prime, a sovvenzioni pubbliche, a una localizzazione favorevole o all’effetto dell’esperienza maturata che consente di produrre a costi unitari minori in funzione non tanto della quantità prodotta in un periodo, bensì della quantità prodotta cumulata. Una fonte di barriere all’entrata importante in quasi tutti i settori è costituita dalla differenziazione: dove le aziende riescono a farsi percepire come uniche dai propri clienti, per il nuovo entrante è difficile inserirsi in un rapporto costruito nel tempo tra azienda e consumatore. Anche per attività con barriere all’entrata apparentemente basse, come i portali internet, è emerso come la forza di marchi come Yahoo! rappresenti un ostacolo difficile da scavalcare per i nuovi entranti. Naturalmente si tratta di un tipo di barriere all’entrata che non può difendere da innovatori in grado di offrire un prodotto notevolmente superiore, come dimostra il rapido successo di Google tra i motori di ricerca. Spesso la forza del marchio si affianca, rinforzandola, alla barriera rappresentata dall’accesso ai canali distributivi. Per beni di consumo come i detersivi o la pasta è infatti critico per i nuovi entranti conquistare spazi sugli scaffali delle grandi catene di distribuzione e questo può comportare la necessità di concedere sconti o accettare condizioni che non vengono imposte alle aziende già presenti. In alcuni casi inoltre il rapporto consolidato si caratterizza anche per la presenza di un’esclusiva. Da McDonald’s e da Autogrill si può trovare come unica bevanda a base di cola la Coca-Cola e per un nuovo entrante è impossibile conquistare una presenza, a meno di non avere la forza di imporre a queste aziende di rinegoziare i contratti di esclusiva in essere. È evidente che le barriere all’entrata non sono una caratteristica statica del settore, ma cambiano nel tempo per effetto dei cambiamenti nei mercati di sbocco e nelle tecnologie, e vengono costruite e alimentate dalle strategie delle aziende. La diffusione di internet per esempio ha ridotto la barriera rappresentata dalla difficoltà di accesso ai canali distributivi, rendendo teoricamente possibile a ogni impresa il contatto con il consumatore finale. Nello stesso tempo però è aumentata l’importanza della barriera rappresentata dal possesso di un marchio noto al consumatore e dalla reputazione di affidabilità. Nella telefonia mobile un abbassamento delle barriere si è avuto per effetto dell’introduzione della portabilità del numero da un operatore all’altro, ma la notorietà del marchio e le economie di scala realizzabili dai leader di mercato sono sufficienti a scoraggiare la maggior parte dei potenziali entranti. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 83 Barriere all’entrata nel mercato degli aperitivi Entrare nel settore degli aperitivi potrebbe sembrare molto semplice: produrre aperitivi come Campari non richiede infatti ingenti investimenti in capacità produttiva, nel processo produttivo le economie di scala sono trascurabili e il know how produttivo non è particolarmente sofisticato. Entrare nel settore è però ugualmente difficile a causa della forte fidelizzazione dei clienti per le marche leader e della forte immagine di cui godono. Questa immagine è il risultato di investimenti pubblicitari ingentissimi e ripetuti nel corso degli anni. Per Campari le spese pubblicitarie hanno un’incidenza che oscilla tra il quindici e il venti per cento delle vendite per un totale che nel 2005 ha sfiorato i 140 milioni. Le economie di scala sono fondamentali nelle attività di marketing e distributive e gli esperti del settore sostengono che gli spazi sono sempre meno per aziende al di sotto del miliardo di fatturato. Per questo motivo il Gruppo Campari ha effettuato nel corso degli ultimi anni una serie di acquisizioni di aziende di minore dimensione, da Aperol a Glen Grant, con effetti positivi sulla redditività. Può accadere infine che un’azienda, pur essendo leader di un settore protetto da barriere all’entrata elevate sia minacciata da aziende che si trovano all’esterno del settore attraverso prodotti sostitutivi. L’individuazione dei prodotti sostitutivi in alcuni casi è semplice (si pensi alla sostituzione della macchina da scrivere con i computer o delle macchine fotografiche “tradizionali” con quelle digitali), ma spesso è un’attività complessa, perché richiede una comprensione dei diversi benefici che i diversi clienti ricercano nel sistema di offerta dell’azienda. Come ricorda con un apparente paradosso Piantoni (1985), un prodotto sostitutivo per automobili di lusso come le Rolls Royce non è rappresentato da altri veicoli, ma dai servizi di araldica, dal momento che il beneficio principale associato all’acquisto di un auto di quel tipo è lo status che si acquisisce possedendola. Un video scaricato attraverso internet sarà quindi un prodotto sostitutivo rispetto all’acquisto o al noleggio di un dvd, ma nel considerare la sostituibilità nei confronti della visione di un film al cinema bisogna valutare quanto i clienti apprezzino le differenze tecniche della visione in sala e i benefici di una visione collettiva. Nel considerare poi la minaccia dei prodotti sostitutivi un ruolo importante è svolto dai prezzi relativi dei beni considerati. Vedere una partita di calcio dal vivo nello stadio Meazza di Milano è senza dubbio un’esperienza più appagante che guardare la stessa partita alla televisione; molti consumatori potranno però preferire quest’ultima a causa del costo molto inferiore di una visione casalinga. L’ultima, ma non certo in ordine di importanza, variabile in grado di determinare la redditività di un settore è infine l’intensità della concorrenza fra le imprese che vi operano. Quanto più il settore si avvicina alle condizioni di concorrenza perfetta, tanto più difficile è per le imprese guadagnare. L’intensità della concorrenza dipende dalla numerosità delle imprese e dalla loro struttura dei costi, dalle prospettive di crescita per il settore e dall’esistenza di barriere all’uscita come la difficoltà di procedere a licenziamenti. La variabile strategica in grado di diminuire l’intensità della concorrenza è qui rappresentata dalla differenziazione; il settore dell’abbigliamento griffato per esempio presenta un tasso di crescita contenuto e vede la presenza di molte impre© 2007, The McGraw-Hill Companies srl 84 Capitolo 3 se con la necessità di ripartire su un volume elevato di vendite i costi fissi marketing sostenuti. Ciò nonostante l’elevata differenziazione consente a molte imprese elevati profitti visto che chi deve decidere per esempio se acquistare un capo Dolce & Gabbana o uno di Giorgio Armani è influenzato più dalle differenze percepite nello stile e nell’immagine dei due prodotti che dalle differenze di prezzo. Se l’idea che per un’azienda il successo sia esclusivamente la conseguenza della capacità di posizionarsi in modo ottimale è superata, non si deve cadere nell’eccesso opposto di ritenere che la “ipercompetizione” significhi una guerra di tutti contro tutti in un ambiente in cui non esistono barriere (Porter, 1996). L’evoluzione tecnologica ha cambiato la fisionomia di alcuni settori, aumentando la circolazione delle informazioni e rendendo spesso più difficile l’ottenimento di profitti, ma non ha cambiato la necessità di analizzare le forze che determinano la struttura di un settore come punto di partenza per conseguire un vantaggio competitivo (Porter, 2001). 3.3.2 Risorse e competenze Trovare un mercato attraente in cui operare e stabilire al suo interno una posizione ottimale rappresenta solo un passo, e non necessariamente il più importante, perché un’impresa abbia successo e cioè sia in grado di generare valore. Come si è visto, per avere successo un’impresa deve in primo luogo essere differente dai concorrenti in qualcosa che i clienti apprezzano. È evidente che questi casi non possono essere spiegati unicamente facendo riferimento a condizioni favorevoli del settore, ma chiamano in causa delle particolari capa- La redditività dipende dal settore? Quando Howard Schulz, ispirato da un viaggio in Italia, alla fine degli anni ’80 cominciò a sviluppare l’idea di lanciare una catena di caffetterie, non gli fu facile trovare dei finanziatori. Il settore era infatti considerato poco promettente per la presenza di un numero elevato di aziende, la difficoltà di differenziare il prodotto e la presenza di prodotti sostitutivi come i soft drink che stavano erodendo da anni la quota del caffè tra le bevande. Il successo di Starbucks, che nei primi quindici anni dalla quotazione in borsa ha moltiplicato per settanta volte il suo valore, ha dato ragione a chi ha scommesso sull’azienda di Seattle. Anche per Michael Dell investire nel settore dei pc poteva non sembrare una buona idea: quello dei computer era infatti un mercato molto concorrenziale nel quale fornitori come Microsoft o Intel dettavano legge e nel quale la grande distribuzione godeva di un forte potere contrattuale. La scarsa fedeltà di marca tra i clienti rendeva inoltre accesa la competizione sul prezzo. Questo non ha impedito l’ascesa di Dell e una solida posizione del suo fondatore tra i dieci uomini più ricchi d’America. Casi come i due elencati non riguardano necessariamente solo grandi aziende: SINV è una media azienda vicentina che produce abbigliamento sportswear su licenza per grandi marchi come Krizia, Moschino e Valentino. Pur operando in un settore difficile come la produzione su licenza, in cui il potere dei detentori delle griffe è quindi elevato, l’azienda ha registrato fatturati crescenti con profitti elevatissimi. