23 maggio 2013 Teatro.org web SOLI A QUARANT'ANNI Può capitare che a quarant'anni ci si ritrovi con una buona posizione personale e sociale ma che ci si senta interiormente soli. Se ciò capita, analizzare il passato aiuta a capire le ragioni di una solitudine che viene da lontano, anche se il presente non è più modificabile. Succede per caso, solitamente. Un fatto inatteso e apparentemente innocente ci obbliga a guardarci dentro e indietro, facendo esplodere il passato. Che è ciò che succede a Tat'jana ed Evgenij. L'apertura del sipario è nel silenzio e nella solitudine di stanze vuote. Tat'jana sta leggendo una lettera e, turbata, la getta via appallottolata. Entra Evgenij e chiude le porte. I due restano soli e isolati in un silenzio inquietante per un teatro d'opera, un silenzio carico di malinconia e foriero di dolore. Si guardano, muti, increduli, come a dire “sei davvero tu?”. Poi la musica inizia, si spalancano le porte su campi di grano maturo e un terso cielo celeste. Il nastro degli anni si è riavvolto in un istante a causa di quella lettera e di quell'incontro. Ma non è un flashback quanto piuttosto il rivivere la propria storia ripercorrendo il viaggio dell'anima: infatti i due protagonisti si sdoppiano e si guardano vivere, compiere azioni, provare sentimenti, insomma fare quei percorsi dai quali non potranno più tornare indietro. Tat'jana è giovane, sfoglia e accarezza gli inseparabili libri. Ol'ga gioca sull'altalena, scherza con la sorella. La vita innocente e spensierata di casa, la mamma e la njanja. Il percorso nella memoria è cominciato, non solo la storia ma, soprattutto, gli stati d'animo. Tat'jana ed Evgenij vedono se stessi giovani, doppiati da mimi. Giovani che si sentono estranei a quella società borghese che, da illusi pieni di speranze, appare loro grigia e immutabile, tanto che tutti sono vestiti di nero, uniformati nel ricordo, esseri indistinti privi di individualità. Tat'jana ed Evgenij sono due outsider, per questo si riconoscono al primo sguardo. Tat'jana ricorda bene la solitudine di quei tempi, il sentirsi imprigionata in una società che non la comprende e non la apprezza. Tat'jana è fisicamente sollevata sopra quella borghesia ottusa e incolore, cupa e intenta e celebrare i propri riti. A Tat'jana basta uno sguardo per capire che Evgenij è l'anima gemella, la sua metà. Si tendono le mani, da lontano. Invano. Tat'jana sa anche, oggi, che finiranno per non trovarsi mai e per soffrire indicibilmente al punto che le loro vite saranno per sempre condizionate da questa sofferenza e da questa separazione. La drammaturgia presenta l'azione come se fosse il riflesso nella mente dei due protagonisti che, da adulti, dopo un incontro casuale, ripercorrono i fatti e i sentimenti. Una storia connotata da una tragica malinconia, quella che si prova quando, a quarant'anni, si guarda al passato e ci si rende conto che non si possono più cambiare le cose della vita; che, nel presente, si porta il peso (a volte insostenibile) degli incontri avvenuti anni addietro e delle scelte operate nel passato, delle occasioni perdute, di un vissuto a volte coartato non volontariamente. Un passato relativamente al quale una serena accettazione pare impossibile. Quegli armadi, un po' vuoti un po' stipati di libri, sono il senso del vissuto di Tat'jana: il vuoto asfittico e silenzioso e un mare buio di inutili parole. La scena fissa di Mia Stensgaard è un muro a ridosso del proscenio, quattro porte a doppio battente si aprono su fondali dipinti che evocano e danno forza e colore ai sentimenti dei protagonisti: il giallo pieno del grano maturo per la giovinezza spensierata e carica di attese, quando deve ancora succedere tutto; il rosso sangue dello struggimento d'amore che porta inevitabilmente a un'insostenibile sofferenza; il bianco e nero della tempesta di neve durante il duello, quando i fatti sono talmente irrimediabili da imporre una sterzata inevitabile al futuro che cambierà completamente la direzione della vita; il vuoto labirintico della casa di Gremin dove vive Tat'jana sposata e ormai adulta, quando quelle porte non si aprono più sull'infinito. Anche i costumi di Katrina Lindsay danno un segno cromatico importante nell'economia della vicenda: il coro è un gruppo indifferenziato, nero e uniforme come la morale borghese (non importa che siano contadini, nobili o davvero borghesi); Filipp'evna è in costume tipico e rappresenta la tradizione, quel senso di tepore e di conforto che danno la famiglia e un vissuto sereno e appagato; Ol'ga è in verde acido, in fondo è una sciocca e un po' anche cattiva; Larina a metà tra i colori delle figlie e il non-colore della società; Evgenij in blu e sovrappone strati di abbigliamento man mano che la storia progredisce; Tat'jana è in rosso, anche lei aggiunge qualcosa scena dopo scena, fino a quando un bianco glaciale copre e raggela quel rosso-passione che comunque spunta dalla scollatura, dai polsini, dallo spacco anteriore a ricordarci che un'anima che ha amato, anche una sola volta, non è mai più la stessa. Persino le luci di Wolfgang Göbbel si adeguano alla drammaturgia e virano cromaticamente a seconda delle esigenze dell'anima e della memoria, mentre le coreografie di Signe Fabricius riescono a imprimere evidente fisicità ai dolori dei due protagonisti grazie ai mimi Veronica Morello e Giuseppe Cannizzo (Tat'jana ed Evgenij), ai quali si aggiunge Adnrea Frisano nella scena del duello come cameriere di