Responsabilità del Ministero della salute per i danni provocati dall

Studio Legale Spagnolo
ASSOCIAZIONE TRA PROFESSIONISTI
Note a margine della sentenza del Tribunale di Roma,
Sezione II civile, del 4-15 giugno 2001
Responsabilità del Ministero della Salute per i danni provocati dall’uso di
sangue infetto
A cura dell’ Avv. Santo Spagnolo e del dott. Alessandro Sandonato
PREMESSA
La seconda sezione del Tribunale di Roma ha condannato il Ministero
della Sanità a risarcire i danni biologici, morali e patrimoniali subiti da soggetti
che avevano contratto epatite virale (B o C) e AIDS, in seguito a trasfusioni di
sangue effettuate periodicamente per la cura di specifiche patologie (emofilia,
thalassemia, leucemia, morbo di von Willebrand), anche nell’ipotesi in cui non
sia possibile determinare l’epoca del contagio.
I 223 attori, ammessi a godere dei benefici previsti dalla legge 210 del
1992, citarono in giudizio il Ministero della Salute sostenendone la
responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c. (o, in alternativa ex art. 2049 o 2050
c.c., ovvero ex art 32 Cost.).
Gli attori adducevano essenzialmente:
1. che il sangue e i prodotti derivati sono distribuiti dal Ministero;
2. che la maggior parte del sangue proveniva dalle banche del sangue di
Stati Uniti, Centro America e Africa, aree dove erano presenti soggetti a
rischio per le infezioni da HBV, HCV e HIV;
3. che dal 1974 al 1995, il Ministero si presentava quale importatore,
produttore e distributore del sangue e dei prodotti derivati;
4. che la legge, infine, attribuisce al Ministero stesso il potere-dovere di
tutelare la salute dei cittadini, in particolare, nel campo delle trasfusioni.
A tutto ciò, il Ministero replicava affermando, in particolare:
1. il proprio difetto di legittimazione passiva (che spetterebbe invece alle
regioni e agli organi infraregionali);
2. l’infondatezza nel merito della domanda, avendo il Ministero stesso
adottato, nel corso degli anni, tutti i provvedimenti idonei ad impedire o
a limitare i rischi di infezioni;
3. l’impossibilità, comunque, di configurare qualsiasi responsabilità del
Ministero per le infezioni contratte in anni precedenti a quelli in cui, per
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ciascuna delle infezioni (da HBV, HCV e HIV), la scienza aveva isolato i
rispettivi virus ed individuato le tecniche di rilevazione di essi (e cioè:
1978 per l’HBV, 1985 per l’HIV e 1989 per l’HCV), essendo
inammissibile ritenere sussistente il nesso di causalità nei casi di
contagio in periodi precedenti.
L’importanza dell’articolata pronuncia, dunque, attiene eminentemente i
seguenti punti:
1. la legittimazione passiva del Ministero,
2. l’accertamento del nesso di causalità,
3. l’ammissibilità (e soprattutto la concreta applicazione) del concorso della
tutela giurisdizionale con i benefici stabiliti dalla legge 210/92.
SULLA LEGITTIMAZIONE PASSIVA DEL MINISTERO
Il Tribunale ha sostenuto che al Ministero è ascrivibile una condotta
colposa di tipo omissivo, confermando una tendenza ormai chiaramente definita
e una tesi che appare, in linea di principio, incontrovertibile.
In proposito, occorre richiamare due sentenze delle Sezioni Unite della
Cassazione, la n. 8836 del 1994 e la n. 7339 del 1998, le quali hanno stabilito
che tutta l’attività della p.a., e quindi anche l’attività discrezionale, deve
svolgersi non solo nei limiti posti dalla legge, ma anche nel rispetto del principio
del neminem laedere, sicchè la responsabilità extra-contrattuale della p.a. è, in
astratto, ravvisabile anche
in condotte omissive, ovvero nella diffusione di
informazioni inesatte, ovvero – ancora – in leggerezze o negligenze commesse
nell’esercizio dei poteri di vigilanza e di controllo.
Tale orientamento ha trovato ulteriore conferma (in tema di vigilanza
sull’emissione di valori mobiliari) nella sentenza n. 3132 del 3 marzo 2001, resa
dalla I sezione della Cassazione. In definitiva, il principio essenziale affermato
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dalla citata giurisprudenza consiste nell’ammissibilità della responsabilità della
p.a., laddove questa non abbia usato, o abbia usato male, i poteri (anche
discrezionali) di vigilanza o di controllo, ad essa specificamente attribuiti per il
perseguimento di finalità connesse non solo ad un interesse pubblico, ma
anche (direttamente o indirettamente, poco importa) a diritti soggettivi dei
cittadini.