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 85 cità o risorse di cui le aziende dispongono e che consentono loro di essere più redditizie dei concorrenti. Secondo questa impostazione, conosciuta come resource-based view (Wernerfelt, 1984; Barney, 2002; Grant, 2005), le imprese sono diverse tra loro per le risorse e le competenze che possiedono, e la strategia dell’impresa deve essere finalizzata a sfruttare tali risorse per conseguire un vantaggio competitivo sostenibile sui concorrenti. Per risorse si intendono in senso ampio un insieme di asset, capacità, caratteristiche e potenzialità che l’impresa possiede. Queste possono essere divise in almeno tre categorie (Collins, Montgomery, 1997): risorse materiali, risorse immateriali e capacità organizzative. Le risorse materiali sono quelle più facili da individuare e da valutare e sono quelle che più spesso possono essere trovate iscritte nel bilancio dell’azienda. Una risorsa fisica che a volte è molto importante anche se non compare a bilancio è la localizzazione delle unità produttive: a New York sulla quinta strada per un negozio di moda, in Piazza San Marco per il Caffè Florian o con la vista sulle Pale per un albergo di San Martino di Castrozza. Non è frequente però che un’azienda fondi il proprio successo esclusivamente su risorse di questa categoria perché di solito risorse come impianti e macchinari sono facilmente identificabili e riproducibili da parte dei concorrenti. Oggi unanimemente si ritiene che la categoria più importante per la strategia delle imprese sia rappresentata dalle risorse immateriali. Nel successo di Porsche e Microsoft è importante il possesso di un marchio riconosciuto in tutto il mondo e tra gli occhiali prodotti da Safilo, quelli con marchio Giorgio Armani vengono proposti ai consumatori a prezzi molto elevati per il valore che il cliente attribuisce loro. Più in generale una risorsa importante è il capitale relazionale, e cioè l’ampiezza e la qualità delle relazioni stabilite dall’impresa con i consumatori, ma anche fornitori, finanziatori e l’ambiente di riferimento in generale. Una delle ragioni del successo di mercato dei software prodotti da Microsoft è la convinzione tra i consumatori che, per il fatto stesso di essere prodotti dall’azienda leader di mercato, questi software verranno aggiornati in versioni successive, rimarranno standard di mercato e sarà facile trovare altre persone con lo stesso tipo di software con cui scambiare i file. Questa reputazione consentirebbe a Microsoft di vendere anche prodotti peggiori rispetto a quelli dei concorrenti (e secondo alcuni è quel che avviene). La leadership di Microsoft è però rinforzata dal know how che possiede l’azienda che le consente di sviluppare continuamente nuovi prodotti. Solo qualche volta questo know how è racchiuso in un brevetto. A differenza della maggior parte di quelle fisiche, le risorse immateriali non sono soggette a deperimento, e non si consumano con l’uso, anzi risorse come il marchio possono incrementare il loro valore con un aumento accorto della diffusione. Un particolare tipo di risorsa immateriale è rappresentato dal capitale umano, o meglio l’insieme delle conoscenze, competenze e abilità proprie delle singole persone che lavorano nell’impresa. Figure chiave come Henry Ford per Ford, Jack Welch per ge, Bill Gates per Microsoft, Renzo Rosso per Diesel o Tom Ford per Gucci possiedono un insieme di caratteristiche che li rendono un asset prezioso per le loro aziende. Questo valore non di rado è riconosciuto esplicitamente dal mercato che segnala con la svalutazione del titolo l’abbandono di risorse umane ritenute importanti. L’esempio delle risorse umane chiama in causa l’ultima categoria di risorse, le capacità organizzative. Nessuno può mettere in dubbio il fatto che Adriano, Vieri, © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 86 Capitolo 3 Ronaldo, Recoba e gran parte degli altri giocatori acquistati negli anni dal presidente dell’Inter Moratti siano risorse umane di valore, in possesso di capacità calcistiche di ottimo livello. Ciò nonostante l’Inter ha attraversato una serie di campionati complessivamente mediocri e, anche dal punto di vista della redditività, la squadra ha conseguito risultati che non sono nemmeno comparabili con quelli raggiunti dalle storiche rivali. Il possesso di risorse in abbondanza può non essere sufficiente a produrre valore, se non si possiedono le capacità di combinare tra di loro tali risorse meglio dei concorrenti. Come ben sa ogni presidente di una squadra di calcio, non basta accumulare campioni per vincere lo scudetto, ma è necessario che questo insieme di campioni formi una squadra affiatata, e per fare questo occorrono un mix di conoscenze tecniche, di cultura della squadra, di dirigenza in sintonia con la conduzione tecnica, di clima tra i tifosi attorno alla squadra. Grandi allenatori come Alex Ferguson o Fabio Capello non sono solo risorse umane ricche di conoscenze tecniche, ma anche manager bravi nell’organizzare squadre e società vincenti. Più in generale competenze o capacità organizzative fanno riferimento a “combinazioni di attività, persone e processi” (Collins e Montgomery, 1997). Nella prassi e nella letteratura manageriale spesso si utilizza anche il termine competenze. Nella letteratura manageriale (Buttignon, 1996; Grant, 2005) il termine competenze viene spesso utilizzato differenziandolo da quello di risorse, nel senso che mentre risorse sono fattori produttivi specificamente identificabili, le competenze fanno invece riferimento a complessi di risorse organizzate dall’impresa, e sono quindi la stessa capacità dell’impresa di combinare le risorse in funzione dei suoi obiettivi. Seguendo l’impostazione di Barney (2002) non si terrà conto di questa distinzione, utile a livello concettuale ma non sempre presente nel linguaggio del management, utilizzando in modo sostanzialmente intercambiabile capacità organizzative e competenze e comprendendo tra le risorse dell’impresa anche le capacità organizzative. 3.3.3 Le risorse come motore della strategia Le risorse possedute da un’impresa possono essere diverse. Non tutte queste risorse sono in grado però di assicurare un vantaggio sui concorrenti. Poter disporre di computer, di collegamenti a internet, per esempio, può essere indispensabile per operare ma non può garantire il successo di un’impresa perché chiunque può procurarsi tali risorse. Anche risorse difficili da reperire non consentono però in ogni caso il successo sui concorrenti: se un’azienda produttrice di automobili possiede una rarissima collezione di francobolli in cassaforte, questo è probabilmente irrilevante per chi sceglie quale automobile comprare, a meno che un’abile strategia di marketing riesca a creare un collegamento nella mente del consumatore tra i francobolli e l’automobile in modo di valorizzarli. Quali sono quindi le caratteristiche che devono avere le risorse per essere fonte di vantaggio competitivo per l’impresa? Seguendo lo schema di analisi delle risorse proposto da Barney (2002), in primo luogo le risorse devono possedere un valore, nel senso che devono consentire all’impresa di rispondere a minacce e sfruttare le opportunità ambientali. Da questo punto di vista il valore può cambiare nel tempo: nel settore dell’abbigliamento negli anni ’80 possedere un marchio associato a uno stilista di grido consentiva di generare elevata redditività perché i consumatori erano disposti a pagare molto un capo griffato © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 87 in un certo senso a prescindere dalla qualità intrinseca del capo. Alla fine del decennio successivo invece il solo marchio non rappresentava più una risorsa di valore, se non viene combinata con capacità di gestione delle operations aziendali e di controllo dei canali distributivi (Cappellari, 2000). Per le strategie di sviluppo delle banche fino a qualche anno fa era indispensabile disporre di una rete articolata di sportelli, ma l’importanza di questi si è ridimensionata con l’avvento degli atm e ancora di più di internet. La seconda caratteristica che deve possedere una risorsa è la rarità. È evidente che se una risorsa di valore fosse posseduta da tutte le imprese del settore, non potrebbe essere utilizzata come strumento per ottenere vantaggi sui concorrenti. All’epoca della euforia legata all’avvento di internet verso la fine del ventesimo secolo i mercati finanziari sembravano attribuire un grande valore a tutte le aziende che davano vita a iniziative di vendita attraverso il sito internet. Successivamente ci si è resi però conto che ogni azienda poteva con una spesa contenuta realizzare