Quando una farfalla batte le ali in Venezuela

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Quando una farfalla batte
le ali in Venezuela...
Il biologo Maurizio G. Paoletti risponde
alle domande di Ameritalia
la Lapa (Agouti paca) piccolo roditore, molto cacciato, la cui
carne viene molto apprezzata e che potrebbe essere allevato
Ameritalia: -Caro Maurizio tu da molti anni
contribuisci a mantenere in ordine la dimora
amazzonica: non solo le tue ricerche stanno
contribuendo a stabilire
e a conservare le conoscenze delle
popolazioni indigene, ma i frequenti periodi di
permanenza nella regione dell'Alto Orinoco ti
stanno trasformando in un attivo cittadino
onorario della selva. Parlaci un po' delle tue
attività e
delle tue avventure...
Maurizio Paoletti: -Credo di essere una
persona molto curiosa e la curiosità in un
ambiente amazzonico rischia di dover essere
esponenziale perché la quantità di specie,
piante e soprattutto piccoli animali è veramente
enorme. Forse 90.000 piante ed alcuni milioni
di invertebrati nel territorio amazzonico. La
questione che mi affascina è il modo e la
strategia con cui popolazioni che ancora
vivono in foresta od in savana conoscono,
usano tale congerie di specie che ancora è in
gran parte sconosciuta alla scienza ufficiale…
Deve secondo me cercare di stabilire i canali e
le regole che hanno governato questo sapere
locale, conoscere e far conoscere la diversità
di specie esistenti, mettere a disposizione
strumenti per mantenere ed allargare la
conoscenza tradizionale con strumenti più
moderni…
termiti SERI dagli Ye'kuana vengono diligentemente
impacchettate per essere trasportate al villaggio
Che però non distruggano la fantasia e non
distruggano la curiosità di chi impara. C'è poi il
problema se imparare in teoria senza praticare può
essere veramente utile…Il problema maggiore è
che questo sapere locale rischia,
paradossalmente, di sparire con il passaggio dalla
conoscenza orale praticata e tramandata
tradizionalmente nei villaggi, sostituita da una
scolarizzazione incipiente, pur necessaria, che
probabilmente distoglie da un sapere
tradizionale…
Cosa può fare un curioso della biodiversità?
A: -90.000 specie di piante ed alcuni milioni di specie di invertebrati: quante di queste sarebbero utili
all'uomo e quante realmente sono conosciute e sfruttate?
M. P.: - La domanda è da 10 milioni! Ancora oggi non è stato ancora stabilito che relazione ci sia tra
la conoscenza empirica locale e la conoscenza scientifica globale: ne sappiamo realmente molto
poco. Ancor oggi si stima che il numero delle specie sconosciute, prive cioè di nome scientifico
(particolarmente per quanto riguarda gli invertebrati), sia tra 12 e 70 volte maggiore di quello delle
specie che hanno un nome scientifico!
Spesso gli "scienziati" sono entrati in foresta come se le persone fossero inesistenti ed hanno
operato ed operano per produrre conoscenza sopra la testa delle persone. Tutti rischiamo questo
atteggiamento. Le agenzie che finanziano la ricerca spesso hanno visto le popolazioni locali come
un problema…
Ora le cose stanno cambiando ci si rende conto che l'uomo che vive in Costa Rica nel parco di
D.Janzen a Santa Rosa, ad esempio, o nell'Alto Orinoco è l'interlocutore privilegiato di questa
conoscenza codificata solo in piccola parte… e forse solo pochi nei villaggi sanno che la loro
conoscenza sta scemando e che ciò è la più grande perdita per loro e per tutti… Ad Otonga, in
Ecuador, non ci sono più popolazioni autoctone almeno da cent'anni e dunque non possiamo
sapere nulla riguardo alle specie utili… In Alto Orinoco fortunatamente le cose stanno diversamente,
esistono popolazioni molto attive ma la conoscenza sta scemando: ad esempio la YARAYARA è un
frutto delizioso che conoscono e raccolgono nella foresta solo i Piaroa di Balilla de Pintado. Mentre
gli Yanomamo di Mavaca sanno a memoria almeno un trentina di nomi di bruchi molti dei quali sono
prelibatezze.
A.: - In che modo i popoli della foresta
prendono contatto, conoscono, catalogano
specie che ancora sono sconosciute alla
scienza ufficiale e a quali strategie ricorrono
per la caccia e la raccolta nei diversi periodi
dell'anno?
