Stranger Things: benvenuto ritorno al futuro. Indiana, Stati Uniti: una tranquilla, laboriosa e sonnolenta cittadina del Corn Belt. Una banda di quasi adolescenti, goffi e decisamente nerd. Nel bosco una base governativa nascosta, cinta di rugginoso filo spinato. Un ragazzino risucchiato in un oscuro mondo parallelo: una sinistra coetanea che appare al suo posto. Gli ingredienti degli otto episodi di Stranger Things, serie presentata on demand dal canale Netflix nel 2016, sono tutto sommato semplici e già visti. La trama non brilla per originalità e i turning point sono prevedibili in anticipo per il costante déjà vu dell’impianto visivo: non è certo una sfida narrativa ambiziosa dal budget ipertrofico come la contemporanea Westworld di HBO. Eppure la serie firmata dai quasi esordienti Matt e Ross Duffer ha ottenuto un successo planetario e un vasto consenso di critica. La macchina del tempo è quindi in funzione: forse il futuro sarà inaspettatamente occupato dal successo di narrazioni ritenute ormai sepolte? Seguendo controcorrente il fiume di inchiostro digitale rovesciatosi sulla serie è forse possibile comprendere l’hype che ha generato. Blog, siti web di settore e soprattutto bacheche Facebook di milioni di utenti hanno condiviso e moltiplicato l’impatto di temi ed estetica della serie. Pertanto in questo breve saggio sarà registrato, in modo forse poco accademico ma suggestivo, il sentiment online in quanto fonte di preziosi e inaspettati spunti di riflessione, sparsi su decine di articoli, post e corsivi. Oltre la grana satura e i lens flare d’annata, Stranger Things è stata definita un collage stratificato che supera la citazione e che, nell’assoluto rispetto della forma del genere, lo attualizza. In questo senso supererebbe la citazione come feticcio, o mero accessorio cool, di certe opere di un professionista della citazione come J.J. Abrams: Super 8 innanzi tutto, con cui Stranger Things ha comunque molto in comune, o alcuni passaggi particolarmente vintage della serie per antonomasia: Lost. Il look polveroso del Dharma Project in Lost era funzionale alla localizzazione di un altrove accattivante, divergente dalla storyline centrale; gli eighties di Stranger Things sono piuttosto un’età dell’oro perduta, da riscoprire già piena dell’attuale precarietà: da Lost Ark a Temple of Doom. Stranger Things è un cavallo vincente dove fin troppi scommettono sul facile reboot nostalgico e sulla riproposizione di temi, drammaturgie e convenzioni: Star Wars, Rogue one è in buona compagnia degli infiniti franchise dei supereroi Marvel, mentre il musical patinato La La Land si prepara a far incetta di Oscar. Se in Stranger Things la citazione è tutto, sarà bene partirvi. L’opener sugli accordi elettronici dei synth sembra preso da un film di Carpenter: lettering rosso sangue in movimento nella profondità tridimensionale, resa possibile dai progressi della computer grafica dei primi anni ottanta. La font su fondo nero è un un tributo allo stile di Richard Greenberg, grafico di film come The dead zone e Alien; l’art director Jacob Boghosian ha operato un minuzioso restyling dei caratteri utilizzati nelle storiche copertine di Stephen King. La via è stata seguita dall’intero set di materiali promozionali, fondamentali per i social network, con una locandina disegnata a pastello: identica nella tecnica a quella altrettanto vintage del coevo Star Wars, Rogue one. La prima scena di Stranger Things si apre su tre ragazzini infervorati in un gioco di ruolo: è il 1984. Di lì a poco usciranno in sala Ghostbuster, Gremlins, Karate Kid, Terminator: parametri di un decennio di narrazioni pop. The thing di Carpenter è fuori da due anni e infatti la locandina è ben visibile in un angolo della stanza. Intanto si snoda la colonna sonora, che suona spesso diegetica nei mangianastri dei protagonisti: i Clash e altre, innumerevoli, hit anni ottanta. Elencare le citazioni della serie è esercizio di stile: è il testo per intero, battute, sequenze, scene e singole inquadrature, a renderla un’unica, ininterrotta, citazione. Stranger Things è una coming of age story: l’istantanea di un rapido e traumatico passaggio dall’infanzia all’età adulta. Il ritratto di una transizione che adotta colori classici: è il Brat Pack, o “banda di monelli”, che si aggira per gli ottanta da Breakfast Club a Risky Business, da The Goonies a The outsiders. Una poetica che ha padre certo: Steven Spielberg. Da una parte c’è il