diritto pubblico nuovo capitolo quattro italia

Istituzioni di diritto pubblico AO –a.a. 2015-2016 Prof.ssa S. Niccolai
CAPITOLO IV preunitaria
Ordine antico e moderno nell’Italia
Sommario del capitolo
A. I caratteri generali
1.Diversità di storie e di tempi politico-istituzionali. 2. Debole attitudine alle ‘libertà politiche’ di
ordine antico. a)Lontananza del potere imperiale. b) Debolezza dei vincoli feudali.c) Un potere
maiestatico e sacrale…d)inevitabilmente delegato. 3. Una visione disincantata del potere pubblico.
B. Le esperienze particolari
1.Da ‘Comuni’ a ‘Stati’: la traiettoria delle città italiane nel segno del rapporto abusivo tra potere
economico e potere politico. a) L’autonomia comunale. b) La coniuratio. c) Il periodo consolare:
l’idea della città come corpo titolare di propri interessi.d) I rapporti con l’esterno: autonomia comunale
e sovranità imperiale. e)Il periodo podestarile. f) Tra egualitarismo e discriminazione: contraddizioni
dell’esperienza comunale. g)Capitani del Popolo. h) Fanatismo politico. Accentramento territoriale.
Scambio tra potere economico e potere politico. i) In particolare: la manomissione dell’ordine
giuridico e dell’ordine economico fatta “in difesa degli averi”. l) La libera concorrenza come
manifestazione dell’eguaglianza nei rapporti economici. m) La privatizzazione del potere pubblico: da
Comuni a Signorie. n) Da Signorie a Principati.
2. I Domini sabaudi. a) Il rapido superamento del governo misto e la precoce costituzione di un
modello assolutistico. b) Lo stato sabaudo.
3. Napoli, Sicilia e Sardegna. a) Il Parlamento dei Bracci siciliani. b) Napoli: il periodo angioino. Lo
scontro di potere tra papa e angioini travestito in ripristino dell’ordine antico. c)Napoli Vicereame
aragonese. d) La Sardegna: l’orgoglioso mantenimento della costituzione antica sino all’assorbimento
nello stato sabaudo.
C. L’importazione del modello di organizzazione pubblica divenuto dominante.
1. Rivoluzioni e guerre napoleoniche, Costituzioni rivoluzionarie e Restaurazione: verso l’unificazione
nel segno della monarchia. 2. Sicilia. 3. Sardegna. 4. Le Restaurazioni.
A.I Caratteri generali
In questo capitolo ci soffermeremo su alcuni caratteri con cui, nel territorio italiano,
è avvenuto il passaggio dall’ordine antico a quello moderno. Ci avvarremo
dell’analisi di un grande studioso sardo di storia del diritto, Giovanni Marongiu1,
particolarmente attento alle vicende delle istituzioni parlamentari-rappresentative
proprie del governo ‘misto’ dell’ordine antico.
1
Storia del diritto pubblico italiano. Principi e istituti di governo in Italia dalla metà del secolo IX alla metà del
XIX secolo, Istituto editoriale cisalpino, Milano-Varese, 1956, che abbiamo altrove già citata. Il presente capitolo è
costituito sostanzialmente da una sintesi del lavoro di Marongiu, pertanto mi limito a indicare via via tra parentesi,
nel testo, il numero di pagina dal quale traggo citazioni o riferimenti. Antonio Marongiu nacque a Siniscola nel
1902 e morì a Roma nel 1989. Nelle sue opere sviluppa una costante messa in discussione del primato inglese
nella storia del parlamentarismo (questa considerazione si trova anche, insieme a interessanti particolari biografici,
in un articolo apparso sulla Nuova Sardegna il 29.4.2007 dal titolo La scuola sarda del Prof. Marongiu, reperibile
su internet.
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1. Diversità di storie e di tempi politico-istituzionali
In Italia il passaggio dall’ordine antico al moderno avviene con tempi e modi diversi
a seconda delle diverse aree della penisola, ciascuna portatrice di una sua storia
politico-istituzionale.
Nel Nord e nel centro-Nord, cioè nell’area facente parte del Sacro Romano impero
d’Occidente, questo passaggio si delinea anche prima che in Francia, e secondo due
itinerari diversi tra loro:
-
da una parte la precoce individualizzazione di almeno una piccola monarchia
di tipo assoluto, che è lo Stato sabaudo, fedelissimo vassallo dell’Impero e
perciò sempre più autonomo: la formazione politica intorno alla quale avverrà
l’unificazione italiana si segnala perciò come una particolarmente in linea coi
tempi, portatrice di una sua forma di modernità, partecipe delle forme di
razionalità e dei modi di concepire il potere destinati a divenire dominanti;
-
dall’altra parte c’è, nel Centro e nel Nord Italia, e probabilmente per effetto
della lontananza dei poteri imperiali e di quelli papali, e come risposta ai
problemi e alle opportunità aperte in questa situazione, lo svolgimento
dell’esperienza comunale, con la successiva trasformazione dei comuni in
signorie e principati, esperienza che, nel suo insieme, è la vera e propria
sperimentazione della sovranità in senso moderno, modello e fonte di
ispirazione, come detto anche nel capitolo precedente, dei grandi sovrani
assoluti francesi.
Il Sud e la Sicilia compongono invece un percorso differente (col quale si lega anche
la Sardegna della dominazione aragonese, in cui l’Isola condividerà con Napoli e con
la Sicilia il rango di Vicereame del regno d’Aragona, per poi confluire, nel 1720,
nello Stato sabaudo); è un percorso reso in qualche modo unitario, pur nella sua
articolazione e diversità interna, da una qualche comunanza di sorte politica,
condizione istituitasi già nel primissimo Medio Evo per essere questa zona del paese
parte, prima, dell’Impero romano d’oriente, poi del Regno normanno-svevo,
anticipatore di forme statuali avanzate. Alcune caratterizzazioni del percorso di
questa area, che la differenziano dal Nord e Centro, sono in particolare:
-
il fatto che qui non avviene mai una completa messa da parte delle concezioni
miste e giurisdizionalistiche del potere proprie dell’ordine antico, e questo
particolarmente in Sicilia, il cui Parlamento dei Bracci (questo il nome,
Parlamento, preso in Italia dalle assemblee dei ceti, o stati) sarà l’ultimo
ancora funzionante in Europa continentale in piena età napoleonica, di tanto
che l’Isola potrà rivendicare l’analogia tra la propria costituzione e quella
inglese;
-
il fatto che, anche laddove l’assolutismo si instaura con più vigore a danno
delle istituzioni antiche, e cioè nella parte continentale del Regno di Sicilia, a
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Napoli, si tratterà sempre di un assolutismo meno interventista, dinamico e
trasformatore di quello di marca francese e settentrionale, ciò che è segnalato
dalla relativa ‘povertà’ di quest’area, che corrispondeva anche a una
bassissima imposizione fiscale e a una diffusa accettazione popolare della
feudalità (o delle altre forme di strutturazione cetuale della società, come la
presenza del Clero quale ceto)2.
Altra caratteristica importante, che peraltro non potremo qui approfondire nel modo
dovuto è la esistenza nel territorio italiano dello Stato della Chiesa; per l’influenza
che il papato ha sulle vicende politiche del territorio; per la persistenza, nello stato
della Chiesa, di una costituzione al tempo stesso antica, signorile feudale ma anche
precocemente centralizzata intorno all’amministrazione ecclesiastica; e anche per la
tipica e del tutto eccezionale condizione di cosmopolitismo che viene impressa a
Roma dalla presenza del papato3.
Particolarissima la costituzione del Friuli4, che mantiene un ordinamento di tipo
antico fino a che Venezia, di cui era provincia, viene assorbita dall’Austria nel
periodo napoleonico5.
“La Sicilia, che paga oggi 120 milioni di imposte, ne pagava allora poco meno di 22, e se mancava di ferrovie,
telegrafi elettrici e cimiteri, aveva il porto franco di Messina, l’esenzione dalla leva e dalla gabella del sale, e la
libera circolazione del tabacco. Il governo si studiava di garantire ai poveri i generi di prima necessità a buon
mercato, e la sicurezza alle classi benestanti. (…) La terza parte del patrimonio dell’Isola era [nel 1860]
manomorta ecclesiastica, che sovveniva con le sue larghe entrate tanti infelici, reintegrando così alcuni bisogni
sociali, ed era meno esigente nei suoi feudi coi propri salariati e dipendenti. Sulla Sicilia non era passata la pialla
liberatrice della Rivoluzione francese”. Così Raffaele De Cesare ( giornalista e storico pugliese della Destra
liberale), nel suo bellissimo La fine di un Regno, dedicato agli ultimi anni dei Borboni delle due Sicilie, e
pubblicato nel 1907. L’opera di De Cesare è una forte fonte di argomentazioni nel senso che il successo
dell’impresa garibaldina, quindi della causa italiana in Sicilia, risale essenzialmente al malumore delle classi
dirigenti, e popolari, verso i Borboni, considerati Re di Napoli, ma non sovrani dell’Isola, e al rapporto di paura e
distanza istituito con l’Isola da Ferdinando II di Borbone dopo il sollevamento del 1848.
2
3
Lo Stato della Chiesa è un regno in parte composto da territori direttamente soggetti, ossia governati da
funzionari ecclesiastici, in parte indirettamente soggetti, cioè infeudati a comuni o castelli dotati di più o meno
ampie autonomie. Ogni città, villa rocca o castello aveva la sua carta di franchigia o protezione, ossia il documento
pontificio o di un rappresentante del pontefice che rappresentava le sue libertà ed obblighi (196), ma furono presto
mossi passi verso la statalizzazione, istituendo l’ufficio del Rettore in ogni provincia, che svuotò progressivamente
le autonomie comunali, grazie alle sue attribuzioni, prima tra le quali il potere di scegliere gli amministratori;
anche qui ricorrevano le periodiche assemblee parlamentari, che pur non assumendo l’importanza avuta in altre
parti d’Italia rappresentavano sempre una intermediazione tra governo e collettività, ma i parlamenti comuni a tutto
lo stato erano pochissimi, più spesso ricorrevano quelli interprovinciali o di una sola provincia. Le Costituzioni
egidiane, o Costituzioni della Marca Anconetana, (anno 1357) generalizzarono il modello Rettore+assemblea
provinciale come normale in tutto il regno (pag. 195- 200). Questo assetto corrispondeva alla completa esclusione
di tutta la popolazione non ecclesiastica dalla partecipazione alla vita politica (“A Roma tutto si vendeva”,
dicevano luoghi comuni del tempo e regnava la ‘cattiva amministrazione’). (p. 348).
4
Il patriarcato di Aquileia era un principato ecclesiastico, la cui struttura prevedeva un parlamento ( Colloquio) di
tre membri ( ecclesiastici feudali e communitates) che assisteva il patriarca nello studio e nell’adozione di ogni
provvedimento militare, politico, amministrativo; accanto agli eletti del parlamento, il patriarca nominava un
consiglio di persone di sua fiducia. La funzione del parlamento friulano era essenzialmente tributaria e fondata sui
principi feudali che reggevano lo stato, i quali prevedevano, nel Friuli come dappertutto, il diritto del parlamento
ad essere chiamato ad esprimere consenso alle imposte. Il parlamento ebbe anche sempre una importante funzione
legislativa. Secondo Marongiu: “I tria membra rappresentano, ciascuno isolatamente considerato, i tre
corrispondenti ceti superiori della popolazione: clero nobiltà rappresentanti cittadini. Ma, al di sopra di tali
interessi, sostengono quello generale e comune del paese”. Questo quadro vale finché dura l’indipendenza del
paese, venuta meno tra il 1418 e il 1420 a causa della pressione di Venezia e di tutta una serie di accordi di
dedizione alla Serenissima, che svuotarono e impoverirono il parlamento, la cui convocazione fu rimessa alla cauta
discrezione degli organi di governo veneziani. (p. 261-168 e 319).
5
Ippolito Nievo (intellettuale e patriota morto nel 1861), autore de Le confessioni di un Italiano, pone la
condizione ancora feudale del Friuli alla vigilia delle guerre napoleoniche sullo sfondo della sua narrazione.
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2.Debole abitudine alle ‘libertà politiche’ d’ordine antico
Gli sviluppi d’insieme descritti nel paragrafo precedente affondano in un alcune
caratteristiche, assunte dal potere pubblico nella penisola durante il primo Medio evo.
Tra queste, nel Regno Italico6, cioè nel Nord e nel Centro Italia, la lontananza dal
potere imperiale e debolissima intensità dei vincoli di fedeltà in capo ai feudatari.
a)Lontananza del potere imperiale
Il vero cuore dell’impero è la Germania, e i grandi feudatari italiani si abituano a
governare i loro territori per così dire ‘per conto loro’, ma anche influendo poco sulle
sorti dell’impero. Si tratta dunque di un ceto nobiliare che esercita parecchio potere
sui suoi possedimenti, ma fa poco esercizio delle libertà politiche di partecipazione
al governo comune dell’Impero:
"Durante le frequenti assenze imperiali il Regno italico cessa per così dire di
funzionare ed è poco più di un nomen juris. I conti o i marchesi (propriamente
marchiones) o duchi, e gli altri minori vassalli governano i territori senza
quasi alcun controllo, nei superstiti o rinascenti centri urbani sono i vescovi a
esercitare il potere comitale. Vi era qualche riunione tra il re gli ottimati, ma si
trattava di istituzione politica più che giuridica, non servendo che a prendere
atto o a esprimere, con riferimento alle elezioni o deposizioni regie, la
decisione e volontà dei pochi che dispongono in seno ad esse di un potenziale
politico militare necessario e sufficiente a imporre il loro punto di vista" (p. 6768).
b)Debolezza dei vincoli feudali
Anche la speciale relazione di fedeltà tra feudatario e signore, così come le
obbligazioni di governo verso le comunità del feudo, sembrano assumere, nel Regno
italino, una conformazione debole, e per una pluralità di motivi.
