la crisi e il mercato del lavoro

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TRA PASSATO E PRESENTE:
LA CRISI E IL MERCATO DEL LAVORO
di Stefano SPALLETTI ed Enzo VALENTINI 1
“
L’articolo presenta una sintetica analisi delle principali teorie che, nel tempo, hanno cercato di individuare le relazioni
che si stabiliscono tra mercato del lavoro e crisi economica.
”
1. La crisi che viviamo dal 2008 ha subito diversi
cambiamenti: da crisi statunitense a crisi mondiale; da
crisi del risparmio privato a crisi del debito pubblico;
da crisi immobiliare e finanziaria a crisi industriale e
del mercato del lavoro. Nell’ultimo articolo scritto per
“Rivista” da uno dei due autori che qui firmano, a commento dei lavori degli economisti premi Nobel 2010
– Diamond, Mortensen e Pissarides – si sottolineava
come gli ostacoli al raggiungimento dell’equilibrio
neoclassico fossero un problema di ricerca reciproca
tra i due lati del mercato. Nel mercato del lavoro, in
effetti, l’insufficiente informazione costituisce spesso
un’importante causa di inefficienza generata proprio
dalle dinamiche della ricerca.
A fronte del prolungarsi della crisi, questa interpretazione del cattivo funzionamento del mercato del lavoro appare però insufficiente: in molti Paesi europei da tempo esso si trova in fase di
depressione e, alla data di oggi, si registrano timidi segnali di un ritorno alla crescita
dell’occupazione solo negli Stati Uniti.
2. Cosa accade, dunque, nel mercato del lavoro quando si verificano le crisi economiche? Proviamo prima a vederlo retrospettivamente, sulla base delle teorie economiche che gli economisti hanno prodotto nel corso del tempo.
La storia dell’economia è ricca di svariate teorie e scuole di pensiero che tentano di
mettere a fuoco le determinanti delle fluttuazioni economiche, ambito entro cui viene condotta anche l’analisi delle crisi. Tuttavia, anche se recentemente si è cercato
(addirittura) di trovare il nesso tra cicli economici (veri) e cicli di analisi teorica (tesi
a spiegare cicli economici veri) (Stanca, 2001), la storia del pensiero economico non
appare del tutto capace di rivelare le ragioni profonde dell’emergere delle crisi. Si
può solo sostenere, con ragione, che un vero tentativo di rintracciare il “ciclo dell’economia” – contenente, quindi, anche la fase della crisi – spetta, tra i primi, a Juglar.
Prima di lui si riteneva che le recessioni fossero il risultato di eventi fortuiti, imprevedibili e ineluttabili e solo il dibattito Ricardo-Malthus sul sottoconsumo, e alcune
riflessioni di Sismondi sugli squilibri determinati dall’industria nella proporzione
tra domanda e offerta di beni, costituivano dei casi di studio su questo tema. Il saggio di Juglar, che ricercava le ragioni delle crisi commerciali che avevano investito
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Università di Macerata.
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Francia, Inghilterra e Stati Uniti, raramente metteva insieme aspetto monetario delle
crisi e aspetto commerciale. Le crisi più gravi erano queste ultime, scaturite dalla
“predisposizione” di alcuni Paesi capitalisti. Esse si verificavano nelle nazioni dove
vi era un commercio fiorente – e un considerevole utilizzo del credito – e in cui entravano in gioco un’elevata divisione del lavoro e un mercato del lavoro sviluppato.
Tuttavia, nelle tematiche che hanno per oggetto mercato del lavoro e crisi, la storia
del pensiero economico inciampa presto in una tipica distinzione politica e analitica
che divide gli economisti classici da quelli neoclassici. Nel caso degli economisti da
Smith a Marx, tale visione coincide con la lettura di un mercato del lavoro “conflittuale” per quanto concerne la distribuzione del reddito (quello che riceve il percettore del profitto e della rendita è, in un certo senso, sottratto al mercato del lavoro).
Gli economisti neoclassici, sorti dalle fondamenta della rivoluzione marginalista,
parlano invece di un’armonica rappresentazione della distribuzione in cui i prezzi
dei fattori riflettono (anche) il regolare funzionamento del mercato del lavoro. In
esso i contributi produttivi specifici e le quote distributive riflettono le elasticità
parziali di produzione (Rodano, 2004).
