LA BIBBIA SECONDO BORGES
in occasione del Cort il e dei Gentili in Argentina a Buenos Aires e a Cordoba, un test o de l
Card. Gianfranco Ravasi
Sabbia co me pi etra
È per m erito di Borges che anch’io ho so gn at o Buenos Aires, la sua città nella quale è
sbocciata la sua vena poetica, quand o ne l 1923 comporrà Fervor de Buenos Aires . La
parabola letteraria borgesiana si leve rà poi an che nel cielo di altre nazioni e si spegne rà
in Europa, a Ginevra con l’ultima opera Los co njurados (1985), ove in filigrana appariva la
Confederazi o ne el veti ca, ultimo suo ap pr odo. Or a che miei piedi calcano la terra argentina ,
il sogno cont inua a svolgersi perché la Buenos Aires di Borges conserva ancora u n
carattere magico che non è sostituito d alla r ealtà storica presente. È ciò che esprime la
poesia Las calles che funge da incipit alla r accolta poetica:
«Ormai le stra de di B uenos Aires
sono le viscere dell a mia anima.
Non le strade veement i
molestate da smanie e trambusti,
ma la dolce s trada della periferia
trepida di penombra e di crepuscolo
e quelle fuori mano
prive di alberi pietosi
dove austere casette s’avventurano appena».
Quella che ora vorrei proporre non è un’e seg esi critica di Borges che, per altro, ha g ià
uno stuolo immenso di interpreti, pront i a esercitarsi su una produzione letteraria molto
mobile e simile a un arcobaleno. È piut tost o la testimonianza di un lettore appassio nato
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che non ha mai incont rato personalmente lo scrittore, anche se per due volte – attrave rso
suoi amici italiani come Domenico Por zio e Fr anco Maria Ricci – il contatto fu ravvicin a to,
ma poi sfumat o per ragioni esterne. I l m io incontro è, quindi, legato alle sue pagin e e
all’autoritratto che da esse affiora, un pro filo f luido e incomprimibile nello stampo fre ddo
delle parole perché «l’ universo è fluido e mu tevole, il linguaggio rigido». Una fisionomia,
la sua, segnata dal la mobilità di un eclet t ismo nobile, erede della curiositas insonne d ella
classicità latina.
Per quest o ci si sente catturati e a lla f ine imprigionati, come scriveva José Ma ría
Poirier, dalla «ragnatel a del suo soave scett icismo, dal suo farraginoso enciclopedismo,
dal suo ecumeni smo ecl ettico». Immer si n el suo mondo ci si trova sballottati tra sto ria e
mito, anche perché per lui «forse la storia universale è la storia di un pugno di metafore » ,
anzi, «la storia universale è quella di un solo uomo».
In uno dei 24 brani in prosa, posti accant o a lle 29 poesie dell’Artefice (1960), emblem atica
è la parabol a che i ntreccia l’universo este rno e l’io personale:
«Un uomo si p ropone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni
popola uno spazio con immagini di pro vince, di regni, di montagne,
di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di ca se, di strumenti, di astri, di
cavalli e di persone. Poco prima di m or ire, scopre che quel paziente
labirinto di lin ee t raccia l’immagine de l suo volt o».
Per sino il tempo che scorre inesor ab ile apparentemente all’esterno di noi, è in
realtà in noi, anzi è il nostro io, come si af ferm a nelle Altre inquisizioni (1952):
«Il tempo è la sostanza di cui sono fat to. Il t em po è un fiume che mi
trascina, ma io sono il fiume; è una tigr e che m i sbrana, ma io sono
la tigre; è un f uoco che mi divora, ma io sono il fuoco».
È per questo, al lora, che – come si le gg e n ei Congiurati – «non c’è un istante che no n sia
carico come un arma».