Intanto, nel Regno italico si applica il feudo longobardo, che, a differenza del feudo
franco, è diviso tra gli eredi. La divisione non significa suddivisione del territorio del
feudo, ma compartecipazione degli eredi alle sue rendite. Questo probabilmente ha
spinto ad attenuare i vincoli di governo verso le comunità viventi nel feudo, ad
indebolire la percezione del feudo come obbligazione di governo, e a favorire invece
una percezione del feudo come mera fonte di guadagni, territorio da sfruttare. Non
solo il feudo è diviso tra gli eredi ma uno stesso vassus (vassallo) può ottenere
benefici da diversi seniores (signori), con conseguenti plurimi e magari confliggenti
obblighi di fedeltà. Nel Regno Italico periodo di vera e propria "anarchia feudale" è
quello tra l'888 e il 962 d. C. (finché con Ottone I si ristabilisce l'impero, più feudale
e ancora meno consistente), quando:
“Il potere del re nei confronti dei vassalli non era ormai più l'ascendente pieno
e illimitato di un capo sui suoi devoti e fedeli compagni d'armi e di vita, ma
L’Imperatore romano d’occidente era anche re del Regno Italico e a quest’ultimo dette una certa individualità
complessiva, rispetto ad altre parti dell’Impero, il fatto di essere oggetto, a partire dal Capitolare Italicum dell’832
d.C. di una particolare ‘legislazione’ propria ossia di una particolare conformazione che, nel Regno, prendevano i
poteri reali/imperiali.
6
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soltanto un ben delimitato potere giuridico privo di quell'afflato umano fatto di
fiducia e di affetto che era stato il clima originario del rapporto feudale. Tanto
più che ora, per uno dei tanti contrasti offerti dagli ordinamenti giuridici
medievali, questi feudi maggiori e minori erano ereditari tra i membri delle
rispettive famiglie, mentre la corona regia e imperiale era e rimaneva elettiva.
Questi vassalli, maggiori e minori, facevano la loro politica ora favorendo ora
osteggiando i re transalpini, per esclusivo calcolo di interesse o per spirito di
fazione" (p. 82).
Comportamenti strategici e di convenienza saranno incoraggiati dalle lunghe diatribe
sulla soggezione o meno del papa all'impero e viceversa, che vedranno i feudali
strizzare l’occhio ora all’uno ora all’altro dei due poteri maggiori.
Con riferimento allo stesso arco temporale, circa lo Stato della Chiesa, Marongiu
osserva che:
"specie durante i frequenti periodi di sede vacante, feudali, fazioni e comunità
dipendenti si sottraevano ( spesso col favore o dell'imperatore o di qualche
altro sovrano) dai loro obblighi di fedeltà e agivano a scapito dell'intesse
generale. Più di una volta, per esempio, i Romani o le più potenti famiglie
dell'Urbe si posero contro il Papa o influenzarono decisamente la scelta dei
successivi titolari della sede pontificia " (p. 77).
Quanto all'Italia bizantina: qui da una parte c'è una concezione sacrale della maestà
imperiale, e un ordinamento amministrativo gerarchico e burocratico molto più
organico di quello carolingio. Ciò rende apparentemente impredicabili concezioni
pattizie, contrattuali, del potere, ma non evita la delega di esso a funzionari e
potentati locali:
c)Un potere maiestatico e sacrale…
L'imperatore è diretto erede e continuatore della politica 'assolutistica' di
Giustiniano. Egli è in diretto contatto con la divinità ed esercita su tutti una
divina maiestas. Dal patriarca della nuova Roma, Bisanzio, all'ultimo suddito,
tutti devono non solo osservare, ma venerare le sue sublimi iussones (volontà,
ingiunzioni). La sua maestà è inaccessibile ai comuni mortali: nelle più solenni
cerimonie parla, in sua vece ( egli è presente, ma come in disparte), un alto
dignitario della sua complicatissima corte.
Ad una sovranità così concepita non si giura fedeltà, si obbedisce e basta, ed essa non
ha bisogno di venire a patti con nessuno; almeno in teoria. Governo e
amministrazione dell'impero sono infatti cura e prerogativa esclusiva del sovrano.
Egli ha il potere legislativo, militare, giudiziario, tributario, amministrativo e così via:
le concezioni bizantine del diritto pubblico influenzeranno molto la poderosa
struttura dello stato normanno7.
7
Il Regno normanno di Sicilia (poi svevo, angioino ecc.) si era costituì nel 1130 con Ruggero II che unificò i nove
stati o signorie autonome in cui questi territori erano divisi. Come osserva Marongiu: In un periodo nel quale,
generalmente, il potere monarchico appariva quasi esclusivamente come un potere di tutela e di conservazione
dell’ordinamento esistente (re giudice), Ruggero evocò ed assunse l’orgogliosa massima del monarcato romano
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d)…inevitabilmente delegato
Tuttavia, per necessità di cose, e a causa, soprattutto, della grande estensione del
territorio, gli imperatori bizantini erano però costretti a delegare ai loro rappresentanti
una somma cospicua di potere: gli strateghi goderono nelle circoscrizioni una
notevole autonomia, ad esempio nel reclutamento degli ufficiali, che venivano scelti
tra nobili e grandi proprietari. In complesso, la politica imperiale bizantina non
impedì almeno nelle città costiere, sede nel sec. XI di fiorenti attività marinare, un
certo svolgersi di una vita locale autonoma. Anche nei territori pugliesi sudditi
qualificati boni homines partecipano, col consenso dei governanti greci,
all'amministrazione della giustizia e forse anche ad altre forme di amministrazione
locale" (p.80).
3. Una visione disincantata del potere pubblico
Periodo del tutto particolare fu quello in cui il Regno italico e il Regno normanno
svevo di Sicilia furono unificati nella corona di Federico II di Svevia (Imperatore del
Sacro Romano impero per elezione e di Re di Sicilia per linea dinastica). Nel Regno
di Sicilia Federico continuò ad operare come i suoi predecessori, che avevano
governato secondo un modello di monarchia forte e ben organizzata8; nel resto del
paese, si impegnò da una parte a recuperare le prerogative imperiali nei confronti del
papa e nei confronti delle autonomie comunali9; dette impulso alle grandi assemblee
dei maggiori prelati, dei signori feudali e, spesso, dei rappresentanti cittadini, anche
se si comportò diversamente a seconda che agisse come Re di Sicilia o, nel restante
territorio italico, come Imperatore o come re di Sicilia. Nel primo caso tendeva ad
assumere moduli accentratori, nelle altre parti del regno, faceva invece concessioni e
cercava di attrarre consenso, operando secondo i modelli di una monarchia mista di
del sovrano come fonte della legge. E’ per questo che si tende a considerare il regno normanno di Sicilia una
anticipazione di modelli statali (o meglio, una conservazione delle concezioni e delle formule organizzative che
erano state proprie dell’impero romano, in un’epoca in cui esse erano divenute altrove impredicabili). Riservandosi
il ruolo di ‘fonte della legge’, il Re di Sicilia vuole dirsi indipendente tanto dall’imperatore di Bisanzio che da
quello romano d’occidente e anticipa la massima della eguaglianza dei re all’imperatore (rex in regno suo
imperator est) che sarà in seguito il principio fatto valere dalle grandi monarchie francese e spagnola che si
separeranno dall’Impero. La forza politica esercitata da Ruggero II fu favorita dal fatto che “nonostante le larghe
infeudazioni, gran parte del territorio del regno restava demanio o patrimonio regio o proprietà privata il che
permette al re di esercitare un regolare e regolato potere tributario consistente nell’imposizione di collette più o
meno generali , reali e personali, anche grazie al ben funzionante preesistente sistema bizantino e musulmano (p.
115). L’ordinamento di Ruggero fu ripreso da Federico II Re di Sicilia e Imperatore del Sacro romano impero.
8
I suoi atti sono imperiosi e autocratici e le assemblee meri strumenti della sua politica, strumenti per ottenere
consenso e collaborazione, non soggetti dei quali riconosce il potere deliberativo che possa implicare una effettiva
partecipazione alla deliberazione della cosa pubblica. Erano eloquenti le formule di convocazione di queste
assemblee: “mandate i vostri rappresentanti che contemplino la serenità del nostro volto e vi riferiscano la nostra
volontà”.
9
La costituzione imperiale romana (trasfusa da Ruggero nelle Assise) fu da Federico nuovamente sancita nel
Liber Augustalis). Le pretese di autonomia, di ‘sovranità’ come indipendenza verso l’esterno, rivendicate da
Federico, si rivolsero contro il potere papale (rivendicazione del potere imperiale di nomina dei vescovi, che gli
valse la celebre scomunica); e le sue pretese di supremazia verso l’interno lo posero contro i Comuni del Nord e
del Centro (II Lega lombarda, sconfitta nel 1237 a Cortenuova), lo portano a occupare la Marca d’Ancona, Spoleto
e parte della Sardegna (col figlio Enzo) nella sua pretesa di proclamare il diritto temporale dello Stato alla sua
libera espressione ed espansione in piena indipendenza da quello spirituale (119).
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tipo parlamentare10. Morto Federico “scese nella tomba il maggiore e più nobile
sforzo per unire in uno Stato la nazione italiana”. L’impero ne uscì distrutto: fino al
1311 non vi sarebbero stati altri imperatori, il papa rimase unico potere universale
(nei comuni italiani iniziò allora a sgretolarsi la parte ghibellina e aumentò la parte
guelfa ‘popolare’, e si accentuò la traiettoria di autonomizzazione dall’impero, che li
renderà signorie e poi principati territoriali).
Da allora in poi:
L’imperatore resterà il titolare di una altissima autorità, largitore a pagamento o
dietro corrispettivo di altri servizi e quindi padrone di titoli e di diplomi di
vario genere, superiore feudale in larga parte d’Italia (p. 126)11.
Frase che dà l’impressione che al potere imperiale fosse riconosciuta ben poca
‘auctoritas’: in questa configurazione anche la somma autorità, quella imperiale, non
riesce a essere circondata di una autentica fiducia e riconoscimento, ma rappresenta
prevalentemente l’interlocutore di rapporti di scambio di tipo strumentale.
Il problema dell’Impero si poneva soprattutto come problema di politica estera:
per il timore di esso come potenza armata, vicina e pericolosa, si temeva la
discesa dell’imperatore in Italia, e ciò che ad esso i Comuni pagavano, dopo
lunghe e tutt’altro che serene trattative, era considerato presso a poco come il
tributo che si paga a un esercito nemico di occupazione o come il riscatto a una
banda di predoni. (p.168).
Tuttavia che l’Impero esistesse nessuno lo metteva in dubbio e c’era l’uso
dell’Imperatore di mandare in giro nell’alta Italia messi che richiedevano ai signori e
amministratori cittadini dichiarazioni di fedeltà e prestazioni in denaro: in compenso
essi riconoscevano a ciascuno lo stato di diritto effettivamente goduto” (p. 169).
E’ possibile che questa condizione di fondo, di presenza/assenza di una autorità
superiore legittima, abbia conferito alla storia politico istituzionale del paese quel
tratto particolare per cui in essa ricorre la tendenza all’instaurarsi di rapporti di fatto,
che in seguito si rivestono di diritto, oltre che la coltivazione, nelle mentalità, di una
immagine assai disincantata del potere pubblico.
Se l’Imperatore cercava di interrompere la prescrizione delle sue prerogative, di
opporsi allo stato di cose creatosi in Italia a loro danno mandando messi e chiedendo
prestazioni, se egli non era in grado di esercitare in Italia diritti sovrani, ma nessuno
ne aveva preso il posto, ciò si doveva anche a un particolare elemento di
conservazione dell’immagine e dell’idea del diritto imperiale, che era rappresentata
dalla vigenza del diritto romano.
E’ interessante ricordare che, secondo alcune risultanze, proprio questo Imperatore avrebbe riconosciuto il
principio, cardine delle monarchie miste medievali e cuore della limitazione dei poteri sovrani, per cui quod omnes
tanget ab omnibus adprobari debetur, prima di come avrebbe fatto Edoardo d’Inghilterra nel 1295. La massima
sarebbe stata utilizzata nel 1244 a Verona, dove la curia generale dell’Impero doveva riunirsi per decidere la
Crociata in Terrasanta. Nella convocatoria si legge che “l’imperatore, nelle cose che riguardano tutti, voglia
decidere col consenso e col consiglio di tutti, cioè dei principi dell’impero, laici ed ecclesiastici” dimostrando
duttilità e realismo (p. 121).
10
Nel Nord-Italia non vi fu più nemmeno una città sede imperiale, un palazzo sede dell’Imperatore, e soprattutto
mancavano all’imperatore diritti di natura territoriale in Italia.
11
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Alla sopravvivenza almeno teorica del potere imperiale concorrevano infatti le
argomentazioni dei giuristi, per i quali l’Impero offriva una importante figurazione
per giustificare la validità universale del diritto romano (p. 172).
B.Le esperienze particolari.
1.Da Comuni a ‘Stati’: la traiettoria delle città italiane nel segno del rapporto
abusivo tra potere economico e potere politico
a)L’autonomia comunale
“Il fenomeno comunale, cioè dell'associazione autonoma e
autoritaria degli abitanti dei nuclei accentrati di
popolazione in collettività del tutto o quasi sovrane è un
fenomeno essenziale e tipico del nostro medio evo, la
struttura tipica dei particolarismi italiani” (p. 93).
L’autonomia comunale trae sicuramente la sua origine dalla situazione di debolezza e
lontananza dell’impero, che abbiamo poco sopra descritta, e che nel corso del tempo
si accentuò12. All’origine dell'autonomia cittadina vi è la necessità di far da sé e
collaborare: il comune cittadino, fenomeno della alta e media Italia (Lombardia,
Veneto, alta Toscana, Emilia, Marca di Ancona, Umbria, vari luoghi del Lazio),
nasce dal bisogno delle città di difendersi da invasioni razzie e ruberie, dalle quali né
il potere imperiale né quello papale sapevano proteggerle.
b)La coniuratio
Le città erano sede del potere comune comitale ( cioè del conte feudale) e vescovile.
Nelle assemblee cittadine la nobiltà, il clero e il terzo stato discutevano gli affari di
interesse generale, dal rifacimento delle mura all'uso dei beni comuni, o eleggevano i
magistrati. Questo governo locale di tipo misto viene squilibrato dalla compagnia, la
coniutatio, la lega giurata, la societas, la conventicola (come la chiamerà con astio il
Barbarossa): un gruppo di cittadini che stipulano tra di loro un vincolo associativo,
allo scopo di mutua e generale difesa, ora appoggiandosi al vescovo "autorità
indiscussa anche dove non sia anche dignitario ecclesiastico e autorità civile, ora o a
taluno dei membri delle consorterie aristocratiche, discendenti o parenti dei vicini
signori feudali o degli agenti regi”.
La coniuratio agisce come 'popolo' in assemblea, e finisce per esercitare a titolo
proprio funzioni e poteri di governo quale corpo politico e amministrativo titolare di
poteri pubblici.
Scrive Marongiu: “Un sensibile indebolimento del potere imperiale veniva dalla eliminazione del potere dei
rappresentanti imperiali ( conti o marchesi ) dalle città sedi vescovili, dove si rafforzava il potere dei vescovi.