un sito di e-commerce e che non era possibile che questo generasse valore a prescindere dal possesso di altre risorse. Una risorsa rara perderebbe questa sua caratteristica se fosse possibile per le altre imprese “ricostruirla” a costi contenuti; una risorsa deve quindi essere difficilmente imitabile. Gli esempi più intuitivi sono rappresentati dai brevetti o da risorse fisicamente uniche come localizzazioni particolarmente favorevoli. Molto più spesso è difficile per le altre aziende dotarsi di risorse che consentirebbero di godere di un vantaggio sui concorrenti perché le risorse si formano nel corso del tempo in condizioni storiche non ripetibili, e comunque non è facile capire quale sia il mix di comportamenti che le hanno generate. ups e Southwest Airlines vengono spesso citate come esempi di aziende con una cultura di dedizione al cliente e con un clima lavorativo positivo che consente di conseguire bassi tassi di turnover ed eccellente performance del personale. Un concorrente che volesse imitare la cultura e il clima di queste aziende potrebbe adottare una serie di politiche di gestione delle risorse umane che consentano di andare in questa direzione, ma non avrebbe la certezza di conseguire il risultato, né certamente potrebbe aspettarsi di conseguirlo nel breve termine alla luce di quanto si è detto sopra sul cambiamento della cultura aziendale. Quale ricetta per creare un marchio come Diesel Diesel è oggi probabilmente il più importante marchio nel jeanswear. Al successo del marchio Diesel hanno certamente contribuito una serie di azzeccate campagne pubblicitarie, e più in generale delle competenze di marketing eccellenti che l’azienda ha saputo costruire, ma se fosse sufficiente un indovinato investimento pubblicitario per ottenere un marchio di valore come Diesel ogni azienda dotata di risorse finanziarie potrebbe competere con successo nel settore. In realtà il successo del marchio è il prodotto di un insieme di fattori legati tra loro come la cultura dell’azienda, la personalità dell’imprenditore, l’insieme di eventi che nel corso degli anni hanno trasmesso ai consumatori messaggi coerenti con i loro valori. Senza Renzo Rosso, sarebbe stato possibile “produrre” un marchio come Diesel? E quanto ha contato la frequentazione con Adriano Goldshmied e gli altri imprenditori della “scuola veneta” del jeanswear riuniti nel Genius Group? © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 88 Capitolo 3 Lo stesso può dirsi per la creazione di marchi famosi come Diesel o Gucci. Nel suo manuale Robert Grant (2005) cita a questo proposito una famosa frase di Warren Buffet, uno dei maggiori azionisti di Coca-Cola: “Se mi deste 100 miliardi di dollari, dicendomi di portare via la leadership mondiale delle bevande analcoliche a CocaCola ve li restituirei rispondendo che non è possibile”. Progettare la costruzione di un marchio di successo richiede quindi competenze che sono esse stesse una risorsa preziosa, ed è soggetto inoltre all’incertezza legata alla impossibilità di individuare una ricetta applicabile a ogni azienda. L’ultimo requisito che deve essere rispettato perché una risorsa possa essere fonte di un vantaggio competitivo sostenibile è che l’impresa deve essere organizzata in modo da estrarre dalle sue risorse il potenziale di generazione di valore. L’impresa deve cioè essere strutturata in un insieme di risorse complementari che in combinazione siano in grado di generare e difendere il vantaggio competitivo aziendale. Un esempio negativo da manuale (Barney, 2002) di come risorse preziose non si trasformino necessariamente in profitti è quello di Xerox, che nel corso degli anni ’60 e ’70 aveva investito in ricerca ed era riuscita a generare una serie di tecnologie e di competenze legate al loro sviluppo. Ciò nonostante l’azienda non è stata in grado di trasformare queste risorse in profitti. Non era per esempio previsto un sistema di diffusione tra il management di informazioni sulle innovazioni sviluppate nei laboratori, e quindi chi doveva decidere quali prodotti lanciare sul mercato non disponeva di tutte le informazioni; il sistema di incentivi basato sui risultati di breve termine, inoltre, dissuadeva molti dirigenti dall’avventurarsi in attività rischiose come gli investimenti per lo sviluppo e il lancio di un nuovo prodotto basato sulle innovazioni uscite dai laboratori. Realizzare il potenziale delle risorse: Sonus Faber Sonus Faber è una piccola azienda vicentina tra i leader mondiali nella nicchia dei diffusori acustici di altissima qualità. I suoi prodotti come “Omaggio a Stradivari”, coppia di diffusori con un prezzo di listino superiore ai trentamila euro, hanno ricevuto premi e riconoscimenti in tutto il mondo, mentre il set “Omaggio a Guarneri” è stato scelto per la Sala dei Violini di Cremona. L’azienda è stata fondata nel 1983 da un tecnico appassionato e competente, Franco Serblin, secondo il quale “fare diffusori acustici è come fare il liutaio, un mestiere tra scienza, tecnica e passione per la musica”. L’azienda è un’apprezzata realtà di dimensione artigianale quando, all’inizio degli anni ’90, arriva in azienda Cesare Bevilacqua che aggiunge alle competenze tecniche del fondatore le sue competenze gestionali e di marketing. Seguendo i principi del marketing dei prodotti di lusso, infatti, Bevilacqua capisce che per avere successo non è sufficiente realizzare dei prodotti tecnicamente superiori a quelli dei concorrenti perché la percezione di piacevolezza del suono è in parte soggettiva, e inizia a sviluppare una strategia di marketing per promuovere e valorizzare il marchio tra gli intenditori e presso i distributori. In questa prospettiva, inoltre, il prodotto viene pensato non solo come un gioiello dal punto di vista tecnico, ma anche un elegante oggetto per arredare in modo che la dimensione estetica contribuisca a comunicare l’eccellenza tecnica. L’apporto delle nuove competenze consente a Sonus Faber il superamento della dimensione artigianale e il raggiungimento del successo internazionale. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 89 Lo stesso è successo alla fine degli anni ’90 a Valentino: l’azienda disponeva di un marchio di grande valore, ma questa risorsa non era sufficiente a generare ricchezza perché il prodotto non sempre era all’altezza ed erano stati compiuti gravi errori nella distribuzione. La situazione è cambiata solo con l’acquisizione da parte del Gruppo Marzotto, che ha portato in Valentino la capacità di gestire in modo redditizio un marchio sviluppata negli anni con Marlboro Classics e Hugo Boss. Il successo di un’azienda, come esemplificano casi diversi da Sonus Faber a Geox, è spesso il risultato di un bilanciamento di competenze legate a diverse aree funzionali. Le competenze legate allo sviluppo del prodotto e un marchio apprezzato dai clienti devono essere valorizzate attraverso competenze di marketing. Se l’approccio basato sulla posizione nel settore si basa sull’esigenza di individuare un settore promettente e di stabilire una posizione di vantaggio nel settore e difenderla, l’approccio basato sulle risorse ha quindi come focus l’individuazione e lo sfruttamento delle risorse strategiche. Compito dell’analisi strategica in questa prospettiva è in primo luogo identificare e valutare le proprie risorse strategiche, che sono diverse da azienda ad azienda, e in secondo luogo costruire la strategia che consenta di valorizzarle per ottenere un vantaggio sui concorrenti. 3.3.4 La mossa strategica per sfuggire alla concorrenza Casi come quello di Starbucks, che ha creato un nuovo modo di intendere la caffetteria, di Dell che ha messo in discussione la logica dominante del settore dei computer introducendo il modello diretto nei rapporti con i clienti o di Ryanair, che ha ripensato il concetto di viaggio dando vita in Europa al fenomeno dei voli low cost, possono essere visti come strategie che fanno leva su particolari risorse aziendali come il marchio o le competenze organizzative per battere i concorrenti. Recentemente è stata però fornita una chiave interpretativa diversa di questo genere di strategie che fa riferimento al concetto di “mossa strategica” (Kim, Mauborgne, 2005). Obiettivo delle aziende, sostiene questo approccio, non deve essere solo quello di superare i concorrenti all’interno dei settori esistenti. Lottando in spazi infestati dai concorrenti, infatti, è inevitabile dare vita a scontri sanguinosi che alla fine riducono la redditività di tutte le parti coinvolte: i prodotti si trasformano rapidamente in commodity, le aziende investono sempre di più per migliorare i prodotti, per tentare di differenziare il marchio con ingenti investimenti pubblicitari, cercano di ridurre i costi per contenere i prezzi e alla fine “la concorrenza all’ultimo sangue tinge l’oceano di rosso”. Per essere veramente redditizie, invece, le aziende devono cercare di dare vita a un “oceano blu”, un nuovo spazio di mercato che ancora non esiste e nel quale quindi non ci siano concorrenti. Al centro della strategia va quindi posta la mossa strategica cioè “l’insieme di azioni e decisioni manageriali legate