il prezzo - Teatro alle Vigne

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STAGIONE 2016/2017
IL PREZZO
di Arthur Miller
Libretto di sala a cura di Claudia Braida
Venerdì 10 febbraio 2017
Ore 21.00
Traduzione di Masolino D’Amico
con:
Umberto Orsini nel ruolo di Gregory Solomon
Massimo Popolizio nel ruolo di Victor Franz
Alvia Reale nel ruolo di Esther Franz
Elia Schilton nel ruolo di Walter Franz
Scene: Maurizio Balò
Costumi: Gianluca Sbicca
Luci: Pasquale Mari
Regia: Massimo Popolizio
Direzione artistica: Umberto Orsini
Tante volte ho pensato: la cosa che voleva di più era parlare con suo fratello,
e se ci fossero riusciti… ma quello è venuto e se n’è andato.
E io continuo a pensare… non è terribile?
Mi sembra sempre che un altro piccolo passo
e arriverà un qualche assurdo tipo di perdono
e solleverà tutti quanti.
A Miller
Qual è "Il Prezzo"? È quello che ognuno di noi paga per vivere.
Due fratelli, di famiglia agiata, dopo il crollo finanziario del 1929, hanno assunto
due posizioni completamente antitetiche. Uno, Victor, ha abbandonato gli studi
nei quali brillava e si è arruolato in polizia per poter mantenere il padre caduto in
miseria. L'altro, Walter, sottraendosi alle responsabilità familiari, ha proseguito
gli studi ed è diventato un grande chirurgo.
La nostra vita è ancorata alle scelte operate nel passato. In quelle scelte, sia pur
condizionate in diversa misura, noi avevamo bene o male creduto, tanto è vero
che le abbiamo fatte o subite. Ma col passare del tempo ciò che sembrava
importante cambia, diventa a volte grottesco, a volte ridicolo, a volte tragico. È
impossibile quindi per l'uomo distinguere in modo definitivo il bene dal male,
perché tutto muta e, in questa fluidità dell'esistere, è illusorio porre le basi di un
edificio morale che resista all'erosione del tempo.
Miller affronta ne Il Prezzo il tema della conoscenza di sé, dell’altro,
dell’esistenza; una conoscenza non metafisica ma tutta terrena e umana. Come
se la nostra vita, il nostro passato, analizzati nel presente, ci apparissero talvolta
un sogno o una storia che qualcuno ci abbia raccontato e dove la distinzione fra
realtà e irrealtà è quasi impossibile. La Commedia è costruita per quattro
caratteri che rappresentano lo spaccato di una società non solo americana ma
nella quale ognuno di noi, oggi più che mai, può riconoscersi e perciò
interrogarsi. I personaggi, tondi, vivi, vulnerabili, grazie alla sublime scrittura di
Miller, ci trascinano in un mondo dove l'ironia livida, i dubbi, la cattiveria e
l'incertezza riempiono lo spazio scenico che, nella sua immobilità, si presenta
come un ring, dove lo scontro avviene attraverso un intreccio di parole che
rimbalzando da un lato all'altro e ti tolgono il respiro.
Umberto Orsini
Formatosi all’Accademia Nazionale d’Arte
Drammatica, debutta ne Il diario di Anna
Frank con la regia di Giorgio De Lullo, che
lo dirige anche in altri memorabili
spettacoli della Compagnia dei Giovani.
Con la Compagnia Morelli-Stoppa è ne
L’Arialda di Giovanni Testori con la regia di
Luchino Visconti. Negli anni ’60 e ’70
raggiunge una vasta popolarità con
un’intensa attività teatrale, cinematografica (debutto con Fellini ne La dolce vita,
affermazione con Visconti ne La caduta degli dei e Ludwig) e televisiva (per tutti I
fratelli Karamazov). Dal 1982 al 1997 è direttore artistico del Teatro Eliseo.
Numerosi gli spettacoli da protagonista, tra i classici: I Masnadieri di Schiller e
Othello di Shakespeare, con la regia di Lavia; tra i contemporanei: Old Times di H.
Pinter, Servo di scena di R. Harwood, Amadeus di P. Shaffer, Besucher di B.
Strauss, Affabulazione di P.P. Pasolini, Morte di un commesso viaggiatore di A.
Miller, Copenaghen di M. Frayn. Diretto da Visconti, Lavia, Missiroli, Ronconi,
Cobelli, Avogadro e De Capitani. Nel 2012 fonda la sua Compagnia; La leggenda
del grande inquisitore, Le memorie di Ivan Karamazov, La ballata del carcere di
Reading, Il giuoco delle parti, Nove e Un marito ideale sono gli spettacoli prodotti
in questi anni.
Racconta: Sei anni fa nella libreria del National Theatre di Londra mi capitò tra le
mani "The Price" di Arthur Miller e la memoria mi riportò ad uno spettacolo
interpretato da Raf Vallone negli anni sessanta. Cominciai la lettura e fui
catturato dal dialogo e dall'attualità della vicenda. Cercai una traduzione italiana
ma era inesistente. Decisi che avrei portato in scena la commedia solo se avessi
trovato tre bravissimi attori nei ruoli principali e in tal caso per me avrebbe avuto
un senso interpretare Gregory Solomon, un mediatore di mobili di novant'anni.
I miei desideri si sono avverati: ho tre splendidi compagni e finalmente "Il prezzo"
gode di una traduzione italiana che viene a colmare una lacuna nell'opera omnia
di Miller nel decennale della sua scomparsa.
A proposito della compagnia teatrale da lui fondata, nel 2013 ha dichiarato: In un
momento di crisi economica, che tocca tutti i settori produttivi del paese e che per
quanto riguarda il nostro si può toccare con mano ogni giorno, ed in maniera
sempre più preoccupante, ho deciso di fondare una compagnia teatrale, andando
apparentemente in controtendenza. Sappiamo che dai momenti di crisi può
nascere una spinta verso il nuovo, un desiderio che ci porti fuori dal tunnel a
vedere finalmente la luce. Io credo che questo possa succedere.
Le mie proposte non avranno niente di rivoluzionario o di inedito, lo premetto. Si
concentreranno soprattutto su un elemento fondamentale: il profondo desiderio
di aggregare al mio nome una serie di persone con le quali ho già lavorato o con
le quali avrei sempre voluto lavorare trasmettendo loro tutta la mia passione, la
mia esperienza e il persistente desiderio di ricerca e di qualità che ha guidato la
mia vita artistica attraverso una seria preparazione professionale. Vengo da
lontano; vengo dalla Compagnia dei Giovani, da Visconti, da Zeffirelli, da Lavia,
da Ronconi, da Castri, fino ad arrivare ai giovani registi come De Rosa o Pietro
Babina. Per diciotto anni, fino al 2000, sono stato direttore artistico del più
importante Teatro privato di Roma, parlo dell'Eliseo, e per dodici anni ho avuto
presso un Teatro pubblico come l'ERT il ruolo di direttore artistico della
Compagnia che faceva capo alla mia persona.
Mi sembra di essere stato capace di riassumere in poche righe il mio passato. Per
quanto riguarda il mio futuro, amerei parlarne più diffusamente ma non
genericamente. Al momento la mia Compagnia ha tre testi sui quali basa la
propria attività principale e sono: "La leggenda del Grande Inquisitore" scritto da
Babina, Capuano e da me e basato sul mondo di Dostoevskij, "Il marito ideale" di
Oscar Wilde con la regia di Roberto Valerio e la messa in cantiere in questi giorni
di uno spettacolo di Luigi Pirandello e cioè "Il gioco delle parti ", che debutterà nel
febbraio del 2014 ma le cui prove avverranno negli ultimi mesi del 2013, dando
vita ad un sistema che voglio perseguire e che sarà uno dei punti di forza della
mia Compagnia e che è quello di un laboratorio di lavoro permanente sul modello
del mio maestro Luca Ronconi. Tutto questo lavoro, che non sarà di semplice
rapporto tra scritturati e scritturante, ma di collaborazione artigianale e di
progetto a lungo termine fra me e i miei collaboratori, dovrebbe creare quel
terreno fertile sul quale la mia esperienza dovrebbe portare quei frutti utili per far
vivere a questa Compagnia un' esperienza che si allontani dalla "routine" e che si
avvicini a qualcosa che assomigli di più ai nostri piccoli sogni, se siamo ancora
capaci di averne. Utopia? Forse. Rischio? Molto, e personale. Scopo di tutto
questo? La libertà di sentirsi fuori dagli schemi ma dentro un sistema distributivo
senza il quale i talenti giovani che stanno con me non avrebbero visibilità.