Per Bor ges le frontiere sono sempre mobili ed esili: non c’è mai una cortina di ferro
tra verità e finzione, tra veglia e sogno, tr a realtà e immaginazione, tra raziona lità
e sentimento, tra essenzialità e ram if icazion e, tra concreto e astratto, tra teologia e
letteratura fant asti ca, tra icasticità anglosa ssone ed enfasi barocca… Le due para bole
gemelle che chi udono i l Discorso del la M onta gna di Gesù ( Matteo 7,24-27), ove di sce n a
sono i due c ostruttori antitetici sulla r occia e sulla sabbia, vengono così ribaltate ma
neanche sme nti te da Borges nel suo pr og ram ma esistenziale e letterario globale: «Nu lla
si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, m a d obbiamo edificare come se la sabbia fo sse
pietra». E alla fine fiorisce il paradosso su pr emo: «La vita è troppo povera per non essere
anche imm ortale».
L’ossimoro dell a fede di Borges
Ma lasciamo l’ori zzonte così sconfin at o della Weltanschauung di Borges per puntare in
modo molto semplificato e quasi “impr essionistico” su uno spicchio molto rilevante d e lla
sua biografia e della sua opera, quello del t em a religioso. Il mio personale approccio a l
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grande scrittore argentino fu innanzitut to guida to proprio da questa urgenza che premeva
in m olti suoi scrit ti e, anche se spesso il mio contatto è avvenuto attraverso le traduzion i,
mi confor tava la curi osa battuta che Borg es aveva usato riguardo alla versione di W.
Beckfor d eseguita da W.E. Henly: «L’or igina le è infedele alla traduzione» (così in Sob re el
‘Vathek’ di Wil li am Beckford ), riconoscendo u na sorta di primato alla resa interpretativa.
Dopo tutto era stato ancora lui a rivoluzio na re persino il rapporto tra scrittura e lettu ra:
«Altri m enino vanto delle parole che hanno scritto; il mio orgoglio sta in quelle che h o
letto».
E nelle sue let ture un primato indiscusso f u qu ello assegnato alla Bibbia come lui stesso
aveva confessato a María Esther Vázquez: « Devo ricordare mia nonna che conosce va
a memoria la Bibbia, in modo che posso essere entrato nella letteratura attraverso la
via dello Spirito S anto». La nonna pate rna, Fanny Haslam Arnett, era infatti inglese e
anglicana osservante ed era stata lei a iniziare il piccolo Jorge Luis alle Scrittu re e
alla lingua ingl ese alt a. In una confere nza tenuta a Harvard nel 1969, dedicata all ’ Arte
di raccontare stori e , B orges, esaltando l’ep ica come la forma più antica della poesia ,
riconduceva a un t rittico le opere cap it ali per l’umanità: «l’ Iliade, l’ Odissea e un terzo
“poema” che spicca notevolmente sugli altr i: i quattro Vangeli… Le tre storie – quella d i
Troia, di Ulisse e di G esù – sono bast at e all’umanità… Ma nel caso dei Vangeli c’è u n a
differenza: credo che la storia di Cristo no n possa essere narrata meglio».
I Vangeli, quindi, si rivelano come una sort a di canone supremo che non è passibi le di
altra erm eneu ti ca se non quella della “ r i-scr ittura” letterale o al massimo del ricorso a lla
deriva dell’apocri fo o all’alterazione a ca leido scopio. Famosa in quest’ultimo senso è la
metamorfosi operata nella poesia Cristo in croce ove Gesù diventa il “terzo crocifisso” e
non più quello centrale:
«Cristo in croce. I piedi toccano terra.
Le tre croci sono di uguale altezza.
Cristo non sta nel mezzo. Cristo è il terzo …».