all’offerta di nuovi prodotti/servizi tanto validi da creare un nuovo mercato” (Kim, Mauborgne, 2005, p. 11). Invece di focalizzarsi sui concorrenti, allora, le aziende dovrebbero partire nella formulazione della strategia dalla considerazione delle alternative percorribili per offrire valore ai clienti, ma anche e soprattutto per cercare di conquistare i non clienti. L’analisi strategica non si dovrebbe più concentrare sui rivali che operano attualmente nel settore con il fine di individuare il migliore posizionamento strate© 2007, The McGraw-Hill Companies srl 90 Capitolo 3 Morellato nell’oceano blu dei gioielli easy to wear Morellato è un’azienda padovana con poco meno di un secolo di storia. Il business dell’azienda è sempre stato quello dei cinturini per orologi, prima in pelle e successivamente anche in acciaio. Con il processo di concentrazione che ha caratterizzato il settore dell’orologio negli ultimi lustri del ventesimo secolo il potere contrattuale di un importante segmento di clienti di Morellato (le aziende produttrici di orologi) ha reso la competizione di cinturini meno redditizia al punto da convincere l’azienda a cedere al suo principale cliente, il gruppo del lusso LVHM, l’intera produzione di cinturini in acciaio. Con le risorse generate da questo disinvestimento Morellato decide di lanciarsi nell’oceano blu dei gioielli cosiddetti easy to wear. Nel settore del gioiello, infatti, la logica dominante era quella di realizzare prodotti che basassero il loro valore, così come il prezzo al consumatore finale, sui materiali preziosi impiegati per costruirlo. In questo quadro strategico poche aziende (come per esempio Bulgari o Tiffany) erano riuscite a differenziarsi aggiungendo al valore dell’oggetto il valore di un brand riconosciuto. L’idea di Massimo Carraro, amministratore delegato di Morellato, è stata invece di produrre gioielli ricchi di contenuto stilistico e di immagine, ma realizzati in materiali semplici come l’acciaio. Con questa innovazione di valore Morellato offre ai consumatori un prodotto molto meno costoso dei gioielli tradizionali, ma a un prezzo molto più elevato della bigiotteria, in virtù dei forti investimenti sul design del prodotto e sulla creazione di una chiara identità di marca. Questo nuovo prodotto è tra l’altro molto più coerente con lo stile di vita contemporaneo, nel quale le occasioni per portare gioielli di valore sono relativamente rare e per di più limitate a un ristretto numero di consumatori, e può rivolgersi a un numero molto più elevato di consumatori che non erano clienti abituali di gioielli. gico da assumere nei loro confronti, ma dovrebbe focalizzarsi su cosa succede nei settori contigui. Naturalmente anche una strategia oceano blu ha bisogno di barriere all’imitazione perché possa essere alla base di un vantaggio competitivo sostenibile. Tali barriere possono derivare da situazioni di monopolio naturale, da brevetti, dal fatto che l’azienda che aumenta notevolmente il valore offerto creando l’oceano blu fa parlare molto di sé creandosi una reputazione superiore, dalla capacità di sfruttare rapidamente le economie di scala derivanti dal volume di clientela acquisito prima che arrivino i concorrenti o dalle esternalità di rete che fanno in sì che gli acquirenti siano incentivati a rimanere con l’impresa che ha creato il mercato. 3.4 Le scelte strategiche 3.4.1 Strategie di costo e di differenziazione Si è accennato sopra che le risorse di un’impresa devono essere la base per differenziarsi dai concorrenti. Tale differenziazione può avvenire lungo due direttrici (Porter, 1985), attraverso una strategia di leadership di costo o attraverso una strategia di differenziazione. Perseguire una leadership di costo significa puntare ad avere dei costi inferiori a quelli di tutti i concorrenti. Strategie di questo tipo possono basarsi per © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 91 Strategia di costo: le regole di Aldi Il gruppo Aldi, fondato in Germania dopo la seconda guerra mondiale dai fratelli Karl e Theo Albrecht è la più importante catena mondiale di discount. L’azienda è famosa per lo stile spartano dei punti vendita, ma anche per una filosofia aziendale permeata dall’attenzione ai costi. L’azienda cerca così di risparmiare in ogni attività: non ci sono assistenti per i manager, non si effettuano ricerche di marketing, non si ingaggiano consulenti, non si intraprendono processi di certificazione di qualità, i negozi sono tutti uguali per quanto riguarda prezzi e prodotti e naturalmente si evitano il lusso negli uffici e le auto aziendali costose. Questa frugalità aziendale ha permesso ai fratelli Karl e Theo di inserirsi tra le dieci persone più ricche d’Europa (Fonte: Brandes, 2004). esempio sullo sfruttamento della curva di esperienza, e cioè sulle riduzioni nei costi unitari conseguibili al crescere del volume cumulato di produzione, su economie di scala, e quindi sulle riduzioni dei costi unitari al crescere del volume di produzione, su tecnologie produttive più efficienti, sulla capacità di saturare la capacità produttiva, su costi di approvvigionamento più bassi di input di materie prime o lavoro. I leader di costo di solito basano il proprio vantaggio non tanto su una singola leva, ma su un sistema che utilizza in modo integrato e sinergico le diverse leve disponibili. Le strategie di differenziazione consistono invece nell’incrementare il valore della propria offerta percepito dal cliente rispetto a quello dei concorrenti e nel poter spuntare un prezzo superiore a quello di mercato. Naturalmente il prezzo deve essere superiore nello stesso tempo anche al costo della differenziazione, cioè ai costi che l’azienda ha sostenuto per far percepire il maggior valore al cliente. Sintetizzando si può quindi affermare che se la strategia di costo punta a migliorare la performance diminuendo i costi, la strategia di differenziazione consegue tale risultato aumentando i ricavi (Barney, 2002). Le possibilità di differenziazione di un prodotto o servizio hanno come unico limite quello posto dalla fantasia e dall’immaginazione (Grant, 2005) e non esiste un prodotto che non sia differenziabile, basti pensare a come Melinda o Chiquita hanno saputo creare un brand di valore in un settore come quello della frutta, a come le aziende produttrici di benzina siano impegnate in strategie di differenziazione per mezzo di investimenti pubblicitari e raccolte punti e a come Alessi abbia reso fortemente differenziati oggetti che erano considerati dei semplici utensili da cucina. Il problema è capire quali variabili sono più importanti per la clientela. Boeing e Airbus, le due aziende che si dividono il mercato mondiale della produzione di aerei, hanno scelto strategie diverse: la prima punta soprattutto su un aereo veloce e di medie dimensioni, mentre la seconda scommette sul supergigante A380, un aereo a due piani in grado di trasportare poco meno di seicento passeggeri. Per quanto le aziende abbiano sondato i desideri dei clienti, è difficile dire a priori quale dei due sarà più apprezzato dalla clientela. Le variabili di differenziazione che consentono di ottenere un vantaggio competitivo inoltre cambiano rapidamente (si pensi per esempio alle caratteristiche del prodotto legate al fattore moda) e in molti casi il vantaggio competitivo è di breve durata quando i concorrenti possono imitare facilmente l’innovazione. Nel settore dei beni di consumo le aziende che hanno lanciato innovazioni come confezioni “salvaspazio” o richiudibili, © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 92 Capitolo 3 Build-A-Bear: strategia di differenziazione in un settore indifferenziato Il settore della distribuzione di giocattoli è da tempo sotto pressione per effetto dell’attacco delle catene di ipermercati che presentano sostanzialmente la stessa offerta dei negozi di giocattoli a prezzi più bassi. In questo scenario Build-A-Bear, una catena di oltre 200 negozi con vendite per 300 milioni e 20 milioni di utile netto ha saputo crescere a un tasso medio annuo di oltre il 40%. Per differenziarsi dagli altri negozi Build-A-Bear ha deciso di proporre non solo un prodotto di qualità in un ambiente gradevole, ma anche e soprattutto “un’esperienza di intrattenimento creativa e interattiva”. In un negozio, anzi in un “Workshop” BuildA-Bear non si entra semplicemente per comprare un giocattolo, ma si partecipa alla sua creazione sotto la guida di un addetto che è più un animatore che un semplice commesso. L’idea di base consiste nel permettere ai clienti, prevalentemente bambini con età media di dieci anni anche se l’azienda riporta di avere una folta clientela di entusiasti nonne, nonni e zii, di scegliere il proprio orsetto combinando un insieme di opzioni di base predefinite e di seguirne direttamente la costruzione. Il cliente viene quindi coinvolto nel processo in primo luogo attraverso la scelta dei diversi elementi che compongono l’animaletto (30-35 differenti versioni tra orsetti, cani, rane e coniglietti da combinare con un ampio assortimento di abbigliamento e accessori), ma soprattutto attraverso un intervento attivo: il bambino