Specialmente a partire dall'epico scontro tra Gregorio VII e Enrico IV, il potere imperiale sulle città non fece che
ridursi, attraverso una serie sempre più fitta di concessioni fatte ai vescovi, ai vescovi e popolo cittadini, o proprio
al popolo”.
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Il Comune nasce dunque come “una organizzazione tipicamente oligarchica e
aristocratica, cioè come l'espressione non dell'indiscriminata collettività degli
abitanti, ma di un gruppo di piccoli feudali, di proprietari, professionisti e mercanti"
(p. 97) che si auto-organizzano in difesa dei propri interessi, affiancando e quindi
sovvertendo le magistrature tradizionali.
Da associazione privata il Comune si trasforma rapidamente in una organizzazione
pubblicistica con a capo un organo elettivo, temporaneo e collegiale (consolato).
c)Il periodo consolare: l’idea della città come corpo titolare di propri interessi
I consoli, elettivi e in numero proporzionale ai quartieri delle città, sono
generalmente i capi della coniuratio, o compagnia cittadina, cioè del nucleo di
‘ottimati’, o di ‘magnati’, che prende parte alla vita pubblica.
I consoli sono vincolati al giuramento ( Breve consulum, o promissio): si trattava
del giuramento di bene e fedelmente adempiere agli doveri del loro ufficio, di
osservare determinate linee di condotta, sia nei confronti dei loro concittadini, sia di
questa o quella vicina città, del vescovo, dei feudali vicini: il giuramento dei Consoli
li delinea già non solo come ‘iudices’ cioè come garanti dell’ordine dato, sul modello
antico, ma già anche come portatori di una linea politica, di un programma, che si
giustifica col coincidere con l’interesse della città, il quale (non troppo remota radice
della ‘ragion di stato’) si individualizza e prende consistenza autonoma. Il consolato
comunale, dunque, appartiene strettamente alla traiettoria che conduce fuori dalla
concezione antica del potere e verso quella moderna.
I consoli erano affiancati da un organo deliberativo, il parlamento comunale, dove le
proposte di legge e altre decisioni sono votate per acclamazione e del quale erano
membri solo i cittadini di pieno diritto e, in un secondo tempo, solo i capi di famiglia.
Pletorici e tumultuosi, i Parlamenti vennero sostituiti da due organi, un Consiglio
maggiore, che dal punto di vista della composizione era analogo al Parlamento, ma
più piccolo di numero di componenti, e un Consiglio di credenza, o dei savi, o degli
anziani, o degli otto, o dei dieci, che fungeva da organo di collegamento tra il primo
Consiglio e i Consoli e aveva la funzione di fornire pareri consultivi o vincolanti al
governo cittadino. Dei due Consigli facevano parte i membri della classe dominante
(p. 105).
d)I rapporti con l’esterno: autonomia comunale e sovranità imperiale
Rispetto all’impero, il comune si atteggiò inizialmente come entità di tipo
vassallatico, come nuovo feudo. La crisi con l'impero interviene quando, dopo lunga
assenza degli imperatori dall'Italia, Federico Barbarossa pretese una a norma del
diritto romano, che apparve anacronistica, e pertanto inaccettabile.
Dopo lo scontro col Barbarossa, la pace di Roncaglia del 1158 definì l'assetto dei
rapporti tra impero e comuni: le prerogative imperiali furono mantenute, e le
autonomie comunali vennero riconosciute a titolo di concessioni e privilegi
imperiali, lasciando all'imperatore la sovranità, poteri giudicanti di appello sulle
cause di maggior valore e poteri fiscali che venivano esercitati tramite un delegato;
l’imperatore aveva anche il potere di esigere il giuramento di fedeltà dai reggitori
comunali e il diritto di essere ospitato. Pur dovendo valere solo per i comuni elencati
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Istituzioni di diritto pubblico AO –a.a. 2015-2016 Prof.ssa S. Niccolai
nella pace, queste condizioni si estesero a tutti fornendo la base di un diritto pubblico
cittadino (p. 105).
Il periodo più che ventennale delle lotte e trattative con il Barbarossa significò un
grande cambiamento nella forma di governo comunale: corrose dalle discordie e dalle
lotte di parte, dai tradimenti e dai comportamenti opportunistici ora verso
l’Imperatore, ora verso il papa, ora verso città vicine, le magistrature comunali non
erano più in grado di funzionare. In questa fase i Comuni ricorsero al podestà: un
forestiero chiamato a governare la città che non sapeva piu farlo tramite le proprie
magistrature, a causa delle discordie e delle lotte di parte, che spingevano le
famiglie o fazioni più potenti a non voler più affidare i propri interessi alle
magistrature cittadine.
e)Il periodo podestarile
Il podestà eletto doveva condurre con sé assessori giurisperiti (giudici) notai
(cancellieri o segretari) armigeri in uniforme che facessero rispettare gli obblighi
dell'autorità e mantenere l'ordine pubblico, rispondendo personalmente di ciascuno di
essi e pagandoli del suo. Doveva essere un forestiero, di una città non troppo vicina o
di un'altra regione, avere almeno trent'anni, essere nobile, non avere interessi nel
comune, non appartenere a un partito o fazione ostile a quello prevalente nella città
che stava per amministrare (p. 108).
Il potestà, più accentuatamente dei consoli (perché, a differenza di questi, non più
attorniato da organi deliberativi ampiamente rappresentativi), è strumento di governo
dei ceti aristocratici, che sedevano nei consigli e che da lì lo controllavano, dopo
averne influenzato l’elezione. E’ la conformazione dell’ufficio del podestà a dire con
una certa chiarezza che egli era una emanazione di gruppi più ristretti: i poteri erano
ampi, ma restava in carica solo un anno; non poteva prendere decisioni di rilievo se
non d’intesa coi Consigli, all’uscita della carica era soggetto a un sindacato (a
seconda dell’esito del quale gli veniva corrisposta una parte, sino ad allora trattenuta,
del suo onorario), il che gli consigliava certamente di non dispiacere ai gruppi
dominanti. E’ vero però, anche, che l’esperienza podestarile segna un esperimento
importante nella direzione di un problema certamente fondamentale
nell’organizzazione pubblica, quello cioè della responsabilità di coloro che
esercitano funzioni pubbliche, nei confronti della comunità in nome della quale
agiscono.
f)Tra egualitarismo e discriminazione: le contraddizioni dell’esperienza
comunale
Come ha osservato Augusto Cerri, “il principio di legalità si afferma vigorosamente
nella civiltà comunale e in forme così radicali da ricordare l’isonomia della
democrazia ateniese: i giudici, i funzionari, sono ad esso soggetti e responsabili per
gli errori commessi nell’esercizio delle loro funzioni secondo il diritto comune, e cioè
nei limiti della colpa professionale”. Questa è una manifestazione della radice
egualitaria che compone un elemento molto importante dell’esperienza comunale.
Come la stessa parola ‘comune’ dimostra, l’esperienza comunale, scrive ancora Cerri,
“sorge dall’esigenza degli abitanti della città di garantire i beni essenziali dell’ordine
pubblico.” E’ vero però che gli sviluppi successivi di questa spinta originaria fecero
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Istituzioni di diritto pubblico AO –a.a. 2015-2016 Prof.ssa S. Niccolai
del comune il campo di lotte e di azioni profondamente discriminatorie (la lotta tra i
magnati, che erano le famiglie influenti insignite della dignità cavalleresca, il popolo
grasso, costituito dalle corporazioni delle arti maggiori, come l’arte della lana; e il
popolo minuto, costituito dalle corporazioni delle arti minori); come è vero che gli
abitanti del contado erano rimasti esclusi dalla partecipazione alla vita politica, e che
lo stesso potere politico era gestito non dal cittadino come singolo ma attraverso le
corporazioni e le arti (cfr. ancora Cerri, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, cit.,
p. 90-91). Il comune medievale, in altri termini, è un caleidoscopio di tensioni
diverse, e della contraddizione tra le sue componenti molto significativa è appunto la
fase podestarile, su cui ci stiamo adesso soffermando.
g)Capitani del popolo
Il regime podestarile si spiega dunque, dicevamo, come un tentativo dei ceti
dominanti, i magnati, di mantenere il potere allontanandosene un poco, per cercare
in questo modo di evitare il prorompere della contestazione dell’assetto aristocratico
del comune, da parte del resto del popolo, quei possessori di ricchezza mobiliare che
erano stati esclusi dalla iniziale costituzione del comune, e dalle sue magistrature (il
popolo grasso, appunto), e che premevano per entrarvi. In reazione alla istituzione del
podestà, il popolo grasso dette però a sua volta vita a una propria organizzazione
politica, che si contrappose alle magistrature comunali.
Forti dei loro mezzi e inquadrati militarmente, i nuclei popolari, le società di arti e di
armi si staccano dal vecchio comune o lo dominano dall'interno o gli si sostituiscono
formando un'altra organizzazione ugualmente comunale ma popolare, un comune del
popolo col suo capitano. Si trattava anche stavolta di un forestiero col suo seguito di
giudici, funzionari ed agenti, replica del podestà, le sue assemblee e i suoi consigli
deliberativi. Accanto alle ordinarie magistrature del comune magnatizio, oligarchico
e tradizionale, si pongono il comune del popolo e il suo capitano, incaricato di
proteggere gli interessi delle classi popolari. Inizialmente, il comune popolare si
affiancò dunque alle strutture di governo preesistenti: il giuramento di unione e
concordia delle organizzazioni e dei capi impegnava le due componenti, magnati e
popolo grasso, alla comune difesa degli interessi della città (p. 135). In questa fase
“Il popolo organizzato militarmente e corporativamente, invece di sovrapporsi al
comune si limita ad assumere un ufficio di guida e di controllo, come i partiti di
governo degli stati totalitari”.
Tuttavia, la nascita del comune popolare significava la fine del monopolio
aristocratico nel comune. I popolani riuscirono a raggiungere a loro volta il potere, e
realizzano due obiettivi politico sociali: quello di escludere dalla partecipazione al
governo della cosa pubblica qualunque cittadino che non fosse iscritto nella
matricola, o registro, delle arti o professioni, e quello di emanare norme tali da
mettere la vecchia aristrocrazia comunale dei nobili e dei magnati in stato di
inferiorità giuridica e soggezione (136).
Risultato e obiettivo della fase popolare non era l'eguaglianza, ma la ricostituzione
del privilegio a favore delle classi medie e a danno del popolo minuto come delle
conventicole precedentemente al potere. La direzione della cosa pubblica resta a una
oligarchia plutocratica che si rifiutava di aprirsi al popolo minuto (macellai,
artigiani), il quale era comunque, a sua volta, una élite rispetto agli operai non
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Istituzioni di diritto pubblico AO –a.a. 2015-2016 Prof.ssa S. Niccolai
qualificati che non potevano accedere alle arti. In questo contesto, anche il popolo
minuto cercò di entrare nel governo delle città. Non vi riuscì, se non brevemente e
come movimento rivoluzionario (si ricorda in particolare il “ tumulto dei Ciompi” a
Firenze nel 1378). Le agitazioni che i comuni conobbero per effetto del il moto
verso un governo del “secondo popolo” ebbe però grandi conseguenze politiche. Non
solo indebolì il comune, che si trovò insidiato all'interno e all'esterno (i fuoriusciti e
‘banditi’ di un comune, cioè i cittadini messi a bando per le loro opinioni politiche,
affiliazioni e appartenenze, fanno lega con un comune in cui i loro consorti sono al
potere, e contro la propria città), ma spinse le classi dominanti a una stretta intorno ai
propri interessi, che condusse alla perdita dell’autonomia comunale.
Conviene allora soffermarsi un poco a considerare le diverse componenti della fase
‘popolare’ dei comuni, in cui possiamo vedere una sorta di almanacco mitopoietico
delle immagini e delle manifestazioni del potere in Italia.
h)Fanatismo politico, Accentramento territoriale, Scambio tra potere economico
e potere politico
Il comune popolare è, intanto, una fase di vero e proprio fanatismo politico, dai
contraddittori risultati. Il comune si indebolisce all’interno, ma rafforza il suo potere
sulle aree circostanti, operando come agente di indebolimento dei vincoli feudali e
comunitari.
“L’impeto della passione politica era talmente cieco e dissennato che, per
precetto statutario, il cittadino messo al bando o anche soltanto esiliato poteva
essere impunemente ucciso da chiunque e dovunque come pubblico nemico. I
nomi dei cittadini così colpiti venivano iscritti in appositi libri, dei quali si dava
pubblica lettura. La dottrina giuridica del tempo, però, negò all’uccisore del
bandito la qualifica di esecutore di giustizia. La libertà di discussione non
poteva stabilirsi tra parti le quali non sembravano avere in comune che
reciproco odio: le fazioni trionfanti rendevano la vita così difficile ai loro
avversari, che questi non rischiavano quasi niente a metterla a rischio in una
sommossa o in un tentativo di invasione. Il numero dei proscritti ed esiliati
diminuiva più di una volta sensibilmente la popolazione cittadina.
Al contrario, durante questo periodo la subordinazione e il coordinamento
politico ed economico del comitato o distretto cittadino, cioè del territorio
circostante, che comprendeva talvolta anche i piccoli castelli, erano diventati
una effettiva e vantaggiosa realtà, dando vita a una forma di concentrazione
territoriale. Sebbene ai rurali o contadini non venissero estesi i privilegi
connessi alla cittadinanza comunale, la reazione antimagnatizia ebbe
comunque come rilevante effetto l’affrancamento delle classi servili. In odio
alla nobiltà detentrice della proprietà terriera (più che per favor libertatis),
terre, coloni e dipendenti servili furono senz’altro dichiarati liberi da ogni
peso e obbligo personale verso gli antichi proprietari. (p. 137 e 138).
i)In particolare: La manomissione dell’ordine giuridico e dell’ordine
economico fatta “in difesa degli averi”
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“Non bastando loro gli onori e lo imperio sopra
li meno ricchi e gli più deboli, volevano ancora
godersi, anzi usurparsi, il patrimonio pubblico,
con mille sconci interessi e aperte rubberie.
Volevano con nequitose leggi proibire i
guadagni leciti e quelli che essi medesimi
cercano e fanno, e si ingegnavono di drizzare un
monopolio e diventare non meno abbondanti di
ricchezze che di superbia e di potenza: cose
tutte pessime e contrarie al vivere civile” (G.
Guiduccioni, Orazione ai nobili di Lucca,
1553).