Campione dei classici e della prima “visione” è Marx che, quanto al mercato del
lavoro, stabilisce prioritariamente che la popolazione operaia produce in grado sempre più elevato i mezzi per rendersi relativamente eccedente. È questa una legge
assoluta della popolazione, peculiare del modo di produzione capitalistico (Marx,
1867) e del mercato a cui facciamo riferimento. L’eccesso di offerta di lavoro genera
l’esercito industriale di riserva, ossia una forza-lavoro sempre disponibile e sottoponibile a sfruttamento. Nuove ed eventuali prospettive di investimento non hanno
quindi ostacoli nel recupero della manodopera, senza che questa venga sottratta
a processi produttivi avviati. Tale sovrappiù di offerta di lavoro diventa però un
problema quando le innovazioni tecnologiche entrano in gioco. L’algebra marxiana
impone infatti che in questo caso (elevata composizione organica del capitale) il
ritmo della produzione vada scemando, fino a regredire, facendo entrare la produzione industriale prima in una fase di stallo e poi in una di crisi. L’offerta nel mercato del lavoro e il suo surplus sfociano così in una crisi generale che rappresenta
un momento particolare del ciclo economico. La durata di quest’ultimo può essere
influenzata dalle variazioni nel mercato del lavoro, ovvero dall’eccesso di popolazione lavoratrice. In crescita, infatti, la domanda di forza-lavoro aumenta mentre si
riduce l’esercito industriale di riserva e i profitti diminuiscono. Al contrario, in depressione, migliorano i profitti, diminuisce la domanda di forza-lavoro e i lavoratori
fuori dal mercato risultano una risorsa non sfruttata. In termini marxiani l’elevata
popolazione lavoratrice costituisce uno strumento per mantenere bassi salari.
Il fenomeno di espansione che si registra in tutti i Paesi capitalisti durante l’“età dell’oro” agevola una più
mirata attenzione verso le teorie del ciclo economico e
decreta il successo delle suddivisioni periodali di Kondratieff e Schumpeter. Diversi studi, però, sembrano
ridimensionarsi quando arriva il contributo metodologico di Keynes e l’introduzione di precise politiche
anticicliche, elaborate al fine di interrompere la depressione. Keynes appare come teorico dell’intervento
statale finalizzato al contenimento delle fasi depressive
e al raggiungimento di un più elevato livello di reddito
e occupazione. Parte, infatti, dalla constatazione che i
mercati non sono in equilibrio potenziale e che il principio di Say deve essere posto in discussione. È quindi
da Keynes che la crisi contempla in modo significativo
l’analisi del mercato del lavoro.
Quel che accade nel mercato del lavoro – in un’ottica a metà tra storia del pensiero e storia economica – è forse da leggere, successivamente, attraverso Maddison.
L’autore, sostanzialmente scettico sull’esistenza di onde lunghe nei cicli economi© 2013 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati
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ci, guarda all’economia capitalistica in un’ottica di sviluppo continuo, intervallato
da pause soprattutto nel settore industriale. Queste pause segnerebbero momenti di
crescita o di recessione. Le fasi di difficoltà sono endogene e determinate spesso
dalle scelte istituzionali e politiche. Le fasi recessive sono mitigate dal maggior peso
assunto dal terziario nel calcolo del Pil, permettendo di contenere i risultati negativi.
In Maddison lo sviluppo economico è accompagnato con un cambiamento continuo
delle caratteristiche del mercato del lavoro. Nella fase che va dal 1870 al 1913 (fase
liberale) non esiste interesse per la disoccupazione da parte dei policy maker ed è
documentabile la flessibilità dei salari verso il basso. Negli anni che vanno invece
dal 1913 al 1950 è più evidente un’accettazione consapevole della disoccupazione su
vasta scala e i salari sono mantenuti non troppo bassi dai governi. Nell’età dell’oro
di Maddison invece, che va dal 1950 al 1973, vige il traguardo verso la piena occupazione senza però la possibilità di comprimere i salari verso il basso a causa dei
sindacati. Lo studioso si ferma al 1989, in un momento in cui la priorità è la stabilità
dei prezzi che coincide con un indebolimento dei sindacati. Inutile sottolineare che,
successivamente, dalla fine degli anni Novanta, l’integrazione monetaria sostituisce
qualsiasi altra vocazione della politica economica europea. Da qui la relativa perdita
d’importanza delle politiche dei redditi e del mercato del lavoro.