Inoltre per Borges i l linguaggio poe tico è analogo a quello sacro; è frutto di un’
“ispirazione” trascendente, un po’ come ave va intuito già la Bibbia che usava la stessa
radice verbale che definisce il profeta (nb ’) per designare l’arte musicale dei cantori de l
tempio ( 1Cronache 25, 1). Dichiarava Bor ge s nella sua Professione di fede letteraria: « De l
mio cr edo letterario posso affermare ciò ch e vale per quello religioso: è mio perché cre do
in esso, non p erché i nventato da me». A quest o punto prima di esemplificare il suo con tatto
profondo con l a Bi bbia, oggetto per a lt ro d i un ’ampia bibliografia, è legittimo interroga rci
sulla “fede” di B orges, al di là della con sue ta etichetta di “agnostico” assegnatagli da lla
vulgata criti ca . Quest’ultima, però, si t ro va co stretta subito a una serie di precisazio ni,
anche per ché – come sopra si diceva – l’e clett ismo, la curiositas , la fluidità ideale d ello
scrittore obbligano i suoi interpreti a cont inue r ettifiche.
Significativa è l a definizione applicat agli da un importante e simpatetico scrittore co me
Leonardo Sciascia: «È i l più grande t eo logo d el nostro tempo: un teologo ateo». Qu esto
ossimoro era svil uppato da un altro su o am mir atore e collega, John Updike, così: «S e il
cristianesimo non è morto in Borges, è però in lui sopito e sogna capricciosamente. Borges
è un pr ecristiano che il ricordo del crist ia ne simo riempie di premonizioni e di orrore». Certo
è che una preoccupazi one metafisica per il tr ascendente corre come un brivido per tu tta
l’opera borgesiana ed è qualcosa di più d i quella “consolazione della filosofia” alla Boezio
che gli attr ibuiva Lui s Harss. Infatti qui si conferma quell’oscillazione tra poli estremi
che abbiam o già sott oli neato. A differ enza dell’abbé Cénabre dell’ Imposture di Georg e s
Bernanos che dall’assenza piombava nel n ulla e nel vuoto della negazione pienamente
atea, Borges cost antemente oscilla tra a ssen za e presenza, tra sogno e verità. Scrive va
infatti: «Nelle crepe D io è celato e att ende… Dio mio sognatore, continua a sognarmi».
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In questa luce si spiegano tante sue af ferm azioni che interrogano la religione nelle fo rme
più diver se, spesso in modo folgorante, come nella battuta dell’Aleph (1949), per la q uale
«morire per u na reli gione è più semplice che viverla con pienezza». O ancora second o il
suo gusto della ritrascrizione dei detti evangelici variandoli, l’appello alla carità, mode llato
sulla scia dell a f rase di Gesù ignota ai Van ge li e citata da san Paolo «c’è più gioia ne l
dare che nel ricevere» (Atti 20,35) viene d a Bor ges trasformata così: «Chi dà non si p riva
di ciò che dà. Dare e ricevere sono la st essa cosa». Oppure si può rimandare alla tension e
verso un’epifani a che regge l’Attesa:
«Anni di soli tudi ne gl i avevano insegnato che i giorni, nella memoria,
tendono a uguagl iarsi, ma che non c’è un gio rno, neppure di carcere o
di ospedale, che non porti una sorpresa, che non sia, in controluce,
una rete di m inime sorprese».
Impressionante i n questo suo itinerario ne ll’orizzonte della religione (non di rado di scen a
sono “le religioni”, anche se un primato è assegnato sempre al cristianesimo) è il suo
ritratto del filosofo B aruch Spinoza, colto n el tentativo di “pensare Dio” attraverso un a
concezione dai risvolti panteistici, e di farlo “con geometria delicata”, evidente allusio n e
a una delle sue opere più note, l’ Ethica m or e geometrico demonstrata. Ecco alcuni versi
di quell’abbozzo:
«Qualcuno costrui sce D io nella penombra .
Un uomo genera D io. È un ebreo
dai tristi occh i e dal la pelle citrina;
lo porta il tempo come porta il fiume
una foglia che, nel l’ acqua che declina ,
non impor ta. Il mago insiste e scolpisce
Dio con geomet ria delicata;
dalla sua malattia, dal suo nulla,
continua a erigere D io con la parola…» .