suo adorato e idealizzato mondo dell’infanzia, che comunica con il tumultuoso e affascinante mondo occulto con l’innocente capacità di immaginare, dall’altra c’è il mondo sterile e arido degli adulti, oramai smarriti nell’ottuso conformismo. I ragazzini allora sono “sfigati”, perdenti, effemminati, sovrappeso, “secchioni”: per i Duffer come per Spielberg solo un adulto che ha sofferto diventa un “grande” in grado di provare empatia. Mike, il timido e sensibile leader del gruppetto di giocatori di ruolo, somiglia a Elliot, il protagonista di E.T. the Extra-Terrestrial: identico è il rapporto gregario con gli amici, identica la postura e la pedalata sull’adorata bicicletta bmx. Speculare è anche il rapporto tra Mike e Eleven, creatura sinistra e inquietante che poi, come il tracagnotto alieno dalle dita luminescenti, rivela la sua natura intrinsecamente buona: proprio come l’extraterrestre, Eleven sarà condotta dai ragazzi al riparo da sguardi indiscreti, camuffata con un’improbabile parrucca bionda. Altra evidente analogia tra le due opere è il movimento dei diversi gruppi di personaggi, rigidamente divisi per età: gli adulti, come ancora per Spielberg in Close Encounters of the Third Kind, attendono nell’inedia delle loro poltrone l’intervento del Governo, mentre i più piccoli, coadiuvati dai fratelli adolescenti che hanno ancora un sano piede nell’infanzia, affrontano a viso aperto il nemico. Solo il brat pack ha la possibilità di accedere al mondo oscuro che ha rapito l’amico Will. Un’occasione in extremis, come il goffo flirt abbozzato tra Mike e Eleven annuncia: l’infanzia sta finendo e i turbamenti dell’adolescenza serreranno per sempre la magica porta dell’immaginazione. I pochissimi adulti che agiscono in modo risolutivo sono degli outsider. Hopper, poliziotto burbero e alcolizzato, è collegato all’infanzia da un lutto non elaborato: tra i flashback e il ricordo ossessivo della bambina perduta, cita l’infinita serie cinematografica sullo spiritismo, Ghost in testa. Più vivida è la mamma di Will, ex ragazza madre, disposta da subito a credere all’inverosimile pur di non accettare la tragica scomparsa del figlio. E’ qui il casting a firmare la citazione: il volto naturale, imperfetto e senza trucco di Winona Ryder oggi adulta, si sovrappone a quello della teen star che è stata nel pieno del decennio ottanta. Un collegamento metalinguistico che rompe la mimesi: Stranger Things non è un remake, o il tempo riavvolto, ma una tesi contemporanea su quel tempo passato e poi idealizzato. Così, la maschera della Ryder adulta, in overacting ma efficace, si sovrappone alla Ryder ragazzina sconsolata goth teen in Beetljuice, che non sfigurerebbe nel gruppetto dei protagonisti di Stranger Things. La scelta dell’attrice diventa un ponte e stabilisce un rapporto tra oggi e ieri, simile a quello tra il reale e l’upside down, il mondo parallelo che ha inghiottito Will: sarà proprio lei allora a diventare l’involontario medium con il lato oscuro. Il dialogo magico tra madre e figlio, inscenato con il lampeggiare intermittente delle luci natalizie che è diventato uno dei segni più riconoscibili della serie, ha l’atmosfera di cult come Poltergeist. Di Poltergeist del resto, uscito nel 1982, sono i biglietti del cinema che la Ryder regala al figlio in un flashback. Coerentemente, attraverso il suo personaggio passano le citazioni smaccatamente horror: la donna attenderà il mostro brandendo l’accetta, i capelli sporchi sul volto come Wendy in Shining: la sua casa andrà a fuoco avvolgendo il male tra le fiamme come Freddy Krueger in A Nightmare on Elm Street. Come in ogni struttura narrativa classica, l’intero arco narrativo di Stranger Things è riassunto nelle prime scene: i ragazzi dominano la difficile session di un gioco di ruolo e ne affrontano insieme i rischi: conoscono le regole del gioco, dunque risolveranno con successo l’avventura. Subito risaltano i segni fondamentali: la fedeltà reciproca ad ogni costo e la capacità di credere anche a quello che non si vede. Il riferimento al gioco di ruolo è dunque strutturale, oltre che estetico. Dall’abisso della plancia di gioco emerge immediatamente lo spaventoso Demogorgone, prefigurazione del mostro che rapirà Will. Non è un banale villain: è una cosa, thing, un male assoluto senz’anima, parecchio stranger anche nell’aspetto: una chimera dal corpo di rettile, tentacoli per braccia e testa bicefala di babbuino. Nella vasta cosmogonia di Dungeon’s