Ho attinto tanto da tutti quelli che mi hanno preceduto e vorrei lasciare questa
eredità a quanti camminano con me ora e cammineranno un giorno senza di me
ma carichi, come saranno, di una conoscenza che viene da molto lontano e che io
mi sento felice di trasmettere. La crisi la si combatte con la qualità e l'arrogante
consapevolezza di fare un mestiere bello e utile.
Massimo Popolizio
In teatro è ventennale la sua collaborazione
con Luca Ronconi, da Gli ultimi giorni
dell’umanità di Kraus nel 1990 a Lehman
Trilogy di Massini nel 2015, ultima regia del
Maestro. Tra i tanti spettacoli interpretati è
diretto da: Mauro Avogadro in Copenaghen di
M. Frayn, Árpád Schilling in Riccardo III di
Shakespeare, Piero Maccarinelli in Ritter Dene
Voss di T. Bernhard, Daniele Abbado in Cyrano
de Bergerac di E. Rostand, Massimo Castri in Il misantropo di Molière, Lluís
Pasqual in Blackbird di D. Harrower, Claudio Longhi in Prometeo di Eschilo,
Carmelo Rifici in Visita al padre di R. Schimmelpfennig. In televisione è tra i
protagonisti della serie La stagione dei delitti e di vari film televisivi, tra gli altri:
L’attentatuni e Il grande Torino, entrambi diretti da Claudio Bonivento, Il delitto
di Via Poma di Roberto Faenza, Qualsiasi cosa succeda di Alberto Negrin. Per il
grande schermo ha lavorato con i fratelli Taviani (Le affinità elettive), Michele
Placido (Romanzo criminale), Daniele Luchetti (Mio fratello è figlio unico), Paolo
Sorrentino (Il Divo e La grande bellezza), Mario Martone (Il giovane favoloso),
Fiorella Infascelli (Era d’estate). Numerosi i premi ricevuti, dagli “Ubu” per il
teatro al “Nastro d’Argento” per il doppiaggio.
In merito alla regia de Il prezzo, dice: Ho accolto con grande entusiasmo la
responsabilità di dirigere questa commedia di Arthur Miller, che è stata scritta nel
1968 e che in Italia è praticamente inedita. È un'opera a mio avviso molto
importante e che proprio in questi giorni viene riproposta negli Stati Uniti e in
Inghilterra in occasione del decimo anniversario della morte dell'autore. Ma è
importante perché riprende argomenti cari a Miller ed ad altri autori americani
della seconda metà del Novecento che hanno focalizzato sul tema della famiglia e
del disagio legato a mutamenti storico-economici il loro interesse più
appassionato. In questa commedia tutto ha un prezzo: le scelte, i ricordi, gli
errori, le vittorie e le sconfitte.
Ma quello che mi ha colpito di più in questo lavoro così ben strutturato nella sua
alternanza di momenti divertenti e di momenti drammatici è stata la consistenza
e lo spessore dei quattro personaggi che animano la storia. Un poliziotto di New
York, che deve vendere tutti i mobili accumulati da un padre che per anni si era
isolato in un appartamento in cui questi oggetti erano accatastati e che a sedici
anni dalla sua morte devono essere venduti perché l'edificio sta per essere
abbattuto; una moglie con dei problemi di alcol e di depressione; un fratello, che
da anni ha fatto un suo percorso di successo perché ha saputo allontanarsi dalle
conseguenze della crisi e col quale il poliziotto non ha contatti da più di dieci anni,
che ricompare sulla scena proprio in occasione di questa vendita. E un quarto
personaggio, un venditore di mobili usati, che dovrà stabilirne il prezzo.
Un dialogo a volte divertente e caustico e a volte drammatico, come in un
dramma di O'Neill.
Grazie anche ad uno sforzo produttivo raramente riscontrabile nel teatro privato,
ho potuto collaborare con i migliori artisti e professionisti del settore.
Soprattutto, ho avuto occasione di stare in scena con i colleghi che amo e di
ripetere con Umberto quel sodalizio che ci ha legati per anni, da "L'uomo difficile"
fino a "Copenaghen". E' stata un'esperienza felice dirigerli perché essi parlano un
linguaggio che ben conosco: quello del teatro di interpretazione.
Alvia Reale
Nella sua carriera è nove volte diretta da Luca Ronconi,
da Strano interludio di O’Neill a Gli ultimi giorni
dell’umanità di Kraus, da L’uomo difficile di
Hofmannstal a Quel pasticciaccio brutto di via
Merulana di C. E. Gadda, a Il Panico di Spregelburd. Ha
recitato, tra gli altri, negli spettacoli diretti da: Nanni
Garella, Anatol di Schnitzler; Roberto De Simone,
Agamennone di Eschilo; Massimo Castri, Gli
innamorati di Goldoni; Eimuntas Nekrosius, Ivanov di
Checov. E’ protagonista, diretta da Cesare Lievi, di Donna Rosita nubile di Garcia
Lorca. Impegnata nella valorizzazione della drammaturgia contemporanea lavora,
tra gli altri, con i registi Valter Malosti, Mauro Avogadro, Renato Carpentieri,
Federico Tiezzi, Leo Muscato, Valerio Binasco. Fonda, con Emanuela
Mandracchia, Sandra Toffolatti e Mariangeles Torres, il gruppo “Mitipretese” con
il quale ha diretto e interpretato: Roma ore 11 di Elio Petri, Festa in famiglia e
Troiane, variazioni sul mito. Con Il giuoco delle parti di Pirandello, regia di
Roberto Valerio, ha iniziato la sua collaborazione con la compagnia Orsini. Tra gli
altri premi ha ricevuto il “Premio Eleonora Duse”.
Elia Schilton
Debutta nel 1978 con La Duchessa di Amalfi di Webster,
regia di Mario Missiroli; collabora a più riprese con Carlo
Cecchi, suo grande Maestro, che lo dirige in molti dei suoi
spettacoli, tra gli altri, Il Misantropo di Molière, Amleto di
Shakespeare, Hedda Gabler di Ibsen. E’ fra gli interpreti di
spettacoli diretti da Gianfranco De Bosio, Beppe Navello,
Mario Morini, Filippo Crivelli, Tonino Conte, Walter Le
Moli. Con Luca Ronconi prende parte a Professor
Bernhardi di Schnitzler, Drammi di guerra di E. Bond, Lo
specchio del diavolo di G. Ruffolo e Troilo e Cressida di
Shakespeare. Nel corso delle ultime stagioni, è stato protagonista di Tartufo di
Molière, per la regia di Carlo Cecchi, e di Demoni di Dostoevskij, a cui è seguito Il
ritorno a casa, di H. Pinter, per la regia di Peter Stein. Per il cinema ha lavorato
con Brusati (Lo zio indegno), Fago (Pontormo), Bondì (De Reditu), Papetti (Noi
due) e Sorrentino (L’amico di famiglia). Per la televisione, oltre che per
produzioni in lingua francese, ha recitato tra gli altri nel film di Giraldi (Una vita
perduta), di Sironi (Il furto del tesoro, Montalbano, Virginia, la Monaca di
Monza). Numerose le partecipazioni radiofoniche.