L’anguilla di G iobbe
Ora, però, la sciamo questa regione specifica eppure vasta del panorama letterario e d
esistenziale di Borges per puntare a un perimetro più ristretto eppure particolarmente
ricco di sollecit azioni , tant’è vero che qui si è esercitata una piccola legione di stud iosi.
Intendiamo r iferirci alla già menzionata passion e dello scrittore per la Bibbia. In una delle
Siete conversaciones con Borges Fer na nd o So rrentino (1996) citava questa dichiarazione
dello scrittore : «Di tut ti i libri della Bibbia qu elli che mi hanno impressionato sono il libro di
Giobbe, l’ Ecclesiaste e, evidentement e, i Va ng eli». Il nostro percorso sarà solo evocativo
procedendo per esempl ificazioni, sop ratt utt o r iguardo ai Vangeli che hanno costituito u n
referente cap it ale per Borges. È indiscu tibile, comunque, che la Bibbia abbia offe rto
a Borges una speci e di lessico tematico, simbolico, metaforico, archetipico e persin o
stilistico- retori co.
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Nell’Antico Te stamento l a predilezione va al libr o di Giobbe a cui l’autore dedicò, tra l’altro,
una conferenza all’ “Ist ituto de Intercamb io Cult ural Argentino-Israelí” di Buenos Aire s, il
cui testo venne raccolto nel 1967 nell e sue Co nf erencias . D’altronde egli aveva scritto una
prefazione alla Exposi ción del Libro de Jo b di Fray Luis de León , un classico spagnolo de l
“siglo de oro” a lui part icolarmente car o. Si deve riconoscere che Borges coglie un nu cleo
ermeneutico significativo di quest’ope ra b iblica. Essa è così proteiforme da meritarsi il
giudizio acuto di s. Girol amo: «Interpre tare Giobbe è come cercare di afferrare un’ang uilla
o una piccola murena: più la string i, più ti sfugge di mano». Una caratteristica ca ra
ovviamente a un autore così sfuggente e r ef ra ttario a ogni classificazione come Borg es.
Ebbene, egl i cent ra la sua analisi sull’a pice d el libro biblico, cioè sui due discorsi fin ali
divini dei c c. 38-39 e 40-41: in essi Dio prospetta a Giobbe attraverso la tecn ica
dell’interr ogazione e del mistero, l’e sist en za di un ordine trascendente che riesce a
comporre in uni tà la tot alità del essere e dell’e sistere attraverso una ‘esah, un “progetto”.
Si tratta, quindi , non di un’irrazionalità assurd a e fatale che compone gli antipodi de lla
realtà in modo casual e, bensì di una me tara zionalità che è sostenuta, dunque, da una
logica trascendente e inscrutabile. Per q ue sto Giobbe ha ragione di protestare pe rché
essa deborda dal la razionalità umana lim it at a, ma al tempo stesso ha il torto di applica re
e di imporre ad essa la sua circoscrit t a capacità “visiva” un po’ come accade a ch i –
contemplando un capolavoro pittorico – si f er ma solo all’analisi delle pennellate o d e i
riquadri di colore, senza rivolgere uno sguar do panoramico all’opera.
Sarà, quindi, solo per ri velazione divin a ( che è appunto lo sguardo d’insieme) che Gio bbe
potrà comprendere la collocazione de l su o dolore nell’infinito disegno della ‘esah divin a:
«Io ti conoscevo per sentito dire, i miei occhi ora ti hanno visto», confesserà alla fine
(42,5) il grand e sofferente. Gli enigmi del cosmo e della storia si sciolgono solo in que sta
prospettiva trascendente, ove appunt o si po siziona anche l’enigma tematico del lib ro,
quello del ma le e del dolore.
Assassino Caino o A bele?