Nel caso che ci occupa, dunque, la responsabilità del Ministero, in
quanto responsabilità di tipo omissivo, discende dal fatto che il Ministero stesso
non fece ciò che avrebbe dovuto fare, così violando precisi obblighi giuridici
funzionali alla tutela del diritto alla salute. Obblighi che il Tribunale stesso si è
doverosamente fatto carico di individuare. Trattandosi, infatti, di omissione
colposa,
l’eventuale
mancata
individuazione
di
essi
avrebbe
inficiato
radicalmente l’iter argomentativo.
Sotto questo profilo, la sentenza in esame assolve in modo pieno e
convincente l’obbligo della motivazione.
Il Tribunale ha percorso la legislazione vigente seguendo un ordine
cronologico ed enucleando dodici provvedimenti normativi dai quali è
complessivamente agevole dedurre “in capo al Ministero della sanità il dovere,
che è strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia
sanitaria, di vigilanza nella preparazione ed utilizzazione dei prodotti derivati dal
sangue da destinare al consumo umano”.
Assume rilievo, anzitutto, il d.m. sanità 12.06.91 che disciplina
l’autorizzazione ministeriale all’importazione di sangue e plasmaderivati e che
all’art. 1 comma 2, stabilisce che l’importazione stessa può avvenire solo “dopo
aver accertato l’origine del sangue o del plasma e dopo aver acquisito da parte
delle autorità straniere e dei produttori dei Paesi importatori le garanzie
necessarie e i dettagli delle metodiche utilizzate per assicurare la protezione dei
donatori e dei riceventi”.
La centralità di tale norma non deriva, paradossalmente, da quanto essa
dispone, ciò che rileva solo come specificazione, fors’anche pleonastica, delle
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più elementari precauzioni tendenti a evitare la diffusione di malattie virali
attraverso le trasfusioni. La sua centralità può, invece, farsi derivare
dall’obbiettiva circostanza della sua tardiva emanazione che indizia gravemente
la colposità della precedente condotta del Ministero stesso.
Tanto
non
basterebbe,
però,
a
poter
dire
assolto
l’onere
dell’individuazione dell’obbligo di legge disatteso dal Ministero.
Tale obbligo va individuato nelle disposizioni della legge 14.07.67 n. 592,
che al Ministero attribuì il compito di emanare “le direttive tecniche per
l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla
raccolta, preparazione, conservazione e distribuzione del sangue umano per
uso trasfusionale nonché alla preparazione dei suoi derivati” (art. 1), nonché il
compito “di autorizzare l’importazione e l’esportazione del sangue umano e dei
suoi derivati per uso terapeutico” (art. 21).
Appare evidente che il già citato d.m. sanità 12.06.91 non abbia fatto
altro che reiterare i contenuti già espressi dalla legge 592, di quasi un quarto di
secolo precedente, sancendo, per così dire, dall’interno la colpevole inerzia del
Ministero che avrebbe potuto e dovuto attivarsi già a partire dalla fine degli anni
sessanta, allorché venne scoperto l’antigene di superficie dell’epatite B
(HbsAg), e soprattutto dall’inizio degli anni settanta, allorché furono prodotti i
primi test già capaci di rivelare il virus in una limitata percentuale di casi.
In proposito è opportuno ricordare come, in seguito a tale scoperta,
cominciò a maturare negli ambienti scientifici il sospetto e la coscienza dei
rischi epidemiologici connessi all’uso del plasma e degli emoderivati. Maturò
una sensibilità verso una problematica che venne successivamente (e
definitivamente) alla ribalta della stessa opinione pubblica con il manifestarsi dei
primi casi di AIDS e la comprensione scientifica delle caratteristiche dell’epatite
C, inizialmente e significativamente indicata come “non A, non B”.
E’ certo che la sensibilità degli organi preposti alla tutela della salute, se
vi fu, non si tradusse – almeno fino agli inizi degli anni novanta - in un’azione
per quanto possibile efficace, cioè idonea a contenere al massimo
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(doverosamente) la diffusione del contagio, valorizzando quanto più possibile i
risultati che le indagini scientifiche andavano acquisendo, e che culminarono,
infine, nella scoperta dei test rivelatori dei rispettivi virus. Giova ricordare
ch’erano gli anni bui della sanità italiana e i benefici previsti in favore degli
emotrasfusi dalla legge 210/92, se da un lato si ricollegano direttamente ai
principi solidaristici espressi dalla Costituzione, dall’altro presentano tutti i
connotati di un’ammissione di colpa e di un’assunzione di responsabilità.
