STAGIONE 2016/2017 IL PREZZO di Arthur Miller Libretto di sala a cura di Claudia Braida Venerdì 10 febbraio 2017 Ore 21.00 Traduzione di Masolino D’Amico con: Umberto Orsini nel ruolo di Gregory Solomon Massimo Popolizio nel ruolo di Victor Franz Alvia Reale nel ruolo di Esther Franz Elia Schilton nel ruolo di Walter Franz Scene: Maurizio Balò Costumi: Gianluca Sbicca Luci: Pasquale Mari Regia: Massimo Popolizio Direzione artistica: Umberto Orsini Tante volte ho pensato: la cosa che voleva di più era parlare con suo fratello, e se ci fossero riusciti… ma quello è venuto e se n’è andato. E io continuo a pensare… non è terribile? Mi sembra sempre che un altro piccolo passo e arriverà un qualche assurdo tipo di perdono e solleverà tutti quanti. A Miller Qual è "Il Prezzo"? È quello che ognuno di noi paga per vivere. Due fratelli, di famiglia agiata, dopo il crollo finanziario del 1929, hanno assunto due posizioni completamente antitetiche. Uno, Victor, ha abbandonato gli studi nei quali brillava e si è arruolato in polizia per poter mantenere il padre caduto in miseria. L'altro, Walter, sottraendosi alle responsabilità familiari, ha proseguito gli studi ed è diventato un grande chirurgo. La nostra vita è ancorata alle scelte operate nel passato. In quelle scelte, sia pur condizionate in diversa misura, noi avevamo bene o male creduto, tanto è vero che le abbiamo fatte o subite. Ma col passare del tempo ciò che sembrava importante cambia, diventa a volte grottesco, a volte ridicolo, a volte tragico. È impossibile quindi per l'uomo distinguere in modo definitivo il bene dal male, perché tutto muta e, in questa fluidità dell'esistere, è illusorio porre le basi di un edificio morale che resista all'erosione del tempo. Miller affronta ne Il Prezzo il tema della conoscenza di sé, dell’altro, dell’esistenza; una conoscenza non metafisica ma tutta terrena e umana. Come se la nostra vita, il nostro passato, analizzati nel presente, ci apparissero talvolta un sogno o una storia che qualcuno ci abbia raccontato e dove la distinzione fra realtà e irrealtà è quasi impossibile. La Commedia è costruita per quattro caratteri che rappresentano lo spaccato di una società non solo americana ma nella quale ognuno di noi, oggi più che mai, può riconoscersi e perciò interrogarsi. I personaggi, tondi, vivi, vulnerabili, grazie alla sublime scrittura di Miller, ci trascinano in un mondo dove l'ironia livida, i dubbi, la cattiveria e l'incertezza riempiono lo spazio scenico che, nella sua immobilità, si presenta come un ring, dove lo scontro avviene attraverso un intreccio di parole che rimbalzando da un lato all'altro e ti tolgono il respiro. Umberto Orsini Formatosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, debutta ne Il diario di Anna Frank con la regia di Giorgio De Lullo, che lo dirige anche in altri memorabili spettacoli della Compagnia dei Giovani. Con la Compagnia Morelli-Stoppa è ne L’Arialda di Giovanni Testori con la regia di Luchino Visconti. Negli anni ’60 e ’70 raggiunge una vasta popolarità con un’intensa attività teatrale, cinematografica (debutto con Fellini ne La dolce vita, affermazione con Visconti ne La caduta degli dei e Ludwig) e televisiva (per tutti I fratelli Karamazov). Dal 1982 al 1997 è direttore artistico del Teatro Eliseo. Numerosi gli spettacoli da protagonista, tra i classici: I Masnadieri di Schiller e Othello di Shakespeare, con la regia di Lavia; tra i contemporanei: Old Times di H. Pinter, Servo di scena di R. Harwood, Amadeus di P. Shaffer, Besucher di B. Strauss, Affabulazione di P.P. Pasolini, Morte di un commesso viaggiatore di A. Miller, Copenaghen di M. Frayn. Diretto da Visconti, Lavia, Missiroli, Ronconi, Cobelli, Avogadro e De Capitani. Nel 2012 fonda la sua Compagnia; La leggenda del grande inquisitore, Le memorie di Ivan Karamazov, La ballata del carcere di Reading, Il giuoco delle parti, Nove e Un marito ideale sono gli spettacoli prodotti in questi anni. Racconta: Sei anni fa nella libreria del National Theatre di Londra mi capitò tra le mani "The Price" di Arthur Miller e la memoria mi riportò ad uno spettacolo interpretato da Raf Vallone negli anni sessanta. Cominciai la lettura e fui catturato dal dialogo e dall'attualità della vicenda. Cercai una traduzione italiana ma era inesistente. Decisi che avrei portato in scena la commedia solo se avessi trovato tre bravissimi attori nei ruoli principali e in tal caso per me avrebbe avuto un senso interpretare Gregory Solomon, un mediatore di mobili di novant'anni. I miei desideri si sono avverati: ho tre splendidi compagni e finalmente "Il prezzo" gode di una traduzione italiana che viene a colmare una lacuna nell'opera omnia di Miller nel decennale della sua scomparsa. A proposito della compagnia teatrale da lui fondata, nel 2013 ha dichiarato: In un momento di crisi economica, che tocca tutti i settori produttivi del paese e che per quanto riguarda il nostro si può toccare con mano ogni giorno, ed in maniera sempre più preoccupante, ho deciso di fondare una compagnia teatrale, andando apparentemente in controtendenza. Sappiamo che dai momenti di crisi può nascere una spinta verso il nuovo, un desiderio che ci porti fuori dal tunnel a vedere finalmente la luce. Io credo che questo possa succedere. Le mie proposte non avranno niente di rivoluzionario o di inedito, lo premetto. Si concentreranno soprattutto su un elemento fondamentale: il profondo desiderio di aggregare al mio nome una serie di persone con le quali ho già lavorato o con le quali avrei sempre voluto lavorare trasmettendo loro tutta la mia passione, la mia esperienza e il persistente desiderio di ricerca e di qualità che ha guidato la mia vita artistica attraverso una seria preparazione professionale. Vengo da lontano; vengo dalla Compagnia dei Giovani, da Visconti, da Zeffirelli, da Lavia, da Ronconi, da Castri, fino ad arrivare ai giovani registi come De Rosa o Pietro Babina. Per diciotto anni, fino al 2000, sono stato direttore artistico del più importante Teatro privato di Roma, parlo dell'Eliseo, e per dodici anni ho avuto presso un Teatro pubblico come l'ERT il ruolo di direttore artistico della Compagnia che faceva capo alla mia persona. Mi sembra di essere stato capace di riassumere in poche righe il mio passato. Per quanto riguarda il mio futuro, amerei parlarne più diffusamente ma non genericamente. Al momento la mia Compagnia ha tre testi sui quali basa la propria attività principale e sono: "La leggenda del Grande Inquisitore" scritto da Babina, Capuano e da me e basato sul mondo di Dostoevskij, "Il marito ideale" di Oscar Wilde con la regia di Roberto Valerio e la messa in cantiere in questi giorni di uno spettacolo di Luigi Pirandello e cioè "Il gioco delle parti ", che debutterà nel febbraio del 2014 ma le cui prove avverranno negli ultimi mesi del 2013, dando vita ad un sistema che voglio perseguire e che sarà uno dei punti di forza della mia Compagnia e che è quello di un laboratorio di lavoro permanente sul modello del mio maestro Luca Ronconi. Tutto questo lavoro, che non sarà di semplice rapporto tra scritturati e scritturante, ma di collaborazione