Sopr a si diceva che accanto a Gio bb e, Bor ges confessava di amare anche Qohele t/
Ecclesiaste. Ciò è comprensibile, co nsider at o il taglio critico di questo autore bib lico,
convinto che tut ta l a realtà sia hebel, cioè vuot o, fumo, vanità (1,1; 12,8), che la storia no n
sia che un’incessante ruota di eventi re it er at i, che «grande sapienza è grande tormen to
perché chi più sa più soffre» (1,18) e ch e «t utt e le parole sono logore e l’uomo non p uò
più usarle» (1,8).
Questo fa comprendere che – pur n ella r arità delle citazioni esplicite (ricordia mo
soprattutto la poesi a Eclesiastés I,9 pre sen te in La cifra (1981), che è basato sul cele bre
motto qoheletico “N on c’è nulla di nuo vo sot to il sole”, reso da Borges come “Nada ha y
tan antiguo bajo el sol”) – l’Ecclesiaste possa essere stato un compagno di viaggio nelle
esplorazioni esistenziali dello scrittore , come attesta la tesi Borges, lector de Qohe let d i
Gonzalo Sal v ador Vél ez (Institut Univer sit ar i de Cultura, Barcelona 2004).
L’orizzonte borgesi ano anticotestamen tario p er lustrato da Edna Aizenberg nel suo s tudio
Borges, el tejedor del A leph y otros e nsa yos; del hebraismo al poscolonialismo (Vervu ert
Iberoam ericana, Frankfurt am Main – Madrid 19 97), potrebbe infine essere illustrato an ch e
da un’altra pe ricope biblica che a più r ipr ese stimolò lo scrittore e che da lui è affron tata
– potrem mo dire – in modo qoheletico.
Intendiamoci rif erirci al racconto di Caino e Ab ele (Genesi 4,1-16) che ebbe un’evocazio n e
poetica in una breve composizione de La r osa profunda (1975) intitolata – come spe sso
ama fare Borges ricorrendo alle citazioni bib liche – Génesis IV,8:
«Accade nel primo deserto.
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Due braccia scagliarono una gran piet ra .
Non ci fu un grido. C i fu sangue.
Ci fu per la prima volt a l a morte.
Non ricordo se ero Abele o Caino»
Accanto ad essa si deve, invece, colloca re la più ampia ripresa di questa scena bi blica
presente nell’ El ogio dell’ombra (1969) ove i due fratelli si incontrano di nuovo dopo la
morte di Abele in una atmosfera dal taglio escatologico, anche se la scena è ambien tata
nel deserto e alle origini del mondo. Si siedono, accendono un fuoco, mentre scend e il
crepuscolo e l e stelle, ancora senza no me, si illuminano in cielo. «Alla luce delle fiamme
Caino notò su ll a f ronte di Abele il segno d ella pietra e, lasciando cadere il pane che stava
per por tare alla bocca, chiese che gli f osse pe rdonato il delitto. Abele rispose: “Tu mi ha i
ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più: st iamo qui insieme come prima”. “Ora so che mi
hai perdonato – di sse Caino – perché diment icare è perdonare”. Abele disse lentam ente :
“È così. Finché dura il ri morso dura la co lpa”» .
C’è chi ha visto in questo testo una concezion e morale relativistica per cui si opera u n o
slittamento insensi bil e tra bene e male , vero e f also, virtù e vizio. In realtà, qui si assiste
piuttosto a quel processo di ribaltam en to o di alterazione che sopra abbiamo indica to
e che B orges conduce per mostrare le inf in it e potenzialità di un testo archetipico. E sso
è passibile di continue ritrascrizioni e , in qu esto caso, l’approdo è a una celebrazio ne
paradigmatica del perdono che elide t ot alment e il delitto: attraverso l’oblio si cance lla la
vendetta e qui ndi la colpa altrui, che così vien e dissolta. Rimane, certo, sempre in azio ne
la fluidità della realtà umana storica e quin di etica che invano – agli occhi di Borges – la
parola anche “ispirat a” cerca di comprim er e in asserti definitori e definitivi.