infatti sceglie il nome, la voce e le canzoni che l’orsetto sarà in grado di cantare (qui è possibile anche registrare messaggi personalizzati), è invitato a inserire il cuore all’interno dell’animaletto prima della cucitura e della spazzolata finale, e registra infine l’orsetto nell’anagrafe per mezzo di un computer ricevendo il “certificato ufficiale” di nascita. Quando l’orsetto è pronto si passa poi nel reparto abbigliamento dove insieme alle collezioni basic nei diversi periodi dell’anno si alternano le collezioni legate alle principali ricorrenze (Fonte: Cappellari, Da Cortà, Parrella, 2006). detersivi “ecologici”, lattine facili da aprire, hanno potuto differenziarsi dai concorrenti per qualche mese, finché le idee di successo sono state adottate da tutti i concorrenti. La differenziazione è invece una strategia che consente di conseguire un vantaggio competitivo duraturo quando si basa su risorse delle quali i concorrenti non dispongono e che sono difficili da riprodurre come per esempio la reputazione dell’azienda. Il meccanismo e la tecnologia per effettuare aste on line sono semplici da imitare, ma eBay si differenzia dai competitor per il senso di comunità e la reputazione di correttezza che la fanno ritenere migliore dei siti concorrenti e che sono difficili da riprodurre perché sono stati costruiti nel corso del tempo con strategie coerenti. Analogamente una formula di negozio di giocatoli come quella di Build-A-Bear è molto difficile da copiare per le aziende della grande distribuzione che non dispongono del personale e delle ambientazioni adatte. Strategie di costo e di differenziazione secondo l’impostazione originaria di Porter (1980) si pongono come alternative, e una ricerca compiuta dall’autore evidenziava come le imprese che perseguivano con decisione una delle due alternative erano quelle in grado di ottenere redditività maggiore. Più recentemente è stato osservato (Grant, 2005; Barney, 2002) che la maggior parte delle imprese si trova in realtà oggi impegnata su entrambi i fronti. Un problema delle strategie basate unicamente su leadership di costo è che il vantaggio competitivo è di solito più difficile da sostenere perché © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 93 Strategia di costo e di differenziazione: Ikea e Singapore Airlines Un esempio eccellente di azienda che persegue con successo una strategia che è contemporaneamente di costo e di differenziazione è Ikea. L’azienda svedese ha conquistato il mondo con mobili venduti a basso prezzo grazie a una formula imprenditoriale che prevede il coinvolgimento del cliente nella fase di trasporto e montaggio. Andare all’Ikea però non vuol dire solo cercare il risparmio, ma anche comprare dei mobili belli e funzionali e soprattutto identificarsi in un marchio e in valori di consumo intelligente. Il fascino dello “stile di vita Ikea” è tale che ogni giorno migliaia di persone non solo visitano i punti vendita dell’azienda, ma fanno anche la fila per un pranzo a base di polpette svedesi. Singapore Airlines rappresenta per molti versi un esempio opposto ad Ikea: i voli di questa compagnia aerea sono infatti famosi per la qualità del servizio, per la comodità delle poltrone, per i pasti prelibati, nonché per delle assistenti di volo carine e distinguibili per le caratteristiche divise ispirate alla tradizione orientale. L’esperienza di un volo Singapore è riassunta nel motto “A Great Way to Fly”, e ha consentito all’azienda di vincere innumerevoli premi come migliore compagnia aerea e quindi di spuntare prezzi elevati e di affermandosi come la più redditizia compagnia aerea del mondo. Di fronte alle sfide dell’ambiente competitivo del nuovo millennio, dal prezzo del petrolio alle minacce terroristiche alla crescita di concorrenti temibili come l’emergente Emirates, il nuovo amministratore delegato Chew Choon Seng ha posto l’obiettivo di ridurre in tre anni i costi (escluso quello del carburante che è per molti versi esogeno) del 20%, licenziando dipendenti, esternalizzando la gestione dei sistemi informativi, contenendo gli stipendi dei piloti, servendosi come hub di aeroporti meno costosi e utilizzando pochi modelli di aerei per mantenere bassi i costi di manutenzione. Questa attenzione ai costi non rappresenta un cambio di rotta rispetto alla strategia di differenziazione seguita finora: l’azienda continua a investire per migliorare la qualità del servizio in tutto quello che impatta sulla soddisfazione del cliente, prestando però grande attenzione ai costi di tutto quello che avviene “dietro alle quinte”. Un’immagine riportata dalla rivista americana Forbes riassume con efficacia questa filosofia: “mentre i passeggeri banchettano con aragosta e champagne, negli uffici della compagnia si sorseggia in fretta un caffè istantaneo in bicchieri di plastica”. le fonti di differenziali di costo sono maggiormente imitabili rispetto alle fonti di differenziazione. Ciò non toglie che risorse come una cultura orientata all’efficienza, come quella che caratterizza aziende come Aldi, Wal-Mart o Ryanair, possa essere fonte di vantaggi competitivi duraturi in quanto difficile da imitare perché legata alla storia dell’azienda e socialmente complessa. Disporre di un sistema che sia in grado di conseguire contemporaneamente vantaggi di costo e di differenziazione come nel caso Ikea significa aggiungere ulteriori ostacoli agli eventuali tentativi di imitazione della concorrenza. Lo stesso accade ormai in molti settori: si pensi al settore dell’automobile, dove il vantaggio competitivo di Toyota consiste nella capacità di offrire auto di qualità e ricche di innovazioni attraverso un sistema produttivo efficiente che consente di tenere bassi i prezzi. Anche Ryanair è sì la compagnia aerea con i prezzi più bassi, ma è anche quella con gli aerei più puntuali e il minor numero di bagagli smarriti. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 94 Capitolo 3 3.4.2 Diversificazione e strategie di portafoglio La valorizzazione delle risorse dell’impresa è uno dei driver per una delle principali scelte strategiche che un’impresa si trova a compiere: le scelte di diversificazione e cioè di quale portafoglio di attività detenere. Mentre alcune imprese scelgono di rimanere focalizzate su un solo settore, altre operano in più settori che presentano caratteristiche “simili” (e si parla in questo caso di diversificazione correlata) e altre competono in settori anche molto diversi tra loro (diversificazione non correlata). Un esempio del primo caso può essere considerata Tod’s che, partita dalle scarpe, ha diversificato nelle borse e nell’abbigliamento. Per il secondo caso si pensi invece a un’azienda come Fininvest, che detiene un portafoglio di attività che vanno dall’editoria (Mondadori) alla televisione (Mediaset) e il cinema (Medusa), dal calcio (A.C. Milan) alla finanza (Mediolanum) o Edizione Holding, attiva nell’abbigliamento (Benetton Group), nella ristorazione (Autogrill), nella gestione delle infrastrutture (Autostrade e Grandi Stazioni), oltre a una serie di altre attività. La strategia opposta alla diversificazione è detta invece di focalizzazione. Ci sono imprese che scelgono di diminuire il proprio raggio d’azione per concentrare le proprie risorse sui segmenti in cui ritengono di poter generare più valore, sulla base della convinzione che “far bene una sola cosa significa spesso accumulare vantaggi competitivi difficilmente raggiungibili dalla concorrenza” (Pellicelli, 2005, p. 296). Il gruppo francese Vivendi era giunto all’inizio del decennio a un passo dal fallimento aggregando attività che andavano dal cinema alla televisione, dalla telefonia alla gestione di trasporti urbani e acquedotti. Il suo risanamento è passato attraverso la rifocalizzazione su un numero limitato di attività. Nell’estate del 2005 Siemens ha addirittura scelto di versare diverse centinaia di milioni pur di vendere l’attività di produzione di telefoni cellulari, un’attività considerata non solo non più strategica, ma anche pericolosa per gli effetti negativi in termini di immagine sulle altre attività dell’azienda. La logica della focalizzazione sul core business è stata infine citata da Pirelli come motivo alla base della riduzione della partecipazione nel capitale dell’Inter. Uno dei motivi generalmente indicati come ragione per operare in più settori è l’esigenza di diversificare il rischio o di approfittare delle opportunità offerte da settori particolarmente redditizi. Questa motivazione, però, se è valida dal punto di vista del singolo investitore che non desidera esporsi al rischio che l’effetto di variabili impreviste possa minare la redditività degli investimenti effettuati in un settore, non è razionale se si sposta l’accento sugli obiettivi aziendali di creazione di valore. È vero che operare in più settori diversi riduce il rischio, ma ogni singolo investitore può ben compiere questa riduzione del rischio operando in borsa direttamente o comprando quote di un fondo d’investimento. Quando invece è l’azienda che diversifica, deve sostenere una serie di costi aggiuntivi per imparare la nuova attività e per controllare