artigianale e di progetto a lungo termine fra me e i miei collaboratori, dovrebbe creare quel terreno fertile sul quale la mia esperienza dovrebbe portare quei frutti utili per far vivere a questa Compagnia un' esperienza che si allontani dalla "routine" e che si avvicini a qualcosa che assomigli di più ai nostri piccoli sogni, se siamo ancora capaci di averne. Utopia? Forse. Rischio? Molto, e personale. Scopo di tutto questo? La libertà di sentirsi fuori dagli schemi ma dentro un sistema distributivo senza il quale i talenti giovani che stanno con me non avrebbero visibilità. Ho attinto tanto da tutti quelli che mi hanno preceduto e vorrei lasciare questa eredità a quanti camminano con me ora e cammineranno un giorno senza di me ma carichi, come saranno, di una conoscenza che viene da molto lontano e che io mi sento felice di trasmettere. La crisi la si combatte con la qualità e l'arrogante consapevolezza di fare un mestiere bello e utile. Massimo Popolizio In teatro è ventennale la sua collaborazione con Luca Ronconi, da Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus nel 1990 a Lehman Trilogy di Massini nel 2015, ultima regia del Maestro. Tra i tanti spettacoli interpretati è diretto da: Mauro Avogadro in Copenaghen di M. Frayn, Árpád Schilling in Riccardo III di Shakespeare, Piero Maccarinelli in Ritter Dene Voss di T. Bernhard, Daniele Abbado in Cyrano de Bergerac di E. Rostand, Massimo Castri in Il misantropo di Molière, Lluís Pasqual in Blackbird di D. Harrower, Claudio Longhi in Prometeo di Eschilo, Carmelo Rifici in Visita al padre di R. Schimmelpfennig. In televisione è tra i protagonisti della serie La stagione dei delitti e di vari film televisivi, tra gli altri: L’attentatuni e Il grande Torino, entrambi diretti da Claudio Bonivento, Il delitto di Via Poma di Roberto Faenza, Qualsiasi cosa succeda di Alberto Negrin. Per il grande schermo ha lavorato con i fratelli Taviani (Le affinità elettive), Michele Placido (Romanzo criminale), Daniele Luchetti (Mio fratello è figlio unico), Paolo Sorrentino (Il Divo e La grande bellezza), Mario Martone (Il giovane favoloso), Fiorella Infascelli (Era d’estate). Numerosi i premi ricevuti, dagli “Ubu” per il teatro al “Nastro d’Argento” per il doppiaggio. In merito alla regia de Il prezzo, dice: Ho accolto con grande entusiasmo la responsabilità di dirigere questa commedia di Arthur Miller, che è stata scritta nel 1968 e che in Italia è praticamente inedita. È un'opera a mio avviso molto importante e che proprio in questi giorni viene riproposta negli Stati Uniti e in Inghilterra in occasione del decimo anniversario della morte dell'autore. Ma è importante perché riprende argomenti cari a Miller ed ad altri autori americani della seconda metà del Novecento che hanno focalizzato sul tema della famiglia e del disagio legato a mutamenti storico-economici il loro interesse più appassionato. In questa commedia tutto ha un prezzo: le scelte, i ricordi, gli errori, le vittorie e le sconfitte. Ma quello che mi ha colpito di più in questo lavoro così ben strutturato nella sua alternanza di momenti divertenti e di momenti drammatici è stata la consistenza e lo spessore dei quattro personaggi che animano la storia. Un poliziotto di New York, che deve vendere tutti i mobili accumulati da un padre che per anni si era isolato in un appartamento in cui questi oggetti erano accatastati e che a sedici anni dalla sua morte devono essere venduti perché l'edificio sta per essere abbattuto; una moglie con dei problemi di alcol e di depressione; un fratello, che da anni ha fatto un suo percorso di successo perché ha saputo allontanarsi dalle conseguenze della crisi e col quale il poliziotto non ha contatti da più di dieci anni, che ricompare sulla scena proprio in occasione di questa vendita. E un quarto personaggio, un venditore di mobili usati, che dovrà stabilirne il prezzo. Un dialogo a volte divertente e caustico e a volte drammatico, come in un dramma di O'Neill. Grazie anche ad uno sforzo produttivo raramente riscontrabile nel teatro privato, ho potuto collaborare con i migliori artisti e professionisti del settore. Soprattutto, ho avuto occasione di stare in scena con i colleghi che amo e di ripetere con Umberto quel sodalizio che ci ha legati per anni, da "L'uomo difficile" fino a "Copenaghen". E' stata un'esperienza felice dirigerli perché essi parlano un linguaggio che ben conosco: quello del teatro di interpretazione. Alvia Reale Nella sua carriera è nove volte diretta da Luca Ronconi, da Strano interludio di O’Neill a Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus, da L’uomo difficile di Hofmannstal a Quel pasticciaccio brutto di via Merulana di C. E. Gadda, a Il Panico di Spregelburd. Ha recitato, tra gli altri, negli spettacoli diretti da: Nanni Garella, Anatol di Schnitzler; Roberto De Simone, Agamennone di Eschilo; Massimo Castri, Gli innamorati di Goldoni; Eimuntas Nekrosius, Ivanov di Checov. E’ protagonista, diretta da Cesare Lievi, di Donna Rosita nubile di Garcia Lorca. Impegnata nella valorizzazione della drammaturgia contemporanea lavora, tra gli altri, con i registi Valter Malosti, Mauro Avogadro, Renato Carpentieri, Federico Tiezzi, Leo Muscato, Valerio Binasco. Fonda, con Emanuela Mandracchia, Sandra Toffolatti e Mariangeles Torres, il gruppo “Mitipretese” con il quale ha diretto e interpretato: Roma ore 11 di Elio Petri, Festa in famiglia e Troiane, variazioni sul mito. Con Il giuoco delle parti di Pirandello, regia di Roberto Valerio, ha iniziato la sua collaborazione con la compagnia Orsini. Tra gli altri premi ha ricevuto il “Premio Eleonora Duse”. Elia Schilton Debutta nel 1978 con La Duchessa di Amalfi di Webster, regia di Mario Missiroli; collabora a più riprese con Carlo Cecchi, suo grande Maestro, che lo dirige in molti dei suoi spettacoli, tra gli altri, Il Misantropo di Molière, Amleto di Shakespeare, Hedda Gabler di Ibsen. E’ fra gli interpreti di spettacoli diretti da Gianfranco De Bosio, Beppe Navello, Mario Morini, Filippo Crivelli, Tonino Conte, Walter Le Moli. Con Luca Ronconi prende parte a Professor Bernhardi di Schnitzler, Drammi di guerra di E. Bond, Lo specchio del diavolo di G. Ruffolo e Troilo e Cressida di Shakespeare. Nel corso delle ultime stagioni, è stato protagonista di Tartufo di Molière, per la regia di Carlo Cecchi, e di Demoni di Dostoevskij, a cui è seguito Il ritorno a casa, di H. Pinter, per la regia di Peter Stein. Per il cinema ha lavorato con Brusati (Lo zio indegno), Fago (Pontormo), Bondì (De Reditu), Papetti (Noi due) e Sorrentino (L’amico di famiglia). Per la televisione, oltre che per produzioni in lingua francese, ha recitato tra gli altri nel film di Giraldi (Una vita perduta), di Sironi (Il furto del tesoro, Montalbano, Virginia, la Monaca di Monza). Numerose le partecipazioni radiofoniche. Maurizio Balò, scenografo Studia architettura all’Università di Firenze, dove inizia la propria attività con il gruppo di teatro universitario. Dal 1975 (Vestire gli ignudi di Pirandello) progetta scenografie e costumi di numerose produzioni per il teatro di prosa. Con La damnation de Faust di Berlioz al Comunale