Maurizio Balò, scenografo
Studia architettura all’Università di Firenze, dove inizia la propria attività con il
gruppo di teatro universitario. Dal 1975 (Vestire gli ignudi di Pirandello) progetta
scenografie e costumi di numerose produzioni per il teatro di prosa. Con La
damnation de Faust di Berlioz al Comunale di Bologna nel 1982 realizza il suo
primo allestimento per il teatro d’opera, a cui seguono produzioni in diversi teatri
lirici italiani e stranieri. Massimo Castri, Carlo Cecchi, Giancarlo Cobelli, Luca De
Fusco, Nanni Garella, Cesare Lievi, Werner Herzog, Kris Kraus, Egisto Marcucci,
Lorenzo Mariani, Roberto Valerio, Federico Tiezzi sono i registi con i quali ha
collaborato. Numerosi i Premi al suo lavoro: premio alla “Quadriennale di
Scenografia” di Praga per La damnation de Faust di Berlioz; Premio “Ubu” a molti
dei suoi lavori, da Elettra di Euripide a Il Misantropo di Molière; Premio “ETI-Gli
Olimpici del Teatro” a John Gabriel Borkman di Ibsen ed Erano tutti miei figli di
Miller; Premio dell’ “Associazione Nazionale dei Critici di Teatro” per Tre sorelle
di Cechov; Premio internazionale “Cinearti La chioma di Berenice” per Porcile di
Pasolini; Premio “Le Maschere del Teatro” per Andromaca di Euripide e per
Antonio e Cleopatra di Skakespeare.
Gianluca Sbicca, costumista
Dopo varie esperienze nel campo della moda, con Gianfranco Ferrè, Jean Paul
Gaultier, Reporter e altri, si avvicina, con Simone Valsecchi, al teatro come
assistente di Maria Carla Ricotti per Macbeth Clan, regia di Angelo Longoni, e poi
di Jacques Reynaud per Lolita di Nabokov, regia di Luca Ronconi. Il Candelaio di
Giordano Bruno è il primo spettacolo che firma con Valsecchi per Luca Ronconi,
ed è l’inizio di un sodalizio artistico durato 15 anni, fino al suo ultimo spettacolo
Lehman Trilogy. Collabora stabilmente con Claudio Longhi, per il quale firma i
costumi di diversi spettacoli, tra i quali Caligola, La Peste, La resistibile ascesa di
Arturo Ui, Il Ratto d’Europa. Nel corso della sua carriera lavora con molti registi
tra cui Peter Greenaway, Alvis Hermanis, Gabriele Lavia, Daniele Salvo, Piero
Maccarinelli, Pietro Babina, Massimo Popolizio, Sergio Fantoni, Marco Rampoldi,
Roberto Valerio, e veste alcuni dei più grandi attori italiani. Collabora con lo
stilista Antonio Marras in diverse installazioni e spettacoli teatrali, tra cui Sogno
di una notte di mezz’estate, regia di Ronconi e La Famiglia Addams, regia di
Gallione. Ha curato con Valsecchi la sezione moda e costume del “Museo delle
Millemiglia” di Brescia.
Pasquale Mari, light designer
Socio fondatore del gruppo teatrale e cinematografico “Teatri Uniti”.
Collaboratore di Mario Martone e, tra gli altri, di Andrea De Rosa, Toni Servillo,
Carlo Cecchi, Valerio Binasco, Arturo Cirillo, Roberto Valerio, Alessandro
Gassmann, Luca Zingaretti, Luigi Lo Cascio, Daniele Luchetti. Ha lavorato per
molte produzioni d’opera nei maggiori festival europei collaborando con Claudio
Abbado, Riccardo Muti, Daniele Gatti, James Conlon, Myung-Whun Chung e, tra i
registi, con Martone, De Rosa, Gianni Amelio e Marco Bellocchio. Tra le opere: la
Matilde di Shabran al Rossini Opera Festival di Pesaro e al Covent Garden, Il
Falstaff ed il Macbeth di Verdi agli Champs Elysées, Cavalleria Rusticana e Luisa
Miller alla Scala, il Don Pasquale al Real di Madrid, Elektra di Strauss al Petruzzelli
di Bari, Simon Boccanegra alla Fenice di Venezia, Il Flauto Magico per l’Orchestra
di Piazza Vittorio e numerose creazioni del Balletto Civile di Michela Lucenti. Nel
cinema ha lavorato con Mario Martone, Paolo Sorrentino, Ferzan Ozpetek,
Francesca Archibugi, Marco Bellocchio, Luigi Lo Cascio e Stefano Incerti. Tra i
premi per l’attività cinematografica due “Globo d’Oro”, un “Ciak”, un
“Esposimetro d’Oro”, un premio “Sacher”, due “Nastro d’Argento”.
PER APPROFONDIRE
Arthur Miller, luci e ombre del sogno americano
Il suo Morte di un commesso viaggiatore è
una delle pietre miliari del teatro americano
contemporaneo, in cui si fondono alla
perfezione i temi a lui più cari: quelli del
conflitto familiare, della responsabilità etica
individuale e della critica a un sistema
economico
e
sociale
spietato
e
spersonalizzante. Capolavoro assoluto, è
stato riconosciuto come tale dalla critica, che
lo ha gratificato con numerosi premi, fra cui
il prestigioso “Pulitzer”.
Drammaturgo fondamentale per la storia del Novecento, Arthur Miller nasce a
Manhattan (New York) il 17 ottobre 1915 da famiglia ebrea benestante. Dopo la
crisi del 1929 deve affrontare serie difficoltà e lavorare per mantenersi, mentre
frequenta la scuola di giornalismo dell'Università del Michigan. Non tarda a
scoprire la sua vera vocazione, quella del teatro, nel quale esordisce a soli
ventuno anni. Dopo la laurea, conseguita nel 1938, frequenta un corso di
drammaturgia grazie ad una borsa di studio e viene ammesso al seminario del
Theatre Guild.
Scrive copioni per la radio e debutta a Broadway nel 1944 con L'uomo che ebbe
tutte le fortune, un'opera che, pur ottenendo il parere lusinghiero dei critici,
viene replicata solo quattro volte. Si cimenta anche nell'ambito della narrazione
con Situazione normale e, nel 1945, con Focus, romanzo sul tema
dell'antisemitismo nella società americana.
Erano tutti miei figli, del 1947, è il primo lavoro teatrale di successo ed è subito
seguito nel 1949 da Morte di un commesso viaggiatore, (sottotitolo Alcune
conversazioni private in due atti e un requiem), che fu salutato in America come
una sorta di evento nazionale, (a Broadway 742 repliche). Il protagonista Willy
Loman è il paradigma del sogno americano del successo e dell'autoaffermazione,
che si rivela in tutta la sua ingannevole precarietà.
Il 22 gennaio 1953 è la volta de Il Crogiuolo, conosciuto anche con il titolo di Le
streghe di Salem, testo che, ripercorrendo una vicenda di "caccia alle streghe"
avvenuto nel 1692, allude al clima di persecuzione inaugurato dal senatore Mac
Carthy contro l'ideologia comunista (ne farà esperienza più tardi lo stesso Miller).
Il 29 settembre 1955 va in scena Uno sguardo dal ponte, una tragedia con risvolti
incestuosi in un ambiente di emigranti italiani in America, abbinata a Memorie di
due Lunedì, un testo autobiografico, una sorta di metafora dell'incomunicabilità e
della solitudine dell’intellettuale.