M.P.: - Spesso da persone che hanno vissuto
nella foresta vine rivolta agli indigeni una critica
riguardo un loro supposto "opportunismo", una
loro supposta capacità di vedere solo l'oggi...
Forse questa critica è dovuta al fatto che il
numero di specie che loro utilizzano è talmente
elevato e talmente eterogeneo che
all'osservatore sfugge la strategia mirata
necessaria per portare a termine le scelte in un
sistema così complesso… Noi, invece,
alleviamo solo alcuni animali e coltiviamo
poche piante secondo cicli stagionali ben
definiti e secondo tecniche programmabili: è
chiaro che se consideriamo questi vincoli, un
modo diverso di mettersi in rapporto con un
ambiente che offre una grande possibilità di
scelta può risultarci incomprensibile… Per
capire meglio la dinamica di cui sto parlando si
pensi a questo: nel periodo in cui appaiono
grandi aggregazioni di alcune specie di bruchi,
ci si nutre di bruchi. Un capitan Ye'Kuana
qualche giorno fa mi raccontava che lui è
cresciuto nutrendosi di MASSAMASADI (bruco
di cui noi non conosciamo neppure il nome
della famiglia delle leggiadre farfalle a cui da
origine). Quando a Mavaca siamo entrati in
uno Shabono Yanomamo il piatto del giorno
era costituito dalle larve di un coleottero che
vive nella palma e viene chiamato OU con
contorno di platano, una specie di banana;
leggiadro e deliziosissimo frutto, YARAYARA per gli Indigeni
Piaroa
bruco MASAMASADI per gli Ye'Kuana una prelibatezza
lo stesso giorno in altro Shabono si mangiava il
danto (il più grosso mammifero terrestre
amazzonico) con frutti di platano.
La diversità appare sul piatto e varia nello spazio e
nelle stagioni. Noi, invece, le patate cerchiamo di
averle tutto l'anno e lo stesso discorso vale per il
pane o per il pollo ed i pomodori.
A.: -In che modo la scolarizzazione incremanta la sparizione del sapere locale orale, pratico e
tramandato tradizionalmente? Credi che sia possibile trovare un punto di equilibrio tra questi due
modi diversi di perseguire lo scopo di non perdere l'identità culturale?
M.P.: -Credo che una gran parte di quelli che hanno violato la foresta siano stati guidati dal mito
implicito od esplicito di poter impiantare nuove coltivazioni là dove si procedeva alla distruzione
delle colture preesistenti. Credo che questo impasse sia legato anche al modo con cui sono
strutturate le organizzazioni di persone. Se per esempio io vado in un villaggio debbo avere un
programma prestabilito, degli obiettivi da perseguire. E' difficile se non impossibile far capire a
strutture dotte quali Università centri di ricerca, Agenzie Internazionali, ecc. che bisogna imparare
dal contatto con le popolazioni autoctone anziché andare ad insegnare. Ma come si fa a convincere
il capo che vive a 6.000 km di distanza che nella foresta c'è qualcosa da imparare e che ha poco
senso andareci per insegnare qualche strampalata tecnica di allevamento o di intensificazione???
Nell'attuale organizzazione della ricerca, se io sono esperto in mais andrò ad insegnare come
produrre efficientemente questa pianta un po' dappertutto. Il problema vero, quello che è
conveniente per tutti che sia presto risolto è relativo ai professori, ai ricercatori ed ai loro sponsor:
chi sono e che obiettivi palesi ed occulti perseguono realmente?
Credo che mantenere un profilo di accettazione della diversità e della complessità dell'universo di
conoscenze a cui ci si avvicina dovrebbe essere la prima mossa da fare. Poi, se si riesce a stabilire
un contatto, è necessario proseguire non privilegiando la propria conoscenza teorica, ma
riconoscendo la diversità locale (raccolta, osservazione, sperimentazione, condivisione del cibo fatta
insieme agli anziani ed alle anziane del villaggio) e coinvolgendo l'intero villaggio nella funzione di
trasferimento della conoscenza locale al visitante esterno. Non è ne semplice ne facile, ma non è
nemmeno impossibile.
A.: -"Cercare di stabilire i canali e le regole che hanno governato il sapere locale", questo dici che
dovrebbe essere l'obiettivo perseguito dal "curioso della biodiversità": raccontaci qualcosa di tutto
quanto sicuramente hai già scoperto...