Tutto ciò dovrebbe condurre ad una conseguenza di gran momento, e
cioè ad affermare - per il futuro - il difetto di legittimazione passiva delle regioni
e delle Unità sanitarie locali (poi A.U.S.L.) nelle controversie aventi ad oggetto
richieste di risarcimento da parte di soggetti che abbiano contratto le tre
malattie virali di cui si discute.
SULLA NECESSITA’ DELL’ ACCERTAMENTO DEL NESSO DI CAUSALITA’
Il discorso relativo alla legittimazione passiva del Ministero competente
conduce necessariamente al problema dell’accertamento del nesso di causalità.
Se, infatti, sembra efficacemente dimostrata la violazione di precisi
obblighi legali da parte del Ministero stesso, talché è in astratto configurabile un
suo comportamento omissivo sussumibile nel dettato della clausola di
equivalenza fissata dall’ art. 40 c.p., in concreto l’affermazione della
responsabilità
del
Ministero
richiederà
comunque
l’accertamento
della
sussistenza del nesso causale fra la condotta omissiva e l’evento dannoso.
In proposito assumono rilievo le circostanze relative ai progressi compiuti
dalla scienza. Indubbiamente, l’essenziale e definitiva acquisizione fu
rappresentata dal test RIA, capace di rilevare l’epatite B, praticamente senza
possibilità d’ errore; esso fu disponibile e fu reso obbligatorio nel 1978.
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In precedenza, però, sin dagli inizi degli anni ’70, erano disponibili altri
metodi sicuramente non parimenti attendibili, ma certamente idonei, se adottati,
a ridurre i rischi di contagio.
In proposito la sentenza in esame, richiamandosi ad altre precedenti
pronunce, supera l’obiezione relativa alla loro non attendibilità, adducendo,
appunto, che essi avrebbero comunque ridotto in modo significativo il rischio del
contagio.
Sin qui la sentenza in esame appare condivisibile alla stregua del criterio
della sussunzione sotto leggi scientifico-statistiche.
Ma, per quanto attiene, in particolare, il virus HIV, responsabile dell’
AIDS, le prime certezze scientifiche risalgono all’inizio degli anni ottanta,
quando studi compiuti negli Stati Uniti cominciarono a mostrare l’insorgenza
dell’immunodeficienza in soggetti affetti da emofilia (e perciò trattati con
emoderivati, in particolare con il cosiddetto fattore VIII). E’ importante notare
che il test Elisa, capace di rilevare il virus HIV, fu introdotto nel 1985, e che,
inoltre, il test RIA, capace di rivelare l’epatite C, fu, infine, introdotto nel 1989.
Il Tribunale di Roma argomenta, comunque, che anche anteriormente a
tali date, il Ministero “aveva il dovere (reso ancor più urgente dalla diffusione
dell’epatite c.d. “non A, non B” e dall’ AIDS) di porre in essere tutte le cautele e
le misure precauzionali conosciute dalla scienza”. Infatti, “qualora fossero state
adottate le misure precauzionali conosciute … il rischio della contrazione delle
nuove malattie virali sarebbe stato certamente ridotto”, in quanto “tra le infezioni
in questione (epatite da HBV, HCV ed infezione da HIV) sussiste notoriamente
una tendenziale coincidenza epidemiologica”.
In questo punto, ma – lo ripetiamo – solo per quanto attiene le ipotesi di
contagio da HCV e HIV, la sentenza manifesta la sua valenza per così dire
politicamente surrogatoria, giungendo a una conclusione sostanzialmente
eversiva, e quindi non condivisibile, sul piano giuridico.
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Pur
non
essendovi
dubbio,
infatti,
della
correttezza
scientifica
dell’annotazione relativa alla “tendenziale coincidenza epidemiologica”, va
anzitutto rilevato che tale conclusione assunse spessore a posteriori, quando
cioè fu chiaro che il contagio da HIV si accompagnava spesso al contagio da
HBV o da HCV. Ne consegue che non è metodologicamente corretto, né
accettabile, porre a fondamento di una tesi che si vuole dimostrare,
un’affermazione che è conseguenza della dimostrazione della tesi stessa. Ma
l’abnormità della tesi si rivela appieno considerando le conclusioni a cui
conduce. Si dovrebbe infatti dichiarare sussistente la responsabilità del
Ministero anche laddove un soggetto, per ipotesi, avesse contratto l’HIV, e non
anche l’HBV, all’epoca in cui v’era già la possibilità di accertare l’HBV, ma non
v’era ancora la possibilità scientifica di accertare la presenza dell’ HIV.