Trascorrono poi anni di silenzio creativo, in cui Arthur Miller vive la sua breve
esperienza matrimoniale - dal 1956 al 1960 - con Marilyn Monroe, la seconda
delle sue tre mogli. Il drammaturgo, nella sua autobiografia pubblicata negli anni
novanta, Svolte, ripercorre le tappe di questa tormentata e chiacchierata unione:
dalla fragilità psicologica dell’attrice ai ripetuti tentativi di avere un bambino - la
Monroe non riesce a portare a termine almeno due gravidanze - fino al naufragio
del matrimonio fra incomprensioni e litigi. Per la giovane e bella moglie, Miller
lavora alla sceneggiatura de Gli spostati, l'ultimo film completo, diretto da John
Huston nel 1961, che la Monroe interpreta prima di essere trovata morta nella
sua abitazione di Los Angeles il 5 agosto del 1962, all'età di 36 anni. Terminate le
riprese del film, che giudica troppo ricalcato sulla sua vita, Marilyn chiede il
divorzio. Dopo la morte della Monroe, Miller scrive una biografia della diva, dal
titolo Io la conoscevo.
È del 1964 La caduta, che descrive drammaticamente l'esperienza di un ménage
controverso fra un intellettuale e un'attrice, opera in cui tutti hanno intravisto
risvolti autobiografici, mentre Miller si è sempre accanito a negarli. Dello stesso
anno Incidente a Vichy racconta di ebrei arrestati in Francia dai nazisti.
Seguono molti altri titoli, ognuno dei quali ha incontrato alterne fortune: nel
1968 Il prezzo; nel 1973 Creazione del mondo e altri affari; nel 1980 Orologio
americano (un affresco di vita americana durante la grande depressione); nel
1982 due atti unici, Una specie di storia d'amore e Elegia per una signora; nel
1986 Pericolo: Memoria; nel 1988 Specchio a due direzioni; nel 1991 Discesa da
Mount Morgan; nel 1992 L'ultimo Yankee e nel 1994 Vetri rotti, dove ancora una
volta si intrecciano psicanalisi, drammi storici sociali e personali, con una sottile
denuncia nei confronti della tendenza ad abdicare alla propria responsabilità
individuale.
Arthur Miller sembra comunque non essersi mai completamente liberato dal
fantasma di Marilyn. A 88 anni suonati è tornato su quella tormentata relazione
con un nuovo dramma, intitolato Finishing the Picture ( che può esser tradotto
come "finire il film" o "finire il quadro"), la cui anteprima mondiale è andata in
scena al Goodman Theater di Chicago per la regia di Robert Falls.
Malato di cancro da tempo, Miller è morto all'età di 89 anni l'11 febbraio 2005.
Dal testo
Victor Te lo dico io cos’è successo. Lo vuoi sentire?
Glielo dissi, quello che mi avevi detto tu.
Glielo feci affrontare. (Non continua; i suoi
occhi vanno alla poltrona) Cioè, non lo
affrontai io; semplicemente gli dissi: “Walter
ha detto di chiederli a te”.
Walter E che successe?
Victor (con calma) Si mise a ridere. Io non sapevo
che senso dargli. A dirti la verità – da allora
quella risata mi è rimasta nelle orecchie. Un
po’ come se fosse un specie di scherzo
assurdo – perché è vero, qua dentro si
mangiavano rifiuti. (Si interrompe) Non
sapevo che fare. E uscii. Andai… (si siede, gli occhi fissi) giù fino al Bryant
park, dietro la biblioteca pubblica. (Breve pausa) L’erba era coperta di
uomini. Come un campo di battaglia; un enorme dormitorio a cielo
aperto. E non erano barboni… alcuni avevano ancora scarpe lustrate e
cappelli di marca, uomini d’affari rovinati, avvocati, operai specializzati.
Scene che avevo già visto cento volte. Ma d’un tratto… rendo l’idea?
Capii. (Breve pausa) Che non c’era pietà. In nessun luogo. (Guardando la
sedia in fondo al tavolo) Un giorno sei il padrone di casa, seduto a
capotavola, e poi di colpo sei merda. Da un momento all’altro. E cercai
di sentire un’altra volta quella risata… Come faceva a negarmi qualcosa
mentre mi voleva bene?
Esther Ti voleva bene…
Victor (con la voce che gli si gonfia nella protesta) Mi voleva bene, Esther! È solo
che non voleva finire su quel prato! Non è che non vuoi bene a
qualcuno, è che devi sopravvivere! La conosciamo questa sensazione,
no? Facciamo quello che dobbiamo fare. (Con un gesto ampio che
comprende Esther, Walter e se stesso) Di che altro stiamo parlando qui?
Se gli era rimasto qualcosa, era…
Esther Se…
Victor
Ma cosa cambia! Sì, parlo come un idiota. Ma cosa cambia? Non poteva
più credere in nessuno, e questo io non lo potevo sopportare! (Guarda
Walter mentre parla, non c’è quasi paura) Lui gli aveva dato un calcio in
faccia; mia madre… la notte che ci disse di essere rovinato, mia madre…
era proprio qui, su questo divano. Era tutta in ghingheri… per qualche
occasione, credo. Aveva i capelli tirati su, e degli orecchini lunghi. E lui
era in smoking… e ci disse a tutti di sederci; e ci disse che era finita. E lei
vomitò. (Breve pausa. Orrore e pietà si contorcono nella sua voce) Così,
tra le sue braccia. Nelle sue mani. Continuò a vomitare, come se le
tornassero su trentacinque anni. E lui era seduto lì. Puzzava come una
fogna. E gli venne un’espressione sul viso. Non avevo mai visto un uomo
con quella faccia. Era seduto lì, col vomito che gli si seccava tra le mani.
(Pausa. Si volta verso Esther) Che differenza fa cosa sai e cosa non sai?
Non che lo giustifichi; è stato un idiota; questo non ho bisogno che me lo
dica nessuno. Ma ti tirano su nella fiducia reciproca, ti riempiono di
queste baggianate – non puoi fare a meno di comportarti così, ecco
tutto. Pensai che se gli fossi stato vicino, che se avesse visto che qualcuno
era ancora…Non lo so spiegare; io volevo… impedirgli di disintegrarsi. Io…
(Di nuvo si interrompe, lo sguardo nel vuoto).
Walter (con calma) Non funziona, Vic. Lo capisci da te, vero? Non è affatto così.
Lo capisci, vero?
Victor (con calma, avidamente) Cosa?
Walter (sotto la spinta della sua necessità) Credi che sia proprio così? Davvero si
è disintegrato qualcosa? Davvero ci avevano allevati nella fiducia
reciproca? Non ci avevano allevati invece nel segno del successo? Per
quale altro motivo rispettava me e non te? Che cosa si è disintegrato?
Che cosa si poteva disintegrare? (Victor guarda altrove, la visione che sta
spuntando) C’è mai stato tutto questo volersi bene qui? Quando lui aveva
bisogno die lei, lei si è messa a vomitare. E quando tu avevi bisogno di lui,
lui si è messo a ridere. La cosa insopportabile non è che si è disintegrato
tutto, è che qui non c’è mai stato niente.
Victor gli volta le spalle con la paura sul viso.
Esther Ma chi… chi può affrontare questo, Walter?
Walter Devi affrontarlo! Quello che hai visto dietro la biblioteca non era che nel
mondo non c’è pietà, fratellino. È che non c’era amore in questa casa.
Non c’era solidarietà. Qui non c’era niente, se non un chiaro accordo
finanziario. Ecco cos’era intollerabile. E tu hai dovuto cancellare quello
che avevi visto.