Il comune popolare è essenzialmente un fenomeno di scambio tra potere
economico e potere politico, nel senso che i detentori del potere economico
cercarono di condizionare il governo della comunità in modo che esso fosse
esercitato nel loro interesse. Per questo motivo l’esperienza del comune popolare
merita attentissima considerazione. Essa ci fa riflettere su come l’alterazione
dell’ordine etico dell’economia (la ricerca di guadagni abusivi, ottenuti mediante
la realizzazione di monopoli e intese restrittive della concorrenza, e lo
sfruttamento indiscriminato del lavoro) e l’alterazione dell’ordine giuridico e
politico (il dispotismo, l’uso privato del potere pubblico) siano inestricabilmente
legati. A cogliere le alterazioni e gli abusi che il premere degli interessi economici
causava nel governo della cosa pubblica, e dunque nel diritto, furono i giuristi, i
quali misero in evidenza che:
“La perversione della vita sociale in un ordine statico – che mirava
unicamente ad irrigidire e perpetuare la tutela dei privilegi dei “magnati” nei
confronti dei “popolani”, portò alla negazione delle fondamentali libertà [che
erano già state identificate come tali dai glossatori italiani]:
a) La libertà nel commercio e nell’industria risultò pesantemente ostacolata dagli
abusi delle corporazioni economiche dominanti (come l’Arte della lana), e
dalla frequenza dei monopoli organizzati mediante le ‘intese’ tra imprenditori,
variamente denominate: coniuratio, conspiratio, conventicula, comunella,
rassa,
b) la libertà di accesso al lavoro venne frustrata da una normativa oppressiva nei
confronti dei salariati (laborantes), sottoposti alle varie arti. Da un lato
l’iscrizione alle corporazioni era limitata a figli e nipoti dei maestri; e pertanto
restava preclusa ai laborantes la prospettiva di migliorare la propria posizione.
Dall’altro, il divieto di associazione parificava ogni tentativo di fratellanza
operaia a una coniuratio. Tale delitto era perseguibile con gravi sanzioni penali:
in Firenze Ciuto Brandini fu impiccato nel 1345 su ordine della corporazione
dell’Arte della lana perché “tentò di introdurre pericolose novità in danno
dell’avere dei cittadini, indicendo a tale scopo pubbliche adunanze presso la
Chiesa di Santa Croce e quella dei Servi”. La limitazione della libertà di
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Istituzioni di diritto pubblico AO –a.a. 2015-2016 Prof.ssa S. Niccolai
accesso al lavoro aumentava la povertà; la beneficienza costituiva un vasto
campo di corruzione e di attività lucrose;
c) la libertà della ricerca nella tecnica e nella scienza non era incoraggiata in
una società, in cui l’organizzazione del lavoro non si ispirava a criteri di
razionalità e di efficienza: una rigida e formalistica difesa delle proprie
competenze, di cui erano gelosissime le varie arti, bloccava la strada al
progresso tecnico e all’invenzione (per esempio: divieto al filatore di
accoppiare il filo di canapa e quello di lino; divisione in cinque arti della
professione di cappellaio).
I laborantes insomma restavano confinati come schiavi in una situazione di
emarginazione sociale; ed i salari in ogni caso non dovevano superare il livello
di sussistenza. Nella ideologia dei magnati, peraltro, la povertà trovava la sua
giustificazione in una economia dei salari bassi, secondo la quale esiste una
relazione inversa tra salari e laboriosità: alti salari servono solo a favorire
oziosità e vizi del lavoratore. La conflittualità tra magnati e popolani, che
sfociò in traumatici tumulti, si risolse a favore dei primi realizzando il
fenomeno che abbiamo chiamato scambio tra potere economico e potere
politico, e che è la confusione e sommatoria tra i due. Le corporazioni non solo
ottennero che i divieti – posti a tutela dei loro privilegi – venissero inseriti
negli statuti comunali (per cui la violazione delle norme statutarie dell’Arte
era violazione di quelle dello Stato, e un fatto di natura privata, di rapporti tra
operai e padroni, diventava di diritto pubblico e dava modo, ciò che agli
artefici di ciò interessava, di rendere più gravi e attuabili le pene inflitte ai
trasgressori), ma altresì ottennero dai titolari del potere politico la
concessione di monopoli legali.
Nel passaggio dal comune alla signoria risultava già aperta la strada al disegno
del principe mirante ad appropriarsi di due istituzioni la cui autonomia era stata
sinora fondamento del costituzionalismo medievale: l’ordine economico e
l’amministrazione della giustizia.
I giuristi del mos italicus nel XVI secolo reagirono a ciò facendosi interpreti
della coscienza collettiva, allarmata dagli effetti perversi dei monopolia anche
al di là dell’ordine economico. I legisti opposero alla strategia vincente – ossia
la subalternità dell’ordine economico al gubernaculum, la strumentalizzazione
del governo dei rapporti economici agli interessi dei poteri economici che
erano anche poteri di governo – la vocazione antimonopolistica del diritto
romano comune, diffidente nei confronti dell’intervento del principe
nell’economia”13.
Il risultato di questo lavoro fu la messa in evidenza di un dato, troppo stesso
dimenticato: la razionalità economica del ‘guadagno’, se agisce da sola, se è
svincolata da responsabilità etica, mette a repentaglio la convivenza civile.
m) La libera concorrenza come manifestazione dell’eguaglianza nei rapporti
economici
I giuristi italiani di questa epoca, dunque, enuclearono la nozione di monopolio
come alterazione abusiva della libera concorrenza. Il concetto di concorrenza,
infatti, ha una origine nella scienza giuridica, non in quella economica (ma solo
13
Questo paragrafo è interamente tolto da A. Giuliani, Giustizia e ordine economico, Milano, Giuffré, 1997, p.
127-130.
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in quella giuridica mantiene la connessione con il significato etico della libertà
di concorrenza, che tende a essere perduto nella concezione meramente
economicistica della stessa, oggi imperante. Quel significato etico, che ai
giuristi medievali premeva difendere, che consiste nel fatto che la libera
concorrenza, manifestazione dell’eguaglianza nel campo dell’economia,
garantisce che il guadagno sia ottenuto onestamente, non ricorrendo a pratiche
abusive che restringono la libertà commerciale altrui o consistono nello
sfruttamento del lavoro.)
I giuristi dell’età comunale italiana:
- misero allora in relazione le pratiche monopolistiche con la alterazione
artificiosa dei prezzi, condannando il monopolio come contrario alla
publica hutilitas perché ivi il prezzo, invece di essere stabilito dal mercato
(communis aestimatio) viene a dipendere dall’arbitrio e dalla sete di lucro
del monopolista. Il monopolio rende difficile l’esercizio della libertà nel
commercio e nell’industria da parte dei più deboli;
- evidenziarono la relazione tra limitazione dell’accesso al lavoro e povertà
e la relazione tra livello dei salari e laboriosità: la ‘economia dei bassi
salari’ fu denunciata come falsa, contraria sia all’efficienza del mercato,
sia all’equità. I giuristi compresero che la povertà diffusa era
conseguenza dell’illecito arricchimento e misero in evidenza le
conseguenze deleterie della povertà sull’ordine civile: da un lato il povero,
‘vivendosi nel suo stato malcontento, diviene desideroso di cose nuove,
perché spera con la mutazione del governo potersi cangiare la sua fortuna’;
dall’altro la povertà taglia le ali al volo degli ingegni superiori,
rappresentando un ostacolo al progresso, come osservava il giurista
rinascimentale P. Paruta nel suo Della perfezione della vita civile, 157914.
n) La privatizzazione del potere pubblico: da Comuni a Signorie
Per effetto dell’egoismo dei magnati, il comune “popolare” segna anche la fine
dell’autonomia comunale: essi si erano così tanto appropriati del potere pubblico
da far coincidere la sorte della città coi loro stessi e soli interessi.
“Piuttosto che addivenire a onorevoli accordi con gli aristocratici e col popolo
minuto, il governo popolare cerca affannosamente ogni mezzo per
sopravvivere, o, quanto meno, per impedire la riscossa avversaria. Ora la città
si dà in balia (o bailia, da bailus o baiulus, o balius, cioè tutore) di un
personaggio singolo o di un piccolo gruppo di cittadini, investendoli di poteri
inusitatamente ampi (plenaria, libera, totalis et absoluta potestas; auctoritas et
balia quam habet popolus; providere et ordinare et disponere et deliberare
totum et quicquid et prout et quotiens voluerint…). Ora si consente o
addirittura si decide – più di una volta, poi, l’iniziativa è presa dal ‘parlamento’
o dai ‘Consigli’ – che i Capitani del popolo, o Podestà, o Capitani generali,
ecc., restino in carica anche dopo lo scadere del termine originariamente
prefisso; a lungo, o persino a vita e con poteri nuovi o maggiori, come se la
loro permanenza al potere basti a scongiurare ogni pericolo o danno. Così, in
14
Citato da A. Giuliani, p. 133, da cui sono tratti anche i contenuti del capoverso.
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nome della pace e della libertà si determinava la fine della libertà comunale.
Molte volte il potere veniva conquistato altrimenti, con la frode, con la
violenza o con l’intimidazione.
“Quella che poi sarebbe apparsa come libera decisione popolare era quasi
sempre il risultato di una lotta per il primato da parte delle famiglie più
potenti. A Milano, per esempio, la cosa stava proprio in questi termini. (142143).
Il Comune si trasformò in Signoria quando il Capitano del popolo o il Podestà, pur
nominati temporaneamente, resero permanente la loro carica: si stabiliva così il
dominio aristocratico di una famiglia. Le Signorie stabilirono nuovi rapporti con
l’Impero. Con la venuta in Italia dell'Imperatore Arrigo VII, i Signori si fecero
riconoscere come Vicari imperiali. Si trattò di uno scambio reciprocamente
conveniente: conferendo ai Signori cittadini la carica di Vicario Imperiale,
l’imperatore intendeva servirsene per un riordino accentrato e burocratico dell'Italia,
vedendo inoltre confermata la propria sovranità politica sui loro territori; essere
Vicari imperiali, permetteva ai Signori di rendere autonomo il proprio potere rispetto
ai cittadini. Elezioni e riconferme divennero superflue (p.145). Anche il papa creò,
nelle città ricomprese nello Stato della Chiesa, Vicari apostolici.
Se, con questo passaggio l'imperatore tornava potenza politica in Italia, dato che il
rapporto di vicariato è una reincarnazione della feudalità, era vero anche che, rispetto
all’interno, i Signori acquistavano la posizione di veri e propri monarchi “che si
incamminarono, con anticipo sui tempi storici, nell'opera assolutistica di abbattere i
privilegi feudali ed ecclesiastici, di protezionismo che altrove sarebbe stata tipica
delle monarchie del periodo immediatamente successivo”. (p. 149).
o) Da Signorie a Principati
Nel XIV secolo, le Signorie si trasformarono in Principati. I Signori intendevano in
tal modo svincolare, sciogliere, la propria autorità sia dalle superstiti autonomie
comunali sia dall’imperatore, onde semplificare e rafforzare la propria posizione
giuridica. Rispetto all’interno, lo svincolamento dalle preesistenti autonomie avvenne
grazie al fatto che i Comuni ricompresi nel territorio controllato dalla Signoria
facevano, spontaneamente o meno, atto di dedizione: per effetto di questa
abdicazione dei Comuni dalle loro autonomie le norme giuridiche non dovevano più
essere promulgate separatamente per ciascuno dei comuni e dei territori dipendenti.
Si realizzò così un processo di unificazione, reso possibile anche dal fatto che, delle
parti non comunali dei loro territori, i Signori cittadini erano feudali diretti o indiretti.
Verso l’alto, nei confronti dell’Impero, la rivendicazione di autonomia fu ottenuta
grazie al riconoscimento, in favore dei Signori, di un nuovo e più importante titolo:
quello non più di Vicari dell’imperatore ma di Princepes, non più di funzionari ma di
titolari di una porzione di sovranità. Ciò conveniva anche all’imperatore, che si
vedeva a sua volta confermato come colui che aveva il potere di legittimare e
consacrare i nuovi organismi pubblici. Chiedendogli prima il vicariato, poi dignità e
titoli di principe, i nostri signori e tiranni cittadini avevano rinverdito il mito
dell’universalità e della supremazia del potere imperiale (p.173), confermata anche
dalla clausola dell’atto di concessione del Principato, che sanciva il ritorno del
dominio all’imperatore in caso di estinzione della casata. Del resto, la Bolla d’oro del
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1356 aveva reso indipendenti anche i principi elettori germanici, aprendo anche in
quell’area il passaggio a una maggiore indipendenza dei territori ancora formalmente
soggetti all’Impero. Ottenendo a loro volta la qualifica di principi dell’impero proprio
in quel periodo, i signori italiani ne ricavavano un incentivo a sciogliersi dalla
dipendenza dell’imperatore e a rafforzare la loro autorità, sul modello dei principi
tedeschi.
“L’antico Signore-funzionario, il Vicario, veniva elevato ad una nuova e
suprema dignità, quella dei principe, cioè, come significava il linguaggio del
tempo, di sovrano. Del Duca di Milano il giurista piemontese Pierino Belli
ebbe a dire che egli, stando al posto del principe supremo (e cioè
dell’Imperatore), aveva la stessa pienezza di poteri dell’imperatore medesimo.”
(p. 155)
L’istituzione del Principato fu una originale creazione del Rinascimento italiano,
anticipatoria delle moderne concezioni assolutistiche. Esemplari furono le vicende
del ducato di Milano. Dopo la sua elezione, Gian Galeazzo Visconti si fece giurare
fedeltà dai milanesi che lo avevano eletto, così distruggendo in modo solenne il
principio di l’elezione e di conferimento dei poteri; e fu lui stesso a nominare il suo
successore. I nuovi sovrani non conoscevano il freno degli istituti parlamentari. Nel
principato di origine cittadina scompare il corpo rappresentativo deliberativo e i
comuni diventano organi locali dell’amministrazione territoriale con a capo
funzionari ducali (p. 157). Il Comune non più autonomo è ora organo locale della
amministrazione dello stato, e i suoi amministratori diventano funzionari ducali. I
cittadini, diventano sudditi.
Milano – Modena Reggio e Ferrara(Estensi) – Mantova (Gonzaga) sono le
autentiche esperienze principesche. Venezia conserva invece le prerogative del ceto
aristocratico nei confronti dei dogi; Firenze, finché resta repubblicana, è a metà tra un
comune e una monocrazia e mascherata tirannide; anche in epoca signorile si
mantengono in Firenze, ma solo con funzioni giurisdizionali, le vecchie magistrature
comunali.
p) Il Ducato di Milano, paradigma della modernizzazione assolutistica e statuale
del potere pubblico rappresentata dalle Signorie
Tra Visconti e Sforza il Ducato di Milano acquistò una struttura ‘statale’
organizzando il particolarismo comunale sotto un governo unitario che solo
nominalmente dipendeva dall’impero.