Fino agli «ul timi passi sulla terra»
«La nera barba pende sopra il petto.
Il volto non è il volto dei pittori
È un volto duro, ebreo.
Non lo vedo
e insisterò a cercarlo
fino al giorno
dei miei ultimi passi sulla terra».
È or mai nel crepuscol o della sua esiste nza q uando Borges scrive questi versi del Cristo
in cr oce datandoli “K yoto 1984”. Sono ver si di alta tensione spirituale, da tutti cita ti
quando si vuole definire il suo rappor to col Cr isto, un incontro atteso ma non avvenu to in
maniera piena, fermo restando che “l’ultimo suo passo sulla terra” a noi è ignoto. Ma ria
Lucrecia Romera scriveva che «Borges af f ront a il Cristo tragico della Croce… e non que llo
dottrinario [te ologi co] della Risurrezi on e… La sua non è l’ottica della fede del crede n te,
ma dell’ inquietudine del poeta agn ost ico ». Tuttavia bisogna subito aggiungere ch e a
Borges per certi versi si adatta la consid er azio ne generale che faceva lo scrittore france se
Pierre Reverd y: «Ci sono atei di un’a spr ezza f eroce che s’interessano di Dio molto p iù
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di cer ti credent i fri voli e leggeri». B or ges non aveva assolutamente “l’asprezza feroce”
dell’ateo, ma la sua era una ricerca cer tame nte più intensa di quella di molti cre den ti
pallidi e incol ori. La sua era un’ inquiet ud ine pr ofonda, celata sotto la scorza di un de ttato
compassato e venato di distacco se no n di ironia.
Questa ricerc a è spl endidamente illustr at a in un famoso testo dell’Artefice intitolato con u n
rimando a un altro grande amore borgesia no , Dante, Paradiso, XXXI, 108. Nel contesto di
quel ver so il poeta f iorentino rappresen tava appunto «l’antica fame non sen sazia» di chi,
contemplando l’immagine di Cristo sta mpat a sul velo della Veronica custodito in S. Pie tro
a Roma, si ch iedeva: «Signor mio Gesù Cristo , Dio verace, / or fu sì fatta la sembian za
vostra?» (vv. 107-108). Da questo spunto Bor ges crea la sua riflessione che procede da l
fatto che del volto di Cristo non abbiam o ne ssun ritratto nei Vangeli, tant’è vero che n ei
primi secoli cri sti ani l’arte oscillò tra un G esù affascinante sulla scia simbolica del Sa lmo
messianico 45, «Tu sei il più bello tra i f igli dell’uomo» (v.3), e un Gesù repellente sulla
falsariga del S ervo messianico del Sig no re cantato da Isaia come figura che «no n h a
bellezza capace di att irare i nostri sgu ar di o sp lendore che generi piacere» (53,2).
Ecco allora, l’intuizione di Borges: il volto d i Cristo è da cercare negli specchi o ve si
riflettono i visi umani. Tra l’altro, era sta to lo stesso Gesù a ricordare che tutto ciò ch e si
fa «a uno solo dei suoi fratelli più piccoli» a ffamati, assetati, stranieri, nudi, ammala ti e
carcerati lo si fa a lui ( Matteo 25,31-46) . Diet ro i lembi spesso deformi dei volti uman i si
cela dunque l’immagine di Cristo e, al r igu ar do, lo scrittore rimanda a s. Paolo second o il
quale «Dio è tut to in t utti» ( 1 Corinzi 1 5, 28). Ecco, allora, l’invito di Borges a seguirlo in
questa ricer ca umana del Cristo present e nelle facce degli uomini.