Victor (con un’ansia terribile) Cancellare…
Walter Vic, io ci sono stato dentro questa scatola. Ho sprecato trent’anni a
proteggermi da quella catastrofe. E ne sono uscito vivo solo quando ho
visto che non c’era nessuna catastrofe, che non c’era mai stata. Non si
erano mai amati – lei non faceva che ripetere che il matrimonio le aveva
distrutto la carriera musicale. Io ho visto che qui non si è disintegrato
nulla , Victor – e lui ha smesso di perseguitarmi con quelle mani coperte
di vomito. Ho smesso di sentirmi un traditore. Il mio tempo adesso
appartiene a me, non ho paura del rischio di credere a qualcuno. Tutto
quello che volevo era semplicemente studiare la scienza, ma poi invece
mi sono inventato un’ottima macchina da soldi. Tu…(A Esther, con un
sorriso caloroso) Lui non ha mai potuto tollerare la vista del sangue. Era
timido, era sensibile… (A Victor) E che ti metti a fare? Ti infili dritto nella
professione più violenta che ci sia. Noi ci inventiamo, Vic, per cancellare
quello che sappiamo. Tu ti inventi una vita di autosacrificio, una vita di
doveri; ma quello che qui non è mai esistito non potrà mai essere
accampato. Tu non stavi difendendo niente, stavi negando quello che
sapevi che loro erano. E così negavi te stesso… E questo è tutto quello
che ci divide adesso… una illusione, Vic. L’illusione che io li abbia presi a
calci in faccia e che tu li debba difendere contro di me. Ma io allora vidi
semplicemente quello che tu vedi adesso: che qui non c’era proprio
niente da tradire. Io non sono tuo nemico. È tutta una illusione, e se
potessi attraversarla potremmo incontrarci…
A. Miller, Il prezzo, Einaudi, Milano 2015
Masolino D’Amico, note del traduttore
Il prezzo, la commedia di Arthur Miller che debuttò a
Broadway nel 1968, mette in scena quattro personaggi
più un quinto che non possiamo vedere, perché è
morto da qualche tempo. Anche Isidore, il padre di
Miller, era morto, due anni prima. Così il figlio lo
avrebbe ricordato nella sua autobiografia Svolte (1986):
"Era arrivato tutto solo a New York dal centro della
Polonia ancor prima del suo settimo compleanno.
Adesso aveva una National e un autista che lo
attendeva al ciglio della strada per portarlo ogni
mattina nella Seventh Avenue, il quartiere
dell'industria dell'abbigliamento." Questo avveniva, si capisce, prima della grande
crisi del '29, quando questo self-made man perse tutto e dovette abbandonare il
suo lussuoso appartamento al sesto piano con vista sul fiume e stipare la famiglia
in uno minuscolo a Brooklyn, dove il futuro commediografo divideva la camera
da letto col nonno. Forse esaurito dallo sforzo che aveva fatto per crearsi e
diventare ricco, lui, semianalfabeta in un mondo inizialmente estraneo, Isidore
non ebbe la forza per ricominciare daccapo, e da allora in poi si rifugiò in una
specie di passiva rassegnazione. Il suo dotato figlio trovò difficile perdonarglielo
finché Isidore fu vivo, salvo, vent'anni dopo la sua morte, ripensare a lui con
comprensione e affetto. Sempre in Svolte, lo ricorda quando ormai più che
ottantenne passava la giornata sul portico di una casa di riposo a Long Island. "In
ottant'anni non aveva mai avuto il tempo di star seduto a guardare il mare.
Aveva dato lavoro a centinaia di persone e aveva prodotto decine di migliaia di
capi d'abbigliamento e li aveva spediti in tutte le città degli Stati Uniti, e ora alla
fine della vita guardava il mare e diceva sorridendo contento: “Ah, ma allora è
rotonda!”.
Questa dolcezza è assente dai rapporti tra i due fratelli del "Prezzo" e il loro
defunto papà, che proprio come Isidore era stato ricco e poi li aveva delusi
mettendoli improvvisamente davanti alla prospettiva di un futuro molto meno
roseo di quello che aveva loro promesso. Adolescenti al momento della
catastrofe, i fratelli l'avevano affrontata ciascuno a suo modo, imboccando
strade diverse, quella del maggiore comportando addirittura un drastico distacco
dalla famiglia. Oggi, riuniti da una necessità banale ma imprescindibile – si tratta
di liquidare tutto l'arredamento dell'antica dimora in un angolo della quale il
padre ha vissuto asserragliato e seminascosto, arredamento pomposo, nel
frattempo diventato anacronistico – i fratelli si ritrovano faccia a faccia, e nel
confronto ciascuno è costretto suo malgrado a fare i conti col proprio passato, e
a domandarsi se abbia fatto bene a seguire la strada che ha seguito. Quella
dell'autogratificazione comporta ora, forse, dei rimorsi; quella del sacrificio, il
sospetto che questo sia stato inutile. Come al solito, Miller, non dà risposte.
Ammesso che ci sia chi ha torto e chi ha ragione, il burattinaio non si arroga il
diritto di deciderlo. Però ha un messaggio, tramite l'unico personaggio esterno,
ossia il trafficante venuto a fare una stima del mobilio. Questo personaggio è la
vera grande invenzione della commedia: un vecchissimo ebreo che ha
attraversato mille peripezie, che è caduto e si è rialzato mille volte nella sua
lunga esistenza, e che adesso guarda le schermaglie e i rancori dei due fratelli
dall'alto dell'antica saggezza di chi ha accettato da subito e per sempre che
nella vita, in fondo, conta una cosa sola, e questa è non arrendersi mai.
Masolino d'Amico
La grande crisi del ’29 e gli Stati Uniti: cause, fatti e risposte
La parola “crisi” non evoca solamente il risultato di lunghi
anni di speranze largamente infondate e naufragate nel
nulla, ma anche il momento culminante di una grave
malattia (Ippocrate) da cui si può guarire solamente
attraverso una cura radicale e un cambiamento
repentino degli stili di vita, dell’atteggiamento verso i
consumi, della quotidianità, del modo di intendere il
rapporto dell’individuo con gli altri, della cultura. La crisi
del 1929 per gli Stati Uniti rappresentò essenzialmente
una grande occasione di ricostruzione e di guarigione da
una grave malattia che, trascurata troppo a lungo o
addirittura non diagnosticata, esplose in modo improvviso e virulento,
imponendo un cambiamento radicale nella società, nell’economia e nella cultura.
La crisi offrì agli Stati Uniti l’occasione di ripensare il modello di società e di
ricostruire un tessuto economico, politico e finanziario, senza comprimere i
diritti individuali e allargando ampiamente quelli sociali.
Segnali di globalizzazione
Il crollo della borsa di New York e la successiva gravissima crisi economica e
finanziaria furono il primo grande evento dell’avvenuta globalizzazione
capitalistica delle merci e dei capitali, già preconizzata da Marx nella prima metà
dell’Ottocento, rallentata dai protezionismi della II rivoluzione industriale ed
evocata dai segnali di crisi ciclica europea nel periodo immediatamente
antecedente alla Prima guerra mondiale e dalla lieve crisi del primo semestre del
1926, che aveva permesso a economisti marxisti di preconizzare una crisi
imminente del sistema capitalistico.
La Grande Crisi fu anche il frutto dello sviluppo asimmetrico tra l’economia
statunitense e quella europea e degli altri paesi del mondo nel decennio 19191928, cui non corrispose un adeguato ampliamento del mercato mondiale anche
a causa del periodo di ricostruzione delle economie europee, della sostanziale
chiusura del mercato sovietico, dell’impossibilità di allargare i possedimenti e i
mercati coloniali ormai sostanzialmente saturi.
Proprio nel Primo conflitto su scala planetaria e nelle sue conseguenze
politiche, economiche e sociali risiedono le radici più profonde della crisi del
1929. Se da una parte il Primo conflitto mondiale aveva rappresentato
l’occasione per le potenze industriali europee di espandere i propri mercati,
dall’altra aveva costituito per gli Stati Uniti un’occasione unica non solo per
intervenire nel conflitto in modo rilevante sia a livello militare che politico, ma
anche e soprattutto per far pesare su scala mondiale la sua enorme potenza
economica e finanziaria, già consolidata tra la seconda metà dell’Ottocento e i
primi anni del Novecento.