Una proposizione assai ricordata in questi ultimi anni – molto spesso riesumando un
pensatore come Polany – è che il mercato del lavoro è ammantato di un tratto antropologico che gli vieta di essere assimilato a quello delle altre merci. Il mercato del
lavoro non trova un equilibrio (neoclassico) tramite il vettore dei salari nominali,
ma è necessario ricorrere a spiegazioni diverse come, per esempio, il razionamento.
Disoccupazione o mancanza di manodopera non sono determinate più dal confronto
fra domanda e offerta walrasiane, nonostante che la teoria egemone, quella «in cui
l’homo oeconomicus prende la sue decisioni sul futuro in condizioni di certezza e di
conoscenza, in cui le crisi sono degli accidenti e non la norma, in cui vi è armonia
nella distribuzione del prodotto sociale» (Lunghini, 2012), non morirà certo domani.
Se il mercato del lavoro non è sottoponibile all’astratta flessibilità dei modelli neoclassici, per evitarne fallimenti clamorosi è necessario regolarlo e controllarlo in
qualsiasi fase del ciclo. Un mercato del lavoro senza regole nelle fasi di crisi licenzia semplicemente i lavoratori che devono così ricorrere ai sussidi pubblici o,
a volte, lavorare di più e nel sommerso per evitare proprio il licenziamento. Una
crisi come quest’ultima, che è fortemente intrisa di globalizzazione, spinge inoltre
gli imprenditori a localizzare la propria attività in Paesi in cui possono confrontarsi
con regole meno restrittive ovvero in aree in cui il costo del lavoro è più basso. Il
dumping del mercato del lavoro è un altro di quei nodi teorici e reali in cui le crisi
economiche dettano “tempi e spazi”.
3. Ma cosa è accaduto davvero nel mercato del lavoro prima e durante la crisi?
Proviamo a tracciarne la “storia contemporanea” ripercorrendo alcuni passi salienti
di varie edizioni dell’Employment Outlook prodotto annualmente dall’Ocse. L’edizione 2008, riferendosi a dati 2007, afferma: «Le prestazioni del mercato del lavoro
sono migliorate e le pari opportunità per tutti rappresentano la nuova sfida». Nei
Paesi Ocse, nel 2007 il tasso di disoccupazione era pari al 5.6%, «il livello più basso
registrato dal 1980». Ma lo stesso rapporto afferma che «negli ultimi dieci anni,
in molti Paesi dell’Ocse, la crescita dell’occupazione è stata dettata in prevalenza
dall’aumento di lavori precari e mal retribuiti». In fin dei conti, si poteva essere in
una situazione perfettamente interpretabile nell’ottica neoclassica: la deregolamentazione rende più flessibili i prezzi (salari) e riduce la disoccupazione (seppur al
costo di “lavori precari e mal retribuiti”). Non solo, ma la flessibilità estrema può
anche ridurre i problemi di ricerca evidenziati dai Nobel 2010.
Contestualmente, negli ultimi decenni, nei Paesi occidentali si erano verificati un
aumento della disuguaglianza e una progressiva riduzione della labour share (IMF,
2007, cap. 5), causati dal ridimensionamento del potere contrattuale del lavoro rispetto al capitale a sua volta generato dalle stesse politiche di “liberalizzazione” dei
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mercati del lavoro, dal progresso tecnologico skill-biased, dal “decentramento produttivo” (sia all’interno dei Paesi che attraverso la delocalizzazione di fasi produttive all’estero), dal commercio internazionale e dai movimenti migratori. Secondo
alcuni (Russo, 2010) proprio la presenza di questa situazione nel mercato del lavoro
sarebbe una causa reale della crisi. Infatti, una riduzione della quota di reddito che
va ai salari genera una riduzione della domanda effettiva e ha, in ottica keynesiana, effetti recessivi sull’economia. Secondo questa interpretazione, mentre la flessibilizzazione creava lavori mal pagati (tanto da generare il problema dei working
poors), la domanda effettiva era sostenuta attraverso un maggiore ricorso all’indebitamento (credito al consumo, mutui subprime). In questo senso, la successiva crisi
finanziaria avrebbe un’origine reale, amplificata dal fatto che il debito crescente
aveva generato anche la bolla immobiliare e veniva “impacchettato” e scambiato in
innovativi prodotti finanziari (derivati), a loro volta frutto dell’idea di deregolamentazione, che rendono di fatto incomprensibile il livello di rischio a essi associato.