Già nel 1440 è completa una moderna struttura di governo: intorno al Duca si
costituisce un apparato amministrativo e di consulenza nelle attività di governo. Il
Duca è affiancato da due Consigli (Consiglio di giustizia e Consiglio segreto), un
Cancelliere, che è l’alter ego del principe e il Capo del Consiglio di giustizia; è
strutturata la Magistratura delle entrate, con addetti alla riscossione dei tributi
(referendari curiae). I due Consigli saranno successivamente fusi in un unico Senato
con potere di interinazione. Con modalità tipiche dell’assolutismo, lo stato di Milano
lotta contro la feudalità, ordina la distruzione dei castelli, riduce le giurisdizioni
feudali, sostiene l’economia, organizza i mestieri, esercita una onerosa e tirannica
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pressione tributaria, adotta un rigoroso protezionismo in campo economico e anche
nella materia scolastica (l’Università di Pavia, istituita dai duchi, è chiusa agli
stranieri15), fornendo un modello che sarà imitato da Venezia, Pisa, Firenze, Torino.
Durante il Cinquecento, periodo della lotta per il predominio in Italia tra Francia e
Spagna16, la Savoia, Milano e Napoli sono oggetto di contesa e campi di battaglia. Il
Ducato di Milano è assunto da Luigi XII di Francia, discendente per linea femminile
dal primo duca di Milano; col successivo passaggio all’Imperatore spagnolo (Filippo
II) alle istituzioni del Governo signorile sono affiancati, poi sostanzialmente
sostituiti, i rappresentanti dell’Imperatore e la città diviene ‘governatorato’.
Lo Stato di Milano perdette la sua autonomia e divenne provincia governata secondo
i canoni assolutistici, che erano ormai consolidati nei modi di governo dell’Impero
spagnolo.
2. I Domini Sabaudi
a) Il rapido superamento del governo misto e la precoce costituzione di un
modello assolutistico
I Savoia erano feudatari imperiali e vicari dell’impero nel loro dominio, nel quale
godevano di grandissima autonomia garantita dall’imperatore con sempre più ampi
patti e conferme di infeudazione, come premio di fedeltà. I Savoia avevano acquistato
una condizione di indipendenza di fatto grazie alla formale fedeltà assicurata
all’imperatore, analogamente a quanto accadeva ai principi germanici.
Inizialmente, si trattò di una tipica monarchia feudale. Il potere del conte non era
uguale né uniforme in tutto il territorio, il quale era costituito da una moltitudine di
possessi, signorie, comuni, feudi (p. 212). Pur in questo contesto sin dal XII secolo,
con le statuizioni di Pietro II, i principi sabaudi avevano assunto però un potere
legislativo che, a quei tempi, non era preteso né esercitato neppure da potentati ben
maggiori del loro. Contenendo l’affermazione per cui “la legge e la giustizia devono
essere uguali per tutti, nobili e non nobili, ecclesiastici, cittadini e rurali”, lo Statuto
sabaudo diceva chiaramente che l’intento dei Savoia era quello di rafforzare l’idea
dello Stato e il potere centrale a detrimento dei poteri locali (p. 216). Sulla stessa
linea andavano il fatto che il potere di interpretazione dello statuto di Torino fosse
riservato al Conte – o il tenore degli statuti del 1423 e del 1430, privi di indizi di
limitazione del potere sovrano (p. 216). Nel 1379 Amedeo VI emana leggi (capitula,
statuta et ordinamenta) “col piglio di un sovrano perfettamente e completamente
arbitro del potere legislativo, ex eius certa scientia, ordinando che esse venissero
osservate inviolabiter, sicut lex in corpore legum inclusa, ossia, ne più né meno come
se si trattasse di una costituzione imperiale”. La struttura amministrativa, a sua volta,
è matura nel XV secolo con Uffici centrali del governo, con a capo un Cancelliere,
uffici finanziari e organi locali di amministrazione (p. 218).
Sull’esempio di Federico II di Svevia, che, fondata nel 1224 l’Università di Napoli (che oggi ne porta il nome),
la chiuse agli stranieri.
15
16
La lotta sarà combattuta perfino nello Stato della Chiesa (Sacco di Roma, 1527).
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Quale spazio ebbero in questo contesto i meccanismi rappresentativi dell’ordine
antico? La risposta di Margongiu è che essi vennero mantenuti solo per un calcolo di
convenienza politica. Più volte era accaduto che i poteri locali si opponessero alle
pretese del Conte, determinandone reazioni molto scomposte. Per esempio: nel 1362
il capitano generale del Piemonte per conto di Amedeo VI deplora che in una
precedente assemblea gli inviati del Comune di Moncalieri abbiano cercato di
rompere, con la loro opposizione, l’unanimità ‘del gregge dominico convivente
nell’unico ovile’, e ordina ai reggitori del comune, con minaccia di gravi sanzioni
pecuniarie ove non provvedano, di revocare tali ambasciatori e di nominarne degli
altri, investiti di dare voto favorevole all’accoglimento delle domande governative.
Oppure: avendo Torino, nel 1410, rifiutato di consentire al voto del sussidio, i suoi
consiglieri vengono arrestati e tenuti in ostaggio, fino a quando il comune non
provveda a sostituirli o a dar loro ordine di recedere dall’opposizione. Nel 1417,
Ludovico principe di Acaia comunica che ha fatto arrestare e farà processare per
cospirazione contro di lui gli ambasciatori cittadini i quali (cum diminucione nostri
honoris) hanno deciso di opporsi al donativo che egli ha domandato per dotare sua
nipote Matilde. Insomma: i poteri locali riuscivano a intralciare, a ostacolare le
pretese del sovrano.
In tutti i casi in cui, come in quelli ora ricordati, erano sorti contrasti tra i poteri locali
e le pretese del conte, le pretese comitali furono accolte ma con patteggiamenti: ne
nacque la prassi di sottolineare che i concedenti lo facevano ‘graziosamente’ e, da
parte dei conti, col rispetto delle dovute forme. Comprendendo che opporsi con la
forza alle autonomie territoriali e cetuali era costoso e inefficiente, i Savoia
istituirono, in altri termini, con quelle un regime di reciproche concessioni che ebbe
il vantaggio di consentire pienezza e regolarità dell’amministrazione. Invece di
vedere il Conte procacciarsi i soldi “con ruberie, prestiti forzosi, manovre e paralisi
del sistema e della circolazione della moneta, infeudazione di beni e di diritti
demaniali, mutui onerosi all’interno e all’esterno del paese”, gli stati concedono al re
sul piano finanziario mentre tengono franchigie giudiziarie e legislative (p.221-223),
e pretendono che le clausole apposte ai donativi mettano in evidenza che essi sono
concessi senza obbligo e senza l’intenzione di costituire un precedente da invocare o
seguire in analoghe circostanze. Insomma si crea una bilateralità, la cui espressione
diventa il parlamento di Torino, in cui si riunivano i fedeli e i vassalli del conte, e
che era la sede in cui presentare le ‘querimonie’ o rimostranze delle città e dei
contadi contro gli eccessi di zelo, gli abusi e le malefatte dei pubblici funzionari, e
divenne la sede alla quale i sovrani chiedevano aiuto e consiglio.
Avvenne così, quasi per forza di cose, l’inserimento di un momento rappresentativo
nella direzione dello stato, mediante un organo collegiale che appariva titolare di
funzioni di controllo sull’amministrazione e di decisione nel settore finanziario, e che
rispondeva a una logica strumentale: per i sovrani conveniva trovare l’accordo coi
vassalli e le città e i comuni onde ottenere più efficacemente il donativo e la sua
riscossione, per vassalli città e comuni poter esprimere in parlamento le proprie
rimostranze rendeva più facile la riparazione e l’accoglimento di gravami e querele.
Sebbene il consenso dei feudali non fosse né libero, né disinteressato, il parlamento
“dei tre stati” sabaudo divenne dunque una importante e riconosciuta realtà, la cui
caparbietà in difesa delle proprie attribuzioni è testimoniata da più di un episodio. Per
esempio:
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Nel 1444, di fronte alla richiesta ducale di un donativo da offrire all’imperatore
Sigismondo, i ‘tre stati’ mandano a consultare il collegio dei dottori giuristi di
Pavia per sapere se il duca abbia, o no, il diritto di pretenderlo (p. 225).
Il parlamento dei tre stati ebbe due composizioni, una ‘cismontana’ (Savoia, con
sede a Chambery) e una ‘oltremontana’ (Piemonte, con sede a Torino). I due
parlamenti piemontesi erano chiamati Senati e avevano, rispetto al resto d’Italia, una
composizione molto ampia (feudalità, minore nobiltà e piccole comunità); il loro
funzionamento era fondato ( cosa anche questa, oltre alla loro denominazione di
‘stati’, presa dalla Francia), sul mandato imperativo, cioè sull’obbligo dei membri
degli stati di attenersi scrupolosamente alle istruzioni loro conferite dai ceti. Verso la
fine del 1400, in un periodo di indebolimento del potere ducale dovuto a incertezze
nella successione e a reggenze, i parlamenti tentarono di ampliare le loro competenze,
chiedendo che fosse introdotto il principio della partecipazione del parlamento alla
scelta dei consiglieri, cioè ministri, ducali, la biennalità delle sessioni e la
convocazione spontanea se il duca la avesse omessa.
b)Lo stato sabaudo
Durante gli sconvolgimenti della prima metà del 1500 i duchi di Savoia persero i loro
possedimenti finché Emanuele Filiberto, dopo avere riconquistato in armi la Savoia,
si vide restituiti i suoi possessi nel 1559 con la pace di Cateau-Cambresis.
Con Emanuele Filiberto avviene nello stato sabaudo la svolta assolutista, e questo
significò, per il parlamento dei tre stati, la fine del percorso che lo aveva visto
acquistare crescente potere e influenza. Conoscendo il modo spagnolo per essere
stato comandante e governatore di territori spagnoli, spagnola (ossia ‘imperiale’) era
la sua concezione del potere sovrano: superiorem non recognoscens, e svincolato
all’interno dal rispetto dell’ordine tradizionale.
Emanuele Filiberto trasformò l’antico stato sabaudo da monarchia feudale
rappresentativa in monarchia pura, in cui il potere del sovrano è pieno, esclusivo e
assoluto. La rottura degli ordinamenti antichi, che egli realizza, si giustificava col
fatto che egli aveva riconquistato il Regno militarmente, dunque non era obbligato a
tenere in vigore il vecchio ordinamento; non era tenuto ad alcuna gratitudine verso i
sudditi, perché essi avevano tradito i loro sovrani accettando di collaborare con la
Francia; la sua svolta assolutista fu resa possibile anche dal fatto che guerre ed
epidemie avevano decimato la vecchia classe dirigente.
Emanuele Filiberto convocò gli stati l’ultima volta nel 1560, non giurò di rispettare
gli antichi privilegi, ed pretese comunque il pagamento delle contribuzioni (p.323):
impegnato nell’espansione politica e militare dello stato, nonché in una rigida
persecuzione di Valdesi ed Ebrei, Emanuele Filiberto aveva bisogno di risorse,
ricorreva continuamente all’aumento delle imposte, e non vedeva di buon occhio i
comuni i feudali attaccati ai loro secolari privilegi, in specie quello di concedere o
negare i donativi.
Eliminati gli stati, il re rimase l’unico potere costituzionale del paese, con esercizio
esclusivo del potere legislativo.
Mano a mano la monarchia sabauda andò rafforzandosi, essa diventò sempre più
insofferente di freni e di ostacoli: con Carlo Emanuele III, nel sec. XVIII, fu
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escogitato l’espediente di chiamare a parte delle decisioni del Sovrano, oltre al Gran
Cancelliere, i presidenti dei due Senati (i parlamenti di Torino e Chambery). In
questo modo il Sovrano si rendeva sicuro a priori del pacifico accoglimento dei suoi
provvedimenti e le rappresentanze territoriali e cetuali venivano esautorate, a
vantaggio delle élite apicali (p. 327). Intanto, il potere di interinazione dei Senati
divenne puramente formale, posto che gli organi erano ormai una emanazione del
sovrano e che lo statuto prevedeva che in ogni caso ciascun Senato doveva interinare
l’atto a cui aveva fatto obiezione se per tre volte il Sovrano lo ripresentava, e cioè
dopo tre “giussoni” ( iussones, ordini, disposizioni del sovrano). La funzione
legislativa si concentrò nel sovrano, e dal Consiglio che lo affiancava, che diventerà
il Consiglio di Stato. Le province furono amministrate sotto il controllo dei prefetti.
Ricorreva tutto il corredo delle misure politico fiscali tipiche dell’assolutismo:
sull’esempio delle pratiche scorrette dei sovrani francesi, che Tocqueville tanto
stigmatizza, i Savoia per raccogliere denaro non mancarono per esempio di abolire, e
quindi riacquisire, i feudi non nobiliari, per poi rivenderli a più caro prezzo sempre a
non nobili. I Savoia “tassano tutto ciò che è tassabile rompendo le resistenze locali
degli ultimi nuclei più o meno parzialmente autonomi (feudali laici ed ecclesiastici,
comunità) e procedono sempre più decisamente verso un pieno e sfrenato assolutismo
(p. 335).
Verrebbe da dire che mentre in Francia proprio la continuità della monarchia ha
impedito un assolutismo pieno, generando l’esperienza contraddittoria di
modernizzazione assolutistica e sopravvivenza dei privilegi cetuali che è alla radice
della Rivoluzione, nell’Italia Settentrionale - caso paradigmatico il Piemonte –
guerre, occupazioni, usurpazioni e restaurazioni hanno sfibrato presto il mondo
medievale e agevolato una rottura con le istituzioni dell’ordine antico, che
presidiavano le libertà politiche e l’equilibrio tra i poteri, più radicale e
irrimediabile. In questo quadro, anziché come esercizio di libertà politica, i poteri
locali sembrano avere usato le proprie prerogative per difendersi contrattando coi
poteri di turno, allenandosi a una concezione strumentale e opportunistica della
politica che favorisce la concentrazione del potere decisionale in ristretti clubs di
vertice.