Gli Stati Uniti infatti, non avendo subito perdite rilevanti nella Prima guerra
mondiale, divennero il nerbo della ricostruzione europea sia a livello
commerciale che a livello finanziario. L’intervento e soprattutto i primi anni del
dopoguerra permisero, infatti, agli Usa di rimandare una crisi di
sovrapproduzione che era ritenuta possibile da molti analisti già prima dello
scoppio del conflitto. Il forte intervento finanziario degli Usa nella ricostruzione e
nella riconversione industriale del dopoguerra spiega anche l’impatto enorme
che la crisi del 1929 ebbe su tutti i paesi europei che avevano ricevuto crediti
dalla nuova superpotenza di oltreoceano e su alcuni paesi latinoamericani, come
Messico, Cuba, Cile e Bolivia, già largamente dipendenti dagli investimenti
statunitensi.
Per queste ragioni, la crisi economica iniziata con il crollo della borsa di New York
nel famoso giovedì nero del 24 ottobre 1929 fu diversa da tutte le precedenti per
lunghezza, per intensità, per estensione ed ebbe rilevanti ripercussioni politiche
e culturali in tutto il mondo, non solo negli Stati Uniti.
La Borsa, il lavoro e il mercato
Tra le ragioni principali della crisi del 1929 vi fu certamente la compressione dei
salari, soprattutto agricoli, che limitava la capacità d’acquisto della maggioranza
della popolazione statunitense, non crescendo i salari proporzionalmente alla
crescita della produzione. Una crisi di sovrapproduzione di merci dovuta anche
alla ripresa dell’agricoltura e dell’industria europea che, grazie a nuovi
protezionismi, non comprava più grano e
merci americane ma cominciava a produrle
nuovamente in loco. Negli anni successivi
alla I guerra mondiale negli Usa vi era stato
inoltre un arricchimento veloce che, nella
metà degli anni ’20, aveva fatto crescere
l’idea della facilità di potersi arricchire grazie
alle speculazioni finanziarie in borsa, spesso
non legate a effettive attività produttive, ma
all’idea che potesse esserci, quasi per
natura, un ciclo virtuoso tra finanza, investimenti e produzione. Così non fu.
Infatti, per acquistare titoli non serviva versare l’intera quota del loro effettivo
valore, ma bastava un anticipo spesso solo del 30-50%, lasciando i titoli comprati
in garanzia. L’economia statunitense prima della crisi era largamente
finanziarizzata, priva di qualunque pianificazione, fragile nei suoi consumi interni
e negli sbocchi esterni, ma allo stesso tempo ottimista nelle sue infinite e
possenti capacità di autoalimentarsi. Questo spiega l’andamento altamente
oscillante della borsa di New York negli anni 1928-1929. Tuttavia i possessori dei
titoli e gli economisti più avveduti avevano cominciato a percepire che in alcuni
settori, principalmente in quelli agricolo, edile, manifatturiero e siderurgico la
crescita degli indici di borsa non corrispondeva all’economia reale, che tendeva a
ristagnare a causa della sovrapproduzione di merci.
Il mancato controllo degli speculatori e dei giocatori di borsa (che negli Usa erano
circa un milione e mezzo) e la renitenza della Banca centrale a innalzare il tasso di
sconto (l’unico intervento fu di portare il 6 agosto 1929 il tasso dal 5% al 6%)
ebbero l’effetto di far continuare la speculazione finanziaria e l’ottimismo di facili
guadagni per mesi in una situazione di effettivo ristagno dell’economia.
La crisi fu così istantanea che provocò un panico incredibile. Alcuni storici
parlano, infatti, non a torto di crisi economica e psicologica, determinata
sicuramente anche dall’eccessivo ottimismo e autoreferenzialità della società
capitalistica statunitense. Il 24 ottobre del 1929 l’ottimismo si rivelò
assolutamente infondato: furono vendute al ribasso ben 12.894.650 azioni.
Migliaia di brokers vennero presi dal panico, si registrarono numerosi suicidi tra
gli speculatori e i mediatori di borsa. I piccoli e medi risparmiatori furono
naturalmente i più colpiti e dovettero ricominciare da capo la loro lotta per la
sopravvivenza, non contando più sulle promesse di arricchimento facile. In meno
di un mese anche le banche chiusero i cordoni del credito, accentuando ancor di
più la crisi. Le migliaia di migliaia di società, spesso non solide, cresciute nel
periodo della speculazione fallirono, le loro merci invendute si accumularono nei
magazzini, i loro dipendenti vennero da un giorno all’altro licenziati. L’aspetto più
preoccupante della crisi fu, infatti, la crescita geometrica della disoccupazione
nei primi tre anni di crisi: dai 2 milioni di disoccupati del 1929, si passò a 4 milioni
nel 1930, a 8 milioni nel 1931.
Effetti positivi della crisi del ’29: la rinascita sociale e culturale degli USA
La crisi portò ad una nuova concezione della vita e del rapporto con gli altri. Dopo
una prima fase di forte scoramento, gli americani ricordarono che la ricchezza è
frutto del lavoro e della fatica e non dell’arricchimento facile e della speculazione
priva di leggi. Non diedero più fiducia ai repubblicani, ma votarono in massa nel
1934 Roosevelt e il suo New Deal. Dopo la fame e l’inedia, i disoccupati e i
lavoratori costruirono luoghi di socializzazione della loro terribile condizione
anche attraverso l’aiuto dei grandi sindacati americani e, successivamente, grazie
all’aiuto dello Stato. Rinacque la voglia di conoscere, di indagare, di studiare che
contribuì alla nascita di un’industria culturale di massa. Negli anni ’30, infatti, il
cinema americano raggiunse il suo massimo splendore non solo per dilettare gli
spettatori impoveriti e depressi, ma anche per fornire un nuovo modello di
cittadino onesto, lavoratore, del tutto antitetico ai modelli gangsteristici e
avventuristici dei brokers che avevano provocato la rovina. È il periodo dei film di
denuncia del capitalismo sfrenato, delle sue contraddizioni e dei suoi ritmi di
lavoro (cfr. Luci della città e Tempi Moderni dell' intramontabile Charlie Chaplin),
della commedia sofisticata di Ernst Lubitsch Trouble
in Paradise (tradotto in italiano con il titolo Mancia
competente), dei capolavori di Frank Capra La follia
della metropoli e Accadde una notte (capolavoro
girato con pochissimi fondi), di Scarface e della
commedia Ventesimo secolo di Howard Hawks.
Ancora più impressionanti i cambiamenti nella
letteratura, meno controllata dai grandi gruppi
monopolistici dell’industria culturale. Basti pensare
ai vari romanzi di John Steinbeck culminati nel
capolavoro Furore, una delle fonti storico-letterarie
per comprendere meglio la Grande Depressione, ai racconti di Jonh O’Hara, ai
significativi L’urlo del furore, o Santuario di Wiliam Faulkner, alle opere di
Howard Fast Il cittadino Tom Paine e L'ultima frontiera, che mise in discussione
radicale la conquista del West e rappresentò un’anteprima assoluta della cultura
liberal degli anni ’60 e ’70.
Anche il jazz, dopo una prima fase di crisi, divenne una valvola di sfogo per gli
americani che non volevano pensare alla crisi. Sono gli anni dell’esplosione di
grandi artisti quali Duke Ellington, Benny Goodman e della giovanissima Billie
Holiday, solo per citare alcuni nomi. La crisi spingeva, infatti, la popolazione a
ballare e fece fiorire le orchestre jazz e di altri generi afroamericani che
permettevano maggiore apporto e partecipazione dei neri alla cultura
statunitense. L’espansione della musica afroamericana negli anni della grande
crisi favorì non solo lo scambio con le comunità bianche, rimaste sino ad allora
piuttosto chiuse, ma anche uno stimolo alla crescita di una coscienza da parte dei
neri dei propri diritti di piena cittadinanza, che troveranno poi uno sviluppo
fecondo negli anni ’60.