di Bologna nel 1982 realizza il suo primo allestimento per il teatro d’opera, a cui seguono produzioni in diversi teatri lirici italiani e stranieri. Massimo Castri, Carlo Cecchi, Giancarlo Cobelli, Luca De Fusco, Nanni Garella, Cesare Lievi, Werner Herzog, Kris Kraus, Egisto Marcucci, Lorenzo Mariani, Roberto Valerio, Federico Tiezzi sono i registi con i quali ha collaborato. Numerosi i Premi al suo lavoro: premio alla “Quadriennale di Scenografia” di Praga per La damnation de Faust di Berlioz; Premio “Ubu” a molti dei suoi lavori, da Elettra di Euripide a Il Misantropo di Molière; Premio “ETI-Gli Olimpici del Teatro” a John Gabriel Borkman di Ibsen ed Erano tutti miei figli di Miller; Premio dell’ “Associazione Nazionale dei Critici di Teatro” per Tre sorelle di Cechov; Premio internazionale “Cinearti La chioma di Berenice” per Porcile di Pasolini; Premio “Le Maschere del Teatro” per Andromaca di Euripide e per Antonio e Cleopatra di Skakespeare. Gianluca Sbicca, costumista Dopo varie esperienze nel campo della moda, con Gianfranco Ferrè, Jean Paul Gaultier, Reporter e altri, si avvicina, con Simone Valsecchi, al teatro come assistente di Maria Carla Ricotti per Macbeth Clan, regia di Angelo Longoni, e poi di Jacques Reynaud per Lolita di Nabokov, regia di Luca Ronconi. Il Candelaio di Giordano Bruno è il primo spettacolo che firma con Valsecchi per Luca Ronconi, ed è l’inizio di un sodalizio artistico durato 15 anni, fino al suo ultimo spettacolo Lehman Trilogy. Collabora stabilmente con Claudio Longhi, per il quale firma i costumi di diversi spettacoli, tra i quali Caligola, La Peste, La resistibile ascesa di Arturo Ui, Il Ratto d’Europa. Nel corso della sua carriera lavora con molti registi tra cui Peter Greenaway, Alvis Hermanis, Gabriele Lavia, Daniele Salvo, Piero Maccarinelli, Pietro Babina, Massimo Popolizio, Sergio Fantoni, Marco Rampoldi, Roberto Valerio, e veste alcuni dei più grandi attori italiani. Collabora con lo stilista Antonio Marras in diverse installazioni e spettacoli teatrali, tra cui Sogno di una notte di mezz’estate, regia di Ronconi e La Famiglia Addams, regia di Gallione. Ha curato con Valsecchi la sezione moda e costume del “Museo delle Millemiglia” di Brescia. Pasquale Mari, light designer Socio fondatore del gruppo teatrale e cinematografico “Teatri Uniti”. Collaboratore di Mario Martone e, tra gli altri, di Andrea De Rosa, Toni Servillo, Carlo Cecchi, Valerio Binasco, Arturo Cirillo, Roberto Valerio, Alessandro Gassmann, Luca Zingaretti, Luigi Lo Cascio, Daniele Luchetti. Ha lavorato per molte produzioni d’opera nei maggiori festival europei collaborando con Claudio Abbado, Riccardo Muti, Daniele Gatti, James Conlon, Myung-Whun Chung e, tra i registi, con Martone, De Rosa, Gianni Amelio e Marco Bellocchio. Tra le opere: la Matilde di Shabran al Rossini Opera Festival di Pesaro e al Covent Garden, Il Falstaff ed il Macbeth di Verdi agli Champs Elysées, Cavalleria Rusticana e Luisa Miller alla Scala, il Don Pasquale al Real di Madrid, Elektra di Strauss al Petruzzelli di Bari, Simon Boccanegra alla Fenice di Venezia, Il Flauto Magico per l’Orchestra di Piazza Vittorio e numerose creazioni del Balletto Civile di Michela Lucenti. Nel cinema ha lavorato con Mario Martone, Paolo Sorrentino, Ferzan Ozpetek, Francesca Archibugi, Marco Bellocchio, Luigi Lo Cascio e Stefano Incerti. Tra i premi per l’attività cinematografica due “Globo d’Oro”, un “Ciak”, un “Esposimetro d’Oro”, un premio “Sacher”, due “Nastro d’Argento”. PER APPROFONDIRE Arthur Miller, luci e ombre del sogno americano Il suo Morte di un commesso viaggiatore è una delle pietre miliari del teatro americano contemporaneo, in cui si fondono alla perfezione i temi a lui più cari: quelli del conflitto familiare, della responsabilità etica individuale e della critica a un sistema economico e sociale spietato e spersonalizzante. Capolavoro assoluto, è stato riconosciuto come tale dalla critica, che lo ha gratificato con numerosi premi, fra cui il prestigioso “Pulitzer”. Drammaturgo fondamentale per la storia del Novecento, Arthur Miller nasce a Manhattan (New York) il 17 ottobre 1915 da famiglia ebrea benestante. Dopo la crisi del 1929 deve affrontare serie difficoltà e lavorare per mantenersi, mentre frequenta la scuola di giornalismo dell'Università del Michigan. Non tarda a scoprire la sua vera vocazione, quella del teatro, nel quale esordisce a soli ventuno anni. Dopo la laurea, conseguita nel 1938, frequenta un corso di drammaturgia grazie ad una borsa di studio e viene ammesso al seminario del Theatre Guild. Scrive copioni per la radio e debutta a Broadway nel 1944 con L'uomo che ebbe tutte le fortune, un'opera che, pur ottenendo il parere lusinghiero dei critici, viene replicata solo quattro volte. Si cimenta anche nell'ambito della narrazione con Situazione normale e, nel 1945, con Focus, romanzo sul tema dell'antisemitismo nella società americana. Erano tutti miei figli, del 1947, è il primo lavoro teatrale di successo ed è subito seguito nel 1949 da Morte di un commesso viaggiatore, (sottotitolo Alcune conversazioni private in due atti e un requiem), che fu salutato in America come una sorta di evento nazionale, (a Broadway 742 repliche). Il protagonista Willy Loman è il paradigma del sogno americano del successo e dell'autoaffermazione, che si rivela in tutta la sua ingannevole precarietà. Il 22 gennaio 1953 è la volta de Il Crogiuolo, conosciuto anche con il titolo di Le streghe di Salem, testo che, ripercorrendo una vicenda di "caccia alle streghe" avvenuto nel 1692, allude al clima di persecuzione inaugurato dal senatore Mac Carthy contro l'ideologia comunista (ne farà esperienza più tardi lo stesso Miller). Il 29 settembre 1955 va in scena Uno sguardo dal ponte, una tragedia con risvolti incestuosi in un ambiente di emigranti italiani in America, abbinata a Memorie di due Lunedì, un testo autobiografico, una sorta di metafora dell'incomunicabilità e della solitudine dell’intellettuale. Trascorrono poi anni di silenzio creativo, in cui Arthur Miller vive la sua breve esperienza matrimoniale - dal 1956 al 1960 - con Marilyn Monroe, la seconda delle sue tre mogli. Il drammaturgo, nella sua autobiografia pubblicata negli anni novanta, Svolte, ripercorre le tappe di questa tormentata e chiacchierata unione: dalla fragilità psicologica dell’attrice ai ripetuti tentativi di avere un bambino - la Monroe non riesce a portare a termine almeno due gravidanze - fino al naufragio del matrimonio fra incomprensioni e litigi. Per la giovane e bella moglie, Miller lavora alla sceneggiatura de Gli spostati, l'ultimo film completo, diretto da John Huston nel 1961, che la Monroe interpreta prima di essere trovata morta nella sua abitazione di Los Angeles il 5 agosto del 1962, all'età di 36 anni. Terminate le riprese del film, che giudica troppo ricalcato sulla sua vita, Marilyn chiede il divorzio. Dopo la morte della Monroe, Miller scrive una biografia della diva, dal titolo Io la conoscevo. È del 1964 La caduta, che descrive drammaticamente l'esperienza di un ménage controverso fra un intellettuale e un'attrice, opera in cui tutti