M.P.: -Continuare ad imparare è una maniera di vivere. Ho l'impressione che la conoscenza locale
in un villaggio di 80-250 persone sia come un puzzle, ognuno fruisce di una parte e nessuno la
possiede tutta…, esattamente come su un piano di una accademia scientifica: sulla porta di ogni
ufficio un cartello svela la specialità dell'ospite. Nel villaggio non ci sono cartelli apparenti, ma questi
vanno fatti emergere: la conoscenza dei funghi, in molte comunità Piaroa, è monopolio femminile,
così come quella dei Lombrichi e dei piccoli invertebrati acquatici commestibili in un villaggio
Ye'Kuana. Tutti nel villaggo Yanomamo raccolgono i bruchi OU delle palme, ma solo le vecchie
"possono" mangiare i grossi ragni JAJO. Piante magiche e medicinali sono conosciute da poche
persone, estesamente, altri nel villaggio non sono in grado di fare alcun nome. Delle ragioni che
presiedono questo modo di suddivisione di conoscenza e di asseganzione di compiti conosciamo
ancora molto poco...
A.: -Facci capire meglio cosa intendevi dire
quando nella prima risposta ti riferivi al
"curioso della biodiversità" ed al suo dovere di
conoscere e far conoscere la diversità delle
specie esistenti e di mettere a disposizione
strumenti per mantenere ed
MAIAPI per i Curipaco, piccola bacca deliziosa coltivata
soprattutto dai Curipaco nei loro conuco ma mai comparsa
neppure nei mercati indigeni...
allargare la conoscenza tradizionale con strumenti
più moderni: in che modo credi che la tecnologia
legata ad Internet possa servire a questo scopo?
M.P.: -In molti villaggi ho trovato alcune
interessanti installazioni: pannelli solari e batterie
che fanno andare la radio trasmittente o danno
luce al microscopista del servizio antimalarico.
Forse non sarebbe impossibile fornire un
collegamento satellitare alle scuole indigene. Ma
soprattutto è necessario che la scuola utilizzi e
valorizzi tutta la conoscenza locale e ne guidi la
trascrizione, la liberi cioè dall'esclusiva oralità e
fornisca gli stumenti necessari per affidarla alla
parola scritta... senza però espropriarla ai parlanti
per "seppellirla nei libri". Questa sepoltura
potrebbe essere peggiore di una perdita del
ricordo… Ma questa conoscenza locale deve
transitare anche oltre il villaggio, deve essere il
seme di una crescita anche per il commercio di
eccedenze, penso a frutti, radici, materiale
vegetale ed animale…
A.: -Quali modificazioni del sistema biologico che hai osservato credi possano essere determinate
dall'utilizzazione a scopi alimentari di specie vegetali ed animali da parte delle popolazioni
amazzoniche?
M.P.: - Il problema potrebbe essere questo: a Puerto Ayacucho, la capitale dello stato venezuelano
di Amazonas, si richiede quasi solamente platano, banane e yuca e gli indigeni producono
esattamente quello che il mercato richiede. A Puerto Ayacucho non si conosce la biodibersità dei
villaggi, non si sa nulla del cibo delle comunità indigene: farina di frumento, carne bovina, sunina ed
ovina coi i polli sono la base della dieta proteica degli abitanti della capitale.
Allora bisogna che il mercato che può assorbire qualche prodotto proveniente dalle attività degli
indigeni tenga presente la tradizione locale e si lasci incuriosire dalla sperimentazione anche della
biodiversità alimentare.
Ogni coltura che tenda a divenire monocultura non può che danneggiare il sistema complesso della
biodiversità amazzonica, anche se fossero monocolture di yuca, ananas o di tupiro, che pur sono
piante originarie di questa area del mondo. La preservazione della biodiversità necessita che la
conoscenza della biodiversità sia mantenuta viva! Ma credo che i colleghi venezuelani dell'INIA,
delle Università Simon Rodriguez e dell'Universidad Central, come pure quelli del FUDECI e molti
missionari che dedicano la loro vita a queste popolazioni siano ben consci di questi problemi. Certo
ognuno di noi si porta dentro una specie spiritello nascosto che ci ripete implacabile: se
hai fame: "pane-formaggio"… Nella pratica ognuno di noi che viene da distante ha bisogno delle
sue sicurezze alimentari: la pasta, la bistecca…
A.: -Credi che se i nativi rinunciassero ad un
certo tipo di abitudini alimentari per adottarne
di più simili alle nostre il rapporto che hanno
attulamente con l'ambiente si
modificherebbero significativamente?