and Dragons, fondamentale gioco di ruolo fantasy dal successo planetario, il Demogorgone è un demone che infesta l’ottantottesimo strato di un dantesco abisso, noto come “La Fauce Spalancata”. E’ l’incarnazione del caos e della follia e, come accadrà nella serie, gli incauti che gli aprono le porte del mondo di superficie saranno travolti da distruzione e morte. E’ un cacciatore tutto fiuto e niente cervello che ricorda vagamente Alien, feroce e implacabile, in grado di fiutare una minuscola goccia di sangue come lo squalo di Jaws. Il gioco di ruolo diventa allora parte funzionale dello script: per la risoluzione della storia, i protagonisti intuiranno che nell’upside down da cui viene il Demogorgone valgono le regole enunciate nel manuale di gioco, per l’orientamento nella Valle delle Ombre. Nella costante prossimità tra i bambini e l’ombra prende forma il tributo all’altro padre putativo di Stranger Things: Stephen King. Quello che in Spielberg è l’ignoto e il misterioso, sfuma ora nel vero e proprio “male”, che incombe come un pericolo e una tentazione costante. I protagonisti bambini lo avvertono e ne fanno cenno attraverso il loro specifico vocabolario di segni filmici, citando come archetipo del tradimento Lando Carlissian che cede al lato oscuro della Forza in Star Wars, The Empire strikes back. Mentre infatti Eleven somiglia alla piccola protagonista del romanzo Firestarter, La sonnolenta cittadina di Stranger Things sembra Derry, l’epicentro del capolavoro di Stephen King It: qui un gruppo di ragazzini “sfigati”, il Club dei perdenti, deve vedersela con un terrificante demone pagliaccio. Evidente è poi la somiglianza con The body, il racconto di King alla base della pellicola Stand by me: tra binari solitari perduti tra i boschi, i ragazzini cercano qualcuno perduto, forse ormai un sinistro cadavere nascosto tra le foglie. Se non bastasse, The body è il titolo del terzo capitolo della serie. Stranger Things mutua da King la poetica dell’horror di formazione: “Ho scoperto che il mondo aveva i denti - dice Trisha, persa anche lei nel bosco in La bambina che amava Tom Gordon - e in qualunque momento ti può mordere”. Il male è l’ignoto quotidiano, il mostro sotto il letto: striscia nell’upside down e può emergere in ogni momento. Nella serie la morte esiste ed è esibita, splatter come uno slasher di Craven, nell’orrenda fine della goffa Barbara così simile alla Stef dei Goonies, in una nebbiosa sequenza a bordo piscina che ricorda le atmosfere perverse di Scream. La morte è nell’inconscio dei protagonisti, tutti segnati da perdite e lutti irrisolti, ed emerge sotto forma di sinistre citazioni: le pareti si animano come lo schermo organico di Videodrome, la città morta specchio malefico della realtà sembra quella del sinistro videogioco Silent Hill, la disturbante paranoia pervade la tranquilla cittadina con i fantasmi folli di Twin Peaks. Chi sopravvive, come in un romanzo di King, diventa portatore di oscurità: Will torna dall’upside down segretamente contaminato da ripugnanti larve e il Demogorgone diventa il “male dentro” per antonomasia: Alien. Il risolutore del plot della serie, Eleven, è un tributo alle angosce più hi-tech degli anni ottanta. Degno personaggio di una distopia di K. Dick, Eleven ha il corpo androgino e il cadaverico pallore dei precox nelle vasche di deprivazione sensoriale della rielaborazione di Spielberg di quei temi, ovvero Minority Report, più i poteri paranormali e la stilla di sangue dal naso della piccola protagonista di Firestarter di Stephen King. Telepatia e telecinesi sono i suoi poteri, conseguenza di scellerati esperimenti sul controllo mentale. Poteri da super eroe che per i giovani protagonisti diventano “forza” da cavaliere Jedi: Eleven li usa per far lievitare un modellino del Millennium Falcon in una sequenza che sembra l’addestramento di Luke Skywalker in Star Wars, a new hope. Forza che, almeno in parte, cede al lato oscuro: Eleven non si fa scrupolo nel mettere fuori combattimento i bulli che minacciano i suoi nuovi amici o nel far implodere il cervello dei nemici, come lo Scanners di Cronemberg. La storia di Eleven solletica il palato dei più complottisti tra gli spettatori riesumando il progetto MK-Ultra, già citato tra gli altri dalla serie Fringe, dal best seller di David Foster Wallace Infinite Jest e dal videogame Call of duty. Si tratta di un protocollo sperimentale militare statunitense degli anni cinquanta, su cui