hanno intravisto risvolti autobiografici, mentre Miller si è sempre accanito a negarli. Dello stesso anno Incidente a Vichy racconta di ebrei arrestati in Francia dai nazisti. Seguono molti altri titoli, ognuno dei quali ha incontrato alterne fortune: nel 1968 Il prezzo; nel 1973 Creazione del mondo e altri affari; nel 1980 Orologio americano (un affresco di vita americana durante la grande depressione); nel 1982 due atti unici, Una specie di storia d'amore e Elegia per una signora; nel 1986 Pericolo: Memoria; nel 1988 Specchio a due direzioni; nel 1991 Discesa da Mount Morgan; nel 1992 L'ultimo Yankee e nel 1994 Vetri rotti, dove ancora una volta si intrecciano psicanalisi, drammi storici sociali e personali, con una sottile denuncia nei confronti della tendenza ad abdicare alla propria responsabilità individuale. Arthur Miller sembra comunque non essersi mai completamente liberato dal fantasma di Marilyn. A 88 anni suonati è tornato su quella tormentata relazione con un nuovo dramma, intitolato Finishing the Picture ( che può esser tradotto come "finire il film" o "finire il quadro"), la cui anteprima mondiale è andata in scena al Goodman Theater di Chicago per la regia di Robert Falls. Malato di cancro da tempo, Miller è morto all'età di 89 anni l'11 febbraio 2005. Dal testo Victor Te lo dico io cos’è successo. Lo vuoi sentire? Glielo dissi, quello che mi avevi detto tu. Glielo feci affrontare. (Non continua; i suoi occhi vanno alla poltrona) Cioè, non lo affrontai io; semplicemente gli dissi: “Walter ha detto di chiederli a te”. Walter E che successe? Victor (con calma) Si mise a ridere. Io non sapevo che senso dargli. A dirti la verità – da allora quella risata mi è rimasta nelle orecchie. Un po’ come se fosse un specie di scherzo assurdo – perché è vero, qua dentro si mangiavano rifiuti. (Si interrompe) Non sapevo che fare. E uscii. Andai… (si siede, gli occhi fissi) giù fino al Bryant park, dietro la biblioteca pubblica. (Breve pausa) L’erba era coperta di uomini. Come un campo di battaglia; un enorme dormitorio a cielo aperto. E non erano barboni… alcuni avevano ancora scarpe lustrate e cappelli di marca, uomini d’affari rovinati, avvocati, operai specializzati. Scene che avevo già visto cento volte. Ma d’un tratto… rendo l’idea? Capii. (Breve pausa) Che non c’era pietà. In nessun luogo. (Guardando la sedia in fondo al tavolo) Un giorno sei il padrone di casa, seduto a capotavola, e poi di colpo sei merda. Da un momento all’altro. E cercai di sentire un’altra volta quella risata… Come faceva a negarmi qualcosa mentre mi voleva bene? Esther Ti voleva bene… Victor (con la voce che gli si gonfia nella protesta) Mi voleva bene, Esther! È solo che non voleva finire su quel prato! Non è che non vuoi bene a qualcuno, è che devi sopravvivere! La conosciamo questa sensazione, no? Facciamo quello che dobbiamo fare. (Con un gesto ampio che comprende Esther, Walter e se stesso) Di che altro stiamo parlando qui? Se gli era rimasto qualcosa, era… Esther Se… Victor Ma cosa cambia! Sì, parlo come un idiota. Ma cosa cambia? Non poteva più credere in nessuno, e questo io non lo potevo sopportare! (Guarda Walter mentre parla, non c’è quasi paura) Lui gli aveva dato un calcio in faccia; mia madre… la notte che ci disse di essere rovinato, mia madre… era proprio qui, su questo divano. Era tutta in ghingheri… per qualche occasione, credo. Aveva i capelli tirati su, e degli orecchini lunghi. E lui era in smoking… e ci disse a tutti di sederci; e ci disse che era finita. E lei vomitò. (Breve pausa. Orrore e pietà si contorcono nella sua voce) Così, tra le sue braccia. Nelle sue mani. Continuò a vomitare, come se le tornassero su trentacinque anni. E lui era seduto lì. Puzzava come una fogna. E gli venne un’espressione sul viso. Non avevo mai visto un uomo con quella faccia. Era seduto lì, col vomito che gli si seccava tra le mani. (Pausa. Si volta verso Esther) Che differenza fa cosa sai e cosa non sai? Non che lo giustifichi; è stato un idiota; questo non ho bisogno che me lo dica nessuno. Ma ti tirano su nella fiducia reciproca, ti riempiono di queste baggianate – non puoi fare a meno di comportarti così, ecco tutto. Pensai che se gli fossi stato vicino, che se avesse visto che qualcuno era ancora…Non lo so spiegare; io volevo… impedirgli di disintegrarsi. Io… (Di nuvo si interrompe, lo sguardo nel vuoto). Walter (con calma) Non funziona, Vic. Lo capisci da te, vero? Non è affatto così. Lo capisci, vero? Victor (con calma, avidamente) Cosa? Walter (sotto la spinta della sua necessità) Credi che sia proprio così? Davvero si è disintegrato qualcosa? Davvero ci avevano allevati nella fiducia reciproca? Non ci avevano allevati invece nel segno del successo? Per quale altro motivo rispettava me e non te? Che cosa si è disintegrato? Che cosa si poteva disintegrare? (Victor guarda altrove, la visione che sta spuntando) C’è mai stato tutto questo volersi bene qui? Quando lui aveva bisogno die lei, lei si è messa a vomitare. E quando tu avevi bisogno di lui, lui si è messo a ridere. La cosa insopportabile non è che si è disintegrato tutto, è che qui non c’è mai stato niente. Victor gli volta le spalle con la paura sul viso. Esther Ma chi… chi può affrontare questo, Walter? Walter Devi affrontarlo! Quello che hai visto dietro la biblioteca non era che nel mondo non c’è pietà, fratellino. È che non c’era amore in questa casa. Non c’era solidarietà. Qui non c’era niente, se non un chiaro accordo finanziario. Ecco cos’era intollerabile. E tu hai dovuto cancellare quello che avevi visto. Victor (con un’ansia terribile) Cancellare… Walter Vic, io ci sono stato dentro questa scatola. Ho sprecato trent’anni a proteggermi da quella catastrofe. E ne sono uscito vivo solo quando ho visto che non c’era nessuna catastrofe, che non c’era mai stata. Non si erano mai amati – lei non faceva che ripetere che il matrimonio le aveva distrutto la carriera musicale. Io ho visto che qui non si è disintegrato nulla , Victor – e lui ha smesso di perseguitarmi con quelle mani coperte di vomito. Ho smesso di sentirmi un traditore. Il mio tempo adesso appartiene a me, non ho paura del rischio di credere a qualcuno. Tutto quello che volevo era semplicemente studiare la scienza, ma poi invece mi sono inventato un’ottima macchina da soldi. Tu…(A Esther, con un sorriso caloroso) Lui non ha mai potuto tollerare la vista del sangue. Era timido, era sensibile… (A Victor) E che ti metti a fare? Ti infili dritto nella professione più violenta che ci sia. Noi ci inventiamo, Vic, per cancellare quello che sappiamo. Tu ti inventi una vita di autosacrificio, una vita di doveri; ma quello che qui non è mai esistito non potrà mai essere accampato. Tu non stavi difendendo niente, stavi negando quello che sapevi che loro erano. E così negavi te stesso… E questo è tutto quello che ci divide adesso… una illusione, Vic. L’illusione che io li abbia presi a calci in faccia e che tu li debba difendere contro di me. Ma io allora vidi semplicemente quello che tu vedi adesso: che qui non c’era proprio niente da tradire. Io non sono tuo nemico. È tutta una illusione, e se potessi