«Abbiam o perduto quei lineamenti, com e si pu ò perdere
un numer o ma gico, f att o di cifre abituali; come si perde
un’immagine nel caleidoscopio. Possiam o scor gerli e non
riconoscerli. Il profi lo di un ebreo nella f er r ovia sotterranea è forse quello di Cri sto; le mani che ci po rgono alcune
monete a uno sportello forse ripetono quelle dei soldati
che un giorno, lo inchiodarono alla cr oce . Forse un tratto
del volto crocifisso si cela in ogni spe cchio; fo rse il volto
morì, si cancellò, affinché Dio sia tutto in t utt i» .
“Fui amato… e sospeso a una croce”
Sempre nell’A rtefice viene ricreata un’alt ra sce na legata al Cristo crocifisso che – come si
è già detto – occupa sul Golgota non la po sizio ne centrale, ma la terza, ultimo tra gli uomini
infelici. Com e sempre, il riferimento è a un passo evangelico, Luca, XXIII: sono i verse tti
39-43 di quel capitolo ove è descritto l’at to e stremo di Gesù in croce «nella sua fatica
ultima di mori re crocifisso», ossia il per dono delle colpe al malfattore pentito e la promessa
dell’ingresso nel paradiso. Come comm en tava uno dei maggiori teologi del secolo sco rso,
Hans Urs von B alt hasar, «quando il la dr one guarda Cristo trafitto comprende che la su a
colpa è assorbita ed espiata in quella fe rit a… Gesù muore perdonando. Non è più solo .
Nell’arrivare presso il Padre ci strin ge a sé nel suo perdono». Ecco alcuni versi d ella
ritrascrizione borgesiana di quell’atto est re mo di Cristo.
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«Gentile o eb reo o solamente un uomo
il cui volto nel tempo s’ è perduto…
Nella sua fatica ultima di morire crocif isso,
udì, tra i vilipendi del la gente,
che colui che moriva accanto a lui
era un dio e g li di sse ci ecamente:
Ricordati di me quando sarai
nel tuo regno! E l a voce inconcepibile
che un giorno giudicherà tutti gli esse ri
gli promise dalla Croce terribile
il Paradiso. Nient’altro si dissero
finché venne la fine…».
Eppur e non sfugge a B orges che il g iudizio t er minale di un’esistenza può anche aprirsi
sul baratro infernal e. Dio infatti risp et t a la libertà umana che sceglie di conservare
egoisticamente il talento ricevuto senza impegnarlo nel bene, nella carità, nella donaz ione .
È così che il versett o conclusivo di Ma tte o r igu ar dante la parabola dei talenti viene assunto
dallo scr ittore a titolo di un’altra sua poesia, M atteo XXV, 30, contenuta nella racco lta
L’altro, lo stesso (1969): «Il servo in ut ile get tatelo fuori nelle tenebre: là sarà pianto e
stridore di denti».
Ora, alla base della cristologia borgesian a c’è indubbiamente l’umanità di Gesù di Naza ret
che nasce e muore, pur proclamand osi Figlio di Dio e quindi assegnandosi una qua lità
trascendente. Lo scrittore non ignora questo intreccio tra divino e umano, tra ass oluto
e contingente, t ra eterno e tempo, tr a in finito e limite e, pur attestandosi sul versa nte
dell’umanità, non esita a interpretare la co scienza di Cristo in una poesia di straordi naria
potenza, com e l o è la matrice evangelica o rig inaria che la genera.
Il titolo è, infatti, ancora una volta esplicito: Giovanni, I, 14 (sempre in Elogio dell’ombra ).
Il versetto è ritagliato da quel capolavoro let t erario e teologico che è l’inno-prologo del
quarto Vangel o: «Il Lógos (Verbo) d ivenne sa rx (carne) e pose la sua tenda in me zzo
a noi». Un versetto che è in contrappunt o con l’ incipit solenne dell’inno: «In prin cipio
era il Lógos. I l Lógos era presso Dio. I l Lógos era Dio» (1,1). Pensiamo a come il Ló g os
giovanneo abbia i ntrigato Goethe che n el Faust proporrà una gamma di significati p e r
esprimerne la semantica profonda: il Verb o è, certo, Wort, parola, ma è anche Sin n ,
significato, Kraft, potenza, e Tat, atto, nella linea del valore del parallelo vocabolo eb raico
dabar che si g nif ica parola e atto/evento . Leggiamo alcune battute di questa sorprende n te
“autobiografia” del V erbo che è eterno ( «È, Fu, Sarà») ma è anche «tempo successivo» .