scarseggiano le fonti quanto abbondano i rumors, tornato in auge dopo Abu Graib e Guantanamo e a base di ipnosi, droghe e privazione sensoriale, lobotomie e elettroshock per manipolare la mente di cavie umane. I Duffer mutuano l’estetica degli esperimenti fuori controllo da un’immagine pubblica che turba i sonni degli statunitensi da più di cinquant’anni, dagli alieni dell’Area 51 agli esperimenti al plutonio sui civili del Manhattan Project, su cui la giornalista Eileen Welsome guadagnò un Pulitzer. Ancora, nel design della base segreta, si riconoscono i sinistri sargofaghi di cemento dai telegiornali della fine degli anni ottanta sopra il reattore nucleare collassato di Cernobyl, mentre nei sotterranei sporchi e appena illuminati dai neon verdi e baluginanti di Lost si muovono anonimi scienziati, in scafandri che sembrano presi a prestito dal fumetto l’Eternauta. In ossequio alle convenzioni anni ottanta, Stranger Things flirta con la scienza, lanciandosi in sommari compendi di fisica: un clichè ancora spielberghiano, con il bonario professore di scienza che utilizza il paradosso della pulce e dell’acrobata per definire l’upside down. E’ un “parascienziato” che in compagnia di Doc in Back to the future, partecipa alla nutrita galleria di improvvisati sapientoni eighties. Se per il viaggio nel tempo di Martin McFly si evocava la Teoria della Relatività Ristretta, in Stranger Things si scomoda l’Interpretazione a Molti Mondi di Hugh Everett sul collasso della funzione d’onda, uno dei più affascinanti dilemmi della fisica quantistica. Semplificando, la tesi indica un rapporto di interdipendenza tra osservatore e fenomeno osservato che determina dissonanza tra i risultati di ogni singolo esperimento: di conseguenza, per ogni osservazione si genera un “mondo”, dotato di regole fisiche autonome. Come dire, che per ognuno disposto a gettare uno sguardo nell’ignoto, inizia ad esistere un’upside down, come una nemesi dormiente. Dunque, la spiegazione scientifica d’accatto a foglia di fico di un turning point effettivamente debole, si aggancia ai misteri della meccanica quantistica e accede a una miniera di suggestioni, in cui si ipotizzano strati di mondi paralleli ignoti in cui le leggi fisiche perdono di coerenza fino a sprofondare nel caos: un filone promettente in vista della seconda serie, certamente ambiziosa nei contenuti, fin dal trailer da poco in rotazione. Dal punto di vista critico, il limite più evidente di Stranger Things è proprio sul piano del genere: la serie, in quanto thriller-horror, non fa paura. Questo proprio a causa delle citazioni di cui è intessuta: il continuo riconoscere scene, suoni, atmosfere, singole inquadrature e intere sequenze, anestetizza i momenti in cui sarebbe opportuno saltare sulla sedia, poichè i passaggi chiave sono immediatamente smascherati orecchiando il modello di riferimento. Questo fallimento è però segno di un fenomeno della percezione: le conseguenze dello spostamento anagrafico dello spettatore davanti al medesimo modello della rappresentazione dall’infanzia all’età adulta. Se prendiamo come target di riferimento di Stranger Things gli over 35, immaginiamo adulti che da bambini sono stati visitati nei peggiori incubi dai denti insanguinati del clown Pennywise o dagli artigli di Freddy Krueger e che, nei loro giochi, hanno immaginato le gallerie e gli scivoli oscuri dei Goonies nel parco sotto casa. Oggi sono sopravvissuti a quell’orrore, per cui Stranger Things è una commovente madeleine. L’orrore è già stato vissuto e oggi rassicura: al posto di notti insonni, regala il sogno nostalgico dell’innocenza perduta. Non è il male di King, quanto il potere di amicizia e immaginazione di Spielberg a rimanere in mente. Netflix ha proposto la serie in piena estate, a metà Luglio, in un’apparente miopia di marketing: in realtà il canale ha subito posizionato Stranger Things in un preciso genere perduto, tipico della programmazione televisiva anni ottanta. Sono le notti delle rassegne televisive di “serie b” in seconda serata e delle videocassette vhs del defunto colosso dell’home video Blockbuster, che resero accessibile il cinema di genere al grande publico giovanile di allora: sono le notti estive rosso sangue di Wes Craven, Sam Raimi, John Carpenter ma anche Dario Argento. Considerato il successo planetario, la scelta dei tempi di distribuzione non era poi così miope. Nel panorama attuale delle serie televisive, Stranger Things adotta un