attraversarla potremmo incontrarci… A. Miller, Il prezzo, Einaudi, Milano 2015 Masolino D’Amico, note del traduttore Il prezzo, la commedia di Arthur Miller che debuttò a Broadway nel 1968, mette in scena quattro personaggi più un quinto che non possiamo vedere, perché è morto da qualche tempo. Anche Isidore, il padre di Miller, era morto, due anni prima. Così il figlio lo avrebbe ricordato nella sua autobiografia Svolte (1986): "Era arrivato tutto solo a New York dal centro della Polonia ancor prima del suo settimo compleanno. Adesso aveva una National e un autista che lo attendeva al ciglio della strada per portarlo ogni mattina nella Seventh Avenue, il quartiere dell'industria dell'abbigliamento." Questo avveniva, si capisce, prima della grande crisi del '29, quando questo self-made man perse tutto e dovette abbandonare il suo lussuoso appartamento al sesto piano con vista sul fiume e stipare la famiglia in uno minuscolo a Brooklyn, dove il futuro commediografo divideva la camera da letto col nonno. Forse esaurito dallo sforzo che aveva fatto per crearsi e diventare ricco, lui, semianalfabeta in un mondo inizialmente estraneo, Isidore non ebbe la forza per ricominciare daccapo, e da allora in poi si rifugiò in una specie di passiva rassegnazione. Il suo dotato figlio trovò difficile perdonarglielo finché Isidore fu vivo, salvo, vent'anni dopo la sua morte, ripensare a lui con comprensione e affetto. Sempre in Svolte, lo ricorda quando ormai più che ottantenne passava la giornata sul portico di una casa di riposo a Long Island. "In ottant'anni non aveva mai avuto il tempo di star seduto a guardare il mare. Aveva dato lavoro a centinaia di persone e aveva prodotto decine di migliaia di capi d'abbigliamento e li aveva spediti in tutte le città degli Stati Uniti, e ora alla fine della vita guardava il mare e diceva sorridendo contento: “Ah, ma allora è rotonda!”. Questa dolcezza è assente dai rapporti tra i due fratelli del "Prezzo" e il loro defunto papà, che proprio come Isidore era stato ricco e poi li aveva delusi mettendoli improvvisamente davanti alla prospettiva di un futuro molto meno roseo di quello che aveva loro promesso. Adolescenti al momento della catastrofe, i fratelli l'avevano affrontata ciascuno a suo modo, imboccando strade diverse, quella del maggiore comportando addirittura un drastico distacco dalla famiglia. Oggi, riuniti da una necessità banale ma imprescindibile – si tratta di liquidare tutto l'arredamento dell'antica dimora in un angolo della quale il padre ha vissuto asserragliato e seminascosto, arredamento pomposo, nel frattempo diventato anacronistico – i fratelli si ritrovano faccia a faccia, e nel confronto ciascuno è costretto suo malgrado a fare i conti col proprio passato, e a domandarsi se abbia fatto bene a seguire la strada che ha seguito. Quella dell'autogratificazione comporta ora, forse, dei rimorsi; quella del sacrificio, il sospetto che questo sia stato inutile. Come al solito, Miller, non dà risposte. Ammesso che ci sia chi ha torto e chi ha ragione, il burattinaio non si arroga il diritto di deciderlo. Però ha un messaggio, tramite l'unico personaggio esterno, ossia il trafficante venuto a fare una stima del mobilio. Questo personaggio è la vera grande invenzione della commedia: un vecchissimo ebreo che ha attraversato mille peripezie, che è caduto e si è rialzato mille volte nella sua lunga esistenza, e che adesso guarda le schermaglie e i rancori dei due fratelli dall'alto dell'antica saggezza di chi ha accettato da subito e per sempre che nella vita, in fondo, conta una cosa sola, e questa è non arrendersi mai. Masolino d'Amico La grande crisi del ’29 e gli Stati Uniti: cause, fatti e risposte La parola “crisi” non evoca solamente il risultato di lunghi anni di speranze largamente infondate e naufragate nel nulla, ma anche il momento culminante di una grave malattia (Ippocrate) da cui si può guarire solamente attraverso una cura radicale e un cambiamento repentino degli stili di vita, dell’atteggiamento verso i consumi, della quotidianità, del modo di intendere il rapporto dell’individuo con gli altri, della cultura. La crisi del 1929 per gli Stati Uniti rappresentò essenzialmente una grande occasione di ricostruzione e di guarigione da una grave malattia che, trascurata troppo a lungo o addirittura non diagnosticata, esplose in modo improvviso e virulento, imponendo un cambiamento radicale nella società, nell’economia e nella cultura. La crisi offrì agli Stati Uniti l’occasione di ripensare il modello di società e di ricostruire un tessuto economico, politico e finanziario, senza comprimere i diritti individuali e allargando ampiamente quelli sociali. Segnali di globalizzazione Il crollo della borsa di New York e la successiva gravissima crisi economica e finanziaria furono il primo grande evento dell’avvenuta globalizzazione capitalistica delle merci e dei capitali, già preconizzata da Marx nella prima metà dell’Ottocento, rallentata dai protezionismi della II rivoluzione industriale ed evocata dai segnali di crisi ciclica europea nel periodo immediatamente antecedente alla Prima guerra mondiale e dalla lieve crisi del primo semestre del 1926, che aveva permesso a economisti marxisti di preconizzare una crisi imminente del sistema capitalistico. La Grande Crisi fu anche il frutto dello sviluppo asimmetrico tra l’economia statunitense e quella europea e degli altri paesi del mondo nel decennio 19191928, cui non corrispose un adeguato ampliamento del mercato mondiale anche a causa del periodo di ricostruzione delle economie europee, della sostanziale chiusura del mercato sovietico, dell’impossibilità di allargare i possedimenti e i mercati coloniali ormai sostanzialmente saturi. Proprio nel Primo conflitto su scala planetaria e nelle sue conseguenze politiche, economiche e sociali risiedono le radici più profonde della crisi del 1929. Se da una parte il Primo conflitto mondiale aveva rappresentato l’occasione per le potenze industriali europee di espandere i propri mercati, dall’altra aveva costituito per gli Stati Uniti un’occasione unica non solo per intervenire nel conflitto in modo rilevante sia a livello militare che politico, ma anche e soprattutto per far pesare su scala mondiale la sua enorme potenza economica e finanziaria, già consolidata tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Gli Stati Uniti infatti, non avendo subito perdite rilevanti nella Prima guerra mondiale, divennero il nerbo della ricostruzione europea sia a livello commerciale che a livello finanziario. L’intervento e soprattutto i primi anni del dopoguerra permisero, infatti, agli Usa di rimandare una crisi di sovrapproduzione che era ritenuta possibile da molti analisti già prima dello scoppio del conflitto. Il forte intervento finanziario degli Usa nella ricostruzione e nella riconversione industriale del dopoguerra spiega anche l’impatto enorme che la crisi del 1929 ebbe su tutti i paesi europei che avevano ricevuto crediti dalla nuova superpotenza di oltreoceano e su alcuni paesi latinoamericani, come Messico, Cuba, Cile e Bolivia, già largamente dipendenti dagli investimenti