e coordinare attività diverse (Williamson, 1985). Quanto maggiore è il grado di diversificazione, e quanto quindi una strategia è potenzialmente più efficace per ridurre il rischio, tanto maggiori sono i costi di controllo. Affinché una strategia di diversificazione produca valore per l’impresa, quindi, è necessario che questa scelta consenta di conseguire dei risultati che non potrebbe ottenere il singolo investitore con bassi costi di transazione sul mercato finanziario. Ciò si verifica quando operare in più settori consente di sfruttare meglio le risorse di cui l’azienda dispone. Il cuoa, la business school di Altavilla Vicentina, per esempio, svol© 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 95 Da Pampers a Pringles Procter & Gamble è uno dei leader mondiali nei prodotti di largo consumo e produce beni diversi che vanno dai pannolini Pampers alle patatine Pringles. Pur essendo il marchio una risorsa importante nel settore dei beni di consumo, in questo caso non si tratta della risorsa su cui l’azienda ha impostato la strategia di diversificazione. Anzi, è lecito ritenere che l’utilizzo di un marchio famoso come Pampers avrebbe potuto ostacolare invece che aiutare la vendita delle patatine Pringles. Le risorse sfruttate dall’azienda come base per costruire un portafoglio di prodotti che spaziano dalla pulizia per la casa agli snack, dai prodotti per l’igiene personale all’alimentazione per animali sono essenzialmente due: la relazione con i punti vendita, in particolare con la grande distribuzione che rappresenta lo sbocco obbligato per prodotti di questo tipo, e le competenze del suo management nel marketing dei beni di consumo. ge accanto al suo core business dell’attività formativa, di ricerca e di consulenza, quella di organizzazione di congressi. In questo modo riesce infatti a sfruttare meglio Villa Valmarana Morosini, la splendida villa settecentesca che utilizza come sede. Molto più spesso l’attività di diversificazione non si basa su risorse materiali ma su risorse immateriali. Il vantaggio di una diversificazione di questo tipo è rappresentato dal fatto che le risorse immateriali invece di consumarsi con l’uso a volte addirittura accrescono il loro valore con l’incremento di utilizzo. Aziende come Bulgari, Sixty, Gucci o Armani operano in settori profondamente diversi tra loro per quanto riguarda i processi produttivi e la maggior parte delle risorse fisiche impiegate, settori che spaziano dall’arredamento per la casa all’abbigliamento, dagli accessori ai profumi fino alla gestione di alberghi. Alla base della diversificazione c’è in questi casi lo sfruttamento della risorsa marchio che, quando usato in modo coerente, può aggiunge valore agli occhi del cliente anche quando viene utilizzato per commercializzare prodotti e servizi molto diversi. Come si vedrà più avanti in alcuni casi l’entrata in nuovi settori avviene per mezzo di alleanze con aziende che apportino le risorse necessarie per operare nei nuovi settori. Oltre al marchio, anche più in generale la reputazione dell’azienda presso la comunità finanziaria, gli interlocutori sociali, i clienti e i fornitori è una risorsa che può essere valorizzata in settori diversi. Un’altra risorsa che può essere sfruttata nelle strategie di diversificazione è rappresentata dalla relazione costruita coi canali distributivi, una relazione sempre più importante nello scenario attuale (Castaldo, 2005). È questa una delle risorse valorizzate nella strategia dei colossi del largo consumo come Procter & Gamble o Unilever, ed è una risorsa considerata anche da Morellato quando, di fronte a una flessione nel mercato del suo prodotto, i cinturini per orologio, ha deciso di diversificare nella gioielleria, un prodotto che viene venduto negli stessi punti vendita degli orologi. Nelle politiche di portafoglio vanno poi considerate anche strategie di carattere finanziario; se un’azienda opera in un settore che le consente di generare un’elevata liquidità, avrà minori difficoltà a investire in settori che assorbono notevoli risorse finanziarie. Per lo stesso motivo un’azienda cercherà di distribuire le sue attività tra prodotti maturi in grado di generare risorse finanziarie, con una base di clienti consolidata e un volume di acquisti stabile, e prodotti nuovi che garantiscano il futuro del© 2007, The McGraw-Hill Companies srl 96 Capitolo 3 Pepsi-Cola: una diversificazione vincente figlia di una sconfitta Alla metà degli anni ’90 la storia di copertina della rivista americana Fortune era dedicata a Pepsi, l’azienda perdente della guerra delle cole che dopo anni di battaglie non era riuscita ad arrivare che alla metà dei profitti e della capitalizzazione di borsa di Coca-Cola. Una decina di anni dopo, alla fine del 2005, lo scenario è però molto diverso e dopo un lungo inseguimento per la prima volta Pepsi supera la rivale per valore di borsa. Questo successo è in un certo senso figlio della sconfitta del suo prodotto principale: la Pepsi-Cola, che ha costretto Pepsi a cercare altrove le opportunità di crescita. Il portafoglio di attività di Pepsi comprende così Aquafina, il leader nel mercato delle acque, Gatorade, che ha una quota del mercato degli integratori che è oltre cinque volte quello del marchio di Coca-Cola Powertrade, grazie a una partnership con Starbucks domina il mercato del caffè pronto e, soprattutto, controlla il 60% del mercato degli snack con la divisione Frito-Lay. Questa diversificazione ha consentito di evitare le conseguenze di una riduzione del mercato delle cole, e in generale dei soft drink, che ha caratterizzato i mercati negli ultimi anni e che ha messo sotto alcuni aspetti in crisi il modello di business di Coca-Cola. l’azienda, anche se nel breve termine possono richiedere forti investimenti in ricerca o in marketing per sviluppare e far conoscere il prodotto, investimenti che non saranno bilanciati dalle entrate ancora esigue. Aziende che operano in settori in cui i flussi di cassa sono molto irregolari saranno poi tentate di bilanciare il portafoglio con attività in cui le entrate sono più regolari; era la strategia seguita da Seagram che affiancava alla casa di produzione cinematografica Universal la produzione liquori (Chivas Regal, Absolut Vodka e altri) e da Manchester United e Chelsea che affiancano alla gestione della squadra di calcio attività immobiliari e alberghiere. I principali motivi che guidano alla diversificazione che sono stati illustrati non sono in grado di spiegare la totalità dei processi di diversificazione osservabili nella realtà. Da tempo la letteratura manageriale (Berle e Means, 1933) ha infatti evidenziato come tra gli obiettivi perseguiti dalle imprese ce ne siano alcuni che si spiegano solamente in riferimento a finalità personali di chi prende le decisioni e questi possono influenzare le scelte di diversificazione. La crescita dell’impresa che deriva da un’espansione dell’ambito di attività, per esempio, si accompagna a maggiori retribuzioni per il management, ma anche a maggiore visibilità e potere per l’imprenditore e per chi le dirige. Solo in questo modo si spiega per esempio la diversificazione nel settore calcio da parte di diversi grandi gruppi italiani. 3.4.3 Integrazione verticale Le scelte di portafoglio riguardano la definizione dei confini dell’attività di un’impresa in senso orizzontale, tra le aree strategiche d’affari in cui decide di operare. Un caso particolare di diversificazione è rappresentato dall’integrazione verticale che riguarda invece la definizione di quali stadi della filiera produttiva presidiare. Loro Piana, produttore biellese di tessuti di alta qualità, ha deciso nel corso degli anni ’90 di raggiungere direttamente il consumatore finale e ha lanciato una propria linea di abbiglia© 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 97 Integrazione verticale Quando una catena di supermercati come Whole Foods Market acquisisce un fornitore di pesce come Select Fish per avere maggiori garanzie sulla freschezza dei prodotti che vende sui suoi scaffali si parla di integrazione verticale a monte. Quando invece un produttore di elettronica come Apple sviluppa una catena di negozi nei quali presentare ai consumatori finali i propri prodotti si parla di integrazione verticale a valle. In entrambi i casi si tratta di integrazione parziale dal momento che Whole Foods Market si serve anche di altri fornitori e Apple raggiunge i clienti anche attraverso negozi posseduti da altri. mento arrivando a gestire direttamente i negozi in cui questa viene venduta e configurandosi come un’azienda integrata verticalmente lungo la filiera tessile e abbigliamento. Nike, invece, ha tradizionalmente sempre operato come un’azienda “senza fabbriche”, limitandosi a progettare il prodotto e a gestirne la commercializzazione, ma senza impegnarsi direttamente in attività produttive. Il grado di integrazione verticale varia da settore a settore, e da impresa a impresa nello stesso settore, e cambia nel tempo anche per quanto riguarda la singola azienda. Il punto di partenza nelle scelte del grado di integrazione verticale è lo stesso delle strategie di