3. Sicilia, Napoli e Sardegna
Il Sud e la Sicilia hanno uno sviluppo diverso, come abbiamo accennato anche nella
parte introduttiva. Rispetto al quadro frazionatissimo e instabilissimo del Centro e del
Nord qui, nonostante i cambi di dominazione, si delineano più forti continuità, di per
sé favorevoli, da un lato, a una conservazione dell’ordine antico, che in effetti si
mantiene in quest’area, e particolarmente in Sicilia, in modo assai cospicuo.
Coi normanni e gli svevi, c’è l’esperienza di una monarchia che gli storici
definiscono ‘di tipo statuale’, in cui i sovrani-imperatori si ispirano al modello forte e
relativamente accentratore della monarchia romana, e, questo, specialmente in
funzione antipapale, cioè per rivendicare l’originarietà e indipendenza del proprio
potere da quello papale. Successivamente alla caduta degli Svevi, che, come sopra
ricordato, segna in tutta Europa un allentamento del potere imperiale, per questa area
vi è il passaggio agli angioni e quindi agli aragonesi, del cui regno Napoli, Sicilia e
Sardegna divengono vicereami; successivamente, nel 1720, vi è per la Sardegna
l’ingresso nello stato piemontese a impronta assolutistica, con spegnimento delle
tradizioni antiche; mentre Napoli e Sicilia compongono il Regno di Napoli, poi, sotto
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i Borbone, Regno delle Due Sicilie. In Sicilia, fino all’età napoleonica si mantiene
una costituzione feudale medievale, legata a, e generatrice di, una tradizione
autonomistica molto spiccata. Viceversa il Regno di Napoli conosce una evoluzione
in stile più assolutistico, dove però sopravvivono i privilegi di autogoverno della città
di Napoli, e dove lo stile di governo rimase assai meno interventista e
modernizzatore che non nelle aree del Nord e Centro.
a)Sicilia: il perdurare della costituzione antica
Morto Federico II nel 1250, si aprì in Europa la grande mobilitazione militare e
politica che avrebbe visto la Francia dichiararsi indipendente all’impero nel 1313,
l’Inghilterra nel 1320, la Castiglia nel 1329; quanto all’Italia fu la Sicilia l’unica area
per la quale si parlò di una acquisita posizione di indipendenza dall’Impero. Qui,
durante gli scontri tra angioini e svevi, aveva trovato la morte Corradino di Svevia
(1268). Egli venne giustiziato in seguito a una accusa di lesa maestà e in questa
pronuncia fu vista “la clamorosa sanzione della piena sovranità e indipendenza del
Regno dall’Impero. Marino da Caramaico o altri giuristi del tempo avrebbero ribadito
il principio in termini assoluti dicendo che il re di Sicilia era re Libero, a nessuno
soggetto, ossia che tutte le cose del regno appartenevano a lui come all’imperatore
appartenevano le cose dell’Impero”. (p. 165). Re di Sicilia fu inizialmente Carlo
d’Angiò. Dopo gli Svevi, infatti, la Sicilia fu occupata dagli Angioini, sostenuti dal
papa, ma la dominazione angioina venne mal sopportata e fu rovesciata per effetto
dei Vespri siciliani (1282): innescata da una ribellione nobiliare contro i francesi a
Palermo, la rivolta si trasformò in una guerra che interessò tutta la Sicilia e, dato che
gli angioini erano alleati del papa, assunse un significato antipapale e nazionalistico
che ne fece anche la causa di modifiche dell’intero scacchiere del potere su scala
europea. Di fatto, i Siciliani poterono rivendicare in seguito di avere scelto il
proprio re, perché i Vespri si conclusero con la salita al trono di Sicilia di Pietro III
d’Aragona chiamato dai Siciliani, autori così del passaggio della Corona dagli
angioini agli aragonesi (il nuovo Re, inoltre, era siciliano per parte di madre).
A differenza dei metodi che gli aragonesi adopereranno in seguito in Napoli e in
Sardegna, il regno aragonese adotta in Sicilia forme monarchico-parlamentari. Era
un chiaro riconoscimento dello spessore dei poteri ecclesiastici e feudali coi quali il
sovrano si trova a confrontarsi in Sicilia. Il re rimette ai sudditi le collette e le
esazioni e anche in tema di tributi governa d’accordo col paese. Scrive Marongiu:
Questo nuovo regime è il naturale sbocco del sorprendente episodio dei Vespri
siciliani, della espulsione degli angioini e dell’insuccesso dei tentativi e accordi
per restaurare la loro odiata dominazione. Esso si fonda in gran parte sulla
Voluntas Siculorum. Questo periodo, dal Vespro alla scomparsa dell’autonomia
siciliana17 è infatti caratterizzato dalla diretta e fondamentale partecipazione
dei siciliani al governo del loro paese. Di tale partecipazione il parlamento
generale fu, specie dopo la costituzionalizzazione di esso da parte di Federico
II d’Aragona (1296) strumento importante e, in più di un momento, principale.
La Sicilia fu Regno autonomo fino a quando Alfonso il Magnanimo V d’Aragona, Re di Sicilia, non divenne
anche Re d’Aragona. In quel momento la Sicilia divenne Vicereame, cioè non più sede del Re ma del Viceré, che
fu, all’inizio, il fratello di Alfonso, Giovanni. La condizione di Vicereame fu condivisa con Napoli e con la
Sardegna.
17
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Questo, che dalla parte degli aragonesi regnanti era anche un modo di
affermare la autonomia di questo regno da quello di Aragona, corrispondeva a
una tenace esigenza e proposito del popolo siciliano. (p. 186).
b)Il Parlamento dei Bracci siciliani
Per duecento anni, “il problema siciliano fu quello della esistenza autonoma del
Regno di Sicilia di fronte a quello di Aragona”, e lo strumento di questa autonomia fu
l’istituzione parlamentare, vero organo centrale e direttivo della vita del paese
insieme al sovrano. Questo assetto venne sanzionato nella riunione del parlamento
del 1296, regnante Federico II d’Aragona, le cui conclusioni contennero l’obbligo del
sovrano di convocare annuali sessioni della curia (o parlamento); precisarono che
del parlamento facevano parte conti, baroni, e sindaci idonei e sufficienti forniti di
mandato delle comunità territoriali di cui erano espressione; e definirono la
competenza del parlamento, in quella, illimitata, di procurare il bene e la felicità del
re e del paese e l’obbligatorietà, anche per il re, delle sue decisioni “essendo più che
giusto che il sovrano dovesse per primo rispettare gli ordini da sé medesimo
impartiti”. Sul modello aragonese, alla fine del 1300 il parlamento venne costituito in
tre Bracci (clero, feudali, rappresentanti delle città demaniali, ossia non dipendenti da
alcun feudale), e la sua attività legislativa prese la forma di petizioni, da sottoporre
al placet del sovrano, e di risposte di quest’ultimo (leges pactionatae).
Si realizzava di lì in poi anche il sistema commutativo dei rapporti tra Sovrano
e assemblea: in altre parole, il sistema delle leggi pattuite (leges pactionatae),
cioè sanzionate dal re in cambio del corrispettivo del voto e della concessione,
da parte dei Bracci parlamentari, di più o meno cospicui, e, di fatto, periodici
contributi finanziari, a carico degli abitanti del paese (p.187).
Con la salita al trono d’Aragona di Alfonso il Magnanimo la Sicilia si si trasforma in
Vicereame (attorno al 1420). Nel momento in cui il potere sovrano si allontana dal
territorio, il parlamento conosce una trasformazione: i Siciliani continuarono ad
avere un parlamento, ma le leges pactionatae accentuarono sempre di più una logica
di ‘do ut des’ (dare una cosa per ottenerne un’altra in cambio), strumentale al
mantenimento di contingenti interessi più che del ‘bene’ del paese (p. 189: coi
donativi i ceti rappresentati in parlamento danno contribuzioni al re in cambio della
sanzione di leggi a loro convenienti).
I Siciliani continuano ad avere, nel parlamento, un efficace organo
rappresentativo. I sovrani, sollecitando e accettando i donativi o sussidi
finanziari, si impegnano a loro volta a dare e a conservare forza di legge alle
proposte dei Bracci, le quali sono infatti esaudite e sanzionate come “contratti
o leggi pattuite e convenute, irrevocabili in perpetuo, garantite da giuramento”.
Un autorevole scrittore siciliano dell’Ottocento, Rosario Gregorio, ha creduto
di osservare che tale procedimento costituisse ‘traffico e commercio sopra i
bisogni dei sudditi e i vizi dell’amministrazione pubblica’ , poiché “realmente
vendeansi le leggi ossia le riforme degli abusi… anzi i male intenzionati
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potevano sospettare che lasciavansi a bella posta sussistere gli abusi… perché
non mancasse la ragione di sempre nuovi sussidi.
Ferdinando il Cattolico eliminò il giuramento del re di osservare di volta in
volta le leggi sanzionate a iniziativa del parlamento. Da allora in poi, il sovrano
giurava di osservare le leggi del regno una volta per sempre: all’atto di presa di
possesso del trono. Ma la sanzione parlamentare sulle richieste del sovrano
restava pur sempre il prezzo che quest’ultimo pagava in cambio del donativo, e
il voto di questo era e rimase lo strumento, o l’argomento, più efficace dei
Bracci per realizzare la loro funzione rappresentativa. Votare il donativo,
d’altronde, significava anche esaminare e discutere l’impiego delle somme
concesse nelle sessioni precedenti e discutere la politica del governo viceregio.
Durante il primo periodo del regime vicereale, il parlamento apparve ancora
non solo rivestito di un’alta autorità, ma anche un organo rappresentativo
perfettamente idoneo ai suoi compiti. Nell’ambito dell’amministrazione
generale del paese, la sua importanza non è inferiore a quella dell’ufficio
viceregio (p. 189-190).
I caratteri assolutistici del governo viceregio verranno comunque a crescere:
Potere assoluto, pieno,
illimitato, pieni poteri ed ogni giurisdizione:
amministrazione delle entrate della corona, comando su tutti i pubblici ufficiali
ed agenti, facoltà di emanare norme giuridiche. Generalmente, era menzionato
anche, nelle lettere di nomina dei Viceré, la facoltà di convocare, di presiedere
e di concludere i parlamenti generali o particolari del Regno e di prendervi e di
mandare ad esecuzione le deliberazioni più atte al generale vantaggio (p.372).
La fase matura del Vicereame aragonese siciliano, si caratterizza così per un governo
assoluto, dunque, ma nei limiti della “legge del paese”, dove l’antica costituzione,
rappresentata dal parlamento e dai suoi poteri di sanzione, non si era mai spenta (p.
371).
D’altro canto, proprio perché il parlamento siciliano rimaneva la potente espressione
dei Bracci, la necessità di aggirarlo fece nascere prassi distorsive, come l’uso di
convocarlo solo dopo avere conquistato l’appoggio, anche sulle più banali decisioni,
dei parlamentari eminenti (p. 375 e 384), o come l’uso per cui, per dare la sanzione
alle richieste del re, bastava il voto di soli due Bracci (p. 384), con costi, alla lunga,
non indifferenti: il Parlamento usa il suo potere per barattare privilegi e favori, e
lucrarne, mentre a sua volta il Viceré si delegittima.
Con tutto ciò, però, va comunque segnalato il fatto che in Sicilia fino al 1700 rimase
il principio del necessario coordinamento tra Re e Regno, del quale il Parlamento era
l’espressione e la rappresentanza, e la necessità di reagire al decrescente rispetto delle
antiche leggi e consuetudini, nelle quali si facevano consistere le garanzie
dell’autonomia del Regno e del suo Parlamento, fu sentita ben più che quella di
abbandonare quel modello antico.
Il Parlamento fu quasi sempre all’altezza dei suoi compiti istituzionali e della
sua funzione rappresentativa. Anche grazie agli studi storici e giuridici degli
scrittori siciliani “venne a svilupparsi e a fare da freno all’indirizzo autoritario
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dei viceré una specie di diritto parlamentare che determinava le funzioni del
parlamento e stabiliva i rapporti con la Corona” (p. 389-390).
c)Napoli: il periodo angioino. Lo scontro di potere tra papa e angioini travestito
in ripristino dell’ordine antico
Il Regno di Napoli diventa angioino grazie al valido appoggio dato dai pontefici ai
conti di Provenza negli scontri successivi alla morte di Federico II, allo scopo di
neutralizzare la preponderanza tedesca nel Nord. Gli angioini erano principi
“semibarbari e feudali”, occupati solo a estendere la loro potenza personale (p. 175):
il Regno di Napoli si trasforma con essi in uno stato legato al Pontefice che
abbandona il forte e ordinato modello dello stato normanno e ricostituisce l’assetto
feudale, basato però (e questo ci riconduce alla costante di una assenza in Italia della
esperienza delle libertà politiche legate alla costituzione mista e garantite dal nesso di
fedeltà, centrale nella costituzione feudale) non su reali vincoli di fedeltà ma
sull’opportunismo e il privilegio. Ai funzionari preposti dai re svevi alle magistrature
pubbliche furono sostituiti i vassalli fedeli:
Il feudo appariva a questi non il pegno di futuri leali servizi ma il premio, o il
prezzo, di quelli già prestati, presso a poco il saldo di una partita di dare ed
avere che chiusa la contabilità li avesse resi liberi e indipendenti dai loro
sovrani e dalle altre gerarchie feudali. Gli angioini seppero però circondarsi di
uomini capaci ed esperti del diritto del paese nella funzione giudiziaria e nella
legislazione (p. 179).
Esoso fiscalismo, vere e proprie spoliazioni segnano il tempo del governo angioino,
che è anche un periodo di impoverimento a causa della separazione dalla Sicilia, che
con i Vespri, lo abbiamo visto in precedenza, aveva rovesciato il governo angioino e
si sarebbe data in seguito agli aragonesi.
Tuttavia, proprio dalle proteste per le “horrendae exactiones” imposte da Carlo
d’Angiò “sine hominum terrae consilium et assensu gratuito” (= le imposte ‘orrende’
stabilite da Carlo d’Angiò senza l’accordo coi rappresentanti del territorio e in
cambio di niente) derivò una specie di ricomposizione di una costituzione
partecipata. Fu lo stesso papa, Clemente IV, ad ammonire il sovrano suo protetto ad
astenersi “da tale rovinosa oppressione e, comunque, ad esporre pazientemente i suoi
bisogni finanziari, per averne consiglio e aiuto nelle difficoltà, ai prelati, ai baroni (i
feudali) ed esponenti cittadini (personae egregiae civitatum et locorum). Sempre sotto
l’impulso papale, fu studiata, intorno al 1285, una vera e propria costituzione politica
del Regno, che precisò i quattro casi di lecita imposizione e persino l’ammontare
massimo delle ‘sovvenzioni generali’ o ‘collette’ e sancì il diritto dei sudditi a
ricorrere, in caso di inosservanza, alla Santa sede. Non deve sfuggire che, dunque, la
difesa della costituzione antica giocava anche come difesa degli spazi di ingerenza
del papato sul Regno.