statunitensi. Per queste ragioni, la crisi economica iniziata con il crollo della borsa di New York nel famoso giovedì nero del 24 ottobre 1929 fu diversa da tutte le precedenti per lunghezza, per intensità, per estensione ed ebbe rilevanti ripercussioni politiche e culturali in tutto il mondo, non solo negli Stati Uniti. La Borsa, il lavoro e il mercato Tra le ragioni principali della crisi del 1929 vi fu certamente la compressione dei salari, soprattutto agricoli, che limitava la capacità d’acquisto della maggioranza della popolazione statunitense, non crescendo i salari proporzionalmente alla crescita della produzione. Una crisi di sovrapproduzione di merci dovuta anche alla ripresa dell’agricoltura e dell’industria europea che, grazie a nuovi protezionismi, non comprava più grano e merci americane ma cominciava a produrle nuovamente in loco. Negli anni successivi alla I guerra mondiale negli Usa vi era stato inoltre un arricchimento veloce che, nella metà degli anni ’20, aveva fatto crescere l’idea della facilità di potersi arricchire grazie alle speculazioni finanziarie in borsa, spesso non legate a effettive attività produttive, ma all’idea che potesse esserci, quasi per natura, un ciclo virtuoso tra finanza, investimenti e produzione. Così non fu. Infatti, per acquistare titoli non serviva versare l’intera quota del loro effettivo valore, ma bastava un anticipo spesso solo del 30-50%, lasciando i titoli comprati in garanzia. L’economia statunitense prima della crisi era largamente finanziarizzata, priva di qualunque pianificazione, fragile nei suoi consumi interni e negli sbocchi esterni, ma allo stesso tempo ottimista nelle sue infinite e possenti capacità di autoalimentarsi. Questo spiega l’andamento altamente oscillante della borsa di New York negli anni 1928-1929. Tuttavia i possessori dei titoli e gli economisti più avveduti avevano cominciato a percepire che in alcuni settori, principalmente in quelli agricolo, edile, manifatturiero e siderurgico la crescita degli indici di borsa non corrispondeva all’economia reale, che tendeva a ristagnare a causa della sovrapproduzione di merci. Il mancato controllo degli speculatori e dei giocatori di borsa (che negli Usa erano circa un milione e mezzo) e la renitenza della Banca centrale a innalzare il tasso di sconto (l’unico intervento fu di portare il 6 agosto 1929 il tasso dal 5% al 6%) ebbero l’effetto di far continuare la speculazione finanziaria e l’ottimismo di facili guadagni per mesi in una situazione di effettivo ristagno dell’economia. La crisi fu così istantanea che provocò un panico incredibile. Alcuni storici parlano, infatti, non a torto di crisi economica e psicologica, determinata sicuramente anche dall’eccessivo ottimismo e autoreferenzialità della società capitalistica statunitense. Il 24 ottobre del 1929 l’ottimismo si rivelò assolutamente infondato: furono vendute al ribasso ben 12.894.650 azioni. Migliaia di brokers vennero presi dal panico, si registrarono numerosi suicidi tra gli speculatori e i mediatori di borsa. I piccoli e medi risparmiatori furono naturalmente i più colpiti e dovettero ricominciare da capo la loro lotta per la sopravvivenza, non contando più sulle promesse di arricchimento facile. In meno di un mese anche le banche chiusero i cordoni del credito, accentuando ancor di più la crisi. Le migliaia di migliaia di società, spesso non solide, cresciute nel periodo della speculazione fallirono, le loro merci invendute si accumularono nei magazzini, i loro dipendenti vennero da un giorno all’altro licenziati. L’aspetto più preoccupante della crisi fu, infatti, la crescita geometrica della disoccupazione nei primi tre anni di crisi: dai 2 milioni di disoccupati del 1929, si passò a 4 milioni nel 1930, a 8 milioni nel 1931. Effetti positivi della crisi del ’29: la rinascita sociale e culturale degli USA La crisi portò ad una nuova concezione della vita e del rapporto con gli altri. Dopo una prima fase di forte scoramento, gli americani ricordarono che la ricchezza è frutto del lavoro e della fatica e non dell’arricchimento facile e della speculazione priva di leggi. Non diedero più fiducia ai repubblicani, ma votarono in massa nel 1934 Roosevelt e il suo New Deal. Dopo la fame e l’inedia, i disoccupati e i lavoratori costruirono luoghi di socializzazione della loro terribile condizione anche attraverso l’aiuto dei grandi sindacati americani e, successivamente, grazie all’aiuto dello Stato. Rinacque la voglia di conoscere, di indagare, di studiare che contribuì alla nascita di un’industria culturale di massa. Negli anni ’30, infatti, il cinema americano raggiunse il suo massimo splendore non solo per dilettare gli spettatori impoveriti e depressi, ma anche per fornire un nuovo modello di cittadino onesto, lavoratore, del tutto antitetico ai modelli gangsteristici e avventuristici dei brokers che avevano provocato la rovina. È il periodo dei film di denuncia del capitalismo sfrenato, delle sue contraddizioni e dei suoi ritmi di lavoro (cfr. Luci della città e Tempi Moderni dell' intramontabile Charlie Chaplin), della commedia sofisticata di Ernst Lubitsch Trouble in Paradise (tradotto in italiano con il titolo Mancia competente), dei capolavori di Frank Capra La follia della metropoli e Accadde una notte (capolavoro girato con pochissimi fondi), di Scarface e della commedia Ventesimo secolo di Howard Hawks. Ancora più impressionanti i cambiamenti nella letteratura, meno controllata dai grandi gruppi monopolistici dell’industria culturale. Basti pensare ai vari romanzi di John Steinbeck culminati nel capolavoro Furore, una delle fonti storico-letterarie per comprendere meglio la Grande Depressione, ai racconti di Jonh O’Hara, ai significativi L’urlo del furore, o Santuario di Wiliam Faulkner, alle opere di Howard Fast Il cittadino Tom Paine e L'ultima frontiera, che mise in discussione radicale la conquista del West e rappresentò un’anteprima assoluta della cultura liberal degli anni ’60 e ’70. Anche il jazz, dopo una prima fase di crisi, divenne una valvola di sfogo per gli americani che non volevano pensare alla crisi. Sono gli anni dell’esplosione di grandi artisti quali Duke Ellington, Benny Goodman e della giovanissima Billie Holiday, solo per citare alcuni nomi. La crisi spingeva, infatti, la popolazione a ballare e fece fiorire le orchestre jazz e di altri generi afroamericani che permettevano maggiore apporto e partecipazione dei neri alla cultura statunitense. L’espansione della musica afroamericana negli anni della grande crisi favorì non solo lo scambio con le comunità bianche, rimaste sino ad allora piuttosto chiuse, ma anche uno stimolo alla crescita di una coscienza da parte dei neri dei propri diritti di piena cittadinanza, che troveranno poi uno sviluppo fecondo negli anni ’60. La ristrutturazione non riguardò solo la cultura, ma anche la scuola e l’università che, grazie al New Deal, subirono importanti riforme nei programmi e nei finanziamenti, permettendo un rilancio dell’istruzione tecnica di base, necessaria per la ripresa della produzione su larga scala di merci, e della ricerca universitaria che tra gli anni ’30 