diversificazione: occorre operare in quei settori in cui le risorse dell’impresa possono essere fonte di vantaggio competitivo. Gestire più fasi produttive comporta però l’effettuazione di investimenti, una minore flessibilità e soprattutto il sostenimento di costi di coordinamento e controllo che non sarebbero stati necessari operando sul mercato (Williamson, 1985). Non è detto poi che per appropriarsi del valore prodotto dalle proprie risorse sia necessario operare anche nelle fasi a monte o a valle: Intel non ha mai prodotto computer, ma questo non le ha impedito di beneficiare più degli stessi produttori di computer della crescita di diffusione dei pc, imponendo un prezzo elevato per i propri processori. Per questo motivo nella scelta del grado di integrazione verticale va data la precedenza al mercato (Collins, Montgomery, 1997). Non sempre però questo è possibile. In alcuni casi non è possibile determinare esattamente il valore dei beni scambiati, perché non esistono riferimenti sul mercato, perché sarebbe troppo costoso verificare il valore prodotto o perché la complessità e l’incertezza che caratterizzano lo scambio sono elevate, e le parti non sono libere di uscire dal rapporto perché hanno effettuato degli investimenti legati in modo specifico a tale scambio. In queste situazioni un contratto di mercato espone le parti della transazione al rischio che la controparte si comporti in modo opportunistico, cercando di appropriarsi di una fetta maggiore del valore prodotto; si parla quindi di un “fallimento del mercato” che rende necessario il ricorso ad altre forme di regolazione dello scambio. Nel settore dell’abbigliamento griffato nel corso degli anni ’80 la risorsa di valore era rappresentata dal marchio. Le aziende in possesso di un marchio famoso potevano concentrarsi sulla gestione della fase creativa e della comunicazione, lasciando svolgere ad aziende specializzate la produzione vera e propria. Nella seconda metà degli anni ’90, però, consumatori più attenti alla qualità intrinseca del capo e una compres© 2007, The McGraw-Hill Companies srl 98 Capitolo 3 Perché Benetton ha cominciato a gestire direttamente i negozi? Il modello di business che ha fatto la fortuna di Benetton è stato tradizionalmente basato sulla partnership con imprenditori indipendenti che sceglievano di investire per aprire dei punti vendita monomarca Benetton. Negli ultimi anni però l’azienda ha scelto di integrarsi a valle, gestendo direttamente un certo numero di punti vendita. Attraverso il controllo diretto dei negozi Benetton conta infatti di poter avere un flusso di informazioni sul consumatore più rapido e non mediato da soggetti terzi, un aspetto critico in un mercato della moda sempre più imprevedibile e caratterizzato da cambiamenti repentini. Il possesso dei negozi consente inoltre di veicolare al consumatore un mix di offerta coerente e di poter gestire in modo più efficace le iniziative di marketing nel punto vendita. Il canale diretto infine è indispensabile per penetrare mercati nei quali l’investimento è particolarmente ingente o troppo rischioso. Si tratta in ogni caso di un’integrazione a valle parziale nel senso che l’azienda ci ha sempre tenuto a precisare che la rete diretta non è destinata a sostituire la rete indiretta. sione dei tempi di produzione delle collezioni hanno aumentato l’importanza delle competenze produttive. Si pone quindi il problema di determinare in sede contrattuale il valore dell’apporto delle aziende produttrici, che spesso hanno acquisito un ruolo chiave nel processo di industrializzazione e a volte anche sviluppo della collezione, rispetto alle aziende proprietarie del marchio. Il maggiore coinvolgimento nella fase di sviluppo e industrializzazione ha comportato per le aziende produttrici un investimento specifico in conoscenze dei desideri e delle caratteristiche stilistiche della collezione che andrebbe in parte perduto se il rapporto si interrompesse, e d’altra parte per l’azienda proprietaria del marchio questo comporta una minore sostituibilità del partner produttivo. Le risorse possedute dalle aziende produttrici e dagli stilisti diventano così complementari e cospecializzate, nel senso che il valore prodotto utilizzando in modo congiunto tali risorse è maggiore di quello ottenibile utilizzandole in modo indipendente (Teece, 1987) e non è facile determinare contrattualmente un prezzo per le prestazioni dei due partner. La conseguenza per il settore è un processo di integrazione nel quale aziende proprietarie di marchi come Armani e Dolce & Gabbana acquistano imprese produttrici, mentre aziende produttrici come Aeffe e Ittierre acquistano aziende proprietarie di marchi (Cappellari, 2000). 3.4.4 Le alleanze L’acquisto sul mercato, l’acquisizione di un’azienda o lo sviluppo interno delle attività non sono le uniche alternative per garantirsi l’accesso a risorse necessarie per sviluppare la propria offerta. Un’alternativa è rappresentata dalla scelta di allearsi con un’altra impresa. Le alleanze possono assumere forme organizzative diverse (Turati, 1997; Williamson, 1985), e in particolare possono basarsi su scambi azionari (e si parla in questo caso di alleanze equity), oppure possono essere di tipo nonequity e avere una forma contrattuale o anche semplicemente sociale, come uno scambio di risorse sulla base della fiducia reciproca. Tra le alleanze equity assumono particolare rilievo per l’importanza che assumono e per la complessità gestionale che le caratterizza, le joint venture, che si realizzano quando le aziende coinvolte © 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 99 Licenze e occhiali Bulgari, Roberto Cavalli, Giorgio Armani, Etro e Gianfranco Ferrè possiedono dei marchi noti e competenze creative per la loro valorizzazione in settori diversi. Non possiedono però competenze legate alla produzione di occhiali né un adeguato accesso ai canali dove questi sono distribuiti. Per accedere a queste risorse hanno quindi formato delle alleanze rispettivamente con Luxottica, Marcolin, Safilo, De Rigo e Allison, le cinque aziende italiane leader mondiali nella produzione di occhiali griffati. Queste si occupano di produrre e commercializzare gli occhiali contrassegnati da marchi prestigiosi pagando alle aziende proprietarie dei marchi royalties calcolate in percentuale sulle vendite (di solito attorno al dieci per cento). L’esempio dell’occhialeria evidenzia come le diverse forme di alleanza, equity e non equity, possano anche sovrapporsi: spesso agli accordi di licenza si affiancano delle partecipazioni delle aziende degli stilisti nel capitale dei produttori di occhiali. danno vita a una nuova azienda autonoma all’interno della quale mantengono una partecipazione. Alleanze di tipo nonequity che hanno una diffusione notevole sono gli accordi di franchising e di licencing. I primi sono quelli che caratterizzano aziende di settori diversi da Jolly Hotel a Burger King, da Stefanel a Tecnocasa. In questi casi le risorse possedute da un’azienda consistono nel marchio e nel know how sulla gestione del business, mentre le risorse conferite nell’alleanza dal partner consistono in risorse finanziarie, capacità imprenditoriali nella gestione dell’impresa e conoscenza del mercato locale in cui si sceglie di operare. Gli accordi di licencing sono tipici di settori come la moda, il food o i videogame. In questo caso un’azienda concede a un’altra l’utilizzo del proprio marchio per la realizzazione e spesso anche la commercializzazione di una determinata categoria di prodotti. Come si è visto, per esempio, i nuovi videogame sono caratterizzati da elevati costi di sviluppo; le aziende produttrici cercano allora di diminuire i rischi di un insuccesso di mercato acquisendo la licenza di film di successo o di atleti o squadre sportive famose. L’accelerazione dell’innovazione tecnologica e la crescita di nuovi mercati che hanno caratterizzato gli ultimi lustri, hanno reso ancora più centrale la diffusione delle alleanze tra imprese come scelta strategica fondamentale (Pellicelli, 2005). I confini dei settori si spostano rapidamente, le competenze strategiche mutano e le aziende hanno bisogno di avere accesso a risorse che non hanno sviluppato nei loro tradizionali percorsi di crescita. In questo caso, se non si ritiene possibile (o anche solo efficiente) sviluppare tali risorse internamente in tempi brevi, l’alternativa è quella di ricorrere alle risorse di un’altra impresa. Un esempio è rappresentato da catene di punti vendita come Toys“R”Us (specializzato nei giocattoli), Nordstrom (abbigliamento di fascia alta) e Target (ipermercati) che per sviluppare le vendite anche on line si sono alleati con Amazon, sfruttandone le competenze maturate nel settore e il traffico generato dal suo sito. Nell’alleanza tra Amazon e la catena di librerie Borders, inoltre, si generano notevoli sinergie nella gestione dei flussi di merci. Quando Morellato ha iniziato a operare nel mercato dei gioielli easy to wear, ha fatto ricorso ad alcune alleanze per integrare le proprie competenze e operare con effi© 2007, The McGraw-Hill Companies srl 100 Capitolo 3 cacia nel