In altri termini, gli eventi di Sicilia consigliavano gli angioini, e il papa, che era
interessato alla conservazione del loro potere, ad adottare un governo ‘partecipato’,
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esercitato d’accordo con gli esponenti del clero, delle gerarchie feudali e delle città.
Dopo i Vespri, Carlo riunì in effetti il Parlamento del Regno, ormai ridotto alla parte
peninsulare, per restaurare la costituzione antica. Una successiva convocazione del
Parlamento si ebbe nel 1289. Nei fatti, gli angioini concepirono queste riunioni (in
ciascuna delle quali non andava in scena la riunione del re col suo popolo, ma uno
scontro tra il potere degli angioini e quello papale, scontro rivestito delle forme del
rispetto della costituzione del paese), come destinate solo a ratificare la volontà del
sovrano, il quale dava ai feudali, in cambio della ‘pace’ offertagli, ampia libertà di
fatto nei loro domini. Commenta pertanto Marongiu che, a differenza di quanto
accadeva in Sicilia,: “Mai il parlamento apparve elemento necessario della
legislazione del regno di Sicilia citra farum” (cioè continentale) (p. 181). Non
chiamato a deliberare effettivamente sulla giustizia di un comando, o sul
riconoscimento di reciproci obblighi, ma a esprimere lo scontro di potere tra papa e
sovrano, all’interno del quale scontro i feudali cercavano di capire dove stava la loro
convenienza), il parlamento di Napoli diviene ben presto un simulacro, e quando alle
istituzioni succede questo, esse fatalmente alimentano cinismo, disincanto e
comportamenti meramente strumentali.
d)Napoli Vicereame aragonese
ll Regno di Napoli diviene alla metà del 1400 provincia spagnola con Alfonso V
d’Aragona I di Napoli, per diventare ben presto ‘viceregno’ (come la Sicilia).
Nel reame di Napoli, disabituato alla pratica delle libertà politiche, gli aragonesi
trasferiscono più facilmente, che non in Sicilia, una loro concezione ormai
assolutistica del potere. Il rappresentante del re, il Vicerè, e suoi numerosi consigli
costituivano il vertice dello Stato; gli organi superiori dell’amministrazione erano le
due Segreterie (di Stato e di Guerra) e il Consiglio Collaterale, composto dal Viceré e
da cinque consiglieri, di cui due italiani e tre spagnoli, in seguito uno italiano e due
spagnoli18. Davanti, il governo viceregio si trovavano numerosi comuni infeudati, e
città titolari di antichi privilegi, in particolare Napoli, che godeva di un regime unico
e privilegiatissimo dal punto di vista fiscale e annonario, coi suoi magistrati elettivi
(di nobili e di popolo), il parlamento cittadino (esclusivamente baronale), l’esenzione
da dazi di importazione e d’esportazione; ma ampiamente privilegiata era anche, in
particolare, Aquila.
In un contesto di questa natura, concezioni ‘negoziali’ del governo e
dell’amministrazione germinarono facilmente. Essere Viceré significava un modo per
arricchirsi dispensando favori cariche licenze di commercio o
lettere di
raccomandazione: pratiche che educano al malcostume e alla corruzione (p. 357).
I sovrani spagnoli mantennero in vita l’istituto parlamentare, il general parlamento di
Napoli, che
strutturalmente, aveva da lungo tempo finito di corrispondere alle tipiche
assemblee di ‘stati’ del medio evo italiano ed europeo in genere. Il clero non
prendeva più parte alle riunioni. In parlamento intervenivano tutti i baroni
titolari e i rappresentanti delle numerose città demaniali, senza però costituire
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“La partecipazione degli stranieri veniva considerata, in questi tristi tempi, garanzia di imparzialità”: p. 358.
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sezioni o ‘bracci’ separati. La partecipazione cittadina, la quale avveniva
attraverso la nomina di procuratori, muniti di pieno mandato, era però, per così
dire, fittizia, per la prassi, o consuetudine, del tutto conformista, di attribuire
tali mandati in capo a taluno dei più importanti funzionari dell’amministrazione
viceregia: in tal modo veniva meno il segreto e menomata la libertà delle
deliberazioni. Alla vigilia delle convocazioni del parlamento era “un continuo
intrigare nelle città, nelle terre e nei castelli per ottenere procure, e poiché il
voto non poteva essere condizionato, ciascuno era largo di promesse,
riservandosi poi di fare il contrario di quello che aveva detto ai suoi elettori19.
Nel corso del ‘600 il parlamento generale del regno, del tutto svuotato di significato,
scomparve dalla scena, sostituito da un parlamento degli eletti – nobili e popolari –
della città capitale.
Fu un ripiego, ma ebbe il suo valore, per ciò che innalzò a maggiore e anche
orgogliosa altezza la rappresentanza napoletana: rappresentanza giuridica, più
che politica, e alquanto artificiosa per ciò che i nobili, o cavalieri, contavano
per cinque rispetto ai ‘popolari’, i quali, per quanto più numerosi, contavano
per uno essendo concentrati nel ‘sedile del popolo’. La schiacciante
maggioranza attribuita ai nobili (cinque ad uno) nelle deliberazioni collegiali
degli eletti cittadini era però solo ipotetica. Di fatto, tra nobiltà vecchia e
nuova, rivalità, invidie, personalismi ed egoismi d’ogni genere, facevano sì che
i cinque seggi aristocratici fossero rarissimamente d’accordo. Lo erano
soltanto quando si trattava di un troppo evidente e comune interesse: in questo
caso, verosimilmente, il ‘popolo’ non poteva non essere d’accordo con loro.
Questa perenne discordia nel parlamento napoletano fu la causa prima della sua
debolezza e delle continue offese da parte dei Viceré alle immunità tributarie e
agli altri grandi privilegi della città e dei cittadini di Napoli (p. 362).
Un ricordo dello storico e uomo politico siciliano Carlo Troya relativo alla riunione
del parlamento siciliano del 1802 alla presenza del Re (Borbone, a quell’epoca) può
essere citato a questo punto. Esso offre una testimonianza significativa della
differenza che i contemporanei riconoscevano tra le istituzioni siciliane e quelle
napoletane:
“Oh, qual gioia inondava i petti, scorgendosi nei comizi dell’Isola sedere il
Monarca di Napoli! Ben v’era tra’ Napoletani allora chi in generale invidia
faceasi a contemplare quegli eccelsi riti del Parlamento Siciliano,
rimpiangendo le sorti del proprio paese, cioè della parte maggiore di un regno
unico, spogliata da più secoli di Parlamenti suoi e fatta nel 1800 scema financo
di bugiarde larve di libertà Municipali, ristretta in quelli che si chiamavano i
seggi, i sedili di Napoli!20
19
Non valeva solitamente in Italia, eccezion fatta per il Ducato di Savoia, il principio, di marca francese, di
mandato imperativo.
20
Da un articolo di Carlo Troya apparso su Il Tempo di Napoli n. 1/1848 e citato da R. De Cesare, La fine di un
Regno. Troya ne traeva spunto per un discorso che intendeva “dimostrare che la Sicilia è sempre stata in possesso
di una peculiare Costituzione, ha diritto di avere un parlamento separato da quello di Napoli per quel che riguarda
le faccende interiori dell’Isola”.
100
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e)La Sardegna: l’orgoglioso mantenimento della costituzione antica fino
all’assorbimento dello Stato sabaudo
Intorno al 1000 in Sardegna c’erano i giudicati di Cagliari, Arborea, Logudoro e
Gallura, formatisi forse per generazione spontanea dall’ultimo ducato-arcontato del
periodo bizantino, e che divennero vassalli di Pisa o di Genova; in questo quadro di
esautoramento dei Giudici sorsero comuni con ordinamenti simili a quelli delle città
italiane della penisola (Cagliari, Bosa, Villa di Chiesa); più longevo fu il giudicato di
Arborea. La Carta de Logu fu concessa durante la loro guerra di indipendenza contro
gli aragonesi e divenne in seguito legge civile di tutta l’isola, ad eccezione delle città
le quali conservarono il diritto municipale di stampo barcellonese. Dopo la lunga fase
della conquista aragonese la Sardegna è vicereame (1418). Gli organi di governo
sono il Viceré, il Reggente la Reale Cancellieria e il Reggente la Tesoreria, cui faceva
capo l’organizzazione burocratica del regno, sul modello del diritto aragonese.
L’organo con poteri di interinazione era la Reale Udienza, retta dal relativo Reggente
fino al 1594 e poi dal Magistrato della Reale Udienza. Gli uffici venivano
prevalentemente riservati a funzionari catalani e aragonesi.
Come Napoli e Sicilia soggetta agli spagnoli, la Sardegna (a differenza della Sicilia,
che, come ricordato sopra, godeva di particolari riguardi quale regno antico della
corona e perché essa era entrata a far parte dei territori iberici non per conquista, ma
per spontanea elezione), era addirittura considerata territorio spagnolo, staccato dalla
madre patria dal ‘ grande fiume’ Mediterraneo. Nel governo del Vicereame, in
funzione di contenimento delle tendenze assolutistiche degli aragonesi, ebbe però un
peso significativo il Parlamento generale del Regno.
In particolare, nella convocazione del 1421, con l’intervento e sotto la presenza di
Alfonso il Magnanimo:
I provvedimenti dei quali, in cambio del cospicuo donativo di 50000 fiorini
d’oro, i Bracci parlamentari (ecclesiastico, militare e reale, ossia cittadino)
ottennero dal re il consenso e la sanzione furono molti e di grande importanza:
divieto ai funzionari regi di concedere feudi senza specifica licenza regia;
diritti dei feudali chiamati in giudizio a essere giudicati nel paese e diritto di
appello al sovrano contro le condanne loro eventualmente inflitte dal viceré;
diritto dei feudali a trascorrere sei mesi l’anno in Aragona e in Catalogna per
prendervi pratica del servizio di Corte. Poiché però poche di queste o altre
disposizioni adottate vennero effettivamente rispettate dai rappresentanti regi,
il Braccio militare21, riunitosi ancora nel 1146 e nel 1452, chiedeva ancora e
otteneva dal sovrano, in cambio di nuovi donativi, altre importanti norme di
diritto, di evidente portata costituzionale. Tra queste, l’impegno del sovrano
per sé e per i suoi successori a non richiedere o imporre coattivamente collette
21
Ciascun Braccio o persino i singoli parlamentari potevano proporre o richiedere anche da soli provvedimenti di
loro particolare interesse. Le norme o i provvedimenti di carattere generale richiedevano invece, come condizione
di validità, il consenso di tutti e tre i Bracci.
101
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o tasse generali fuorché in caso di matrimoni o incoronazioni, di riscatto della
persona reale o notevole invasione del regno (p.208)
Il Reggente della Reale Udienza, sorta di primo ministro del governo viceregio,
partecipava alle deliberazioni del parlamento. I suoi poteri gli permettevano di
influenzarne le decisioni; in questo assetto, nel ‘500 il Parlamento diviene organo
ordinario della compagine statale con competenze finanziarie, di giustizia,
amministrative e giurisdizionali; viene convocato per l’ultima volta nel 1697-99.
Vi fu da parte dei Bracci , durante tutto il Seicento, un accanito insistente
indugio nel domandare – a dire il vero con scarso successo – l’esclusività a
favore dei sardi delle cariche civili ed ecclesiastiche e ciò assorbì il loro
prevalente interesse. Ma vi fu anche, per quanto sotto l’insegna (saggia,
sebbene oggi anacronistica) della conservazione, la protezione degli interessi
isolani e la resistenza all’instaurazione di quello stesso più accentuato
assolutismo che i monarchi spagnoli e i loro ministri avevano imposto in quasi
tutti i territori da loro dipendenti. E’ vero che dopo i gravi strascichi del
parlamento del 1565-68, chiuso senza alcuna decisione e dunque anche senza il
voto del donativo, i Bracci si astengono dall’assumere atteggiamenti
particolarmente audaci e decisi. Ma eguale cautela fu osservata dai
rappresentanti spagnoli. Durante l’ultima legislatura (1697-99), normalizzata la
situazione interna, il Parlamento poté operare di nuovo liberamente ed
efficacemente. Non solo tornò alla carica chiedendo che le cariche pubbliche
fossero riservate agli isolani, richiesta che, pur se non accolta, non era mai
senza effetto, ma chiese e ottenne l’osservanza e la conferma di leggi negoziali.
Respinse la proposta viceregia di un donativo non più decennale ma ventennale
e rinnovò la richiesta, accolta ma senza reale efficacia da Alfonso il
Magnanimo del 1421, dell’istituzione di una commissione di tre membri per
vegliare sull’osservanza delle leggi e denunciare le violazioni dei diritti del
paese (giudici de contrafueros).
Conclude Marongiu:
Il parlamento sardo non morì per intrinseca debolezza o perché superato da
mutamenti storici e sviluppi della vita sociale ma perché l’isola passò nel 1720
all’assolutistico Stato Sabaudo (p. 405-407).
D.L’importazione del modello di organizzazione pubblica divenuto dominante.
1.Rivoluzioni, guerre napoleoniche, Costituzioni rivoluzionarie e Restaurazione
verso l’unificazione nel segno della monarchia
Marongiu è assertore dell’idea che l’assolutismo illuminato, laddove opera, evita la
rivoluzione, che si produce in Francia perché là si afferma una monarchia al tempo
stesso modernizzata ma anche legata ai moduli antichi, in un disegno che finisce per
essere troppo sperequato (p. 416). Con l’assolutismo illuminato dell’area austro102
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germanica nel quale è centrale, anziché la Ragion di Stato, lo Stato come strumento
del ‘bene comune’ furono particolarmente in contatto proprio il Nord e il Centro
Italia nel Settecento, periodo che, in quest’area, segna il passaggio dalla
preponderanza spagnola a quella austriaca: il Ducato di Milano è austriaco dal 1714,
egualmente il Granducato di Toscana, dove i Lorena mettono in cantiere una
Costituzione illuminata, ossia contenente principi limitatori dell’assolutismo, prima
che Pietro Leopoldo lasci il Granducato per salire al soglio imperiale. In queste aree,
il ‘700 è il periodo delle riforme dei principi, e lo scenario intellettuale e politico si
orienta all’idea che sia necessario modificare la società sotto la guida dei governanti
e in armonia con essi, intorno a nuovi principi favorevoli agli scambi e al buon
governo della cosa pubblica. (p.427).