meccanismo narrativo semplice e una messa in scena maniacalmente curata nei dettagli ma non certo innovativa: appare in linea con le buoni prassi di Netflix, molto attenta a tirare fuori il meglio da progetti molto ben scritti, quanto relativamente leggeri nel budget. Allora, ancora, come ha fatto Stranger Things a diventare un successo planetario in poche settimane? Di certo l’aggressiva distribuzione all in di Netflix, la pubblicazione dell’intera seria contemporaneamente, supera la tradizionale distribuzione con il contagocce dei competitor e genera consenso, forse superficiale, ma di certo rapido. Pur non disponendo di dati certi, è un fatto che la “maratona”, ovvero il consumo di tutti gli episodi in una notte o poco più, è una prassi consolidata per molti. La scrittura di Stranger Things del resto spinge alla visione compulsiva: gli otto episodi si dipanano senza soluzione di continuità, nella scansione drammaturgica di un film di una decina di ore, senza pit stop. L’assorbimento veloce di una serie determina il coagularsi quasi istantaneo di un sentiment che, veicolato dai social network, innesca un vertiginoso passaparola: gruppi di ascolto enormi si aggregano spontaneamente, generando dibattito e interesse. Se non altro per sfuggire agli spoiler, si guarda una serie come Stranger Things perchè “se ne parla”, molto prima che il suo valore sia santificato dalla critica. Se Stranger Things ha riscosso entusiasmo con forme e temi così datati, forse esiste un pubblico mainstream che di quelle poetiche è rimasto a bocca asciutta. Del resto l’industria che ha creato Spielberg non esiste più, mentre quel cinema di consumo orienta i suoi budget nei prosaici “picchiaduro” Marvel sempre più avvitati su se stessi o sul riprogrammato e rassicurante Star Wars in salsa Disney. Ma anche quel cinema minore e di genere che Stranger Things cita ha da tempo abbandonato la ribalta: autori come Dante o Carpenter non toccano una macchina da presa che conta da un bel pezzo. Stranger Things colma un vuoto lasciato da un cinema che turbava i teenager con incubi angosciosi e brutali e contemporaneamente edificava le loro coscienze di spettatori con storie solide e archetipi vitali: le narrazioni odierne per il pubblico young adult appaiono ben più soft: in pellicole come Twilight, elementi strutturali della drammaturgia quali l’angoscia, la morte o il male sono addomesticati, innocui, soporiferi. Forse le serie tv sono più agili e attente del cinema? Di certo Netflix, più o meno lucidamente, sta rispolverando un filone centrale nel cinema americano degli anni Ottanta e Novanta, prima dello smarrimento post 11 Settembre: la lotta dell’individuo contro il coercitivo sistema delle istituzioni, per mantenere vivo il proprio sogno e la propria identità. E’ un bisogno di rivolta e riscatto dal sapore anarchico di cui non è mai svanito l’appeal; è un tema ancora una volta spielberghiano, da Jurassic Park a Hook, che Netflix sta riproponendo in varianti postmoderne in cui i sogni dei protagonisti si fanno dark e politicamente scorretti come i nostri tempi instabili: House of cards, Orange is the new black, Daredevil, Narcos. E’ interessante allora notare che i numeri parlano di un successo di Stranger Things ben oltre i nostalgici di mezza età in crisi d’astinenza: la serie è piaciuta anche a molti che, secondo l’anagrafe, dagli anni ottanta non sono stati minimamente contaminati. Se la serie funziona anche per chi non coglie il piano fittissimo delle citazioni vintage, allora è il tema centrale il colpo vincente. L’amicizia ferrea dell’infanzia in conflitto con l’età adulta, sopra la zattera della normalità alla deriva sull’angoscia e il caos: un tema di cui oggi forse il cinema di largo consumo non sa più parlare con voce sincera. La capacità di illudersi, di sognare, di essere amici, chiusa nella capsula temporale di quegli anni ottanta,così privi di cinismo e ancora pieni di speranza, causa oggi innamoramento e dipendenza, ed è questa l’atmosfera inattuale di Stranger Things che c’è ancora molta voglia di respirare. Benvenuto dunque, ritorno al futuro. Valerio Di Paola OPERE CITATE SERIE TELEVISIVE J.J. Abrams, A. Kurtzman, R. Orci, Fringe, 2008. J.J Abrams, D. Lindelof, J. Lieber, Lost (stagione 1/6), 2004. C. Brancato, C. Bernard, D. Miro, Narcos, 2015. M. Duffer, R. Duffer, Stranger Things, 2016. D. Goddard, Daredevil (stagione 1/2), 2015. J. 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