Indipendentemente dal fatto che la situazione sul mercato del lavoro sia una causa
della crisi finanziaria o meno, sta di fatto che dal 2008 la crisi finanziaria comincia,
a sua volta, a produrre i suoi effetti sull’economia reale. L’Employment Outlook del
2009 evidenzia come «dalla seconda metà del 2008, molti Paesi all’interno e all’esterno dell’Ocse hanno visto scendere sensibilmente il prodotto. Ciò ha determinato
un netto calo dell’occupazione e una brusca crescita della disoccupazione». Come
nei precedenti episodi di forte rallentamento ciclico, la perdita di posti di lavoro
riguarda in larga parte le categorie già svantaggiate: giovani, manodopera scarsamente qualificata, migranti, lavoratori atipici e temporanei. Per affrontare la crisi
sostenendo la domanda aggregata, gran parte dei pacchetti di stimolo introdotti dai
Paesi dell’Ocse comprende misure aggiuntive di politica sociale e del lavoro intese
ad attutire gli effetti sfavorevoli della crisi sui lavoratori e le famiglie a basso reddito.
Ovviamente, questo ha causato deficit e indebitamento crescente per molti Paesi con
effetti negativi su Paesi già molto indebitati (Grecia, Italia). Inoltre, ingenti risorse
pubbliche vengono impegnate nel salvataggio di istituzioni finanziarie too big to fail.
Facendo riferimento alle successive edizioni dell’Employment Outlook, emerge che nel
primo trimestre del 2010 il tasso di disoccupazione raggiunge l’8.5%. Inoltre, lo stesso
rapporto evidenzia che, considerando i lavoratori sottoccupati, si ottiene un risultato
circa due volte superiore al tasso ufficiale di disoccupazione. L’edizione 2010 parla di
«prospettive economiche al rialzo». In effetti, nel secondo trimestre del 2011, il tasso di
disoccupazione in area Ocse scende all’8.2%. Ma, come già detto, le economie dell’area
Ocse stavano fronteggiando la duplice sfida di ridurre gli alti livelli di disoccupazione e
sottoccupazione e di gestire al contempo un disavanzo pubblico senza precedenti.
La “traslazione” del debito privato all’interno dei bilanci pubblici riporta instabilità sui
mercati e arresta l’uscita dalla crisi. L’edizione 2012 dell’Outlook recita: «La disoccupazione nei Paesi dell’Ocse rimane a livelli appena inferiori al picco del dopoguerra
dell’8.5% e il tasso di disoccupazione dovrebbe rimanere alto per tutto il prossimo
anno. Circa 48 milioni di persone sono senza
lavoro, ossia circa 14,5 milioni di persone in
più rispetto all’inizio della crisi finanziaria
nel 2007». La diversa capacità dei Paesi di
approntare misure anti-crisi, legata anche alle
diverse situazioni dei conti pubblici, a partire
da questo momento genera differenziazioni
abbastanza marcate nell’andamento della crisi stessa: «ci sono state enormi variazioni nella disoccupazione tra Paesi e nei costi sociali
associati con il rallentamento dell’economia.
Il tasso di disoccupazione è rimasto inferiore
al 5.5% in nove Paesi dell’Ocse – Australia,
Austria, Giappone, Corea, Lussemburgo,
Messico, Paesi Bassi, Norvegia e Svizzera
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– mentre nove Paesi registrano ancora tassi di disoccupazione a due cifre – Estonia,
Francia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Portogallo, Repubblica Slovacca e Spagna».
La difficoltà di uscire dalla crisi accentua i problemi: oltre i danni immediati per individui e nuclei familiari a causa della mancanza di lavoro, una parte dell’aumento ciclico
della disoccupazione rischia di diventare strutturale, con livelli permanenti più elevati
nelle economie in cui l’aumento della disoccupazione è stato peggiore.
L’ultima edizione dell’Outlook (2013) vede lontana l’uscita dalla crisi: «Sono trascorsi più di cinque anni dall’inizio della crisi finanziaria ed economica globale e il
tasso di disoccupazione continua ancora a essere elevato in molti Paesi dell’Ocse.