Nel Regno delle due Sicilie, con Carlo III di Borbone re delle due Sicilie (1734-59)
si avvia un risveglio intellettuale di straordinaria portata: intellettuali come Genovese,
Filangieri, Mario Pagano, Vincenzo Cuoco, propugnano la liberalizzazione
dell’economia, l’abolizione dei privilegi. Sotto il dominio borbonico, la Sicilia
feudale e parlamentare rimane attaccata alle tradizioni anche nel timore di essere
assorbita in uno stato unitario accentrato e napoletano; ciononostante si abolisce
anche qui però la feudalità, nel 1812, e già nel 1799 è la prima cattedra di diritto
pubblico a Palermo, a segno di una diffusione significativa di una concezione
modernizzata della cosa pubblica (p. 431). Dappertutto, altrove, gli antichi stati o
bracci sono segnati a residui di assolutismo e mera espressione di privilegio (p. 435).
Dopo lo scoppio della rivoluzione francese, l’Italia subisce sotto la dittatura
napoleonica trasformazioni forti e rapidissime. Lo sguardo di Marongiu è però
disincantato: i francesi venivano a fare lezioni teoriche di democrazia, ma, a
quell’epoca, gli italiani ne avevano avute abbastanza e da istruttori nazionali.
Lombardi già conoscevano il livellamento delle classi e il principio dell'eguaglianza
nei diritti (pochi) e nei doveri (molti) di tutti i sudditi. Più di un italiano stentò ad
entusiasmarsi per la democrazia, come veniva imposta e attuata manu militari (=con
la forza delle armi) dal vincitore. (p. 449)
I primi effetti dell’arrivo di Napoleone sono rappresentati dal fiorire delle
Costituzioni rivoluzionarie: è del 1796 la Costituzione della repubblica bolognese,
del 1797 la Costituzione delle Repubblica cisalpina, che viene redatta a imitazione
della costituzione dell'anno III (1795). Il modello ‘imitativo’ non era condiviso dai
giuristi e intellettuali italiani: Melchiorre Gioia dedicò una lunghissima prolusione a
sostenere la tesi che le istituzioni giuste dovevano venirci dalla nostra storia, non
essere copiate da altri paesi (p. 455). Ma il modello adottato dalle Costituzioni
rivoluzionari fu appunto, spesso, copiato dalla Francia, in cui due Consigli esercitano
il potere legislativo e il potere esecutivo è affidato a un direttorio di 5 membri. Dalla
Francia si prese anche il calendario, e soprattutto delle Costituzioni francesi si seguì
l’esito politico, che vide la Costituzione del 1795 presto sostituita da una molto meno
democratica, quella consolare. Nel 1802 Napoleone è Primo console e poi Re d'Italia;
nel 1805 modella gli ordinamenti del Regno sulla sua concezione centralizzante e
cesaropapista. L'eguaglianza è dei soli cittadini attivi e che avessero un certo censo, e
più che di fronte alla legge, osserva Marongiu, era una eguaglianza sotto la legge,
cioè sotto il vigile controllo di uno Stato non meno autoritario e sospettoso di quanto
fosse stato quello austriaco. Ripristinata l'eguaglianza era venuta meno la libertà, per
esempio di circolazione, di stampa.
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A rafforzarsi è solo il potere e il prestigio dei capi e funzionari
dell'amministrazione (p. 467).
Sul modello francese, gli enti locali sono privati delle proprie magistrature e posti
sotto tutela, e il procedere alla soppressione del 'mostro' della feudalità dà occasione
di sostituire l’antica con una nuova nobiltà in realtà burocratico- funzionariale,
consonante col nuovo regime (p. 468). Mentre i libri scolastici sono sottoposti ad
autorizzazione amministrativa, viene introdotto nelle introduzione nelle università lo
studio del diritto costituzionale, che funge da propalatore delle nuove concezioni del
diritto, della polemica contro l’antico, della svalutazione della cultura e delle
tradizioni dei diversi territori:
Uno dei primi atti dei regimi rivoluzionari fu l’introduzione nel 1797 a
Bologna, Pavia, Ferrara e altre sedi, del diritto costituzionale, indirizzato al fine
di assicurare ‘ nella più alta maniera l’insegnamento e la diffusione delle
sublimi teorie sopra le quali sono fondati i diritti dell’uomo e del cittadino, la
sovranità del popolo, il riparto dei poteri nella sovranità compresi, l’analisi dei
bisogni della società e gli offici dei magistrati”. Tale cattedra sostituì quelle di
diritto romano, di diritto canonico, e di notariato, col pretesto che queste
fossero ‘inconcludenti e del tutto estranee allo spirito di una costituzione
repubblicana’. Le proteste dei dirigenti universitari contro tale soppressione
apparvero alle autorità “insidiosi maneggi controrivoluzionari” (p. 473).
Nel Regno napoletano il primo effetto delle guerre napoleoniche è la rivoluzione e la
dichiarazione della breve e tragica Repubblica napoletana (1799 ); dopo un
temporaneo ritorno dei Borbone, il Regno di Napoli è dato a Giuseppe Bonaparte,
che procede alla soppressione della feudalità, che, peraltro, “nessuno odiava” (p. 476)
e alla riorganizzazione centralistica dello Stato, secondo principi formalizzati nello
statuto del 1808 e mantenuti con l’avvento di Murat nominato da Napoleone re di
Napoli e di Sicilia.
“Il governo del Regno, così sotto Giuseppe, come sotto Giacchino, era
composto dal Re, dai Ministri e da un Consiglio di stato di nomina regia, del
quale facevano parte anche i Ministri, e che aveva il potere di formulare
‘pareri’ che, con la sanzione del sovrano, diventano legge. Lo stato fu
centralizzato come non mai e organizzato su basi gerarchiche.
L’amministrazione locale fu costituita sulla base di province aventi a capo
degli intendenti corrispondenti presso a poco ai presidi borbonici e ai prefetti
napoleonici, che curavano l’esecuzione delle leggi, soprintendevano alle forze
di polizia, trasmettevano al governo le notizie interessanti l’ordine e la pubblica
utilità, dirigevano il personale degli uffici dipendenti, vigilavano sull’attività
dei comuni” (p. 477).
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2.Sicilia
Durante la presenza francese a Napoli, i Borboni si trasferirono in Sicilia, dove
continuava a operare il Parlamento, l'unico rimasto attivo, ormai, in tutta l'Europa
continentale. I rapporti tra i Borbone e la Sicilia non erano mai stati facili, perché il
pur pigro disegno assolutista dei Borbone era considerato, dai Baroni e dalla Chiesa
siciliani, un rischio per i loro privilegi. Perciò, arrivato in Sicilia a chiedere i
cospicui aiuti necessari a tornare sul Trono di Napoli, Ferdinando I scelse una
retorica d’occasione, ma comunque rivelatrice della posizione goduta dalle istituzioni
dell’Isola:
Prevedendo la probabile opposizione del braccio militare, ma sicuro di poter
influire sugli altri due bracci, il 15 febbraio 1810 Ferdinando domandava
personalmenre aiuti adeguati alla eccezionalità del momento, sia per la difesa
dell'Isola sia per la salvaguardia della costituzione del Regno e dei suoi 'pregi e
vantaggi i quali non hanno più seggio se non in due isole, l'Inghilterra e la
nostra Sicilia".
Ottenne un piccolo donativo. Per superare le resistenze dell’Isola apparve opportuno
rivederne l’ordinamento, fare una ‘riforma’: si iniziò così a lavorare per dare una
costituzione alla Sicilia, discutendo se dovesse assumere a modello o quella
tradizionale inglese o una di stampo francese, come quella concessa a Cadice nel
1812. Studiata dai Bracci, la nuova costituzione, che fu in vigore nel 1812-13, era in
realtà assai ispirata all’ordine antico: prevedeva un forte parlamento composto da due
Camere (dei Pari e dei Comuni), che affiancava il Re. La funzione legislativa
funzionava su proposta delle Camere, il Re poteva solo o approvare o respingerne le
proposte. Se si fa il confronto con lo spostamento totale del potere legislativo sul Re
e il suo Consiglio, e cioè sul potere esecutivo, che nel frattempo si era compiuto (e
che abbiamo poco sopra visto instaurarsi a Napoli, sul modello acquisito in Francia
con la Costituzione consolare e, poi imperiale, napoleonica), si percepisce piuttosto
chiaramente il carattere del tutto asimmetrico della proposta costituzionale siciliana
rispetto alle tendenze allora dominanti in materia di conformazione del potere
pubblico. Poco dopo l’entrata in vigore della Costituzione Ferdinando I lasciò l'isola
per ritornare sul trono di Napoli e sciolse il Parlamento, assicurando che ne avrebbe
convocato un altro, ma poco dopo intervenne la Restaurazione (1815), che chiuse
questa esperienza costituzionale.
3.Sardegna
Respinti i i francesi nel 1793 la Sardegna vede il potere tornare agli stamenti, che si
riconvocarono dopo un intervallo di quasi un secolo: l'Isola chiese subito a Vittorio
Amedeo II il ripristino delle convocazioni parlamentari e la conferma dei privilegi e
delle leggi fondamentali del Regno, richieste che furono, però, successivamente
ritirate.
4.Le Restaurazioni
Nello Stato Sabaudo la Restaurazione è piena e fortissima, ma anche là, come
dovunque in Italia, si registrano anche molti elementi che segnalano che il periodo
105
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napoleonico si è innestato nel tessuto culturale e istituzionale come fattore capace di
produrre cambiamenti durevoli. Nel Lombardo Veneto, per esempio, abrogato il
codice napoleonico per l’Italia se ne adotta però uno nuovo nel 1811; anche nel
Regno delle due Sicilie si adotta un corpo completo di diritto patrio (il codice
ferdinandeo 1819, di ispirazione napoleonica).
Dopo i fermenti del 1820, e in particolare lo scoppio di una rivoluzione liberale che
in Sicilia ha toni separatisti, il 1848 segna nuovi sconvolgimenti costituzionali, in cui
si giova la partita che avrebbe da lì a poco assegnato al Piemonte il ruolo di
protagonista dell’unificazione nazionale, e al Regno delle Due Sicilie il ruolo
recessivo.
La prima Costituzione che nasce dai rivolgimenti del 1848 è quella siciliana, dopo
che la Sicilia insorta dichiara che non poserà le armi e non sospenderà le ostilità se
non quando la Sicilia “riunita in generale parlamento in Palermo o adatterà ai tempi
quella sua Costituzione che, giurata dal Re, riconosciuta da tutte le potenze, non si è
mai osato di togliere apertamente a quest'isola”. La Costituzione siciliana del 1848 è
costituzione non donata, non concessa dai sovrani, ma redatta da rappresentanti del
paese. Per redigerla, bastò adattare la Costituzione del 1812-13, ma poi non la si
seppe difendere davanti alla reazione borbonica, e, soprattutto, ai timori che il
cambiamento di governo aveva provocato nei ceti dirigenti, che pure inizialmente lo
avevano favorito, e anzi determinato: il nuovo regime resse sedici mesi22. Ma le
cause della recessività del modello costituzionale siciliano non sono solo legate a
questi fattori, bensì alla sua intonazione, che guardava a un modello costituzionale di
tipo antico, misto, parlamentarista, fortemente contenitivo dei poteri del
monarca/esecutivo. Una intonazione che appariva nell’Europa continentale, dopo la
Rivoluzione e il suo taglio col passato, recessiva e disfunzionale, o pericolosamente
sorda ai tentativi di ricostituzione dell’ordine istituzionale operati dalla
Restaurazione.
La Rivoluzione siciliana si era compiuta nel nome della libertà. Per sottrarsi ai
Borboni, i quali avevano mancata fede all’Isola, che loro aveva dato infinite
prove di fedeltà negli anni burrascosi, dal 1799 al 1815, e per rompere ogni
vincolo di dipendenza con Napoli, la Sicilia die’ nel 1848 un esempio di virtù
politica, che da principio si impose al mondo. Insorse unanime, a giorno fisso,
e conquistò l’indipendenza: creò un governo di uomini virtuosi e una
diplomazia, la quale non si perse d’animo nei momenti di maggiore sconforto.
Il Parlamento non proclamò la Repubblica, ma, volendo conciliare repubblicani
e monarchici, modificò stranamente, dopo una discussione di due mesi, la
Costituzione del 1812, e creò un Re da parata, con una Camera di Pari, elettivi
e temporanei!
“Sbolliti i primi ardori, i nobili e gli ecclesiastici cominciarono a temere per i loro privilegi: si videro minacciati
negli averi, offesi nelle credenze religiose, ed esposti a violenze rivoluzionarie e reazionarie. Quei vincoli di
gerarchia sociale, fortissimi nell’Isola per tradizione di secoli, si andavano via via rallentando. Il prestito forzoso,
la tassa sulle rendite del clero, l’incameramento dei tesori delle chiese e dei beni dei gesuiti non potevano trovare
sinceri ammiratori nella nobiltà e nel clero: e quando la fortuna delle armi, e le mutate condizioni d’Italia e di
Europa non favorirono più la causa della Sicilia, i nobili, il clero e i benestanti più grossi si persuasero, via via, che
solo la restaurazione borbonica poteva reintegrare nelle plebi cittadine e campagnole l’ordine e la tranquillità.
Appena Catania fu occupata dalle truppe regie, la guardia nazionale e il Senato di Palermo, persuasi essere inutile
ogni altro conato di resistenza, fecero partire per Caltanissetta una deputazione, implorando la clemenza e
dichiarando che Palermo si sottometteva alla autorità del Re.” R. De Cesare, La fine di un Regno.
22
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Dichiarò decaduto non solo Ferdinando II, ma la dinastia sua, rendendo
inconciliabile il dissidio coi Borboni; non ottenne che il Duca di Genova23
accettasse la corona, e si ebbe una repubblica effettiva, benché Ruggiero
Settimo24 fosse presidente del Regno di Sicilia”25
Una Repubblica! Dietro la Costituzione siciliana, si agitava lo spettro che più di tutti
spaventava i governi dell’epoca. Marongiu è assai chiaro al riguardo:
Se solo la Costituzione del Piemonte sopravvisse era perché le altre erano
incompatibili con l’ordine interno come lo intendevano, e riuscirono a imporlo,
i governi della reazione. (p. 527)
23
Che era Ferdinando di Savoia, figlio di Carlo Alberto.
24
Un importante uomo politico e convinto liberale e separatista siciliano.
25
R. De Cesare, La fine di un Regno.
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