La ristrutturazione non riguardò solo la cultura, ma anche la scuola e l’università
che, grazie al New Deal, subirono importanti riforme nei programmi e nei
finanziamenti, permettendo un rilancio dell’istruzione tecnica di base, necessaria
per la ripresa della produzione su larga scala di merci, e della ricerca universitaria
che tra gli anni ’30 e ’40 conobbe uno straordinario dibattito di idee in campo
letterario, economico, sociale, filosofico e scientifico, anche grazie all’apporto
degli intellettuali sfuggiti dalle persecuzioni razziali hitleriane.
La crisi dunque generò un rimescolamento sociale senza precedenti che ridefinì
lo stesso concetto di vita e di cittadinanza negli Stati Uniti. La solidarietà, il
mutualismo, l’intervento statale massiccio nell’economia, improvvisamente
ritrovarono spazio in una società che aveva puntato tutto sull’individualismo e
sull’arricchimento personale e aveva promosso una cultura dell’ottimismo
sfrenato e acritico. Il dibattito culturale divenne incandescente, la sete di svago
incrementò la nascita di una cultura di massa popolare, l’innovazione tecnologica
legata alla ricerca scientifica fu posta al centro della ricostruzione. Dalla grande
depressione rinacque un’America diversa, fiera di aver ricostruito il paese senza
aver mai messo in discussione la libertà di parola, di stampa e di opinione. Un
paese multietnico e multiculturale che aveva ritrovato un senso di cittadinanza
comune necessaria per affrontare lo sforzo bellico per una guerra lontana dai
confini degli Stati Uniti, ma risolutiva non solo per le sorti della democrazia in
Europa ma anche per la stessa crisi del 1929.
Marco Del Bufalo, www.treccani.it
DALLA RASSEGNA STAMPA
Il prezzo, di Wanda Castelnuovo, www.ilsipario.it, 7 Febbraio 2016
Uscito dalla prolifica penna di
Arthur Miller, drammaturgo e
narratore - di cui nel 2015 si è
celebrato il centenario della
nascita e il decennale della
scomparsa - dalle grandi luci e
ombre
e
dalle
intenzioni
polemiche verso la società
americana con i suoi pregi e
difetti, Il Prezzo (titolo originale
The Price) debutta nel 1968 in prima mondiale al 'Moresco Theatre' di Broadway
e vi resta per 429 repliche. In Italia è quasi sconosciuto salvo per la messa in
scena con Raf Vallone nel 1969: la prima traduzione è stata, infatti, pubblicata
ora grazie alla collaborazione tra Masolino D'Amico e la Casa Editrice Einaudi.
L'opera indaga il rapporto tra responsabilità individuale e collettiva alla luce degli
effetti della crisi del '29 sulla società americana esemplificata da una famiglia
borghese dilaniata da contrasti interni e da suggestioni sociali da cui tenta di
difendersi per salvaguardare una sorta di dignità che agevola la conoscenza di sé
e del ruolo ricoperto nel proprio ambiente. Non deve essere stato difficile per
Miller scrivere un dramma vissuto sulla propria pelle come figlio di Isidore, ebreo
arrivato dalla Polonia a New York a sette anni che, costruitasi una notevole
fortuna nell'industria dell'abbigliamento, dando lavoro a centinaia di persone e
andando a lavorare con l'autista, è ridotto sul lastrico e, forse stremato dallo
sforzo per emergere, non ha la forza di reagire rifugiandosi in un'apatica
rassegnazione che il figlio non gli perdona finché è vivo salvo poi addolcire tale
posizione con pennellate di tenera comprensione.
Avvincente e ironico dramma autobiografico, quindi, per la figura del padre,
quinto personaggio assente, ma presente idealmente nella poltrona vuota
durante l'incontro dopo anni d'indifferenza tra due fratelli casualmente riuniti
dalla necessità di vendere i mobili di famiglia, accatastati da sedici anni nella casa
che sta per essere abbattuta. Quel padre che dopo la crisi del '29 si chiude in se
stesso rifiutando ogni azione, salvo accettare il sacrificio di Victor (un Massimo
Popolizio bravissimo nel rendere tic, dubbi, insicurezze, titubanze, smarrimenti e
mestizia dell'antieroe o eroe vero... e nella difficile e ben riuscita opera di regia di
un lavoro con un impegnativo e consistente poker d'attori) che, dotato negli
studi, rinuncia a proseguirli per guadagnare da vivere per il genitore e per sé.
Divenuto suo malgrado poliziotto, matura scontento e insicurezze tanto da
accettare una moglie autoritaria e nevrotica affetta da alcolismo e depressione
come Esther (un'Alvia Reale divertente per la resa ironica e parossistica di una
nevrosi distruttrice) e da non sapersi decidere ad andare in pensione.
Diverso l'atteggiamento di Walter (un Elia Schilton calato in modo equilibrato e
composto nella parte) che pur non altrettanto dotato intellettualmente studia
con determinazione e dimenticando padre e fratello si costruisce una carriera da
chirurgo dal successo non molto adamantino e una famiglia con moglie e figli, ma
si sa che i giganti con i piedi di argilla sono in equilibrio instabile...
Ed ecco i due fratelli sulla scena a giocare di fioretto con sentimenti, risentimenti,
rammarichi e rivendicazioni - oberati nell'animo come i mobili accatastati, gravidi
di memorie e ricordi, gravano come un macigno sull'ambiente - alla presenza di
un personaggio esterno, Solomon, un novantenne trafficante di mobili ebreo
(molto caratterizzato dal non più giovane, ma vivacissimo Umberto Orsini cui si
deve la riscoperta del dramma) che rialzatosi da infinite cadute rappresenta
l'emblema della capacità di sapere lottare contro le avversità non arrendendosi
mai: proprio il contrario dei padri nel dramma e nella vita di Miller.
Così la stima del prezzo per cui è chiamato in causa l'anziano trafficone si estende
dai mobili a tutto e a tutti: ogni spettatore attraverso la bilancia della mente è
trascinato nella vita dei personaggi dalla sofferta e dolente umanità, nell'epoca
che sembra quella dell'odierna temperie economica e nell'eterna fatica del vivere
di tutti gli uomini in ogni dove e tempo.
Arthur Miller e il prezzo di un passato immobile, di Viviana Raciti,
www.teatroecritica.net, 3 novembre 2015
Il ricordo del passato – imponente, intramontabile, insostituibile – è ingombrante
come i giganteschi mobili che riempiono
tutta l’altezza della scena del Teatro
Argentina al debutto della Compagnia
Umberto Orsini diretta da Massimo
Popolizio ne Il prezzo di Arthur Miller. Dopo
l’avventura attoriale dei Lehman Brothers,
qui Popolizio torna su una delle fratture
fondamentali della cultura americana, in
una forma che in certi momenti sente,
come la storia di cui si fa latrice, un po’ il
peso del tempo. Il prezzo del titolo è quello che deve esser stimato per la vendita
di una mobilia appartenente a due fratelli che non si incontrano da sedici anni a
causa di un dissidio familiare. A partire dal semplice spunto vengono fuori le
insoddisfazioni, il risentimento, le tragedie dichiarate – la crisi del ’29 – e quelle
rimaste sepolte dalla polvere di chi non vuol vedere.