e ’40 conobbe uno straordinario dibattito di idee in campo letterario, economico, sociale, filosofico e scientifico, anche grazie all’apporto degli intellettuali sfuggiti dalle persecuzioni razziali hitleriane. La crisi dunque generò un rimescolamento sociale senza precedenti che ridefinì lo stesso concetto di vita e di cittadinanza negli Stati Uniti. La solidarietà, il mutualismo, l’intervento statale massiccio nell’economia, improvvisamente ritrovarono spazio in una società che aveva puntato tutto sull’individualismo e sull’arricchimento personale e aveva promosso una cultura dell’ottimismo sfrenato e acritico. Il dibattito culturale divenne incandescente, la sete di svago incrementò la nascita di una cultura di massa popolare, l’innovazione tecnologica legata alla ricerca scientifica fu posta al centro della ricostruzione. Dalla grande depressione rinacque un’America diversa, fiera di aver ricostruito il paese senza aver mai messo in discussione la libertà di parola, di stampa e di opinione. Un paese multietnico e multiculturale che aveva ritrovato un senso di cittadinanza comune necessaria per affrontare lo sforzo bellico per una guerra lontana dai confini degli Stati Uniti, ma risolutiva non solo per le sorti della democrazia in Europa ma anche per la stessa crisi del 1929. Marco Del Bufalo, www.treccani.it DALLA RASSEGNA STAMPA Il prezzo, di Wanda Castelnuovo, www.ilsipario.it, 7 Febbraio 2016 Uscito dalla prolifica penna di Arthur Miller, drammaturgo e narratore - di cui nel 2015 si è celebrato il centenario della nascita e il decennale della scomparsa - dalle grandi luci e ombre e dalle intenzioni polemiche verso la società americana con i suoi pregi e difetti, Il Prezzo (titolo originale The Price) debutta nel 1968 in prima mondiale al 'Moresco Theatre' di Broadway e vi resta per 429 repliche. In Italia è quasi sconosciuto salvo per la messa in scena con Raf Vallone nel 1969: la prima traduzione è stata, infatti, pubblicata ora grazie alla collaborazione tra Masolino D'Amico e la Casa Editrice Einaudi. L'opera indaga il rapporto tra responsabilità individuale e collettiva alla luce degli effetti della crisi del '29 sulla società americana esemplificata da una famiglia borghese dilaniata da contrasti interni e da suggestioni sociali da cui tenta di difendersi per salvaguardare una sorta di dignità che agevola la conoscenza di sé e del ruolo ricoperto nel proprio ambiente. Non deve essere stato difficile per Miller scrivere un dramma vissuto sulla propria pelle come figlio di Isidore, ebreo arrivato dalla Polonia a New York a sette anni che, costruitasi una notevole fortuna nell'industria dell'abbigliamento, dando lavoro a centinaia di persone e andando a lavorare con l'autista, è ridotto sul lastrico e, forse stremato dallo sforzo per emergere, non ha la forza di reagire rifugiandosi in un'apatica rassegnazione che il figlio non gli perdona finché è vivo salvo poi addolcire tale posizione con pennellate di tenera comprensione. Avvincente e ironico dramma autobiografico, quindi, per la figura del padre, quinto personaggio assente, ma presente idealmente nella poltrona vuota durante l'incontro dopo anni d'indifferenza tra due fratelli casualmente riuniti dalla necessità di vendere i mobili di famiglia, accatastati da sedici anni nella casa che sta per essere abbattuta. Quel padre che dopo la crisi del '29 si chiude in se stesso rifiutando ogni azione, salvo accettare il sacrificio di Victor (un Massimo Popolizio bravissimo nel rendere tic, dubbi, insicurezze, titubanze, smarrimenti e mestizia dell'antieroe o eroe vero... e nella difficile e ben riuscita opera di regia di un lavoro con un impegnativo e consistente poker d'attori) che, dotato negli studi, rinuncia a proseguirli per guadagnare da vivere per il genitore e per sé. Divenuto suo malgrado poliziotto, matura scontento e insicurezze tanto da accettare una moglie autoritaria e nevrotica affetta da alcolismo e depressione come Esther (un'Alvia Reale divertente per la resa ironica e parossistica di una nevrosi distruttrice) e da non sapersi decidere ad andare in pensione. Diverso l'atteggiamento di Walter (un Elia Schilton calato in modo equilibrato e composto nella parte) che pur non altrettanto dotato intellettualmente studia con determinazione e dimenticando padre e fratello si costruisce una carriera da chirurgo dal successo non molto adamantino e una famiglia con moglie e figli, ma si sa che i giganti con i piedi di argilla sono in equilibrio instabile... Ed ecco i due fratelli sulla scena a giocare di fioretto con sentimenti, risentimenti, rammarichi e rivendicazioni - oberati nell'animo come i mobili accatastati, gravidi di memorie e ricordi, gravano come un macigno sull'ambiente - alla presenza di un personaggio esterno, Solomon, un novantenne trafficante di mobili ebreo (molto caratterizzato dal non più giovane, ma vivacissimo Umberto Orsini cui si deve la riscoperta del dramma) che rialzatosi da infinite cadute rappresenta l'emblema della capacità di sapere lottare contro le avversità non arrendendosi mai: proprio il contrario dei padri nel dramma e nella vita di Miller. Così la stima del prezzo per cui è chiamato in causa l'anziano trafficone si estende dai mobili a tutto e a tutti: ogni spettatore attraverso la bilancia della mente è trascinato nella vita dei personaggi dalla sofferta e dolente umanità, nell'epoca che sembra quella dell'odierna temperie economica e nell'eterna fatica del vivere di tutti gli uomini in ogni dove e tempo. Arthur Miller e il prezzo di un passato immobile, di Viviana Raciti, www.teatroecritica.net, 3 novembre 2015 Il ricordo del passato – imponente, intramontabile, insostituibile – è ingombrante come i giganteschi mobili che riempiono tutta l’altezza della scena del Teatro Argentina al debutto della Compagnia Umberto Orsini diretta da Massimo Popolizio ne Il prezzo di Arthur Miller. Dopo l’avventura attoriale dei Lehman Brothers, qui Popolizio torna su una delle fratture fondamentali della cultura americana, in una forma che in certi momenti sente, come la storia di cui si fa latrice, un po’ il peso del tempo. Il prezzo del titolo è quello che deve esser stimato per la vendita di una mobilia appartenente a due fratelli che non si incontrano da sedici anni a causa di un dissidio familiare. A partire dal semplice spunto vengono fuori le insoddisfazioni, il risentimento, le tragedie dichiarate – la crisi del ’29 – e quelle rimaste sepolte dalla polvere di chi non vuol vedere. Popolizio, scegliendo la strada di una regia che si affida agli attori mentre il resto sembra immutabile – uno spazio in cui nemmeno i suoni delle demolizioni che provengono da fuori riusciranno a muover qualcosa – fa emergere tuttavia le doti dell’ensemble affiatato. Spiccano l’interpretazione sfuggente e divertita di Orsini nei panni del vecchio antiquario Solomon e la resa volutamente legnosa e goffa del regista, qui anche attore, che riserva per sé il ruolo di Victor, il fratello che ha deciso di sacrificare la propria vita per assistere il padre. Il suo sembra il ritratto dell’uomo che si è accontentato, tiranneggiato dalla moglie Esther (un’Alvia Reale a volte un po’ ingabbiata) o sbeffeggiato dal fratello Walter, che si offre di tirarlo fuori dalle ristrettezze economiche al costo di un cedimento morale. Il retaggio ebreo dell’autore si riflette nell’impossibilità di risoluzione, la verità di quei rapporti soffocanti rimane tra le mura grigie, impossibile stabilire chi avesse ragione; i personaggi non risolti, fumosi, tragicomici, si appoggiano alle tecniche degli attori che supportano il ritmo lasciandoci nell’amarezza quando, nel finale, il vecchio antiquario, contento di aver beffato tutti se stesso compreso, continua a ballare sulle note di un grammofono e sui botti del nuovo che avanza. Quando nel 1968 scrisse Il prezzo, Arthur Miller aveva già alle spalle il successo di opere quali Erano tutti i mei figli, Morte di un commesso viaggiatore, Uno sguardo dal ponte; mentre sul piano personale si contavano già diversi matrimoni, il divorzio turbolento da Marylin Monroe, un figlio – disconosciuto sino in punto di morte – affetto dalla sindrome di Down. Su un crinale in discesa emerge un pessimismo all’interno di questo testo (l’ultimo prima di un salto lungo due decenni) che ricorda un passato ingombrante senza possibilità di risoluzione. Duplicato tanto sul piano economico quanto su quello personale – un lookback ma senza la rabbia degli inglesi, con rassegnazione e rimpianto, semmai – è uno dei punti di non ritorno per gli americani, che nel crollo delle borse del 1929 videro svanire in pochissimo tempo la propria agiatezza economica riflessa in un atteggiamento di chiusura umana. La modernità e il consumismo che implacabili scorrevano non hanno più spazio per le cose eterne: che si stia parlando di un tavolo troppo largo per entrare nelle porte delle moderne case o della fede incrollabile della sincerità di un vecchio padre distrutto, poco importa. Bisogna cambiare, comprare, vendere, distaccarsi. Eppure nulla si muove. C’è un lavandino da cui scorre un filo d’acqua, si sentono i boati del progresso che demolisce per costruire nuove case. Ma la scena rimane intatta, intrappolata lì come i dialoghi in un passato, «come se non avessimo nemmeno avuto una vita». Il rischio è quello di rimanere tra le macerie di un rapporto creduto imprescindibile, senza credere che «non ci fosse pietà», da nessuna parte Le ferite della grande crisi americana. “Il prezzo” di Miller con un grande Orsini, di Alessandra Bernocco, www.unità.tv, 21 ottobre 2015 La scena di Maurizio Balò è dominata da una catasta di mobili coperti da teli di plastica tra i quali si intravede qualche sedia, un’arpa, un comò e un lungo tavolo in verticale. Scopriremo di lì a poco che si tratta di un esemplare in stile giacobino spagnolo dei primi anni Venti, di quelli che non passano nemmeno dalle porte delle case moderne. Con un bel po’ di storia alle spalle ma che non vale un granché visto, che “coi mobili usati – come dice il vecchio broker interpretato da Umberto Orsini – non si può essere sentimentali”. E’ anche questo il tema de Il prezzo, il testo di Arthur Miller messo in scena dalla compagnia Umberto Orsini con la regia di Massimo Popolizio, che ha debuttato ieri in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma. Il prezzo di vecchi mobili di famiglia che le mogli sopraggiunte non vedono l’ora di farsi fuori, salvo quotarli in extremis per alzare la posta, il prezzo dei ricordi privati che non devono interferire con le ciniche valutazioni dei mercanti, il prezzo dei sacrifici inghiottiti in un gorgo di rivelazioni, smascheramenti, rivendicazioni estenuanti. Tutto ha un prezzo e tutti pagano un prezzo in questa pièce che fotografa l’America dopo il crollo del ’29, quando nel giro di poche settimane anche la media borghesia agiata e competitiva si è ritrovata sul lastrico a dormire nei parchi, con le scarpe ancora lucide e il cappello di marca. Dove anche chi ce l’ha fatta deve ancora far quadrare i conti per un vestito nuovo o una serata al cinema, rinviando sempre e di nuovo la data della pensione. A meno che non abbia imboccato la strada della rivalsa sociale quando passa attraverso le professioni più nobili bistrattate e svilite. Il primo caso è quello di Victor (Popolizio), agente di polizia consegnato a un lavoro che detesta ma che non si azzarda a lasciare, il passato gravato da una devozione filiale sproporzionata alla causa, e un presente immobile accanto a una moglie dispotica, per quel che le riesce, ma sostanzialmente depressa e dedita all’alcol (Alvia Reale). Il secondo caso è quello di Walter (Elia Schilton), il fratello meno dotato negli studi che è diventato medico e ha fatto carriera, anzi quattrini, con tre case di riposo e un’affinata disposizione ad aggirare il fisco: per esempio meditando donazioni fasulle per il bene comune che sarebbe il portafoglio della propria famiglia. Due figli che non trovano di meglio che ‘esplorare la chitarra’ e regali importanti da pazienti facoltosi come quel vestito grigio con cui si palesa, sprezzante, a minare una trattativa appena abbozzata. Tra i due fratelli comincia un gioco al massacro senza soluzione e tra rigurgiti al fiele e accuse incrociate si leva l’ombra di un padre parassita ed egoista. Mentre sotto gli occhi di Esther, la moglie di Victor, tornano a sanguinare vecchie ferite mai rimarginate, invidie, inadempienze, gelosie covate per anni. Intanto si assiste alle estemporanee incursioni del broker che di nome fa Solomon, improvvido giudice dal rocambolesco passato che solo alla fine apprendiamo essere lì per ‘errore’. Forse è la figura che più di tutte porta gli umori di Miller, caustica sì ma a modo suo saggia e leale, che Orsini restituisce con un fascino un po’ délabrée, soprabito usurato e busta di plastica da cui tira fuori cibarie e bevande come un clochard. Prima di festeggiare con quel balletto finale che è tutto un programma, quando l’ultimo colpo della sua vita, e il più fortunoso, si è finalmente compiuto. La regia di Popolizio nasce da un disincantato punto di vista sul dramma borghese e fa bene a cavalcare il parossismo di questi personaggi sorpresi nella loro goffaggine e cattiveria, connotati da gesti che ritornano come la camminata veloce di Esther quando parla di soldi, o le mani in tasca e le gambe incrociate di Walter da perfetto snob della domenica. Il risultato è un equilibrio sempre sfidato tra colori cupi e claustrofobici e comicità che pure esiste e arriva quando meno te l’aspetti, paradossale eppure chiara: con un pianto quasi brechtiano che invece di suscitare empatia fa sorridere o un capitombolo dopo due colpi di fioretto con tanto di battuta a dir poco didascalica (“la lama la vedi è come viva sei pronta”). Il dramma monta e si dilata sulla recitazione degli attori, chiamati a un minuto lavoro sui sottotesti e a rapide virate di registro, e i momenti di svolta, non proprio colpi di scena ma riassestamenti e rivelazioni improvvise, vengono contrappuntati dai suoni di Pasquale Mari. I costumi sono di Gianluca Sbicca e vestono ancora Victor con la divisa di polizia e Esther con abito bon ton e filo di perle, la borsetta sempre con sé come chi se ne vorrebbe andare al più presto.