«Io che sono l’ È, il Fu e il Sarà
accondiscendo ancora al linguaggio
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che è tempo successivo e simbolo…
Vissi stregato, prigi oniero d’un corpo
e di un’umile anima…
Appr esi la veglia, il sonno, i sogni,
l’ignoranza, la carne,
i tardi labirinti della mente,
l’amicizia degl i uomini
e la misteriosa dedizione dei cani.
Fui amato, compreso, esaltato e sospe so a u na croce».
Il Van gelo secondo Marco e Borges
A suggello di questo it inerario molto sem plificat o e solo esemplificativo nel mondo bib lico
di Bor ges è suggesti vo evocare il d ecim o e penultimo racconto de Il manoscritto d i
Brodie ( 1970) pubbli cato in modo auto no mo nel 1971 sotto il titolo El Evangelio se g ún
Marcos. Attr averso un percorso par ab olico paradossale lo scrittore esalta la qua lità
fortem ente perf ormat iva, quasi “sacr ame nt ale” , del testo sacro. Come si è già d etto,
Borges, r icalcando la tesi dell’opera Mim esis ( 1946) di Erich Auerbach, secondo la qu a le
l’ Odissea e la B ibbia sono gli arche tipi simb olici dell’Occidente, era convinto che « g li
uomini lungo i secol i hanno ripetuto semp re due storie: quella di un vascello sperduto ch e
cerca nei mari medi terranei un’isola am at a, e quella di un Dio che si fa crocifiggere sul
Golgota». Da un lato, quindi, domina la “ripetizione” che non è però mera reiterazio n e
ma ripresa e riattualizzatone, alla man ier a d el famoso scritto omonimo del filosofo So ere n
Kierkegaard (1843).
D’altro lato, però, questa ritrascrizion e non è né meccanica né letterale ma ha in
sé un’energia costantemente trasform at rice così da rendere la storia sacra primigen ia
sempre nuova ed efficace. Queste due com ponenti – ripetizione e performazione – son o
stupendamen te e t erri bilmente rappr ese nt ate appunto nell’ Evangelio según Marcos d i
Borges.
Come è noto, la vicenda narrativa è amb ient at a in un piovoso marzo del 1928, nella fattoria
La Color ada a Juní n in Perú. Lo studente in me dicina Baltasar Espinoza giunge in vacanza
presso alcuni f att ori dall’aria un po’ tru ce e p rim itiva, i Gutre, padre, figlio e «una rag azza
di incerta paterni tà». U n’inondazione isola la fattoria e Baltasar scopre una Bibbia in
inglese: per ingannare il tempo, inizia a le gg ere ogni sera, traducendolo, il Vange lo d i
Marco alla fami gli a che lo ospita.
Costoro, nella loro semplicità, non ne resta no solo affascinati ma anche completamente
conquistati e si convincono a poco a p oco che quegli eventi devono riprodursi nel lo ro
presente. È così che i G utre identifican o p roprio nel giovane studente il Messia presenta to
da M arco. E prima che egli parta, al rit ir arsi delle acque, essi hanno già preparato il loro
Golgota.
«Genuflessi sul pavi mento di pietra gli chieser o la benedizione.
Poi lo m aledissero, gli sputarono addosso e lo spinsero
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fino in fondo al cortile. La ragazza piangeva.
Quando apri rono la porta, Baltasar vide il f irm amento. Un uccello
gridò; pensò: È un cardellino! Il capan no ne era senza il tetto;
avevano staccato le travi per costruire la cro ce».
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