Popolizio, scegliendo la strada di una regia che si affida agli attori mentre il resto
sembra immutabile – uno spazio in cui nemmeno i suoni delle demolizioni che
provengono da fuori riusciranno a muover qualcosa – fa emergere tuttavia le doti
dell’ensemble affiatato. Spiccano l’interpretazione sfuggente e divertita di Orsini
nei panni del vecchio antiquario Solomon e la resa volutamente legnosa e goffa
del regista, qui anche attore, che riserva per sé il ruolo di Victor, il fratello che ha
deciso di sacrificare la propria vita per assistere il padre. Il suo sembra il ritratto
dell’uomo che si è accontentato, tiranneggiato dalla moglie Esther (un’Alvia
Reale a volte un po’ ingabbiata) o sbeffeggiato dal fratello Walter, che si offre di
tirarlo fuori dalle ristrettezze economiche al costo di un cedimento morale.
Il retaggio ebreo dell’autore si riflette nell’impossibilità di risoluzione, la verità di
quei rapporti soffocanti rimane tra le mura grigie, impossibile stabilire chi avesse
ragione; i personaggi non risolti, fumosi, tragicomici, si appoggiano alle tecniche
degli attori che supportano il ritmo lasciandoci nell’amarezza quando, nel finale,
il vecchio antiquario, contento di aver beffato tutti se stesso compreso, continua
a ballare sulle note di un grammofono e sui botti del nuovo che avanza.
Quando nel 1968 scrisse Il prezzo, Arthur Miller aveva già alle spalle il successo
di opere quali Erano tutti i mei figli, Morte di un commesso viaggiatore, Uno
sguardo dal ponte; mentre sul piano personale si contavano già diversi
matrimoni, il divorzio turbolento da Marylin Monroe, un figlio – disconosciuto
sino in punto di morte – affetto dalla sindrome di Down. Su un crinale in discesa
emerge un pessimismo all’interno di questo testo (l’ultimo prima di un salto
lungo due decenni) che ricorda un passato ingombrante senza possibilità di
risoluzione. Duplicato tanto sul piano economico quanto su quello personale – un
lookback ma senza la rabbia degli inglesi, con rassegnazione e rimpianto, semmai
– è uno dei punti di non ritorno per gli americani, che nel crollo delle borse del
1929 videro svanire in pochissimo tempo la propria agiatezza economica riflessa
in un atteggiamento di chiusura umana.
La modernità e il consumismo che implacabili scorrevano non hanno più spazio
per le cose eterne: che si stia parlando di un tavolo troppo largo per entrare nelle
porte delle moderne case o della fede incrollabile della sincerità di un vecchio
padre distrutto, poco importa. Bisogna cambiare, comprare, vendere, distaccarsi.
Eppure nulla si muove. C’è un lavandino da cui scorre un filo d’acqua, si sentono i
boati del progresso che demolisce per costruire nuove case. Ma la scena rimane
intatta, intrappolata lì come i dialoghi in un passato, «come se non avessimo
nemmeno avuto una vita». Il rischio è quello di rimanere tra le macerie di un
rapporto creduto imprescindibile, senza credere che «non ci fosse pietà», da
nessuna parte
Le ferite della grande crisi americana. “Il prezzo” di Miller con un grande Orsini,
di Alessandra Bernocco, www.unità.tv, 21 ottobre 2015
La scena di Maurizio Balò è dominata da una catasta di mobili coperti da teli di
plastica tra i quali si intravede qualche sedia,
un’arpa, un comò e un lungo tavolo in
verticale. Scopriremo di lì a poco che si tratta
di un esemplare in stile giacobino spagnolo
dei primi anni Venti, di quelli che non
passano nemmeno dalle porte delle case
moderne. Con un bel po’ di storia alle spalle
ma che non vale un granché visto, che “coi
mobili usati – come dice il vecchio broker
interpretato da Umberto Orsini – non si può essere sentimentali”.
E’ anche questo il tema de Il prezzo, il testo di Arthur Miller messo in scena dalla
compagnia Umberto Orsini con la regia di Massimo Popolizio, che ha debuttato
ieri in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma.
Il prezzo di vecchi mobili di famiglia che le mogli sopraggiunte non vedono l’ora
di farsi fuori, salvo quotarli in extremis per alzare la posta, il prezzo dei ricordi
privati che non devono interferire con le ciniche valutazioni dei mercanti, il
prezzo dei sacrifici inghiottiti in un gorgo di rivelazioni, smascheramenti,
rivendicazioni estenuanti.
Tutto ha un prezzo e tutti
pagano un prezzo in questa
pièce che fotografa l’America
dopo il crollo del ’29, quando
nel giro di poche settimane
anche la media borghesia
agiata e competitiva si è
ritrovata sul lastrico a
dormire nei parchi, con le
scarpe ancora lucide e il
cappello di marca.
Dove anche chi ce l’ha fatta
deve ancora far quadrare i conti per un vestito nuovo o una serata al cinema,
rinviando sempre e di nuovo la data della pensione. A meno che non abbia
imboccato la strada della rivalsa sociale quando passa attraverso le professioni
più nobili bistrattate e svilite.
Il primo caso è quello di Victor (Popolizio), agente di polizia consegnato a un
lavoro che detesta ma che non si azzarda a lasciare, il passato gravato da una
devozione filiale sproporzionata alla causa, e un presente immobile accanto a
una moglie dispotica, per quel che le riesce, ma sostanzialmente depressa e
dedita all’alcol (Alvia Reale).
Il secondo caso è quello di Walter (Elia Schilton), il fratello meno dotato negli
studi che è diventato medico e ha fatto carriera, anzi quattrini, con tre case di
riposo e un’affinata disposizione ad aggirare il fisco: per esempio meditando
donazioni fasulle per il bene comune che sarebbe il portafoglio della propria
famiglia. Due figli che non trovano di meglio che ‘esplorare la chitarra’ e regali
importanti da pazienti facoltosi come quel vestito grigio con cui si palesa,
sprezzante, a minare una trattativa appena abbozzata.
Tra i due fratelli comincia un gioco al massacro senza soluzione e tra rigurgiti al
fiele e accuse incrociate si leva l’ombra di un padre parassita ed egoista. Mentre
sotto gli occhi di Esther, la moglie di Victor, tornano a sanguinare vecchie ferite
mai rimarginate, invidie, inadempienze, gelosie covate per anni. Intanto si assiste
alle estemporanee incursioni del broker che di nome fa Solomon, improvvido
giudice dal rocambolesco passato che solo alla fine apprendiamo essere lì per
‘errore’. Forse è la figura che più di tutte porta gli umori di Miller, caustica sì ma a
modo suo saggia e leale, che Orsini restituisce con un fascino un po’ délabrée,
soprabito usurato e busta di plastica da cui tira fuori cibarie e bevande come un
clochard. Prima di festeggiare con quel balletto finale che è tutto un programma,
quando l’ultimo colpo della sua vita, e il più fortunoso, si è finalmente compiuto.
La regia di Popolizio nasce da un disincantato punto di vista sul dramma
borghese e fa bene a cavalcare il parossismo di questi personaggi sorpresi nella
loro goffaggine e cattiveria, connotati da gesti che ritornano come la camminata
veloce di Esther quando parla di soldi, o le mani in tasca e le gambe incrociate di
Walter da perfetto snob della domenica. Il risultato è un equilibrio sempre
sfidato tra colori cupi e claustrofobici e comicità che pure esiste e arriva quando
meno te l’aspetti, paradossale eppure chiara: con un pianto quasi brechtiano che
invece di suscitare empatia fa sorridere o un capitombolo dopo due colpi di
fioretto con tanto di battuta a dir poco didascalica (“la lama la vedi è come viva
sei pronta”).
Il dramma monta e si dilata sulla recitazione degli attori, chiamati a un minuto
lavoro sui sottotesti e a rapide virate di registro, e i momenti di svolta, non
proprio colpi di scena ma riassestamenti e rivelazioni improvvise, vengono
contrappuntati dai suoni di Pasquale Mari.
I costumi sono di Gianluca Sbicca e vestono ancora Victor con la divisa di polizia e
Esther con abito bon ton e filo di perle, la borsetta sempre con sé come chi se ne
vorrebbe andare al più presto.
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