Ad aprile 2013, i disoccupati erano più di 48 milioni e rappresentavano un tasso di
disoccupazione dell’8%, ossia soltanto mezzo punto percentuale di flessione rispetto al tasso massimo dell’8.5 registrato durante la crisi». E le differenze tra i Paesi
si vanno accentuando: «la disoccupazione è prossima o inferiore al 5% in cinque
Paesi dell’Ocse, ma supera il 25% in due Paesi (Grecia e Spagna). Guardando al futuro, fino alla fine del 2014 l’Ocse non prevede cambiamenti di rilievo nei livelli di
disoccupazione nell’area Ocse. Si dovrebbe verificare un innalzamento del tasso di
disoccupazione di almeno 1 punto percentuale in sei Paesi europei, controbilanciato
da una diminuzione di almeno mezzo punto in cinque altri Paesi dell’area Ocse».
A questo punto, è bene notare che la deregolamentazione del mercato del lavoro
attuata nei decenni precedenti al 2007, e che sembrava aver ridotto notevolmente
la disoccupazione, non è intanto venuta meno. Da questo punto di vista, sembra
difficile attribuire l’attuale e persistente tasso di disoccupazione a una eccessiva
rigidità del mercato del lavoro, mentre sembra più appropriato ricondurlo a un’ottica tipicamente keynesiana, essendo generato da una carenza di domanda effettiva
causata dalla diminuzione dei consumi e degli investimenti (si tenga presente che
siamo anche in pieno credit crunch), con effetti negativi anche sulle prospettive di
crescita e sviluppo.
La sfida che stanno affrontando i Paesi, come
già detto, è quella di “sostenere” la domanda aggregata tenendo sotto controllo i deficit
pubblici. Le risorse pubbliche possono essere efficacemente impegnate canalizzandole
verso famiglie e individui a più basso reddito (non solo per ragioni “sociali”, ma perché
hanno una maggiore propensione marginale
al consumo). O, anche, aumentando la tassazione sui “ricchi” per sostenere il consumo
dei “poveri” senza intaccare gli equilibri di
bilancio. Da questo punto di vista, combattere la crisi significa combattere la disuguaglianza. E viceversa. Ovviamente solo questo non basterebbe, perché per innescare una
crescita vera e propria servirebbe anche una
ripresa degli investimenti sia pubblici che privati.
Abbiamo sviluppato riflessioni generali, senza un’analisi dedicata all’Italia. Come
noto, per il nostro Paese la crisi ha avuto, e ha, un impatto particolarmente forte (la
disoccupazione viaggia intorno al 12%) per una serie di motivi. Oltre alle debolezze strutturali del nostro Paese, come la bassa produttività e il basso Pil potenziale
(pochi investimenti in ricerca e sviluppo, poca innovazione), le difficoltà sono accentuate dai pochi margini che si hanno nella finanza pubblica per poter affrontare
e gestire le politiche economiche di stimolo necessarie: elevato debito pubblico,
elevata spesa per interessi, tassazione già molto alta (in particolare, il cuneo fiscale),
stato sociale vecchio e inadeguato al sistema economico, elevata economia sommersa ed evasione fiscale.
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Bibliografia
– IMF (2007), World Economic Outlook: Spillovers and Cycles in the Global Economy, Fondo monetario internazionale, Washington, aprile
– Juglar C. [1862], Des Crises Commerciales et de Leur Retour Periodique en France, en Angleterre
et aux Estat-Unis, Guillaumin, Paris
– Keynes, J.M. [1936], The General Theory of Employment, Interest and Money, Macmillan, London
– Lunghini G. (2012), Conflitto, crisi, incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative, Bollati Boringhieri, Torino
– Maddison A. (1987), Le fasi di sviluppo del capitalismo, Giuffrè, Milano
– Marx K. [1867] Il Capitale
– Oecd (2008, 2009, 2010, 2011, 2012, 2013) Employment Outlook
– Polanyi K. (2010) [1944], La grande trasformazione, Einaudi, Torino
– Rodano G. (2004), “Il mercato del lavoro nella storia del pensiero economico”, intervento presentato
al convegno STOREP di Belgirate, 3 giugno
– Russo A. (2010), “Elements of novelty, known mechanisms, and fundamental causes of the recent
crisis”, MPRA Paper No. 21648
– Stanca L.M. (2001), “La teoria delle fluttuazioni economiche: una prospettiva storica”, Working
Paper Series, 34, Università Bicocca
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