Ciò equivale a eliminare dall’ordinamento il principio che impone di
provare, financo nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, la sussistenza in
concreto del nesso eziologico tra l’azione o l’omissione e l’evento lesivo.
Preoccupa non poco la teorizzazione di tale atteggiamento, laddove,
affermando che il giudizio avrebbe ad oggetto “l’accertamento della generica
potenzialità lesiva della condotta illecita sulla base di un apprezzamento di
probabilità e verosimiglianza”, il decidente si mostra pienamente cosciente della
propria scelta ermeneutica.
L’accertamento, invero, deve rimanere ancorato alla concreta lesività
della condotta e deve basarsi su di un apprezzamento che non può essere “di
probabilità e verosimiglianza”, soprattutto se si pretende di considerare
probabile e prevedibile la diffusione di malattie ancora ignote.
Non convince la citazione del brano secondo cui “per ritenere sussistente
il nesso eziologico … è richiesto che l’uomo con la sua azione ponga in essere
un fattore causale del risultato e che tale risultato non sia dovuto al concorso di
circostanze … con carattere di eccezionalità o atipicità” (Cass. n. 2037/2000).
Beninteso, in discussione non è la correttezza dell’argomentazione citata, ma
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l’uso che se ne vuol fare, e in particolare la valutazione inerente
all’eccezionalità e all’atipicità delle circostanze. Tornando all’ esempio già
svolto, se Tizio, emotrasfuso, avesse contratto il virus HIV nel 1981, quale
sarebbe la responsabilità del Ministero (o di una casa farmaceutica), visto che
non v’era ancora alcun modo per verificare la presenza di quel virus? In un
simile caso, la “tendenziale coincidenza epidemiologica” non assume alcuno
spessore giuridico e l’inefficienza causale del comportamento di quei soggetti è
manifesta. In tali ipotesi, pertanto, andrebbe riconosciuto il carattere di
eccezionalità o di atipicità delle circostanze esterne.
Lo stesso discorso, e lo stesso esempio, si potrebbero ripetere a
proposito del virus HCV, tenendo presente che il primo test valido ai fini
dell’individuazione del virus risale al 1989. La sentenza in esame ricorda che “la
Corte d’ appello nella sentenza più volte citata, ha individuato nell’anno 1988 …
il limite temporale prima del quale non vi sarebbe diritto al risarcimento” (e tale
ragionevole conclusione è quanto è sottinteso a ciò che stiamo esponendo). Ma
il Tribunale di Roma, con la pronuncia in esame va deliberatamente oltre,
ribaltando il piano della discussione e sostenendo che, essendo i metodi allora
noti “idonei ad inattivare non solo il virus dell’ HIV ma anche gli altri virus
dell’epatite C (HCV) e B”, “irrilevante è che nel 1985 il virus HCV non fosse
stato identificato”. Orbene, proprio in tale ultima affermazione consiste l’uso
distorto della massima dianzi citata, relativa al rapporto di causalità. Sostenere,
infatti, l’irrilevanza dell’ignoranza relativa al virus equivale a escludere il
carattere eccezionale o atipico del contagio del virus sconosciuto. In altri
termini, significa ammettere – contro ogni logica – la prevedibilità di qualcosa
ch’era ancora sconosciuto e, conseguentemente, l’esigibilità di una condotta
preventiva, sol perché valida in relazione ad altre (già note) fenomenologie
virali.
Riteniamo, pertanto, più corretto quanto stabilito dalla citata, precedente
sentenza della Corte d’ Appello che individuò nel 1985 e 1988 gli anni a partire
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dai quali si potrebbe configurare la responsabilità ex art. 2043 c.c. del Ministero
per le infezioni, rispettivamente, da HIV e HCV.
La sentenza in esame lamenta, in proposito, che “questa impostazione
presuppone che si sappia (o sia possibile sapere) quando il contagio è
avvenuto” e che “com’è noto, i test diagnostici di rilevazione dell’epatite B, C e
dell’ HIV non sono in grado di accertare l’epoca del contagio”.