M.P.: -Non occorre molta fantasia per
immaginare come si potrebbe distruggere la
foresta, basta andare nelle zone servite da
strade per vedere come procede la distruzione
sistematica della foresta. D'altronde chi non
può vivere in foresta perché non ne conosce le
proprietà ed i doni difficilmente può essere
interessato a mantenere la foresta. Vacche,
pecore, capre in genere portano ad un
paesaggio senza foresta perché in nome del
bisogno di pascolo, e quindi di erba, si finiscee
per ricorrere al fuoco quando è necessario
rigenerare il pascolo… Animali come l'aguti il
capibara, l'iguana, l'anitra reale, la cavia,
piccoli anfibi, peschi, crostacei, molluschi
terrestri ed acquatici, molti insetti, alcuni
lombrichi e ragni sono la base alimentare
autoctona che potrebbe fornire una
deliziosa cavalletta SERSERVATO mangiata dai Guajibo
arrostita
tipologia innovativa di risorse proteiche realmente
disponibili sul territorio e compatibili con i regimi
alimentari tradizionali…E così pure frutti, radici,
foglie e semi autoctoni potrebbero accrescere la
gamma dei vegetali disponibili per l'alimentazione
umana. Forse sarebbe utile organizzare occasioni
di scambio culturale, magari promosse o sostenute
dal Ministero degli Affari Esteri attraverso
l'Ambasciata d'Italia in Venezuela e l'Istituto
Italiano di Cultura, attraverso le quali fossero
divulgate queste diversità anche gastronomiche…
A.: -Cosa puoi dirci sull'utilizzazione da parte delle popolazioni amazzoniche di rimedi e
medicamenti preparati ricorrendo alle specie vegetali ed animali, sulla loro reale efficacia e
sull'impatto che questa utilizzazione ha sull'ecosistema? Credi che l'organizzazione della
produzione artigianale o industriale di fitomedicamenti possa modificare l'attuale stato di equilibrio
della regione amazzonica?
M.P.: - Ho l'impressione che esista una ricca collezione di rimedi naturali e magici che andrebbe
adeguatamente studiata. Ricordo che un gruppo di villaggi Yanomami in Brasile ha segnalato un
ottantina di specie con caratteristiche antimalariche. Non è poco in un'area dove la malaria e i
presidi convenzionali messi in atto, non tengono a bada il problema che ogni anno provoca un
numero elevato di vittime.
Il lavoro da fare è enorme ma prima di tutto bisogna sviluppare una rete normativa che permetta ai
villaggi di avere a breve, medio e lungo termine benefici da tali tipi di indagine. Il ricercatore brillante
che utilizza la conoscenza locale per il dottorato e magari per lanciare una nuova medicina deve
lasciare una traccia anche nel villaggio da cui è provenuta l'imbeccata. E' una questione molto
delicata, ma che va affrontata con molta attenzione e determinazione.
KURU è un lombrico gigante che gli Ye'Kuana mangiano e
ritengono particolarmente salutare. Le analisi da noi
compiute hanno dimostrato il notevole contenuto di ferro,
calcio ed acido arachidonico che giustifica questa scelta
assai originale
A.: -Tu credi che l'interesse dimostrato dalla
scienza ufficiale in questi ultimi anni nei confronti
della medicina tradizionale e popolare, nonché nei
confronti di certi stili alimentari sia sincero e possa
essere vantaggioso per i popoli della foresta?
M.P.: - Io spero di sì, anche se recentemente
abbiamo inviato un manoscritto ad una rivista che
si chiama Journal of Food Science che si è rifiutata
di pubblicare un articolo in cui cerchiamo di
evidenziare le caratteristiche nutrizionali dei
lombrichi mangiati dagli Ye'Kuana, articolo che
peraltro stiamo correggendo in bozze e che
apparirà sui Proceedings of the Royal Society of
London. Fosse molti ancora pensano tra gli addetti
ai lavori, che latte, vitello, agnello, tacchino, pollo,
salmone, trota siano l'unico modo di soddisfare le
esigenza proteiche nella dieta. Il guaio è che
queste "certezze" vengono diffuse dovunque
grazie alla massiccia sponsorizzazione effettuata
da paesi che si riferiscono ad altre tradizioni
alimentari e ad un altro tipo di conoscenza, in cui
esiste un altro tipo di biodiversità, in genere assai
modesta.