nuovo settore. Con Silmar, storica azienda orafa vicentina, è stata creata Molecole, alleanza dedicata alla realizzazione di gioielli nella quale alle competenze di marketing e distributive di Morellato si aggiungono le competenze legate all’ideazione e allo sviluppo del prodotto detenute da Silmar. Una seconda partnership significativa è quella con Italian Luxury Industries, un gruppo specializzato nei prodotti di lusso made in Italy al quale appartiene anche la veneziana Venini. La società, chiamata Paradigma, è stata fondata per gestire progetti di realizzazione di gioielli su licenza, aggiungendo l’esperienza nella gestione delle licenze maturata in precedenti esperienze professionali dal management di Italian Luxury Industries, alle risorse di Morellato sul versante distributivo. Il primo successo della nuova alleanza è stato il lancio dei gioielli Miss Sixty, prodotti su licenza del Gruppo Sixty. Il ricorso ad alleanze è anche frequente quando si desidera penetrare un nuovo mercato sul quale non si possiedono sufficienti conoscenze. In questo caso l’alleanza coinvolge un partner locale in possesso di tali conoscenze e di un accesso ai canali distributivi. È quanto accade per esempio con una gran parte delle aziende italiane impegnate nella conquista dei mercati dell’estremo oriente. Individuare il partner giusto e stipulare un’alleanza che consenta potenzialmente una valorizzazione delle risorse delle aziende coinvolte è solo il primo passo da compiere, e probabilmente non il più complesso. Va ricordato che i problemi maggiori si incontrano poi nella gestione dell’alleanza e nella capacità di promuovere la collaborazione tra aziende con culture diverse (Turati, 1997; Pellicelli, 2005). Per questo motivo la capacità di sviluppare alleanze può essere essa stessa una risorsa fonte di vantaggio competitivo (Barney, 2002), difficile da replicare per i concorrenti a causa della sua complessità sociale. 3.4.5 Gestione del capitale intellettuale Tra le scelte strategiche fondamentali un accenno va dedicato infine alla gestione del capitale intellettuale. In un’impostazione tradizionale il tema del management delle risorse umane è “relegato” al ruolo di strategia di livello funzionale (Hax, Majluf, 1996), ma una parte sempre più consistente della letteratura manageriale (Costa, Gianecchini, 2005; O’Reilly, Pfeffer, 2000) ha messo in evidenza come le scelte di gestione delle risorse umane rappresentino ormai un elemento costitutivo della strategia aziendale complessiva e non meramente una conseguenza della strategia. Come si è visto, inoltre, anche nell’impostazione di Coda (1988) la strategia sociale riveste un ruolo pari a quello della strategia competitiva nel caratterizzare la formula imprenditoriale dell’azienda e si può quindi affermare che “non esiste un’idea imprenditoriale innovativa, destinata a produrre uno sviluppo sostenibile nel tempo, che non abbia in sé anche un’idea innovativa per la scoperta, la crescita e la valorizzazione delle persone chiamate a realizzarla” (Costa, Gianecchini, 2005, p. 1). Le ragioni di questa criticità possono essere ricondotte a due ordini di motivi. Da un lato si è visto che tra le risorse fonte di vantaggio competitivo un ruolo preponderante è rivestito dal capitale intellettuale, come insieme di conoscenze, relazioni, capacità organizzative che sono in gran parte legate alle persone che collaborano nell’impresa. La strategia dell’impresa deve quindi mirare a fare in modo che le persone siano portate a “sciogliere” e utilizzare le proprie conoscenze, competenze, e capacità perché senza il loro contributo intelligente e attivo non è possibile incre© 2007, The McGraw-Hill Companies srl Le strategie aziendali 101 mentare il capitale intellettuale. La gestione delle risorse umane ha quindi un ruolo centrale nell’apprendimento organizzativo e nella generazione delle più preziose risorse aziendali. Il secondo ordine di motivi può essere ricondotto alla “riscoperta” dell’importanza della realizzazione della strategia rispetto alla fase di formulazione (Pfeffer, Sutton, 1999). È stata proposta a questo proposito un’efficace analogia con il gioco del poker (Becker et al., 2001), secondo la quale la scelta strategica è come lo stile di gioco, ma le risorse umane di cui si dispone sono come le carte che ci si trova in mano: anche una grande strategia porta pochi risultati se le carte sono sempre scadenti. I temi centrali affrontati dalla gestione delle risorse umane sono analizzabili su due piani strettamente collegati. In primo luogo è necessario “vincere la guerra dei talenti”, essere in grado cioè di attrarre, trattenere e motivare persone di qualità. Naturalmente le caratteristiche delle risorse umane in grado di implementare con successo una strategia saranno diverse da azienda ad azienda, ma c’è accordo sul fatto che le persone in grado di fare la differenza rappresentano oggi una risorsa scarsa. Le strategie messe in atto dalle aziende per raggiungere questo obiettivo sono diverse e, come si è visto con riferimento ai casi Microsoft e Google, le politiche retributive sono solo uno dei numerosi aspetti coinvolti. Molto più importante è riuscire a far nascere un senso di orgoglio per l’appartenenza a un’impresa. Si tratta di una caratteristica che non è propria solo delle imprese dei settori innovativi, ma che caratterizza anche aziende di successo in settori tradizionali, da Forall a Diesel a Ferrari. Godere di una reputazione eccellente come datore di lavoro come Giorgio Armani, Barilla, Ferrari; Banca Intesa o Procter & Gamble, aziende che risultano tra le più ambite dai neolaureati in economia italiani, rappresenta quindi una risorsa strategica. Diffidare delle ricette: Cisco Systems e SAS Institute Tra le caratteristiche che hanno consentito a Cisco Systems di amalgamare nella sua cultura le aziende acquisite c’è il senso di proprietà e di lealtà verso l’azienda che pervade tutti i dipendenti. Questo risultato è stato ottenuto sul versante del sistema di ricompensa con una notevole diffusione delle stock option, possibilità di acquisto delle azioni dell’azienda a un prezzo predefinito. Nello stesso tempo la struttura retributiva è notevolmente appiattita: le retribuzioni del top management sono appena il venticinque per cento della media del settore e in generale il management percepisce retribuzioni a sconto di oltre il trenta per cento sui competitors. Lo stesso risultato viene raggiunto in modo molto diverso da SAS Institute, una software company che si colloca da anni nelle prime posizioni nella classifica annuale di Fortune sui migliori posti in cui lavorare. SAS si caratterizza per un ridotto ricorso alla leva retributiva secondo il principio che “la lealtà è più importante del denaro”. L’azienda non ricorre a stock option e ha abbandonato la valutazione della performance individuale e i sistemi di incentivazione. Dove l’azienda largheggia è invece negli investimenti nel piano pensionistico e nei famosi benefit per favorire la vita familiare. In un settore che si muove sempre più veloce, l’azienda è fiera di spiegare che i suoi dipendenti non lavorano mai più di 35 ore settimanali (Fonte: Pfeffer e O’Reilly, 2000). © 2007, The McGraw-Hill Companies srl 102 Capitolo 3 La seconda sfida che affronta la gestione delle risorse umane consiste nel saper valorizzare più dei concorrenti la dotazione di risorse di cui si dispone. Se è importante acquisire risorse di talento, altrettanto importante è riuscire a ottenere risultati straordinari con persone normali grazie alle superiori capacità organizzative (O’Reilly, Pfeffer, 2000). Obiettivo delle strategie di gestione delle risorse umane consiste quindi nel creare un capitale sociale, un insieme di relazioni di fiducia, di comprensione reciproca, di valori condivisi che favoriscano la cooperazione tra le persone (Cohen, Prusak, 2001; Costa, Gianecchini, 2005) e spingano le risorse a dispiegare le proprie potenzialità. Le politiche messe in atto per raggiungere questi risultati sono diverse, dall’enfasi sulla coerenza con la cultura aziendale in fase di reclutamento e selezione posta da ups, al peso assegnato all’anzianità nel determinare le retribuzioni alla Southwest Airlines, alla possibilità di ottenere stock option per tutti i dipendenti di Vodafone. Studiando i modelli di gestione delle risorse umane adottati dalle aziende eccellenti ci si imbatte in aziende che seguono approcci anche diametralmente opposti (Cappellari, 2002), per cui risulta impossibile, oltre che poco produttivo, cercare di individuare le ricette del successo nelle strategie di gestione delle risorse umane. In primo luogo è necessario che ci sia coerenza tra strategia di gestione delle risorse umane e strategia aziendale, tra business idea e personnel idea (Normann, 1977). Il vantaggio competitivo poi non può risiedere nell’adozione di una singola politica o di un singolo strumento, perché questo sarebbe facilmente imitabile dai concorrenti, ma nello sviluppare un sistema di politiche di gestione delle risorse umane coerente internamente e integrato con la cultura aziendale. © 2007, The McGraw-Hill Companies srl