A tale proposito la sentenza del Tribunale di Roma evidenzia che “non si
può fare a meno di considerare che si tratta di soggetti (come gli emofilici e
coloro che siano affetti da altre emopatie croniche) costretti ad assumere
emoderivati”, per cui “presumere che il contagio sia avvenuto il giorno … di
inizio del trattamento, il quale è poi proseguito per decenni, anche dopo gli anni
di sbarramento sopra indicati … non può essere condiviso”. Pur non ritenendo
censurabile tale ultima affermazione, è facile osservare che è del pari scorretto
presumere che il contagio sia avvenuto dopo “gli anni di sbarramento”: La verità
è che il problema è, sotto questo profilo, eminentemente probatorio e che nulla
giustificherebbe – sul piano della tutela ex art. 2043 c.c. – un’inversione del
relativo onere. Sarebbe come avallare un ragionamento secondo cui, in
assenza della prova di un contagio avvenuto prima, si potrebbe attribuire
rilevanza al fatto che il contagio sarebbe avvenuto comunque, il che significa
attribuire rilevanza ad un decorso causale ipotetico, introducendo – in ultima
analisi – una sorta di “presunzione di sussistenza” del nesso causale.
In definitiva, la sentenza in esame non presenta, sotto questo decisivo
profilo, e in relazione al contagio da HCV e HIV, alcun apprezzabile contributo.
Essa rappresenta, anzi, un momento involutivo della stessa giurisprudenza di
merito, una deriva verso soluzioni riconducibili a opzioni solidaristiche in sé
lodevoli, ma in realtà abnormi, se affermate attraverso l’uso – o l’abuso – della
via giudiziaria. Tanto più che il legislatore ha predisposto altri benefici in favore
degli emotrasfusi contagiati, la cui concessione non è certo subordinata al
rigoroso (e indefettibile) regime probatorio dell’azione risarcitoria.
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Della sentenza esaminata, riteniamo invece di condividere la tesi
proposta limitatamente alle ipotesi di contagio da HBV. Come già detto, la
possibilità di effettuare esami rivelatori di quel virus anche antecedentemente al
1978, e precisamente a partire dal 1971, sebbene non si trattasse ancora di
esami totalmente efficaci, consente di ascrivere al Ministero una responsabilità
colposa omissiva per violazione degli obblighi sanciti dalla citata legge 592
anche per contagi avvenuti in data anteriore al 1978. In tal caso non vediamo
alcun ostacolo ad affermare l’esigibilità di una diversa condotta da parte del
Ministero, e anzi la sua condotta omissiva ci sembra assai grave in relazione
alla circostanza che l’utilizzazione dei primi test disponibili avrebbe fornito,
come in effetti avvenne altrove, conoscenze o quantomeno elementi di giudizio
comunque utili alla piena comprensione del fenomeno e al perfezionamento
degli stessi esami rivelatori.
AMMISSIBILITA’ DEL CONCORSO DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE
CON I BENEFICI DI LEGGE
La legge in questione è ovviamente la n. 210 del 1992 e, come la
sentenza in esame ricorda, l’ammissibilità del concorso dei benefici da essa
previsti con la tutela giudiziaria è un fatto ormai acquisito, confermato anche da
interventi della Corte costituzionale (sent. 118/96 e 27/1998).
La stessa sentenza in esame non approfondisce però la problematica
relativa al modo in cui la tutela assistenziale debba coniugarsi all’eventuale
tutela giudiziale, essendo rimesso ad un successivo giudizio il compito di
determinare l’ammontare del risarcimento dovuto dal Ministero e quindi il
compito di determinare in che modo e, in definitiva, in quale misura i benefici di
legge debbano interagire con il risarcimento ex art. 2043 c.c.
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Rileviamo la sussistenza del rischio che incongrui orientamenti della
giurisprudenza di merito siano suscettibili di indurre un’obbiettiva incertezza in
proposito, mentre è invece quanto mai auspicabile che la stessa giurisprudenza
individui soluzioni meditate.
In relazione a ciò esiste anche un rischio estrinseco, nel senso che
orientamenti poco rigorosi (sul piano della tutela giurisdizionale) potrebbero – in
ipotesi – condizionare negativamente il legislatore, inducendo un orientamento
restrittivo sul versante della legislazione. Beninteso, ciò non vuol significare
alcuna propensione verso un ruolo tendenzialmente conservativo dell’operato
dei giudici. Al contrario, si ritiene che la credibilità e la praticabilità degli
orientamenti giurisprudenziali, nel lungo termine,
non possa in alcun modo
prescindere dal loro radicamento nel diritto positivo vigente e nei suoi principi
fondamentali.
Al di fuori di questo quadro immanente, qualsiasi sentenza appare
destinata ad assumere una valenza politica (rectius, la valenza di una scelta
politica), ciò che, in definitiva, prima di alterarla, ne svilisce la funzione e il
valore.
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