Onegin. L'apparato scenotecnico si completa con i video di Leo Warner e Lawrence Watson che, negli sfondi, presentano quell'irreale realtà che è la storia filtrata dai ricordi. La regia di Kasper Holten, autore di una drammaturgia coerente con musica e libretto ma anche convincente nel fornire un inedito sguardo ad alta tensione emotiva sulla vicenda e sui protagonisti, agisce per accumulo e i pezzi della memoria si affastellano insieme a quelle cose del passato che hanno condizionato il presente: la lettera accartocciata, il libri di Tat'jana, i fasci di grano, l'albero secco, il cadavere di Lenskij. Le parole della lettera di Tat'jana si stampano sulle tende della camera della giovane che sente per la prima (e unica) volta nella vita gli effetti di un amore totalizzante, ne comprende l'unicità e la smisurata grandezza, affronta con coraggio e poca prudenza le difficoltà e i rischi che l'espressione dei sentimenti comporta. E ne esce sconfitta. Per sempre. Non ha neppure ipotizzato che si possano serbare nell'anima le passioni, evitando il rischio che il reale possa distruggerle. A quel punto le parole non servono e non bastano: Tat'jana strappa i libri, i portoni sono chiusi, al momento del ballo il suo doppio si chiude fra le ante della scaffalatura, dentro l'armadio che custodiva quei libri che le consentivano di sognare. Anziché tre atti, la messa in scena prevede due parti con un solo intervallo dopo la quarta scena. Dunque non c'è cesura tra la scena del duello e il ballo, cosa di straordinaria, inedita efficacia. Evgenij non vuole uccidere Lenskij, tentenna e non si gira al momento di fare fuoco, tanto che Lenskij non capisce e si avvia verso di lui: in quel momento Evgenij si volta e spara, rovinando per sempre e irrimediabilmente la sua vita. Sul cadavere dell'amico, Evgenij si trova all'improvviso solo e adulto, depresso e perseguitato dal rimorso, sul punto quasi di suicidarsi: intorno a lui volteggiano ragazze sulle note della celeberrima polonaise che apre il terzo atto, ragazze con cui cerca di stordirsi tramite abbracci fugaci, quasi mercenari. Meno ha convinto il finale: la presenza di Gremin indebolisce il rifiuto di Tat'jana a Evgenij. Ma qui non ci sono più doppi, Tat'jana ed Evgenij non vedono più se stessi agire tramite i mimi. Sono loro e le loro solitudini incolmabili. A un'età in cui non è più consentito sognare. Giandandrea Noseda dirige con una straordinaria compattezza e ottiene un suono pulito e capace di seguire gli snodi sentimentali del plot dando forza alle innovazioni registiche anche con tempi stretti che guardano alla modernità. In particolare il direttore mostra maggiore inclinazione a sottolineare i colori della malinconia e dello struggimento, valorizzando al massimo gli strumentisti e, nel contempo, integrandoli mirabilmente con il canto, sostenuto e valorizzato in modo esemplare. E a vincere sulla passione è l'inquietudine: la vicenda riguarda due adulti. Vladislav Sulimskij nel ruolo del titolo non riesce a imprimere le trasformazioni che il regista vorrebbe da Evgenij, non il solito dandy annoiato quanto piuttosto un giovane innocente non ancora cresciuto e per questo sensibile e solitario che non si rende conto della possibilità di amare come ricchezza nella vita. Rodostina Nikolaeva è una brava Tat'jana, in grado di rendere in modo convincente l'arco di sentimenti, dall'innocente spensieratezza al tremito d'amore, dalla delusione insopportabile all'accettazione della solitudine in un matrimonio piano e senza tumulti. Aleksey Tatarintsev è un Lenskij dalla voce estesa e potente, pulita seppure connotata da una certa lamentosità che però risulta un valore aggiunto in molti momenti, soprattutto nell'aria che precede il duello, quando il tenore entra in scena trascinando un albero secco emblema della sua vita infelice dove probabilmente si è sempre sentito inadeguato a tutto e a tutti (e la sfida a duello è il modo sbagliato di reagire). Meno in evidenza l'Ol'ga di Iryna Zhytynska che ama in modo più convenzionale: il viso si poggia sul petto di Vladimir. Aleksandr Vinogradov è un principe Gremin dalla voce sontuosa, capace di affondi nel grave e di salite in acuto nella splendida aria sull'amore che cambia la vita, durante la quale Tat'jana è di spalle, immobile, poi si avvia lentamente verso il fondo scena inquadrata dalla teoria di porte, un'aria che qui assume un'importanza drammatica centrale. Bravi i comprimari: Carlo Bosi (Triquet), Marie McLaughlin (una materna Larina, in bilico tra gli affetti familiari e il ruolo sociale), Elena Sommer (una Filipp'evna contraltile di grandissima efficacia). Con loro Scott Johnson (Zareckij), Vladimir Jurlin (Un capitano della guardia), i già citati mimi e il coro ben preparato da Claudio Fenoglio. Ben otto le recite in cartellone, quella a cui abbiamo assistito era l'unica fuori abbonamento e una delle tre con cast alternativo, per cui inevitabilmente diversi erano i posti vuoti, compensati da un buon numero di studenti attenti e attratti. Molti e convinti gli applausi nel finale. Lo spettacolo è una nuova coproduzione del Regio con Covent Garden e Opera Australia e ha il merito di aver portato in Italia una regia di Kasper Holten, impostosi all'attenzione internazionale con il “Copenaghen Ring” e divenuto direttore artistico della Royal Opera House di Londra a un'età in cui in Italia si fanno ancora fotocopie o tutt'al più si dirige un piccolo teatro di provincia (e non sempre).