A.: Dietro le tue parole s'intravede un pensiero unificante: qual'è la tua posizione filosofica nei
confronti della scienza in genere e della biologia in particolare?
M.P.: -Io vedo lo scienziato come un piccolo artigiano ( mi piace ricordare Charles Darwin ma anche
James Lovelock) che cerca di districarsi facendosi delle domande e cercando di organizzare delle
risposte che siano coerenti e questo lo fa perché è mosso da continua curiosità e da stimoli a
collaborare con altri... "curiosi". Mi turba spesso l'aggregazione di molti presunti scienziati in grandi
centri (quelli che spesso vengono chiamati centri di eccellenza) ma che talora rispondono più ad
opportunità economico-politiche che a questioni basilari della vita… Alcuni anni fa un libro di un
archeologo americano, in particolare, mi ha attiratto sul tema della storia dell'addomesticazione
delle specie e la mia propensione ad osservare e studiare piccoli animali come invertebrati ed
insetti, ma sbirciando sempre le piante e gli ambienti dove vivono, mi ha spinto ad evidenziare il
ruolo di questi piccoli amimali soprattutto in popolazioni umane che vivono dentro od ai margini della
foresta. E sbircio anche le piante, i frutti, le radici, e cerco di capire perché una specie diviene una
risorsa per alcuni ed un problema di cui disfarsi per altri.
La Mezzaluna Fertile a partire da 12.000 anni fa ci ha dato il frutto delle specie a cui siamo
nutrizionalmente più legati (frumento, orzo, avena, segale, pisello pecora, capra, mucca, maiale,
vite, fico, ecc., ecc); la Fao in base a questi precedenti recita: "Fiat panis"… Quando risaliamo
l'Orinoco difficilmente possiamo scorgere una pianta od un animale che siano stati modificati
(addomesticati) come è successo nella Mezzaluna Fertile. Il rapporto delle popolazioni umane con
le specie è differente non è di sottomissione-addomesticazione ma, molto spesso, in qualche modo
di attenzione, cura. Il problema è spesso di vedere, cogliere, studiare questa relazione. Ma questa
relazione diventa un problema per noi abituati nelle regioni temperate ad avere a che fare con un
numero piuttosto basso di specie…
A.: -Veramente stimolante riflettere su ciò che
la nostra sensibilità percepisce come un
paradosso...: potresti farci capire meglio come
può una specie costituire una risorsa per alcuni
popoli e le loro tradizioni alimentari,
trasformandosi in un problema per altri popoli e
portare alla rinuncia delle loro tradizioni
alimentari?
M.P.: - Un giorno Frans Torres, il maggior
esperto di colture tropicali, si aggirava per un
conuco nei dintorni di Puerto Ayacucho, la sua
attenzione fu subito attirata dalla presenza di
un grosso bruco OPOMOSCI (per gli
Yanomamo) che divorava le foglie della yuca.
Colto il problema fitopatologico per lui assai
grave con spirito collaborativo rientrò
rapidamente alla stazione si procurò
dell'insetticida piretroide ed il giorno dopo,
sicuro di dare una buona dimostrazione di
difesa moderna della coltura si ripresentò al
villaggio.
bruco OPOMOSCI, per gli Yanomami
Con un certo stupore le piante di yuca pur
presentando ancora le sbocconcellature dei bruchi
non avenano nessun ospite presente da
sterminare con l'insetticida. S'informò dal capitan e
questi con un sorrisetto lo informò che la sera
stessa dopo la sua segnalazione avevano raccolto
le larve e se le erano mangiate arrostite
(eliminando prima le interiora).
A.: - E per concludere vorremmo sapere se la tua curiosità oltre a cosentirti di osservare molte delle
innumerevoli specie amazzoniche ti ha messo di fronte delle verità che avresti preferito ignorare...
M.P.: - Il problema in cui mi sono imbattuto è il pregiudizio di cui tutti noi siamo impastati, pregiudizio
alimentare che diventa la base su cui si fonda la distruzione sistematica della biodiversità e della
conoscenza. Tutti noi abbiamo la nostra parte di responsabilità anche se solamente nel "favorire",
nel consentire che vengano abbandonate conoscenze tradizionali a vantaggio di qualcosa la cui
adozione non sappiamo bene che tipo di danni potrebbe provocare. Sono però ottimista e mi auguro
che rafforzare localmente la consapevolezza possa
portare buoni frutti
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